Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

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NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

ANNO 2019

 

I MEDIA

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

  

 

ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI

 

         

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.

L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

INDICE SECONDA PARTE

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

 

INDICE TERZA PARTE

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

INDICE QUARTA PARTE

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

INDICE QUINTA PARTE

LA SOCIETA’

 

PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.

STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.

 

INDICE SESTA PARTE

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

INDICE SESTA PARTE

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

  

 

QUARTA PARTE

LA CULTURA ED I MEDIA

 

PRIMA PARTE

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Tutte le piccole grandi cose che hanno fatto la Storia.

Scoperti in Calabria due nuovi minerali: la Linarite e la Connellite.

L'ultimo giorno dei dinosauri.

Loch Ness, svelato il mistero (forse):  il mostro è un’anguilla gigante.

I Topi che guidano una macchina.

La Scoperta della carta igienica.

La Musica che guarisce.

Mai dire Wi.Fi.

Come funziona Starship, l’astronave di Musk che porterà l’uomo su Marte.

Il Sabotaggio dei razzi spaziali.

L’Uomo Volante.

I “super soldati”.

Le Radium Girls: le ragazze fantasma.

Zichichi ed il Supermondo.

L’Ignoranza saccente.

Scienziate, non discriminate la filosofia.

I licantropi esistono davvero?

Mala Marijuana.

Pelle, occhi, malattie rare: le nuove frontiere delle cellule staminali.

Tumore e cancro: il vero, il falso, l'improbabile.

Alla ricerca dell’anima.

Albert Einstein: indagine sui segreti dell’universo.

Il Genio Folle.

I Geni.

I misteri dell’Area 51 (e 52).

Vaccini e 5G: Stupidi o Cavie da Laboratorio.

I Complottisti.

Teoria del complotto sulle scie chimiche.

Sulla Luna ci siamo stati?

Il Terrapiattismo. 

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Controllo della Mente.

Così la Cia creò l’Lsd (per controllare le menti).

Una Scossa vi Guarirà.

Una scarica elettrica per renderci pro accoglienza.

Il primo sistema che traduce i pensieri in parole.

Ancora attacchi sonici a Cuba? 

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Università, dalla dea Cerere alla scuola di Salerno. Storia di una corporazione.

Ecco le scuole migliori d’Italia. La classifica città per città.

Ripetenti Patentati.

La scuola si svuota e restringe.

Cattivi Maestri.

Indottrinamento a scuola. I Libri di Storia li scrivono i vincitori e …gli ignoranti.

Istat, ragazzini promossi ma ignoranti.

Da Gentile a Sullo sino a Fioramonti: ministro che viene, esame di maturità che cambia.

Scuola, i furbetti del Diploma.

Ignoranti, diplomati e laureati.

Ritardi a scuola, 16 milioni di ore perse in un anno.

Degni di nota.

Le note ai genitori violenti.

Vittore Pecchini e gli altri, presidi sotto attacco.

Non c’è scuola senza autorità.

L’educazione non è istruzione. Senza il padre non c’è legge nè Stato.

La lezione di vita della prof: «Ecco perché il latino ci insegna l’amore».

L’avvento della scuola comunista.

Il business delle lezioni private: vale quasi un miliardo ed è quasi tutto in nero.

Oltre 600 professori universitari sono sotto inchiesta per il doppio lavoro.

Quanto costa una laurea?

I lasciati indietro. Un sistema dinastico chiamato scuola.

Disabilità. La scuola non è di “Sostegno”.

Scuola. Non c’è più la foto ricordo.

A scuola col cellulare.

Le okkupazioni educative.

La dittatura delle minoranze. Quando a condizionare la vita sono i pochi.

Quelli che non sono laureati…e fanno la morale.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le Svolte storiche.

Bronzi di Riace: è stato rubato qualcosa prima o dopo la scoperta?

Antonio Canova vs Bertel Thorvaldsen.

I Falsi d'arte.

Orologi. Le leggende al polso.

La Stretta di Mano e gli applausi.

Il significato dei simboli.

Tirchi o contro lo spreco?

I Maligni.

 “Conosci te stesso”, mistero e alla precarietà dell’esistenza.

Non sappiamo chiedere scusa.

Siami senza amici.

I Mozart.

Staino.

Il Doping delle autocitazioni.

«Quella forza chiamata leggere».

Alla caccia del libro… 

I venerati maestri ci lasciano. E quelli nuovi non arrivano.

I Libri dei Vip.

L’Involuzione sociale e politica. Dal dispotismo all’illuminismo, fino all’oscurantismo

La civiltà ci rende infelici e menefreghisti: La società signorile di massa.

L’esercizio della Critica.

La cultura? In Italia non è più un valore.

 “Ok, boomer”. L’ultima discriminazione generazionale comunista.

Gioventù del Cazzo.

Generazioni a confronto. L’Italia dei Baby boomer, della Generazione X, della Generazione Y, della Generazione Z, dei bamboccioni, dei Neet e dei Hikikomori.

Volgare 2.0. L’Esperanto dei ragazzi.

La coerenza? Non esiste!

L’Italia sta pagando caro l’analfabetismo digitale.

Quando il nerd si fa hard.

La "vera" Biancaneve? Era una baronessa cieca.

Il Cinema e la dittatura.

Mostra del cinema di Venezia: scandali e follie.

Cinema e motori.

L’Italia dei Tabù. Il sesso è solo vintage.

Tanto porno, niente educazione sessuale.

Televendita dell’arte.

Maurizio Cattelan.

Papà Renzo Piano.

La signora delle Barbie.

Anna Wintour, Prada, Renzo Rosso, Valentino, Donatella Versace, Dolce e Gabbana, Capucci, Lagerfeld, Giorgio Armani. La moda è loro.

L’alloro di Dante.

Buon compleanno, ispettore Marlowe.

Casanova e la Gonorrea.

Mary, la moglie geisha che Hemingway tradiva.

Ian Fleming: il mappatore.

Le Memorie di Giorgio De Chirico.

Renato Balsamo con un ritratto sapeva rubarti l'anima.

Povero Belli.

Parlando di Rossana Rossanda.

Gaia Servadio

Stefania Auci.

Liliana Cavani.

Susanna Tamaro.

Carlo Fruttero e Franco Lucentini.

Pietrangelo Buttafuoco.

Indro Montanelli.

Oriana Fallaci, vergogna di Stato: la Rai l'ha boicottata.

Dacci oggi il nostro Cairo Quotidiano.

La Sapienza dei sinistri.

Il ravvedimento degli intellettuali di sinistra.

Pascoli e l’omicidio del padre.

Il pessimismo di Leopardi? Ottimo ritratto della modernità.

In questa epoca sfinita non c'è spazio per l'eroico Foscolo.

Il Nobel partigiano.

Premio Strega: metodo Palamara-CSM.

Misteri letterari…col trucco.

Editoria di “Stocazzo”.

Libri contraffatti.

Penne brille.

La Società dei Magnaccioni...

Vite da Scoponi.

I pavoni della penna.

Il Successo da una botta e via…

Prima la Fama e poi la Fame.

Le lettere inedite. Da Sorrentino a Pirandello.

Massimo Troisi. Un poeta fragile e imperfetto riscoperto anche dai giovani.

Perché siamo complottisti? 

Quei "simboli del male" che durano un giorno.

Oscurare i graffiti su tv e giornali.

Le lenzuola e la manifestazione del pensiero.

QI: Il Quoziente intellettuale. Quei geni che (non) ti aspetti.

Leonardo: il genio che voleva misurarsi con Dio.

I Simpson trent’anni dopo: più politicamente corretti

Il progetto dei comunisti: quello di sconvolgere la morale borghese.

Il Politicamente Corretto Ideologico.

Il nefasto “politicamente corretto”.

L’uso dell’immagine per manipolare la coscienza.

“Bella Ciao” sulla bocca di tutti…

Spettacolo: "La droga è ovunque ma vince l’ipocrisia".

I Selficienti. I Selfi della Gleba: Gli Egomostri.

Siamo circondati da Influencer.

Gli influencers ideologici.

Piero, Angela il Grande.

Mughini & Company. Gli Influencers della Cultura.

Ritratto di Mauro Corona.

Marco Paolini non si perdona.

Rampini: il rinnegato comunista.

Intervista a Pier Paolo Pasolini.

Letizia Battaglia.

Intervista a Natalia Aspesi.

Piccoli tasti. Grandi firme.

Vespa Memories.

Come in pace così in Guerri.

Il peace and love.

Le atrocità del Comunismo: La giornata della memoria è un dovere.

La dittatura della Massa.

Il comune senso del pudore. La censura del pelo.

L’Involuzione della specie italica.

Niente soldi al “Terzani” comunista.

La cultura dei camerati.

Ritratto di Gianrico Carofiglio.

Ritratto di Erri De Luca.

Andrea De Carlo.

Giampaolo Pansa.

Ritratto di Michela Murgia.

Saviano: i segreti di una star.

Nuto Revelli,  l’ira e il riscatto.

Paperino compie 85 anni: la storia.

Topolino ne fa 70!

Gómez Dávila, Giovanni Comisso. I grandi scrittori? Tutti di destra.

La Dittatura Culturale Sinistra.

Emarginato se non sei di sinistra.

Quelli che vogliono solo scrittori partigiani.

«Attenti al fascismo degli antifascisti».

Tra Pluralismo e Relativismo. Gli Haters. Ossia: gli odiatori.

L’odio figlio dell’Invidia.

I simboli scaduti dell’altro millennio che i comunisti usano per alimentare odio e paura di un pericolo immaginario.

Dall'ideologia all'odiologia.

L’egemonia della sinistra chiamata Cultura.

La cultura fondata sulla Politica e sulla Finanza. 

Quando l’editoria di sinistra non è foraggiata…muore!

Il Cinema ed il finanziamento del politicamente corretto e schierato.

La Cultura della Legalità.

La Cultura della Legalità e dell'Antimafia.

La cultura della Solidarietà.

Percezioni errate: il primato è degli italiani.

La Conformità al pensiero unico.

Internet è Libertà. Chi non vuole il Web.

Wikipedia ed il Recentismo.

Gli Oscar alla carriera.

Che noia questi Oscar 2019 così politici.

La tv è gay. Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay.

L’Oscar LGBTI.

Cannes delle femministe.

Cannes, Nuovo Cinema Paradiso e il premio 30 anni fa.

Woodstock, i tre giorni che hanno cambiato il mondo.

La culla dell’hip hop quando la musica era la voce del ghetto.

Gli artisti senza pensione.

Unesco: quanto paghiamo per diventare patrimonio dell’umanità.

La lingua italiana è un diritto.

Le radici meridionali della lingua italiana.

La Citazione sbagliata.

Ecco l'italiano dei giornali.

L’età della parolaccia.

Storia della parola «bullo»: oggi è un delinquente ma significava amico.

La Rai editrice.

 

SECONDA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Lo share è di destra o di sinistra?

Il processo in Tv e la giuria popolare.

Giornali e Tv Spazzatura.

Piange l’edicola del mercimonio.

Così Gramsci ha creato l’egemonia su giornali e magistratura

Fatti la tua idea...la nostra!

Quell'infinito striscione per Giulio Regeni.

Il Metodo Raggi.

Assange: spia o eroe?

L’ostensione delle fidanzate.

Le redazioni sessiste.

Il Concertone politico.

Il Pettegolezzo.

La Macchina del Fango? Parcheggiata a sinistra. La primogenitura della diffamazione mediatica.

La disinformazione, o no?

Il problema delle false citazioni.

L'Era digitale e la post-notizia. Il Popgiornalismo.

Diritto all’oblio. Una censura tutta Comunitaria.

Il Diritto di Citazione. Censura e Fake News. Se questi son giornalisti...

Wikipedia: l’enciclopedia partigiana.

Deepfake, dopo le fake news arrivano i video bufala: come si costruiscono?  

La censura, o no?

Liste di Proscrizione e Censura.

Querele temerarie.

Sergio Romano.

Annalisa Chirico.

Il Tribunale del Conformismo e la censura degli opposti.

Censura: con le buone o con le cattive.

Politica e media: tu chiamale se vuoi emozioni…

Gruber & Company. I compagni propaganda.

Lottizzazione Rai: metodo Palamara.

Lavoro alla Rai…Ma quanto mi costi?

Chiudere la Rai.

Mario Giordano, il giornalista comodissimo della (vecchia) Rete 4.

Il bastiancontrarismo.

La tv e i soliti esperti del Nulla.

Daniele Capezzone.

Paolo Guzzanti.

Salvate il soldato Sgarbi, impiegato del litigio da copione.

Aldo Grasso. La cultura televisiva e il suo pioniere. 

Paolo Mieli. Lo Storico.

Perché amiamo le bugie (e odiamo la verità).

I media ignorano i giovani, tranne quando c'è da fare la morale.

Niente giornali ai diciottenni.

Miserie, gaffe e smentite… Storia dei fuorionda rubati.

Mario Calabresi, addio a Repubblica.

Il Consiglio disciplina campano archivia Luigi Di Maio.

I comunisti contro Maria Giovanna Maglie.

L’ostracismo per Monica Setta.

L’ostracismo per Roberto Poletti.

Chiudere Radio Padania!

Chiudere Radio Radicale!

Eccesso di Fede. I Partigiani nella Redazione.

 

 

 

 

 

I MEDIA

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Lo share è di destra o di sinistra?

Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” il 22 agosto 2019. La sua prima avventura genuinamente sovranista è finita male. Non parliamo (solo) di Matteo Salvini ma di Lorella Cuccarini. La tempistica è certamente casuale, ma fa comunque impressione: il giorno dopo la caduta del leader della Lega, la Rai - senza cuore - cancella l'ultima puntata del programma condotto dalla show girl che, negli ultimi tempi, scoprendo una fino ad allora celata passione politica, era diventata cantrice delle ragioni nazionaliste. Le motivazioni ovviamente non sono legate alle sue idee, ma al flop in termini di ascolti fatto registrare da Grand Tour , in onda su Rai Uno. «Nessuna chiusura anticipata - è la nota dell' azienda -. La rete ha deciso di accorpare le ultime due puntate che andranno in onda in prima e seconda serata il 23 agosto». Ma di fatto il 30 la Cuccarini non andrà in onda. Con 1,4 milioni di telespettatori, due settimane fa la trasmissione in prima serata era stata battuta finanche da una replica di un telefilm austriaco su Canale 5, Spirito libero . Da qui la rincorsa ai ripari. La storia di disinteressato amore tra la ballerina (famosa la sua réclame per un noto marchio di cucine, «la più amata dagli italiani») e il nuovo potere in ascesa era stata condita da numerose prese di posizione. «La differenza non è più tra destra e sinistra ma tra chi pensa agli elettori e chi alle élite e alla finanza. Ci ritroviamo intrappolati nel pensiero unico, che ha un disegno dietro», spiegò a Oggi . Sempre in quella intervista del gennaio scorso, disse di ammirare Salvini, elogiò la chiusura dei porti, esaltò il governo gialloverde. Addirittura bacchettò il Papa perché parlava troppo dei migranti e disse di non essere femminista. Insomma, l' incarnazione della perfetta sovranista, un comizio leghista- pop. Le rispose su Twitter la sua antica collega e rivale ai tempi di Pippo Baudo, Heather Parisi: «Ci sono, in ordine rigorosamente di importanza, ballerine d' étoile, ballerine soliste e ballerine di fila e, da oggi, anche ballerine sovraniste. O forse no, solo sovraniste». Ma intanto la militanza culturale della Cuccarini s' arricchì con foto assieme ad Alberto Bagnai, il consiglio d' andarsi a leggere il libro di Marcello Foa, l'ammirazione per Paolo Savona. Un côté di tutto rispetto, e infatti arrivò il premio della trasmissione in fascia oraria pregiata nell' ammiraglia della tv di Stato, con lei alla scoperta delle bellezze presenti sul sacro italico suolo. Sempre però con addosso il fastidioso controcanto a distanza della Parisi, per ultimo un altro suo corrosivo tweet del 17 agosto scorso: «Houston, abbiamo un problema! Cercasi disperatamente ascolti televisivi per ballerine sovraniste». La politica dà e la realtà toglie, spesso. Ma per Cuccarini - un po' come per Salvini - c' è una seconda opportunità: dal 9 settembre condurrà la nuova edizione de La vita in diretta .

La sovranista Cuccarini chiude in bellezza: Grand Tour vince la prima serata su Rai1. Mellone: esperienza bellissima. Il Secolo d'Italia sabato 24 agosto 2019. Il viaggio di Grand Tour tra Sardegna e Veneto ha conquistato la prima serata di sabato per Rai1: sono stati quasi 1 milione 842mila i telespettatori, con share al 12%, che complessivamente hanno seguito il doppio appuntamento con la trasmissione di Lorella Cuccarini, che appunto con il raddoppio nella serata di ieri chiude con una settimana di anticipo la messa in onda. In particolare la prima parte ha avuto un seguito di 2 milioni 51mila spettatori con il 12,2%, mentre la seconda è stata vista da 1 milione 583mila spettatori con l’11,7% di share. Nella fascia seguente, su Canale 5, il film di Paolo Genovese “Immaturi – Il viaggio” con 1 milione 670mila spettatori complessivi e il 10,4% di share. Bene su Rai2 il film ‘Frammenti di bugie’, con Nicole de Boer, terzo nel prime time grazie a 1 milione 245mila spettatori e il 7,6% di share. Il buon risultato di Grand Tour, condotto da Lorella Cuccarini e Angelo Mellone (con incursioni gastronomiche di Giuseppe Calabrese)  mette a tacere definitivamente le polemiche sul programma definito polemicamente “sovranista” da una parte della sinistra e anche le punzecchiature di una livorosa Heather Parisi che aveva ridacchiato sui social per i bassi ascolti della trasmissione (che era andata però in onda il giorno dopo Ferragosto, non proprio una serata in cui la gente si mette davanti alla tv insomma…). E così anche Angelo Mellone si toglie qualche sassolino, dopo le ironie sulla trasmissione, che ha avuto il merito di riavvicinare i telespettatori alle tante bellezze trascurate dell’Italia: “Ieri le due puntate di Grand Tour con il 12% su Rai1 hanno vinto serenamente prima e seconda serata. Così, tanto per precisare e salutare nel migliore dei modi una esperienza bellissima”.

·         Il processo in Tv e la giuria popolare.

I giornalisti? Chiamateli Grandi Inquisitori. Angela Azzaro il 7 Dicembre 2019 su Il Riformista. Ernest Hemingway, premio Nobel nel 1954 con Il vecchio e il mare, era un grande scrittore perché, prima ancora, era un grande giornalista. Un reporter. Il suo primo scritto è un articolo per il giornale della sua città natale, sobborgo di Chicago. Era uno di quelli che prima di scrivere andava a vedere, toccare con mano, annusare. Una curiosità che lo ha portato in Spagna, in Francia, in Italia, in Africa, nella sua amatissima Cuba, quella della pesca, dei sigari, del mojito. Quando toccava una realtà se ne innamorava, cercava di capire entrando in sintonia con quello che raccontava. Si chiamava e si chiama: pathos, pietà, intelligenza. E da quella intelligenza, poi, nasceva il testo: racconto o reportage che fosse. Negli ultimi anni della sua vita, già gravemente dolorante per un incidente aereo, non smise di viaggiare, voleva ancora conoscere, innamorarsi. Scrivere. Oggi invece trionfa un altro modo di fare giornalismo, in cui la pietas è stata sostituita dalla crudeltà. Importante non è conoscere, non è aiutare a capire chi legge, ma fare audience. È il giornalismo che sembra fatto a immagine e somiglianza di un Savonarola per il moralismo, a un Davigo per la “presunzione di colpevolezza”, ma ancora più esattamente il modello è Andrej Vyšinskij, il pubblico ministero che interrogava gli accusati di tradimento durante il Grande terrore staliniano. Per lui tutti erano colpevoli, tutti avevano qualcosa da nascondere e da confessare, tutti dovevano essere messi sotto torchio perché sicuramente avevano minato la causa rivoluzionaria. Spesso venivano mandati a morire. Oggi il terrore (la storia si ripete in forma di farsa…) è quello di un giornalismo che invece di informare, processa, invece di capire condanna, invece di verificare le notizie, cerca il clamore. C’è anche la versione light: quella del giornalista che ti insegue per strada e ti fa la domanda sperando che tu non risponda e così possa dire: «Ah che infingardo, non ha risposto. Quindi è colpevole». Come la metti la metti, sembrano tanti figlioletti di Andrej Vyšinskij, non più ispirati dal sacro fuoco del comunismo, ma da quello della Verità, rigorosamente con la V maiuscola, che però di fatti, date, documenti se ne frega altamente. Il retropensiero è sempre lo stesso: «Non c’è ipotesi di reato? Va beh, qualcosa deve per forza aver fatto». Gli esempi si sprecano e ci sono intere trasmissioni che seguono il metodo Vyšinskij come se fosse il manuale del buon giornalismo. L’altro ieri, a Piazza Pulita, Corrado Formigli non ha intervistato il leader di Italia Viva Matteo Renzi: gli ha puntato la lampada e lo ha interrogato sul caso Open. Il volto contratto, la postura e il ghigno da pm, le domande di chi non ha alcun interesse a sapere cosa pensi o sappia l’altro, ma volte esclusivamente a incastrarlo, metterlo in cattiva luce, se possibile umiliarlo. Per sfortuna di Formigli, Renzi è bravino: si è sottratto abbastanza facilmente a questo gioco al massacro rispondendo per filo e per segno sul caso Open, e respingendo il metodo inquisitorio al mittente. Quasi tutta la tv oggi è costruita sul modello del processo: giornalisti-pm, opinionisti-giudici, spettatori-giuria popolare. È il cuore del populismo televisivo che in questi anni ha prodotto trasmissioni come Le Iene. I suoi giornalisti sono i migliori nel perseguitare l’obiettivo, nell’incalzarlo e nel creare casi che spesso si risolvono nel linciaggio della persona coinvolta. Ci stanno provando anche con il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che giovedì sera si è infuriato con la Iena Antonino Monteleone. «Lei – gli ha detto il premier – è fuori di testa». Conte, ormai celebre per il suo aplomb, ha perso la pazienza perché la Iena lo ha accusato di aver lavorato gratis per una consulenza ma di essersi poi fatto versare i soldi sul conto dell’avvocato Alpa: «Continuate a scrivere menzogne su menzogne. Non dovete approfittare del fatto che io da quando sono presidente del Consiglio non ho querelato nessuno». Normale che se si viene diffamati, incalzati con accuse false, ripetute in tutte le circostanze, ci si arrabbi. È quello che è accaduto anche al nostro editore, Alfredo Romeo, che per gentilezza ha accolto due giornalisti di Piazza pulita, rimasti fuori dalla sede per quasi tutto il giorno. Li ha fatti entrare, ha risposto alle loro domande, ma davanti alle inesattezze e alle insinuazioni ha perso la pazienza. I due giornalisti non avevano nessuna intenzione di conoscere i fatti, di sapere la versione dell’interlocutore, di verificare i dati in loro possesso. Erano lì per affermare la loro versione, per renderla più veritiera provando a mettere in difficoltà l’intervistato. Ma i fatti sono i fatti, le date sono le date e se si dice il falso, non è buon giornalismo, perché si nasconde la telecamera che riprende e registra, è – per citare Conte – una menzogna.

La protesta degli avvocati: «Che barbarie l’arresto di Logli in tv». Valentina Stella il 26 luglio 2019 su Il Dubbio. L’uomo condannato per la morte di sua moglie è stato bloccato nel corso della trasmissione in onda su rete4 “Quarto grado”. Dopo l’UCPI, ora è l’Ordine degli Avvocati di Roma a stigmatizzare quanto accaduto durante la trasmissione tv “Quarto grado” la sera dell’arresto di Antonio Logli, condannato dalla Cassazione per l’omicidio della moglie.

L’iniziativa dell’Ordine. Secondo quanto scritto dal Presidente Antonino Galletti «l’arresto di un uomo in diretta tv, i commenti dallo studio, il silenzio dei presenti – perfino alcuni avvocati – dinanzi a una tale barbarie» hanno rappresentato «un episodio increscioso, davanti al quale il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma ed io personalmente in qualità di suo Presidente, abbiamo ritenuto di dover intervenire per porre un freno a questa deriva inammissibile segnalando immediatamente la vicenda al Garante per il Diritti delle Persone Detenute». Una scelta dettata dalla gravità delle circostanze è stata riconosciuta dallo stesso Garante, che ha segnalato a sua volta l’accaduto all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, «nell’ottica della collaborazione istituzionale volta a contrastare il linguaggio dell’odio e a fondare una cultura condivisa informata al rispetto della dignità di ogni persona».

Violata la persona. Il presidente Mauro Palma ha sottolineato infatti che «la ripresa nel suo complesso ha rappresentato una indecorosa rappresentazione dell’atto di traduzione in carcere della persona appena condannata, rendendo ai telespettatori elementi di vita familiare, di intimità, di sofferenza del tutto estranei all’informazione sulla vicenda processuale». Nella stessa comunicazione all’AGCOM, il Garante ha anche segnalato l’inopportuna diffusione dell’immagine dei rilievi fotosegnaletici di Carola Rackete mentre era in stato di arresto.

La crocifissione di Mannino iniziò da Funari: l’orrore dei processi in tv. Francesco Damato il 25 luglio 2019 su Il Dubbio. La trattativa stato mafia e i 25 anni di stato incivile. Assolto lui dopo 25 anni ora toccherà probabilmente a tutti gli altri visto che il teorema è caduto. Il pur notevole e assorbente aspetto giudiziario mi sembra addirittura inferiore, per un paradosso imposto dai nostri tristissimi tempi, all’aspetto politico e morale dell’assoluzione che si è guadagnata anche in appello, col cosiddetto rito abbreviato, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino per la cosiddetta “trattativa” fra lo Stato e la mafia. Che è costata invece pesanti condanne in primo grado, col cosiddetto rito ordinario, ad un lungo e assai eterogeneo elenco di imputati, fra i quali si confondono servitori e sabotatori dello Stato, di ogni ordine e grado. E che – mi sembra- sarà francamente difficile confermare in appello, almeno per tutti, proprio alla luce della seconda assoluzione di Mannino. Dalle cui preoccupazioni per le minacce di morte lanciategli, non certo per gratitudine, dalla mafia sarebbero cominciate e si sarebbero poi sviluppate, secondo gli inquirenti palermitani, le trattative per bloccare o quanto meno rallentare la stagione delle stragi. Che era stata avviata dai mafio-terroristi – perché altro non saprei definirli- con l’assassinio per strada dell’allora luogotenente di Giulio Andreotti in Sicilia, Salvo Lima, la strage di Capaci, costata la vita al magistrato Giovanni Falcone, alla moglie e a quasi tutta la scorta, la strage di via D’Amelio, costata la vita al magistrato Paolo Borsellino e all’intera scorta, e proseguita con altre imprese di sangue e paura un po’ in tutta Italia. Fu una stagione, quella, che peraltro s’incrociò con l’altra, giudiziaria e politica, per la demolizione della cosiddetta prima Repubblica e finì per influenzare nella primavera del 1992, a Camere appena elette con le elezioni del 5 aprile, la successione a Francesco Cossiga al Quirinale e, di conseguenza, i successivi sviluppi della situazione politica: compreso il rifiuto del nuovo capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, di conferire l’incarico di presidente del Consiglio al candidato concordato fra democristiani e socialisti, Bettino Craxi, previa consultazione alquanto anomala, diciamo così, dell’allora capo della Procura della Repubblica di Milano Francesco Saverio Borrelli, morto nei giorni scorsi fra il rimpianto e la beatificazione quasi generale dei cultori, nostalgici e simili dell’” epopea” di Mani pulite. In quella stagione politica, per certi versi non meno feroce di quella stragista della mafia, protagonisti e attori della cosiddetta prima Repubblica potevano essere scambiati, come di notte in una strada senza lampioni, per corruttori o mafiosi, secondo le circostanze e le loro origini. Accadde anche a Mannino, a favore o in onore del quale potrei a questo punto limitarmi anche a condividere e ripetere ciò che ha appena scritto sulla Stampa, nel suo imperdibile Buongiorno, il bravissimo Mattia Feltri. Che, a conti fatti, tra avvisi di garanzia, assoluzioni, ricorsi e quant’altro, ha contato 25 anni e 5 mesi di “sequestro” vissuti da Mannino ad opera di uno “Stato incivile”. Mi corre l’obbligo, tuttavia, di ricordare che la storia pseudo- criminale del povero Mannino cominciò nei primi mesi del 1992 nel salotto televisivo, chiamiamolo così, di Gianfranco Funari, chiamato “Mezzogiorno Italia”, su una delle reti televisive di Silvio Berlusconi. Casualmente ospite di quella trasmissione come direttore del Giorno, reagii con forza al tentativo di Funari di processare in diretta Mannino, naturalmente assente, sulla base di un articolo dell’Unità che gli contestava di essere stato tanti anni prima testimone di nozze della sposa, figlia di un segretario di sezione siciliana della Dc, con un tale che dopo qualche tempo sarebbe risultato mafioso. Inorridii letteralmente all’idea di quel processo e, definito “picciotto” da un altro giornalista invitato e smanioso invece di parteciparvi come aspirante pubblico ministero, abbandonai per protesta la trasmissione in diretta. Finii sui blog di Rai 3 per un bel po’ di tempo come un esagitato. Il giornale ufficiale della Dc Il Popolo, diretto allora dal mio amico indimenticabile Sandro Fontana, ne fece un caso. Di fronte al quale, mentre Funari, dopo avere tentato inutilmente di farmi tornare nel suo studio, si vantava ogni giorno di ricevere telefonate di apprezzamento e incoraggiamento del suo editore in persona, ricevetti da Gianni Letta una cortese offerta di intervista a Berlusconi sui programmi dell’allora Fininvest in cui potergli consentire, su espressa domanda, di prendere le distanze da quel conduttore. Naturalmente, almeno per chi mi conosce, rifiutati la proposta e risposi chiedendo a Letta di fare intervenire sul problema di Funari direttamente Berlusconi con un comunicato. Che non seguì. Seguì invece la letterale persecuzione politica, morale e infine giudiziaria di Mannino. Al quale pertanto potete immaginare con quale piacere telefonerò il 20 agosto per il compimento dei suoi 80 anni: un traguardo peraltro che io ho tagliato prima di lui.

BASTA TELECAMERE NELLE AULE DI TRIBUNALE. Basta con i processi in diretta? Laura Delli Colli il 17 maggio 1990 su La Repubblica. La Rai discuterà molto presto dell' opportunità di mettere un freno alle trasmissioni che hanno aperto alle telecamere le aule dei nostri tribunali. A sorpresa, e con un dibattito che ha già aperto nuove polemiche in seno al Consiglio di amministrazione, l' azienda radiotelevisiva pubblica ha deciso infatti di mettere sotto processo, per una volta, proprio la popolarissima tv delle aule giudiziarie. E' in particolare la trasmissione di RaiTre Un giorno in pretura ad aver acceso, ieri, nell' aula del Consiglio di amministrazione un dibattito che rischia di avere presto nuovi sviluppi, non solo in seno alla Rai. Alla vigilia della nuova diretta per la seconda udienza Tacchella (va in onda proprio stamane su RaiTre) è stato l' intervento di uno dei consiglieri-giuristi di Viale Mazzini a sollevare formalmente il caso: è opportuno o no che la Rai continui a portare le sue telecamere in Pretura? E' legittimo, insomma - si è chiesto ieri nell' aula del consiglio il dc Roberto Zaccaria - che la televisione pubblica dia in pasto al grande pubblico televisivo giudici e imputati? Il tema, Zaccaria, l' aveva già sollevato nei giorni scorsi in una lettera inviata al presidente Manca: Mi aveva spinto a porre la questione alla sua attenzione spiega e alla discussione del Consiglio, una recente delibera del Csm. Sostanzialmente il Consiglio superiore della magistratura riconosce in pieno la legittimità delle norme di pubblicità dei processi penali contenute nel nuovo Codice di procedura penale. Mi sembra però che sollevi, in questa delibera che ho letto anche nell' aula del Consiglio Rai, una questione di opportunità, invitando formalmente i mezzi di comunicazione di massa a darsi un' autodisciplina in materia. Non si tratta, insomma, di promuovere alcuna azione di censura, ma di compiere l' ennesima riflessione sulla tv verità che ha monopolizzato, in quest' ultima stagione, l' attenzione di osservatori e operatori del mondo televisivo. E su questi argomenti Zaccaria non è solo: le sue posizioni sono state condivise ieri dal dc Bindi, e sull' opportunità di riflettere sul problema hanno convenuto, con diverse argomentazioni, anche i socialisti Pellegrino e Pedullà. Come editori televisivi, spiega Bindi non possiamo non occuparcene. Non si tratta di abolire Un giorno in Pretura, né di censurare la politica editoriale di una rete alla quale va invece riconosciuta notevole capacità di ideazione e creatività. Esiste, però, anche secondo Bindi, un problema di misura, ed il rischio è che il processo, con la mediazione delle telecamere si trasformi in mero spettacolo, penalizzando i soggetti più deboli. Immediata la reazione dei consiglieri comunisti: con argomentazioni di carattere tecnico-giuridico, Enzo Roppo ha respinto le tesi di Zaccaria e di Bindi. Il capogruppo dello schieramento designato dal Pci, Bernardi, e con lui Enrico Menduni, hanno quindi difeso le scelte editoriali di RaiTre invitando il Consiglio ad occuparsi piuttosto che dei programmi e della tv verità dei veri buchi neri dei programmi, delle questioni finanziarie e della ristrutturazione aziendale. In questa Rai dicono sostanzialmente i comunisti prendono corpo tendenze che puntano ad ingessare l' informazione, discutendo in termini esclusivamente critici proprio quei programmi e quei contributi editoriali che hanno segnato in termini di novità la stessa offerta del servizio pubblico radiotelevisivo. Secca la replica del socialista Pellegrino: Qui non si tratta di ingessare l' informazione né il diritto di cronaca che è, peraltro, inalienabile. Non si può, però, non vedere nella tv verità, soprattutto nel caso di riprese di processi, una sostanziale modificazione del fatto giudiziario che, a tutela dell' imputato, pone innanzitutto diversi gradi di giudizio. E' lo stesso argomento sostenuto, in Consiglio, anche dall' altro rappresentante del Psi, Pedullà, il quale si è sostanzialmente preoccupato di valutare se questa televisione non rischi di ledere la sfera dei diritti individuali: un' udienza televisiva, in sostanza, secondo questa tesi non esaurisce l' intero processo, ma esclude, anzi, proprio la fase della sentenza in giudicato, limitandosi a dare dei soggetti in campo una sola immagine, e l' immagine tout court più spettacolare. La discussione è aperta: assente Manca, si è assunto ieri il compito di trovare una mediazione tra le parti in causa il vicepresidente (socialdemocratico) Leo Birzoli: Da una parte, spiega esiste il diritto costituzionalmente garantito all' immagine e alla sfera privata dell' individuo, dall' altra l' altrettanto (sacrosanto) diritto alla cronaca e all' informazione. Si tratta, a mio avviso, di trovare tra questi due poli una misura, senza fare processi a una rete o a un direttore. A proposito di direttori, il responsabile di RaiTre, la rete che ha aperto questa nuova via alla televisione della realtà, ovviamente non ha incassato la questione in silenzio: Aspetto di conoscere i termini della discussione che ha impegnato il Consiglio di amministrazione dice, sorpreso, Angelo Guglielmi e, se è vero come mi dicono, che è stata presa la decisione di costituire un gruppo di lavoro per discutere le linee guida cui occorre attenersi nella realizzazione di Un giorno in pretura mi domando: gruppo di lavoro per fare che cosa? Di fatto so che il Consiglio di amministrazione ha sempre evitato, e non credo per caso, di intervenire in modo prescrittivo nella realizzazione delle singole trasmissioni che danno corpo alla linea editoriale della Rai.

Il senso della tv dentro i tribunali. Ondasuonda su La Repubblica.it il 16 giugno 2019. Sono trascorsi 30 anni dall'accanita discussione circa il ruolo della tv nei tribunali. E ancora oggi, basta che in un convegno (si presentava un libro su Umberto Eco e la televisione) venga per caso nominato Un giorno in pretura , perché subito i sopravvissuti di quel tempo lontano riprendano a dibattere circa il bene e il male della tv nel tribunale. Eco riteneva che quella presenza, lungi dal riportare la oggettività del fatto, la deformasse in favore di regia, con lo spettacolo a mangiarsi la giustizia, per non dire delle tentazioni pubblicitarie implicite per la vanità e le convenienze di giudici e avvocati. Diverso il parere di Rai 3 che aveva inventato il programma, prendendo il titolo al film di Steno del 1953, con Peppino De Filippo, pretore combattuto fra forma e sostanza, fra rigore e cuore. Guglielmi, il direttore della rete, pensava che in linea di principio le cose non ci guadagnino ad esser fatte di nascosto, sbrigate solo fra gli addetti o comunque sottratte ai mezzi che in ogni epoca le possono mostrare. Specie laddove, in nome del popolo italiano, si accertano i delitti comparandone il peso con le pene. Vecchie battaglie, di cui si è perso il segno, posto che ormai, ben prima che mostrate ai tribunali, le carte uscite a fiotti dai faldoni finiscono diritte sui giornali. Un giorno in pretura nel frattempo è proseguito, ma in sordina, e assai raramente in prima serata, dove è riapparso invece nell'ultima stagione. Meglio così che niente, visto che ancora ricordiamo quell'ultimo processo sul parto maldestro in casa, col feto nato morto, la puerpera e il fidanzatino che l'occultano. E noi a casa a calarci nei panni di giudici e avvocati. Ma persi più che altro a contemplare quegli imputati e quei testimoni provenienti da un continente sociale a noi per molti aspetti simile, ma sconosciuto per gesti, lingua e acconciatura. Era realtà in tv, altro che storie. E del resto in tribunale di certo non si recita anche se spesso, va da sé, si mente.

I "tribunali televisivi" ridotti a lavare la biancheria intima. Da parecchi anni la televisione sfrutta la materia giudiziaria a scopi spettacolari e coglie nel segno. Vittorio Feltri, Domenica 17/01/2016 su Il Giornale. Da parecchi anni la televisione sfrutta la materia giudiziaria a scopi spettacolari e coglie nel segno, riuscendo ad ottenere buoni se non ottimi ascolti. La prima antenna che trasformò i tribunali in miniere d'oro fu, se non ricordo male, Raitre con una iniziativa di incredibile successo dal titolo esplicito: Un giorno in pretura. Il pubblico poteva seguire, grazie a questo programma, le vicende più appassionanti affrontate dalla Giustizia. D'altronde, da quando le tragedie greche sono passate di moda, le scene offerte dalle austere aule in cui si svolgono interrogatori, scontri tra difesa e accusa, sono le sole in grado di suscitare forti emozioni in chi le guarda sul video, il mezzo di comunicazione più popolare e diffuso, altro che teatro. Ecco perché dopo breve tempo anche una emittente privata di Mediaset trovò il modo di inventarsi dei processi in proprio basandosi sulle liti familiari, le più comuni e frequenti, nelle quali chiunque può specchiarsi. L'artificio funzionò a meraviglia. Si prendeva, ad esempio, una coppia di sposi in bega su una questione, la si invitava in uno studio arredato secondo lo stile tribunalizio e si avviavano i duelli davanti a un giudice togato le cui sentenze, se accettate dai contendenti, avevano un certo valore. La trasmissione era egregiamente condotta da Rita Dalla Chiesa, garbata e capace di dipanare matasse complicatissime, intrise di rancori come sono molti matrimoni inaciditi. I protagonisti delle battaglie pseudo legali si avvalevano di avvocati di fiducia. Insomma il copione era identico a quello dei processi veri, cosicchè il divertimento per i telespettatori era garantito. Anche in questa versione, la materia giudiziaria fece lievitare l'audience al punto che oggi, a distanza di lustri, persino Raiuno considera conveniente trattarla con le telecamere in una rubrica quotidiana (Torto o ragione?) i cui fili sono tenuti da Monica Leofreddi con lodevole disinvoltura. C'è solo un problema da segnalare agli autori. I quali pur di tener vivo l'interesse sul programma, un po' troppo antico per non essersi logorato, nella scelta dei litiganti hanno raschiato il fondo del barile e selezionato personaggi improbabili, gente che gode a lavare la biancheria intima, direi intimissima, in piazza. Il risultato talvolta è desolante. Giorni orsono è andato in onda un intrico di corna, un triangolo di cui era un'impresa sovrumana capire chi fosse il principale cornuto e chi il principale fedifrago. Lo scambio di battute velenose tra i protagonisti tuttavia ha confermato che se il vino va in aceto, l'amore va quasi sempre a puttane e dintorni. E che quando marito e moglie non si reggono più la colpa è di tutti e tre o, meglio, di tutti e quattro. Torto o ragione? se procede così nella ricerca della porcata sensazionale, rischia di ridursi al solo torto. Provare a inventare qualcosa di fresco? Non c'è pericolo. I dirigenti sono troppo impegnati nella lotta per accaparrarsi i posti di comando e non badano al prodotto, che si vende comunque perché il pecoreccio tira. Quanto ai politici che avrebbero facoltà di cambiare la Rai, poverini, cosa si può pretendere da loro che sono morti e non se ne sono ancora accorti?

"I processi in tv? Così influenzano quelli in tribunale". L'inchiesta di Lorenzo Lamperti su Affari italiani Mercoledì, 13 aprile 2016. L’Alternativa, con la collaborazione della Camera Forense Messapia, ha organizzato la tavola rotonda - in corso di accreditamento – sul tema: “il processo in tv”, che si svolgerà il giorno 15 aprile, dalle ore 16 alle ore 20, presso la sala dell’Università del Palazzo Granafei Nervegna di Brindisi, e a cui interverranno: il Dott. Marco Di Napoli (Procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale di Brindisi), il  Dott. Maurizio Saso (Magistrato presso il Tribunale di Brindisi con funzioni di GIP e GUP; Presidente Associazione Nazionale Magistrati Sez. di Brindisi), il Dott. Angelo Perrino (Direttore e fondatore del quotidiano on line “Affaritaliani”) Filomena Greco (Giornalista del sole 24Ore), l’Avv. Massimo Manfreda, (Avvocato cassazionista penalista del Foro di Brindisi), l’Avv. Gianluca Pierotti (Avvocato cassazionista penalista del Foro di Taranto), l’Avv. Luigi Covella (Avvocato cassazionista penalista del Foro di Lecce e Coordinatore del corso di diritto penale presso la scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università derl Salento. E come moderatore l’Avv. Carlo Verusio (Avvocato cassazionista del Foro di Brindisi; già Magistrato Onorario con funzioni di Vice Pretore della Sez. Distaccata di Ceglie Messapica nel triennio 1995/1998). Affaritaliani.it ha intervistato, anticipando i temi del quale si dibatterà alla tavola rotonda, l'avvocato Carlo Verusio.

Avvocato Verusio, quali sono i temi alla base della tavola rotonda?

«E' un convegno che sorge da un problema di attualità, vale a dire la sovrapposizione dei processi delle aule giudiziarie con i processi che avvengono nelle trasmissioni televisive. E' un fenomeno molto diffuso e molto attuale. La tavola rotonda vuole accendere un riflettore, o uno "spotlight" citando il film premio Oscar, su questo fenomeno e quindi verificare quali elementi di deontologia dovrebbero essere applicati dalla varie categorie professionali, dagli avvocati ai magistrati fino ai giornalisti».

Quali sono le conseguenze di questa sovraesposizione mediatica dei processi in televisione?

«Più che sovraesposizione direi sovrapposizione. Si tratta di un fenomeno che in teoria può anche alterare quello che accade nelle aule giudiziarie. Se i due processi sono sovrapposti può accadere che il processo in aula venga condizionato da quanto si dice in una trasmissione tv, nella quale magari si indica un colpevole diverso da quello imputato».

In che modo può essere condizionato un processo?

«Già il fatto che in una trasmissione tv un giornalista o uno psicologo intervengano in una trasmissione magari nella veste di tecnico e ipotizzino che il delitto in oggetto sia stato compiuto che non corrisponde all'imputato può costituire un elemento di condizionamento perché si può minare la legittimità di quel processo agli occhi dell'opinione pubblica, portata a dimenticarsi che un conto è la verità assoluta e un conto è la giustizia. In un'aula di tribunale vanno presi in considerazione solo ed esclusivamente i fatti e le prove disponibili, non le supposizioni o le ipotesi».

Ma anche i magistrati possono farsi condizionare?

«Beh, anche i magistrati guardano la televisione... Prendiamo per esempio il caso di Roberta Ragusa, con la Cassazione che ha bocciato la sentenza di non luogo a procedere contro il marito dopo che varie trasmissioni hanno insistito nell'individuare in lui il colpevole nonostante di prove non ce ne siano. Non possiamo dirlo con certezza, ma magari questa sovrapposizione mediatica può aver giocato un ruolo».

Che cosa si dovrebbe fare allora a riguardo?

«Il punto è trovare il giusto equilibrio tra il diritto dei giornalisti a dare notizie e a cercare la verità e il rispetto di quanto accade nelle aule giudiziarie. Non bisogna mai perdere questo equilibrio altrimenti si rischiano conseguenze molto dannose. Ci si ricordi sempre che il processo vero è quello nelle aule giudiziarie, che si basa su elementi diversi da quelli che si vedono nelle trasmissioni».

Quali sono le responsabilità degli avvocati?

«Ormai alcuni avvocati sono diventati i registi delle trasmissioni tv. Per esempio, il giorno dopo un recente noto caso di omicidio a Roma il padre di uno degli accusati è andato in televisione. La deontologia alla base del comportamento degli avvocati dovrebbe imporsi su questi fenomeni. Bisognerebbe seguire e rispettare i principi di riservatezza che sono alla base dell'esercizio delle professione. Andare in televisione a parlare dell'allibi dell'assistito è piuttosto discutibile».

Non è che invece al contrario avvocati o magistrati puntino a questi casi di cronaca nera proprio per avere maggiore visibilità?

«Sicuramente c'è anche questo elemento, ci sono avvocati che patrocinano casi eclatanti in forma gratuita ma in cambio ricevono un grande pubblicità andando in tv».

A livello giornalistico come si dovrebbe affrontare la questione?

«E' una problematica sorta con forza dai tempi del caso di Cogne. Nel 2009 questo fenomeno ha portato i giornalisti delle principali reti televisive a stipulare una convenzione con l'Agcom sulle condotte da mantenere durante le trasmissioni tv che si occupano di processi in corso. Una convenzione nata sotto l'auspicio dell'allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e che dovrebbe evitare abusi».

Ma è stato davvero così?

«Forse qualche eccesso si è evitato ma di fondo non molto. Ci sono varie trasmissioni anche nate negli ultimi anni che si occupano di processi in corso. Da Chi l'ha visto a Quarto Grado, dai programmi pomeridiani di Barbara D'Urso e della Rai. La realtà è che il pubblico italiano è molto, forse troppo, interessato a questi casi clamorosi e quindi segue questi programmi con avidità. Il plastico di Vespa è l'emblema di tutto ciò».

Ci sono però trasmissioni che hanno un approccio diverso, come Un giorno in pretura...

«Sì, certo. Un giorno in pretura infatti non fa altro che trasmettere in tv i processi già conclusi e comunque semplicemente lascia la parola a quanto accaduto in aula senza fare supposizioni o altro. Il problema della sovrapposizione è legato invece a quei programmi che corrono paralleli ai processi e possono anche cambiarne l'esito».

In questi giorni si parla molto delle intercettazioni, in particolare sul caso dell'inchiesta di Potenza. Sui giornali sono apparsi anche dialoghi privati e secondo molti non inerenti all'indagine. Secondo lei serve una riforma sul tema?

«Ritengo che la migliore legge sulle intercettazioni ce l'abbiano gli Usa. Lì si impone a chi sta ascoltando la telefonata di fermarsi dopo alcuni minuti se si capisce che non tocca elementi che costituiscono reato. L'Italia credo sia un Paese peculiare e non c'è legge che tenga, nel senso che il 70-80% dei processi si fa con le intercettazioni. Senza intercettazioni in Italia non si farebbero processi».

Il caso Ragusa e la tv che vuole sostituirsi ai tribunali. Pubblicato giovedì, 11 luglio 2019 da Corriere.it. In tema di Giustizia, ancora una volta abbiamo assistito al lungo e duro scontro fra Televisione e Tribunale. «Ha ucciso la moglie e ha distrutto il suo cadavere». Anche per i giudici di Cassazione, Antonio Logli è colpevole. È stato lui ad ammazzare Roberta Ragusa, la madre dei suoi due figli e a occultarne il cadavere mai più ritrovato. L’omicidio sarebbe accaduto dopo un violento litigio perché la donna, che aveva compiuto da poco 45 anni, aveva scoperto una relazione del marito con Sara Calzolaio, un’amica già baby sitter dei figli. La sentenza è stata letta quasi in diretta dallo stuolo di inviati che Gianluigi Nuzzi aveva dispiegato nei «luoghi» che avrebbero dovuto ricostruire la scenografia ideale per l’ultimo round. Quello del Tribunale, non certo quello di Quarto grado (Rete4, mercoledì). L’impressione è che Nuzzi in questi ultimi tempi abbia «lavorato» per la scarcerazione dell’imputato, non credendo, lui e i suoi espertoni, alla colpevolezza di Logli. Tra altri, abbiamo ascoltato i figli della povera signora Ragusa, i quali parlavano della mamma chiamandola Roberta, difendendo da ogni accusa il padre. Abbiamo ascoltato Sara, la baby sitter innamorata che da subito ha preso il posto della signora Ragusa, avendo però la premurosa attenzione di occupare il lato opposto dello stesso letto dove dormiva la donna scomparsa. Il Tribunale ha fatto il suo corso: tre gradi di giudizio. La Televisione andrà avanti all’infinito perché tenere aperti i processi e sì dovere giornalistico ma è anche buona esca per tenere acceso il fuoco dell’audience. E ormai nessuno s’interroga più sulla suggestione di soluzioni alternative a quelle che derivano dall’esame delle prove o sulle distorsioni che questo genere di programmi può generare. Non solo nella sfera emotiva del pubblico ma anche in quella di chi è chiamato a giudicare.

Quei vergognosi tribunali televisivi. Nino Spirlì Lunedì 23 marzo 2015 su Il Giornale. Senza freni, ormai. A tutte le ore. Da tutte le bocche. Anche quelle più peccaminose. Anche le più lucide e ritoccate. O quelle più baffute, pelose, rasate di fresco. I fatti da tribunale sono diventati argomento quotidiano di programmi televisivi di ogni genere. Dall’appoltronato talk show al programmino similmusicale, dall’approfondimento giornalistico al salottino enogastronomico. Ovunque, di striscio o di piatto si parla di fatti di cronaca che diventano “caso nazionale” solo per dare notorietà e lustro a questa o quella conduttrice, questo o quel “nuovo volto televisivo”. E le vite di vittime e carnefici diventano carne squartata e stesa al sole della curiosità altrui. Di un malato voyeurismo italico nato, in tempi di crisi di valori e soldi, nella peggior televisione che si potesse immaginare. C’è chi si rivolge “alle signore”, chi tira la giacchetta ai giovani o ai pensionati annoiati, chi si sente già più magistrato dei magistrati e parla, ogni giorno di più, di “interessanti nuove rivelazioni”, “nuove verità”, “testimonianze esclusive”… Un luna park di stupidità e, spesso, di falsità che, se non danneggiano, quantomeno inquinano il corso delle vere indagini. Quelle che spettano alle Forze dell’Ordine. Alla Magistratura. Come mettere fine a questo scempio? Non lo farà la gente, che, costretta a scegliere fra Pinco e Pallino, uno dei due sceglie. Sono gli editori che devono bloccare interi team di autori senza fantasia, senza alcuna capacità creativa. Sono gli editori che devono pretendere, da chi porta a casa fior di euro senza provare il sudore della miniera, un vero impegno professionale e non un copia e incolla di pagine di cronaca nera dai quotidiani, a cui si somma l’opinione personale, non sempre intelligente, di quella pletora di opinionisti globe-trotter, prezzemolini di ogni tv. Sono gli editori che dovrebbero tornare a quella televisione “alla vecchia maniera” rispettosa delle bugie, del “verosimile”, che tanto bene hanno fatto per decenni alla televisione stessa, ai suoi autori, agli italiani. Fra me e me, per oltre un decennio autore di Forum su Retequattro e Canale 5.

Da Corinaldo a Bibbiano: l'Italia scoperta con la «nera». Leggo Martedì 23 Luglio 2019. Cogne, per l’assassinio del piccolo Samuele. Avetrana, per l’omicidio di Sarah Scazzi. Garlasco, per l’assassinio di Chiara Poggi. Erba per l’uccisione di Raffaella Castagna e del figlio Youssef, della madre Paola Galli e della vicina Valeria Cherubini con il cane. Senza dimenticare Novi Ligure per il duplice omicidio compiuto da Erika e Omar. È anche la cronaca, più spesso la nera, a “fare” la geografia dell’Italia o quantomeno a farla conoscere, portando sotto i riflettori e all’attenzione pubblica luoghi abitualmente lontani dai grandi circuiti che, improvvisamente, vengono – e spesso rimangono – segnati da una tragedia e per quella diventano noti. Procedendo a ritroso si risale a Vermicino, per la straziante morte di Alfredino, a Capocotta per l’assassinio di Wilma Montesi e oltre. È questione di cronaca, appunto, in alcuni casi di storia. Prendendo spunto dal libro “Luoghi comuni. Dal Vajont a Arcore, la geografia che ha cambiato l’Italia” di Pino Corrias, guardiamo all’Italia che, nell’ultimo anno, è stata “rivelata” dalle notizie. 

BIBBIANO. Nel cuore dell'Emilia, il paese dei falsi orchi. Bibbiano è un comune di poco più di 10mila abitanti – 10205 secondo gli ultimi dati - nella provincia di Reggio Emilia, in Emilia-Romagna. Nelle ultime settimane, il comune è divenuto tristemente noto per lo scandalo di affidamenti illeciti di bambini, strappati alle loro famiglie, oggetto dell’inchiesta della magistratura chiamata “Angeli e Demoni”. La notizia è emersa il 27 giugno, le indagini però sono iniziate circa un anno prima. Le ipotesi sono gravissime: manipolazioni di minori e allontanamento in via d’urgenza dalle famiglie anche con accuse, senza prove, di abusi sessuali, false relazioni, rapporto tendenziosi. Indagati assistenti sociali e psicologi.

CORINALDO. Cinque morti in discoteca schiacciati dalla folla. Sono stati cinque ragazzi tra 14 e 16 anni e una mamma che accompagnava la figlia di 11 anni a perdere la vita in una discoteca a Corigliano, lo scorso 8 dicembre, mentre il pubblico attendeva il dj set del trapper Sfera Ebbasta tenutosi nel locale durante la festa di cinque scuole superiori. Circa 120 i feriti, alcuni gravi. Dopo che qualcuno ha spruzzato dello spray urticante in pista, nel locale si è scatenato il panico e le sei vittime sono rimaste schiacciate nella calca mentre tentavano di scappare. Le indagini hanno interessato anche il numero dei biglietti venduti, che sarebbe stato eccessivo rispetto alla capienza delle sale. Corinaldo sfiora i cinquemila abitanti - 4927 – e si trova in provincia di Ancona.

FAVARA. Il giallo di Gessica Lattuca: scomparsa e mai più ritrovata

Favara, abitato più di 32mila persone, si trova nella provincia di Agrigento, con cui forma una conurbazione, in Sicilia. 

A farne parlare in tutto il Paese è la scomparsa di Gessica Lattuca, madre di quattro figli, sparita il 12 agosto 2018. Nel tempo si sono rincorse molte ipotesi, le indagini hanno portato perfino al cimitero, con l’apertura di alcuni loculi, secondo quanto indicato da una testimone, ma tutto si è rivelato vano. Pochi giorni fa, il 12 luglio, la giovane avrebbe compiuto 28 anni. La madre della donna, che si sta occupando dei suoi figli, in quell’occasione ha rinnovato l’appello affinché che chi sa parli: «I suoi figli vogliono sapere la verità, io non mi arrenderò mai». 

MANDURIA. Baby gang tortura e uccide l'anziano senza difese. In provincia di Taranto, in Puglia, Manduria, ex Casalnuovo, ha una popolazione di oltre 31mila abitanti. La sua notorietà è dovuta all’uccisione di Antonio Stano, pensionato sessantaseienne morto il 23 aprile scorso, dopo aver subito ripetute aggressioni e violenze da parte di più gruppi di giovani. In particolare, sono stati otto i ragazzi fermati, sei dei quali minorenni, con le accuse di tortura con l’aggravante della crudeltà, sequestro di persona, violazione di domicilio e danneggiamento. L’uomo che soffriva di disagio psichico, era incapace di reagire. Da quanto emerso nel corso delle indagini, le aggressioni duravano da anni. I giovani attaccavano la vittima, anche introducendosi con la forza in casa sua.

VITTORIA. Simone e Alessio, i cuginetti morti investiti dal suv. Dopo il capoluogo, Vittoria è il comune più popolato del ragusano, in Sicilia, con quasi 65mila - 64072 – abitanti. La località è diventata largamente nota per la morte dei cuginetti Alessio, 11 anni, e Simone, 12, investiti l’11 luglio sotto casa da un Suv guidato da un trentasettenne pregiudicato che, al momento dell’incidente, era ubriaco e aveva fatto uso di cocaina. Il piccolo Alessio è arrivato in ospedale già morto. Simone è stato ricoverato in condizioni apparse da subito gravissime. Gli sono state amputate le gambe, ma nulla è valso a salvargli la vita. I due ragazzini stavano giocando con il cellulare, seduti sui gradini di casa, sicuri di non correre pericoli.

·         Giornali e Tv Spazzatura.

Vittorio e Vittorio contro tutti, ma alla fine Feltri se ne va. Scontro epico tra Vittorio Feltri, Vittorio Sgarbi e cinque tremende "sfere" tutte di donne. Gli animi si scaldano a tal punto che Vittorio Feltri si stacca il microfono ed esce dalla trasmissione. Roberta Damiata, Martedì 19/11/2019, su Il Giornale. Era stato promesso spettacolo, e spettacolo c’è stato, perché il cinque contro tutti di “Live Non è la d’Urso”, rimarrà per molto tempo come una delle pagine più indimenticabili della tv. Ospiti in studio per essere attaccati dai cinque “sferati” Vittorio Feltri e Vittorio Sgarbi, due personaggi a cui basta poco per far saltare la mosca al naso. E non c’è stato bisogno di molto , in effetti, affinché questo succedesse, perchè a “giudicarli” sono state cinque agguerritissime donne. Si inizia da Feltri, e dalle prime due sfere rosse. C’è Alda De Usanio che ripetendo le irripetibili parolacce che spesso escono dalla sua bocca gli chiede se si rende conto che proprio per questo sta diventando uno dei personaggi più amati dai giovani che sui social si divertono a commentare le sue battute. “Io non me ne sono accorto, il più delle volte mi irrito perchè vengo irritato, poi invecchiando ho perso i freni inibitori e qualsiasi scemenza mi viene in testa la dico, anche se sono solitamente delle cazzate”. Ma non è qui che si scatena il putiferio, piuttosto con l’intervento di Vladimir Luxuria che gli animi si riscaldano. “Mi sta molto simpatico Feltri, anche perché forse non si sa ma qualche anno fa ha anche preso la tessera dell’arcigay. E’ a favore dei matrimoni tra gay ma io le dico che Frocioo o Ricchione sono battute che possono suscitare applausi ma in realtà sono insulti, non sottovaluti il peso delle sue parole che sentite dai più giovani possono portare al bullismo. Certe battute possono anche uccidere”. Per niente perturbato Feltri risponde che non si deve fare la guerra al vocabolario e questi termini sono nel linguaggio colloquiale. Vladimir per non ci sta, tanto che comincia a parlargli sopra tanto da farlo irritare per bene: “Lei è una maleducata, io dico quello che cazzo mi pare, e nessuno mi deve rompere i coglioni. Interviene quindi Sgarbi, ma come succede spesso, la toppa è molto meglio della pezza, Sgarbi si mette ad elogiare Luxuria dicendo che le è davvero molto simpatica e ricorda un episodio di quando travestita l’aveva incontrata a prostituirsi sulla strada, episodio che , secondo lui Luxuria avrebbe anche raccontato in un’intervista ad un quotidiano. Gelo in studio e Luxuria prima incredula poi visibilmente infastidita cerca di chiarire la situazione e ricorda di quando negli anni ’90 mentre tornava a casa Sgarbi si fermò con la macchina, dove c’era anche l’allora fidanzata Elenoire Casalegno, anche lei presente in studio e insieme fecero un bellissimo giro per Roma di notte ma non si stava prostituendo. “Non mi riferisco a quello -insiste Sgarbi - ma all’intervista che hai rilasciato ad un quotidiano e ti ho visto io per la strada che ti prostituivi. o ho avuto sempre grande rispetto per te - le dice poi- io amo i travestiti, non mi rompere il cazzo! Prendiamo l'articolo del Corriere che è un documento, tu l'hai detto non me lo sono inventato”. Vladimir diventa una furia: “Date una camomilla a Vittorio Sgarbi - ribatte Luxuria - Una persona come me deve avere il diritto di camminare per strada e non essere scambiata per prostituta. Del passato mio ne parlo io, tu che diritto hai di parlare di me”.“Ti vergogni del passato? - le urla Sgarbi - di quello che sei stato? Non eri un uomo? Vabbè... Sei una donna, non hai il c***o e sei una santa. Dai, ho visto un’altra! Non eri tu, non ti conosco!”.

Gli animi non si placano neanche quando interviene candidamente Veronica Maya che con grande pacatezza fa capire a Vittorio Feltri che questo modo aggressivo di comunicare non piace a tutti: “Mi sta dicendo che sono un coglione?” Veronica lo interrompe per replicare quando Feltri va su tutte le furie, “Ma stai zitta, perché devi rompere i cogl***, Mi sono rotto le palle a sentire delle galline che mi interrompono. Me ne vado basta, ma sono sceme, ma dove le hai trovate queste galline?” dice alla D’Urso mentre si toglie il microfono. E mentre Barbara cerca di trattenerlo, lui va via di scena con una delle sue perle: “Ma dove cazzo sta l’uscita?”.

Vittorio Feltri a Live-Non è la D'Urso contro Veronica Maya: "Zitta gallina, me ne vado". Libero Quotidiano il 19 Novembre 2019. A Live-Non è la D'Urso, Vittorio Feltri risponde al fuoco alle domande delle cosiddette "sferate". Al fianco di Vittorio Sgarbi nello studio di Barbara D'Urso, il direttore sotto assedio, reagisce ai semi-deliri di Vladimir Luxuria, Veronica Maya e Alda D'Eusanio (sostanziale scena muta per la nazi-vegana Daniela Martani e per Elenoire Casalegno, la quale non si è prestata più di troppo al teatrino). Si parlava di Lilli Gruber e degli insulti che aveva rivolto a Feltri, e il direttore di Libero è tornato sul punto affermando: "La Gruber è una ignorante, l'andropausa non è una malattia". Ma a quel punto Veronica Maya lo ha interrotto. Scatenato il direttore: "Ma stai zitta, perché devi rompere i coglioni". Dunque Feltri riprende. Risultato? Interrotto ancora. A quel punto il direttore si alza e alza anche la voce: "Mi sono rotto le palle a sentire delle galline che mi interrompono. Me ne vado basta, ma sono sceme", ha tagliato corto. Ma la Maya alza il ditino: "Lei sta facendo una brutta figura". Strepitoso Feltri: "Sei una gallina, ma ti rendi conto?". A quel punto rompe il silenzio Daniela Martani, la quale regala ridicole perle come: "Si è fatto lo spritz come Taylor Mega?". Troppo, per Vittorio Feltri, che dopo aver apostrofato con il termine "coglioni" il tris di "galline" si è sfilato il microfono, ha salutato con un bacio Barbara D'Urso e ha lasciato la trasmissione. Per inciso, in precedenza, durissimo anche lo scontro con Luxuria e la D'Eusani.

Vittorio Feltri dopo Live-Non è la D'Urso contro Luxuria e D'Eusanio: "Pollaio, povere cretine". Libero Quotidiano il 19 Novembre 2019. Una clamorosa rissa in tv, quella che ha visto contrapposto Vittorio Feltri a Veronica Maya, Vladimir Luxuria, Alda D'Eusanio e Daniela Martani a Live-Non è l'Arena, il programma in prima time di Barbara D'Urso su Canale 5. Il direttore di Libero è stato messo sotto assedio da quelle che ha definito "galline", assedio risibile, tanto che poco dopo si è alzato, ha sbottato, le ha apostrofate e dopo aver salutato Carmelita se ne è andato. Ma proprio come dopo Non è l'Arena, Vittorio Feltri è tornato sullo scontro avvenuto in tv su Twitter. Il cinguettio è stato corrosivo: "Il programma della D'Urso - ha scritto il direttore - stasera è stato fenomenale, una riedizione tardiva del manicomio e di un pollaio meraviglioso pieno di cretine". Cala il sipario...

Anna Montesano per ilsussidiario.net il 19 novembre 2019. Serata al cardiopalma per il pubblico di Live Non è la d’Urso che ormai vive di liti e di scontri. Come è possibile fare un po’ di discussioni se non mettendo insieme Vittorio Feltri, Vittorio Sgarbi e cinque sedicenti vip seduti nelle sfere pronte a  tutto per farsi notare? Barbara d’Urso lo sa bene ma poi deve anche andare incontro a quella che sono le conseguenze del suo modo di mettere in piedi i programmi come l’addio di Vittorio Feltri che esce dallo studio inviperito. Come se questo non bastasse, il direttore è poi tornato sui social per chiarire la sua posizione e, soprattutto, accusare ancora coloro che erano presenti al dibattito ieri sera. In particolare, Vittorio Feltri su Twitter ha scritto: “Il programma della D’Urso stasera è stata fenomenale, una riedizione tardiva del manicomio e di un pollaio meraviglioso pieno di cretine”. Tornerà ancora nei programmi della d’Urso oppure no? Lo scopriremo solo alla prossima messa in onda, quello che è certo è che quando c’è Vittorio Feltri in mezzo gli ascolti al top sono garantiti. (Hedda Hopper)

Vittorio Feltri sbotta e va via. Vittorio Feltri ha dato letteralmente di matto durante il momento “uno contro tutti” a Live Non è lo D’Urso. Il giornalista e direttore di Libero, impegnato a rispondere alle domande degli sferati, ha cercato di rispondere alla polemica legata a Lilli Gruber dicendo: “è una ignorante, l’andropausa non è una malattia” ma lo interrompe Veronica Maya, una delle cinque sferate. A quel punto Feltri sbotta dicendole: “ma stai zitta, perchè devi rompere i coglioni?” e poi cerca di riprendere il discorso dicendo “l’andropausa non è una malattia…” ma viene nuovamente interrotto. Feltri alla seconda interruzione si alza in piedi e alza la voce: “mi sono rotto le palle a sentire delle galline che mi interrompono. Me ne vado basta, ma sono sceme” dice rivolgendosi alle cinque donne nascoste nelle sfere. Veronica Maya ribatte al giornalista: “Lei sta facendo una brutta figura”, ma Feltri risponde a tono: “sei una gallina, ma ti rendi conto?”. Anche Daniela Martani prende la parola contro Feltri: “si è fatto lo spritz come la Mega?”. (aggiornamento di Emanuele Ambrosio)

Vittorio Feltri contro Luxuria: “frocio non è un’offesa”. Vittorio Feltri nel momento “Uno contro tutti” a Live Non è la D’Urso si ritrova a rispondere alle domanda dei cinque sferati. Tra questi c’è anche Vladimir Luxuria che lancia una vera e propria bomba: “i termini frocio, ricchione, culattone sono delle battute che possono anche strappare delle risate, ma è un insulto e non se la può cavare perchè la parola gay è un termine inglese”. Non solo la Luxuria sul finale dà del cafone al giornalista e direttore di Libero che si difende dicendo: “la cafona è lei, io uso il linguaggio che voglio, che è quello popolare se a lei non piace non me ne frega niente. Pretendo che non si faccia la guerra al dizionario, tutti i termini che io uso sono contenuti nei migliori dizionari della lingua italiana”. La Luxuria però non ci sta e difende il suo punto di vista: “deve smettere di usare questo linguaggio perchè ci sono anche dei ragazzi che si sono suicidati per queste parole” con la D’Eusanio che sottolinea a voce alta “le parole hanno un peso e sapete che il significato delle parole”. (aggiornamento di Emanuele Ambrosio)

Vittorio Feltri: “Dico quello che penso, di solito anche delle cazzate…” Vittorio Feltri è ospite con Vittorio Sgarbi del momento “uno contro tutti” a Live Non è la D’Urso. Il giornalista e direttore di Libero si confronta con la prima sfera occupata da Alda D’Eusanio. “Sono la prima palla dottor Feltri” – dice la D’Eusanio che procede dicendo –  “tutti i figli delle mie amiche impazziscono per lei, tutti sono in rete a ridere con le sue battute. Lei è diventato icona dei giovani, allora mi chiedo i giovani ridano di lei o con lei?”. Feltri allora replica: “non mi sono mai accorto di essere seguito dai giovani e dai vecchi. Io faccio una vita solitaria, sto sempre nel mio giornale e qualche volta purtroppo accetto inviti televisivi e il più delle volte sono irritato perchè il conduttore mi fa una domanda. Non riesco neppure a cominciare a rispondere che quei coglioni che ci stanno nello studio mi interrompono ed io mi irrito. Dico quello che penso, di solito penso delle cazzate…” (aggiornamento di Emanuele Ambrosio)

Dai “ceffoni” a Greta Thunberg alla “menopausa” di Lilli Gruber. Si prospetta una puntata di Live non è la D’Urso parecchio accesa. Per lo scontro con le 5 sfere, Barbara D’Urso ha infatti scelto due protagonisti sicuramente noti per le polemiche e le liti che spesso scatenano sia sul piccolo schermo che sul web. Ultimamente Vittorio Feltri ha fatto parlare di sé per alcuni attacchi mirati in particolare a Lilli Gruber – spesso protagonista di pungenti frecciatine – ma anche alla giovane attivista Greta Thunberg. In un’intervista per Le Fonti Tv, Feltri si è scagliato duro contro la Gruber in primis: “Libero ha pubblicato un articolo su Lilli Gruber scritto da una donna, Costanza Cavalli. – ha esordito – Siccome la Gruber sa parlare ma non sa leggere ha pensato che lo avessi scritto io, nonostante ci fosse una firma corpo 14, quindi o è cieca o non capisce quello che legge.”

Vittorio Feltri contro Lilli Gruber: “Ho risposto in modo sessista ma…” L’attacco di Vittorio Feltri alla Gruber non si ferma qui. Ricordando la dura replica della conduttrice e giornalista, Feltri infatti aggiunge: “”Lei mi ha attaccato in modo sessista dicendo che sono in andropausa grave, ignorando che l’andropausa non è una patologia ma un fatto naturale che vivono tutti quelli che hanno la fortuna di invecchiare perchè l’unico modo per non invecchiare è morire giovani e io questa scelta non l’ho fatta.” Così prosegue “E le donne, dal canto loro, hanno la menopausa. Ma siccome lei è in menopausa da 20 anni non può dare a me del malato di andropausa. Io ho risposto in modo sessista ma è stata lei a offendere me immotivatamente visto che non ero io l’autore dell’articolo”.

Vittorio Feltri: “Greta Thunberg? Le darei un paio di ceffoni”. Nella sua lunga intervista, Vittorio Feltri non risparmia la giovane attivista Greta Thunberg, sulla quale tuona: “Se avessi una figlia come Greta un paio di ceffoni glieli darei per rimandarla a scuola perchè lei non va a scuola e chi non va a scuola non può arrogarsi il diritto di fare la professoressina.” E non manca un cenno ad un altro tema caldo come quello della scorta a Liliana Segre: “Spiace moltissimo che una signora di 90 anni come Liliana Segre, che ha subito quello che ha subito, venga insultata. Però non è vero che sono 200 insulti al giorno ma semmai 200 all’anno, quindi non mi sembra una manifestazione così grave.”

Giada Oricchio per iltempo.it il 19 novembre 2019. A “Live Non è la D’Urso”, umiliante faccia a faccia tra Vladimir Luxuria e Vittorio Sgarbi. L’ex parlamentare è in una delle cinque sfere e vuole chiarire di non aver mai battuto il marciapiede come ha detto Sgarbi in un’altra puntata del talk serale di Canale 5. Gli ricorda che si sono conosciuti una notte di ritorno da una festa e in macchina con lui c’era anche l’allora fidanzata Elenoire Casalegno. Ma il critico d’arte ha ribattuto ammutolendo Luxuria fino a farla quasi piangere. Il tutto tra le risate generali e senza che nessuno intervenisse in maniera decisa. “Ho detto la verità, la notizia era sul Corriere della Sera” ha affermato Sgarbi dopo aver visto la clip di quella dichiarazione. Vladimir Luxuria si è difesa: “Mi sono chiesta perché, non c’entrava niente con l’argomento, poi mi sono ricordata. Mi sa che tu perdi pezzi per strada” e Sgarbi si è alterato: “No, ho una memoria perfetta, non contestare la verità, è in un’intervista al Corriere”. “No, erano gli anni ’90, ero sul ponte Casilino e tornavo a casa, si è fermata questa macchina, qualcuno abbassa il finestrino ed è Sgarbi. Ero felice perché lo stimo, mi ha invitato a salire in macchina e con lui c’era anche Eleonoire”. Ma il confronto si accende perché lo scrittore urla: “Lo eri una prostituta, lo eri, se ero ti vergogni… io sono un puttaniere? Sì. Sentiamo il Corriere. Sono due sere diverse. Non ho detto che batti, ma che battevi, passato”, l’opinionista prova a spiegare che vuole essere libera di camminare come le pare e avverte: “Se dovessi dire tutte le cose che so, faremmo una trasmissione di quattro ore”. E qui la situazione sfugge completamente di mano con Vittorio Sgarbi che sbraita e ripete: “Vuoi dire che non ti sei mai prostituita? Rispondi”. “Io di un mio periodo difficile in cui un uomo mi ha pagata, ne ho parlato io perché sono una persona trasparente, dico sempre la verità, ma non c’entra niente con la sera con cui ci siamo conosciuti” ha sottolineato Vladimir quasi in lacrime. E Sgarbi sempre più alterato: “Era l’ ’89, eri un uomo e ti travestivi da donna, ma hai paura del passato, sei stato un uomo o no? Mi devo vergognare io per te? Abbi il coraggio di essere quello che sei. Non mentire ce l’hai il ca**o  o no? Ce l’hai o no? Sei un uomo o no? Sei una donna? Perché devi rompere i coglioni a me? Non rompere il ca**o a me. Imbecille, vuoi litigare per forza? Prendiamo l’articolo del Corriere. Lo eri e lo sai benissimo”. Risate e applausi dello studio davanti alla continua mortificazione di Vladimir: “Ma tu che diritto hai di parlare della mia vita?! Non c’entra nulla con la sera che ci siamo conosciuti”. Fino alla veemente chiosa finale: “Allora sei una donna, non hai il ca**o e sei una santa, mi sono sbagliato, ho visto un’altra. Barbara, tu che sei una grande giornalista recupera l’intervista. Vuole fare la santa quando di professione faceva la puttana, vaffancuo”. Ma se il pubblico in studio ha trovato tutto molto divertente, quello a casa ha avuto la reazione contraria. Un’ondata di indignazione si è riversata sui social per il trattamento degradante riservato a Vladimir Luxuria, che ha ricevuto anche più mi piace del “Live Sentiment”. Una riabilitazione che l’ha commossa: “Grazie, grazie davvero, questa volta sono proprio contenta, sono felice”.

Dagospia il 20 novembre 2019. Da I Lunatici Radio2 raiplayradio.it/programmi/ilunatici. Vladimir Luxuria è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino.  Luxuria si è raccontata a trecentosessanta gradi: "Sono nata due volte. La prima, a Foggia, il 24 giugno del 1965. Poi sono rinata intorno ai quindici anni, quando davanti a un bivio ho scelto di non mentire a me stessa e agli altri, ma di espormi, di fare dei cambiamenti, di tirare fuori quello che sentivo dentro. Ho preferito percorrere questa strada, tortuosa, in salita, rispetto a quello dell'ipocrisia. Ma penso di aver scelto la strada giusta. A volte ci sono delle false serenità, delle false felicità, ma quando nascondi una cosa così importante finisci per mentire sempre a te stesso e agli altri. Non avevo modelli di riferimento. C'era una tale mancanza di modelli di riferimento che alla fine ho deciso io di diventarlo. Non si parlava di certe cose, era un argomento tabù. Sembrava che quelle come me dovessero essere per forza sfigate, border line. Pensare che sarei diventata una parlamentare, anche se per poco, sembrava un film di fantascienza. Il rapporto con i miei genitori? Non hanno mai smesso di amarmi, anche se abbiamo avuto dei litigi. Non era facile anni fa accettare così dall'oggi al domani la mia transessualità. Ho avuto un periodo più che di litigi proprio di gelo. Poi per fortuna ci siamo riavvicinati, oggi ho un ottimo rapporto con loro". Sul momento più difficile e quello più felice della sua vita: "Il momento più difficile fu quando persi un amico carissimo. Eravamo partiti per una vacanza insieme. Lui ha avuto una meningite fulminante, eravamo all'estero, ho dovuto gestire tutto tra ospedale, corse. E soprattutto ho dovuto informare i genitori. Sentire l'urlo di una madre quando devi comunicarle che suo figlio è grave in ospedale è una cosa che non si dimentica. E' stato traumatico. Il giorno per me più emozionante è stato quando mi sono laureata con 110 e lode. Vedere lo sguardo dei miei genitori orgogliosi fu bellissimo. E poi quando sono entrata per la prima volta in Parlamento. Sentivo di portare insieme a me tante persone, che mi chiedevano di portare una voce, di dare loro una voce, di portare persino in quel luogo così angusto anche le istanze di chi è sempre stato considerato ultimo". Sulla sua battaglia contro lo spaccio nel quartiere in cui vive a Roma, il Pigneto: "Oggi la droga la trovi dappertutto, lì il problema non era solo legato allo spaccio che vedevi in qualsiasi ora del giorno. Nascevano delle contese anche tra diverse organizzazioni, era diventato pericoloso, vedevi questi che spaccavano le bottiglie e si scannavano anche in mezzo alla strada. Io scesi da casa e li affrontai. Alcuni mi minacciarono di morte, altri mi chiesero di inserirli nel mondo della televisione. Oggi la situazione è più tranquilla". Sulla sua vita privata e il gossip che la vorrebbe da poco nuovamente fidanzata: "E' giusto rispettare anche l'altra persona. Non è detto che se tu sei un personaggio pubblico la persona che ti vuole bene, che stai frequentando e che stai conoscendo, debba diventare anch'essa nota. Tengo protetta per questo la mia sfera sentimentale".

Dall’account Instagram di Alberto Dandolo il 19 novembre 2019. Se permettete, per esperienza diretta, so esattamente cosa significa essere omosessuale (termine clinico che non amo a che non uso quasi mai). Condizione della quale non sono orgoglioso, ovviamente. Cosiccome un etero non credo sia orgoglioso di essere etero. Semmai sono orgoglioso di altro, per esempio di sforzarmi ad essere una persona perbene. Io non provo alcun risentimento e non mi sento minimamente offeso se mi chiamano ricchione, frocio e via dicendo. Non mi sono mai sentito vittima di una parola o di un altrui giudizio.  Mi offendo quando non vengo rispettato come essere cogitante, quando vengono calpestate le mie idee, quando vengono feriti i miei valori. Non certo quando al mio interlocutore  fa un po' specie comprendere che io possa provare godimento con una penetrazione in un organo per sua natura è espulsivo più che inclusivo.  Rivendico quindi la libertà di non accettare, compreso il sacrosanto dovere di accettare di non essere accettato. Quante stronzate sto leggendo in queste ore! E comunque, come ha dichiarato il grandissimo Paolo Isotta, "chiamatemi semmai ricchione! Gay è una parola pezzente. Gay è una caricatura. Peggio, è un eufemismo: Un eufemismo piccolo- borghese da mezzacalzetta". Il termine più consono a una natura curiosa di altre navigazioni, sia essa vela o vapore, è "ricchione". Ecco, già s'odono fulmine e tuono... "

Se l’intrattenimento diventa lo specchio fedele del Paese. Pubblicato martedì, 12 novembre 2019 su Corriere.it da Aldo Grasso. Commettiamo l’errore di definire spazzatura, trash, questa tv. Capita raramente che un programma tv muova pesanti accuse a un altro programma. È successo anche questo. Domenica sera, a «Non è l’Arena» su La7, Massimo Giletti ha criticato Barbara d’Urso per aver ospitato nel suo studio di «Live - Non è la d’Urso» (Canale 5, lunedì) il cantante neomelodico Tony Colombo e la consorte Tina Rispoli, saliti alla ribalta per i presunti contatti con la malavita organizzata napoletana. Da alcune settimane, il sito di «Fanpage» propone un’interessante inchiesta su «Camorra Entertainment» dove i novelli sposi fanno la loro parte. La d’Urso non è nuova a polemiche per la disinvoltura con cui sceglie i suoi ospiti: Asia Argento e il giovane Jimmy Bennett, Pamela Prati e il fantomatico Mark Caltagirone, Adriano Panzironi, l’imprenditore che promette diete e anni di vita. L’altra sera ha scatenato un putiferio con la storia delle suore incinte (un suo cavallo di battaglia). Ancora una vota il «salotto» si è trasformato in un cortile starnazzante: il giornalista Carmelo Abbate ha accusato la Chiesa di ogni nefandezza scatenando la reazione di Paolo Brosio e gli interventi di Flavia Vento, Serena Grandi, Manuela Villa, Suor Paola, Vladimir Luxuria e altri espertoni. È intervenuto persino Vittorio Sgarbi per ammonire la conduttrice: «Stai mettendo in scena lo sputtanamento della Chiesa». La d’Urso ha tenuto a precisare che va in chiesa e recita il rosario, se no chissà. Attraverso i talk, la tv ha perso i freni inibitori e mai come ora è specchio fedele del Paese. L’errore che commettiamo è quello di definire spazzatura, trash, questa tv. Forse dovremmo ammettere che è il nostro Paese a essere diventato trash, siamo noi trash. Quanti nostri parlamentari avrebbero potuto essere al posto di Brosio o della Vento o di Abbate! Si sarebbero espressi esattamente come loro, avrebbero visto nella d’Urso un faro, forti della loro capacità di inscenare solo sommari di decomposizione.

Massimo Falcioni per tvblog.it del 22 giugno 2019. Massimo Giletti torna a pungere Barbara D’Urso. “Io faccio fatica a vedere l’esaltazione del nulla, a creare la morbosità sul nulla e a creare modelli di un certo tipo”, afferma il conduttore a Belve. “Credo che ci sia una riflessione che chi sta dalla nostra parte deve porsi nel momento in cui fa un certo tipo di tv” prosegue il padrone di casa di Non è l’Arena, che però allo stesso tempo riconosce i meriti della rivale, soprattutto in termini di ascolto. “Ho grande rispetto perché fa grande televisione in numeri. Altro è porsi la domanda: che tipo di tv faccio? La D’Urso è bravissima a gestire questo tipo di tipo di televisione, poi ognuno nella vita fa quello che sente”. I riferimenti di Giletti sono chiari e hanno un nome e un cognome: Mark Caltagirone. Sulla vicenda del marito immaginario di Pamela Prati il volto di Canale 5 ha incentrato ore ed ore dei suoi programmi, creando una sorta di telenovela infinita fondata sul coinvolgimento di personaggi collaterali. E così, quando Francesca Fagnani gli chiede se fosse vera la voce di un ipotetico veto della D’Urso su un suo arrivo a Mediaset, Giletti non si trattiene: “Non credo che avrei disturbato i Mark Caltagirone. Faccio un altro tipo di televisione. Però ciascuno ha il suo territorio e pensa di tenerlo tutto per sé. Questa voce vola, si sente, ma non me l’hanno mai spiegato. La D’Urso me lo dirà, se vorrà [...] Se un numero uno come Piersilvio Berlusconi si fa dettare i temi dalla D’Urso è finita. E’ come se la Juventus si facesse dettare l’allenatore da Ronaldo, che società è? Sarebbe triste, se lo fosse sarebbe triste”.

DAGONEWS il 14 Novembre 2019. C’eravamo tanto amati. Come sembra lontano quel 7 Maggio 2017. Barbara D’Urso festeggiava i suoi primi 60 anni. Ricoperta di paillettes, si faceva fotografare abbracciata a Massimo Giletti. Lui, allora conduttore a doppia cifra di share su Rai1, era volato a Milano da Roma apposta per la sua amica del cuore. Rivali in tv il pomeriggio, la sera erano insieme a ballare sulle note di Marcella Bella. Massimo una camicia fucsia e una vistosissima giacca in velluto viola. Viola, un colore che in tv fa presagire "guai". Oggi Barbara e Massimo non si parlano più. Domenica dopo domenica gli attacchi di Giletti all’ex amica si fanno sempre più violenti, con tanto di esercito di opinionisti assoldati con l’unico obiettivo di distruggere i suoi programmi. Roba mai vista in tv, dove il competitor del canale avversario comunque si rispetta, come scrive oggi Aldo Grasso. Ma cosa è successo? Perché tanto livore? Bisogna riavvolgere il filo della storia al fatidico 2017. Il Massimo-furioso tra mille polemiche lascia la Rai dopo aver sentito puzza di epurazione per mano del renziano Orfeo, giusto due mesi dopo quella bella festa di compleanno. Approda alla corte di Cairo su La7. Lo share stellare finisce nel cassetto, ma il conto in banca certo ne guadagna. 12 mesi dopo, siamo nell’estate 2018, Urbano non ne sa nulla, ma Giletti, abbronzato il giusto, si presenta a metà luglio a Cologno Monzese. Lo aspettano al settimo piano di viale Europa 48. Tratta per lui e per la sua squadra di autori pronti tutti a trasferirsi all’ombra della torre Mediaset. Contratto di tre anni, cifra milionaria. Massimo è pronto a dire addio a La7 per un programma di prima serata e un altro la domenica pomeriggio su Canale 5. La trattativa è già nero su bianco. Mancano le ultime firme e mancano soprattutto i sondaggi marketing . Quando arrivano quest'ultimi lo stupore è tanto in Viale Europa. Ancor più preoccupati sono quelli nei palazzi di Milano 2, che fanno firmare i contratti che contano davvero a Mediaset: quelli della pubblicità. Le ricerche di mercato non sono così esaltanti su Giletti: “Non è omogeneo al prodotto offerto dal Biscione”. Il matrimonio sfuma. Sfuma il contratto milionario. La rabbia è tanta. Ovviamente , l’amica diventa il nemico numero uno. E così, quando Francesca Fagnani gli chiede se fosse vera la voce di un ipotetico veto della D’Urso su un suo arrivo a Mediaset, Giletti non si trattiene: “Non credo che avrei disturbato i Mark Caltagirone. Faccio un altro tipo di televisione. Però ciascuno ha il suo territorio e pensa di tenerlo tutto per sé. Questa voce vola, si sente, ma non me l’hanno mai spiegato. La D’Urso me lo dirà, se vorrà [...] Se un numero uno come Piersilvio Berlusconi si fa dettare i temi dalla D’Urso è finita. E’ come se la Juventus si facesse dettare l’allenatore da Ronaldo, che società è? Sarebbe triste, se lo fosse sarebbe triste”. In quei mesi Giletti arma le sue scalette di servizi ed inchieste che non fanno piacere al gruppo editoriale di Cologno. Ogni volta che si parla della morte della modella tunisina Imane Fadil si sottintende che dietro ci devono essere le notti di Arcore. Sarà mica Silvio - sostiene nel talk e nei servizi - che ha ordinato di avvelenarla? Puntata dopo puntata i toni si alzano: avranno usato il plutonio? Avranno assoldato sicari provenienti dall’est? Una, due, tre, quattro settimane. La notizia scompare dai giornali dopo le prime indiscrezioni: si tratterebbe di una rara malattia. Poi la conferma: Imane è morta per cause naturali. Fabrizio Corona fa ascolto dalla D’Urso? Giletti lo ingaggia per esclusive che non faranno bene a Fabrizio nel suo rapporto coi magistrati di sorveglianza, anzi: le gite al bosco di Rogoredo, per uno che sarebbe in prova per sfuggire alla droga, sono una delle cause del ritorno dietro le sbarre. Arriviamo al caso Prati-Caltagirone, scovato da Dagospia, cavalcato nei programmi della D’Urso. E Giletti, dopo l'estate, tratta con Pamelona un contratto d'oro per tornare sul tema, stavolta con piglio più giornalistico (dice lui). Ma il caso non decolla come un tempo. E’ la volta di Tina e Tony COLOMBO. A maggio lui, cantante neomelodico lanciato da Milly Carlucci a Ballando nel 2014, aveva sposato Tina Rispoli, un cognome pesante per chi conosce le storie di Camorra. Lei è vedova di Gaetano Marino ucciso per una faida tra clan. Il loro matrimonio blocca Napoli e fa scrivere fiumi di parole a bravi editoralisti. Occupa pagine e pagine dei settimanali, ma l’esclusiva è della D’Urso. “Matrimoni trash, bisogna vietarli?” tutti se lo chiedono, tutti ne parlano. Mediaset dice di non aver versato un solo euro per l’esclusiva. Alla coppia del momento viene pagato giusto il trasferimento Napoli-Cologno. Passano i mesi. Giletti dopo la Prati sta cercando un altro fronte per la sua personalissima guerra. L’idea gliela offre su un piatto d’argento Fanpage . I servizi- inchiesta Camorra-Entertaiment del direttore Francesco Piccinini hanno nel mirino la tv e la ribalta che viene data a fenomeni che affondano le radici nello strato meno limpido della cultura sociale partenopea. Giletti li mette nella scaletta del suo programma. Non importa che l’agente di Tony Colombo, sospettato di camorra, sia stato in affari con l’ex inviato del suo show Fabrizio Corona. Nel mirino ci sono la tv e Barbara D’Urso, colpevole di aver dato spazio a quella coppia di presunti delinquenti che tutti però volevano nei loro palinsesti. Tre domeniche a non parlar d’altro in un crescendo di accuse e frecciate velenosissime. “Mediaset fa depistaggio sociale. Chiudiamo quei programmi ” tuona Bocca, “Il proprietario di quel gruppo editoriale sa come si tratta con la mafia” rincara Peter Gomez . La sua crociata contro Mediaset e la D’Urso non eccita così tanto il pubblico, ma il bravo conduttore non demorde. Ha già annunciato che domenica prossima avrà altre rivelazioni…

Giuseppe Candela per ilfattoquotidiano.it. Una troupe del suo programma è stata aggredita ieri a Napoli mentre cercava di intervistare il cantante Tony Colombo. Cosa è successo?

“Quando vai sulle tracce di qualcosa che si cerca di non raccontare, il rischio che qualcuno si inquieti c’è. La troupe ha avuto un po’ di difficoltà ma non ne farei un caso. Chi va avanti sa che è complicato.”

L’aggiornamento, l’ennesimo, di un caso che sta catalizzando l’attenzione dei media. Il matrimonio tra il cantante di origine siciliana e Tina Rispoli, vedova del boss Gaetano Marino, è finito al centro della scena dopo le numerose ospitate nei contenitori di Barbara D’Urso. I rapporti tra la musica neomelodica e la malavita organizzata sono, invece, al centro dell’inchiesta di Fanpage, Camorra Entertainment, e della trasmissione Non è l’Arena condotta da Massimo Giletti.

Cosa l’ha colpita di più in questa storia?

“Mi ha sorpreso l’uso che ne ha fatto il piccolo schermo. La distorsione della realtà che passa attraverso l’uso forzato del mezzo televisivo.”

Il legame tra camorra e la musica neomelodica non è però una novità degli ultimi giorni.

“Le rispondo con una domanda: chi era Tony Colombo prima di andare in televisione? Nel momento in cui gli dai spazio non puoi non renderti conto dell’effetto della continuità della presenza di chi non deve stare in televisione e non deve diventare personaggio.”

Rispoli e Colombo possono essere messi sullo stesso piano?

“Sono storie diverse. Lui fa il cantante neomelodico e la storia racconta che a Napoli, soprattutto i giovani cantanti, sono ‘costretti’ ad andare a cantare senza chiedere la carta d’identità a chi li invita. Tina Rispoli è una vedova di camorra, è una che sa cosa fa, sa chi sono i suoi familiari, sa chi era suo marito. Quando tu accetti di far dire alla Rispoli ‘siete voi che dite che sono legata alla camorra’ non va bene, sono i fatti che parlano di una situazione che stride con la descrizione che fa Barbara (D’Urso, ndr) della principessa con la coroncina. La distorsione della realtà passa attraverso anche tutto questo e noi non possiamo accettarlo.”

La D’Urso ha concesso il diritto di replica, seppur con Veronica Maya e Alessandra Mussolini a fare da contraddittorio, perché sotto testata giornalistica.

“Mi chiedo ma siamo sicuri che sia sotto testata giornalistica? Quel modo di fare televisione si può nascondere dietro la dicitura testata giornalistica? Davvero essere giornalisti vuol dire avere un patentino o una sigla? Se è così io qualche domanda inizio a pormela perché per me essere giornalisti è tutt’altra cosa.”

“Per l’esclusiva di Barbara mi hanno dato un botto di soldi per venire al matrimonio”, ha dichiarato Colombo parlando delle ospitate dalla D’Urso. Parole che non sono mai state smentite ma nemmeno confermate da Mediaset. Fosse vero la considererebbe una cosa grave?

“Ognuno sceglie di spendere i soldi nei propri programmi come meglio crede. Io nella mia vita ho sempre risposto alla mia coscienza e al mio direttore. Il punto non è se e quanto hanno pagato, il punto è che non si può far finta di non sapere cosa si racconta in televisione. Se racconti il matrimonio devi sapere cosa si nasconde dietro il matrimonio. Le sembra normale che a Napoli, al Maschio Angioino, quel giorno doveva tenersi un incontro delle vittime di camorra e sono dovuti andare da un’altra parte? Questo mi amareggia.”

Colombo aveva partecipato a Ballando con le Stelle nel 2014, quando però non era fidanzato con Tina Rispoli. Nel 2010 la figlia della Rispoli e del boss Marino partecipò al programma “Canzoni e Sfide” su Ra2, nel 2016 l’altro figlio Nicola fece la comparsa in Gomorra su Sky. Allargando il discorso, a giugno è finito nel mirino Realiti di Lucci per lo spazio concesso a Zappalà che offese la memoria di Falcone e Borsellino. Un quadro più ampio, non solo la D’Urso.

“Se vogliamo essere ipocriti per me non c’è problema. Io ho fatto vedere a Non è l’Arena anche le immagini del programma di Rai2, se poi vogliamo dare lo stesso peso a un programmino estivo in seconda serata e più serate su Canale 5 o siamo ipocriti o vogliamo nascondere la realtà. Sto parlando di una continuità e non di una apparizione. Vogliamo paragonare la dichiarazione di un neomolodico su Rai2 con un matrimonio in diretta e la reiterazione dell’invito su Canale 5 a Colombo-Rispoli?”

Tra gli indagati per il discusso flash mob in occasione delle nozze c’è anche Claudio De Magistris, fratello del sindaco di Napoli. La questione è anche politica?

“Io sono sempre garantista, vedremo quello che succederà. De Magistris disse che Tony e Tina dovevano essere trattati come tutti i cittadini, bisogna certamente avere rispetto per tutti ma il problema è quello che rappresenta la coppia. Alla camorra non basta esercitare il potere, deve esistere. Dove meglio esiste? In televisione, con una carrozza che sfila tra le vie di Napoli.”

Lei ha invitato Tony Colombo e Tina Rispoli a Non è l’Arena?

“No, non li ho invitati. Io quando facevo L’Arena dissi no anche all’intervista al figlio di Totò Riina, feci una scelta. Per me non bisogna dare spazio.”

L’inchiesta è partita da Fanpage. La tv rincorre il web o è il web che ha bisogno della tv per rafforzarsi?

“Io rincorro le inchieste. Ho un rapporto personale con il direttore Piccinini da anni, abbiamo fatto insieme molte battaglie. Credo ci sia stima reciproca.”

“La televisione ha trasformato in show una guerra di camorra”, ha detto Saviano.

“A Saviano hanno fatto la guerra perché raccontava la realtà, qui c’è la realtà ma c’è un silenzio incredibile, totale.”

Lei ha dato molto spazio a Fabrizio Corona, anche lui personaggio discusso.

“Ho fatto due puntate ma quando è venuto io ho elencato i suoi reati e non l’ho mai chiamato ‘principe’. In tv puoi parlare di tutto, è il modo con cui ti rapporti a chi hai davanti che cambia tutto. Qui stiamo parlando di camorra che è una cosa ben diversa.”

Hanno scritto che la D’Urso avrebbe in passato ostacolato il suo arrivo a Mediaset. E’ vero?

“Lo dicono in molti, io ho sempre pensato che se l’editore si lascia imporre le regole del gioco da un conduttore non fa il suo lavoro. Ho dialogato con Mediaset poi non si è andati oltre, bisognerebbe chiedere a loro il perché.”

Non è l’Arena ottiene tra il 5 e il 6% di share, soddisfatto?

“Siamo il serale più visto di La7 in una domenica piena zeppa di concorrenza. Quest’estate ho detto che avrei messo trenta firme per toccare il 6% in una giornata così difficile, sono due puntate che raggiungiamo questi ascolti e sono molto contento. Dietro Non è l’Arena c’è un grande gruppo di lavoro.”

Domenica scorsa ha detto: “Ciao da zio Giletti”, riferendosi alla figlia di Matteo Salvini. Perché?

“Ma davvero dobbiamo soffermarci su questa cosa?”

E’ stato molto criticato sui social.

“Non capisco qual è il problema. Due settimane prima era venuta la Meloni e avevamo salutato la figlia Ginevra, venne la Madia incinta. C’è una bambina che ti guarda trovo normalissimo il saluto, non l’ho mai vista in vita mia.”

Quando qualcuno dice che il suo programma è populista o sovranista si arrabbia?

“E’ l’alibi della politica che non vuole cambiare, io ho scelto di raccontare quello che succede nel Paese. Se qualcuno avesse ascoltato quello che racconto dal 2010 forse il Movimento 5 Stelle non avrebbe avuto la forza dirompente che ha avuto. Se il potere non ascolta la pancia del Paese vuol dire che si tratta di un partito destinato a non incidere.”

Le manca la Rai?

“E’ qualcosa che ho dentro, è inevitabile che sia parte di me. A La7 ho trovato un direttore con cui mi confronto tutti i giorni e un editore con cui ho un rapporto profondo.”

Quest’estate è stato vicino a un ritorno a Viale Mazzini, cosa è successo?

“Chi fa il mio lavoro è sempre in prima linea, deve avere la certezza di due cose: la libertà e la difesa del direttore e dell’editore in un momento critico. Io queste certezze non le ho avute.”

Senza girarci intorno, a cacciarla fu Mario Orfeo. Lo ha più sentito?

“A distanza di anni ringrazio Mario Orfeo.”

In che senso?

“Perché mettersi alla prova nelle tempeste e uscirne in piedi, con coraggio e dignità, è una prova a cui sono stato costretto ma che, a distanza di anni, mi ha rafforzato come uomo e come professionista. Se non ci fosse stato lui non avrei vissuto queste emozioni difficili da superare ma molto importanti per un uomo.”

Giovedì scorso è stato ospite di Celentano, il pubblico non ha certamente risposto in massa. Cosa non ha funzionato?

“Essere stato a quel tavolo è parte della mia storia. Tutto il resto, come diceva Califano, è noia.”

Ha litigato con Chef Rubio, ora fuori da Discovery, dopo la morte dei agenti uccisi alla Questura di Trieste.

“Ci sono due ragazzi morti e nessuno di noi può sapere, dopo poche ore, cosa è successo in quella Questura. Esprimere giudizi e dire ‘non mi sento tutelato da questa polizia’ non va bene. Questa voglia narcisistica di essere sempre al centro di tutto la trovo stucchevole e in alcuni frangenti è irrispettoso verso chi non c’è più.”

E’ vero che le hanno proposto di entrare in politica?

“La politica debole cerca sempre facce che possano portare a casa voti, ricordo Gruber o Santoro.”

Lo farebbe?

“Non è questo il modo di far politica, se pensi di prendere uno solo perché ha una faccia nota. Per essere usato non lo farei, è una esperienza che in futuro potrei fare ma solo potendo incidere realmente.”

E se il suo editore Urbano Cairo entrasse in politica?

“Cairo è troppo intelligente per entrare in politica, ci può giocare e farlo credere ma sa bene che il suo futuro sarà diverso.”

Nek e l'appello per Bibbiano: "Vogliamo la verità". Nek, dopo la Pausini, lancia un messaggio su social su quanto accaduto ai bimbi tolti alle loro famiglie per essere affidati ad altre coppie. Angelo Scarano, Sabato 20/07/2019, su Il Giornale. Il mondo della musica si mobilità per far luce sui fatti di Bibbiano. Diversi volti noti della musica italiana chiedono la verità su quei bambini tolti ai genitori per essere poi affidati (nel silenzio più assoluto) ad altre coppie. La prima voce ad alzarsi in questo senso è stata quella di Laura Pausini. Proprio la cantante romagnola ha voluto lanciare un appello molto chiaro: "Ho appena letto un articolo e sono senza parole, senza fiato, piena di rabbia nei miei pugni. Mi sento incazzata, fragile, impotente". E ancora: "Ho deciso di cercare questa storia, perché una mia fan mi ha scritto pregandomi di informarmi. Non ne sapevo nulla. Non posso credere che abbia dovuto cercare questa vicenda, perché sì, quando sono in tour sono spesso distratta dall’attualità e dalla cronaca ma questa notizia è uno scandalo. Cosa si può fare? Come possiamo aiutare?". Adesso su questa vicenda (che da settimane ilGiornale.it sta raccontando) è intervenuto anche Nek che con un post sui social ha chiesto la verità su quanto accaduto a Bibbiano. Il cantante non usa giri di parole e anche lui dai social lancia un appello che ha fatto in poche ore il giro del web: "Sono un uomo e sono un papà. È inconcepibile che non si parli dell’agghiacciante vicenda di #bibbiano Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico. È proprio così. Ci sono intere famiglie distrutte, vite di bambini di padri e di madri rovinate per sempre...e non se ne parla. Ci vuole giustizia!!". Insomma la storia dei bimbi di Bibbiano grazie anche ai messaggi dei volti noti dello spettacolo tenta di rompere il muro del silenzio che diversi organi di stampo hanno creato attorno a questa vicenda. E c'è da giurare che l'appello di Nek non resterà isolato e non sarà certo l'ultimo. Altri cantanti sono pronti a chiedere la verità e a dar voce ad una vicenda su cui è importante tenere alta l'attenzione.

Da Nek a Mietta e Laura Pausini anche i VIP contro il silenzio su Bibbiano. Letizia Giorgianni il 21 Luglio 2019 su La Voce del Patriota. Mentre il Pd minaccia querele a chiunque parli della vicenda ed il suo segretario Zingaretti risponde con una risata alla domanda della giornalista, l’indagine sugli affidi di Bibbiano si estende a nuovi casi, che riguardano anche altri comuni, e che getterebbe ombre su oltre 70 affidi. Si perché, mentre il pool degli avvocati del Pd sono impegnati affinché “nessuno osi strumentalizzare” la vicenda, i magistrati del Tribunale e della Procura dei minori di Bologna, su ordine del Presidente Giuseppe Spadaro, stanno ricontrollando tutti i dossier trattati negli ultimi due anni dalla rete dei servizi sociali per 6 Comuni. Impossibile ormai arginare lo sdegno provocato da una tale mercificazione  e violazione dell’infanzia; non basta più il silenzio dei media e neppure l’infaticabile lavoro della fallimentare agenzia on-line di Mentana, impegnata alacremente a far sgonfiare l’inchiesta con notiziole ininfluenti (tipo il finto prete che parlava di Bibbiano). Lo sdegno della gente comune è tangibile. E allo sdegno della piazza, (l’ultimo corteo a Bibbiano proprio ieri) adesso si unisce anche quello dei vip, come la Pausini, Nek, e nella tarda serata di ieri anche la cantante Mietta, che dopo aver letto su Instagram lo sfogo di Nek, chiede a quest’ultimo la possibilità di condividere il post, appoggiandolo in pieno. Niente prime pagine per loro però. I loro post sono passati praticamente inosservati, ignorati. Dal canto loro i media, o per lo meno quelli che ritengono che l’informazione sia un diritto solo quando non lede gli interessi del padrone, continuano a tacere. Anzi, adesso, dopo la presa di posizione di personaggi dello spettacolo, tacere non gli basta più. Sono passati all’attacco, dimenticandosi completamente ogni regola, oltre che deontologica di buon senso, di quella che dovrebbe essere l’attività di un cronista. C’è infatti persino chi tenta di ironizzare e mettere alla berlina coloro che vogliono venga fatta completa luce sulla vicenda. Lo fa Repubblica, che chiama con disprezzo gli indignati “complottisti da social” ma anche La Stampa, che titola un articolo, (che di informativo non ha proprio niente): E allora Bibbiano? con il chiaro intento di descrivere in toni grotteschi chi osa collegare l’inchiesta di Bibbiano al Pd. Nell’articolo la giornalista, incredibilmente, parla di “luoghi comuni e falsità contro il Pd” di chi vuole strumentalizzare la vicenda per interessi personali. Probabilmente ne sa più lei che i pm che si stanno occupando dell’inchiesta. Fa eco Next, che di tutta l’inchiesta, documentata anche da intercettazioni, ci propina un “trattato” sull’uso improprio della parola “elettroshock” sui bimbi, rassicurandoci che non si è trattato di un vero e proprio elettroshock ma di “stimoli di tipo elettrico usati nella terapia per superare alcuni tipi di traumi”. Certo, adesso ci sentiamo sicuramente sollevati. E ci domandiamo se non vogliano anche loro prendere il posto degli inquirenti che si stanno occupando della vicenda. Per fortuna esistono anche giornalisti che alle imbarazzanti forme di autocensura preferiscono la coraggiosa e dolorosa ricerca delle verità nascoste. E anche la politica lo deve fare. E non si tratta di strumentalizzazione, si tratta di tenere ancora i riflettori accesi affinchè venga fatta piena luce sulla vicenda. Se non si considerano le responsabilità politiche ci ritroveremo tra qualche anno a dover affrontare un altro caso, altre vittime. Ricordiamo che prima Forteto e oggi Bibbiano si sono generati negli stessi ambienti culturali e politici. In tutti questi casi il silenzio è stato il nutrimento che ha consentito a queste realtà di operare per anni in modo incontrastato.

#ParlatecidiBibbiano. Perché la cacca non diventi… cioccolata. Cristiano Puglisi 23 luglio 2019 su Il Giornale. Ancora mutande sporche di Nutella. Questa volta al Comune di Bibbiano. A consegnarle, in sei borsette chiuse destinate ad altrettanti e differenti destinatari, tutti interni alla macchina comunale, è stato nuovamente il misterioso gruppo degli “Idraulici”, che già si era distinto per un’azione similare nei confronti della nave della ONG“ Open Arms”, ormeggiata al porto di Lampedusa. Il gruppo di attivisti, vestiti proprio da idraulici, ha fatto irruzione sabato mattina negli uffici comunali e ha recapitato la “castana” sorpresa a quelli che ha identificato come i responsabili dello scandalo relativo agli affidi. “Gli Idraulici – hanno poi spiegato gli autori del gesto in un comunicato stampa - non dimenticano qual è il loro compito principale, la ragion stessa del loro esistere: sturare quelle situazioni in cui l’accumulo di merda è diventato eccessivo. Bibbiano è una latrina a cielo aperto, la cui puzza viene coperta e deviata in ogni modo dal silenzio di sistema. È in questi frangenti che un Idraulico torna utile!”. “Non ci sono stati – dice ancora il comunicato – servizi-scandalo, maratone, titoloni a tutta pagina e chi ha provato a richiamare l’attenzione è stato immediatamente tacitato con news spacciate come prioritarie. Ma gli Idraulici arrivano come il destino, senza pretesti, senza riguardo, esistono come esiste il fulmine! E con loro, la gente d’Italia, che nella famiglia naturale ha un cardine imprescindibile(…)”. Il gruppo degli “Idraulici” è ritenuto vicino al think tank identitario Il Talebano. “Quanto è successo a Bibbiano è un fatto tremendo, la politica deve intervenire fermando la sperimentazione sociale attuata nelle scuole di stato sui bambini – ha commentato al proposito Fabrizio Fratus, fondatore proprio de ‘Il Talebano’ – Le strutture pubbliche non devono essere utilizzate per fini ideologici”. Già. Eppure il fecale fetore dei fatti di Bibbiano sembra, nella grande stampa generalista, essere già stato dimenticato. Passato in secondo piano, destinato non più alle prime pagine (come invece capita agli scontri tra le ONG e l’attuale ministro dell’Interno e al ridicolo “Russiagate” all’amatriciana), ma, al più, alla cronaca giudiziaria. #ParlatecidiBibbiano è l’hashtag-denuncia che sta circolando in queste ore su Twitter, rilanciato, tra gli altri, anche dal presidente di CulturaIdentità, Edoardo Sylos Labini. Giusta iniziativa, perché di Bibbiano si deve parlare. Se ne deve parlare per rispetto verso i bambini, vittime innocenti e senza difesa, e verso le famiglie coinvolte. È una questione morale, prima che giornalistica. Perché non si può consentire che la cacca, ancora una volta, diventi cioccolata.

Sui social centinaia di meme e post costruiti ad arte accusano media, Partito Democratico e movimento Lgbt di aver oscurato l’inchiesta di Reggio Emilia sui presunti abusi. Nadia Ferrigo il 18 Luglio 2019 su La Stampa. «Allora Bibbiano?» La «guerriglia culturale» invocata da VoxNews.info, l'autodefinitosi «quotidiano sovranista» Il Primato Nazionale e da una nebulosa galassia di decine di pagine Facebook dai nomi più o meno evocativi, ha un nuovo tormentone: l'inchiesta sui presunti abusi su minori in provincia di Reggio Emilia. Ne parlano centinaia di post e articoli, condivisi e commentati migliaia di volte sui social: nulla aggiungono, se non notizie false e un minestrone di pregiudizi e luoghi comuni che vanno dai «risultati della campagna Lgbt per distruggere la famiglia naturale e diffondere la teoria gender» a una «ideologia aberrante che mira alla disgregazione totale della famiglia nel nome del gender, del femminismo, della famiglia arcobaleno, dei diritti/capricci». Colpevole è il Partito Democratico, che con «la complicità dei media» vuole mettere a tacere la vicenda. Una squallida speculazione, con argomenti che nulla hanno a che fare con l’inchiesta di Reggio Emilia. Cosa c'entrano per esempio Luciana Littizzetto, Fabio Volo, Roberto Saviano e Laura Boldrini? Assolutamente nulla. Ma sono decine i meme che accostano le loro fotografie al «connivente silenzio dei media» sull’indagine. Lo stesso accade sugli account Facebook e Twitter dei media nazionali. Le notizie di politica sono bersagliate dallo stesso, squallido ritornello: «Parlate dei rubli, per non parlare di Bibbiano». Nella lettura complottista di una galassia di siti specializzati nella produzione di bufale e fake news virali, i media sono complici di Pd e movimento Lgbt: l’obiettivo di tutti sarebbe nascondere la realtà. Ecco i fatti. Giovedì 27 giugno i carabinieri di Reggio Emilia hanno messo agli arresti domiciliari sei persone al termine di un'indagine su un'organizzazione criminale che da una parte aveva lo scopo di togliere bambini a famiglie in difficoltà e affidarli a famiglie di amici o conoscenti, mentre dall’altra gestiva illecitamente fondi pubblici. L'indagine si concentra dell'affidamento di sei bambini legati ai servizi sociali dell'Unione Val d'Enza, un consorzio di sette comuni che condividono la gestione di molti servizi. La notizia è stata riportata da tutti i principali media italiani, che continuano a seguirne gli sviluppi. Ma la campagna d’odio, anche in assenza di notizie, va alimentata: online le varianti morbose sono infinite, per forza ripetitive. Spesso ricostruzioni assolutamente false. Titola l’ultimo link di VoxNews.info: “I mostri di Bibbiano occupano aula contro Salvini”. Le fotografie sono quelle della protesta dei parlamentari del Pd, che chiedono che il ministro Matteo Salvini riferisca in Parlamento sulla vicenda dei fondi russi alla Lega. Nulla a che fare con l’inchiesta. Tra i più attivi su Facebook, gli account legati all’estrema destra. Un esempio, il «Gruppo Gnazio». I post con riferimenti a Bibbiano sono decine, i commenti assolutamente irripetibili. Tra quelli che senza vergogna si possono riprendere c’è: «Vauro ha la matita rotta, nessun commento sui bambini di Bibbiano?». Continua a essere postato e ripostato il video attribuito a Bibbiano – ma che in realtà si riferisce a un’altra vicenda di cronaca, come raccontato da Open – di un bimbo che si dispera perché separato dal padre. Filmato postato anche dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Questa squallida campagna di speculazione su una vicenda giudiziaria ancora agli esordi, cui prodest? A chi giova? Non certo ai bambini. Nè a quelli vittime degli abusi – che per oltre il 70% avvengono in famiglia – né ai bambini presunte vittime degli errori del sistema di affidamento. A decidere non saranno né i social né le invocate «indagini giornalistiche», ma la magistratura.

Commento di Alessandra Ghilardini: Questo sotto è una parte di quello che scrivevate nel non tanto lontano 31 luglio 2016...definendo l'unione val d'Enza una lavatrice sana....quindi non mi stupisco ora la vostra improvvisa prudenza e ritrosia nel commentare anni di abusi perpetrati da chi voi esaltavate come la soluzione ai problemi di quella "cattivona" (mio aggettivo) modello di famiglia patriarcale così definito da quella brava professionista Federica Aghinolfi.

"La Val d’Enza. C’è un posto in Italia dove la lotta alla pedofilia è una priorità assoluta. E i risultati si vedono. È un fazzoletto di terra in provincia di Reggio Emilia dove gli otto comuni della Val d’Enza - 62mila abitanti, 12mila minorenni, 1900 in carico ai servizi , 31 seguiti per abusi sessuali - hanno costituito un’Unione guidata dal sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, per tutelare i minori. E magari cambiare anche la testa di chi non vede il problema. «Abbiamo fatto rete e lavoriamo con operatori specializzati capaci di dare risposte rapide. La variabile tempo è decisiva», dice Carletti. È seduto di fianco al medico legale Maria Stella D’Andrea e all’assistente sociale Federica Anghinolfi. «Noi la volontà politica l’abbiamo avuta. E nonostante i tagli abbiamo anche trovato i soldi». Come li hanno spesi? Facendo formazione sugli operatori per renderli in grado di leggere in anticipo i segnali di malessere, spesso aspecifici, dei bambini, rivalutando la figura dell’assistente sociale, lavorando con gli ospedali e con le scuole e appoggiando in modo esplicito le vittime della violenza. Ad esempio costituendosi parte civile in un processo contro una madre che faceva prostituire la figlia dodicenne. Favoloso. Ma i soldi? «Abbiamo cercato di ricorrere meno alle comunità (che pure sono fondamentali) dove per seguire un bambino servono 50mila euro l’anno. E abbiamo incentivato il ricorso agli affidi, che costano molto meno». Le idee. Un piano capillare. La professionalità degli operatori. «Per noi è decisiva la riumanizzazione delle vittime. E per questo servono empatia e competenze specifiche. Ma sa quanti sono i corsi di laurea, a medicina o a psicologia, che prevedono la materia: “vittime di violenza”? Zero», dice Maria Stella D’Andrea, che chiede al governo interventi non solo teorici. La legge di Stabilità del 2016 ha previsto, ad esempio, un “percorso di tutela delle vittime di violenza” rimandando a un decreto della presidenza del consiglio la definizione delle linee guida. Ma il decreto non è mai arrivato. E anche se arrivasse ci sarebbe la garanzia della sua applicazione? Dubbio legittimo. «Dal 2001 la legge prevede l’obbligo per il sistema sanitario di mettere a disposizione delle vittime uno psicoterapeuta. Ma, mancando i soldi e mancando una visione, mancano anche gli psicoterapeuti. Però tutti zitti. In questo Paese è ancora troppo forte l’idea della famiglia patriarcale padrona dei figli», dice Anghinolfi. Così in provincia di Reggio insistono con il fai da te. E a settembre, grazie anche alla consulenza del centro studi Hansel e Gretel di Torino, apriranno un Centro di Riferimento per minori che garantirà formazione, tutela, ascolto e assistenza. Venite qui, vi diamo una mano. Il sistema? Lo chiamano “riciclo delle emozioni”. Come se i bambini finissero dentro una lavatrice sana e cominciassero a lavarsi dentro. Ora, il modello degli otto comuni dell’Unione Val d’Enza è lì, basta allungare una mano e prenderlo. Interessa?"

Non è più tollerabile. Luca Bottura il 21 luglio 2019 su La Repubblica. Ameno stavolta. Filippo Neviani in arte Nek esordì a Sanremo con una canzone antiabortista che risulta tutt’ora nella lista dei crimini contro l’umanità, dopo Nagasaki e Hiroshima ma comunque prima del gelato al gusto Puffo. Successivamente prestò la sua immagine a una campagna contro la droga condotta fianco a fianco dell’allora ministro Giovanardi e di un cane poliziotto. Il cane cominciò a drogarsi di lì a breve. Non stupisce che ieri abbia pubblicato sui social un post indinniato sulla vicenda di Bibbiano, l’indagine su presunte sottrazioni di minori nel Reggiano, corredata da uno striscione in caratteri postfascisti nel quale si attribuisce al Pd il ratto dei piccoli. Quella di Nek viene subito dopo la presa di posizione social di Laura Pausini, a sua volta desiderosa di squarciare la coltre di silenzio su un evento di cui parlano tutti dacché è emerso, e di Enrico Ruggeri, che l’altro giorno accusava Zingaretti di aver preso i rubli prima di Salvini. Successivamente, la Pausini è stata ripresa dal sottosegretario contro gli Interni, Sibilia, mentre a Nek è toccato il retweet di Giorgia Meloni. La domanda sorge spontanea: ma il povero Povia, che il sovranista da pentagramma lo faceva quando non era ancora così di moda, sarà contento di vedere tutta ‘sta gente sulla Lada dei vincitori?

“E allora Bibbiano?”: Pd, media, movimento lgbt nel mirino dei complottisti da social. La macchina dell'odio che specula sull'inchiesta "Angeli e demoni" di Reggio Emilia si è riattivata alcuni giorni fa, dopo le parole del vicepremier Di Maio. E cerca di saldarsi all'indagine statunitense sul miliardario Jeffrey Epstein. Segnalato un utente che ha minacciato di morte il deputato dem Andrea Romano. Simone Cosimi il 19 luglio 2019 su La Repubblica. L’operazione è stata certificata dal vicepremier Luigi Di Maio. Intervistato sugli scenari politici, in merito a un possibile accordo di governo col Pd ha spiegato che il M5S non avrebbe mai fatto un’alleanza “con il partito di Bibbiano”. In risposta, i dem hanno annunciato una querela al ministro dello Sviluppo economico. Non era una dichiarazione campata in aria. Da qualche giorno l’implacabile macchina della calunnia si è messa in moto sui social network, dove l’inchiesta "Angeli e demoni" sul sistema illecito di gestione dei minori in affido in Val d’Enza, secondo l’accusa strappati alle famiglie con manipolazioni e pressioni e assegnati ad altri nuclei, viene da giorni sfruttata come stigma con cui screditare e attaccare il Partito democratico. E non solo. Il gancio è con l’ormai ex sindaco sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, indagato per abuso d’ufficio e falso ideologico. Secondo i pm avrebbe saputo del sistema e avrebbe deciso, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, “lo stabile insediamento di tre terapeuti privati della Onlus Hansel e Gretel all’interno dei locali della struttura pubblica ‘La Cura’”. Sui social il topic "Bibbiano" è montato in questi giorni come una gelatina in cui avvolgere una nuova campagna d’odio dalle mille facce. Davvero una delle più scivolose degli ultimi tempi. Passando anche dalle parole del vicepremier, che il 18 luglio in diretta Facebook ha detto: "Col Pd non ci voglio avere nulla a che fare, con il partito di Bibbiano che toglieva i bambini alle famiglie con l’elettroshock per venderseli non voglio averci nulla a che fare e sono stato in questo anno quello che più ha attaccato il Pd". Centinaia di post, articoli e meme (alcuni raffiguranti personaggi come Roberto Saviano, Fabio Fazio, Luciana Littizzetto, Fabio Volo o Laura Boldrini con la mano sulla bocca, rei di aver censurato il tema) hanno nel corso dei giorni mescolato il fatto a mille altri cavalli di battaglia del sovranismo e populismo digitale, transitando da siti come VoxNews.it, dalle galassie social sovraniste – come l’intervento del consigliere di Ostia di CasaPound, Luca Marsella - fino a eventi reali. Come quello di ieri organizzato da Fratelli d’Italia con ospite Alessandro Meluzzi che in un video rilanciato da Giorgia Meloni (fra gli account più attivi per l’hashtag #Bibbiano insieme a quello di Francesca Totolo, collaboratrice del Primato nazionale, il sito di CasaPound, e di @adrywebber) spiega che “il caso di #Bibbiano è solo la punta dell'iceberg”. Dalla teoria gender alla “campagna Lgbt per distruggere la famiglia naturale”, come si legge in altri post, tutto – secondo l’intossicazione in corso – è coperto dal Pd che avrebbe lanciato il diversivo del Russiagate “divulgato provvidenzialmente dopo #Bibbiano, lo scandalo del #Csm e quello della sanità in Umbria” come scrive Totolo in una battaglia che nella mattinata di venerdì l’ha contrapposta all’eurodeputato Pd Carlo Calenda, che è ripetutamente intervenuto per tentare di contrastare la campagna d’odio e disinformazione. Perché Bibbiano è diventato ormai il ritornello con cui un ristretto ma agguerrito gruppo di account risponde a qualsiasi post o contenuto, specialmente se pubblicato da esponenti Pd o giornalisti. La “world cloud” delle parole più usate in quei contenuti e in quelle risposte è composta da “bambini”, “scandalo”, “caso”, “fatti”, “famiglie”, “attenzione” e poi “minori”, “inchiesta”. C'è chi si è spinto oltre: Andrea Romano, deputato del Partito democratico, ha segnalato alla polizia di aver subito minacce di morte su Twitter dall'utente @VincenzoMoret17 per la vicenda del presunto screzio con la deputata dei 5 Stelle Francesca Businarolo. La vicenda è slegata da quella di Bibbiano, ma l'utente ha twittato le sue minacce usando l'hashtag #Bibbiano. Gli hashtag che raccolgono le diverse articolazioni della campagna sono #Bibbiano e #BibbianoPD. Anche se a scavare bene, il primo a muovere le truppe dell’odio è stato uno ben più pesante: #PDofili, decollato dal 27/28 giugno, per esempio col tweet di  @alberto_rodolfi in risposta a Matteo Orfini o di @ValeMameli. Il più condiviso è stato quello di @PiovonoRoseNoir, il cui si dice che “da oggi non sono più #PDioti ma #Pdofili. Hanno fatto il salto di qualità le merde”. A firmare i contenuti, a conferma di squadriglie piccole ma agguerrite, sono stati 2.600 utenti per 6.200 post fra tweet e retweet. Ma solo poco più di 400 utenti hanno postato un contenuto originale. Nonostante si sia ormai spento da giorni, anche per i timori di querela traslocando #BibbianoPD, è ancora ricco di orrori di ogni genere. Ne escono collage fotografici con i personaggi citati sopra, e altri come Lucia Annunziata, la senatrice Monica Cirinnà o la nostra giornalista Federica Angeli, e la frase “Tutti muti su Bibbiano”. Contenuti fuori da ogni senso e contesto come vecchi spezzoni di video in cui Matteo Renzi elogiava il sistema degli asili nido di Reggio Emilia o di un bambino disperato perché separato dal padre ma, come ha svelato Open, attribuibile a un’altra situazione in Sardegna di due anni fa. E ancora, orribili vignette con protagonisti bambini sottoposti a sevizie elettriche, ritornelli contro il “silenzio dei media”, che in realtà stanno coprendo approfonditamente il caso, e sul “sistema che ruba i bambini”. Non basta. Negli ultimi giorni sembra essersi saldato anche un ponte digitale con le vicende che negli Stati Uniti hanno portato in carcere il miliardario Jeffrey Epstein, ex amico di Bill Clinton, del principe Andrea, duca di York, ma anche di Donald Trump, accusato di sfruttamento sessuale dei minori fra 2002 e 2005 e che ora rischia fino a 45 anni di carcere. Alcuni tweet (basta scorrere quelli dell’utente @DPQ87968970) tentano di trapiantare quella vicenda, innestandola sul tessuto dell’inchiesta italiana di Bibbiano e simili, con un obiettivo: avvalorare la folle tesi di un sistema internazionale, una specie di Spectre per cui la pedofilia è uno strumento per tenere sotto controllo politici e le mosse dei governi. L’hashtag è, non a caso, #PedoGate e raccoglie fra l’altro riferimenti ai più diversi casi di cronaca del passato, anche italiano, che ovviamente non hanno alcun collegamento l’uno con l’altro. Ricapitolando, gli hashtag più utilizzati su Twitter – che è il canale principale su cui si sta squadernando l’operazione – sono #bibbiano, #bibbianopoli (che sta decollando proprio in queste ore, quasi in contrapposizione a Moscopoli), #bibbianopd (su cui tuttavia poco meno 300 profili nell’ultima settimana hanno pubblicato post originali, il più popolare è l’elogio degli asili nido di Renzi, nel 2012, il secondo più diffuso è del deputato 5 Stelle Massimo Baroni che rilancia il meme con Saviano e gli altri accomunati dalla scritta “Bibbiano”), #bibbianonews, in ordine decrescente di utilizzo. In una decina di giorni, tutti i contenuti sul tema, sempre rimanendo al social dell’uccellino, sono circa 78mila. Non c’è nulla di casuale: il numero relativamente basso delle utenze più attive coinvolte e il loro schema d’azione – quasi sempre risposte a post del Pd e di altri – racconta dell’ennesima operazione coordinata. Sono infine dati e tendenze che dimostrano la reale capacità di influenzare e raggiungere altri utenti perché non includono gli utenti o i contenuti” nascosti” da Twitter in quanto offensivi o dannosi secondo gli ultimi aggiornamenti delle regole della piattaforma.

Quelle bufale crudeli sulla pelle dei bambini. Angela Azzaro il 20 luglio 2019 su Il Dubbio. Non si sa nulla o si sa male, ma ci si sente in dovere di aizzare la folla. Lo ha fatto anche Laura Pausini. Nei giorni scorsi sui social girava un messaggio che accusava l’informazione di aver oscurato il caso di Bibbiano. Era un post molto sentito, molto emotivo. E diceva una marea di fesserie. In primo luogo l’accusa rivolta a giornali e tv. Se c’è infatti un caso che ha avuto una risonanza immediata, e fuori luogo, è stato proprio quello dell’inchiesta sull’affido di alcuni minori. Il commento, condiviso da migliaia di persone, faceva riferimento a centinaia di bambini strappati ingiustamente alle loro famiglie. L’inchiesta di Bibbiano, chiamata dalla procura “Angeli e demoni” a uso e consumo del processo mediatico, in realtà riguarda solo 6 casi. Ma l’opinione pubblica, abilmente strumentalizzata, ha già deciso che le persone coinvolte nell’inchiesta a vario titolo siano mostri, persone orribili che andrebbero più che processate mandate alla ghigliottina. La stessa sorte che è toccata al sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti: coinvolto nell’inchiesta con l’accusa di abuso di ufficio e falso in atto pubblico è invece diventato, anche grazie alle dichiarazioni del vicepremier Luigi Di Maio, il simbolo di un sistema corrotto con cui invece non c’entra nulla anche per la procura. Bene ha fatto il Pd di Zingaretti a querelare per diffamazione il vicepremier dei 5 Stelle. Ma forse anche il Partito democratico avrebbe dovuto non solo rifiutare qualsiasi accostamento tra l’inchiesta e il proprio simbolo, ma dire che un’inchiesta non è una condanna e che soprattutto su temi così delicati bisognerebbe essere molto, ma molto cauti. Così non è stato. La conferenza stampa organizzata dalla procura di Reggio Emilia è diventata subito spettacolo, titoli sparati a tutta pagina. Si voleva l’orrore, il sangue, e si è fatto di tutto per costruirlo. Emblematici i titoli sul cosiddetto elettrochoc, in realtà un macchinario – riconosciuto dalla comunità scientifica – che non infligge scosse al paziente, ma emette suoni e vibrazioni che servono a stimolare i ricordi. Bastava leggere le carte. Ma in pochi anche nelle redazioni lo hanno fatto. Per chi ha avuto la pazienza di visionare le 270 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare la decisione del riesame di scarcerare Claudio Foti non è una sorpresa. Ma paradossalmente i giudici si basano sui fatti. Il processo mediatico no. E sarà difficile far cambiare idea a un’opinione pubblica sempre alla ricerca di qualcuno da linciare. Non si sa nulla o si sa male, ma ci si sente in dovere di aizzare la folla. Lo ha fatto anche Laura Pausini: «Mi sento incazzata e impotente», ha scritto chiedendo ai suoi fan di prendere posizione. Una volta che si è creato il mostro è difficile rinunciarci.

Commento di Andrea Battoccolo: Allora spiegatemi una cosa: parlate di risonanza immediata: appena venuta fuori la notizia ho visto i TG che ne anno parlato per circa 2 giorni, poi personalmente non ho più visto niente, se no qualche piccolo riassunto sulle notizie precedenti. Che si tratta solo di 6 casi lo sento ora da voi, e personalmente non ci credo,dico personalmente perché più che un idea personale non posso farmi visto che i media tradizionali non ne parlano e le notizie che si trovano in rete vanno prese con le pinze giustamente. Allora perché non la fate voi informazione,no voi state zitti per 2 settimane, poi ve ne uscite accusando di infamia chi accusa i responsabili di questo schifo, tanto non imparerete mai, ma la storia del forteto la gente se la ricorda, parlate di andare cauti, io parlo di giustizia e TRASPARENZA. Se volete essere credibili la prostima volta non state in silenzio per 2 settimane perché così mi sembrate più insabbiaturi che giornalisti. Buonasera merde! No, giusto per dire...Era il 2013 su canale 5 quando Morcovallo già denunciava che era un sistema e non un un caso isolato, io non so se sarebbero indagati solo su 6 casi ( mi pare strano visto il giro di soldi che porta)mi interessa sapere in quanti altri posti succede Sto schifo, mi interessa sapere perché nel 2013 non è esplosa una bomba di fronte tali affermazioni e in fine mi interessa sapere quanta codardia e servilismo servono per starsene zitti 2 settimane( parlo in generale perché è il secondo articolo che vedo a difesa degli indagati dopo 2 settimane di puro silenzio) e uscirvene difendendoli, siete fantastici. VOI e chi vi sostiene NON CONOSCETE VERGOGNA E RISPETTO PER LE VITTI “Allora Bibbiano?” è il nuovo tormentone della “guerriglia culturale” di Vox&Co.

Bibbiano, insulti "rossi" su Nek "Tue canzoni come Hiroshima". Bottura su Repubblica punta il dito contro Nek che ha chiesto verità su Bibbiano. Il cantante "massacrato" per le sue canzoni. Angelo Scarano, Lunedì 22/07/2019 su Il Giornale. Nek ha chiesto la verità sul caso Bibbiano e per questo motivo è finito nel mirino della stampa di sinistra. Non si spiega altrimenti l'attacco di Repubblica, a firma Luca Bottura, contro il cantante che qualche giorno fa si è esposto sui social proprio sul caso che riguarda i bimbi tolti alle loro famiglie per essere affidati ad altre coppie. Non si tratta di una voce isolata. Anche Laura Pausini ha chiesto la verità su quanto accaduto. Ma a sinistra hanno già messo per bene nel mirino Nek. Le sue parole sono state fin troppo chiare, parole di un padre: "Sono un uomo e sono un papà. È inconcepibile che non si parli dell’agghiacciante vicenda di #bibbiano Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico. È proprio così. Ci sono intere famiglie distrutte, vite di bambini di padri e di madri rovinate per sempre...e non se ne parla. Ci vuole giustizia!!". Nessuna polemica, solo la richiesta di dare voce a questa vicenda sui cui è in corso un inchiesta. A quanto pare però l'appello di Nek che è stato condiviso da tutti suoi fan e non solo, non è stato digerito a sinistra. Ed ecco qui che arriva il livore. Nel suo pezzo Botturaparla con questi toni di Nek: "Filippo Neviani, in arte Nek esordì a Sanremo con una canzone antiabortista che risulta tutt'ora nella lista dei crimini contro l'umanità, dopo Nagasaki e Hiroshima ma comunque prima del gelato gusto Puffo". Un vero e proprio assalto al cantante che viene colpito con un giudizio (molto) discutibile sulla sua carriera e sul suo stile musicale. A prendere le difese di Nek è stato Salvini che su Facebook ha commentato così le parole di Bottura: "Non avevamo dubbi che una certa sinistra avrebbe subito messo Nek tra i “cattivi” per aver denunciato gli orrori di Bibbiano, nonostante lui con la politica non c’entri nulla e si sia permesso di fare solo un ragionamento da papà. Non si smentiscono mai". Insomma la colpa di Nek è forse quella di aver alzato il velo su una storia, come quella di Bibbiano, che merita luce e verità in tempi rapidi? A quanto pare porsi alcune domande può essere pericoloso. Sulla strada si può incontrare anche chi paragona una tua canzone ad una tragedia come quella di Hiroshima...

Bibbiano, Nek e Pausini veri megafoni del popolo. Paolo Giordano, Lunedì 22/07/2019, su Il Giornale. Ci risiamo. Il pop torna a smuovere la politica, a infiammare l'opinione pubblica, a dividere le opinioni. Finita senza rimpianti l'epoca dei cantanti ideologici (quelli che poi si trovavano al Festival de l'Unità, per intenderci) adesso ci sono artisti che rilanciano casi di cronaca e lo fanno a prescindere dal partito di appartenenza. Laura Pausini e Nek, per esempio, o Mietta subito dopo. Per venti giorni le indagini sul presunto giro illecito di affidi di bambini a Bibbiano (16 misure cautelari e 29 indagati) avevano volato basso nell'informazione, scatenando più che altro qualche baruffa social, ma niente più. E dello psicoterapeuta Claudio Foti o del sindaco Andrea Carletti parlavano soltanto i vicini di casa e gli avvocati, anche se il primo cittadino Pd è ai domiciliari per falso e abuso d'ufficio. La cronaca è così ingolfata da pinzellacchere e bagattelle, da casi di penoso glamour o ridicola politicanza da perdere per strada talvolta le questioni di reale importanza. Come questa. Ci hanno pensato per primi due artisti che con la politica non hanno mai avuto a che fare ma che stavolta sono «scesi in campo» muovendo le opinioni dei loro fan, che sui social sono milioni. «Non sentite di avere nelle mani degli schiaffi non dati?», ha scritto per prima Laura Pausini alla propria maniera verace e sincera: «Questa notizia è uno scandalo per il nostro Paese e dovrebbe essere la notizia vera di cui tutti parlano schifati». Prima botta da migliaia di like. Poi è arrivato Nek, un altro che non si è mai schierato con la politica ma solo con il buon senso: «Sono un uomo e sono un papà. È inconcepibile che non si parli dell'agghiacciante vicenda di Bibbiano». Missione raggiunta. Non soltanto Salvini e Di Maio hanno parlato della questione, ma pure i social hanno fatto il proprio mestiere, dividendosi tra favorevoli e contrari ma comunque dando un segnale di grande interesse. Insomma, più o meno come altri loro colleghi tanti anni fa, anche Pausini e Nek hanno dato la scintilla all'opinione pubblica, si sono schierati, hanno preso evidentemente una posizione. Rispetto agli anni '70 e '80, oggi gli artisti si spendono per questioni vere, non per vertenze ideologiche. E perciò, da genitori, Pausini e Nek hanno richiesto maggiore chiarezza sui fatti di Bibbiano. Suscitando immediata risposta ai piani alti. A conferma che gli artisti pop sono ancora autentici megafoni del sentimento popolare.

Mannoia sbotta per Bibbiano: "Volete screditare l'avversario". Fiorella Mannoia attacca Sibilia per aver condiviso l'appello per Bibbiano della Pausini. Ed è scontro sui social. Angelo Scarano, Mercoledì 24/07/2019 su Il Giornale. La vicenda di Bibbiano da qualche giorno si è intrecciata con il mondo della musica italiana. Diversi cantanti, tra questi in prima fila ci sono Nek e Laura Pausini. Tutti e due sono finiti nel mirino del web solo per aver chiesto luce e verità su una vicenda, quella dei presunti affidi illeciti, che ha parecchi lati oscuri. Proprio ieri la Pausini è intervenuta sul caso per ribadire la sua posizione e per sottolineare che non ha lanciato un appello per "sentirsi dire brava" ma per richiamare l'attenzione su quello che avrebbero passato questi bambini. Ma c'è un'altra voce che fa parecchio discutere, quella di Fiorella Mannoia. La cantante "rossa" ha avuto un battibecco con il sottosegretario agli Interni, Carlo Sibilia proprio sui fatti di Bibbiano. La Mannoia non ha usato giri di parole e ha attaccato il grillino che ha chiesto di far luce sulla vicenda: "Lo vedete come fate? State strumentalizzando qualsiasi cosa per motivi politici. Cantanti, bambini... Ma non vi vergognate? La faccenda di Bibbiano è grave e seria. Smettetela di strumentalizzarla, i bambini e le famiglie non lo meritano. Che sia fatta luce su questo schifo al più presto". La Mannoia non ha digerito il post di Sibilia che condividendo una foto di Laura Pausini ha di fatto ringraziato chi in questi giorni ha cercato di tenere alta l'attenzione su un caso come questo. E così il grillino ha immediatamente replicato alle accuse della Mannoia: "Mi sono limitato a ringraziare chi ha scritto pensieri che condivido. Sono pubblici. Ho condiviso e ringraziato. Perché sono (momentaneamente) un politico dovrei smettere di ringraziare, retwittare, vivere? Ognuno faccia la sua parte per fare luce su questo schifo. Non dividiamoci". Ma di fatto la Mannoia non ha digerito la risposta del pentastellato ed è passata nuovamente al contrattacco contestando la posizione del sottosegretario e mettendo in discussione il suo appello: "State attaccando il cappello su questa storia triste approfittando per screditare l’avversario, fatelo su tutto, ma non sui bambini. Se veramente vogliamo stare uniti smettiamola di farne un caso politico. È un triste caso umano sul quale si deve fare luce". Insomma sul caso pian piano si sta sviluppando una polemica feroce che riguarda sia il mondo della politica che quello dello spettacolo. E probabilmente lo scontro non finirà in tempi brevi. L'indagine in corso prosegue e a quanto pare il caso Bibbiano resta un nervo scoperto per il Pd che ha protestato duramente per la visita di Salvini nel centro dell'Emilia-Romagna finito sotto i riflettori.

SU BIBBIANO È VIETATO ESPRIMERSI. Francesco Borgonovo per “la Verità” il 24 luglio 2019. Grazie all'odiosa vicenda di Bibbiano gli italiani hanno finalmente la possibilità di comprendere come funzioni la cultura progressista. Una regola imposta da tale cultura è la seguente: gli artisti che si interessano a temi sociali vanno benissimo, ma solo se i temi sociali sono quelli graditi alla sinistra. In caso contrario, gli artisti in questione meritano dileggio, insulti e attacchi feroci. A questo proposito ci sono tre casi emblematici che meritano di essere approfonditi. Partiamo da quello di Laura Pausini, la prima a esporsi con enorme coraggio sulla Val d' Enza. La cantante, con un post su Facebook, ha richiamato l' attenzione su quanto sta accadendo a Bibbiano e dintorni, e ha notato che la gran parte dei media sta cercando di insabbiare tutto. Come prevedibile, con quell' intervento la Pausini si è attirata un fiume di critiche. Così ha deciso di tornare sul tema: «Questo messaggio è per i bambini. Non lo faccio né per farmi insultare né per farmi dire brava. Qui c' è solo da fare qualcosa subito e da far sapere a tutti coloro che perdono tempo a scrivere cazzate, che c' è una notizia gravissima con cui dobbiamo fare i conti», ha scritto. E ha aggiunto: «Ecco chi ha bisogno di sfogarsi, stavolta utilmente, tiri fuori la voce per parlare di questo scandalo». La Pausini, purtroppo, non è stata l' unica a finire alla gogna per aver parlato di Bibbiano. La stessa sorte è toccata anche a Nek. Pure lui ha deciso di esporsi pubblicamente con un messaggio accorato: «Sono un uomo e sono un papà», ha scritto. «È inconcepibile che non si parli dell' agghiacciante vicenda di Bibbiano. Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico. È proprio così. Ci sono intere famiglie distrutte, vite di bambini di padri e di madri rovinate per sempre... E non se ne parla. Ci vuole giustizia!!». Tanto è bastato per attirargli l' astio del progressista medio internettiano. Come se non bastasse, contro Nek si è scatenata pure Repubblica, tramite la penna di Luca Bottura, uno che, dopo decenni di carriera, continua a confondere la satira con la spocchia. Con la consueta sicumera, Bottura ha rivolto a Nek un corsivo feroce: «Filippo Neviani, in arte Nek, esordì a Sanremo con una canzone antiabortista che risulta tutt'ora nella lista dei crimini contro l' umanità, dopo Nagasaki e Hiroshima ma comunque prima del gelato gusto Puffo». Mascherata dietro un' ironia degna delle peggiori scuole medie, c' è l' accusa infamante: Nek ha commesso un crimine contro l' umanità perché ha scritto una canzone a favore della vita, dunque merita di essere sbertucciato e insultato. Già: i temi pro life, le battaglie su Bibbiano o sul gender sono ridicole. Non meritano altro che sberleffi e sputi. Esattamente come quelli che sono piovuti addosso a Ornella Vanoni, celebratissima icona della musica italiana. Di solito, quando la si cita, ci si leva il cappello. A meno che, ovviamente, non si occupi di temi sgraditi all' intellettuale unico progressista. La Vanoni ha scritto quanto segue: «È mostruoso ciò che è accaduto a Bibbiano. Questi bambini hanno perso l'infanzia, come tanti ormai nel mondo, e sono rovinati per sempre. Non sono pupazzi che si possono spostare da una famiglia all'altra. Queste persone dovrebbero andare in galera senza processo». In men che non si dica sulla cantante hanno cominciato a piovere pietre, sotto forma di offese via Web. C' è chi l' ha accusata di non essersi siliconata il cervello, chi la descrive come una vecchia rimbambita e altre amenità dello stesso tenore. Persino alcuni quotidiani online si sono accodati, accusandola di aver utilizzato toni troppo duri e di aver invitato a condannare gente senza prima averla processata.

Tre casi diversi, stesso trattamento. Morale: se un artista si impegna in una causa politicamente scorretta, gli tocca il linciaggio. In realtà, nelle parole della Vanoni, della Pausini e di Nek non c' è alcun riferimento politico. C' è solo il caro, vecchio e troppo spesso dimenticato buon senso. C' è la rabbia del genitore (o del figlio, del fratello, del semplice osservatore) davanti a uno scandalo che grida vendetta e di cui nessuno si è interessato se non per difendere i presunti colpevoli. Ma nemmeno una normalissima manifestazione di umanità viene tollerata: su Bibbiano è vietato esprimersi. A meno che non lo si faccia per difendere il Pd.

Storia del giornalismo spazzatura: il libro degli anni 80 che anticipa le fake news. La Gazzetta di Mezzanotte, Leonardo editore, su TheMillennial.it l'8 Marzo 2019 /themillennial.it. «Puoi farmi un pezzo su una donna che partorisce dei cagnolini?». «Per quando ti serve?». «Per le cinque». Presi un appunto sul mio taccuino, Donna partorisce cagnolini, e lo inserii tra le altre cose che dovevo fare quel giorno. Per capire la storia del giornalismo spazzatura c’è un libro fondamentale. Si intitola La Gazzetta di Mezzanotte. Se l’autore, William Kotzwinkle, non vi dice niente, non siete più ignoranti del 99,9% degli italiani. Nonostante sia lo sceneggiatore che ha inventato E.T., infatti, in Italia William Kotzwinkle ha pubblicato soltanto La Gazzetta di mezzanotte, grazie a un editore di cui oggi sentiamo la mancanza, Leonardo Mondadori, morto nel 2002 a 56 anni. Colto ed esperto di leggerezza intelligente, Mondadori nel 1991 una volta venduta tutta la baracca editoriale a Fininvest si dedicava al suo gioiello, la piccola casa editrice Leonardo, nata nel 1988. Leonardo Mondadori era soprattutto un editore accogliente, nel pensiero e nel lavoro. Era uno che amava intrattenersi con i suoi dipendenti di ogni rango, adorava i cani bulldog inglesi e le donne belle e creative. E nonostante da bambino si trovasse spesso in salotto con gente tipo Thomas Mann, Giuseppe Ungaretti, Dino Buzzati o Eugenio Montale, non si lasciava sfuggire nomi emergenti e dissacratori della narrativa dell’epoca. Per questo bisogna leggere la descrizione esilarante delle redazioni dei giornali trash, presso la Camaleonte edizioni di New York, teatro d’azione della Gazzetta di Mezzanotte. Un ambiente di autentico giornalismo spazzatura abitato da redattori pazzi ossessivi catapultati in mezzo a vicende assurde. Redattori inseguiti da pornostar, ritoccatori di capezzoli e venditrici di creme verdi fosforescenti per far crescere le tette. Un quadretto che non poteva che riflettere il modo in cui Mondadori vedeva o aveva sempre visto gli ambienti dei giornalisti, finti intellettuali degli anni 80. Nell’arguzia rutilante di questa storia però c’è molto altro: c’è qualcosa che, letto in un libro del 1989 arrivato in Italia nel 1993, rispecchia la follia che pervade oggi interi corpi redazionali digitali, appesi al guinzaglio di inserzionisti che chiedono l’impossibile e incastrati nella pressione sconfinata sulla marchetta totale. Giornaliste e giornalisti misurati nella velocità di esecuzione dettata dalle ricerche su Google, concentrati sull’idea di accontentare gli utenti unici, entità che non hanno le sembianze immaginifiche e antico-greche e peripatetiche dei vecchi lettori di giornali. Di seguito, un brano nel quale, con le dovute distinzioni, si possono riconoscere gli operai del content editing di oggi, gli intrappolati dentro lo strano caporalato dei data analyst, gli oppressi dalla dittatura dei branded content e delle call to action su facebook. A nessuno, tuttavia, sfuggirà la distonia più significativa, ovvero che in quelle redazioni di giornalismo spazzatura, la gente sembra divertirsi da morire. E probabilmente è così. Un ultimo appello agli editori di buona volontà: qualcuno legga o rilegga questo libro e lo ripubblichi il prima possibile. La Gazzetta di Mezzanotte vendette pochissimo e dopo poco tempo tutte le copie invendute finirono al macero. Troverete su Amazon diverse copie in inglese, ma è un peccato non godere della traduzione magistrale del decano dei traduttori, Vincenzo Mantovani. «Entrai dalla porta principale delle Pubblicazioni Camaleonte. Hyacinth, la receptionist, stava applicandosi dei cerotti ai calli. “C’e una lettera per te di quell’avvocato, Howard”. La scorsi rapidamente, vidi che ci avevano fatto causa per un milione di dollari e tirai dritto fino alla mia cella. L’ufficio fronteggiava la Società Marcatempi di Manhattan, con il suo immenso tabellone sbiadito che cominciava a staccarsi; attraverso le sue finestre si vedeva una specie di gnomo che, al suo banco, stava riparando il tempo. Sotto di noi c’era it tratto fiorito della 6th Avenue. Una pioggia leggera cadeva sulle piante allineate lungo i marciapiedi, con le gemme e le foglie volte al cielo per ricevere tutti gli elementi velenosi della tavola periodica. Aspirai una profonda boccata di tossine rinfrescate dalla nebbia mattutina e mi girai verso la scrivania. Sparpagliate dappertutto c’erano delle foto di donne nude, poiché, tra i loro periodici, le Pubblicazioni Camaleonte comprendevano Tette e Culi. Ognuna delle donne nude sulla mia scrivania aveva un reggiseno disegnato con l’aerografo sul petto e lo slip di un bikini applicato con lo stesso sistema sopra la regione pubica, un tocco da maestro aggiunto da Fernando del nostro ufficio grafico. Avevo comprato quelle foto da Herr von Germersheim, un mercante d’arte tedesco che visitava regolarmente i nostri uffici con una borsa piena di studi di nudo. Dopo l’acquisto, le Pubblicazioni Camaleonte aggiungevano alle signorine la biancheria. Perché? Il nostro editore era convinto che, nel nuovo clima di repressione fondamentalista, Playboy, Penthouse e tutte le altre riviste che pubblicavano foto di donne completamente nude alla fine sarebbero state spazzate via dalle edicole, mentre le nostre ci sarebbero rimaste, con le loro ragazze che si pavoneggiavano nei minuscoli bikini prudentemente aggiunti. “Quando si verificherà la svolta noi ci saremo” mi aveva detto, con un’innata capacita di sfornare idee sbagliate cosi acuta da rasentare it genio. Sulla mia scrivania c’era una lunga placca rettangolare che portava it mio nome, HOWARD HALLIDAY, per impedirmi di dimenticarlo tra le molte identità che assumevo da una settimana all’altra. Dato che, per fare economia, non compravamo mai materiale esterno da nessuno, la nostra piccola redazione doveva scrivere tutti i testi e noi tutti avevamo molti nomi, talvolta perfino gli stessi, anche se negli ultimi tempi si era cercato di coordinare meglio il lavoro. Avevo assegnato a ciascuno di noi una lettera dell’alfabeto da cui scegliere i nostri noms de plume, e finora quel mese ero stato Howard Haggerd, Halberd Hammertoe, Harm Habana, Hades Halston, Handy Harley, Harmon Heman, Hence Hardman Hardon. Bevvi il mio caffè mattutino e mangiai la mia brioche, mentre con occhi velati contemplavo la scrivania. Dal piano le donne ritoccate ricambiavano il mio sguardo. Molte le conoscevo di persona. Qualche volta mi chiedevano soldi in prestito, ma più spesso glieli chiedevo io, perché erano pagate meglio di me.

Anomalie genetiche e serpenti nell’intestino: la filiera del giornalismo spazzatura. Alla parete della mia cella erano appese altre fotografie, di atrocità, anomalie genetiche umane e animali, e tutti gli altri frammenti di vita in cui incappa un direttore di periodici, e dei quali si serve quando e dove possono valorizzare le sue pubblicazioni. Spesso, per quelle immagini, i fotografi rischiavano la vita, e io in cambio li pagavo meno che potevo. Finito il caffe, inghiottii alcune mentine alla caffeina e cominciai la mia attenta lettura quotidiana degli Studi di grammatica di Agnes T. Wimple, 1924 circa. Con quelli ero in grado di analizzare schematicamente tutte le frasi complicate che scrivevo per le nostre riviste. Ogni frase era, dunque, grammaticalmente perfetta, una finezza di cui non credo che i lettori di Tette si accorgessero sovente. Qualcuno bussò alla porta del mio bugigattolo e Fernando entrò con un nuovo layout. “Ecco qua, ragazzo, tutto pronto perché tu ci metta qualche parola”. Davanti a me c’era una donna nuda, modestamente aerografata ma seduta con aria provocante sulla sella di una bicicletta a dieci velocità. Sotto ogni foto della ciclista Fernando aveva lasciato delle righe vuote, la lunghezza e it numero delle quali determinavano la misura del testo che avrei dovuto scrivere sulle gioie di pedalare nudi. Questo sarebbe stato, a sua volta, uno dei testi della rivista Culi, redatto sotto la guida della defunta Agnes T. Wimple. “Sono stanco, ragazzo mio”, disse Fernando, lasciandosi cadere sulla seggiola riservata ai visitatori. “Perche, cos’hai fatto?”, “Ho lavorato al mio portfolio. Voglio trovarmi un buon posto in una rivista vera”. “Culi è una rivista vera, Fernando”. E masticai un’altra mentina. “Squinzie”. “Squinzie?” “Squinzie”, accennò con la mano alla ciclista seminuda. “Tutte squinzie”, indicò anche altri layout sparsi sulla scrivania, per i quali avevo già scritto un certo numero di spensierate didascalie che facevano appello alla perspicacia del lettore. Dal muro alle mie spalle giunse un tonfo improvviso. Significava che il nostro editore, Nathan Feingold, si stava esercitando con la sua cerbottana. L’aveva ricevuta da uno degli inserzionisti della nostra rivista Uomo Macho, decisamente popolare tra le squadre di mercenari. Con lo pseudonimo di Howard Hachett, pilotavo ogni mese Uomo Macho fino all’ultima boa, ed ero in corrispondenza con un’infinità di mangiatori di serpenti. Uno dei quali mi aveva spedito una pistola-balestra nell’eventualità che mi fosse mai toccato di dover “ammazzare silenziosamente qualcuno”. Cosa che allora mi sembrava assai improbabile, il che dimostra quanto fossi ingenuo, ma su questo torneremo poi. Fernando guardò verso il muro, dove con piccoli tonfi continuavano a piantarsi le freccette. «Non pensare di lasciarci, Fernando, per piacere, abbiamo bisogno di te.» Come potevo dirgli che Esquire, Vogue e il New Yorker  non avrebbero saputo cosa farsene di un uomo la cui esperienza di lavoro era consistita, fino a quel momento, nel dipingere reggipetti sui capezzoli di ragazze nude? “Quando avrò finito il mio portfolio darò a questo posto un bel bacio d’addio”. Un altro tonfo. Certe volte mi preoccupavo inutilmente, ne sono sicuro, che un dardo avvelenato perforasse la parete e mi si conficcasse nel cervello. Fernando lasciò il mio bugigattolo e io ripresi le mie meditazioni, mentre l’ufficio tornava lentamente alla vita. Nella cella accanto alla mia, il direttore del nostro redditizio settimanale, La Gazzetta di Mezzanotte, stava scegliendo alcune foto di divi del cinema e di atleti, scartabellando nel raccoglitore delle immagini “d’interesse umano”, con i suoi toccanti ed eroici idioti, madri di quattro anni, persone salvate dai loro animaletti, oltre al solito ermafrodita e a un tale che nell’intestino aveva un’anguilla viva. Tutti gli articoli della Gazzetta di Mezzanotte erano frutto dell’ingegno di questo direttore, Hip O’Hopp, un anziano giornalista che non avevo mai visto sobrio. Allungando il collo, mi guardava da sopra it divisorio che separava le nostre due celle. «Puoi farmi un pezzo su una donna che partorisce dei cagnolini?» «Per quando ti serve?» «Per le cinque.» Presi un appunto sul mio taccuino, Donna partorisce cagnolini, e lo inserii tra le altre cose che dovevo fare quel giorno.

Il redattore multitasking tipico del giornalismo spazzatura e delle fake news. Nei panni del dottor Howard Husbands, dovevo curare la rubrica medica per Donna Mese, la nostra rivista femminile la cui diffusione nei caseggiati popolari e nei campeggi batteva di gran lunga quella di ogni altra pubblicazione. Dopo il mio show come Husbands, dovevo impersonare il dottor Doris e sfornare a gran velocità la rubrica di sessualità e psicologia. Sempre tenendo presente che i sondaggi nazionali avevano rivelato che le lettrici di Donna Mese erano su posizioni moderate in materia di sesso, moda, alimentazione, politica e allevamento dei figli. Diedi una scorsa a una lettera recente di una delle nostre lettrici: Caro dottor Doris, vorrei dare un consiglio a quei genitori che si preoccupano perché i loro bambini dicono bugie. Il nostro Bobby e sempre stato un terribile bugiardo finché non abbiamo avuto questa idea. Dopo averlo sorpreso a mentire, gli abbiamo fatto indossare un vestito di sua sorella e lo abbiamo costretto a stare in piedi nel giardino per tutto il pomeriggio. Alla lettera era acclusa una foto di Bobby vestito da bambina, che dava l’impressione di essere rimasto psicologicamente segnato da quell’esperienza per tutto it resto della sua vita. La lettera finiva così: Adesso, ogni volta che pensiamo che lui possa accingersi a rac-contare una bugia, ci limitiamo a dire: “Ricordati il vestito di tua sorella”. Mi sembrava una soluzione perfettamente ragionevole. Eppure, nonostante un contatto così stretto, io non conoscevo veramente la lettrice di Donna Mese. L’immagine che ne avevo era quella di una donna con un reggiseno Lovable, che accentua l’eleganza del suo bagno con centrini di carta dentellata, ripone i guanti di spugna in animali di ceramica con la bocca spalancata ed esprime la sua natura più intima su guanciali che recavano insolite scritte come: “La Mamma Più Grande del Mondo”. Uscii dalla mia cella per fare una breve chiacchierata mattutina con Hattie Flyer, direttrice delle nostre diffusissime Storie di Giovani Infermiere, Le Mie Confessioni e di altri numeri speciali come Confidenze di Giovani Spose. La Gazzetta di Mezzanotte, Leonardo editore.

Giornalismo spazzatura. Giovanni Merenda il 18 ottobre 2010 su LetterMagazine. Esiste in Italia, come nella altre nazioni, l’Ordine dei Giornalisti. Il problema dell’Italia è che di questo ordine fanno parte figuri che giornalisti non sono o non sono più. Accumulare dossier contro un avversario, fondati su documenti falsificati, vedi il caso Boffo, fornire notizie false senza mai smentirle, anche quando come false sono poi manifestamente riconosciute, omettere sui propri giornali o telegiornali le notizie scomode per il proprio mandante è forse giornalismo? Ci sarebbero nomi più adatti per queste attività come killeraggio politico, e per i loro esecutori nomi come sicari, portavoce, leccaculo o, come nel caso del mancato colpo ai danni della Marcegaglia, ricattatori. Ma in Italia si fanno chiamare giornalisti. E c’è pure chi compra i loro giornali, non molti per fortuna, o ascolta i loro telegiornali, certamente ancora troppi. Certo loro lo sanno di non essere più giornalisti, ammesso che lo siano stati in passato, ma evidentemente il loro era un mestiere e non una vocazione precisa.

Te li puoi immaginare grondare bava dalla soddisfazione quando scovano qualcosa che sia utile per attaccare l’avversario del momento del loro mandante, qualcuno che ha osato dissentire dalle norme da questo stesso mandante imposte. Colpire il dissenso, cioè quello che dovrebbe essere alla base del lavoro del giornalista. Che poi questo qualcosa sia vero non ha per questi gentiluomini la minima importanza. E se poi incappano in guai giudiziari perché qualcuno denunzia il loro ricatto, ecco il coro dei sostenitori del mandante gridare all’attentato alla libertà di stampa. Ma quale stampa! Niente potrebbe essere più lontano da questa parola dei loro giornali o telegiornali. La Stampa, quella con la esse maiuscola, è verità, tutta la verità; è controllo delle informazioni prima di pubblicarle; è equidistanza e lontananza dalle parti politiche. La Stampa, sempre quella con la esse maiuscola, signori miei, è al servizio del lettore. Io non sono un giornalista e non solo perché non sono inscritto all’ordine. Sono uno scrittore che commenta quello che succede. Chiaramente ho le mie idee politiche… non apprezzo quelli che dicono di non averne… e queste idee certo traspaiono dai miei scritti. Ma direi che vengono fuori malgrado la mia volontà. E la mia prima volontà è rispettare i miei lettori, rispettando la verità. Questi signori, invece, della verità fanno scempio non tenendola in nessun conto, falsificando od omettendo. Con la loro faccia di bronzo ci rompono ogni giorno con la storia di un appartamento di Montecarlo venduto a 300.000 euro che forse poteva valere di più, magari 500.000 euro… ma io in pochi metri quadri a pianterreno non ci starei manco a Montecarlo. Appartamento che era di un partito politico, non dello Stato, appartamento di cui non frega niente alla stragrande maggioranza degli italiani. Poi, quando grazie ad una piccola legge, lo Stato, quindi tutti gli italiani, si vede truffare una quantità di milioni dalla Mondadori, loro i titoli in prima pagina non li fanno, anzi la notizia non la danno proprio! Non credo che l’Ordine dei Giornalisti possa mandar via dal proprio corpo questi figuri e tanto meno mi aspetto che prendano coscienza della loro vergogna e se ne vadano loro. Ma almeno un piccolo gesto a lor signori voglio chiederglielo. Se, come immagino, hanno dei biglietti da visita del tipo: PINCO PALLINO, Giornalista. Per favore li buttino via e se ne facciano dei nuovi. Io, anche se ho pochi soldi, sono disposto a dare il mio contributo. Secondo me i nuovi andrebbero bene così: PINCO PALLINO, Qualsiasi cosa, ma non giornalista.

Oltre il giornalismo spazzatura. Repubblica e Huffington Post, invenzioni e giudizi gratuiti. Alessandro Cardulli il 26 Giugno 2015 su jobsnews.it. C’era una volta il “giornalismo spazzatura”. Cialtronesco più che di regime. Perché loro, i giornalisti erano di regime, il regime anzi. Classe privilegiata, circoli della stampa invece del sindacato. Il contratto di lavoro ? Ma a che serviva?  Arrivava la velina ed eri a posto, non c’era  bisogno di lavorare, nel senso di seguire avvenimenti, cercare la notizia, fare inchieste. Tutto ti veniva servito su un piatto d’argento. Il cinegiornale era un esemplare. Poi arrivano tempi in cui le vacche grasse diventano sempre più magre. Gli editori, spendaccioni, industriali, banchieri, mondo della finanza, piduisti, massoni, cominciarono a tirare la cinghia. Non avevano più bisogno del loro giornalismo spazzatura. Certo, non tirarono i remi in barca, carta stampata, poi radio, televisione erano sempre utili ma in molti si resero conto che potevano anche far da soli, direttamente con il governo, la Dc, il quadripartito dal quale poi si passerà al centrosinistra craxiano. Insomma che i giornalisti calassero le penne. Il rischio di rimanere spellati  provocò una scossa. I giornalisti cominciarono a rendersi conto che serviva un vero contratto, per tutelare il loro lavoro. Ci si misero d’impegno, un gruppo di giornalisti che cominciò  a porre il problema della contrattazione come un momento fondamentale per garantire la libertà di informare. Erano giornalisti di diverso orientamento politico, cattolici democratici, socialisti, comunisti, liberali, repubblicani, radicali. Altri tempi, nascono i comitati di redazione dietro la spinta dell’autunno caldo, dei consigli di fabbrica.

Non vale più il diritto dei giornalisti ad informare e quello dei cittadini ad essere informati. Ma non poteva bastare. Si domandarono: la nostra libertà di informare non è un hobby, ma un diritto che riguarda anche i cittadini. E nacque il diritto dei giornalisti ad informare e il diritto dei cittadini ad essere informati. Leggi articolo 21 della Costituzione. Il “giornalismo spazzatura” non scomparve ma  si trovò a dover combattere con il giornalismo d’inchiesta, il racconto di una realtà, di un fatto, un avvenimento in cui tu ci mettevi del tuo ma dovevi consentire al lettore di farsi una opinione tutta sua. Una lunga premessa? Forse, ma serve a farci capire meglio i mutamenti che sono avvenuti in  questi venti anni, gli anni berlusconiani che hanno corrotto un mondo che forse attendeva di essere di nuovo corrotto. Al posto del “giornalismo spazzatura”, che pure aveva una sua forza, in negativo, il giornalista si mostrava, aveva il coraggio  della propaganda la più viscerale possibile, oggi siamo al giornalismo che non c’è, il ritorno alle veline, utilizzando i mezzi che le nuove tecnologie mettono a disposizione. Siamo oltre la “spazzatura”, non sapremo trovare una definizione appropriata. Una certezza: l’articolo 21 della Costituzione non esiste.

Fassina a Capannelle: un colorito racconto di Ceccarelli ma non era fra i presenti.  In una fase della vita politica del nostro paese con la sfiducia crescente dei cittadini nelle istituzioni, una fase confusa, caotica, c’è bisogno, come il pane, di una informazione libera, il sale della democrazia. Invece si sta sempre più procedendo su sentieri che ti portano in senso opposto. Tre esempi di queste giornate ci hanno colpito, uno, il più eclatante, protagonista un giornalista che va per la maggiore. Repubblica lo usa per i commenti più vivaci, diciamo così. Avviene che Stefano Fassina partecipa a un dibattito in un piazza della periferia di Roma, invitato da due Circoli, Capannelle, dove si svolge l’incontro con i cittadini, e Anagnina. Sul quotidiano diretto da Ezio Mauro leggiamo, basiti, un articolo di Filippo Ceccarelli.

“Un quartiere desolato e desolante”. Negozi chiusi (alle otto della sera). Ridicolo. Ci racconta questo incontro, descrive la località, il quartiere, desolato e desolante, alle spalle di Fassina che siede dietro un tavolo “montato  per la strada” con alle spalle il “contenitore dell’immondizia”. Una “bandiera” svolazzante sul tavolo. Non basta: scrive Ceccarelli che “ogni addio ha la sua estetica”: “Quello di Fassina, a Roma Capannelle, offre uno sfondo di lampioni troppo alti rispetto alla case, automobili che passano indifferenti, negozi con le saracinesche chiuse, un’insegna reca la scritta Frutteria italiana”. Ancora: “Forse il vento (ci mancava un accenno di lirismo, ndr), quel soffio antico che smuove le bianche bandiere riscatta un po’ il desolante panorama entro cui si svolge a va in scena”.

E la stoccata contro Fassina: “Un inconfondibile residuato del Pci”. E poi di Fassina dice: “appare più un inconfondibile residuato del Pci”. Bene, bravo. Scherziamo. Noi c’eravamo in quella piazza. Ceccarelli no. Forse ha visto alcune riprese fatte con una telecamerina e poi diffuse da renziani in assetto di guerra. Le sciocchezze cui si abbandona sono molte. Ne evidenziamo alcune: i negozi chiusi perché hanno un orario, Fassina ha parlato dopo le venti. Scrive che passavano le auto. Filippo svegliati. L’incontro era in una piazza, che ci doveva passare? Pensate, c’era perfino una frutteria in questa piazza. Nessun commento a  quel “residuato del Pci”. La vergogna in genere non si commenta. Tanto più vale per un giornalista che non c’è e prende in giro i suoi lettori.

I titolari del dossier Roma in contatto con Palazzo Chigi.  Passiamo al gemello di Repubblica, l’Huffington Post. Uno di nome Alessandro De Angelis, qualifica giornalista, crediamo, manda in scena un retroscena, di quelli che usano oggi, fanno notizia. Il sindaco Marino ha rilasciato una intervista al giornale gemello che ha impegnato una firma di quelle che contano, Concita De Gregorio, già direttore dell’Unità, tornata da tempo alla casa madre. Una bella  intervista, in cui Marino risponde agli attacchi cui è sottoposto, ogni giorno che passa sempre più virulenti. Il sindaco di Roma, fra le altre cose, racconta che ogni notte annota sui dei quaderni ciò che fa nella giornata, chi incontra, le conversazioni, le pressioni che sono state esercitate nei suoi confronti da autorevoli dirigenti del Pd in merito alle nomine di assessori. Ripete che non si dimetterà. Arriva il De Angelis, che  mette fra virgolette parole dure che – dice – filtrano dai titolari del dossier Roma in contatto con Palazzo Chigi. Prima di riportare queste parole ci permettiamo di affermare che se sono veri questi “contatti” si tratta di una cosa gravissima. Sarebbe il caso che il premier smentisse.

Lo “sfratto” di Marino da parte di Renzi non è in discussione. Vediamo queste parole. “Con l’intervista di oggi, Marino ha bruciato ogni soluzione consensuale. Si tratta di capire chi comanda, se Renzi o Marino”. “Il premier tacerà fino alla relazione di Gabrielli. È lì – scrive il DeAngelis – che confida ci saranno gli elementi per sfrattare Marino. Anzi: ne è certo. Relazione che, secondo i ben informati, arriverà attorno a metà luglio, ovvero prima della data prevista. Ma lo sfratto non è in discussione.” Poi dice che Marino ha “esagerato” quando ha detto che “non lo possono eliminare, se ne facciano una ragione. Hanno paura, io no. Non sono di nessuno, e lo so che in politica vale questa regola: se sei di qualcuno ti attaccano, se non sei di nessuno ti ammazzano. Purtroppo io – che non sono di nessuno – non mi ammazzo da solo e non mi lascio ammazzare”.

 De Angelis accusa Marino: Toni “duri e  truci. È andato su di giri”.  Commenta il De Angelis: “Toni crudi”. Non basta ed aggiunge “truci”. Il giornalismo spazzatura al confronto è un gioiellino. Ancora il De Angelis, retroscenista, segugio: “Sono semplicemente irriferibili i commenti del giro stretto di Renzi. Dove ormai – a microfoni spenti, ma ancora per poco – vengono consegnati giudizi poco lusinghieri sulla ‘tenuta psicologica’ di Marino: Non ci sta più con la testa”. Ancora: le  parole dell’intervista vengono classificate alla voce “ricatto” (e non solo sull’impossibilità di sfiduciarlo): non è piaciuto il passaggio in cui il sindaco ricorda che  annota conversazioni pure riservate su taccuini che conserva nel cassetto. Poi il De Angelis emette sentenza: “Il sindaco da qualche giorno è andato su di  giri”. Vista la compagnia, un consiglio a Marino: continui ad annotare.

Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 22 luglio 2019. Un po' castrati. "La castrazione chimica? Sarebbe una misura civile. Ma deve essere volontaria e reversibile" (Giulia Bongiorno, Lega, ministro dei Rapporti con il Parlamento, Libero, 20.7). Scusi, ministra, mi castrerebbe un pochino per un paio di giorni, non di più? Certo, caro, appena appena. Regimerlo. "Mi spiace ripeterlo, ma ogni tanto qualcuno deve dirlo: preparatevi, questo è un regime" (Francesco Merlo, Repubblica, 20.7). Mica come la gloriosa democrazia renziana, quando la Rai aveva tre reti renziane (su tre) e tre tg renziani (su tre) e faceva contratti da 240 mila euro l' anno al partigiano Merlo.

Il partigiano Augias. "Vedo alla Rai occupazioni che nemmeno la Democrazia cristiana aveva osato fare" (Corrado Augias, Repubblica, 18.7). Denuncia sacrosanta: per esempio, c' è un certo Augias con un contratto Rai da 370 mila euro all' anno.

La martire. "Il Comune di Parigi premia la Capitana perseguitata in Italia. A Carola Rackete e alla precedente comandante della Sea Watch l' onorificenza 'per aver salvato migranti in mare'" (il manifesto, 13.7). Ma soprattutto per averli portati in Italia: se li portava in Francia, le sparavano.

Gli esperti. "La trattativa non esiste. F.to Borsellino. Nessun patto tra lo Stato e la mafia, disse il magistrato nel 1988" (Il Foglio, 18.7). In effetti la trattativa la avviò il Ros dei Carabinieri con Vito Ciancimino nel giugno 1992. Ma Borsellino, preveggente, l' aveva già smentita quattro anni prima.

Bon ton. "Il disprezzo al potere", "Perfino il ricorso di Mussolini alla storpiatura della sigla del partito socialista unitario da cui era appena uscito (Pus), riducendone i militanti a 'pussisti', giganteggia se confrontata al pidioti partorito dalla mente comica di Beppe Grillo" (Gad Lerner, Venerdì di Repubblica, 19.7). Come li rispettava Lotta continua, gli avversari politici, non li ha mai più rispettati nessuno.

Colpa di Virginia. "E la sindaca chiamò l'assessora: "Pinuccia, il cavallo ha sporcato". Il messaggio audio sul sito di Repubblica" (Repubblica, 19.7). La sindaca trova una strada sporca e la segnala subito all' assessore, per giunta a quello dei Rifiuti: ma si può andare avanti così?

Facce Tarzan. "Zingaretti: 'Salvini in aula o non gli daremo tregua" (Repubblica, 16.7). Brrr che paura.

Facce da Sala/1. "L' accusa di Sala: 'Avete chiesto i soldi a Mosca'" (Beppe Sala, sindaco Pd di Milano, La Stampa, 16.7). Potevate almeno retrodatarli.

Facce da Sala/2. "In Italia la Lega ha scelto persone sbagliate, con immagine e curriculum non immacolato" (Sala, ibidem). A Salvini manca solo Sala, condannato a 6 mesi per falso in atto pubblico, ma pare che sia già impegnato altrove.

Rifornimento in volo. "Atlantia dentro Alitalia? Andrà a picco, farà precipitare gli aerei!" (Luigi Di Maio, vicepremier e ministro dello Sviluppo e del Lavoro, M5S , Porta a Porta, Rai1, 27.6). "Un grande risultato raggiunto dopo settimane di lavoro intenso" (Di Maio su Atlantia che entra nella newco Alitalia, 17.7). Però sia chiaro che il primo volo lo inaugura lui, da solo.

Rep contro Rep. "I Cinque Stelle si attribuiscono l' elezione della nuova presidente (della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ndr). Tra gli episodi più esilaranti, segnalo la sedicente iena Dino Giarrusso, fresco di posto fisso, che ha twittato la notizia col commento: 'Decisivi'" (Luca Bottura, Repubblica, 18.7). La sedicente iena deve averlo letto il sedicente sito Repubblica.it, che il 17 luglio titolava "Voti determinanti ( M5S )" e scriveva: "Con 383 sì, l' annunciato voto favorevole del M5S potrebbe essere stato determinante per l' elezione di Ursula von der Leyen Escludendo i 14 sì dei pentastellati, avrebbe potuto contare solo su 369 voti delle forze pro-europeiste, cinque in meno della maggioranza richiesta di 374 sì". Esilarante, no?

Agenzia Sticazzi. "Cosa c' è meglio di un' amaca la domenica mattina? Nulla. Buona giornata a tutti" (Matteo Renzi, senatore Pd, Twitter, 14.7). "Un boccale di ottima birra, alla salute di chi vuole male all' Italia! Io non mollo" (Matteo Salvini, vicepremier e ministro, Lega, Twitter, 7.7). "Buongiorno! Colazione a Trento, incontro con gli attivisti e poi un po' di relax!" (Luigi Di Maio, vicepremier e ministro, M5S , Twitter, 20.7). Il bello è che i tre s' illudono che freghi qualcosa a qualcuno. Il brutto è che purtroppo hanno ragione.

Il titolo della settimana. "Formigoni cambia linea: 'Accetto la mia condanna'" (Corriere della sera, 19.7). Bontà sua. Che gentile. Ma perchè, se no?

Società. Gli italiani prediligono la cosiddetta “Tv spazzatura”, in discesa i programmi culturali. Michela Abbascià su vdj.it il 14 Marzo 2018. In Italia si guarda molta televisione, e i programmi che vanno in onda, spaziano da quelli culturali destinati a un pubblico di nicchia, a quelli popolari con più ascolti, tipo i reality show. Pare che, secondo gli ascolti registrati, la maggior parte degli italiani preferisca programmi più soft (leggeri) definiti da molti anche “Tv spazzatura”. Questa Tv punta su programmi di basso livello, che assecondano il cattivo gusto e la pigrizia intellettuale degli spettatori, offrendo una visione rozza e semplicistica della realtà, specialmente politica e sociale.  Fanno parte di questo tipo di programmi i reality show, come il GF (Grande Fratello)e GF Vip, “Temptation Island”, “L’isola dei famosi”, “Uomini e donne”, “La pupa e il secchione”, “La fattoria”, “Tamarreide”, “C’è posta per te”, “Il boss delle cerimonie” e molti altri. Anche altre trasmissioni televisive vengono catalogate come tv spazzatuta, ad esempio alcuni talent show come “Amici”, “Italia’s Got Talent”, “Ballando con le stelle”, “Tú si que vales” e così via. Gli italiani amano rilassarsi guardando certe trasmissioni senza alcun valore culturale ma con ascolti altissimi. Ci sono anche tanti programmi intellettuali, purtroppo con ascolti molto bassi, come ad esempio “Focus”, che trattano le meraviglie della natura, le innovazioni scientifiche, nuove cure per le malattie; “Quante storie”, che analizza il libro scritto dall’ospite scrittore insieme ai ragazzi di varie scuole superiori; “Archimede”, “Il tempo e la storia”, “Passepartout” ideato e condotto dal critico d’arte e scrittore Philippe Daverio. Il pubblico italiano è affascinato dai pettegolezzi, dalle cose frivole e dal gossip. La verità è che alcuni guardano certe trasmissioni per evadere dalla realtà, dalle notizie quotidiane, che riportano casi di omicidi, suicidi, bullismo, guerra ecc. La gente ha bisogno di evadere e preferisce vedere programmi che facciano ridere, e allontanino il più possibile dai problemi di ogni giorno. Ma, anche se le nostre menti sono distratte dai pettegolezzi dei reality show, nel mondo continueranno ad esserci lo stesso le guerre e tutte quelle cose che vorremmo evitare di sentire quotidianamente.

Guardare questo tipo di programmi una volta tanto non guasta, ma dovremmo saper arricchire la nostra cultura con programmi di livello più elevato privilegiando la mente e lo spirito. Michela Abbascià

Tv spazzatura, controllo sociale e propaganda: soprattutto i giovani vittime del trash e della mediocrità. Enrica Perucchietti l'8 maggio 2018 su unoeditori.com.

Violenza: la vera protagonista in tv. Bestemmie, bullismo, insulti, aggressioni. In queste settimane la violenza è stata protagonista della televisione generalista italiana con la nuova stagione del Grande Fratello e dei relativi talk show. Specchio del lato peggiore e più volgare della nostra società, si stanno imponendo modelli (sulla falsariga estera) di uomini e donne sguaiati, ignoranti, violenti, mostruosamente rifatti e gretti in modo da aumentare la morbosità del pubblico e sdoganare comportamenti sempre più mediocri. Sta cioè andando in onda lo spettacolo della banalità: un modo per distrarre l’opinione pubblica dai problemi che assillano il Paese e per imporre nuovi costumi e nuovi modelli “fluidi” nell’opinione pubblica.

I giovani, vittime del trash e della mediocrità. L’imposizione di modelli sempre più triviali, soprattutto tra i più giovani, serve ad appiattire l’opinione pubblica su canoni estetici e culturali squallidi, rendendoli di fatto un modello da ammirare e imitare. Saranno i più giovani a subire maggiormente il fascino della mediocrità e a tentare di emularla. Dietro alla cornice del puro intrattenimento, si trasmette infatti alle nuove generazioni un modello basato sull’ignoranza e la mediocrità. Lo spettacolo, sempre più trash, funge anche da faro morale, estetico ed etico soprattutto per i più giovani. Chi “lavora” e vive di spettacolo, diviene un’icona e un modello da seguire, modificando pertanto gli usi e costumi della società: se chi sta in TV ce l’ha fatta, vuol dire che deve essere emulato per conseguire soldi e successo. E se le star e starlette di riferimento non sanno fare niente (né cantare, né ballare, né recitare), poco importa, ci si può identificare meglio e illudersi di poter diventare “qualcuno” senza doversi impegnare, studiare, frequentare scuole di perfezionamento.

Il Grande Fratello: da Orwell al Grande Fratello “VIP”. Dalla pubblicazione di 1984 a oggi, l’espressione “Grande Fratello” viene utilizzata per indicare un tipo di controllo invasivo da parte delle autorità, uno stato di polizia totale o l’aumento tecnologico della sorveglianza. Per ironia del destino, la televisione ha reso altrettanto celebre l’espressione usandola per battezzare l’omonimo reality show che ha rivoluzionato l’estetica e il modo di fare TV. Nel format “Grande Fratello” persone sconosciute (o celebri nella versione VIP) accettano di farsi rinchiudere in un appartamento sotto il controllo costante delle telecamere in modo che il voyerismo del pubblico possa cibarsi costantemente delle immagini della vita quotidiana di costoro. Non c’è più nulla di “rubato”, le telecamere non sono nascoste ma finiscono per essere “dimenticate” dagli inquilini della casa e la loro esistenza viene ripresa costantemente dall’occhio del Grande Fratello. Nel nostro quotidiano dominano ormai il voyerismo e la sete di dettagli morbosi. E nell’epoca della post-verità, conta poco il reale, quando la sua interpretazione mediata dalle immagini: anche il giornalismo ha riplasmato se stesso su questa nuova forma estetica, svuotando l’informazione e portandola sul mero piano del gossip pur di acchiappare “clic” e ottenere consenso.

Il sogno? Essere sorvegliati e controllati per diventare famosi. Laddove in 1984 era descritto come un incubo totalitario, oggi la sorveglianza e il controllo vengono visti come un’occasione per mettersi in mostra e diventare “famosi”. Siamo noi a offrire continue immagini e informazioni sui social network pur di apparire e mostrare ogni aspetto della nostra vita (seppure il più delle volte contraffatta, irreale). La privacy è abolita e la sorveglianza desiderata (per poi “indignarsi” di fronte a scandali come il caso Cambridge Anaylitica). I 15 minuti di celebrità di warholiana memoria sono finiti per dilatarsi in una spettacolarizzazione globale della vita quotidiana in cui la realtà viene fagocitata dalle immagini. È lo spettacolo che cannibalizza il reale. Lo spettacolo ha cioè svuotato di significato la lezione orwelliana per consegnare alle nuove generazioni il sogno di poter essere controllati anche nella propria intimità. Non solo: costoro si sottopongono, come vittime sacrificali, a processi mediatici dai risvolti sociali tesi a inculcare nell’opinione pubblica nuovi costumi e a biasimarne altri.

Bulimia sessuale e adolescenza perenne. Viene inoltre proposto il modello di bulimia sessuale e di immaturità sentimentale cronica in cui si sono ormai immedesimati anche gli adulti: ciò spinge tutti, indipendentemente dall’età, a pensare e ad agire come degli eterni adolescenti. E gli adolescenti sono ovviamente più facilmente “manovrabili”. La saturazione illimitata del piacere ha dato vita a un nuovo essere umano, un adolescente perenne che segue esclusivamente la bussola delle proprie emozioni usando sempre meno la propria coscienza critica ed eludendo il ragionamento. Finisce così per credere a ciò che preferisce e gli piace, a ciò che “risuona” meglio, a chi lo convince perché riesce a far leva sulle sue emozioni, a chi lo rassicura ripetendo fino allo sfinimento lo stesso slogan. Vive di empatia e si adagia sui mantra del buonismo e del politicamente corretto che lo rasserenano. Per immunizzarci da questo meccanismo, dovremmo renderci conto che il potere non è interessato a “emancipare” l’uomo o a renderlo “adulto” quanto semmai a controllarlo sempre meglio, indirizzando le sue scelte dopo essere penetrato nella sua anima, nel suo immaginario, anche attraverso lo spettacolo.

Enrica Perucchietti: laureata col massimo dei voti alla Facoltà di Lettere e Filosofia, vive e lavora a Torino come giornalista e scrittrice. È autrice di numerose pubblicazioni.

Tv spazzatura: un coma farmacologico. Tv spazzatura, una breve disamina. Duilia Giada Guarino per Eroica Fenice. Giungono per tutti, anche nel corso di una giornata strapiena di impegni, momenti “da coma”, vuoti, ciechi, che è necessario riempire con qualcosa. E capita a tutti, più o meno frequentemente, di dare una sbirciata a quella che è spesso definita “tv spazzatura” proprio in queste fasi fisiologiche di noia immota. C’è chi lo fa vergognandosene, chi lo fa consapevolmente attratto, chi salta da un programma all’altro aspettando solo il momento della cena.

Non sono in molti a chiedersi il significato dell’espressione “tv spazzatura”. Anzi, sono sempre meno quelli che lo fanno. Nell’ultimo periodo, infatti, simultaneamente all’imperare di internet, dei social network e delle serie TV, i cui astri sono in repentina ascesa, il dibattito sulla tv spazzatura si è decisamente mitigato. Sparito dal baricentro delle tendenze più diffuse e quindi più allarmanti. L’espressione tv spazzatura è stata ideata dai media, dalla critica, dalla stampa, e traduce la parola di matrice statunitense “trash” che significa immondizia o scarto. Infatti molti ritengono che i programmi televisivi etichettati come “spazzatura” o “trash” possano essere descritti come autentici scarti immateriali, prodotti grezzi, gretti, dal valore quasi nullo. La tv, in un’era che si evolve (o involve) a ritmi vertiginosi, è seguita meno ossessivamente di un decennio fa. Oggi si tenta di tenere bambini e adolescenti non tanto distanti da essa quanto dalla dimensione narcotizzante e letale di tablet, pc, smartphone. Nonostante questo, il problema non può ritenersi risolto, ma solo temporaneamente archiviato. È ancora necessario chiedersi cosa rende un programma televisivo “spazzatura” e perché si è ugualmente, o a maggior ragione, indotti a seguirlo con avidità? Dal momento che continuiamo a bombardare i nostri sopracitati momenti da coma, vuoti e cechi con il rumoreggiare assordante del trash, con reality show miseramente privi di qualsiasi contenuto, in cui troneggia fieramente l’assenza di essenza, talento e libero pensiero, è ancora assolutamente necessario chiederselo. Per citare un esempio tra tanti, lunedì 11 settembre è andata in onda la prima puntata del Grande fratello Vip 2, che ha tenuto incollati al piccolo schermo 4,5 milioni di telespettatori, soprattutto giovanissimi. Un tristissimo tripudio di luoghi comuni, sfacciata esibizione e povertà di valori che continua ad attrarre inspiegabilmente.

Ma in realtà, una spiegazione per la tv spazzatura c’è. Quello che attrae è l’anestesia: si guardano programmi che non richiedono il faticoso atto del pensare. Ci si deve solo far trascinare comodamente da mode effimere, dal sistema di pensiero dominante, da un genere di tv messo lì appositamente per distogliere le persone. Distoglierle da cosa? Da quello che non si può dire. Da problematiche reali, da loro stesse, da un mondo impegnativo perché bisognoso di cure. È facile piantarsi dinanzi al trash, sgranocchiare patatine e lasciarsi “drogare” da un circo coloratissimo di personaggi narcisisti, stereotipati e truccatissimi. C’è poco da fare: i “vip” piacciono proprio per il loro essere “very important person” grazie a nessun motivo al mondo. Una trappola ordita sapientemente dagli dèi della comunicazione, del commercio, del marketing a discapito dei telespettatori. Pomeriggio 5, Uomini e donne, Geordie shore, Ciao Darwin… pochi nomi in una costellazione di programmi-spazzatura che mortificano l’intelletto, che annichiliscono serate potenzialmente impiegabili in attività più stimolanti. Un vero e proprio coma farmacologico cui ci sottoponiamo più o meno consenzienti. Ciò non significa demonizzare la visione di questa categoria televisiva: conoscere è la conditio sine qua non per una critica sana e una selettività oculata. Chi ripudia la tv spazzatura per sentito dire, e non sulla base di analisi empiriche, è una stolta pedina esattamente come chi si lascia plagiare dal narcotizzante e subdolo trash. Duilia Giada Guarino per Eroica Fenice.

Tv spazzatura e degrado della società. Gianmarco Ruffo 4°D (gian94) (Medie Superiori) scritto il 23.04.12. La società in cui viviamo si allontana ogni giorno di più dai sani valori di un tempo. Esempio eclatante del degrado della nostra società sono i reality show che spopolano nelle emittenti televisive: si passa da ragazzi sconosciuti ai più che vengono selezionati tra la gente comune, i quali si accapigliano per interi mesi in una casa da favola piena di comfort per chi è più bello o ha la storia sentimentale finta più vera, a personaggi ormai ai margini del mondo dello spettacolo, che si fingono naufraghi su di un’isola, pur di apparire ancora sul piccolo schermo e si “guadagnano” il monte premi, fingendo di vivere come naufraghi. Quello che ancor di più rattrista, ma che allo stesso tempo fa arrabbiare è che questi personaggi diventano idoli indiscussi dei ragazzi che passano intere serate a tele votare chi secondo loro è più meritevole di vincere migliaia di euro, pur non facendo assolutamente nulla. Usata in questo modo la televisione diventa un’arma pericolosissima nelle mani di persone senza scrupoli che farebbero di tutto pur di ottenere due punti di share in più a serata. C’è da aggiungere però che, oltre al dilagare incessante della tv spazzatura, ci sono pochi personaggi e programmi per cui vale ancora la pena trascorrere qualche ora sul divano del salotto. Bisognerebbe rincominciare da personaggi come Fiorello, il miglior show man in Italia, capace di intrattenere per più di due ore 10 milioni di persone davanti allo schermo, parlando di problemi vari dalla politica ai giovani, intervallando tutto con momenti di musica. Altro esempio da cui ripartire è Enrico Brignano che durante i dieci minuti del monologo del mercoledì sera mette in forte imbarazzo la classe politica del nostro paese, per poi essere censurato già dal mattino dopo sul web. È importante per i giovani interagire di più con i coetanei, confrontarsi ed esprimere le proprie idee, non consumare una ricarica ogni sera per votare il “miglior concorrente” di qualche insulso reality. Gianmarco Ruffo 4°D

Televisione spazzatura: tema argomentativo. Appunto inviato da maxhajex su doc.studenti.it. Considerazioni personali sulla televisione spazzatura, tra volgarità e reality show. Tema argomentativo sui pro e i contro della televisione spazzatura italiana.

Televisione “Spazzatura”. La televisione italiana è a mio parere e a detta di molti, un vero e proprio spettacolo incentrato su argomenti spazzatura. Essa, negli ultimi tempi si basa sulla volgarità, sugli spettacoli di violenza gratuita e coloro che dirigono questi programmi sono spesso persone stravaganti, improbabili e alcune volte prive di un minimo di cultura. La crisi più profonda della storia della televisione è in corso e dubito che si dileguerà velocemente, anzi penso che suddetta crisi si propagherà fino a ridurre al minimoprogrammi come documentari storico-scentifici e film con morali importanti. Ormai neanche i reality show, a mio parere forma di televisione spazzatura tra le più accreditate, sono più in grado di portare risultati soddisfacenti in termini di ascolti.

Tema sulla tv spazzatura: pro e contro. Gli ascolti, sono la vera causa di questo decadimento televisivo. Secondo me il problema è da attribuire alla troppa importanza che oggi si da agli ascolti televisivi perchè basandosi troppo sui risultati, in termini di ascolti, si sottovalutano i contenuti e soprattutto si tende a non rispettare il pubblico televisivo, scadendo spesso in volgarità gratuite solo allo scopo di far aumentare questi ultimi. Molte persone però la pensano diversamente replicando che si stanno scatenando troppe proteste contro la televisione spazzatura. Nel rapporto televisione pubblico, infatti chi decide e è sempre il pubblico che fa da sovrano. Non bisogna mai sottovalutare il fatto che siamo noi, telespettatori, a decretare o meno il successo di un programma televisivo, non i prouttori televisivi. In che modo facciamo questo? Scegliendo cosa guardare. Grazie al telecomando (strumento con molto potere nei confronti della televisione )  il telespettatore ha libertà di scelta. Se determinati programmi, ritenuti dall'opinione pubblica e dai critici volgari, hanno tanto successo in termini di ascolti è perché il pubblico televisivo decide comunque di guardarli, scartandone altri moto più educativi. In Italia spesso ci meravigliamo e ci scandalizziamo per piccole banalità senza renderci conto che facciamo tutti parte di un sistema e che, soprattutto per quanto riguarda la televisione, siamo NOI i promotori della tanta spazzatura di cui poi ci lamentiamo. Eppure c'è chi dice basta a tutto questo e lo fa anche in maniera plateale. Durante una puntata di "Buona Domenica", Claudio Lippi, nel cast del programma e autore dello stesso, abbandona in diretta lo studio ed in seguito lascia definitivamente l'intera trasmissione, perché a suo dire troppo volgare e priva di contenuti. A questo tipo i televisione “volgare se ne affianca uno ancora più pericoloso: quella che spettacolarizza il dolore e i sentimenti delle persone che vengono espansi a dismisura per catturare audience. Il caso di Sara Scazzi o della donna uccisa con un pugno a Roma ne sono un esempio lampante ( ho visto una puntata di pomeriggio 5 in cui alcune perone difendevano addirittura l’uomo che aveva tirato questo pugno! ). Ci sono ancora troppi televisori che invece di ricordare le morti atroci di due innocenti, utilizzano questi fatti per discuterne in salotti improvvisati con soubrette e personaggi del jetset che meglio starebbero in un circo a mio parere. Questo tipo di televisione è molto più pericolosa e volgare di due personaggi bzzarri che si insultano gratuitamente.

Televisione "Spazzatura" La televisione italiana è a mio parere e a detta di molti, un vero e proprio spettacolo incentrato su argomenti spazzatura. Essa, negli ultimi tempi si basa sulla volgarità, sugli spettacoli di violenza gratuita e coloro che dirigono questi programmi sono spesso persone stravaganti, improbabili e alcune volte prive di un minimo di cultura. La crisi più profonda della storia della televisione è in corso e dubito che si dileguerà velocemente, anzi penso che suddetta crisi si propagherà fino a ridurre al minimoprogrammi come documentari storico-scentifici e film con morali importanti. Ormai neanche i reality show, a mio parere forma di televisione spazzatura tra le più accreditate, sono più in grado di portare risultati soddisfacenti in termini di ascolti. Gli ascolti, sono la vera causa di questo decadimento televisivo. Secondo me il problema è da attribuire alla troppa importanza che oggi si da agli ascolti televisivi perchè basandosi troppo sui risultati, in termini di ascolti, si sottovalutano i contenuti e soprattutto si tende a non rispettare il pubblico televisivo, scadendo spesso in volgarità gratuite solo allo scopo di far aumentare questi ultimi. Molte persone però la pensano diversamente replicando che si stanno scatenando troppe proteste contro la televisione spazzatura. Nel rapporto televisione pubblico, infatti chi decide e è sempre il pubblico che fa da sovrano. Non bisogna mai sottovalutare il fatto che siamo noi, telespettatori, a decretare o meno il successo di un programma televisivo, non i produttori televisivi. In che modo facciamo questo? Scegliendo cosa guardare. Grazie al telecomando (strumento con molto potere nei confronti della televisione ) il telespettatore ha libertà di scelta. Se determinati programmi, ritenuti dall'opinione pubblica e dai critici volgari, hanno tanto successo in termini di ascolti è perché il pubblico televisivo decide comunque di guardarli, scartandone altri moto più educativi. In Italia spesso ci meravigliamo e ci scandalizziamo per piccole banalità senza renderci conto che facciamo tutti parte di un sistema e che, soprattutto per quanto riguarda la televisione, siamo NOI i promotori della tanta spazzatura di cui poi ci lamentiamo. Eppure c'è chi dice basta a tutto questo e lo fa anche in maniera plateale. Durante una puntata di "Buona Domenica", Claudio Lippi, nel cast del programma e autore dello stesso, abbandona in diretta lo studio ed in seguito lascia definitivamente l'intera trasmissione, perché a suo dire troppo volgare e priva di contenuti. A questo tipo i televisione "volgare se ne affianca uno ancora più pericoloso: quella che spettacolarizza il dolore e i sentimenti delle persone che vengono espansi a dismisura per catturare audience. Il caso di Sara Scazzi o della donna uccisa con un pugno a Roma ne sono un esempio lampante ( ho visto una puntata di pomeriggio 5 in cui alcune perone difendevano addirittura l'uomo che aveva tirato questo pugno! ). Ci sono ancora troppi televisori che invece di ricordare le morti atroci di due innocenti, utilizzano questi fatti per discuterne in salotti improvvisati con soubrette e personaggi del jetset che meglio starebbero in un circo a mio parere. Questo tipo di televisione è molto più pericolosa e volgare di due personaggi bzzarri che si insultano gratuitamente. Se la televisione grida o urla, basta spegnerla. Ma non tollero assolutamente che si approfitti del dolore altrui, diventando senza scrupoli pur di far ascolti.

Alb.Ma. per Il Sole 24 ore il 30 luglio 2019. Nel 1994 Silvio Berlusconi fa irruzione nella politica nazionale con Forza Italia. Nel 2013 i Cinque stelle, la forza anti-establishment fondata dal comico Beppe Grillo, stravolge gli equilibri incassando il 25,5% dei consensi e arrivando cinque anni dopo al vertice del paese. Berlusconi guarda con orrore ai grillini, classificandoli addirittura come «peggio dei comunisti». A sua insaputa, però, potrebbe averne alimentato l’exploit con la sua stessa creatura imprenditoriale: Mediaset, all’epoca rappresentata dalle reti Fininvest. Uno studio pubblicato dall’American Economic Review, «The Political Legacy of Entertainment Tv», ha registrato una correlazione diretta fra l’esposizione alla televisione commerciale e l’inclinazione al voto per forze che adottano un linguaggio populista e ipersemplificato nella propria comunicazione politica. Lo studio, a firma degli accademici Ruben Durante (Universitat Pompeu Fabra di Barcelona), Paolo Pinotti (Bocconi di Milano) e Andrea Tesei (Queen Mary University, Londra), evidenzia che «gli individui esposti alla tv di intrattenimento da bambini risultano meno sofisticati dal punto di vista cognitivo e meno sensibili e meno provvisti di senso civico, e in ultima istanza più vulnerabili alla retorica populista di Berlusconi». In un secondo momento, prosegue il report, la stessa sensibilità alla retorica populista avrebbe favorito lo slittamento dello stesso target di spettatori-elettori da Forza Italia ai Cinque stelle. Le due sigle hanno poco a che spartire sul terreno ideologico. Ma diverse affinità nella scelta del linguaggio: «Nonostante le chiare differenze ideologiche - si legge nello studio - Il Movimento cinque stelle condivide con Forza Italia una retorica populista».

Lo sbarco del Biscione in Italia. Lo studio ripercorre la storia imprenditoriale dell’ex presidente del Consiglio e della tv commerciale in Italia, dal lancio di Canale 5 nel 1980 allo sdoganamento delle reti Fininvest (oggi Mediaset) con legge Mammì del 1990. La tesi è che l’esposizione a una Tv di intrattenimento abbia compromesso le facoltà cognitive di un certo bacino di utenza, rendendo gli spettatori «più vulnerabili» alla retorica populista prima di Forza Italia e poi del Movimento Cinque stelle. L’origine del tutto va cercata, secondo gli autori dell’indagine, nei contenuti dell’offerta televisiva sbarcata sulle frequenze italiane con l’arrivo del «Biscione». L’analisi qualitativa sulla programmazione delle reti di Berlusconi nei loro primi anni di vita evidenzia un approccio completamente diverso dai palinsesti della Rai, ribaltando la funzione informativa-educativa della tv di Stato. Negli anni ’80, gli attuali canali Mediaset risultavano concentrati quasi esclusivamente sull’intrattenimento leggero (dalle soap opera agli show comici) e i film, con un’incidenza pari al 67% e al 23% della messa in onda. Le news sarebbero arrivate solo nel 1991 e non c’era traccia di contenuti a sfondo educativo. La Rai, viceversa, dedicava nello stesso periodo il 34% del suo tempo all’informazione e il 22% a contenuti educativi. Anche restringendo il campo sulla sola dimensione dell’intrattenimento, l’offerta Mediaset appare di livello inferiore a quella della Tv di Stato. Fra 1983 e 1987, secondo un’analisi svolta sulle valutazioni dei portali Mymovies.it e Filmtv.it, le pellicole trasmesse sulle reti Fininvest viaggiavano su rating molto più bassi e risultavano meno adatti a un pubblico sotto a una certa soglia anagrafica.

Da Drive-In alla cabina elettorale. Conseguenze? A livello strettamente cognitivo, si legge nell’indagine, gli spettatori «esposti alla tv di intrattenimento da bambini sono diventati sia meno sofisticati intellettualmente sia meno inclini al senso civico da adulti». Secondo dati citati dall’indagine, l’esposizione alla Tv di intrattenimento nell’infanzia aumenta dall’8 al 25% la probabilità di ottenere risultati sotto la media in test psicometrici. Un dato ancora più drastico arriva dai livelli di abilità di conto e alfabetizzazione: «Gli adulti esposti a Mediaset a un’età molto giovane (sotto i 10 anni) performano significativamente peggio sia nella capacità di fare conto che nell’alfabetizzazione -si legge nel report - In particolare, un incremento nella forza del segnale riduce i risultati di capacità di fare di conto e alfabetizzazione di un quarto e di un quinto rispetto alla deviazione standard». Più in generale, gli elettori esposti fin dall’infanzia alla tv di Berlusconi hanno registrato anche una minore propensione all’impegno sociale e al senso civico. Ma qual è il nesso con la scelta politica? Come fa notare la stessa indagine, è più o meno facile rintracciare un legame tra un bombardamento di news «partigiane» e l’inclinazione elettorale. Un caso eclatante è quello della Fox, l’emittente iper-repubblicana che trasmette negli Stati Uniti ed è ritenuta capace di smuovere robusti flussi di voti in favore del Grand old party. È già meno facile associare il declino di capacità di apprendimento o interesse per la cosa pubblica al voto di un certo partito. La risposta sta nell’ingrediente fondamentale della comunicazione: il linguaggio. «La ragione per cui i leader populisti sono particolarmente attrattivi verso gli elettori meno sofisticati è che usano un linguaggio più diretto e facile da comprendere per i cittadini. Funzionava con Forza Italia, ora con i Cinque stelle».

Quella strana (?) affinità tra Forza Italia e Cinque stelle. In particolare, le aree del paese esposte precocemente alle tv di Berlusconi (attorno al 1985) hanno registrato quote maggiori alla media di elettori berlusconiani nel 1994, mantenendo lo stesso effetto nelle successive cinque tornate elettorali. Dal 2013 in poi, gli autori notano lo stesso effetto sull’elettorato dei Cinque stelle. Il radicamento dell’inclinazione populista si accentua nei due blocchi sociali e anagrafici più propensi al consumo di tv-spazzatura, i giovanissimi e gli over 55 con un basso grado di istruzione. La consequenzialità tra Forza Italia e Movimento cinque stelle può sembrare stridente, almeno rispetto alle origini ideologiche rivendicate dall’una e dall’altra forza politica. In realtà le somiglianze fra i due emergono quando si guarda meno ai contenuti e più al metodo: «Sono comunque due partiti populisti, con caratteristiche simili - spiega Paolo Pinotti, uno degli autori del report - Ad esempio la capacità di rivolgersi agli elettori con un linguaggio semplice e la presenza di un leader carismatico». Sotto questa luce, dice Pinotti, non stupisce che si sia verificato un travaso - sia pure marginale - di elettori fra i due movimenti. Un boomerang su Berlusconi che rivela la versatilità del linguaggio populista, a proprio vantaggio o svantaggio. «Non ci spingiamo a dire in nessun modo che Berlusconi abbia “programmato” in qualche modo questi effetti per poi scendere in politica, visto che si parla di anni ben diversi - fa notare Pinotti - Il fatto che emerge, però, è che Forza Italia si è avvantaggiata di quegli stessi schemi comunicativi adottati dalle televisioni dell’allora Fininvest. Forza Italia è stata un partito populista ante litteram. Ora quello stesso linguaggio funziona con i Cinque stelle».

IL WASHINGTON POST E LA TV SPAZZATURA DI MEDIASET. SIAMO BRUTTI, SPORCHI E CATTIVI? È COLPA DI BERLUSCONI E DI MEDIASET. Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 22 luglio 2019. "Così la TV spazzatura ha fatto diventare i bambini più cretini e ha favorito un'ondata di leader populisti" Strofinatevi gli occhi, ce l'hanno con noi, e non è uno scherzo, è vecchia paccottiglia della peggiore chiacchiera radical chic, tradotta in inglese e adattata alla bisogna dei tempi. Ma vedrete che, appena la scoprono, dalle spiagge di Capalbio si diffonderà in pensosi editoriali e talk show tv, si in TV, a spiegare perché siamo diventati così brutti, sporchi, cattivi, fissati con i confini, non accoglienti delle risorse, disumani come Matteo Salvini. Perciò, siccome leggo qualche giornale straniero anch'io, mi avvantaggio e vi racconto. Italiani, sappiate che siete diventati berlusconiani perché come il serpente del Libro della Giungla, Mediaset vi ha traviato con veleni terribili e fatture segrete fatte di film, sport, programmi comici, tutte droghe pesanti. Poi, essere berlusconiani non vi è bastato più, siete diventati Grillini e addirittura alla fine Salviniani perché il morbo si è diffuso, incontenibile. La versione più aggiornata degli analfabeti funzionali, insomma, la pubblica non la Gazzetta di Forlimpopoli, in un giorno in cui la figlia del sindaco voleva giocare a fare la giornalista, ma il Washington Post, tutti in piedi sull'attenti. Certo che ne rincoglionisce più il fallimento del globalismo e l'odio per il sovranismo dell'Alzheimer, e sono pronti a tutto, anche a rispolverare le più vecchie e trite polemiche antiberlusconiane, quelle che si usavano per convincere gli elettori del Cav che erano stati drogati di TV, il moloch cattivo che ti succhia il cervello, quelle che venivano utilizzate rabbiosamente per spiegare sconfitte elettorali. Ma qui è peggio, molto peggio, la TV cattiva che ha fatto diventare gli italiani in parte berlusconiani, oggi ha partorito bambini cretini e ha favorito l'ondata di leader populisti. Non è la pagina dei libri magari di fantascienza del Washington Post, è quella del business, e hai voglia a scrivere apocalitticamente che la democrazia muore nell'oscurità, come recita il sottotitolo della testata dall'inizio dell'era Trump, la democrazia affoga nel ridicolo, e i media insieme con essa. Titolo in inglese, a dimostrazione che non scherzo: How trashy TV made children dumber and enabled a wave of populist leaders. Autore Andrew Van Dam, del quale si spiega che prima che al Washington Post ha lavorato per il Wall Street Journal e prima ancora per il Boston Globe. Gradirei referenze dal Wall Street Journal. Immagine di lancio dell'articolo, tenetevi forte: Monitors at RAI television studios in Rome display Silvio Berlusconi’s message announcing his political debut on Jan. 26, 1994. Ovvero gli schermi degli studi della  Rai di Roma mostrano il messaggio di Berlusconi che annuncia il suo debutto in politica il 26 gennaio del 1994. Perché, e qui la finisco con le citazioni in inglese, "This is a story about how the lowest common denominator of popular media paved the way for the lowest common denominator of populist politics. And it’s got data. Questa è la storia di come il minimo comun denominatore dei media popolari ha spianato la strada al minimo comune denominatore dei politici populisti". Sapete come comincia la storia? Comincia con l'apertura delle frequenze italiane che a lungo erano state monopolio della RAI, ma negli anni 80 un canale ostentatamente rozzo e aggressivo chiamato Mediaset riesce a farsi strada nel mercato e si diffonde nel Paese acquistando piccoli canali locali e contrastando la missione educativa della Rai con una dose pesantissima di cartoni, sport, soap opere film e altro genere di intrattenimento leggero...Sterco del demonio, e si capisce che il nostro autore sente la puzza di zolfo ma prosegue con coraggio nel racconto. All'inizio degli anni 90, 49 italiani su 50 potevano guardare Mediaset, e a metà del Paese questo accesso fu reso possibile in solo 5 anni di tempo. Di qui uno studio di economisti italiani che ha comparato le città che avevano Mediaset fin dall'inizio con quelle che l'hanno avuto più tardi, e così hanno calcolato come pochi anni in più di TV possano plasmare le politiche di una società. Italiani, lo sapevo, i tre signori economisti ci mettono il nome e la faccia, si chiamano, Ruben Durante, Universitat Pompeu Fabra a Barcelona, Paolo Pinotti, Bocconi University di Milano, e te pareva, Andrea Tesei, Queen Mary University di Londra. Hanno analizzato che una maggiore esposizione agli insulsi programmi di Mediaset, tipo Chernobyl, ha dato luogo a un sostegno duraturo ai candidati populisti che esprimano messaggi semplici e diano risposte facili. Qui viene il bello, voi potete aver creduto che tutto ciò abbia ovviamente favorito il fondatore padrone di Mediaset ovvero il noto politico populista ed ex primo ministro Silvio Berlusconi. Ma in parte vi sbagliate, perché i ricercatori sono arrivati a dimostrare che l'effetto non riguarda solo Berlusconi, che ne hanno beneficiato anche i contendenti avversari populisti, soprattutto il MoVimento 5 stelle...Il diabolico ruolo della televisione nel successo populista sta apparentemente nell'intrattenimento, non nei messaggi politici. Durante il periodo di esposizione maggiore al morbo, infatti, né Mediaset e né Berlusconi facevano ancora politica ma in quegli anni Mediaset offriva quasi tre volte di più di tempo dedicato a film e intrattenimento rispetto alla Rai ed evitava quasi tutte le notizie e i programmi educativi. A uno verrebbe di dire beh meno male, c'erano già quelli del partito Rai erudire il pupo di sinistra. Invece non è così perché Benjamin Olken, professore al Massachusetts Institute of Technology,che ha praticamente inventato il metodo di analisi usato dal team italiano, sostiene che la ricerca conferma che la TV che non è esplicitamente politica può avere un effetto sulla politica. Com'è questo rigoroso metodo? Semplice, Olken aveva testato la sua teoria già nel 2009 niente meno che in 606 villaggi nell'isola indonesiana di Java, una società notoriamente affine a quella italiana, per dimostrare che più televisione vedi meno sei attivo nella partecipazione alla vita civile. Peggio, il guaio comincia presto, e forse bisognerebbe toglierli ai genitori - chiamate gli assistenti sociali - questi bambini che guardano Mediaset e l'hanno guardata negli anni della formazione, perché, come ha spiegato l'economista Durante, crescono meno sofisticati dal punto di vista cognitivo e meno preoccupati dal punto di vista civico rispetto agli altri che hanno visto solo TV pubblica o altra televisione locale. E noi che abbiamo sempre creduto che la televisione sia soltanto un medium, un mezzo, non un fine, e che tutto dipende da quante ne vedi, di che livello è l'impegno della famiglia, quanto ti forma la scuola... Macché, sentite l'esperto: ogni ora che passa a guardare TV è un'ora in cui non leggi, non giochi all'aperto non socializzi con gli altri bambini, e questo ha effetti a lungo termine sul genere di persona che diventerai...Com'è che questa ardita teoria non viene sviluppata per internet i social? forse perché le felpette di Silicon Valley sono gli stessi che commissionano queste ricerche progressiste? Andiamo avanti, implacabili. Hai guardato Mediaset prima di compiere i 10 anni di età? Pronto un test che dice che sai leggere peggio e  vai peggio di matematica dei tuoi coetanei non esposti a Mediaset. Perciò non deve sorprendere se è possibile che questi uomini e queste donne siamo stati attratti da Berlusconi e poi dai 5 stelle, cioè dal linguaggio semplice nei discorsi e nell'agenda politica, come spiegano gli economisti. Quando poi Mediaset ha deciso di introdurre anche la parte di news e informazioni, all'inizio degli anni 90 il pubblico dei tossici era conquistato e ha continuato a seguire anche le notizie oltre all'intrattenimento su quelle reti. Così è stata possibile la vittoria del 1994 di Berlusconi, l'imprenditore trasformatosi in demagogo populista dopo la caduta di governi corrotti da  scandali. I vecchi ascoltatori erano incollati alle notizie e hanno creduto a quella campagna. E' un'analisi comparabile a quella fatta nel 2017 per spiegare l'influenza di Fox news nelle vittorie dei repubblicani, e te pareva anche in questo caso. In Italia, conclude l'articolo, non è che la televisione abbia creato elettori più conservator, li ha resi più vulnerabili ai messaggi contro l'establishment favoriti dai leader populisti del Paese di tutte le correnti politiche. Prima Berlusconi ha beneficiato del declino nella conoscenza dell'impegno civile, poi dal 2013 altri ne hanno preso il posto e il ruolo. Se ne avete ancora la capacità e il vostro cervello non è stato completamente offuscato dall' aver di recente rivisto Pretty Woman, una possibilità di risposta a questo articolo, e al dotto studio dei tre ricercatori italiani, lo avete. Ve lo ricordate il pernacchio di eduardiana memoria? Era prima dell'era Mediaset, è sempre valido. 

Intervista a Ernesto Galli Della Loggia Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 22 luglio 2019.

«Delle ultime puntate della commedia dei finti equivoci tra Di Maio e Salvini mi importa niente. Capisco che, in quanto italiano, sia rilevante anche per me dove va questo governo e come finirà la vicenda, ma non ho nulla in proposito da dire. Non sto a commentare o a inseguire l' ultimo tweet di nessuno».

Vedo, in effetti ultimamente scrive sempre meno di politica, cosa stravagante per un politologo: non le interessa più?

«Bisogna intendersi su cos' è la politica. Per me non sono le diatribe verbali a cui assistiamo tra Lega e Cinquestelle, quella è una parodia della politica e non merita analisi perché cambia di giorno in giorno, per poi non cambiare mai. Affrontare temi come la riforma della giustizia, il divario tra Nord e Sud, il crollo del sistema scolastico: questo dovrebbe voler dire occuparsi di politica. E i giornali potrebbero fare la loro parte».

Colpa dei giornali se si parla troppo di politica e se ne fa poca?

«I quotidiani si sono prima subordinati alla tv, e ultimamente anche a facebook e twitter: si limitano troppo spesso a ripetere le notizie dei tg o a rilanciare le dichiarazioni che i politici fanno sui loro social, ma così perdono importanza agli occhi dei lettori e dei politici stessi».

Cosa dovrebbero fare invece?

«Disinteressarsi delle esternazioni quotidiane dei politici, lasciandoli ai loro social e smettendo di appagarne la vanagloria, e invece iniziare loro, magari, a fare politica affrontando in chiave costruttiva i temi del Paese. Se cominciassero a farlo, i politici forse smetterebbero di tener conto solo della tv e tornerebbero a occuparsi di cose serie. Certo, capisco che è più semplice fare da megafono ai politici, ma alla lunga così si diventa marginali».

In vacanza, nel giorno del suo settantasettesimo compleanno, il professor Ernesto Galli della Loggia trova ci sia poco da festeggiare a livello nazionale. Non ha fiducia in questo governo ma neanche in quello che verrà, qualunque esso sia. È annoiato dal dibattito politico e perplesso di fronte a un Paese che non pare interessato a guarire i propri mali atavici, ma neppure a lenirli, al punto che ormai non se ne parla neppure più, ci si limita a tirare avanti alla giornata.

Non crede che i politici preferiscano facebook ai quotidiani perché così non sono chiamati a confrontarsi con un interlocutore?

«In parte può essere così, ma sono convinto che i leader passino ore su facebook perché credono davvero che la politica si faccia in questo modo. È la sola cosa che in un certo senso hanno imparato fare, e la fanno ignorando che il Paese se ne va per i fatti suoi».

E dove si sta avviando l' Italia?

«Al declino, come si evince dai principali dati economici e sociali. Abbiamo ancora la mafia e la camorra, i nostri studenti sono poco preparati, ci trasciniamo mali secolari. Abbiamo perso troppi treni, specie negli anni Ottanta, quando le cose andavano ancora bene».

Ma non declina tutta Europa?

«Certo, dal momento che la storia è andata come è andata e siamo un continente diviso privo di alcun peso reale. Ma il declino italiano è particolare.

Veneriamo la Costituzione per ragioni ideologiche anziché riformarla.

Avremmo dovuto cambiare la forma di governo, non possiamo più avere il bicameralismo e una diarchia tra Palazzo Chigi e Quirinale di modo tale che ci ritroviamo poi premier per caso e solo di facciata come Conte. Anche la giustizia meritava una riforma capace di farle acquistare presso i cittadini il credito che aveva perduto e di fornire al Paese un servizio assolutamente essenziale».

Lo scandalo del Csm ha assestato un colpo definitivo alla credibilità della magistratura?

«La credibilità della magistratura era in caduta libera già da prima, e non potrebbe essere diversamente visto il cattivo funzionamento della giustizia stessa. Non esistono ospedali cattivi con medici rispettati, e così è per i tribunali».

Colpa della politicizzazione delle toghe?

«La politicizzazione esiste ma è cosa, credo, che interessa soprattutto una minoranza della popolazione. Alla maggioranza interessa di più avere un processo in tempi brevi, equo, semplice e poco costoso. Se non ce l' ha, è allora, semmai, che comincia a fare caso alla politicizzazione dei magistrati».

Vuole anche lei la separazione delle carriere tra giudici e pm?

«Vorrei soprattutto un maggior uso della giuria, che consentirebbe ai cittadini di essere giudicati dai propri pari e obbligherebbe i magistrati, io credo, a una modifica culturale dei propri comportamenti e del proprio atteggiamento, troppo spesso castale».

Un argomento sul quale lei torna da tempo è la crisi dell' istruzione. Il suo ultimo libro in merito, "L' aula vuota" (Marsilio), è un atto d' accusa pesantissimo al mondo della scuola. Non ritiene di avere un giudizio troppo negativo? In fondo non facciamo che sfornare cervelli in fuga che fanno gola all' estero...

«In ogni naufragio c' è qualcuno che si salva. Il fatto che abbiamo un certo numero di ottimi studenti che il nostro mercato del lavoro non sa valorizzare non cancella la realtà fotografata dagli ultimi test Invalsi: la preparazione media dei nostri ragazzi specie nel Mezzogiorno è penosa».

Colpa dei professori?

«No. Colpa soprattutto di 30 anni di riforme sbagliate che stanno dando i loro frutti. Non siamo riusciti a coniugare educazione di massa e scuola di qualità: l' equazione è fallita quando per motivi ideologici si è pensato che il punto decisivo fosse quello di "democratizzare" la scuola, di dare l' autonomia ai singoli istituti, e di rivedere radicalmente i programmi. E soprattutto che fosse una cosa molto progressista promuovere tutti».

Allora è vero che lei è diventato un reazionario?

«Non m' importa che lo si pensi. Mi limito a osservare che sono un reazionario le cui idee vengono ripetute dieci anni dopo dai progressisti».

Questo significa che il mondo si sta spostando a destra?

«Ma lo sa che questa è una tipica affermazione di sinistra?».

Torniamo allora alla cultura: le celebrazioni per Camilleri le sono sembrate eccessive?

«Siamo un Paese ammalato di retorica, specie quando c' è un morto di mezzo. Ho letto cose incredibili su Camilleri, tipo che sarebbe stato un maestro dell' umanità, che ha passato la vita a difendere i deboli e gli oppressi e così via con i voli pindarici. Non esageriamo, è stato un buon scrittore ma non era Tolstoj. Non mi meraviglierei se tra cinque anni nessuno si ricordasse più di lui se non come l' inventore di Montalbano. Siamo fatti così».

Si è iscritto anche lei nel club degli anti-italiani?

«Ho combattuto una vita contro questa espressione. Io sono italiano, come lei e come tutti, ahinoi. E non esistono italiani buoni e italiani cattivi, siamo tutti sulla stessa barca».

Come si raddrizza questa barca?

«Con serietà e realismo, due elementi che in questi decenni sono mancati a tutta la società italiana, non solo alla classe politica. La serietà ti impone di parlare solo di cose delle quali hai conoscenza e che misuri in base al risultato, non alla demagogia. Il realismo è il suo parente stretto e ti obbliga a restare con i piedi per terra e non proclamare ad esempio, neppure per scherzo, la fine della povertà».

La società sta regredendo, con il ritorno a immense ricchezze e tragiche e sconfinate povertà?

«Non esageriamo. La globalizzazione è stata criminalizzata ma ha causato un abbassamento del tenore di vita solo in Europa. In Africa e Asia essa ha contribuito a tirar fuori dalla povertà assoluta due miliardi di persone. La ricchezza mondiale è cresciuta, ma c' è più gente con cui spartire la torta».

Il nostro anti-globalismo quindi è egoismo?

«No, è la reazione a un fenomeno inevitabile che le nostre classi dirigenti non hanno saputo né capire in tempo né gestire. In particolare la sinistra non ha capito le gravi conseguenze sociali della globalizzazione sul mondo del lavoro e sulla localizzazione delle produzioni industriali. La mancata previsione e gestione di questi problemi ha gettato nell' incertezza e nelle difficoltà economiche un parte importante della popolazione europea e posto le basi del disordine politico attuale. Anche lo scontro sull' immigrazione è figlio di una serie di errori fatti a proposito della globalizzazione e del multiculturalismo ritenuto suo presunto, inevitabile effetto».

L' immigrazione sta dilaniando il mondo cattolico. Papa Francesco è molto popolare, però le chiese continuano a svuotarsi e, tra chi ancora ci va, parecchi sono critici con il Pontefice dell' accoglienza. «Il calo dei fedeli è dovuto soprattutto, io credo, alla secolarizzazione che colpisce tutte le società occidentali, non lo legherei specificatamente a questo papato. Francesco si è molto esposto sul tema immigrati, assumendo una posizione radicale sull' accoglienza; giocoforza è stato divisivo. Ma il tema per la verità prescinde dalla fede, tant' è che troviamo atei pro-accoglienza e cattolici contro l' accoglienza».

Un cristiano non dovrebbe uniformarsi al pensiero del Pontefice?

«Nello scontro sull' immigrazione non ci sono, a me pare, questioni religiose o teologiche in ballo. Esiterei molto a dire, ad esempio, che chi si oppone agli arrivi indiscriminati è un anti-cristiano. Il contrasto all' immigrazione indiscriminata è una questione molto importante che riguarda in special modo la vita quotidiana delle classi popolari di molte aree urbane del Paese. Come si fa a dire che chi vive nelle periferie e non vuole un campo rom vicino non è cristiano? Bisognerebbe trovarsi al suo posto e vivere le sue giornate per giudicare».

La crescita di Salvini è dovuta alla posizione sugli immigrati.

«Non solo. È legata al fatto che il leader leghista riesce a intercettare e farsi paladino di temi forti legati ai problemi della gente. Questioni anche trasversali, tant' è che su sicurezza, pensioni e immigrati si è andato a prendere pure molti voti a sinistra».

Viceversa, come spiega il tracollo di M5S lei, che è tra gli elettori pentiti della Raggi?

«Le ragioni del mio pentimento sul voto romano sono intuitive. Più in generale, penso che i grillini stiano perdendo consensi perché hanno fatto troppe promesse senza combinare alcunché. Specie al Sud, la loro roccaforte, alla fine si è dimostrato che non avevano alcuna ricetta salvifica oltre al reddito di cittadinanza che peraltro non riguarda affatto solo il Sud. E poi M5S è stato surclassato mediaticamente da Salvini».

Il governo è agli sgoccioli?

«Chi lo sa? Lo spettacolo quotidiano è stucchevole. Ma personalmente sono arciconvinto che anche se dovesse cambiare il governo e subentrasse, per esempio, un esecutivo M5S-Pd, o anche un governo tecnico, in realtà non cambierebbe nulla. Dappertutto mancano visione, coraggio e strumenti culturali, in più non ci sono né le risorse né gli strumenti istituzionali per governare bene, a cominciare dalla macchina dello Stato che fa acqua da tutte le parti».

E la sinistra come sta, gli serviranno vent' anni per risorgere?

«Da quella parte non mi pare di vedere segnali confortanti. Anche lì il personale politico è in complesso quanto mai scadente. Direi che lo stato della sinistra ben riassume la crisi della classe dirigente politica e non solo politica nel suo complesso».

Attualmente la sinistra sta cavalcando il Russiagate, ma la vicenda pare non fare breccia nell' opinione pubblica: come se lo spiega?

«L' elemento giudiziario è abusato. Gli italiani sono saturi e poco propensi ormai a credere a inchieste e complotti. La nostra opinione pubblica è storicamente abituata da decenni a vedere i partiti che ricevono finanziamenti dall' estero, perché dovrebbe scandalizzarsi proprio ora? Siamo un Paese con scarso orgoglio nazionale e un passato in cui il denaro di provenienza dubbia e straniera ha costituito un presupposto tacito della nostra quotidianità democratica». 

·         Piange l’edicola del mercimonio.

Fabio Pavesi per il “Fatto quotidiano” 19 dicembre 2019. L'editoria ti fa ricca. Come è possibile, viste le condizioni di salute dei grandi gruppi editoriali, con bilanci che scricchiolano e le copie vendute in edicola che collassano ogni anno da almeno un decennio? Un paradosso, ma non per lei, che di nome fa Laura Cioli, brillante ingegnere con master alla Bocconi che ha calcato negli ultimi 4 anni il palcoscenico dei giornaloni come capo-azienda prima di Rcs e poi di Gedi.Ora quell' avventura nel Gotha dell' informazione è finita. Con il passaggio di mano dell' ex gruppo L' Espresso dai De Benedetti a Exor, anche Cioli ha dovuto lasciare la tolda di comando. Ma con ogni probabilità difficile che abbia di che recriminare. Per la risoluzione del rapporto la manager cinquantenne incasserà 1,85 milioni di euro più 100 mila euro legati a un Mbo, premio legato agli obiettivi. Oltre ovviamente al Tfr dovuto.

Marco Palombi per “il Fatto Quotidiano” il 12 dicembre 2019. Luigi Abete è stato ed è mille cose: presidente di Bnl, ad esempio, come pure della Luiss Business School, della Febaf (Federazione banche, assicurazioni e finanza), eccetera. Abete è pure imprenditore in proprio tramite la holding di famiglia A.Be.Te, che l' anno scorso gli ha dato qualche dispiacere visto che, dopo svalutazioni per 2 milioni di euro, ha registrato una perdita da 1,7 milioni. Le brutte notizie per A.Be.Te sono dovute soprattutto ad Askanews, un' agenzia di stampa in cui non hanno mai messo soldi e sulla quale da gennaio pende una richiesta di concordato preventivo in continuità al Tribunale di Roma. In sostanza, gli Abete vorrebbero far pagare la crisi a dipendenti e creditori: chiedono, in particolare, di licenziare almeno 23 giornalisti su 76 per risparmiare circa 2,4 milioni di euro in un' azienda che, da quando esiste nel 2014, ha più o meno continuamente usufruito di ammortizzatori sociali. Il giudice non ha ancora deciso, ma intanto l' azienda ha comunicato al sindacato la chiusura delle trattative interne: si parla solo al tavolo ministeriale, un bello schiaffo pure al sottosegretario Andrea Martella, che ha la delega all' editoria e ha convocato azienda e comitato di redazione per stamattina. Per manager e imprenditori, si sa, razionalizzare i costi e mandare a casa i lavoratori è spesso un' operazione impersonale: sono numeri. In realtà, per chi è coinvolto, è personalissima e stavolta anche Luigi Abete dovrà trattarla come tale. Alla Procura di Roma è depositato infatti un esposto (che ad oggi non ha prodotto indagati) in cui si parla di Abete, Askanews e di Désirée Colapietro Petrini, giornalista e sua ex fidanzata: l' accusa, in sostanza, è di averla assunta in forza alla redazione spettacoli - in Asca e poi in Askanews - senza che la collega abbia mai effettivamente lavorato per l' agenzia (dove, effettivamente, in dieci anni non l' ha vista quasi nessuno). Poco male, se non fosse che la stessa cronista risulta nella lista di chi ha usufruito di contratti di solidarietà e Cassa integrazione. Insomma, è stata in carico al già malmesso Inpgi (la cassa previdenziale dei giornalisti): cifre marginali, ma la vicenda è imbarazzante. Nell' ultimo round negoziale sulla Cassa integrazione, all' inizio del 2019, questa storia fu tirata fuori dal sindacato persino al tavolo ministeriale senza che l' azienda replicasse nulla. L' interessata - che online si descrive come press agent nel settore spettacoli - al Fatto smentisce la ricostruzione dell' esposto: "Sono stata assunta nel 2009 in Asca per aprire la sezione spettacoli, ho un part time che mi consente di fare anche il mio altro lavoro di ufficio stampa e ho sempre fatto quel che dovevo da contratto, anche andare in redazione quando mi è stato chiesto. Sapevo di questa cosa e umanamente mi addolora, ma sono tranquilla: si usa la mia vita privata per colpire l' azienda". Anche l' azienda nega qualunque problema: "Tutti i dipendenti assunti lavorano regolarmente per l' agenzia". In realtà la procedura concorsuale - che ha le sue ragioni nelle perdite per oltre 5 milioni degli ultimi due bilanci (cui se ne dovrebbero aggiungere almeno 2 quest' anno) - potrebbe rivelarsi "imbarazzante" anche per un altro motivo. Per capire, serve un breve riepilogo. Askanews nasce nel 2014 dalla fusione tra la cattolica Asca, già controllata da Abete, e TmNews, che l' uomo di Bnl aveva preso da Telecom, previa ricapitalizzazione, pagando un euro (sic). Quella fusione creò, tra le altre cose, anche un credito da 2,6 milioni di Askanews nei confronti della A.Be.Te, debito che quest' ultima ha poi passato alla News Holding, sempre di Abete. A marzo 2017, mentre già si parlava di crisi dell' agenzia, News Holding "vende" ad Askanews due partecipazioni (tra cui il 19% di Internazionale) per oltre 2,2 milioni di euro, estinguendo di fatto il credito dell' agenzia. Soldi che avrebbero fatto assai comodo oggi, specie in presenza - se verrà autorizzata - di una procedura concorsuale che chiama i creditori a partecipare alle perdite. Ora, bizzarramente, il credito verso A.Be.Te è un diventato debito (anche se, a fine 2018, di modesta entità) e - nel piano messo a punto dall' azienda - c' è pure il trasferimento della sede dal centro di Roma alle palazzine di proprietà della famiglia nella periferia orientale della città al costo di 150 mila euro l' anno: soldi a cui la holding, bontà sua, rinuncerà (temporaneamente) per rimpinguare il capitale di Askanews. Oggi la palla è a Palazzo Chigi, paradossalmente la vera causa della crisi con la scelta scellerata di assegnare i fondi attraverso il farraginoso sistema delle gare inventato da Luca Lotti.

Dagospia il 10 dicembre 2019. Post di una collaboratrice del Corriere su Facebook, sta facendo rumore, a seguire il commento di Pigi Battista...

Barbara D'Amico su FB: Da oggi interrompo la collaborazione con il Corriere della Sera e in particolare con la sezione per cui scrivo da anni, La Nuvola del Lavoro. Voglio spiegarvi bene le ragioni di questo stop. La prima è di natura pragmatica. Per la seconda volta da quando collaboro con la testata i compensi lordi per gli articoli online sono stati arbitrariamente abbassati, stavolta del 25% (la prima volta fu del 50%: da 40 euro lordi a 20 euro lordi ora siamo a 15 euro lordi). Dico arbitrariamente nel senso che non ho mai ricevuto una comunicazione tempestiva, prima che i tagli fossero effettivi. E’ chiaro, lo decide il management, ma saperlo in tempo aiuta a capire se continuare a collaborare sia sostenibile oppure no. I nuovi tagli sono stati decisi a ottobre ma ne sono venuta a conoscenza solo venerdì 6 dicembre, direttamente in “busta paga”, per così dire e per articoli già scritti. La comunicazione interna, dalla redazione, è poi arrivata stamattina, ma a mio avviso comunque tardiva. E qui veniamo alla seconda e vera ragione: il silenzio. Non deve essere un tabù comunicare in modo chiaro ai collaboratori che non c'è budget sufficiente, che non ha senso continuare. Può capitare, non esiste un diritto alla collaborazione né tantomeno esiste una formula magica per far decollare un prodotto editoriale e garantire poi contratti e tutele. Ma il lavoro giornalistico, a qualunque livello, è lavoro. Non un hobby. Penso esista quindi sempre un dovere di informazione interna attraverso una comunicazione chiara, trasparente e non lasciata ai cedolini, alla sensazione, all’effetto sorpresa. E penso esista una sorta di dovere di sostenibilità: se cioè affido un lavoro all’esterno, anche con poche risorse, devo almeno sincerarmi che quelle risorse e quelle condizioni si possano mantenere. Non si tratta dei 5 euro in più o in meno, ma della fiducia di chi collabora. Poi ognuno, sapendo come stanno le cose, può decidere se lavorare quasi gratis oppure no. Capisco tutto, anche il fatto che non ci sia comunicazione tra management, amministrazione e redazione, ma il risultato di questo caos interno non dovrebbe essere fatto scontare alle professionalità che stanno in fondo a questa ipotetica catena di comando. Non voglio nemmeno che la vicenda passi come prova che il passo indietro dipenda dai tagli, dalla crisi dell’editoria, dal fatto che "la gente non legge e non compra più il giornale". C’è un livello più interno, di rispetto minimo, che passa anche per il modo in cui si organizza il lavoro e riguarda il trattamento delle persone. Senza bisogno di tirare in ballo i Cda, la libertà di stampa, il rosso in banca, l’analfabetismo funzionale. Anzi. Parlando più in generale, ho sempre pensato che puntare il dito contro il lettore ignorante o scroccone o non meglio identificati difetti di sistema fosse il miglior modo di non assumersi mai responsabilità. Nell’editoria c’è la tendenza del ristoratore. E' come, cioè, se un ristoratore desse colpa del calo degli affari al fatto che la gente non mangia più o peggio mangia ció che trova in strada. Non cambia strategia, ma nel frattempo continua a chiedere a cuochi e camerieri di servire. Esistono ragioni strutturali per cui i compensi sono bassi, è chiaro, ma non c’è una legge che obblighi le redazioni ad avvalersi del lavoro esterno se le risorse scarseggiano. Penso cioè che la responsabilità di questo stato di cose non sia solo “degli altri” né dei piani alti: è anche e soprattutto di chi denuncia, e quindi mia in qualità di freelance. Avete capito bene. E' mia corresponsabilità perché nel momento in cui accetto certe condizioni poi diventa difficile chiedere cose come maggior trasparenza, chiarezza, tempestività. Al di là dei soldi, che avrete capito qui non sono il vero motivo dello stop, trovo incongruente continuare a infondere energie e competenze nel dare voce al mondo del lavoro quando nel mio ambiente di lavoro mancano quelle condizioni minime predicate in editoriali e articoli. E' un settore particolare quello del giornalismo, non certo un mondo in cui scorrono fiumi di denaro. E proprio per questo è illogico chiedere a collaboratori freelance sottopagati di verificare le notizie. Lavorare gratis o sottopagati, lo sappiamo, è un errore e parte del problema. Ma c'è anche una sciatteria pericolosa da parte di chi sa bene che potrebbe e dovrebbe fare a meno dell'esternalizzazione delle collaborazioni e invece persevera senza produrre un piano di sostenibilità di medio o lungo termine. Dico piano volutamente, perché non è detto funzioni ma almeno bisogna far vedere che una visione c’è. Se il lavoro dei collaboratori nel giornalismo non è ritenuto economicamente sostenibile e tanto meno degno di una comunicazioni tempestive - accade a me ma anche ad altri colleghi in altre testate - perché continuare ad avvalersene? Non è una questione di denaro. Ma di coraggio. Credo, insomma, sia arrivato il momento di congedarmi, per tutte le ragioni che ho descritto, sperando di stimolare un minimo di riflessione sull'opportunità di continuare a tenere in vita sistemi non pianificati. Senza scomodare per ora diritti e tutele che pure sono essenziali per fare informazione. Servirebbe un’ecologia del giornalismo. Servono un piano, umiltà, coesione tra chi fa lo stesso mestiere a prescindere dal contratto con cui lo svolge e bravi manager dell'informazione in grado di chiarire a monte cosa ci si può permettere e cosa no. Sono le uniche formule in cui credo e che cerco di portare avanti da anni, insieme alla convinzione che rallentare, dire no e non accettare di collaborare a qualunque condizione, sia la strada da seguire. Barbara D'Amico, Giornalista

PIERLUIGI BATTISTA: ...Comincia così un lungo post di Barbara D'Amico. 15 euro lordi a pezzo è moralmente inaccettabile. Editori e giornalisti garantiti e silenti dovrebbero vergognarsi. Io mi vergogno.

Luca Monaco per “la Repubblica” l'11 dicembre 2019. Sono laureati, parlano le lingue e non hanno alcuna intenzione di svendere un mestiere tramandato da generazioni per piegarsi alla logica del profitto. « Le edicole, da sempre - affermano - vendono libri, giornali e riviste. Non chincaglieria» . Un concetto che continua a orientare le scelte di diversi edicolanti del centro storico, che non accettano di avvalersi delle disposizioni introdotte con un emendamento alla legge di bilancio della Regione Lazio presentato nel 2016 dall' ex consigliere Francesco Storace e che consente da allora di adibire il 40 per cento della superficie dei chioschi alla vendita di prodotti non editoriali: i souvenir che rendono buona parte delle 800 edicole romane dei piccoli templi del cattivo gusto. Le tirature di riviste e quotidiani sono in picchiata, ma loro, da piazza Campo de' Fiori a piazza Capranica, passando per piazza Farnese, via della Dogana Vecchia, piazza della Moretta e via Palermo, provano a resistere al calo dei lettori puntando sulla professionalità. Lavorano con il sorriso. Come Rossana Farina, 57enne dottoressa in Letteratura italiana, edicolante in piazza Campo de' Fiori da 27 anni. «Quest' edicola appartiene alla mia famiglia dalla fine dell' ' 800 - rileva - la mia bisnonna ha iniziato come "strillona", poi le diedero il permesso per mettere in piccolo banchetto » , che negli anni si è trasformato in un chiosco. Dalla sua finestra sul mondo, ricolma di riviste specialistiche e quotidiani italiani e stranieri, Farina dispensa indicazioni ai turisti e consigli ai lettori. « I souvenir non li voglio vendere - esclama - difendo la mia professionalità: ho studiato al Tasso e poi ho fatto l' università. Quando 20 anni fa mi sono separata dal mio ex marito, ho iniziato a lavorare. Con quest' edicola ho cresciuto da sola due figli». Loro però non ne vogliono sapere: «Il fatturato è calato di due terzi negli ultimi cinque anni - denuncia - e hanno scelto altre strade. Quest'edicola, se nessuno aiuterà il settore, morirà quando smetterò di lavorare». Cento metri più avanti, in piazza Farnese, Gianni, 62 anni, ha già affisso il cartello " vendesi". «Questo chiosco sta qui dal 1906, era di mia suocera - sospira - faccio l' edicolante da 42 anni. Mi piace stare a contatto col pubblico, leggere e vendere i giornali. Ma il lavoro è calato del 40 per cento». Gianni si rifiuta di esporre tazze, magneti, spillette. «Oltre ai giornali, ho le solo cartoline e mappe di Roma - spiega - proporre altra merce significa fare un altro lavoro, non l' edicolante. E io non sono capace». Perché come tutti i mestieri artigiani, anche quello dell' edicolante si impara da giovani, dai parenti possibilmente. È stato così anche per Emiliano Guerrera, 40enne titolare del chiosco in piazza della Moretta, dietro via Giulia. « Mia nonna aveva l' edicola in via Palermo, sotto il ministero dell' Interno, adesso lì c' è mia zia Roberta. Io sto qui dal 2003, avevo 24 anni, ma il lavoro l' avevo imparato da piccolo in via Palermo». Finito il servizio di leva nei vigili del fuoco, Guerrera ha iniziato la carriera di giornalaio. « Vendo solo prodotti editoriali - fa notare - eccetto per l' acqua e gli occhiali da vista. Ma il lavoro è calato, non conviene più». Perché? «Il ricarico sui souvenir è dell' 80per cento, mentre sui prodotti editoriali è del 19 - chiarisce - del prezzo dei biglietti dell' autobus ci mettiamo in tasca solo il 3 per cento, per le ricariche telefoniche il 2. Come si fa a rimanere aperti, la gente non legge più», esclama. «Prima vendevo 200 copie al giorno per ognuna delle due principali testate nazionali, oggi ne vendo 50. E poi anche farsi mandare il giusto numeri di riviste, enciclopedie, è un' impresa. Le case editrici non ci rispondono mai». Restare aperti, senza riempire l' edicola di chincaglieria, diventa un' impresa. «Eppure non ci arrendiamo - assicura Fausto Giorgetti, 55enne titolare dell' edicola di famiglia, aperta da oltre 100 anni in piazza Capranica - la gente ci apprezza proprio perché difendiamo il decoro, la cultura di un mestiere faticoso, ma bellissimo».

Editoria sempre in difficoltà, cresce solo il digitale. Avevamo visto giusto 5 anni fa...Valentina Rito su Il Corriere del Giorno l'11 dicembre 2019. La conferma dell’oculatezza ella nostra scelta editoriale arriva dallo studio di Mediobanca: nel nostro Paese prosegue il trend decrescente della diffusione cartacea in Italia nel 2018  che , con una diminuzione nell’ultimo anno di circa 240 mila copie al giorno . Nella diffusione digitale i maggiori incrementi (+14,2% nel 2018 e +104,5% nel quinquennio). L’industria dell’informazione continua a non godere di buona salute. Anche nel 2018 il giro d’affari mondiale è risultato in diminuzione, attestandosi a 111 miliardi di euro complessivi,-3,4% rispetto al 2017 e -13,2% sul 2014. La raccolta di pubblicità cartacea, con -28,9% sul 2014, registra la peggior performance, in negativo anche i ricavi da diffusione cartacea (-7,4% sul 2014). Aumentano, invece, i ricavi da pubblicità digitale (+24,8%) e soprattutto quelli da diffusione digitale (+104,5%). A livello mondiale nel 2018 i ricavi sono diminuiti del 3,4% a 111 miliardi (-13,2%) e l’unica voce in controtendenza è rappresentata dal digitale. Per quanto rappresentino ancora una parte minima (il 3,7%) del giro d’affari dell’editoria, i ricavi da diffusione digitale hanno segnato i maggiori incrementi (+14,2% nel 2018 e +104,5% nel quinquennio) così come quelli da pubblicità digitale (+5,3% e +24,8%) contro i dati per la stampa cartacea: ricavi da diffusione (-2,5% e -7,4%) e da pubblicità (-8% e -28,9%). A fotografare il settore editoriale è l’annuale report dell’ Area Studi R&S Mediobanca che non manca di focalizzarsi sull’andamento dell’Italia. Nel nostro Paese prosegue il trend decrescente della diffusione cartacea in Italia nel 2018  che , con una diminuzione nell’ultimo anno di circa 240 mila copie al giorno, si è attestata a 2,5 milioni di copie (-8,6% sul 2017 e -32,3% sul 2014). Nel 2018 sono state diffuse giornalmente circa 380 mila copie digitali (13% del totale), in aumento del 13% rispetto al 2017. Oggi la diffusione dei quotidiani italiani rappresenta lo 0,4% di quella mondiale, poco meno di quella dei primi due quotidiani britannici insieme (The Sun e Daily Mail). La “top10” dei quotidiani d’informazione italiani vede in testa il Corriere della Sera, con 216mila copie giornaliere nel 2018. Sul podio troviamo, inoltre, La Repubblica (166mila copie), seguita da La Stampa (131mila) altro quotidiano del Gruppo GEDI, . Seguono Avvenire (101mila), QN-Il Resto del Carlino (92mila), Il Messaggero (88mila), il Sole24Ore (80mila), QN-La Nazione (67mila), Il Giornale (54mila) e Il Gazzettino (47mila). Quanto ai prezzi, i quotidiani italiani sono mediamente meno cari rispetto a quelli europei e registrano l’incremento di prezzo più contenuto nel 2018-2014. Il tedesco Bild, e gli inglesi The Sun e Daily Mail costano meno della metà e hanno una diffusione di quasi cinque volte superiore a quella degli altri quotidiani d’informazione. Il trend negativo dei ricavi aggregati dei sette principali gruppi editoriali italiani, che rappresentano il 67% del settore editoriale nazionale, prosegue nel 2018; in controtendenza solo Cairo Communication (+0,5% sul 2017). Nel 2018 i principali sette editori hanno registrato ricavi complessivi per €3,4mld, -4% sul 2017. I primi tre gruppi, Cairo Communication (fatturato di €1.224 mln), Mondadori (€891mln) e GEDI (€649mln), rappresentano da soli l’82,3% del giro d’affari dei maggiori sette operatori editoriali nazionali. L’ingente calo delle vendite si riflette sull’occupazione. Tra il 2014 e il 2018 la forza lavoro è diminuita di 2.540 unità, di cui 786 a seguito della cessione dell’attività Periodici Francia del Gruppo Mondadori. Nel 2018 l’occupazione si attesta a 11.053 dipendenti (-14,1% sul 2014 e -3,9% sul 2017) e i giornalisti rappresentano il 35,4% del totale (erano il 37,2% nel 2014).I maggiori gruppi editoriali italiani hanno cumulato nel periodo 2014-2018 perdite nette per € 678mln e solo Cairo Editore, consolidata in Cairo Communication, ha sempre chiuso in utile nel quinquennio. Buone notizie arrivano invece sul versante redditività industriale che segna mediamente un netto miglioramento: ebit margin 5,7% nel 2018 rispetto allo 0,3% del 2014. Nel 2018 positive le performance di Cairo Communication (10%), Mondadori (6,4%), Monrif (2%) e GEDI (1,7%). In coda Class Editori (-12,5%). La struttura finanziaria è eterogenea: nel 2018 la società più solida è Caltagirone Editore (debiti finanziari pari al 2,5% del capitale netto), seguita da Cairo Communication (34%) e GEDI (34,6%). Le difficoltà economiche dell’editoria sono evidenti anche nel drastico calo degli investimenti materiali, pari nel 2018 a €16mln, più che dimezzati in cinque anni (-56,7% sul 2014). In Borsa, tra il 2014 e il 2018, i maggiori ribassi sono quelli registrati da Il Sole 24 ORE (-84,5%), Class Editori (-81,2%) e GEDI (-63,9%); positivo, invece, l’andamento del titolo Mondadori (+92,5%). A fine novembre 2019, in rialzo ancora Mondadori (+29,2% rispetto a fine 2018) e in ripresa il Sole 24 ORE (+41,5%).

Giampiero Mughini per Dagospia il 12 dicembre 2019. Caro Dago, leggo e mi si rizzano i capelli in testa da quanto è grave l’allarme che ne viene alla nostra democrazia e alla nostra vita civile. Leggo sulla “Repubblica” che negli ultimi cinque anni sono bell’e sparite 2332 tra librerie e cartolibrerie, insomma 2332 punti di vendita di libri. E del resto lo sappiamo tutti che è un declino devastante in un Paese dove un ragazzo su quattro non capisce quello che sta leggendo, dove il 70 per cento degli italiani mai ha avuto un libro in mano durante tutto l’anno, dove la stessa comunicazione diffusa è divenuta un gigantesco porcile dove ciascuno sproloquia al suo meglio non so se sulla Resistenza o sull’uscita dell’Italia dall’euro. Ma riuscite a immaginarvelo un Paese dove l’uso e il consumo dei libri sia ridotto a un misero cantuccio, inessenziale e misconosciuto dal resto della società? Martedì mattina ero alla stazione di una grande città italiana, dov’è accampata una bellissima libreria. Sono entrato ho guardato qua e là, mi sono seduto innanzi a un’enorme scaffalatura (tipo tre metri di larghezza per tre metri di altezza) dov’erano collocati “gli ultimi arrivi”. Mi sono alzato, mi sono avvicinato e ho cominciato a guardare. Fosse dipeso da me, di quei libri ne avrei comprati un paio di centinaia. Perché questo è il paradosso, di libri belli e appetitosi ne escono a centinaia ogni settimana. Libri editi da grandi editori e (spessissimo) da piccoli ed eroici editori. Guardavo guardavo guardavo. A un certo punto ho scelto un libro da leggere durante il viaggio sul treno che mi avrebbe ricondotto a Roma. Ho scelto il libro (appena pubblicato da Adelphi) in cui Michael Rusinek, il segretario personale della poetessa polacca e premio Nobel Wislawa Szymborska, racconta gli anni passati accanto alla scrittrice (era nata nel 1923, è morta a Cracovia nel 2012). Di solito non vengo particolarmente attirato da chi ha vinto il premio Nobel per la letteratura, un premio che non è stato assegnato a Philip Roth e che ha dunque ai miei occhi qualcosa di sconcertante. Ma pur non essendo un gran lettore di poesia, lo vedi a dieci chilometri che razza di poeta originale e modernissima è la Szymborska. Sul treno ho cominciato a leggere. Una delizia, una delizia il libro, una delizia il personaggio, una delizia la sua discrezione e la sua autoironia in ogni momento della sua vita e della sua giornata e di cui Rusinek è il testimone oculare momento per momento. E a proposito di ironia e autoironia, succede che la nostra poetessa incontri un poeta israeliano nato in Iraq, Ronny Sommeck, uno che in fatto di materia non è secondo a nessuno. Trascrivo dal libro di Rusinek: “WS gli chiede del famoso senso dell’umorismo ebraico. Sommeck è del parere che in Israele esso sia scomparso, che i tempi non siano adatti al riso. Ma racconta una barzelletta: un topo scappa dalle grinfie di un gatto rifugiandosi in un buco e si mette in ascolto aspettando che il gatto se ne vada. Un istante dopo avverte di fronte all’ingresso del buco l’abbaiare di un cane. Poiché si sente la voce di un cane, il gatto di sicuro sarà scappato, pensa il topo. Esce dunque tranquillo e in quello stesso istante il gatto lo acchiappa. ‘Prima di mangiarmi’ dice il topo ‘dimmi come hai fatto. Un attimo fa ho sentito qui un cane’. ‘Non era un cane, ero io’ risponde il gatto. ‘Al giorno d’oggi senza le lingue straniere non si combina nulla’”. Mica male quanto a umorismo ebraico. E senza dire quanto dovesse apprezzare questo umorismo una nata in Polonia, una che aveva avuto la dannazione di nascere in un Paese che da un lato aveva la Germania (di Hilter), dall’altro l’Urss (di Stalin).

CHI STA UCCIDENDO LE PICCOLE LIBRERIE? Sergio Rizzo per “la Repubblica” il 12 dicembre 2019. Si fatica a credere che la chiusura di una libreria sia un problema di democrazia. Invece è esattamente ciò che si porta dietro, insieme all' ecatombe delle edicole, la strage delle librerie: lascia intere comunità prive della possibilità di documen-tarsi, studiare, arricchire la propria cultura. E questo non può che impattare anche sul funzionamento stesso della democrazia. Forse meno evidente nei numeri rispetto al caso delle edicole, è però impressionante per la velocità con cui anche la desertificazione delle librerie avanza. Fra il 2012 e il 2017, considerando pure le cartolibrerie diffuse soprattutto nei piccoli centri e nelle periferie, sono scomparsi 2.332 punti vendita di libri. Con la conseguenza di far volatilizzare 4.596 posti di lavoro, oltre al 13,5 per cento delle imprese. Il risultato è che in un Paese nel quale già il 60 per cento della popolazione non tocca un volume, esattamente come 17 anni fa, ci sono 13 milioni di persone che pur volendolo fare non possono: perché non hanno una libreria raggiungibile senza dover affrontare un viaggio della speranza. Parliamo di quasi il 22 per cento degli italiani, ed è semplicemente inaccettabile. Sono anni che l' associazione dei librai presieduta da Paolo Ambrosini insiste su alcune richieste, come quella di alleggerire il peso fiscale introducendo detrazioni simili a quelle per le spese mediche o l' attività sportiva dei figli. Pienamente comprensibile: perché la palestra sì e un buon libro no? Magari, dice Ambrosini, si potrebbe partire dal libri scolastici. Anche perché è stato calcolato che l' Erario dovrebbe rinunciare al massimo a una cifra di 160 milioni l' anno. Per fare un paragone, è meno dei sussidi pubblici con cui ogni anno gonfiamo i profitti delle compagnie aeree straniere low cost. E se il sistema delle librerie deve vedersela anche con il commercio online, avversario fino a qualche anno fa imprevedibile rappresentato soprattutto da un colosso come Amazon che in Italia non paga certo le tasse normalmente pagate dalle nostre imprese e ora porta l' offensiva anche sul campo della distribuzione, i librai più piccoli hanno un problema in più. Quale, è presto detto. Si tratta degli sconti del 15 per cento che le grandi catene praticano ormai di regola ancor prima dell' uscita del libro, imponendo di fatto alle librerie indipendenti condizioni di vendita in molti casi insostenibili perché dimezza i loro margini. Una politica portata avanti e sostenuta con forza dai maggiori editori che sono anche distributori e proprietari di catene, in testa a tutti il gruppo Mondadori. Senza però considerare che trattare il libro come un qualunque altro bene di consumo, ritenendo che la concorrenza si debba fare solo sul prezzo, rischia di rivelarsi controproducente anche per loro. Esattamente come nel caso delle edicole, per ogni punto vendita che chiude le copie perdute non si recuperano più. L'ostinazione con cui viene difesa la prerogativa di scontare i libri già dal primo giorno sembrava ora finalmente piegata. Anche se con il solito compromesso. A metà luglio è passata alla Camera una legge che limita gli sconti a un massimo del 5 per cento del prezzo di copertina, introducendo qualche piccolo beneficio fiscale e istituendo anche un modesto fondo per il sostegno alla lettura. Molto meno di quello che sarebbe necessario per fare un vero salto rispetto alla situazione di 17 anni fa e magari restituire anche un po' di ossigeno a un settore economico letteralmente stremato. Ma piuttosto che niente, dice un vecchio proverbio, meglio piuttosto. Il fatto però è che questo accadeva ormai cinque mesi fa. E da allora la legge è ferma nei cassetti del Senato per ragioni sconosciute. Approvata alla Camera il 16 luglio, ci sono voluti tre mesi perché se ne occupasse la commissione Cultura del Senato. Commissione presieduta dal leghista Mario Pittoni, già responsabile istruzione del Carroccio che un anno fa, interpellato dall' Espresso, ha confermato di avere in tasca un diploma di terza media dichiarando al settimanale: «Sono figlio della contestazione globale, erano tempi in cui ci si opponeva. Ho un padre insegnante e un fratello professore, quindi ho sempre respirato scuola e per questo sono preparatissimo. Quello che c' è da sapere non si impara sui polverosi libri». Da allora, tre riunioni e la richiesta di una selva di pareri a otto commissioni otto. Dagli Affari costituzionali alla commissione Igiene e sanità (l' impatto sanitario della cultura è oggettivamente decisivo), tutti hanno dovuto dire la loro a proposito degli sconti sui libri. I bene informati dicono che i ritardi sono giustificati dall' attesa di una relazione della Ragioneria generale dello Stato che quantifichi l' impatto di quelle briciole concesse ai libri sui conti pubblici e, considerato che la Ragioneria è purtroppo assai impegnata con la legge di bilancio, bisogna portare pazienza. Anche se quella relazione, peraltro, non sarebbe altro che la sorella gemella di quella già prodotta alla Camera. Ma sarà davvero questa la ragione?

Dalla “questione meridionale” ai “baroni”: così a 111 anni di distanza “La Voce” continua a parlarci. Massimo Pedroni mercoledì 4 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia.  Riceviamo e volentieri pubblichiamo. In una lettera datata 20 novembre 1908, indirizzata a Benedetto Croce, da Giuseppe Prezzolini, il promotore culturale scriveva: “Esciremo il 20 dicembre”. Faceva riferimento al nuovo giornale cui stava dando vita insieme a Giovani Papini. Amico e incisivo intellettuale, già sodale nell’avventura della rivista Leonardo. Mantenne la parola: il primo numero di La Voce uscì, infatti, il 20 dicembre del 1908. In questo mese quindi cadrà il centoundicesimo anniversario dalla sua “escita” come scriveva Prezzolini. Era nata quella che poi si rileverà essere una delle più importanti riviste del ‘900. La Voce nasce come settimanale, stampato su carta color avorio, con la scelta raffinata dell’uso dei caratteri aldini. Caratteri tipografici riportati in Occidente, alla fine del ‘400, dal celebre tipografo Aldo Manuzio, che li riproponeva tratti da scritti e documenti antichi della Grecia classica. All’allora sconosciuto Ardengo Soffici fu affidato l’incarico di “creare” la linea grafica della testata. Si tenga presente che Prezzolini era nato nel 1882 e Papini nel 1881. Stiamo parlando quindi di due giovanotti di 26/27 anni, che tra l’altro già avevano alle spalle l’importante iniziativa della rivista Leonardo del 1903.

La concorrenza alla rivista “battezzata” da D’Annunzio. A differenza del Leonardo, che era una rivista letteraria, la nuova rivista avrebbe ospitato elaborazioni artistiche senza limitazioni di genere di sorta. Un segno di apertura in tal senso era dato dal coinvolgimento di Soffici, che nasceva come pittore. La scelta operata era in armonia con l’intento di sottrarre lettori al Marzocco per conquistarli a La Voce. Il Marzocco era una rivista letteraria fiorentina nata nel 1896, il cui titolo era stato scelto da Gabriele D’Annunzio. Rivista con la quale la nascente di Papini e Prezzolini si veniva a trovare su un terreno di concorrenza diretta.

Quando Salvemini coniò il “baronato accademico”. Il primo numero ebbe come articolo di fondo “L’Italia risponde” di Giovanni Papini. Nel secondo con l’articolo, “La nostra promessa”, Prezzolini dava conto degli indirizzi programmatici che avrebbe perseguito il settimanale. Grande attenzione sarebbe stata rivolta ai fermenti che cominciavano a serpeggiare sempre più corrosivamente nella statica e molle società borghese “giolittiana”. Quali ad esempio il sindacalismo e il modernismo. Premurosa attenzione sarebbe stata riservata alla cultura internazionale. Riportiamo un brano dell’articolo programmatico di Prezzolini. “Noi sentiamo fortemente – vi si legge – l’eticità della vita intellettuale, e ci muove il vomito a vedere la miseria e l’angustia ed il rivoltante traffico che si fa delle cose dello spirito”. Fu poi un articolo del collaboratore Gaetano Salvemini che stigmatizzò comportamenti del corpo docente universitario, bollandolo con termine giunto fino ai giorni nostri: “Baronato accademico”.

La Voce sposa l’interventismo. Su La Voce, come vero e proprio vanto degli ideatori, trovavano spazio autori di matrice ideale differente. Cosa che alla distanza, su scelte cruciali, porterà a defezioni. Quella di Salvemini avvenne nel 1911, a causa di valutazioni diverse, espresse in redazione, sulla linea che il settimanale, a suo avviso, avrebbe dovuto tenere a proposito della guerra di Libia. Salvemini sosteneva il non intervento dell’Italia, che riassumeva con il quesito “Andare a Tripoli?”. Antesignano del forse più celebre “Morire per Danzica?”. La Voce sposò la linea a favore dell’intervento. Salvemini decise di lasciare.

L’inchiesta sulla questione meridionale. Mediamente il settimanale aveva una tiratura di tremila copie, cosa di per sé già ragguardevole per una rivista culturale. Anche se i suoi orizzonti, in questa prima fase, coinvolgevano anche aspetti ulteriori della vita civile. La Voce nel 1911 toccò la cifra record di 5mila copie, la distribuzione in cento città. Dati questi che evidenziano anche una notevole prontezza organizzativa. I vociani tenevano parallelamente due linee: quella culturale e quella di attenzione ai fermenti socio politici. Effettuavano inchieste monotematiche. Celebre rimase quella su “La questione meridionale”.

Il ritorno alla letteratura. Nell’Aprile del 1912 lo stampato entra in una seconda fase. Prezzolini deve soggiornare per un periodo a Parigi. La direzione va a Giovanni Papini, che la manterrà fino al 31 ottobre dello stesso anno al rientro di Prezzolini. Quest’ultimo condividerà e confermerà la linea data da Papini al giornale. Tornare alla letteratura pura, lasciando il rapporto con la vita nazionale che aveva caratterizzato la fase precedente. Esponenti della cultura europea quali Andrè Gide, Paul Claudel, Heinrik Ibsen ebbero spazio, aprendo così un fertile contatto con alcune tra le voci maggiormente significative del “Vecchio Continente”. Alla fine del 1912 Papini con Soffici lasciano La Voce per fondare un’altra rivista Lacerba, che presto la supererà in numero di copie vendute. Dietro la pressione degli eventi drammatici che si stavano stagliando sui destini dei popoli europei, La Voce diventò un giornale “interventista”.

Una Voce che ancora oggi ci parla. Elemento sotto certi aspetti curioso consiste nel fatto che nel 1914 la direzione passerà a Giuseppe De Robertis, il quale, nelle temperie di guerra di quel momento, farà diventare La Voce un periodico esclusivamente letterario. Giuseppe Ungaretti, Aldo Palazzeschi, Clemente Rebora sono solo alcuni tra gli scrittori che riceveranno spazio durante la direzione di De Robertis. Quest’ultima fase, e lo stesso periodico, si chiude nel 1916. La Voce è stata un luogo d’incontro delle migliori energie intellettuali dell’epoca. Rimane senza dubbio pietra angolare, che suggeriva chiavi di lettura della realtà integrate fra società, politica e cultura. Forse proprio in questo approccio di metodo che consiste la modernità di quella Voce. Che ancora oggi si ascolta con attenzione e rispetto.

Marco Ciriello per “il Mattino” il 27 novembre 2019. Un giornale scomparso è sempre una civiltà sepolta, se poi quel giornale era illustrato da fotografie che non potranno più essere scattate, perché morbose, voyeuristiche, violente, con la sola mediazione di un lenzuolo bianco e a volte senza nemmeno quella, allora siamo di fronte a una civiltà sepolta nuda, come non lo sarà mai più. I delitti ci riportano ai primordi, all' essenziale; il sangue e le armi ci fanno leggere il tempo passato; il resto è contesto: strade, palazzi, cucine, boschi, canali, campagne, bar, automobili, e come collettore un cadavere, ecco un libro straordinario che viene fuori dall' archivio di un giornale La notte, pubblicato dal 1952 al 1995 che raggiunse 250mila copie e che usciva con tre edizioni al giorno, e che aveva dietro un ritmo di lavoro pazzesco: giornalisti, fotografi, redattori e poligrafici che lavoravano a ciclo continuo, tanto che solo dopo anni si sono accorti del servizio reso al tempo presente, un tempo pieno di privacy ma senza umanità. «Non ci tiravamo indietro, facevamo il nostro mestiere con uno spirito più aggressivo della maggioranza dei giornali italiani». racconta Livio Caputo, direttore de La notte dal 1979 al 1984 «Detto cinicamente, molti delitti avvenivano nell'ora giusta per la nostra redazione: verso le 8 di mattina, mentre noi chiudevamo alle 10. Si faceva giusto in tempo ad uscire con una notizia che i giornali del mattino non avevano. Mi ricordo molto bene la strage di via Moncucco, otto morti in un ristorante. Andarono i miei ragazzi, facemmo in tempo a mandare in stampa la seconda edizione e arrivammo sul posto con le copie in mano allo strillone prima che portassero via i cadaveri. È una delle cose di cui sono più orgoglioso». Il libro è Ultima Edizione. Storie nere degli archivi de La Notte (Milieu edizioni) di Salvatore Garzillo, Alan Maglio e Luca Matarazzo, che hanno rimontato fotografie e testi, sentito testimoni e interrogato esperti, regalandoci un album fotografico che ci appartiene, anche se quei morti non ci riguardano, ci riguarda la violenza e le modalità che l' hanno generata e la grammatica giornalistica che ci restituisce quelle storie; tra i giornalisti che crebbero in quella gazzetta illustrata, che montava veri e propri film sui casi, dei fotoromanzi con delitto, c' era anche un giovane Vittorio Zucconi, cronista di nera con obbligo di tornare con la storia e soprattutto con le foto, dietro licenza di poterle anche rubare. Come raccontava Zucconi nella sua biografia e come racconta Maurizio Donelli nel libro: «A quei tempi si entrava nella notizia, non c' erano limiti dettati dalla privacy. Bisognava essere cattivi. Per noi la fotografia era fondamentale: quando usciva un cronista sul fatto era sempre accompagnato da un fotografo. Non si poteva tornare in redazione senza una foto. Non ne vado fiero ma una volta ho rubato l'annuario di una scuola elementare per recuperare il ritratto del bambino protagonista della storia che mi avevano assegnato. Il direttore disse che se fossi tornato a mani vuote mi avrebbe licenziato. E non scherzava». Era un giornalismo per campioni che allenava al cinismo e alla violenza, corrispondenze di guerre domestiche, dal fatto al racconto, dove bisognava prevaricare e cacciare, dove lo scippo diventava l'anima del giornale. Dove il giornalista poteva e doveva sconfinare stando giusto un attimo dietro il punto di vista della polizia. Ci sono foto impressionanti e altre che sono meglio di intere collane di gialli, ci sono didascalie e titoli da romanzo e facce da cinema, c' è dentro l'ultima vera periferia italiana con il suo dolore e le sue atrocità, quando non venivano prima gli italiani ma la loro solitudine, l'isolamento rispetto alla civiltà. Ne viene fuori un mondo spontaneo, senza sovrastrutture, naturale e per giunta con l' istinto da giungla che ha generato la violenza, si guarda e si viene guardati, inquirenti e inquisiti, ritratti nella domesticità della morte. La notte portava in altri luoghi la possibilità di guardare la morte senza conseguenze, lo specchiarsi in quello che aveva coinvolto le vite degli altri, la giusta distanza da un brivido.

Noi che crediamo nella carta. Ad un anno dall'acquisizione di Panorama il gruppo editoriale di Maurizio Belpietro si allarga ancora: ecco i motivi di questa scelta. Maurizio Belpietro il 4 novembre 2019 su Panorama. Chiedo scusa ai lettori se in questo numero parliamo di noi, cioè del giornale che avete tra le mani. Credo però che - come usano dire i manager che si vogliono dare un po’ di tono - sia il caso di fare il punto. È già trascorso un anno. Era infatti la fine di ottobre dello scorso anno quando Panorama, ossia una testata che ha fatto la storia del giornalismo in Italia, divenendo il primo settimanale politico del Paese, passava dallo storico editore, la Mondadori, a noi. Il salto era azzardato, perché la casa di Segrate, che occupa il prestigioso palazzo disegnato dall’architetto brasiliano Oscar Niemeyer, al nostro confronto è un colosso da oltre 500 milioni di capitalizzazione in Borsa, numero uno delle aziende del settore. Eppure, avendo Mondadori deciso di uscire dal settore dei newsmagazine, un piccolo editore quale siamo noi si è fatto avanti per raccogliere l’eredità di raccontare ogni settimana i fatti più importanti della politica, dell’economia, della cultura, dello spettacolo e della scienza. Sembrava una sfida impossibile perché in giro per il mondo c’è chi teorizza la fine della carta stampata e la chiusura della maggior parte delle testate. Dunque rilevare un settimanale, scommettendo sulle vendite in edicola e sugli abbonamenti pareva una pazzia, in particolare per chi non avesse spalle grosse. Lo so, non tutto è andato per il verso giusto, come è normale che sia quando si trasloca e si cambia casa. Ritardi ed errori ci sono stati, in particolare nelle consegne delle copie a chi aveva deciso di rinnovare l’abbonamento. In questi mesi siamo stati costretti a registrare le lamentele per l’inefficienza di una distribuzione che non dipendeva da noi, ma dei cui ritardi ci sentivamo egualmente responsabili. Tuttavia, dopo mesi, posso dire che gran parte dei problemi siano stati superati. L’anno ci è servito per crescere e per trovare soluzioni ai problemi. Nella qualità del vostro settimanale, nel rispetto dei tempi di consegna. Abbiamo cercato di lavorare in silenzio, raccogliendo ogni segnalazione e ogni suggerimento per soddisfare le richieste dei lettori e ora i risultati ci confortano. In molte case Panorama viene consegnato in contemporanea con l’arrivo in edicola e a chi ha avuto fiducia in noi, sottoscrivendo l’acquisto di 52 numeri l’anno, sarà garantito - grazie a un accordo appena raggiunto - un servizio degno della fiducia. E tra i passi avanti conseguiti non c’è solo la regolarità nella spedizione, ma anche la qualità dell’informazione. Abbiamo cercato di approfondire i temi che interessano ai lettori, nella politica come nell’economia, nella scienza come nell’intrattenimento. Panorama è divenuto il giornale che racconta un’Italia e un mondo in evoluzione, con un occhio attento alla vita di tutti noi. Il gradimento da parte di voi lettori ci ha consentito di migliorare numero dopo numero, conseguendo a seconda dei casi incrementi delle vendite in edicola del 20 e del 30 per cento. Di tutto ciò, dopo un anno, credo di dover dire grazie a tutti. Ai redattori che si sono impegnati, ai lettori che ci hanno seguito e hanno creduto in noi. Oltre a ringraziare, devo anche dare anche un’informazione. La notizia è che dopo Panorama altre testate si aggiungeranno al nostro gruppo. Questa settimana abbiamo infatti raggiunto un accordo per acquisire cinque periodici di proprietà della Arnoldo Mondadori Editore. Non si tratta di giornali politici o economici, settori come dicevo da cui la casa di Segrate è uscita nello scorso anno, ma di mensili e settimanali che hanno posizionamenti diversi nei settori della salute, della moda, dell’alimentazione. Sono testate leader, i cui nomi non vi saranno certamente sconosciuti. Starbene, Sale & Pepe, Cucina moderna, Tu Style e Confidenze sono infatti nomi noti e il mio e il nostro impegno è di renderli ancora più noti. Qualcuno forse si chiederà perché investire in settori molti diversi da quelli considerati “impegnati”. La risposta è una sola: perché crediamo nella carta. Perché tre anni fa, quando contro tutte le profezie e contro tutti gli ostacoli, abbiamo scelto di fare un quotidiano di carta, un quotidiano senza padrini né padroni, alla fine l’edicola ci ha premiati. Nessuno credeva che un giornale stampato, senza sito internet, potesse farcela nell’era digitale. E invece è successo. Anzi, La Verità oggi è l’unico quotidiano in Italia che aumenta le copie vendute in edicola. Mentre tutti gli altri perdono, chi il 5 e chi il 10 o il 20 per cento, noi cresciamo con percentuali a due cifre. Così, come tre anni fa e come un anno fa, torniamo a scommettere. Non sul politico di turno e nemmeno sullo sponsor di turno. Scommettiamo su di voi, sui lettori, l’unica vera ricchezza dei giornali. L’unico vero patrimonio di cui dobbiamo avere cura. Grazie ancora e buona lettura.

Francesco Verderami per il “Corriere della Sera” il 2 novembre 2019. Su una Finanziaria da trenta miliardi non si spende la parola «crisi» quando si discute di venti milioni. A meno che una banale divergenza sull' uso dei soldi non nasconda un conflitto di valori. Mercoledì scorso al vertice sulla Finanziaria si è misurata la distanza che separa i grillini dal resto dell' alleanza di governo. È una distanza culturale prima ancora che politica, e testimonia come sia faticoso al momento anche solo immaginare una «coalizione degli opposti». Al punto che, nel mezzo di un alterco con Di Maio, persino Franceschini, il più ecumenico tra i democrat , è arrivato a dire: «A saperlo, ci avrei pensato dieci volte prima di mettermi con voi». Cosa aveva provocato la reazione del ministro della Cultura, teorico dell' accordo tra il Pd e M5S? Era appena stato trovato un compromesso su Radio Radicale, che subito era divampato un altro scontro su un fondo di venti milioni per la lettura dei giornali nelle scuole: risorse che il sottosegretario all' Editoria Martella aveva ricavato con il risparmio su altre voci. «Per noi è inaccettabile», aveva tagliato corto il leader 5 Stelle: «Questa è una forma surrettizia di aiuto di Stato. Così si reintroducono i contributi. I giornali si affidassero al mercato. Se vendono meglio per loro, altrimenti...». In principio era sembrato che il problema fosse di natura economica, una visione diversa sull' uso delle risorse pubbliche. Perciò il capo delegazione del Pd aveva esortato l' interlocutore a guardare il tema da un' altra prospettiva: «L' obiettivo è stimolare la lettura. Si tratta di promuovere cultura». Ma proprio lì, dove Franceschini aveva immaginato di costruire un ponte, Di Maio aveva scavato un fossato: «I giornali non vanno diffusi nelle scuole. Se vogliono, se li comprano. E poi che fanno: li leggono in classe?». Il resto della discussione è la rappresentazione di due mondi e due modi di vedere le cose. «Luigi, per noi che si leggano i giornali nelle scuole è un valore». «Eh no, Dario. Dietro i giornali ci sono gruppi d' interesse che pretendono di incidere sulle scelte del Paese». «Sui giornali non ci sono solo articoli di politica, ci sono anche le pagine di cultura». «Con i giornali ci attaccano». «Attaccano anche noi, si chiama libertà di stampa. Voi volete solo i social». «Noi non vogliamo dare finanziamenti pubblici». «Fammi capire, sei anche contro l'aiuto ai libri?». No, non è stato un diverbio di natura economica, altrimenti Franceschini non avrebbe urlato «se volete che si apra la crisi, apriamola». Certo, alla fine tutto è rientrato: Di Maio ha accettato il fondo, dopo essere rimasto isolato. A fronte del silenzio enigmatico del sottosegretario alla presidenza Fraccaro, infatti, tutti gli altri si sono schierati: dalla renziana Bellanova al ministro di Leu Speranza, che ha definito l' informazione «un pilastro del nostro sistema democratico». E pure Conte - che era stato avvertito e voleva anzitutto preservare i giornali diocesani - ha difeso il pacchetto sull' editoria, davanti all' impegno di Martella di portare a compimento la riforma del settore. Ma la vicenda, al di là delle successive transazioni sulle tabelle della Finanziaria, al di là dei soldi per i vigili del fuoco che Di Maio ha chiesto e ottenuto, rende l' idea di quanto sia complicato conciliare due differenti concezioni della democrazia sul tema sensibile dell' informazione. È vero, ci fu a sinistra chi teorizzò che i giornali andassero «lasciati in edicola», solo che - rispetto ad allora - il disegno dei grillini si è affinato. Mira ad affermare la logica della «disintermediazione», neologismo dietro il quale si cela l' obiettivo di stringere un rapporto diretto con l' opinione pubblica attraverso la Rete. Facendo a meno della stampa. Come ha raccontato Tommaso Labate sul Corriere , anche il Pd sta costruendosi la propria piattaforma Rousseau e i suoi meet-up, ma «ci sono valori - ha spiegato Franceschini al vertice - sui quali non intendiamo negoziare». E sono quei venti milioni a far capire come, almeno per ora, democratici e grillini siano la «coalizione degli opposti».

Emanuele Lauria per “la Repubblica” il 2 novembre 2019. L'ossessione dei 5 Stelle per Radio Radicale ritorna nella mattina che precede il vertice sulla manovra: «Otto milioni per tre anni? Ma diamoli ai terremotati», sibila Luigi Di Maio, trascinando dentro il governo giallorosso un vecchio cavallo di battaglia che a fine primavera già animò la contesa con gli ex alleati salviniani. M5S, allora, subì la posizione pro-salvataggio espressa dalla Lega. Ora il capo politico rilancia, determinando un altro scontro con i neo compagni di viaggio del Pd. Che davanti a Radio Radicale fanno muro. Il nodo si scioglie solo a sera, con un compromesso: via libera a un contributo da 8 milioni ma poi, nella primavera del 2020, i servizi offerti oggi dalla radio saranno messi a gara. Ma le bocce si fermano dopo un confronto serrato, teso, fra la delegazione grillina e quella dem che vede il sottosegretario Andrea Martella in prima linea: il Pd alla fine ottiene il differimento dei tagli all' editoria e concede l' impegno a rivedere l' intera materia dei contributi diretti e indiretti ai mezzi d' informazione. Per 5 Stelle, fino all' ultimo, è quello di Radio Radicale il tasto da battere: «È finita la mangiatoia», può gongolare Di Maio alle nove della sera, non smorzando un clima acceso da una campagna social che era stata avviata dal blog delle Stelle: «Utilizzate l' hashtag "#24milioniper" per fare sapere a noi, ma soprattutto a chi voterà questa porcata, come volete che vengano spesi i vostri soldi ». Ora, "#24milioniper" è diventato sì uno dei trend topics della giornata, ma i cartelli virtuali di M5S che invitavano a scegliere fra Radio Radicale e i terremotati si sono trasformati presto in un boomerang. "Sciacalli", "Idioti", "Ignoranti", "matti", "imbecilli": la rete si è scatenata contro gli ideatori dell' iniziativa sul web, anche se altri big del movimento si sono dilettati a indicare altri possibili beneficiari dei fondi per Radio Radicale: Vito Crimi ha chiesto di destinarli alle forze dell' ordine, Carlo Sibilia nello specifico ai vigili del fuoco. A una certo punto si era levata pure una voce dissenziente, fra i 5 Stelle, quella della deputata Doriana Sarli: «Non condivido l' attacco di Di Maio, Radio Radicale fa servizio pubblico». Ma l'ordine, nelle chat M5S, era quello di denunciare la "vergogna" dei 250 miloni di euro spesi per l' emittente dal 1990 a oggi, mentre il direttore Alessio Falconio ricordava che «Radio Radicale svolge un servizio pubblico da 43 anni, riconosciuto anche da Agcom». Il Pd non ha concesso sconti: «Quei finanziamenti si mantengono, punto. Sono già previsti», aveva assicurato la sottosegretaria allo Sviluppo economico Alessia Morani. Sulla stessa linea i renziani. Persino Salvini aveva inferito su Di Maio: «La Lega è a favore delle voci libere». Una levata di scudi che ha portato infine all' accordo-ponte di Palazzo Chigi. Otto milioni alla radio che vide Pannella mattatore, poi la gara.

L'Osservatorio Giovani-Editori «Mai accettato finanziamenti pubblici». Dal “Corriere della sera” il 2 novembre 2019. L’Osservatorio permanente Giovani-Editori «in 20 anni di serio lavoro nelle scuole per sua policy di assoluta indipendenza non ha mai accettato alcuna forma di finanziamento pubblico governativo, e non è mai stato né sentito né coinvolto nel processo di stesura» della «proposta legislativa relativa agli abbonamenti a quotidiani e riviste che il governo intende promuovere nelle scuole». E quanto si legge in una nota dello stesso Osservatorio in riferimento all'articolo pubblicato ieri su Sussidiario.net nel quale si sottolinea che «in filigrana al "piano Martella" sembra scorgersi il profilo di un'importante centrale di networking lobbistico. L'Osservatorio è snodo da anni fra grandi editori nazionali e colossi internazionali». L'Osservatorio, che porta avanti il progetto Il quotidiano in classe, afferma di «aver appreso solo ieri dalle agenzie di stampa della proposta legislativa» del Governo, e che «solo per rispetto istituzionale, attenderà di riferire le proprie opinioni in proposito ai rappresentanti istituzionali competenti, prima di renderle pubbliche».

Assistenzialismo: la politica editoriale del “governo di Radio Radicale”. Stefano Bressani per ilsussidiario.net il 2 novembre 2019. Le misure in sostegno all’editoria in crisi – inserite nel Ddl di bilancio – sono esemplari – in modo concreto ed eclatante, sotto ogni profilo – dell’approccio di governo della maggioranza giallorossa. Una delle iniziative più impegnative assunte dal Conte-1 è stata l’apertura degli Stati Generali dell’Editoria, affidati all’allora sottosegretario alla Presidenza Vito Crimi (M5s). I lavori erano stati aperti la scorsa primavera direttamente dal premier (allora in versione gialloverde) e sono stati contraddistinti da un confronto molto sostanziale – e talora polemico – fra governo e player coinvolti (editori e giornalisti in primis). Crimi ha posto e sempre difeso con fermezza la necessità di chiudere un’era lunga ed evidentemente obsoleta di “provvidenze statali all’editoria” (ultime quelle del “pacchetto Lotti” sotto i governi Renzi e Gentiloni). Al nocciolo: basta con i fondi pubblici a pioggia – di fatto arbitrariamente assistenzial-clientelari – a editori esistenti, in crisi perché non più competitivi sul mercato digitale; serve invece un ripensamento strutturale della domanda e offerta di informazione nella democrazia di mercato italiana. Quindi: occorre una verifica aggiornata di quali (futuri) editori e giornalisti sostenere, con quali strumenti di politica industriale di settore, per produrre quali media al fine di tutelare nel ventunesimo secolo il principio della libertà di stampa fissato dalla Costituzione nazionale del 1948. Simbolica di questo passo politico al massimo livello dell’esecutivo precedente è stata la decisione di interrompere il rinnovo automatico del finanziamento statale di Radio Radicale e ad altri media (fra questi Avvenire e Manifesto). Ora il governo giallorosso (presieduto dallo stesso premier Conte e sostenuto dallo stesso M5s in veste di forza di maggioranza relativa) sembra ostentatamente ignorare lo svolgimento degli Stati Generali: peraltro mai ufficialmente chiusi, ma solo interrotti dal ribaltone di governo. E in modo altrettanto politicamente ostentato, il piano inserito in manovra dal nuovo sottosegretario all’Editoria, Andrea Martella (Pd) riparte dal ripristino tel quel del finanziamento triennale a Radio Radicale: una testata di partito, che da 25 anni percepisce contributi pubblici ad aziendam, senza gara (e senza mai nessuna obiezione reale da parte dell’ex presidente dell’Anac, Raffaele Cantone), per svolgere un servizio pubblico in realtà già erogato dalla Rai con contratto di servizio finanziato dal canone. L’altro momento portante del “piano Martella” è l’ipotesi di porre a carico del bilancio statale una parte importante del costo di futuri abbonamenti a media sottoscritti dalle scuole. L’azione sarebbe finanziata da parte della webtax di nuova istituzione.  Con implicazioni politico-economiche che non è difficile non intravvedere.

Primo: viene finanziato il consumo e non l’imprenditorialità, tanto meno quella giovanile e innovativa.

Secondo: viene inequivocabilmente incoraggiato l’acquisto di testate tradizionali, a supporto selettivo di editori e giornalisti “del passato”, con fini presuntivi di captatio in una fase ad alta probabilità di voto anticipato. In concreto: l’obiettivo sembra essere puntellare con i soldi dei contribuenti i ricavi dei grandi gruppi editoriali nazionali, pressoché tutti privati. Tutti quotati in Borsa, ma saldamente controllati da potentati finanziari (Intesa Sanpaolo per Rcs; famiglie Agnelli e De Benedetti per Repubblica e la Stampa; Confindustria per il Sole 24 Ore; famiglia Caltagirone per Messaggero, Mattino e Gazzettino; famiglia Rieffeser per Quotidiano Nazionale-Resto del Carlino-Nazione-Il Giorno). Sono tutti gruppi che versano in una crisi più o meno pesante: principalmente per la strutturale latitanza degli azionisti nell’investire nuovi mezzi e nuove idee nell’innovazione e nella competitività delle loro aziende su un mercato in cambiamento “disruptivo”.

Terzo e non ultimo: si affida a presidi e insegnanti delle scuole (ed è ancora da capire se solo quelle statali) il potere-responsabilità tutt’altro che “tecnico” di scegliere quali abbonamenti sottoscrivere. (Con la speranza – a questo punto – che siano i teorici “utilizzatori finali” – gli studenti – a suggerire un uso delle risorse non obbediente all’immoral suasion da parte di un governo zelante nel rinnovare il suo abbonamento a Radio Radicale).

Quarto e ultimo: in filigrana al “piano Martella” sembra scorgersi il profilo di un’importante centrale di networking lobbistico. L’Osservatorio Permanente Giovani-Editori – con sede a Firenze – è snodo da anni fra grandi editori nazionali e colossi internazionali (compresi i nuovi giganti tech californiani), non esclusi big bancari come Intesa, UniCredit, Ubi e Mps, partner per i programmi di educazione finanziaria). Il marchio di fabbrica è il progetto “Il quotidiano in classe”. Un’esperienza – quella della diffusione mirata dei giornali a fini educativi nelle scuole superiori – che ha registrato ultimamente qualche valutazione problematica. Il Venerdì di Repubblica aveva infatti pubblicato già a inizio 2018 un’inchiesta in cui sollevava interrogativi di varia natura sull’iniziativa. Trascorso un anno, lo scorso febbraio il fondatore-leader dell’osservatorio, Andrea Ceccherini, ha deciso di perseguire per vie legali l’allora direttore di Repubblica, Mario Calabresi, e il giornalista Claudio Gatti. Legale dell’Osservatorio nella causa, per la cronaca, è il professor Guido Alpa: al cui studio è associato il premier Giuseppe Conte.  

Sole 24 Ore, a processo l'ex direttore Roberto Napoletano. Accolte dal gup le richieste di patteggiamento dell'ex ad Donatella Treu e dell'ex presidente Benito Benedini. Il giornalista: "Sono innocente, verità emergerà". L'azienda: "Chiuso un capitolo". La Repubblica il 29 ottobre 2019. L'ex direttore responsabile ed editoriale del Sole 24 Ore Roberto Napoletano è stato rinviato a giudizio dal gup Maria Cristina Mannocci nell'ambito della vicenda delle presunte irregolarità nei conti del gruppo. Il giudice inoltre ha accolto la richiesta di patteggiamento dell'ex ad Donatella Treu e dell'ex presidente Benito Benedini rispettivamente a un 1 anno e 8 mesi e 300mila euro e a 1 anno e 6 mesi e 100mila euro e anche della stessa società Sole 24 Ore a una sanzione pecuniaria di 50.310 euro. Il processo a Roberto Napoletano inizierà il 16 gennaio 2020 davanti ai giudici della seconda sezione penale del tribunale di milano. I reati contestati sono, a vario titolo, false comunicazioni sociali e aggiotaggio informativo.  "Avrei potuto patteggiare come gli altri, ma non posso patteggiare per un reato che non ho commesso", ha commentato Napoletano all'Ansa. "Sono innocente e affronterò a testa alta il dibattimento e sono consapevole che in quella sede emergerà la verità". "La decisione del Tribunale di Milano, che va ad aggiungersi all'archiviazione del procedimento sanzionatorio Consob nei confronti della Società, permette al Gruppo 24 ore di chiudere un capitolo del passato", ha commentato invece l'azienda editoriale con una nota. "La Società potrà così concentrarsi sulle tematiche industriali e continuare con lo sviluppo in atto, che ha già visto in questi mesi il varo di numerose iniziative editoriali innovative".

Da lettera43.it il 29 ottobre 2019. L’ex direttore responsabile ed editoriale de Il Sole 24 Ore Roberto Napoletano è stato rinviato a giudizio dal gup Maria Cristina Mannocci nell’ambito della vicenda delle presunte irregolarità nei conti del gruppo. Il giudice inoltre ha accolto la richiesta di patteggiamento dell’ex ad Donatella Treu e dell’ex presidente Benito Benedini rispettivamente a un 1 anno e 8 mesi e 300mila euro e a 1 anno e 6 mesi e 100mila euro e anche della stessa società Sole 24 Ore a una sanzione pecuniaria di 50.310 euro. Per Napoletano il processo si aprirà il 16 gennaio. Roberto Napoletano è il solo tra gli imputati a non aver chiesto il patteggiamento e ad aver scelto il rito ordinario. Per lui il dibattimento verrà celebrato davanti alla seconda sezione penale del Tribunale. Il gup, che nelle scorse udienze ha ammesso come parti civili Confindustria e Consob, il rappresentante comune dei titolari di azioni di categoria speciale Marco Pedretti e i sei piccoli azionisti, tra dipendenti ed ex dipendenti, compresi quattro giornalisti, con due provvedimenti distinti, uno con cui ha disposto il rinvio a giudizio e l’altro i patteggiamenti, ha accolto l’ipotesi formulata dalla Procura. Per il pm Gaetano Ruta, titolare dell’indagine condotta dalla Guardia di Finanza e nella quale sono stati contestati i reati di false comunicazioni sociali e aggiotaggio informativo, Napoletano, è stato indagato in qualità di “amministratore di fatto” del gruppo dal 23 marzo 2011 al 14 marzo 2017 «per via della partecipazione ai consigli di amministrazione della società e del coinvolgimento delle scelte gestionali attinenti alle modalità di diffusione del quotidiano ed alla comunicazione esterna dei dati diffusionali e dei ricavi ad essi correlati». L’ex direttore, come si legge nel capo di imputazione, assieme a Donatella Treu e Benedini, «al fine di assicurare a se stessi e a terzi un ingiusto profitto» avrebbe esposto nella semestrale del giugno 2015, nel resoconto intermedio del settembre successivo, nonché nel bilancio del dicembre dello stesso anno, «fatti materiali non rispondenti al vero sulla situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società». «Avrei potuto patteggiare come gli altri, ma non posso patteggiare per un reato che non ho commesso. Sono innocente e affronterò a testa alta il dibattimento e sono consapevole che in quella sede emergerà la verità», sono state le prime parole di Napoletano dopo la decisione del gup di Milano. In uno comunicato dopo la decisione del Gup la società ha scritto che «la decisione del Tribunale di Milano, che va ad aggiungersi all’archiviazione del procedimento sanzionatorio Consob nei confronti della Società, permette al Gruppo di chiudere un capitolo del passato». «La Società», conclude la nota, «potrà così concentrarsi sulle tematiche industriali e continuare con lo sviluppo in atto, che ha già visto in questi mesi il varo di numerose iniziative editoriali innovative».

Tommaso Rodano per il “Fatto quotidiano” il 24 ottobre 2019. Ci sono un giornalista ex comunista e una deputata di Forza Italia che insieme dirigeranno un giornale la cui testata è scomparsa dalle edicole sette anni fa, edito da un imprenditore a processo per corruzione in un' inchiesta sugli appalti pubblici (che ha coinvolto il noto papà di un noto ex premier). Non è una barzelletta, è davvero così: il Riformista torna in edicola dal 29 ottobre. La testata e il logo arancione sono gli stessi di cui si erano perse le tracce nel 2012, quando fallì la creatura fondata dieci anni prima da Antonio Polito e ideata da Claudio Velardi, l' ex lothar che consigliava Massimo D' Alema. Ora quel marchio rinasce dalle sue ceneri con una formula abbastanza peculiare. Sarà diretto da Piero Sansonetti (ex Unità, ex Liberazione, ex Il Dubbio) e da Deborah Bergamini (ex portavoce di Silvio Berlusconi). Tra le sue firme più in vista, diciamo, ci saranno Maria Elena Boschi, Fabrizio Cicchitto, Fausto Bertinotti, Paolo Guzzanti e Tiziana Maiolo. I soldi - volgarmente - ce li mette Alfredo Romeo, che ha acquistato la testata dalla Tosinvest di Angelucci. L' imprenditore casertano è noto al grande pubblico per essere imputato nel processo Consip, l' inchiesta che ha pregiudicato l' immagine del Giglio magico renziano, coinvolgendo il padre dell' ex premier, Tiziano, e l' ex ministro Luca Lotti (di recente rinviato a giudizio). Trovare un senso a questa storia potrebbe risultare complicato. Ci provano i due condirettori, in conferenza stampa a Montecitorio. Sansonetti: "Sarà un giornale con una fortissima linea politica, basata sulle idee libertarie e garantiste". Ecco, il garantismo: la battaglia contro giustizialisti e "manettari" da anni è il rovello dell' ex direttore di Liberazione. Sulla prima pagina del "numero zero" mostrato da Sansonetti c' è già tutta la linea editoriale del quotidiano: "Ergastolo addio, l' Europa civilizza l' Italia" (con riferimento alla recente sentenza della Corte europea dei diritti dell' uomo"). Il direttore aggiunge: "Faremo battaglie furiose su questi temi. Noi non siamo contro il carcere agli evasori: vogliamo proprio l' abolizione del carcere!". In platea ci sono Renato Brunetta, Mariastella Gelmini, Alessandro Cattaneo, Osvaldo Napoli. La Bergamini gioca in casa: "Ringrazio i deputati di Forza Italia presenti. È chiaro che queste sono le battaglie della nostra vita". Sansonetti storce il naso: "Io e la Maiolo restiamo sessantottini". Bergamini precisa: "Questo comunque non è il giornale del nostro partito". Sembra, piuttosto, il giornale di "Forza Italia Viva". Sansonetti non a caso dice di voler "ricreare un' area riformista che non c' è più". Ma che si sta ricostituendo attorno al nuovo movimento di Renzi e ai tanti "liberali" di Forza Italia che guardano con angoscia al centrodestra dominato dal populista Salvini. Se il vecchio Riformista è stato, per un periodo, il riferimento di una parte della sinistra post-comunista (quella più moderata: potremmo dire l'ala destra del dalemismo, per gli appassionati di microbiologia), il nuovo quotidiano di Sansonetti e Bergamini sembra nascere per il piccolo universo che ruota intorno alla Leopolda e all'indimenticato patto del Nazareno. Non a caso si potrà fregiare degli editoriali (a titolo gratuito) della Boschi. E non a caso l' editore Romeo ha qualcosa in comune con Renzi e famiglia. L' immobiliarista ha riscoperto la passione per l' editoria (aveva una quota anche del Riformista originale): è in trattativa con Caltagirone per acquistare anche il Mattino (l'offerta si aggira sui 7 milioni di euro). Anche in questi tempi di crisi drammatica della stampa, possedere un giornale torna utile. Specie se c'è bisogno di una lucidata all'immagine.

Marianna Baroli per “la Verità” il 24 ottobre 2019. Le indiscrezioni si rincorrevano ormai da alcune settimane: dopo l' acquisizione a novembre 2018 di Panorama, Maurizio Belpietro sembrava pronto ad ampliare l' offerta editoriale di La Verità srl, la società da lui fondata nel 2016, acquistando alcuni periodici del gruppo Mondadori. La conferma della volontà del gruppo di ampliare ulteriormente l' offerta di notizie per i suoi lettori spaziando anche in settori come moda, salute e cucina, è arrivata ieri con una nota in cui i vertici di palazzo Niemeyer hanno spiegato che la «Arnoldo Mondadori Editore spa, il cui consiglio di amministrazione si è riunito sotto la presidenza di Marina Berlusconi, informa di aver ricevuto un' offerta vincolante per l' acquisizione dei magazine Confidenze, Cucina moderna, Sale&Pepe, Starbene e Tustyle da parte di La Verità srl». L' offerta, che ha validità fino al 31 dicembre 2019, prevede la costituzione di una nuova società la cui partecipazione sarà al 75% da parte di La Verità srl e al 25% da parte di Arnoldo Mondadori Editore. «Nei magazine il nostro obiettivo è quello di concentrarci solo su determinati brand leader o ad alto potenziale di sviluppo multipiattaforma in settori per noi strategici come entertainment, femminili, food, salute e scienza», ha sottolineato Ernesto Mauri, amministratore delegato del gruppo Mondadori, a cui è stato dato mandato di porre in essere tutte le azioni volte a esaminare e a finalizzare l' operazione. Confidenze è una rivista settimanale nata nel 1946 dedicata principalmente a un pubblico femminile il cui nome, inizialmente, era Confidenze di Liala, dal nome della prima direttrice della rivista, la scrittrice di romanzi rosa Amalia Cambiasi detta Liala. Il suo sito, online dal 2015, è un blog in cui vengono raccolti argomenti tipici dell' universo femminile e in cui trovano spazio articoli prodotti dalle lettrici della rivista che, nella sezione Confylab, diventano parte integrante della pubblicazione. Cucina moderna nasce nel 1996 da un progetto di Marisa Deimichei come mensile in cui vengono pubblicate ricette, trucchi e consigli in cucina. A oggi l'edizione cartacea offre ai suoi lettori 130 ricette differenti pubblicate ogni mese oltre a rubriche con consigli di esperti e trend culinari. Anche Sale&Pepe è un mensile che si occupa di cucina. Il numero zero venne realizzato nel settembre 1986 per essere pubblicato il 20 gennaio 1987 con, in apertura, un' inchiesta titolata «Impariamo a mangiare con la testa». Dopo molteplici evoluzioni cartacee, nel 2014 nasce il sito web ufficiale salepepe.it, nel quale sono presenti spiegazioni passo per passo delle ricette, video, approfondimenti e notizie. Starbene nasce il 1 maggio 1978 come mensile di salute e benessere sotto la direzione di Franco Nencini. La prima transizione a settimanale del periodico avviene nel 1995 ma dura solo due anni: nel 1997 la rivista torna nelle edicole con cadenza mensile e sotto la guida di Marisa Deimichei. Nell' aprile del 2002 Starbene passa sotto la guida di Anna Bogoni che dà vita nel dicembre del 2005 anche a starbene.it. Dopo alcuni anni, nel 2014, la periodicità torna a essere settimanale e la pubblicazione si amplia diventando nel 2015 anche un format televisivo all' interno del programma In forma con Starbene condotto da Tessa Gelisio e nel 2016 un appuntamento radio in onda su Radio Monte Carlo. Nel pacchetto di acquisizioni compare anche Tustyle. Il magazine di riferimento per il mondo della moda e della bellezza. Il settimanale venne fondato il 24 novembre 1999 con il nome Tu e con l' intento di essere il primo magazine di moda sul mercato a un prezzo popolare. Nel febbraio 2009 il rinnovo e nelle edicole compare per la prima volta il brand Tustyle. Oggi guidato da Annalisa Monfreda, il magazine ha una forte presenza online (il sito tustyle.it è attivo dal 2013) e soprattutto sui social network grazie ai contenuti che spaziano dai consigli sulle ultime tendenze ai dietro le quinte delle passerelle di tutto il mondo. «I cinque giornali che confluiranno in questa newco possono diventare strategici in aziende con caratteristiche e priorità differenti dalle nostre, come la brillante realtà realizzata da Maurizio Belpietro, che saprà sicuramente valorizzare contenuti e know-how, come ha già fatto con successo con Panorama» ha concluso Ernesto Mauri. Quello che sembra aprirsi per La Verità srl è un nuovo capitolo, dopo i successi registrati prima con l' avvio della Verità digitale a marzo 2018 e l' acquisto di Panorama poi.

AAA Cercasi linea di partito, scomparsa nei giornali “ d’area”. Francesco Damato 24 Agosto 2019 su Il Dubbio. I retroscena della stampa italiana. L’ irritazione, la delusione e quant’altro attribuite al presidente della Repubblica Sergio Mattarella dal navigato quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda al termine del primo e inconcludente giro di consultazioni, cui ne seguirà un altro, annunciato per martedì in diretta all’ora di cena dallo stesso Mattarella dopo due ore di riflessione, sono niente di fronte alla sensazione del vuoto che si avverte seguendo la crisi con le lenti dei cosiddetti giornali “d’area”. Che hanno preso il posto dei vecchi giornali di partito, scomparsi con le forze politiche di cui trasmettevano idee e umori: giornali a leggere i quali, quando si passava da un governo a un altro, si coglieva un po’ meglio di adesso, diciamolo francamente, come andavano le cose dietro la facciata delle consultazioni. L’Unità del Pci, l’Avanti del Psi, Il Popolo della Dc, specie quando a dirigerlo verso la fine era Sandro Fontana con lo spirito sarcastico di Bertoldo, La Voce Repubblicana. del Pri, La Giustizia del Psdi, spesso vere scuole di giornalismo, da cui sono usciti fior di editorialisti, inviati e direttori di quotidiani per niente di partito, appartengono ormai agli archivi. Adesso bisogna accontentarsi dei giornali, dicevo, “di area”. Che non rispondono ai partiti o movimenti di cui riflettono umori e tendenze, spesso cercando di dettar loro gli uni e le altre, come tanti “consigliori” al netto del significato o delle allusioni mafiose che questo termine si porta appresso, o addosso, ma spesso aiutano a capirne le pulsioni, le contraddizioni o la linea, quando ne hanno una. Spesso, dicevo, ma non sempre. E’ accaduto, per esempio, che durante la lunga gestazione di questa crisi, prima che si formalizzasse con le dimissioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il Giornale della famiglia Berlusconi reclamasse continuamente e vigorosamente le elezioni anticipate, come del resto ha fatto Silvio Berlusconi in persona dopo l’incontro della delegazione di Forza Italia, da lui personalmente guidata, con Mattarella al Quirinale. Ma contemporaneamente, e senza che si levassero smentite o precisazioni, sono comparsi altrove retroscena e quant’altro sull’” agghiacchiante arrivo”- parola del Fatto Quotidiano- di una guarnigione di ascari berlusconiani al seguito di Gianni Letta” per garantire ad un ribaltone giallorosso in funzione antisalviniana una “opposizione costruttiva” o “graduata”. Ciò non significa tuttavia che Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio a schiena sempre orgliosamente dritta si senta custode e sostenitore di una maggioranza giallorossa dura e pura, perché a leggerne la descrizione che fa del Pd, che dovrebbe sostituire i leghisti nell’alleanza con i grillini, c’è francamente da chiedersi se davvero esso ci tenga alla sorte e alla buona salute del Movimento delle 5 Stelle. Il cui “elevato”, “garante” e quant’altro, cioè Beppe Grillo, gli affida spesso i suoi urticanti commenti e messaggi al popolo. “Trattare col Pd – ha appena scritto Travaglio in persona in un editoriale dopo il primo giro di consultazioni al Quirinale è come trattare con la Libia. Fai l’accordo con Al Sarraj e poi scopri che non controlla neppure la scala del palazzo presidenziale perché quella è presidiata da Haftar. Però il tutto è occupato dalla milizia di Misurata, peraltro assediata dal capotribù dei Warfalla, diversamente dalle cantine contese dai clan Gadafda e Magharba. Così uno o se li compra tutti o si spara”. Non hai finito di chiederti se Al Sarraj e Haftar siano paragonabili a Nicola Zingaretti o a Matteo Renzi, o viceversa, e già ti imbatti dopo qualche pagina in un racconto sui grillini, presumibilmente noti alla redazione del Fatto Quotidiano, che potrebbe bastare e avanzare per dissuadere il Pd dal tentare un accordo con loro, rischiando di essere travolto da faide interne di fronte alle quali impallidisce il ricordo di quelle dei tempi peggiori della Dc. “La grandissima parte del Movimento – racconta Luca De Carolis a pagina 4 scrivendo appunto dei grillini- invoca Giuseppe Conte” ancora a Palazzo Chigi “ma Di Maio si sta già rassegnando al veto del Pd, cioè a far cadere il nome del premier uscente, di cui soffre popolarità e stile, e con il quale la distanza è da settimane profondo”, nonostante l’abbraccio nell’aula del Senato prima che salisse al Quirinale per dimettersi. “Di Maio sa – continua il rapporto di De Carolis sulla situazione interna ai pentastellati - che i dem non potrebbero accettare sia lui che Conte in uno stesso esecutivo. E non ha voglia di fare un passo indietro, anche se alcuni big in queste ore glielo hanno chiesto proprio per arrivare a un Conte 2”. Non finisce qui tuttavia il racconto esclusivo del Fatto Quotidiano, che prosegue così: “Di Maio, capo già molto indebolito, non ha voglia di sacrificarsi. Rimanere fuori dall’esecutivo gli farebbe perdere visibilità e altra quota nel Movimento, dove Beppe Grillo è tornato centrale. Però non potrebbe fare muro a un altro nome in costante ascesa per Palazzo Chigi: quello di Roberto Fico, il presidente della Camera, il grillino del cuore rosso antico, l’opposto del vice premier che lo soffre come avrebbe sofferto Conte. Ma Fico andrebbe benissimo a molti nel Pd”, soprattutto – mi permetto di aggiungere all’ex ministro Dario Franceschini. Di cui è arcinota l’ambizione alla Presidenza della Camera, che si libererebbe con Fico a Palazzo Chigi. Essa mancò a Franceschini per un pelo nel 2013, quando l’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani, candidato peraltro alla guida di un governo “minoritario e di combattimento” cui i grillini rifiutarono l’appoggio, gli preferì a sorpresa, all’ultimo momento, Laura Boldrini. Che, fedele, lo avrebbe poi seguito fra i “liberi e uguali” col presidente del Senato Pietro Grasso nella scissione promossa da Massimo D’Alema.

Dagonews il 16 ottobre 2019. Studi e dati pubblicati in questi giorni fanno luce sulle modalità di fruizione delle news on-line e sulla sostenibilità economica del settore. L’analisi di Comscore-Sensemakers evidenzia che online ci si informa prevalentemente con gli smartphone. A luglio, ad esempio, il 42% degli italiani ha consultato i siti di news esclusivamente mediante smartphone o tablet, device che hanno generato il 72% del tempo totale speso nella lettura delle news. Su mobile le notizie si fruiscono prevalentemente mediante la navigazione in browser oppure leggendo quelle nativamente presenti sul dispositivo. I lettori di tutte le generazioni preferiscono di gran lunga queste modalità all’utilizzo delle App dei siti di news. La resistenza a scaricare nuove App e la tendenza ad utilizzarne frequentemente solo un numero limitato, costituiscono un freno alla diffusione delle App degli editori come leva di fidelizzazione dei lettori. I social network, per quanto ritenuti meno affidabili dei siti dei giornali, rappresentano la prima fonte di news per i giovani e ne esaudiscono il bisogno informativo: l’80% di chi legge notizie on line consulta infatti un‘unica fonte. Sono però relativamente pochi, e in diminuzione, coloro che postano le news che trovano online riducendo il ruolo dei social network come mezzo di amplificazione e viralizzazione delle news. Altri studi di settore e da ultimo quello di Deloitte (commissionato da Google) effettuato su 51 tra i maggiori quotidiani cartacei e on-line in UK, Germania, Francia e Spagna sottolineano la dipendenza economica di questi ultimi dalle fonti terze per l’approvvigionamento del traffico e, quindi, dei ricavi, on-line. Il digitale infatti per gli editori analizzati genera il 10% dei ricavi complessivi ma di questi oltre il 60% è attribuibile al traffico originato sui siti degli editori da Social Network, Aggregatori e motori di ricerca. Dal punto di vista economico l’avvento di Internet ha fatto sì che negli ultimi 10 anni gli investimenti pubblicitari sulla carta stampata In Italia si siano ridotti di due terzi (dati Politecnico di Milano) e sono stati solo in parte compensati con la crescita degli investimenti pubblicitari on-line che oggi per oltre l’80% sono appannaggio degli OTT. Trend che tra l’altro continua anche nel 2019, dove in base alle ultime rilevazioni Nielsen, nel periodo gennaio-agosto i quotidiani cartacei hanno registrato un calo del fatturato pubblicitario del 10,6% a fronte di un incremento degli investimenti on-line degli editori nazionali di un 2,2%. Esiste la possibilità di recuperare il calo degli investimenti pubblicitari attraverso la sottoscrizione di abbonamenti o il pagamento delle singole notizie? La ricerca Comscore-Sensemakers sottolinea che la disponibilità a pagare per le news è molto limitata e sempre più in competizione con la propensione a spendere per altre tipologie di contenuti on-line come la musica o i video in streaming.

PIANGE L'EDICOLA. Sergio Carli per Blitz Quotidiano. Vendite giornali quotidiani nel mese di aprile 2019, il declino sembra inarrestabile. Nel complesso il calo è quasi costante e fa paura: si sono vendute in Italia 196 mila copie in meno rispetto all’aprile 2018; in marzo se ne erano vendute in meno, sul marzo dell’anno scorso, 192 mila. Le cifre sono quasi uguali, la percentuale, essendo la base un po’ più bassa, sale da meno 8,8 a 9,1. Come sempre c’è chi performa meglio, pochissimi, c’è chi performa peggio, i più registrano un calo attorno al 5%. Ultimo in classifica è il Fatto Quotidiano, che ha perso il 19,7% delle copie vendute un anno fa e ha venduto, in cifra assoluta 26.796 copie. Lo precede il Corriere dello Sport con meno 19 per cento al lunedì e meno 14 per cento nella settimana, forse pagando il desarroi dei tifosi romanisti, mentre Gazzetta dello Sport e Corriere dello Sport scendono un tantino meno: rispettivamente del 5 e del 7 per cento in settimana, 12 e 17 per cento al lunedì (sempre più micidiale l’effetto di Sky). Per cercare di capire i trend dei due principali quotidiani, accanto al più pugnace e opinion maker, per quanto sempre più piccolo, ho messo in fila le vendite dallo scorso (2018) novembre ad aprile 2019, confrontandoli col mese omologo dell’anno precedente. Si ha quindi un trend, non completo, ma significativo. Ne emerge, se non leggo male i numeri, se non ho sbagliato l’aritmetica e sempre tenendo conto della stagionalità e degli eventi (elezioni soprattutto), 

– una sostanziale stabilità del Corriere della Sera, che da novembre 2017 a aprile 2019 ha perso 8 mila copie su 189 mila, con un calo che oscilla fra il 4 a il 6%; 

– uno strano andamento del calo di Repubblica, fra il 5 e il 9%, ma con una attenuazione molto forte fra gennaio e febbraio, e un ritorno a perdite in valore assoluto sopra quota 10 mila  e in percentuale sopra il 7 in marzo e aprile, con 24 mila copie in meno su 161 mila da novembre 2017 a aprile 2019;

-la crescente crisi del Fatto, mese dopo mese, in sequenza meno 6, 8, 10 13 fin quasi al 20%. Sono 5 mila copie in meno, ma su 31 mila e rotti. Scoppia la bolla grillina, cresce il consenso per la Lega, eroica la posizione del Fatto, come il Manifesto…

Perché insistiamo sulle vendite in edicola e teniamo distinte le copie digitali? Per una serie di ragioni che è opportuno riassumere.

1. I dati di diffusione come quelli di lettura hanno uno scopo ben preciso, quello di informare gli inserzionisti pubblicitari di quanta gente vede la loro pubblicità. Non sono finalizzate a molcire l’Io dei direttori, che del resto non ne hanno bisogno.

2. Le vendite di copie digitali possono valere o no in termini di conto economico, secondo quanto sono fatte pagare. Alcuni dicono che le fanno pagare come quelle in edicola ma se lo fanno è una cosa ingiusta, perché almeno i costi di carta, stampa e distribuzione, che fanno almeno metà del costo di una copia, li dovreste togliere. Infatti il Corriere della Sera fa pagare, per un anno, un pelo meno di 200 euro, rispetto ai 450 euro della copia in edicola; lo stesso fa Repubblica.

3. Ai fini della pubblicità, solo le vendite delle copie su carta offrono la resa per cui gli inserzionisti pagano. Provate a vedere un annuncio sulla copia digitale, dove occupa un quarto dello spazio rispetto a quella di carta.

Il confronto che è stato fatto fra Ads e Audipress da una parte e Auditel dall’altra non sta in piedi. Auditel si riferisce a un prodotto omogeneo: lo spot, il programma. Le copie digitali offrono un prodotto radicalmente diverso ai fini della pubblicità. Fonte Ads

3 GIORNALI, 10 DIRETTORI, 20 ANNI. Sergio Carli per Blitz Quotidiano il 18 luglio 2019. Tre giornali, Corriere della Sera, Repubblica e Fatto Quotidiano, e 11 direttori a confronto nell’arco di 20 anni. In mezzo è successo di tutto. Chi è stato più bravo? Chi ha sbagliato di più? Lo potete dedurre agevolmente guardando la tabella qua sotto. Sono stati anni da pazzi, in Italia e nel mondo, per chi lavora nei giornali. Per tutti è evidente la rivoluzione di internet, che ha allontanato o diradato milioni di lettori. Oggi si vende un quarto delle copie vendute 20 anni fa. Poi voglio ricordare a tutti gli effetti devastanti della sempre sottovalutata ma per molti versi mortale azione di soffocamento della tv sul mercato pubblicitario, in cui si è inserito di prepotenza, a metà del ventennio in esame, Sky. Sempre meno denaro disponibile dalla pubblicità, ricorso all’aumento del prezzo con effetti molto negativi sulle vendite. Poi ci sono i problemi particolari delle singole testate. La linea politica, si sarebbe detto una volta. Ci sono stati, nell’ultimo quarto di secolo, crolli di tiratura legati alla linea politica che meritano di essere ricordati: caso emblematico è quando nel 1993 Scalfari spostò Repubblica, da sempre all’opposizione, sulla linea filo governativa per sostenere l’azione di Amato e Ciampi. Furono perse 100 mila copie in pochi mesi. (C’era stato un precedente ai tempi dell’amore per De Mita. Per fortuna di Repubblica durò poco e grazie a Craxi e Andreotti sfiorò le 800 mila copie vendute in un giorno. Oggi sono 145 mila). Il caso più recente è quello del Fatto. L’abbraccio al Movimento 5 stelle di governo è costato a Marco Travaglio una progressione di tassi negativi di decrescita tutt’altro che felice. Ancora una volta il più bravo di tutti si conferma essere Paolo Flores D’Arcais. Tiene il suo Micromega sulla cresta dell’onda da 30 anni. Certo è una rivista bi o trimestrale ma provateci voi a farlo, con quel prezzo di copertina, senza aiuti dall’editore, solo sulla forza delle vostre idee, giuste o sbagliate che siano, e del vostro fiuto editoriale. Anche Flores si era innamorato di Beppe Grillo e di Stefano Rodotà. Rodotà è fra i santi e non può fare più danni, il grillismo è scivolato nella nebbia. Micromega sostiene il reddito di cittadinanza, certo, ma non quello di Di Maio. Prima di lasciarvi addentrare nei numeri della tabella, uno schema di orientamento. Qui sotto trovate i direttori che si sono succeduti, nel ventennio, alla guida dei tre quotidiani. Accanto le copie vendute in edicola all’inizio o alla fine del mandato. SI tenga conto che il Fatto è uscito nel 2009 ma i primi dati di vendita certificati sono del 2011. Nel sito di Ads, l’istituto che certifica le diffusioni, i dati più antichi disponibili sono quelli del 1999.

Corriere della Sera:

-Ferruccio de Bortoli, 8 maggio 1997 – 14 giugno 2003. Vendite gennaio 1999: 619.086, maggio 2003: 646.101;

-Stefano Folli, 15 giugno 2003 – 22 dicembre 2004: 506.561;

-Paolo Mieli, 23 dicembre 2004 – 9 aprile 2009 (marzo) 387.691;

-Ferruccio de Bortoli (2ª volta), 10 aprile 2009 – 30 aprile 2015 (aprile) 225.064;

-Luciano Fontana, 1º maggio 2015 -(maggio) 181.351 in carica.

Repubblica:

-14 gennaio 1976 – 6 maggio 1996: Eugenio Scalfari;

-7 maggio 1996 – 14 gennaio 2016: Ezio Mauro  gennaio ’99: 569.542 ; gennaio 2003: 596.171; 

-15 gennaio 2016 – 18 febbraio 2019: Mario Calabresi   dicembre 2015: 228.541; febbraio 2019: 151.270;

-dal 19 febbraio 2019: Carlo Verdelli maggio 2019  (maggio)145.004.

Il Fatto Quotidiano:

-23 settembre 2009 – 3 febbraio 2015 Antonio Padellaro: febbraio 2011: 71.685, febbraio 2015 38.599;

– dal 3 febbraio 2015 da Padellaro a Travaglio: maggio 2019: 27.282.

Per ulteriori confronti si tenga presente che nel febbraio 2015 il Corriere della Sera vendeva 232.800 copie e Repubblica 238.476. Il Fatto è uscito Mercoledì 23 settembre 2009: la prima rilevazione è del 2011, gennaio, con 68.325. Il Corriere vendeva 353.505 copie, Repubblica 368.061.

Marco A. Capisani per “Italia Oggi”  il 3 ottobre 2019. «Ci aspettiamo un 2020 particolarmente redditizio», ha dichiarato Cinzia Monteverdi, a.d. di Seif, casa editrice del Fatto Quotidiano e del mensile FQMillennium. Infatti, alcuni progetti che avrebbero dovuto partire nel primo semestre vedranno la luce nella seconda parte dell' anno, hanno fatto sapere dalla Società editoriale Il Fatto in occasione della pubblicazione dei conti al 30 giugno scorso. E i progetti dovrebbero concentrarsi soprattutto sulle produzioni tv di Loft per editori terzi, come nel caso dell' ultimo format lanciato: Enjoy con la conduzione di Peter Gomez (già on air con La Confessione, entrambe le trasmissioni vendute al gruppo Discovery, così come Accordi e disaccordi con Andrea Scanzi e Luca Sommi). Invece, nella redazione del quotidiano cartaceo diretto da Marco Travaglio qualche novità c' è già stata, con l' uscita del vicedirettore Stefano Feltri (ora alla direzione di ProMarket.org, testata dello Stigler Center dell'Università di Chicago Booth School of Business; nel board del sito c'è anche Luigi Zingales). Feltri continua a scrivere per il Fatto Quotidiano ma, di contro, è tornato a dare una mano alla confezione del giornale il condirettore Ettore Boffano. Tornando ai conti del primo semestre, l'editrice guidata dall'a.d. Cinzia Monteverdi (e quotata sia a Milano sia a Parigi) registra una perdita netta di 861,9 mila euro, a fronte di un risultato positivo per 182,9 mila euro al termine dei primi sei mesi del 2018. A monte di questo risultato, il fatturato è stato pari a 15,2 milioni di euro, in calo contenuto rispetto ai precedenti 15,9 milioni (calano del 15,6% i ricavi da vendite ma crescono la raccolta pubblicitaria del 3,3% e la produzione di contenuti, soprattutto di Loft, del 110,5% ma pari in valore assoluto a meno di 1,3 milioni di euro). A crescere sono stati i costi portando l'ebit in terreno negativo pari a -1,1 milioni di euro (+416,7 mila euro a fine giugno 2018). Nel dettaglio, sono aumentati i costi per materie prime del 31,6%, quelli per uso beni di terzi del 15% e del personale del 6,5%. Le spese per servizi crescono di un contenuto 0,5% ma sulla soglia dei 7,6 milioni. Costi per uso beni di terzi e personale comprendono, per esempio, le spese per le produzioni tv di Loft. Complessivamente, il flusso finanziario dell' attività d' investimento è stata di quasi 3,3 milioni di euro, il flusso finanziario dell' attività di finanziamento di oltre 2,9 milioni.

Matteo Mediola per “Italia Oggi” il 4 ottobre 2019. Il difficile 2018 dei mercati finanziari lascia il segno anche sulle due società inglesi di Carlo De Benedetti, Pyxis Investment Strategies e Fidelis Alternative Strategies, che investono in fondi hedge, veicoli di private equity e altri strumenti finanziari speculativi. La prima, infatti, dotata di un patrimonio di 205,8 milioni ha realizzato entrate per 4,4 milioni di euro, in netta contrazione dai 25,7 milioni dell' esercizio precedente, anche se l' utile ante compensazione dei soci ha tenuto anno su anno da 9,7 a 9,5 milioni e l' utile netto è addirittura salito da 5,1 a 6,8 milioni di euro anche se De Benedetti ha visto il suo compenso diminuire da 4,6 a 2,7 milioni. Ciò non ha impedito alla società di finanziare per 3,5 milioni Planven Investments, il family office svizzero dell' Ingegnere guidato da Giovanni Canetta Roeder, presidente fra l' altro della quotata M&C. Pyxis Investments Strategies che controlla due società americane, la Rosemar Trading e la Astacus in carico rispettivamente a 23,2 e 2,3 milioni. Anche la più piccola Fidelis Alternative Strategies, che ha un patrimonio di 16,8 milioni, nel 2018 ha realizzato entrate scese anno su anno da 3,8 a 1,2 milioni di euro e un utile diminuito da 3,8 a 1,2 milioni. L' utile prima delle remunerazione dei soci si è così limato da 3,4 a 1,1 milioni, mentre quello dopo i compensi si è attestato a soli 827 mila euro dai 2,9 milioni del 2017. Fidelis Alternative Strategies controlla la lussemburghese Sunbee, in carico a 5,3 milioni che a sua volta controlla la francese Fidefrance, e la Bestime, anch' essa basata nel Granducato e in carico a 3,8 milioni, che detiene l' immobiliare francese Montaigne Marignan.

·         Così Gramsci ha creato l’egemonia su giornali e magistratura

Così Gramsci ha creato l’egemonia su giornali e magistratura. Antonio Iannaccone su pepeonline.i il 23/11/2017. Vengono i brividi a leggere quel che scriveva 80 anni fa un brillante giovane carcerato, Antonio Gramsci, se oggi andiamo a verificare coi nostri occhi come puntualmente si sia avverato tutto quel che egli aveva profetizzato. Suo intento principale era sostituire nel cuore del popolo, dei semplici, l’allora radicata fede cristiana con una “fede” nuova, quella nella propria volontà, creatrice della storia. Per far questo, ha pensato non di agire con una rivoluzione violenta dal basso (come Marx, Stalin), ma con una “forza dall’alto”, occupando quei posti dove si creano le idee che contano, dove nasce quella cultura che diventa dominante nelle coscienze. Ebbene, ecco il risultato. Il cristianesimo si è praticamente suicidato, sia politicamente che culturalmente. Tutti i partiti e i capi politici avversi al comunismo gramsciano sono stati eliminati o dalla magistratura o da campagne stampa o dalla loro azione congiunta che li ha portato al suicidio (politico e non solo). Infine, tutti gli ideali politici sono scomparsi, portati all’annullamento da una mentalità dominante che è riuscita ad imporre un’unica “verità”: che non esiste nessuna verità per cui valga la pena vivere e lottare, ma solo la volontà degli uomini (il tristemente noto “relativismo”). Il filosofo Augusto Del Noce ha visto per primo, circa 40 anni fa, che cosa stava accadendo: vi presentiamo dei brani tratti dalla sua analisi. Tutto è nato da alcuni apparentemente innocui “Quaderni” di filosofia scritti in un carcere… Forse, allora, vale la pena capirla questa filosofia, per toccare con mano quanto sia importante la cultura e quali effetti enormi possa avere un “astratto pensiero” sulle sorti reali di tutti noi. (A.I.) [I brani seguenti sono tratti dal testo “Il suicidio della rivoluzione” di A. Del Noce, Rusconi, Milano 1978. Tra virgolette le citazioni di A. Gramsci, tratte dai “Quaderni del carcere”.]

L’obiettivo concreto nella parole di Gramsci:

Conquistare l’egemonia culturale. “Il momento dell’egemonia (…) [è] essenziale nella sua concezione statale e nella "valorizzazione" (…) di un fronte culturale come necessario accanto a quelli meramente economici e meramente politici”. [Q 10,I §7] “Si può dire che i partiti sono gli elaboratori delle nuove intellettualità integrali e totalitarie (…). L’innovazione non può diventare di massa nei suoi primi stadi se non per il tramite di una elite in cui [vi sia una] (…) volontà precisa e decisa”.[Q 11 §12]

Per raggiungere l’egemonia, occorre conquistare le aree di maggior influenza culturale. La scuola, in tutti i suoi gradi, e la chiesa sono le due maggiori organizzazioni culturali in ogni paese (…). I giornali, le riviste e l’attività libraria, le istituzioni scolastiche private, sia in quanto integrano la scuola di Stato, sia come istituzioni di cultura del tipo università popolare. Altre professioni incorporano (…) una frazione culturale non indifferente, come quella dei medici, degli ufficiali dell’esercito, della magistratura. [Q 11, §12]

Lo scopo ultimo da raggiungere. Per Gramsci (…) la rivoluzione si configura come lo strumento necessario per il passaggio da una concezione arcaica a una concezione moderna e immanentistica del mondo e della vita. (pag 164)

Quale è l’idea centrale del suo pensiero (…) se non quella di colmare la frattura tra il basso e l’alto, portando al popolo la concezione immanentistica e secolaristica della vita? L’io collettivo per Gramsci sostituisce nella concezione immanentistica, quello che era Dio nella concezione trascendente; la riforma economica è ordinata alla formazione di questo io collettivo. (pag 305)

Una nuova tattica: non "uccidere", ma "portare al suicidio". Già per il Gramsci del 1919 la concezione trascendente della vita (…) non deve venire ammazzata, ma finire per suicidio. (…) Tutte le nuove espressioni di cui si è servito (…) si illuminano a partire da questa tesi sul “suicidio”: da "riforma intellettuale e morale" e "guerra di posizione" sino a "egemonia", a "intellettuale organico", a "blocco storico". Gramsci insomma aveva inventato un’altra forma di estinzione dell’avversario; non più persecuzione fisica, ma "suicidio".

Un nuovo tipo di totalitarismo, opposto allo stalinismo…Da che cosa deriva il termine totalitarismo se non da totalità? Ora il passaggio da una società fondata su una concezione teologica trascendente, o anche immanente, a un’altra completamente secolarizzata, in cui l’idea di Dio sia scomparsa senza lasciar traccia, è proprio il passaggio da una totalità a un’altra. (…) Il suo totalitarismo è il preciso inverso, nelle intenzioni, di quello staliniano. Nello stalinismo si procede verso una coercizione sempre maggiore; nel gramscismo, la coercizione provvisoria deve progressivamente cedere rispetto al momento del consenso. [Vi è però] una necessità intrinseca alla rivoluzione totale, che porta inevitabilmente [all’] oppressività. Orbene, il pensiero di Gramsci è il maggior tentativo di sfuggire a questa necessità, (…) destinato però al fallimento [vedi parte finale del presente documento – NdR]. (pagg 284, 285)

… e molto diverso dal marxismo. L’innovazione profonda che Gramsci introduce in tutta la tradizione marxista (…) sta nella diversa concezione di società civile (pag 158). Per Marx la società civile (…) comprende (…) “tutto il complesso delle relazioni materiali fra gli individui”. (…) Gramsci intende invece per società civile tutto il complesso delle relazioni ideologico-culturali. (…) (pag 159). (…) Perciò l’avvento del socialismo non significa il passaggio da un tipo a un altro di economia, ma da una concezione ancora trascendente (…) della vita a un’altra rigorosamente immanentistica. (pag. 304) [Il pensiero di Gramsci, infine, si distingue dal marxismo in due sensi:] il termine ‘umanismo’ viene inteso come cancellazione del materialismo e il termine ‘storicismo’ come cancellazione (…) della stessa idea di ‘natura umana’ (pag 166). “Il problema di cos’è l’uomo, (…) l’umano, non è piuttosto un residuo ‘teologico’ e ‘metafisico’ in quanto posto come punto di partenza? (…) Neanche la facoltà di ‘ragionare’ o lo ‘spirito’ (…) può essere riconosciuto come fattore unitario (…). Che la “natura umana” sia “il complesso dei rapporti sociali” è la risposta più soddisfacente, perché include l’idea del divenire (…) e perché nega l’’uomo in generale’. (…) Si può anche dire che la natura umana è la ‘storia’”[Q7 §35].

Invece, il punto di partenza è l’attualismo di Gentile. L’attualismo [ha una] posizione singolare e unica (…) nella storia della filosofia. (…) Ha portato all’estremo non soltanto l’idealismo (…), ma la filosofia del primato del divenire, chiarendone l’esito antimetafisico. (pag 121) Tutti i pensatori prima di me, dice in sostanza Gentile, (…) hanno guardato al mondo degli oggetti; e, tra questi oggetti, ne hanno distinto [alcuni] forniti di pensiero [i soggetti pensanti, gli uomini o Dio – NdR]; di qui sono sorti gli infiniti problemi insolubili della storia della filosofia. (pagg 142, 143) [In sostanza, secondo Gentile, esiste solo l’ “atto puro (da cui “attualismo”) del conoscere”, non esistono le altre persone e neppure gli oggetti, tutto è posto dall’atto del conoscere – NdR]. [VI è un] rapporto di necessità tra l’attualismo e il fascismo. L’affermazione che gli altri non esistono coincide con quella che “gli altri (…) sono il nostro stesso corpo, sul quale noi abbiamo tutti i diritti”. Non si affaccia qui la figura del capo totalitario?

Gramsci radicalizza l’attualismo. L’attualismo assume un carattere rivoluzionario: tutte le concezioni del mondo prima dell’attualismo si sono mosse nell’orizzonte di una realtà e di una verità presupposte; (…) [ora, per Gramsci, occorre completare] il processo di erosione di [questa] concezione. Termine ultimo a cui può giungere la filosofia della prassi dopo Hegel, l’attualismo può essere pensato e vissuto nella forma "romantica" di continuità con la tradizione, che fu di Gentile, o in quella "illuministica" di scissione rivoluzionaria, che fu di Gramsci. (pag 146) Il comunismo [gramsciano è] la posizione politica adeguata al compimento del passaggio alla concezione immanentistica della vita. (…) Gentile sarebbe ricaduto completamente in tale concezione. (pag 177)

Fascismo e comunismo, due facce della stessa medaglia “attualista”. Gentile e Gramsci convengono nell’idea della formazione di una volontà collettiva nazional-popolare, che fonda gli intellettuali e i semplici. (pag 195) [Solo che, per il fascista Gentile,] la religione contiene in forma mitica la stessa verità della filosofia; [per il comunista Gramsci la religione trascendente coincide con] la servitù e la filosofia immanentistica [coincide con] la liberazione umana. (…) Lo sforzo di Gramsci è orientato verso il massimo di laicizzazione del pensiero rivoluzionario. (pagg 194, 195)

Ma il gramscismo si è davvero realizzato? Il pensiero di Gramsci ha conosciuto (…) il massimo del successo nel periodo che va dalla seconda metà del ‘74 all’autunno del ‘76. Ne fu occasione il contraccolpo del referendum sul divorzio, 12 maggio 1974. (…) Avveniva che questa secolarizzazione del modo di pensare del popolo italiano, rimasto fedele in linea di principio alla “morale cattolica” anche nei tempi di massimo dominio dell’anticlericalismo, si avverasse proprio dopo un decennio di governo da parte dei cattolici. Che cosa si doveva concluderne? Giungere al giudizio (…) che il vero soggetto della storia italiana nell’ultimo trentennio era stata la riforma intellettuale e morale gramsciana (…); riforma indirizzata, in conseguenza della strategia rivoluzionaria intesa come guerra di posizione , a raggiungere la direzione intellettuale prima del dominio. (…) Si doveva arrivare a dire che la direzione era stata esercitata dal partito comunista, (…) in quanto la sua politica era stata la precisa concrezione pratica del pensiero gramsciano. Attraverso il referendum (…) si illuminava il senso morale e intellettuale del trentennio, come vittoria di Gramsci (pagg 255-257) La realtà morale italiana (…) con un crescendo continuo, particolarmente accelerato dal ‘68 in poi, è la verifica puntuale di [quel che si è detto]. (…) Non ripetiamo (…) quel che tutti sanno: hanno larga ciricolazione in Italia soltanto quei prodotti intellettuali che sono conformi [all’egemonia del comunismo] o ne fanno il giuoco. (pag. 320)

Il vero significato della sconfitta cattolica…Sembra (…) che i cattolici stessi abbiano dimenticato che la Democrazia Cristiana ha le sue radici ideali [nel pensiero di] Leone XIII. (…) Il pensiero profondo di Leone XIII (…) è un pensiero sociale, essendo ben inteso che l’ordine di una società riposa sulla coscienza della verità accettata da coloro che governano il corpo politico. (…) La rinascita cattolica deve essere (…) inscindibilmente religiosa, filosofica e politica; (…) ma questa politica deve appoggiarsi su una filosofia che sia a sua volta preambolo della fede. (…) [Invece] capita (…) di sentire (…) che il partito dovrebbe rinunciare all’aggettivo “cristiano” per risolversi in un partito “democratico” (…), assumendo una pura posizione di neutralità nel campo culturale e religioso. (…) Un altro passo e si giungerà al riconoscimento che il marxismo si è sostituito al cristianesimo nel momento presente dello sviluppo storico. (pagg. 257-260)

… è il suicidio del cristianesimo, profetizzato da Gramsci. A questo punto sembra suonar profetico quel che Gramsci scriveva su L’Ordine Nuovo del 1 novembre 1919 all’indomani della fondazione del Partito Popolare: “Il cattolicesimo riappare alla luce della storia, ma quanto modificato, ma quanto ‘riformato’. Lo spirito si è fatto carne, e carne corruttibile come le forme umane (…) Il cattolicesimo entra così in concorrenza non già col liberalismo, non già con lo Stato laico; esso entra in concorrenza col socialismo e sarà sconfitto, sarà definitivamente espulso dalla storia del socialismo […]. Il cattolicesimo democratico fa ciò che il socialismo non potrebbe: amalgama, ordina, vivifica e si suicida. […] Diventati società, acquistata coscienza della loro forza reale, questi individui (…) vorranno far da sé e svolgeranno da se stessi le loro proprie forze e non vorranno più intermediari, non vorranno più pastori per autorità, ma comprenderanno di muoversi per impulso proprio: diventeranno uomini, (…) uomini che attingono alla propria coscienza i principi della propria azione, uomini che spezzano gli idoli, che decapitano Dio”. (pag 260). Si possono certo ammirare le facoltà divinatrici di Gramsci. La crisi della Chiesa – non certamente prevista da nessuno negli anni ‘30 – è avvenuta realmente, dopo il ‘60, nella forma da lui descritta. [Ad esempio] è rinato il modernismo, ed esattamente nella forma di risoluzione di religione in politica attraverso le varie teologie politiche, della rivoluzione, della liberalizzazione, della secolarizzazione, eccetera. (pag. 290)

La contraddizione finale. Ma questa filosofia ha davvero la possibilità di portare a un consenso razionale [come pretende], o invece non può essere che (…) accolta come ideologia, come strumento atto a conseguire fini pratici? (…) Il termine di filosofia è legato a quello di verità; il termine di ideologia a quello di potere. Da ciò risulta che si ha la situazione peggiore quando l’ideologia pretende di risolvere in sé la filosofia (è una delle definizioni del totalitarismo); allora il potere, assolutizzandosi, rivela quel “volto demoniaco” di cui tante volte si è discorso. (pag. 305)

Il divieto della "domanda". [Si ha dunque] una trasposizione del totalitarismo dal “fisico” al “morale”. L’unità del blocco sociale sarebbe raggiunta attraverso la prevalenza della coercizione sul consenso, ottenuto attraverso la discriminazione delle domande, vietando quelle che (…) gli intellettuali organici definiscono “reazionarie”. O meglio, attraverso la creazione, a cui si provvede col dominio della cultura e della scuola, di un nuovo senso comune, in cui non riaffiorino più le domande metafisiche tradizionali. (…) Il conformismo del passato era un conformismo delle risposte, mentre il nuovo risulta da una discriminazione delle domande per cui le indiscrete vengono paralizzate quali espressioni di ‘tradizionalismo’, di ‘spirito conservatore’ (…) o magari, quando l’eccesso di cattivo gusto giunge al limite, di ‘fascista’; si giunge alla situazione in cui sia il soggetto stesso a vietarsele come ‘immorali’. Sino a che queste domande, per il processo dell’abitudine, o in virtù dell’insegnamento, non sorgano più. Per le domande razionali non avviene infatti la stessa cosa che per gli istinti che, repressi, riaffiorano; esse, invece possono scomparire del tutto. Il dissenso viene reso impossibile, non per vie fisiche, ma per vie pedagogiche. E’ nella sua trasposizione al morale che il totalitarismo raggiunge la sua forma pura. (pagg. 319,320)

Il vero esito del gramscismo: il dissolvimento di ogni ideale. La riforma gramsciana ha avuto la funzione di “produttrice di miscredenza” in un processo che, se ha messo in crisi le fedi religiose avverse, ha finito col far lo stesso anche con la propria. La radice prima teorica di ciò sta nel dissolvimento della filosofia nell’ideologia. Se si vuole parlare di un nuovo ‘senso comune’ occorre riconoscere che non poteva assumere altra forma di quella che, appunto, ha preso: la dilatazione estrema della mentalità ideologica, nel senso di inclinazione a vedere tutto in termini di strumento di azione (di potere); come preclusione a qualsiasi fede, questa disposizione non può non incrinare, e al termine dissolvere, la stessa fede rivoluzionaria. E questa mentalità corrisponde esattamente all’Anticristo di cui parlava Croce. (…) Non stupisce perciò se il comunismo italiano appare oggi come la forza più adeguata a mantenere l’ordine in un mondo in cui qualsiasi religione è scomparsa; non soltanto la religione cattolica, ma ogni sua forma anche immanente e secolare; anche la fede nel comunismo. (…) Certo, il comunismo gramsciano può riuscire, ma realizzando l’esatto opposto di quel che si proponeva [ovvero, suicidandosi] (pag. 333, 334).

Dizionarietto filosofico.

Immanentismo: posizione filosofica per cui non esiste nulla di “trascendente”, nulla al di là della realtà che conosciamo, della realtà “immanente” appunto.

Storicismo: pensiero secondo il quale non esiste nulla che non sia sottoposto al divenire storico; quindi, tutto diviene e nulla "è".

Secolarismo: tendenza a escludere il religioso dalla vita sociale (dal latino “saeculum” che indica tutto ciò che non appartiene alla religione).

Metafisica: dottrina che si occupa di ciò che ogni realtà ultimamente "è", al di là dei suoi cambiamenti storici o delle differenze individuali. Il discorso metafisico per eccellenza riguarda quindi la consistenza profonda dell’essere e quindi il mistero di Dio.

·         Fatti la tua idea...la nostra!

Fatti la tua idea. Augusto Bassi 21 maggio 2019 su Il Giornale. «Un approfondimento sempre libero, indipendente, pluralista», scrive di sé il Corriere della Sera, sponsorizzando l’abbonamento alla propria edizione online (“A soli 3 euro al mese per 6 mesi, abbonati ora!”). Al fine di subornare le simpatie del lettore-consumatore, il Corriere usa l’amo delle imminenti elezioni europee, snodo gordiano delle future umane vicende. Lecito. Tuttavia la modalità è due volte ingannevole, in un viluppo di viscidume propagandistico e pubblicitario che va oltre la promozione di un canone, con una presentazione idonea a manipolare lettori ed elettori. Come sfondo si sceglie, “inattaccabilmente”, la bandiera dell’Europa. Poi però si legge: Quale Europa uscirà dalle prossime elezioni? Quale impatto avranno i partiti populisti ed euroscettici sulle politiche dell’Ue – dai bilanci alla gestione dei flussi migratori, fino a quella della Brexit, ormai prossima? E quali saranno le conseguenze sulla politica italiana, dagli equilibri tra le forze che danno vita al governo a quelli tra le diverse anime dell’opposizione? Per trovare le risposte a tutte queste domande, il Corriere della Sera offrirà notizie, analisi, commenti, scenari. In edicola, ogni giorno: e in tempo reale su corriere.it. Perchè l’Europa – e l’Italia – di domani ci riguardano. Sin da oggi. Le dodici stelle su campo blu in filigrana, che abbracciano l’incitamento alla libertà di idee dell’hashtag, sono in realtà il vessillo del bene, il gagliardetto della squadra da amare, la bandiera di una nobile tifoseria, e l’unica scelta possibile per chi sia stato o sarà capace di farsi liberamente la propria idea grazie al Corriere.it. Ma è necessario abbonarsi ora; respingere l’impatto dei partiti populisti ed euroscettici con il voto è un’urgenza di civiltà, perché l’Europa – e l’Italia – di domani ci riguardano. Sin da oggi. Insomma meschino populista, non fare l’euroscettico! Abbonati al Corriere, sventola la bandierina e fatti da solo un’altra idea: la nostra! Troverai analisi, commenti, scenari, interviste, come la storia di copertina pubblicata sul nostro settimanale 7, dedicata a Bernard Henri-Lévy, protagonista di uno spettacolo teatrale contro il populismo perché «E’ lebbra: va combattuto. (…) Per non soccombere serve ancora più Europa». E allora #fattilatuaidea… dove quel “fatti” non è un imperativo presente, ci mancherebbe, bensì un’esortazione a preferire i nostri fatti alle tue opinioni per generare finalmente l’idea. Ci siamo capiti… vero?! Non vorrai forse essere preso per un lebbroso?! Questa è solo l’ultima fra le dissimulate – arriverei a scrivere subliminali – testimonianze di libertà, indipendenza e pluralismo della massima testata nazionale. E noi lettori hashtagscettici un’idea su questa risma di informazione ce la siamo fatta. Anche senza esserci mai abbonati.

Società dell’imbecillità. Augusto Bassi il 9 ottobre 2019 su Il Giornale. Abbiamo osservato per tanti mesi e con crescente imbarazzo l’ammaestramento della propaganda sinistra nei confronti delle bertucce progressiste. Per tante volte abbiamo rimarcato come alla base del cataclisma intellettuale in atto vi sia innanzitutto una generale assenza di consonanza cognitiva. Abbiamo poi sottolineato in numerose circostanze come il condizionamento ideologico mass-mediatico si sia servito della finestra di Overton per rendere progressivamente popolari idee poco prima inconcepibili, come l’utero in affitto o un governo Pd-5Stelle. Tuttavia, benché avvezzi a tutto ciò, ci troviamo innanzi un genere di divulgazione che si spinge oltre e che ritengo apertamente sperimentale e potenzialmente distopica. La contraffazione di dominio sta tirando l’elastico della credulità sociale fino a sdoganare la più schietta imbecillità. Non è più un lubrico tentativo di trasformare l’inaccettabile in legale, ma un frontale attacco all’esperienza, al principio di realtà. Mentana scrive: «Effetto generazione Z su tutta l’opinione pubblica italiana; sondaggio Swg, è il clima la più grande preoccupazione degli italiani». Assistiamo dunque a un mitragliamento manipolatorio a tappeto di ecoputtante millenariste azzimate da rassicuranti treccine, un moral bombing strategico; e quindi una presta verifica dei danni recati alla popolazione civile con sondaggioscemenze pilotate che rilanciano il moral bombing di cui sopra. Quali sono dunque le “situazioni o realtà” che preoccupano maggiormente gli esseri umani che abbiamo intorno? Il clima. Si sottintende dunque, sfidando la sfera logico-razionale anche dell’imbecillità integrale, che i 14 milioni di poveri assoluti/relativi in Italia, o i malati di cancro, o i disabili, o gli anziani soli, o le madri single, o i disoccupati, o i giovani precari, o i giovani randagi, o i cornuti, o gli interisti… abbiano come prima preoccupazione esistenziale, la mattina, il cambiamento climatico. E lo si riporta senza temere di essere presi a schiaffi con delle fette di bresaola multimediale sulla faccia. Come scriveva qualche giorno fa un intelligente lettore, noi ultimi avamposti del discernimento ogni tanto proviamo pietà per il povero babbo-progressista medio, quotidianamente occupato a conciliare l’inconciliabile nella sua coscienza adulterata: fervente femminista e gay-friendly, ma anche adoratore acritico di culture violentemente maschiliste e omofobe; intransigente animalista e difensore delle macellazione con tortura dell’animale; laicista spinto (religioni oppio dei popoli) e difensore ad oltranza di pratiche religiose di minoranze fanatiche che subordinano al dogma ogni singolo aspetto della convivenza civile; antifascista e pacifista, ma con la bava alla bocca e pronto ad appendere il leghista a testa in giù; implacabile accusatore dei metodi polizieschi della polizia quando il poliziotto si difende e implacabile accusatore dell’irresolutezza della polizia quando il poliziotto muore; democratico responsabile che vorrebbe concedere il voto solo a chi ha tre lauree perché la politica è una cosa per competenti, se non hai studiato che cosa ne vuoi sapere?… eppure a favore di un’apertura del suffragio ai sedicenni. Ma questa pietà è superflua. Perché la clinica di regime lì ha già in cura. La sperimentazione ideologica in atto, ostentando senza pudore la propria stessa irrazionalità, si sta adoperando per eliminare il disagio logico che persino l’imbecille ancora proverebbe innanzi a macroscopiche contraddizioni. Questo è ciò che sta avvenendo. Abbassando sempre più la soglia minima di coerenza richiesta, nella società come nelle coscienze, tutto diventa possibile, tranne riportare alla ragione. Quando l’imbecillità diviene l’unica realtà, l’imbecille non è più un deviante, un malato. Anzi. Il pensiero critico è intercettato come devianza; il pensiero critico diventa la malattia.

·         Quell'infinito striscione per Giulio Regeni.

Quell'infinito striscione per Giulio Regeni. Sono passati tre anni dall'uccisione del giovane ma la parata di ritratti ed affissioni rischiano di essere una celebrazione vuota. E di parte. Marcello Veneziani il 12 luglio 2019 su Panorama. In tutta Italia, ovunque governi la sinistra o anche i grillini, c’è una sacra icona che non può essere rimossa neanche dopo anni e anni: lo striscione su Giulio Regeni, il ragazzo che scriveva sul Manifesto, barbaramente assassinato in Egitto. Lo striscione di Regeni pende dai palazzi di città, campeggia su torri e balconi, a volte si accompagna alla sua immagine. E guai a chi osa rimuoverlo, come fece il governatore Massimiliano Fedriga a Trieste, sei considerato quasi un complice dei sicari, comunque un blasfemo, un profanatore di reliquie. La sua tragedia, è inutile dirlo, grida giustizia: Regeni fu torturato e ucciso perché ritenuto una spia o un collaboratore degli oppositori al regime egiziano, i suoi sicari e mandanti sono ancora impuniti e non si sono appurate eventuali responsabilità del college inglese che lo mandò allo sbaraglio... Ma sono passati tre anni e quegli striscioni, ormai alterati dal sole e dalle intemperie, risultano vani reperti di una mobilitazione politica a perenne memoria. Sappiamo che alla causa di Regeni si è votato con abnegazione e fervore mistico il presidente della Camera Roberto Fico, diventando una specie di ministro del culto del ragazzo ucciso, facendone la sua missione suprema e la sua ragione morale di vita politica. Ora noi sappiamo che di italiani sequestrati e uccisi, spesso senza un perché, ce ne sono stati tanti in questi anni, ma sono stati dimenticati anche perché nessuno di loro risultava di sinistra o collaborava a un quotidiano di sinistra. Ci sono stati persino religiosi trucidati a cui non è stata mai resa giustizia, o altri che risultano ancora in mano ai rapitori senza alcuna mobilitazione politica. Il caso di padre Paolo Dall’Oglio, per esempio, è ancora misteriosamente aperto e, magari, c’è ancora la possibilità pur tenue che si faccia qualcosa per liberarlo dagli assassini di Daesh. Ma non c’è mobilitazione per lui. Eppure lui era un missionario, agiva davvero a fin di bene. E tante vittime inermi, ragazze e bambini, di cui non si è ancora trovato o punito il colpevole, ci sono state in Italia, ma non c’è nessuno striscione in loro favore. Prima di Regeni era stata la destra a tappezzare di striscioni alcuni luoghi pubblici per sostenere i due marò, La Torre e Girone, imprigionati in India con l’accusa di omicidio. Iniziativa magari pur essa discutibile ma in quel caso si trattava di due persone ancora vive, e dunque la campagna per sensibilizzare governi e opinione pubblica aveva un senso; e forse qualche effetto lo ebbe, perché alla fine furono liberati. In questo caso, invece, lo striscione è una specie di ex-voto, di edicola votiva, che serve - diciamo la verità - per appagare l’identità collettiva e politica di chi la espone e in suo nome si mobilita. E per farlo diventare un martire contro «ogni fascismo». Al limite, potrebbe avere qualche efficacia la proposta dei genitori di Giulio, di ritirare l’ambasciatore italiano dall’Egitto fino a che non si fa chiara luce sul delitto e non si puniscono i colpevoli. Ma l’uso politico e simbolico che si fa di Regeni e della sua icona serve a piantare la loro bandierina sulle istituzioni e a nutrire l’immaginario collettivo tramite qualche Vittima del Sistema - come è stato il caso di Stefano Cucchi, o in passato di Carlo Giuliani, per non dire del Vittimario imbastito sui migranti. Così viene alimentata una specie di religione politica ed emozionale, coi suoi riti, i suoi santini, le sue stazioni votive, i suoi martiri, i suoi racconti sacri, la sua liturgia civile. Qui vorrei sottolineare un paradosso della nostra epoca laicista e irreligiosa: è trattato con aria d’ironia e di sufficienza chi si dedica alla preghiera o al rosario, si sprecano risatine se fai dire messa ai morti, se preghi per i defunti, o se fai un voto o un fioretto. Ma sono forse più reali e razionali, e più efficaci, le fiaccolate per liberare un ostaggio, le firme contro la violenza, le marce per la pace, i sit-in contro le stragi, gli striscioni in memoria? Credete che servano a qualcosa, fermino o dissuadano i criminali, sensibilizzino le autorità, producano risultati? Nessuna marcia della pace ha mai fermato una guerra. E non ha mai indebolito un Paese belligerante (se non il proprio). Tra una novena alla Madonna e una veglia per Regeni, sul piano reale e razionale, c’è qualche differenza? Uno striscione per punire gli assassini ha più possibilità di avere successo di un viaggio della speranza a Lourdes? Servono davvero a qualcosa i cortei, le veglie e gli striscioni, o sono puri atti liturgici che rispondono a una fede e ai suoi riti? Sono solo simboli di appartenenza e cerimonie votive. Qui viaggiamo tra due paradossi: è assurdo che il caso Regeni sia l’unico negli ultimi anni a suscitare mobilitazione in tutto il territorio nazionale e a campeggiare negli edifici pubblici; ma sarebbe pure assurdo se per ogni delitto rimasto impunito si esponesse uno striscione come monito e memoria. Saremmo sommersi da striscioni, ci sarebbe la guerra tra tante conventicole: quelli che ricordano la ragazza stuprata e uccisa dai nigeriani, quelli che ricordano il missionario italiano sequestrato e ucciso dai fanatici musulmani, quelli che ricordano le vittime di femminicidio o di infanticidio, o le vittime di drogati recidivi, stupratori seriali o migranti criminali, non sbattuti in carcere o spediti a casa loro ma rimessi in libertà e dunque messi in condizione di reiterare i loro crimini. Quante mobilitazioni dovremmo fare per tutti questi casi, quanti striscioni, gigantografie dovrebbero tappezzare i nostri palazzi civici? Via, siamo seri, non striscioni ma opere di bene.

·         Il Metodo Raggi.

SBATTI “IL MOSTRO” RAGGI IN PRIMA PAGINA. Marco Travaglio per il Fatto Quotidiano il 23 aprile 2019. L' ufficio stampa di Virginia Raggi non me ne voglia, ma penso che andrebbe licenziato in tronco. Le sue funzioni possono essere svolte egregiamente, e soprattutto gratuitamente, dall' intera stampa italiana. Da quando, quasi tre anni fa, la Raggi fu eletta col 67% dei voti, non passa giorno senza che l'"informazione" la mostrifichi con ogni mezzo, come mai era accaduto a un politico incensurato e onesto. Ripetono che va giudicata sugli scarsi risultati della sua giunta (fra errori, ritardi, inefficienze e gaffe, si potrebbe riempire una Treccani). Ma poi mirano a ben altro: dipingerla come una delinquente, una corrotta, una fascista mascherata, una sgualdrina. Perché lo sanno benissimo che darle dell' incapace non basta: in una città sgovernata per decenni da incapaci e ladri o complici di ladri che l' hanno grassata e spolpata fino al midollo, se non si dimostra che ruba anche lei l' accusa di inefficienza non basta. Pazienza se mai è stata sospettata di corruzione e dall' unico processo, per falso, l' hanno assolta. L' Espresso è appena uscito con una copertina al cui confronto la famigerata "Patata bollente" di Vittorio Feltri su Libero diventa un'innocua goliardata. La sua foto è deturpata per trasformarla in una vecchia megera: infatti la pagina Facebook del settimanale è subissata di commenti indignati, anche di storici lettori che mai hanno votato 5Stelle ma ora minacciano di farlo, per reazione. Se qualcuno avesse azzardato qualcosa di simile per una Boldrini, una Boschi, anche una Carfagna, avremmo le piazze invase di femministe, appelli del MeToo, raffiche di denunce per sessismo, mobilitazioni della Federazione e dell' Ordine, diktat del Garante. Invece tutti zitti: contro la Raggi si può tutto. Il mostro in copertina serve a riempire il vuoto pneumatico di contenuti: quelli delle "frasi choc" della sindaca registrate di nascosto da quel gentiluomo dell' ex presidente Ama Lorenzo Bagnacani, che girava col registratore in tasca per incastrarla con qualche voce dal sen fuggita. E invece, partito per suonare, è finito suonato. Le "frasi choc" che gli diceva la sindaca in privato sono le stesse che pronuncia pubblicamente da mesi in interviste, dichiarazioni, discorsi in Consiglio comunale. E che gli stessi giornali che ora menano scandalo riferivano puntualmente nelle cronache dal Campidoglio. Il 12 febbraio, tre mesi prima che uscissero gli audio, il Messaggero titolava: "Paralisi Ama, il Cda non arretra. Raggi: 'Così si va in tribunale'. Scontro aperto, la sindaca a Bagnacani: 'Devi cambiare subito i conti del 2017'". Il Corriere, il 19 febbraio: "Raggi caccia cda Ama e Bagnacani: 'Carenti e sleali'. Un elenco di accuse: 'Tradito anche il rapporto di fiducia'. Si parla anche del flop della differenziata". E Repubblica, stesso giorno: "Rifiuti, Raggi ammette lo sfascio: 'Livelli critici, via il vertice Ama'. Il Comune non vuole riconoscere gli ormai famigerati 18 milioni di crediti per servizi cimiteriali svolti tra il 2008 e il 2016 e richiesti da Ama". Ora nelle "frasi choc" carpite da Bagnacani e finite alla Procura e all' Espresso, la Raggi dice le stesse cose: raccolta rifiuti "fuori controllo" in "alcune zone", bilancio inapprovabile per quei 18 milioni di crediti fantasma. Proviamo a immaginare se un qualunque sindaco o politico venisse intercettato da un manager pubblico: quanti sarebbero quelli che si preoccupano dei problemi dei cittadini e chiedono a di risolverli, stilare bilanci veritieri, non premiare amministratori inefficienti, e quelli che invece chiedono favori per sé, posti per parenti e amici, mazzette o finanziamenti elettorali? Eppure il non-scandalo Raggi viene usato dalla stampa per pareggiare e oscurare l' indagine per corruzione sul leghista Siri e il faccendiere Arata, legato a un complice di Messina Denaro, supportando l' assalto di Salvini al Campidoglio. Per fortuna chi ancora ha voglia di informarsi non ha l' anello al naso: quando vede la copertina mostrificante e legge le "frasi choc" della Raggi, capisce bene il gioco sporco. Del resto, di ciò che dice e fa in privato la Raggi, sappiamo tutto: pur non essendo mai stata intercettata dai pm, ha dovuto render conto delle chat con i suoi collaboratori, da Marra in giù, a cui sono stati sequestrati i cellulari. Migliaia di conversazioni private finite sui giornali, da cui non è uscita una parola diversa da ciò che ha sempre detto in pubblico. Tant' è che, per sputtanare lei e Di Maio su Marra, il trio Repubblica-Corriere-Messaggero dovette taroccare le chat col taglia e cuci. Il "metodo Raggi" (infinitamente più grave del "metodo Boffo" feltriano, che almeno partiva da un fatto vero: una sentenza per molestie) toccò il punto più basso e comico col "caso Spelacchio": centinaia di titoli, mai visti per la trattativa Stato-mafia, sull' albero di Natale del Comune. Doveva diventare il simbolo del malgoverno di Roma (altro che Mafia Capitale, altro che 14 miliardi di debiti creati dai sindaci "capaci"), invece fu un altro boomerang: un' ondata di simpatia per l' abete sfigato e per chi l' aveva messo lì. Fu allora che ci sorse un sospetto: che i giornaloni li paghi la Raggi per nascondere le sue vere colpe. Ora, dopo la canea sullo "scoop" dell' Espresso e la prima pagina pasquale di Repubblica su "Raggi indagata per lo stadio" (per la denuncia di un ex 5S , una delle 600 subite in 3 anni, che l' accusa di abuso d' ufficio per il mancato voto del Consiglio comunale sullo stadio, regolarmente previsto per l' estate dopo lo stop seguito all' inchiesta Parnasi), il sospetto diventa certezza: il mandante delle campagne anti-Raggi è la Raggi. Ancora qualche piccolo sforzo e i giornaloni potrebbero riuscire in un' impresa disperata persino per lei: farla rieleggere.

Ludovica Di Ridolfi per il Fatto Quotidiano il 23 aprile 2019. "Dopo questa copertina avete raggiunto il top del trash. Spero nella chiusura". Con 153 like questo commento troneggia tra gli 800 lasciati sotto una foto pubblicata dalla pagina Facebook de l' Espresso: l' immagine ritrae la copertina del suo ultimo numero, in cui appare una gigantografia in bianco e nero della sindaca di Roma Virginia Raggi, con una scritta in rosso che riporta una frase da lei pronunciata: "Roma è fuori controllo". Nella foto di copertina la sindaca appare visibilmente invecchiata e imbruttita, e questo ha lasciato pensare che ci sia stato lo zampino di photoshop, tanto da dare il via a un profluvio di proteste virtuali. "L' unico effetto che produce questa informazione malata e in malafede è la riconsiderazione continua della Raggi. Prima la stimavo. Ora l' adoro", scrive S. M., a cui si aggiunge Angelo, che commenta: "Ma vi rendete conto che pur di accontentare i vostri padroncini avete perso tutta la dignità di giornalisti?". Le reazioni che si sono riversate sul social sembrano testimoniare l' effetto boomerang della scelta di ritrarre così la prima cittadina capitolina, che ha scatenato nei lettori un moto di solidarietà verso Virginia Raggi, anziché di indignazione. La scelta della copertina non è piaciuta a molti lettori: "Per pluralità di informazione vi ho letto per anni, ma siete beceramente alla fine", posta M.B.. "Perché non lo avete fatto con la Boschi, per tutto quello che ha combinato ai cittadini? Dimenticavo.. ha la vostra stessa morale", "Sarei curioso di vedere la copertina del 20 luglio scorso, quando uscì la motivazione della sentenza sulla trattativa Stato-mafia". E ancora: "Se con questa copertina pensavate di attirare l' attenzione ci siete riusciti, peccato che l' attenzione ottenuta sia per farvi coprire di insulti e non di complimenti", per finire con un sintetico "Fate schifo". Il settimanale L' Espresso ha riportato nell' inchiesta di copertina le presunte pressioni sui vertici della municipalizzata Ama per modificare il bilancio. Nella pioggia di commenti, c' è chi torna sulla foto: "La copertina non vi rende onore, qualsiasi cosa si pensi di Virginia Raggi, non dovete scadere nel body shaming, vi credevo migliori". Qualcuno si indigna al pensiero che il suo volto sia stato "ritoccato e taroccato" per farla sembrare più vecchia. "Fatevelo spiegà da Aranzulla come se photoshoppa.. o almeno prossima volta assumete un grafico!", consiglia J.B. C' è però anche chi non condivide il polverone sollevato dalla questione, come G.R., che rimbrotta: "Ma se fosse stata la foto di un maschio ci sarebbe stata questa alzata di scudi? Proprio vero che in Italia il berlusconismo ha compromesso i cervelli. Riprendetevi!". Una vignetta rimarca come il settimanale combatta quotidianamente sessismo e bullismo, e si sarebbe quindi tirato un brutto autogol con questa trovata. Se l' intento "palese" era "ottenere un fine politico" - scrive Marco E. - potrebbero però esserci riusciti: più di qualcuno ha scritto: "Io la Raggi dopo questa vicenda l' ho rivalutata".

·         Assange: spia o eroe?

Da ilfattoquotidiano.it il 19 novembre 2019. Julian Assange non è più indagato per stupro in Svezia. La procura comunica di avere archiviato l’indagine per un’accusa risalente al 2010, pur precisando che reputa “credibile” la denuncia presentata. Il fondatore di Wikileaks, attualmente nel carcere di Belmarsh a Londra, ha sempre negato le accuse. La vice capa procuratrice, Eva-Marie Persson, ha spiegato che “tutti gli atti dell’inchiesta sono stati compiuti, ma senza apportare le prove necessarie“. Con la fine dell’indagine, cade anche la possibilità per la Svezia di richiedere l’estradizione dal Regno Unito, tramite un mandato d’arresto europeo. Resta in piedi quindi solo la richiesta di estrazione degli Stati Uniti che accusano Assange di aver diffuso documenti riservati: a Washington sul fondatore di Wikileaks pesano 18 capi d’accusa e il totale delle pene legate a tutte queste accuse è di circa 175 anni di carcere. Nel maggio scorso la stessa procura svedese aveva chiesto l’arresto per Assange con l’accusa di violenza sessuale, dopo aver riaperto un caso archiviato nel 2017. La mossa dei pm arrivava un mese dopo l’arresto da parte delle autorità britanniche: l’11 aprile era terminato il lungo asilo di Assange nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra. A luglio il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, aveva assicurato che Assange verrà processato negli Stati Uniti. La decisione finale del Regno Unito si basa tutta sul rischio, anche solo ipotetico, che Assange possa essere condannato a morte. La maggior parte delle accuse è relativa all’ottenimento e alla diffusione di informazioni classificate da parte di Wikileaks, che nel 2010 pubblicò centinaia di migliaia di documenti militari e diplomatici. E la giustizia federale americana potrebbe autorizzare la pena marziale anche per il reato di spionaggio, Ma anche il governo dell’Ecuador ha assicurato che, nel momento in cui ha ritirato l’asilo all’australiano, ha ricevuto garanzie scritte da Londra secondo cui Assange non verrà estradato in un Paese in cui potrebbe subire torture o essere condannato a morte.

Assange in arresto a Londra su richiesta degli Usa. L’Equador ha revocato l’asilo al fondatore di Wikileaks, prelevato dall’ambasciata sudamericana dopo la richiesta di estradizione. L’avvocato: «i giornalisti dovrebbero essere molto preoccupati», scrive Giulia Merlo il 12 Aprile 2019 su Il Dubbio. Ha gli occhi sgranati di chi non crede a ciò che sta succedendo e parla in modo concitato, mentre viene portato fuori dall’ambasciata dell’Equador a Londra da sette poliziotti in borghese. Julian Assange, capelli lunghi legati a coda e barba bianca, è trascinato quasi di peso per le braccia e le gambe, poi caricato su un furgoncino e portato via. Finisce così – con l’esecuzione di un mandato d’arresto britannico del 2012 per violazione delle regole della cauzione – l’asilo politico del fondatore di Wikileaks. La notizia si rincorreva da alcuni giorni, da quando il ministro degli Esteri dell’Equador, Josè Valencia, aveva fatto sapere che il governo stava riesaminando la richiesta di asilo del giornalista e così è avvenuto. L’Equador gli ha revocato l’asilo, per questo l’ambasciata di Quito a Londra ha chiesto l’intervento delle forze dell’ordine britanniche e lo ha espulso dall’edificio dove risiedeva come ospite dal 2012, per evitare l’estradizione in Svezia per un caso di violenza sessuale ( dopo che la sua accusatrice aveva richiesto la riapertura dell’inchiesta). «la trasgressione delle convenzioni internazionali, hanno portato la situazione in un punto in cui l’asilo è insostenibile e impraticabile», è stato il commento di Valencia. Nelle ore concitate dopo l’arresto, due sarebbero le notizie ufficiali. Una, proveniente dall’Equador, secondo cui Assange avrebbe violato più volte le regole dell’asilo e delle convenzioni internazionali, per questo il paese sudamericano «ha agito nell’ambito dei suoi diritti sovrani», ha affermato il presidente ecuadoregno Lenin Moreno, sostenendo anche di aver ricevuto garanzie dal Regno Unito che Assange non verrà estradato in un paese dove rischia la pena di morte. La seconda, invece, arriva da Washington, confermata da Scotland Yard: ad Assange è stato notificato «un ulteriore mandato d’arresto a nome della autorità Usa alle 10.53, dopo il suo arrivo alla sede centrale della polizia di Londra», e si tratta di «una richiesta di estradizione sulla base della sezione 73 dell’Extradition Act». Dopo l’arresto, Assange è stato portato in commissariato «dove resterà, prima di essere portato di fronte alla corte di Westminster», hanno fatto sapere le autorità locali. Il suo avvocato, Barry Pollack, ha confermato che l’arresto è avvenuto «in relazione di una richiesta di estradizione degli Stati Uniti», sottintendendo dunque che la vera ragione della misura cautelare non sia l’esecuzione del vecchio mandato di arresto ma l’intenzione degli Stati Uniti di processarlo per spionaggio e diffusione di segreti di Stato per lo scandalo Wikileaks (con cui diffuse centinaia di documenti segreti del Pentagono, inviatigli dall’ex analista Chelsea Manning), per cui rischia 5 anni di carcere. «I giornalisti di tutto il mondo dovrebbero essere molto preoccupati», ha aggiunto, affermando che il suo cliente non ha fatto altro che rendere pubbliche informazioni: «Se l’atto di accusa reso pubblico parla di partecipazione ad un complotto per commettere reati informatici, le vere accuse però si riferiscono all’azione tesa ad incoraggiare una fonte a fornirgli informazioni e a sforzarsi di proteggere l’identità di una fonte». Immediate reazioni sono arrivate in particolare dalla Russia, con la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, che ha definito l’arresto «La mano della democrazia che strangola la gola della libertà». Su Twitter è arrivato anche il commento del whistleblower americano Edward Snowden, che ha parlato di «momento buio per la libertà di stampa». Anche il Movimento 5 Stelle si è espresso contro l’iniziativa britannica e il sottosegretario all’Interno, Carlo Sibilia, si è attivato per verificare la possibilità (per ora improbabile) di concedere ad Assange l’estradizione in Italia.

Stefania Maurizi per “la Repubblica” il 18 novembre 2019. Sembra un film di James Bond, ma è tutto vero. Julian Assange, tutti i giornalisti di WikiLeaks e ogni singolo avvocato, reporter, politico, artista, medico che abbia fatto visita al fondatore di WikiLeaks nell' ambasciata dell' Ecuador negli ultimi sette anni è stato oggetto di uno spionaggio sistematico e totale. Le conversazioni sono state registrate, filmate e tutte le informazioni sono state trasmesse all' intelligence americana. Le operazioni di spionaggio si sono spinte a livelli folli: addirittura le spie hanno pianificato di rubare il pannolino di un neonato che veniva portato in visita all' interno dell' ambasciata per poter prelevare le feci del bambino e stabilire con l' esame del Dna se fosse un figlio segreto di Julian Assange. Chi scrive si è ritrovata non solo filmata e dossierata, ma con i cellulari smontati, presumibilmente alla ricerca del codice Imei che consente di identificare un telefono al fine di intercettarlo. Le spie hanno anche prelevato le nostre chiavette Usb, anche se al momento non è chiaro se siano riuscite a forzare la cifratura con cui avevamo protetto le informazioni salvate nelle memorie Usb all' interno del nostro zaino. Tutti immaginavano che l'ambasciata dell' Ecuador a Londra, in cui si era rifugiato Julian Assange, fosse uno dei luoghi più sorvegliati del pianeta, ora però i sospetti si sono trasformati in certezze, dopo che l' Alta Corte spagnola ha aperto un' indagine contro l' azienda Uc Global con sede a Jerez della Frontera, Cádiz, nel Sud della Spagna, e ha perquisito e arrestato il suo boss, David Morales. Quando il 19 giugno del 2012 il fondatore di WikiLeaks si rifugiò nel minuscolo appartamento che è l' avamposto diplomatico di Quito nel Regno Unito, l' ambasciata mancava delle più basilari misure di protezione, tanto da non essere dotata neppure di telecamere. È per questo che l' allora governo dell' Ecuador di Rafael Correa, che aveva dato asilo ad Assange, arruolò la Uc Global, piccola azienda di security fondata dall' ex militare David Morales, che forniva servizi di scorta e protezione alla famiglia di Correa. Morales, però, pensava in grande e si rese conto presto dell' opportunità di sfruttare la presenza di Assange nell' ambasciata per entrare nei giri che contano nel mondo della security. Ed è così che, secondo quanto raccontano alcuni dei suoi ex dipendenti diventati testimoni nell' inchiesta contro di lui, Morales si mise al servizio degli americani per spiare il fondatore di Wiki-Leaks e tutti i suoi visitatori. Le operazioni subirono una vera e propria escalation dopo l' arrivo al potere di Donald Trump, quando Uc Global installò nell' ambasciata nuove telecamere capaci di registrare non solo le immagini, ma anche le conversazioni in modo da poter carpire ogni dialogo all' interno dell' edificio. Niente e nessuno si è salvato. Anche gli incontri più inviolabili sono stati violati: le riprese video e audio a cui ha avuto accesso Repubblica mostrano un Julian Assange seminudo durante una visita medica, l' ambasciatore dell' Ecuador Carlos Abad Ortiz e il suo staff durante uno dei loro meeting diplomatici, due degli avvocati di Assange, Gareth Peirce e Aitor Martinez, che si rinchiudono nel bagno delle donne sperando di avere una conversazione riservata con il loro cliente. L' idea era stata proprio di Assange, convinto di essere spiato anche quando incontrava i suoi legali, ma quest' ultimi l' avevano considerata una paranoia, anche perché Uc Global li aveva rassicurati che i colloqui non erano registrati. A finire nel mirino in particolare tutto lo staff di WikiLeaks, ma anche l'avvocata esperta di diritti digitali, Renata Avila, il filosofo croato Srecko Horvat e Baltasar Garzon, che coordina la strategia legale del fondatore di WikiLeaks. «Nel corso di questi anni, abbiamo tenuto i nostri incontri con Mr. Assange all' interno dell' ambasciata ed erano protetti dalla relazione cliente-avvocato alla base della tutela del diritto alla difesa. Ma ora vediamo che quegli incontri erano spiati», dichiara a Repubblica uno dei legali spagnoli di Julian Assange, Aitor Martinez. «Visto quanto accaduto, è chiaro che l' estradizione negli Usa di Assange deve essere negata. Speriamo che la Giustizia inglese capisca presto la gravità di questi fatti e neghi l' estradizione».

Assange? Ladro e spia, non eroe, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 12/04/2019 su Il Giornale. Julian Assange è il cofondatore di Wikileaks, il sito specializzato nel diffondere in chiaro documenti riservati - di Stati, enti, banche e personaggi famosi - o sensibili che si procura attraverso operazioni di furto elettronico (hackeraggio) o soffiate di dipendenti infedeli. Ricercato da diverse polizie e tribunali, prima di tutto quelli americani, Assange viveva da sette anni barricato nell'ambasciata londinese dell'Ecuador, Paese che gli aveva concesso nel 2012 asilo politico. Se come pare sarà estradato in America, rischia di passare il resto della vita in carcere, perché da quelle parti attentare alla sicurezza dello Stato è cosa assai seria (in alcuni casi prevede addirittura la pena di morte). I Cinque Stelle, che di spioni se ne intendono, sono insorti e si è mosso persino il governo. Carlo Sibilia, sottosegretario all'Interno, ma più famoso per aver sostenuto che l'uomo non è mai stato sulla Luna, ha proposto che l'Italia gli conceda asilo e il suo collega agli Esteri, Manlio Di Stefano, ha definito l'arresto un «inaccettabile attacco alla libertà». Noi la pensiamo diversamente, e non solo perché gli spioni non ci sono mai piaciuti. Pensiamo che nel rubare, nel tradire e nello spiare non ci sia nulla di eroico né di romantico. Ma, soprattutto, pur essendo giornalisti e quindi favorevoli alla diffusione delle notizie interessanti, crediamo che uno Stato abbia tutto il diritto di proteggere la sicurezza sua e dei sui cittadini, secretando atti la cui diffusione potrebbe rivelarsi pericolosa. Non per nulla anche le più moderne ed efficaci democrazie si riservano di consegnare i loro archivi non alla cronaca, ma alla storia, rendendoli consultabili solo dopo un certo lasso di tempo. Il diritto alla sicurezza è superiore a quello all'essere informati. Questo vale per uno Stato, ma anche per ognuno di noi. Che, infatti, siamo protetti da leggi che tutelano la nostra vita privata su temi sensibili come, per esempio, la salute e gli orientamenti sessuali. Ognuno di noi ha i suoi «segreti di Stato», che tali devono rimanere, e persino i cattolici si confessano a Dio tramite un intermediario, il prete, tenuto al segreto anche se a conoscenza di fatti «contro legge». Chiedere di desecretare documenti è un diritto (noi lo abbiamo appena fatto per quelli sugli anni del terrorismo rosso), rubare no. Se non per i grillini, che allora potrebbero dare il buon esempio fornendoci spontaneamente lumi sui loro rapporti opachi con i servizi segreti interni ed esteri.

Assange, la menzogna della trasparenza. Pubblicato domenica, 14 aprile 2019 da Aldo Grasso su Corriere.it. Il sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano del M5S, si scaglia contro l’arresto di Julian Assange: «Dopo 7 anni di ingiusta privazione di libertà, è una inquietante manifestazione di insofferenza verso chi promuove trasparenza e libertà come Wikileaks». Gli fanno eco il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra e, in particolare, Ale Di Battista: «Tutti coloro che non difenderanno un patriota dell’umanità come Assange» - sostiene Dibba – difendono «la libertà di mentire», sono «sicari della libertà d’informazione». Eppure bastava leggere il libro di Andrew O’Hagan, La vita segreta, 2017, per farsi venire dei dubbi: Assange è descritto come un piccolo despota, incoerente, bugiardo patentato, viziato, paranoico, una sorta di rovescio grottesco delle istituzioni che attacca. È accusato di hackeraggio di un computer del Pentagono, che ha portato alla pubblicazione nel 2010 di documenti segreti americani, e di aver fatto da megafono a una campagna d’intelligence del Cremlino. E, infatti, a difenderlo sono rimasti gli uomini di Putin: «È caccia alle streghe... che oblitera libertà di parola, diritto all’informazione... diritto di cronaca». Tutti diritti e libertà che la Federazione Russa ha in massimo rispetto. Assange patriota della trasparenza? L’ostentazione della trasparenza è quasi sempre la più grande falsificatrice della verità.

“ASSANGE E’ L’EROE DEI NOSTRI TEMPI”. Da corriere.it il 15 aprile 2019. Una coppia insolita «ospite» di un luogo (seppur virtuale) particolare. Parliamo del direttore di Rai2 Carlo Freccero e dell’ex deputato M5S Alessandro Di Battista che firmano sul blog un post in difesa di Julian Assange. Non sul blog delle Stelle ma sul blog di Beppe Grillo. Una scelta non casuale, che rinsalda l’ala movimentista dei Cinque Stelle. Un trait d’union tra il garante e l’ex esponente del direttorio, che Grillo ha indicato più volte come suo erede e che negli ultimi mesi si è staccato dalla prima linea del Movimento, che suona anche come un segno di vicinanza (politica). «Julian Assange è l’eroe dei nostri tempi. Come lui ce ne sono pochi altri: Edward Snowden, Chelsea Manning e tutta la platea degli hacker anonimi che combattono il sistema», si legge nel post. «Ogni epoca ha i suoi eroi. Nel passato gli eroi uccidevano il drago...ma anche allora la forza non era sufficiente. L’eroe, per essere tale, doveva combattere il male. Che cos’è oggi il male?» si domandano Di Battista e Freccero. E affermano: «Non è Assange che denuncia il lato oscuro del potere», ma è «il potere stesso, messo a nudo, che testimonia le sue nefandezze attraverso mail, documenti, filmati».

Giuliani, l’avvocato di Trump: “Ecco cosa può rivelare Assange”, scrive il 14 aprile 2019 Roberto Vivaldelli su Gli Occhi della Guerra. Sono dichiarazioni esplosive quelle rilasciate dall’avvocato di Donald Trump ed ex sindaco di New York Rudolph Giuliani al giornale conservatore Washington Examiner in merito all’arresto del fondatore di WikiLeaks, Julian Assange. Rudy Giuliani ha spiegato che Assange potrebbe rivelare il ruolo dell’Ucraina nelle false accuse formulate contro il Presidente Donald Trump in merito all’inchiesta del Russiagate. Sebbene Trump abbia dichiarato “di non saperne nulla”, Giuliani ha spiegato che l’arresto di Assange potrebbe portare dei benefici al presidente, recentemente “scagionato” dalle accuse di collusione con la Federazione Russa. “Forse Assange farà luce su come è nata l’indagine contro Trump che conteneva false accuse di cospirazione con i russi al fine di influenzare l’esito del voto nelle elezioni del 2016” ha detto Giuliani. “Pensiamo all’Ucraina“. È possibile, ha aggiunto l’ex sindaco della Grande Mela, “che lui conosca come è iniziato tutto”. 

Giuliani: “Julian Assange conosce la verità sul Russiagate”. Come spiega Rudolph Giuliani al Washington Examiner, “Assange potrebbe essere in grado di dimostrare chi ha inventato la falsa storia su Trump e i russi”. Giuliani ha risposto con un “no” deciso quando gli è stato chiesto se l’arresto di Assange potrebbe mettere Trump in un nuovi quai giudiziari. Lo scorso gennaio, l’avvocato di Trump ha dichiarato a Fox News che Julian Assange non ha fatto “niente di sbagliato” e non dovrebbe andare in prigione per la diffusione di informazioni rubate, proprio come i principali media. “Prendiamo le Carte del Pentagono”, ha detto Giuliani. “Sono state pubblicate dal New York Times e dal Washington Post. Nessuno del New York Times o del Washington Post è andato in prigione”. Rudy Giuliani ha sottolineato  che “forse non ci piace quello che WikiLeaks ha diffuso, ma è una testata mediatica. Stava diffondendo informazioni. Ogni giornale e ogni emittente lo riprendeva e lo pubblicava”. 

Quando Giuliani difendeva Assange in tv. Rudy Giuliani ha sottolineato che non c’è mai stato alcun legame fra Donald Trump e l’organizzazione fondata da Julian Assange. “Ero con Donald Trump giorno dopo giorno durante gli ultimi quattro mesi della campagna elettorale”, ha rivelato a Fox News. “Trump era sorpreso quanto me circa le rilevazioni di WikiLeaks. “Proprio come le Carte del Pentagono hanno espresso un punto di vista diverso sul Vietnam, così ha fatto Wikileaks con Hillary Clinton“. Julian Assange è finito in manette lo scorso 11 aprile. Il fondatore di WikiLeaks è stato arrestato  dalla polizia britannica e portato fuori dall’ambasciata dell’Ecuador a Londra, dove aveva ricevuto asilo politico per quasi sette anni al fine di evitare l’estradizione. È accusato di aver cospirato con l’allora soldato Bradley Manning (oggi Chelsea Manning) nell’aver hackerato una password al fine di entrare nei sistemi informatici governativi e sottrarre i documenti riservati. Se venisse dimostrato il furto, Assange non sarebbe più protetto dal Primo emendamento degli Stati Uniti, che tutela il diritto dei giornalisti nel pubblicare qualunque informazione vera. Accusa per il quale rischia 5 anni di carcere.

Assange: da eroe a “sicario digitale”, così si è consumato il divorzio con la sinistra americana. Scrive Federico Rampini l'11 aprile 2019 su La Repubblica. Dopo l'elezione di Trump, i democratici hanno cambiato idea su Julian. È incriminato per un filone parallelo del Russiagate. Da eroe della libertà d'informazione a "sicario digitale" di Vladimir Putin: tra questi due estremi si colloca la parabola americana di Julian Assange. Lo stesso itinerario lo ha portato in pochi anni ad essere difeso dalla sinistra, poi esaltato da Donald Trump e dalla televisione di destra Fox News. L'exploit finale che gli è stato attribuito - la massiccia campagna anti-Hillary - potrebbe avere portato Trump alla Casa Bianca. Il suo procedimento ...

Il fondatore di Wikileaks era ospite dell'ambasciata dell'Ecuador dal 2012, ma il governo di Quito gli ha revocato l'asilo politico. Per Wikileaks "l'Ecuador ha revocato illegalmente l'asilo politico concesso in precedenza a Julian Assange in violazione del diritto internazionale", scrive Stefania Maurizi l'11 aprile 2019 su La Repubblica. Scotland Yard ha appena arrestato Julian Assange. Il fondatore di WikiLeaks si trova ora nella stazione centrale di Londra della nota polizia britannica, che l'ha arrestato direttamente all'ambasciata, appena l'Ecuadro di Lenin Moreno ha deciso di terminare l'asilo che gli aveva concesso sette anni fa. Alla luce dell'arresto la sua accusatrice in Svezia ha chiesto la riapertura dell'inchiesta per stupro. Assange è stato preso in consegna dalla polizia britannica dopo che l'Ecuador ha revocato l'asilo. Durante il suo arresto è stato sollevato e portato via di peso da sette agenti in borghese della polizia di Londra. È stato arrestato in base a un mandato del 2012, quando invece di consegnarsi a Scotland Yard per essere estradato in Svezia ed essere interrogato in merito alle accuse di stupro, si è rifugiato nell'ambasciata dell'Ecuador a Londra e ha chiesto asilo: era il 19 giugno 2012, l'Ecuador allora guidato dal presidente Rafael Correa gli concesse protezione perché ritenne fondate le preoccupazioni del fondatore di WikiLeaks che l'estradizione in Svezia lo esponesse al rischio gravissimo di estradizione negli Stati Uniti, dove dal 2010 è in corso un'inchiesta del Grand Jury di Alexandria, in Virginia, per la pubblicazione dei documenti segreti del governo americano. Ad oggi questa inchiesta è ancora in corso e a novembre scorso le autorità americane hanno, inavvertitamente, rivelato che esiste un mandato di arresto coperto da segreto contro Julian Assange. Scotland Yard stessa ha comunicato la notizia dell'arresto. L'arresto di per se espone a un condanna minima il fondatore di WikiLeaks (pochi mesi), perché tutto quello che gli viene imputato è la violazione del rilascio su cauzione, l'inchiesta svedese per stupro, infatti, è stata archiviata il 19 maggio 2017, dopo che la Svezia, per sette anni, ha mantenuto l'indagine alla fase preliminare senza incriminarlo né scagionarlo una volta per tutte. Anche l'inchiesta americana del procuratore speciale Robert Mueller sulla pubblicazione delle email dei democratici Usa da parte di WikiLeaks si è chiusa senza che Mueller chiedesse alcuna incriminazione né per Assange né per nessun altro appartenente di WikiLeaks. Al momento, l'unica indagine aperta è quella del Grand Jury di Alexandria per la pubblicazione dei documenti segreti del governo americano: è per questa inchiesta che Assange, appena arrestato, rischia enormemente: rischia che l'Inghilterra lo estradi negli USA, dove difficilmente uscirebbe mai di prigione. Diverse le reazioni internazionali. Theresa May dà "il benvenuto alla notizia" dell'arresto parlando alla Camera dei Comuni fra mormorii di assenso di una parte dell'aula. Ritirare l'asilo a Julian Assange nell'ambasciata dell'Ecuador a Londra è una decisione "sovrana" e presa "a seguito di ripetute violazioni delle convenzioni internazionali e dei protocolli della vita quotidiana", dice invece il presidente dell'Ecuador, Lenin Moreno, che difende la decisione di Quito. Moreno ha anche affermato di aver ricevuto garanzie dal Regno Unito che Assange non verrà estradato in un Paese dove rischia la pena di morte. Il Cremlino, secondo quanto riporta l'agenzia russa Tass, auspica invece che siano rispettati tutti i diritti di Assange. Per il portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, "l'arresto a Londra del fondatore di Wikileaks è un duro colpo alla democrazia. E ancora: "La mano della democrazia strangola la gola della libertà", ha scritto lapidaria su Facebook. Sulla vicenda interviene anche WikiLeaks che scrive come "l'Ecuador ha revocato illegalmente l'asilo politico concesso in precedenza a Julian Assange in violazione del diritto internazionale". Mentre per il sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano, "l'arresto di Assange, dopo 7 anni di ingiusta privazione di libertà, è una inquietante manifestazione di insofferenza verso chi promuove trasparenza e libertà come WikiLeaks. Amici britannici, il mondo vi guarda, l'Italia vi guarda. Libertà per Assange". Per il ministro degli Esteri britannico, Jeremy Hunt, tuttavia, "Julian Assange non è un eroe e nessuno è al di sopra della legge, ha nascosto la verità per anni". Il capo della diplomazia britannica ha ringraziato il presidente ecuadoregno Lenin Moreno "per la cooperazione con il Foreign Office per assicurare che Assange affronti la giustizia".

ASSANGE ERA GIA’ IN CARCERE: HA PASSATO SEI ANNI, NOVE MESI E 24 GIORNI CHIUSO IN UNA STANZA. Matteo Persivale per il “Corriere della Sera” il 12 aprile 2019. Sic transit gloria hacker. Sei anni, nove mesi, ventiquattro giorni di metamorfosi: da scassinatore punk di segreti di Stato (americani, più che altro) con il volto affilato e il ciuffo ribelle a predicatore del verbo di Wikileaks con i capelli lunghissimi raccolti sulla nuca, la barbona bianca, un libro di Gore Vidal (sulla politica estera americana) stretto in mano, gli occhi spiritati. Sei anni, nove mesi, ventiquattro giorni chiuso in una stanza. Con occasionali affacci al balcone sull' elegante stradina londinese di Knightsbridge a pochi passi dai grandi magazzini Harrods. Meno di sette anni per trasformare Julian Assange da rockstar (con film hollywoodiano sulla sua vita, protagonista Benedict Cumberbatch) a sospetta spia russa, collaboratore della televisione di Stato russa, idolo della destra americana dopo l' affondamento della campagna di Hillary Clinton del 2016 a suon di hackeraggi. Assange ospite sempre meno gradito del governo dell' Ecuador che a un certo punto cerca anche di dargli un passaporto diplomatico per spedirlo a Mosca come inviato (dove avrebbe raggiunto il «collega», e fonte, Edward Snowden). Quando la polizia inglese conferma che non lo considereranno valido, quel lasciapassare, e lo arresteranno comunque, il governo ecuadoriano finisce per minacciare di tagliargli la connessione Internet, come ai teenager capricciosi. E così l'(ex?) hacker più ricercato del mondo finisce impantanato in una causa legale contro i suoi ospiti di tipo condominiale: alla fine lo costringono a pagarsi le spese mediche, nettare il wc e prendersi miglior cura del gatto. La lunghissima permanenza obbligata a Londra di Julian Assange, inventore e leader di Wikileaks in fuga dalla giustizia svedese, britannica, americana, è simultaneamente un romanzo di spionaggio che piacerebbe a John le Carré, un legal thriller alla John Grisham, e un poco tranquillizzante segno dei tempi. La vicenda legale, molto complessa, può essere riassunta così: nel 2010 la giustizia svedese vuole interrogare Assange (che si trova in Inghilterra) sulle accuse di aggressione sessuale e stupro che gli sono state rivolte da due donne. Lui non vuole muoversi perché teme di essere estradato dalla Svezia negli Stati Uniti (che lo stanno indagando per le rivelazioni sui segreti militari americani rubati dal soldato Manning e da altri e poi pubblicati da Wikileaks). Nel novembre 2010 la Svezia spicca un mandato di arresto internazionale (verrà ritirato per impossibilità di interrogare l' accusato ma c' è tempo fino a agosto 2020, prima della scadenza dei termini, per ripartire daccapo). Il mese successivo, dopo una breve detenzione, Assange esce su cauzione e comincia il lungo e tortuoso sentiero degli appelli. Alla fine, il 19 giugno 2012, si rifugia nell' ambasciata dell' Ecuador violando le condizioni della libertà su cauzione. Perché l'Ecuador? Perché l' allora presidente Correa, che Assange aveva appena intervistato per il suo programma per RT , emittente russa, era un fan di Wikileaks e della sua campagna obiettivamente molto imbarazzante per gli Stati Uniti sul piano diplomatico e devastante sul piano dell' organizzazione dell' intelligence. Così Correa accoglie Assange concedendogli asilo, ergendosi a paladino della libertà di parola. In realtà Correa, si è visto in seguito, ha cominciato a spiare Assange quasi subito (Operazione Hotel) ma i rapporti tra Ecuador e Wikileaks si guastano ufficialmente nel 2016 quando la campagna presidenziale di Hillary Clinton deraglia: vengono violati dagli hacker (russi, è l'ipotesi più accreditata) i database del partito democratico e del direttore della campagna clintoniana John Podesta. Wikileaks pubblica tutto nell'aperto entusiasmo dei repubblicani (e di Pamela Anderson, ex bagnina di Baywatch), l'Ecuador taglia Internet a Assange per cercare almeno formalmente di distanziarsi dall' ospite sempre più ingombrante. Assange finisce di alienarsi le simpatie del governo dell' Ecuador quando Correa lascia il posto a Lenin Moreno (maggio 2017). Moreno, che era il vice di Correa, definisce da subito Assange «un problema» e si capisce che il vento è cambiato. Assange si mette a far campagna pro-indipendenza catalana (non potrebbe) ma soprattutto Wikileaks, due mesi fa, rende pubblici gli «Ina Papers», fortemente imbarazzanti per Moreno. Sospetti di corruzione oltre alle mail personali (Gmail, messaggi WhatsApp e Telegram) del presidente e della moglie. Ormai è aprile 2019: Moreno dice apertamente alle radio del suo Paese che Assange viola «ripetutamente» gli accordi e hackera «mail personali» dall' ambasciata. Il tempo è scaduto.

Assange, l’arresto dopo 81 mesi e la metamorfosi: da hacker eroe a «spia russa». Pubblicato giovedì, 11 aprile 2019 da Luigi Ippolito, Massimo Gaggi, Matteo Persivale, Marta Serafini su Corriere.it. Sic transit gloria hacker. Sei anni, nove mesi, ventiquattro giorni di metamorfosi: da scassinatore punk di segreti di Stato (americani, più che altro) con il volto affilato e il ciuffo ribelle a predicatore del verbo di Wikileaks con i capelli lunghissimi raccolti sulla nuca, la barbona bianca, un libro di Gore Vidal (sulla politica estera americana) stretto in mano, gli occhi spiritati. Sei anni, nove mesi, ventiquattro giorni chiuso in una stanza. Con occasionali affacci al balcone sull’elegante stradina londinese di Knightsbridge a pochi passi dai grandi magazzini Harrods. Meno di sette anni per trasformare Julian Assange da rockstar (con film hollywoodiano sulla sua vita, protagonista Benedict Cumberbatch) a sospetta spia russa, collaboratore della televisione di Stato russa, idolo della destra americana dopo l’affondamento della campagna di Hillary Clinton del 2016 a suon di hackeraggi. Assange ospite sempre meno gradito del governo dell’Ecuador che a un certo punto cerca anche di dargli un passaporto diplomatico per spedirlo a Mosca come inviato (dove avrebbe raggiunto il «collega», e fonte, Edward Snowden). Quando la polizia inglese conferma che non lo considereranno valido, quel lasciapassare, e lo arresteranno comunque, il governo ecuadoriano finisce per minacciare di tagliargli la connessione Internet, come ai teenager capricciosi. E così l’(ex?) hacker più ricercato del mondo finisce impantanato in una causa legale contro i suoi ospiti di tipo condominiale: alla fine lo costringono a pagarsi le spese mediche, nettare il wc e prendersi miglior cura del gatto. La lunghissima permanenza obbligata a Londra di Julian Assange, inventore e leader di Wikileaks in fuga dalla giustizia svedese, britannica, americana, è simultaneamente un romanzo di spionaggio che piacerebbe a John le Carré, un legal thriller alla John Grisham, e un poco tranquillizzante segno dei tempi. La vicenda legale, molto complessa, può essere riassunta così: nel 2010 la giustizia svedese vuole interrogare Assange (che si trova in Inghilterra) sulle accuse di aggressione sessuale e stupro che gli sono state rivolte da due donne. Lui non vuole muoversi perché teme di essere estradato dalla Svezia negli Stati Uniti (che lo stanno indagando per le rivelazioni sui segreti militari americani rubati dal soldato Manning e da altri e poi pubblicati da Wikileaks). Nel novembre 2010 la Svezia spicca un mandato di arresto internazionale (verrà ritirato per impossibilità di interrogare l’accusato ma c’è tempo fino a agosto 2020, prima della scadenza dei termini, per ripartire daccapo). Il mese successivo, dopo una breve detenzione, Assange esce su cauzione e comincia il lungo e tortuoso sentiero degli appelli. Alla fine, il 19 giugno 2012, si rifugia nell’ambasciata dell’Ecuador violando le condizioni della libertà su cauzione. Perché l’Ecuador? Perché l’allora presidente Correa, che Assange aveva appena intervistato per il suo programma per RT, emittente russa, era un fan di Wikileaks e della sua campagna obiettivamente molto imbarazzante per gli Stati Uniti sul piano diplomatico e devastante sul piano dell’organizzazione dell’intelligence. Così Correa accoglie Assange concedendogli asilo, ergendosi a paladino della libertà di parola. In realtà Correa, si è visto in seguito, ha cominciato a spiare Assange quasi subito (Operazione Hotel) ma i rapporti tra Ecuador e Wikileaks si guastano ufficialmente nel 2016 quando la campagna presidenziale di Hillary Clinton deraglia: vengono violati dagli hacker (russi, è l’ipotesi più accreditata) i database del partito democratico e del direttore della campagna clintoniana John Podesta. Wikileaks pubblica tutto nell’aperto entusiasmo dei repubblicani (e di Pamela Anderson, ex bagnina di Baywatch), l’Ecuador taglia Internet a Assange per cercare almeno formalmente di distanziarsi dall’ospite sempre più ingombrante. Assange finisce di alienarsi le simpatie del governo dell’Ecuador quando Correa lascia il posto a Lenin Moreno (maggio 2017). Moreno, che era il vice di Correa, definisce da subito Assange «un problema» e si capisce che il vento è cambiato. Assange si mette a far campagna pro-indipendenza catalana (non potrebbe) ma soprattutto Wikileaks, due mesi fa, rende pubblici gli «Ina Papers», fortemente imbarazzanti per Moreno. Sospetti di corruzione oltre alle mail personali (Gmail, messaggi WhatsApp e Telegram) del presidente e della moglie. Ormai è aprile 2019: Moreno dice apertamente alle radio del suo Paese che Assange viola «ripetutamente» gli accordi e hackera «mail personali» dall’ambasciata. Il tempo è scaduto.

Di che cosa è accusato Assange. Pubblicato venerdì, 12 aprile 2019 da Il Post. Giovedì 11 aprile Julian Assange, il 47enne fondatore di Wikileaks, è stato arrestato a Londra nell’ambasciata dell’Ecuador, dove viveva dal 2012 come rifugiato politico. Assange è stato arrestato dalla polizia di Londra su richiesta del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, che ha fatto sapere che Assange è accusato di aver violato la Computer Fraud and Abuse Act (CFAA), la prima legge contro gli hacker e le violazioni informatiche approvata dal Congresso degli Stati Uniti nel 1986. L’atto d’accusa non riguarda la diffusione dei documenti riservati da parte di Wikileaks ma il modo in cui sono stati ottenuti: è meno grave di quanto si possa pensare e delle varie accuse che negli anni sono circolate nei confronti di Assange. L’estradizione e il successivo arresto di Assange non sono state richieste dagli Stati Uniti per la diffusione di documenti riservati – per il lavoro che si può considerare in qualche modo “giornalistico”, insomma – e nemmeno per la sua presunta collaborazione con la Russia nelle interferenze elettorali del 2016, ma per la sua presunta collaborazione con l’allora soldato Bradley Manning (oggi Chelsea Manning) nell’hackerare una password per introdursi nei sistemi informatici governativi e sottrarre dei documenti. La pena massima prevista per Assange, se venisse confermata la condanna, è pari a cinque anni di carcere, che non sono paragonabili alla sentenza ricevuta da Manning: nel 2010 l’ex militare era stata condannata a 35 anni di carcere per aver fornito a Wikileaks centinaia di migliaia di documenti e materiali riservati diffusi e pubblicati su Internet (era stata in carcere per circa sette anni e poi, nel 2017, l’allora presidente Barack Obama le aveva concesso la grazia). L’accusa nei confronti di Assange sta facendo discutere con diverse e opposte posizioni su una questione che ha a che fare con il lavoro dei giornali e con la pubblicazione di informazioni riservate. Katie Benner del New York Times, ha scritto che «i giornalisti pubblicano materiale raccolto dalle fonti, ma non aiutano le fonti a forzare le serrature delle casseforti che contengono quelle informazioni». Sheera Frankel, giornalista del New York Times che si occupa di sicurezza informatica, ha scritto che chiedere a una fonte di commettere un reato e rubare delle informazioni «è una linea che nessun giornalista serio oltrepasserebbe mai»; Cyrus Farivar, giornalista investigativo di NBC News, ha scritto che «nella mia carriera giornalistica posso contare su NESSUNA mano le volte che ho chiesto a qualcuno di commettere un reato in nome del giornalismo». L’avvocata Jesselyn Radack, ex consulente del Dipartimento di Giustizia statunitense che ora lavora per il Government Accountability Project, un’organizzazione che protegge chi diffonde materiale riservato di interesse pubblico, ha detto che l’accusa contro Assange si basa sulla CFAA perché sarebbe «probabilmente incostituzionale usare lo Espionage Act (la legge contro lo spionaggio, ndr) contro un editore». Chi difende Assange teme che la CFAA possa essere impugnata come arma contro chiunque pubblichi informazioni riservate, e che non ci sia alcuna garanzia che non venga applicata ai rapporti giornalistici più tradizionali. Cercando di fare chiarezza sulle accuse ad Assange, diversi giornali scrivono comunque che i tribunali raramente applicano la pena massima di un crimine e, citando i pareri di alcuni avvocati esperti del CFAA, dicono anche che le accuse del Dipartimento di Giustizia sono piuttosto deboli. Inoltre, i crimini puniti dalla CFAA hanno un limite di prescrizione di cinque anni e l’ultima diffusione di documenti da parte di Manning risale al 2010. Il legale Tor Ekeland ha spiegato che il Dipartimento di Giustizia sta cercando di superare i termini della prescrizione invocando una sezione che classifica l’hacking come atto di terrorismo, ma un tribunale potrebbe facilmente mettere in discussione questa strategia. Insomma, l’accusa nei confronti di Assange, ha spiegato, «non è un’accusa così grave». Il Dipartimento di Giustizia potrebbe ancora prendere in considerazione altre accuse, incluso lo spionaggio, visto che l’indagine sul Russiagate ha dimostrato l’interferenza russa nelle elezioni statunitensi del 2016 e il ruolo avuto da Wikileaks in quella storia, ma se l’accusa presentata al Regno Unito per l’estradizione ha a che fare in modo specifico con una violazione della CFAA, sarà complicata l’incriminazione per nuovi e più gravi reati: «Il governo degli Stati Uniti non può portarlo negli Stati Uniti e aggiungere altre 50 accuse», secondo Ekeland. Molto probabilmente ora inizierà una complicata battaglia legale sui termini dell’estradizione: gli avvocati di Assange si opporranno e il presidente dell’Ecuador, Lenín Moreno, confermando la sua decisione di ritirare l’asilo politico, ha spiegato di aver ricevuto rassicurazioni da parte del Regno Unito che Assange non sarà estradato in paesi che prevedono la pena di morte, come gli Stati Uniti.

ECCO COSA SUCCEDE A CHI AIUTA TRUMP.  Marta Serafini per il “Corriere della Sera” il 12 aprile 2019. Quando i poliziotti sono arrivati alla porta della palazzina rossa di Hans Crescent, Assange era solo. In mano, «History of The National Security State», saggio di Gore Vidal. Ora che però sono scattati i ferri ai polsi, c’è chi tra gli attivisti digitali torna a stringersi intorno a «Mendax», come si faceva chiamare Assange in gioventù quando si definiva un hacker. Primo della lista, Edward Snowden, il whistleblower del Datagate, che pur avendo preso le distanze dal fondatore di Wikileaks, ieri commentava: «I critici di Assange potranno anche esultare ma questo è un momento buio per la libertà di stampa». Preoccupato per la democrazia anche Kim Dotcom, il fondatore di Megaupload arrestato nel 2012 per pirateria informatica: «Dobbiamo proteggere quelli che dicono la verità perché senza di loro rimaniamo all'oscuro», ha commentato, mentre in coda arrivano i messaggi di sostegno della stilista britannica Vivienne Westwood e dell'ex presidente catalano Carles Puigdemont, anche lui alle prese con mandati di cattura ed estradizioni. Per un attimo lo spirito della rete è sembrato tornare quello dei tempi di «Collateral Murder», quando Assange campeggiava sulla copertina del Time come il Robin Hood degli hacker per aver rivelato al mondo le «nefandezze» dell' esercito statunitense in Iraq e in Afghanistan. Ma tutto questo era prima che il soldato Chelsea Manning (allora Bradley) pagasse per lo scoop mentre Assange restava più o meno a piede libero. Secoli prima che Trump vincesse le elezioni a colpi di tweet, dopo aver distrutto l' avversaria Hillary Clinton anche grazie ai leaks forniti proprio dall' australiano. Morale della storia, ieri è rimasto in silenzio il regista britannico Ken Loach che nel 2014 a Julian regalava un tapis roulant per ovviare alla noia e alla permanenza forzata in ambasciata. E non commentano nemmeno le star di Hollywood Oliver Stone e Michael Moore, che dalle parti di Hans Crescent non si facevano vedere da parecchio tempo, ben prima del limite imposto dal governo ecuadoriano ai visitatori esterni. E colpisce anche la freddezza del Guardian , quotidiano britannico progressista da sempre attento alla libertà della Rete, che ieri pomeriggio si limitava alla semplice cronaca. Silenzio stampa anche dallo scrittore Andrew O' Hagan che per un attimo aveva accarezzato l' idea di diventare biografo e che poi ha finito per capitolare di fronte al proverbiale brutto carattere dell' australiano. E tace, dall' alto dei suoi 78 milioni e mezzo di follower anche Lady Gaga che da Assange aveva fatto un salto per la prima volta nel 2012 dopo aver lanciato una linea di profumi alla vicina Harrods. Resta Pamela Anderson, l' ex bagnina di Baywatch con cui - secondo i rotocalchi di gossip - Assange ha avuto (o ha tutt' ora?) una relazione. «Veritas Valebit, la verità prevarrà», ha twittato ieri l' attrice canadese esibendosi in citazioni latine. Ma che spesso lei si «attovagli» al Cremlino in compagnia del presidente Putin non migliora certo la posizione di quell' uomo con la barba lunga da eremita che ieri è finito in manette.

·         L’ostensione delle fidanzate.

L’OSTENSIONE DELLE FIDANZATE. Stefano Lorenzetto per "l’Arena" il 9 aprile 2019. «Carla Bissatini! Chi era costei?», si sarebbe chiesto don Abbondio. E Laura Carta Caprino, Vittoria Michitto, Giuseppa Sigurani? Chi erano costoro? Mogli. Di altrettanti presidenti della Repubblica: Giovanni Gronchi, Antonio Segni, Giovanni Leone, Francesco Cossiga. Qualcuno le ha mai viste in faccia o sentite nominare? Forse gli addetti ai lavori (quirinalisti, cronisti parlamentari) dalla memoria ferruginosa. E forse solo la terza, considerato che il marito fu ingiustamente costretto alle dimissioni. Ma questo che ci è dato da vivere è il tempo dei vice. Viceuomini o vicepremier, fa lo stesso. Quindi le donne dei capi - diciamo pure capetti - si vedono eccome. Di più: vengono esposte. La loro ostensione serve infatti a rafforzare l’immagine pubblica dei rispettivi partner (provvisori), bisognosi d’essere circonfusi da un’aura di normalità. Qualcuno comincia a parlare di governo del cambialetto, più che del cambiamento. Narrano le cronache degli ultimi giorni che Rocco Casalino ha inviato ai giornalisti amici il seguente sms: «Domani di maio va con la sua nuova fidanzata al teatro dell opera a Roma». L’ho riportato alla lettera per dimostrare che in certi ambienti l’ortografia è stata derubricata a pregiudizio borghese. Chi è Rocco Casalino? Non proprio un Carneade. Trattasi del portavoce del presidente del Consiglio, nientemeno. Quando Giuseppe Conte tiene una conferenza stampa a Palazzo Chigi, lui se ne sta ritto in piedi, la giacca sbottonata, appoggiato con il gomito all’estremità destra della tribuna, manco fosse al bancone di un bar, e da lì sorveglia il capo e gli importuni giornalisti. L’atteggiamento disinvolto trova una giustificazione nel fatto che Casalino non si è formato all’Institut d’études politiques di Parigi bensì al Grande fratello. Riferisce La Repubblica che la prima volta si presentò a Palazzo Chigi scortato dalla mamma e dal fidanzato cubano ed ebbe a lamentarsi per non avere a disposizione un appartamento privato per sé e per il suo compagno. Espresse anche, sempre secondo La Repubblica, viva contrarietà per le misure dell’ufficio che gli era stato assegnato: «Un po’ piccolina per essere la stanza del portavoce del presidente». È descritto come una sorta di commissario politico del Movimento 5 stelle. Il suo compito è controllare che il vice dei due vice - Conte, appunto - non vada fuori tema e si attenga all’ortodossia, ieri grillina e oggi dimaiesca, essendo stato il padre nobile del M5s declassato al rango di garante dall’ex bibitaro napoletano. Dunque, Casalino avrebbe dato l’imbeccata a scribi e paparazzi affinché accorressero al Teatro dell’Opera di Roma a vedere e fotografare l’ottava meraviglia, cioè la nuova morosa del predetto Luigi Di Maio. Trattasi di Virginia Saba, 36 anni, giornalista sarda, che ha preso il posto di Giovanna Melodia, la quale aveva a sua volta rimpiazzato Silvia Virgulti. Non contento d’aver fatto passerella con la nuova fiamma sui quotidiani e sulla stampa rosa, Di Maio ha rilasciato un’omerica intervista a Panorama che principiava con il seguente proclama: «Allora, a me piacciono le donne». Excusatio non petita. A ogni buon conto, ce lo segniamo. Non ancora contento, s’è fatto cogliere in camporella dai teleobiettivi di Chi («immagino sapesse che eravamo dietro gli alberi», ha svelato uno dei cinque fotoreporter che si erano appostati nel parco di Villa Borghese): lui irrigidito nell’erba, lei avvinghiata come un polpo mentre lo bacia tenendolo per le orecchie al fine d’immobilizzarlo. In uno scatto, il vicepremier approccia le labbra della signorina in un modo talmente impacciato da dar l’impressione che stia per sputare un nocciolo di ciliegia. Poi si è ricomposto e ha concesso una replica davanti alla Fontana di Trevi, manco fosse Marcello Mastroianni che ha per le mani Anita Ekberg. Ok, onorevole, abbiamo capito, le piacciono le donne, può ricomporsi. L’altro vicepremier, Matteo Salvini, per non essere da meno, ha prontamente avviato un nuovo filarino con Francesca Verdini, figlia di Denis, ex macellaio, ex banchiere, ex editore, ex senatore, ex consigliere di Silvio Berlusconi e Matteo Renzi (fu l’ideatore del patto del Nazareno), sottoposto a vari processi, alcuni finiti male. Li hanno fotografati insieme alla prima romana del Dumbo di Tim Burton. Vuoi mettere un bel film d’animazione al cinema invece del palloso Orfeo ed Euridice di Gluck al Teatro dell’Opera? Per apparire ancora più populista, il leader della Lega ha pure comprato alla fanciulla, di vent’anni più giovane, un cartoccio di popcorn. Qualche giorno dopo, Francesca Verdini è stata beccata (si fa per dire) dal solito fotoreporter di Chi mentre usciva di buon mattino dall’appartamento del vicepremier con addosso un giubbotto bicolore, che era stato indossato in precedenza dall’amato, e persino un paio di pantaloni maschili con il logo della Polizia di Stato. Tecniche mediatiche da ministro dell’Interno, ma soprattutto dell’Esterno. L’uomo che detta a Salvini le mosse per accrescere la propria popolarità sui social network è Luca Morisi, un ex docente ora insediato al Viminale in veste di «consigliere strategico per la comunicazione», il quale fino al 2016 ha tenuto laboratori di informatica filosofica all’Università di Verona, e specificatamente - com’è piccolo il mondo - presso il dipartimento di Scienze umane diretto da quel professor Riccardo Panattoni che ha promosso in ambito accademico la petizione contro il Congresso mondiale delle famiglie, dove Salvini è venuto a dare la sua benedizione. La nuova liasion del vicepremier avrebbe gettato nella costernazione Elisa Isoardi. La conduttrice della Prova del cuoco sarebbe, stando alle indiscrezioni raccolte da Dagospia dietro le quinte della Rai, «delusa e amareggiata, dopo aver visto le foto del suo ex in compagnia di Francesca Verdini». Chissà come ci rimase Salvini quando si vide notificare la rottura del fidanzamento a mezzo Instagram, con un selfie (scattato dalla presentatrice, si presume) in cui appariva a torso nudo, addormentato sul petto della Isoardi in accappatoio. Ce n’è abbastanza per avvertire un’acuta nostalgia dei tempi in cui Giuseppa Sigurani, detta Peppa, rifiutò di seguire il marito Francesco Cossiga al Quirinale, anzi mai una volta ci mise piede, sottraendosi al ruolo di first lady ed evitando accuratamente che circolassero sue foto (l’unica esistente negli archivi fu ripresa con il teleobiettivo mentre faceva la spesa al mercato). Quando il marito si recò in visita ufficiale a Washington, lei viaggiò sullo stesso aereo ma in classe economica. Voleva andare a trovare la figlia che viveva negli Usa e si pagò il biglietto di tasca propria. Giunta a destinazione, solo l’United States secret service, l’agenzia federale che si occupa della sicurezza dei presidenti americani e dei capi di Stato ricevuti alla Casa Bianca, seppe della sua presenza. Analoga la discrezione di Eleonora Moro, il cui volto apparve sui giornali soltanto dopo che le Brigate rosse le avevano rapito e assassinato il marito Aldo. O di Letizia Laurenti, vedova di Enrico Berlinguer, che in tutta la sua vita concesse una sola intervista, uscita sull’Unità. Altri tempi, altre donne, altri politici, altro stile. Il primo presidente della Repubblica italiana, Enrico De Nicola, nel 1946 salì sul Colle più alto di Roma da celibe e ne discese con lo stesso stato civile nel 1948. Egli sosteneva che, per svolgere al meglio la loro alta missione, conveniva che i capi dello Stato, come i preti, non si sposassero. Era della stessa idea anche Indro Montanelli, il quale preferiva che i giornalisti fossero scapoli, orfani e bastardi, cioè privi di qualsiasi legame affettivo, a parte quello con il loro giornale. A proposito: delle tre mogli che Montanelli ebbe, l’unica a ottenere un affaccio sulla stampa fu Colette Rosselli, ma solo perché scriveva per Gente con lo pseudonimo Donna Letizia. Della prima, l’austriaca Margarethe de Colins de Tarsienne, detta Maggie, sposata nel 1942, nessuno seppe nulla per 60 anni, fino a quando non fu scovata da una cronista del Quotidiano Nazionale in una casa di riposo di Malnate (Varese). Infine la terza, Marisa Rivolta, che gli fu compagna fino all’ultimo giorno, si rassegnò a comparire soltanto nel decennale della morte del grande giornalista, ma unicamente perché a insistere per avere un’intervista fu il Corriere della Sera, il giornale su cui il suo Indro firmava. Fra le first lady più ritrose va sicuramente annoverata una veronese, Ida Pellegrini, moglie di Luigi Einaudi, il secondo presidente dell’Italia repubblicana, che abitò al Quirinale senza farsi notare dal 1948 al 1955. Figlia del conte Giulio Pellegrini, era nata nel 1885 a Pescantina. In seguito la sua famiglia si trasferì a Torino, dove Ida frequentò la Regia scuola di commercio annessa all’Istituto internazionale Germano Sommeiller, che ebbe fra i suoi allievi anche Vilfredo Pareto, Giuseppe Pella, Giuseppe Saragat, Luigi Longo e Vittorio Valletta. Lì insegnava, ventottenne, Luigi Einaudi. L’incontro in aula avvenne nel 1902, quando lei aveva solo 17 anni e non osava neppure alzare gli occhi dal banco per guardarlo. Nell’estate del 1903, al termine dell’anno scolastico, quell’austero docente dai baffetti all’insù si presentò a sorpresa dal padre di Ida a chiedere la mano della contessina. Finiti gli esami, il professore fu «ammesso a conversare di tanto in tanto» con la fidanzata. In agosto Einaudi andò in vacanza in montagna. Dal conte Pellegrini ottenne il permesso di scrivere alla figlia, con la ragionevole speranza di ricevere qualche risposta epistolare. Il 19 dicembre di quello stesso anno erano già marito e moglie. Il matrimonio fu celebrato a Torino, nella parrocchia di San Donato, una chiesa senza pretese a mezzo chilometro da piazza Statuto. Solo una ventina di invitati. Ida Pellegrini indossava un tailleur grigio e un cappellino dello stesso colore, con la veletta, e stringeva fra le mani un mazzolino di fiori bianchi. Arrivò alla cerimonia accompagnata dal padre, su una carrozza trainata da cavalli. Seguì uno spartano buffet all’albergo Fiorina. «Quelli erano tempi così semplici», rievocò mezzo secolo dopo donna Ida in un colloquio con Flora Antonioni, la giornalista che giurava d’aver visto negli archivi del Viminale il plico contenente il fantomatico carteggio fra Benito Mussolini e Winston Churchill, «che non pensai neppure all’abito bianco e a una fotografia insieme il giorno delle nozze. Oggi vorrei tanto aver fatto l’una e l’altra cosa». Però fino alla morte, avvenuta nel 1968, conservò in una scatola il mazzo di fiorellini rinsecchiti. La prima notte di matrimonio Ida si svegliò di soprassalto e vide il futuro presidente della Repubblica seduto sul bordo del letto, intento a scrivere numeri con un mozzicone di matita sul ripiano di marmo del comodino. «Ma che cosa stai facendo?», gli chiese. E il marito rispose: «Sto facendo i conti per vedere se sono in grado di mantenere te e i figli che verranno». Non a caso la consorte collaborò poi con il marito nel redigere i bilanci di casa, che nelle intenzioni dell’economista avrebbero dovuto costituire una fonte primaria per lo studio di una famiglia borghese nel primo quarantennio del secolo, come osserva Antonio d’Aroma, che fu segretario particolare del presidente, nel saggio Luigi Einaudi, memorie di famiglia e di lavoro. Il viaggio di nozze ebbe come mete Roma, dove la coppia alloggiò in un vecchio albergo, Napoli e Taormina. L’anno dopo venne al mondo il primo figlio, Mario, nella casa di campagna, a Dogliani, terra del Dolcetto delle Langhe. Fu l’unica volta in cui marito e moglie sbagliarono i conti: il corredino del neonato era rimasto a Torino e il professore dovette farsi prestare una camiciola dalla contadina che aveva assistito nel parto la giovane moglie. Nacquero poi Maria Teresa, Lorenzo, Roberto e Giulio, che diventò un famoso editore. La prima figlia morì dopo 11 mesi, il secondogenito dopo 27. «Sono molti, non le pare, 27 mesi e anche 11 mesi per il cuore di una mamma», disse a Flora Antonioni, in occasione delle sue nozze d’oro, celebrate davanti all’altare della Cappella Paolina al Quirinale. «Come i popoli felici, anche i matrimoni felici non hanno storia», titolò per l’occasione il Corriere della Sera. Qualcuno dovrebbe ricordarlo a Di Maio, a Salvini e alle loro future, e per il momento assai improbabili, consorti.

·         Le redazioni sessiste.

Battute e commenti sessuali in redazione, li ha subiti l’80% delle giornaliste. Pubblicato venerdì, 05 aprile 2019 su Corriere.it. I risultati sono orientativi, vanno presi con cautela, dicono le note metodologiche a margine. Ma che ci sia «una situazione di forte disagio» tra le donne che lavorano nel campo dei media è evidente. Dall’indagine promossa dalla Federazione nazionale della stampa, con la consulenza scientifica della statistica Linda Laura Sabbadini, emerge che l’85% delle giornaliste nella propria carriera ha subito una qualche forma di molestia, il 66,3% negli ultimi cinque anni, il 42,2% negli ultimi 12 mesi. L’indagine, avviata in collaborazione con Casagit, Inpgi, Usigrai e con il patrocinio dell’Ordine dei giornalisti e dell’Agcom, ha dato voce a 1132 giornaliste, il 42% delle 2775 a cui era stato inviato il questionario, tutte dipendenti di quotidiani, tv o radio (esclusi i periodici). Nonostante il livello generale di cultura e consapevolezza in cui (presumibilmente) lavoriamo, neanche noi siamo sottratte al perverso «gioco» della battuta o dello sguardo che provoca disagio: è questa la forma di molestia più diffusa, secondo l’80,7% delle donne che almeno una volta l’ha provata nella vita. Battute e commenti a sfondo sessuale, sguardi inopportuni o lascivi, domande inopportune e invadenti sulla vita privata o sull’aspetto fisico che provocano disagio, infastidiscono, offendono. Il 43,6% delle intervistate arriva a dire esplicitamente che è stato offesa in quanto donna, il 41,6% di sentirsi svalutata per il proprio genere. La fascia di età più esposta è quella tra i 27 e i 30 anni, ma le molestie colpiscono a ogni età. E non si fermano purtroppo alle parole, anche nell'ambito giornalistico. Quasi quattro donne su dieci raccontano di essere state abbracciate, toccate, messe alle strette contro la loro volontà. Poco più di tre donne su dieci ha dovuto subire inviti a uscire insistenti, il 18,2% avance ripetute e inopportune anche per email, social network, sms, l’11,9% ha ricevuto immagini o regali con palese riferimento sessuale, l’11,2% è stata seguita i controllata, il 9,2% ha dovuto subire gesti osceni o esibizione di parti del corpo, il 19,6% commenti sessuali attraverso messaggini, posta elettronica, social network. Forse questo è l'aspetto più viscido: il 19,3% dichiara di essere stata sottoposta a richieste di prestazioni sessuali mentre cercava lavoro e il 13,8% per progredire nella carriera. Fino alla tentata violenza sessuale (l’8%) e alla violenza sessuale (2,9%) mentre si cercava lavoro o si svolgeva l’attività lavorativa. E per lo più si tratta di prevaricazione di un capo su una collega di grado inferiore: si tratta per lo più di superiori diretti (26,9%), colleghi con maggiore anzianità (16,7%), direttori e vicedirettori (14,8%). E il tutto spesso avviene in mezzo all’indifferenza. Le molestie si svolgono spesso in redazione, il 35% dichiara di averle subite in mezzo ad altri colleghi, una circostanza che indica che c’è un clima diffuso di «accettazione» o scarsa consapevolezza della gravità delle molestie, siano anche solo battute che mettono a disagio chi ne è oggetto. Tant’è vero che nella maggior parte dei casi nessuno ha reagito. È facile comprendere come, di fronte a una tacita consuetudine, sia difficile sfogarsi o anche solo pensare di denunciare. E infatti solo sei donne su dieci ne hanno parlato con qualcuno: ma solo il 2,2% ha denunciato alle autorità di polizia, e solo il 3,2% si è rivolta al sindacato, percentuale che se riferita agli ultimi 12 mesi raddoppia (6%). Ancora troppo bassa ma indicativa forse di un maggior impegno e attenzione nel sindacato dopo il fenomeno «metoo». Perché non si denuncia? Paura di essere giudicata, di avere una percezione errata, di poter risolvere il problema da sola, di non essere creduta, di essere tratta male. E se il 15,6% delle giornaliste sostiene di essere stata penalizzata sul lavoro dopo le molestie, c’è da credere che il silenzio sia ancora, inevitabilmente, eccessivo.

SBATTI IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA MA SOLO QUANDO NON ABITA A CASA TUA. DAGONOTA  l'8 aprile 2019. Sbatti il mostro in prima pagina ma solo quando non abita a casa tua. Certo è bizzarro che tranne La Stampa e Il Sole 24 Ore gli altri grandi quotidiani nazionali dopo avere per mesi cavalcato l’onta dei molestatori del mondo dello spettacolo & co adesso che viene fuori che nelle redazioni che l’85 per cento delle giornaliste ha subito molestie non dedicano nemmeno una riga “nobile” sul giornale “di carta” al problema, magari anche un’editoriale, una presa di posizione, uno sputtanamento.  Qualsiasi cosa. La notizia vale solo qualche riga asettica sul web.  No comment. E’ la stampa bellezza.

·         Il Concertone politico.

Primo maggio, il fiume di soldi per il Concertone dei sindacati: 800 mila euro della Rai. Renato Farina 1 Maggio 2019 su Libero Quotidiano. Il Concertone! È arrivato silenzioso come un basilisco. Ha aperto la bocca e si è ingoiato 800mila euro. In gran parte della Rai e dell' Eni. La Rai la paghiamo noi. L' Eni è in gran parte dello Stato. Al Comune di Roma tocca ripulire, occuparsi della sicurezza: altri 200mila euro. Che soddisfazione per i lavoratori delle fonderie, che ancora esistono, e per i camerieri dei ristoranti, ma soprattutto per i pensionati, che goduria. L' andazzo è cominciato il 1990. L' inventore si chiama Maurizio Illuminato, un imprenditore di Catania, che se lo creò e da allora ce l' ha rifilato. Nacque al tempo in cui il Partito comunista era in lacrime dopo il crollo del Muro e si stava trasformando in Pds. Non c' erano più paradisi che la Cgil osasse indicare al popolo. Va be', un pochino Cuba, ma vuoi mettere la Russia Ed ecco allora una voluta di fumo per nascondere il fiasco: l' oppio della musica, magari d' avanguardia, di protesta, incazzosa, in attesa di risistemare un nuovo apparato ideologico. Da allora questa gigantesca patacca ci si è appiccata come una sanguisuga, la réclame di una sinistra eternamente rompicoglioni, mai nuova, sempre inneggiante ai suoi riccioli perduti e rinascenti. C' era una volta il Primo Maggio come Festa del Lavoro, che la Chiesa affiancò con la ricorrenza di San Giuseppe Artigiano. Il fascismo spostò la data al 21 aprile, compleanno di Roma, che non pare un' idea geniale per supportare il tema, ma forse era una battuta del Duce che allora non fu capita. Poi il calendario si è risistemato, i primi tempi aveva il suo perché, infondeva orgoglio, personalmente ricordo mio nonno con la camicia bianca. Poi è diventata una celebrazione in più utile per i ponti. Il nocciolo è stato frantumato: non sono più le lotte operaie, contadine o impiegatizie: ma il fancazzismo eretto a monumento romano nella piazza di San Giovanni in Laterano, dove suona il tamburo e il chitarrino gente che non ha mai lavorato. E ci inonda dei suoi predicozzi in rima, trovando giustificazione al proprio cachet nei riferimenti alle bandiere rosse.

SUPER SPOT. Povera gloria antica e polverosa dei vecchi socialisti: è stata sommersa come Atlantide, è un reperto per leader sindacali che ad esempio oggi si ritrovano a Bologna, ma non se ne accorge nessuno. Tutti invece siamo costretti ad accorgerci del Mostro che si è mangiato il Primo Maggio e si insedia nelle nostre vite grazie alla tivù pubblica e a nostre spese. Per di più sotto elezioni europee sarà un gigantesco spot per i beniamini dei sindacati: tutti a sinistra. Ma la sceneggiata della durata di una dozzina di ore è una tale sbobba di gridolini e nenie da provocare allergie vastissime nei confronti del colore rosso o di quello arcobaleno reclamizzati sistematicamente. Scommettiamo? Quest' anno sarà una sarabanda antifascista. Un' overdose di luoghi comuni sui poveri in bocca a chi non li frequenta.

L' ELENCO. La presentatrice, come già l' anno prima, è Ambra Angiolini. Siccome paghiamo noi, è bene sapere per chi e per che cosa paghiamo. Ci permettiamo di fornire l' elenco delle star. Leggetelo ad alta voce. E dire che una volta il settimanale satirico Cuore pubblicava il catalogo delle udienze del papa pubblicate dall' Osservatore Romano, con i nomi di vescovi ostrogoti, per far ridere. E questi qua? Artisti musicali: Daniele Silvestri, Ghali, Subsonica, Carl Brave, Manuel Agnelli con Rodrigo D' Erasmo, Achille Lauro, Motta, Gazzelle, Ghemon, Negrita, Ex-Otago, Zen Circus, Rancore, Canova, Pinguini Tattici Nucleari, Coma_Cose, Anastasio, Izi, Fast Animals and Slow Kids, Eugenio in Via Di Gioia, La Municipàl, Bianco feat. Colapesce, La Rappresentante di Lista, Lemandorle, Eman, Dutch Nazari, La Rua, Omar Pedrini, Orchestraccia, Fulminacci. Fulminacci non è un' imprecazione che ci ha suggerito Nonna Papera, ma l' ultimo a esibirsi.

POLEMICHE AD ARTE. I nomi vi dicono qualcosa? Non preoccupatevi. Non resterà in aria neanche una nota immortale, in compenso salterà fuori qualche polemicuccia a forza, per dare notorietà a chi si inventerà qualche pagliacciata. Si cominciò presto a reclamizzare la sinistra. Nel 1991 i Gang, gruppo folk rock militante italiano, lessero un proclama rivolto ai lavoratori per lo sciopero generale contro l' allora governo Andreotti, eseguendo il brano Socialdemocrazia al posto di Ombre Rosse. Elio e le Storie Tese non furono fatti esibire in diretta tivù perché avrebbero fatto nomi e cognomi dei politici corrotti. Sempre pronti a invocare manette: arrivarono. Bravi, contenti? Nel 1993 Piero Pelù attaccò Giovanni Paolo II accusandolo di occuparsi troppo di sesso e poco di temi religiosi. Poi inizia la sequenza di attacchi a Berlusconi. Poi, sempre più coraggioso, Piero Pelù dopo aver picchiato Wojtyla, se la prenderà con Matteo Renzi: «È il boy-scout di Licio Gelli» (2014).

CIFRE GONFIATE. Normale. Interessante osservare le cifre. Secondo la questura non si va mai oltre le 140mila presenze. Invece c' è una costante invenzione di numeri forniti dagli organizzatori e bevuti come oro colato dalla Rai, che li dà in diretta, senza filtri, ovvio. Si arriva a usare la tecnica della lievitazione, come la pasta: «Trecentomila spettatori, che in serata diventano settecentomila, poi addirittura un milione» (titolone di Repubblica). Se sono così tanti, perché non fanno un euro a testa e se la pagano da soli? Renato Farina

“LO “SCONCERTO” DEL PRIMO MAGGIO MI METTE UNA TRISTEZZA INFINITA”. Aldo Grasso per “il Corriere della sera” il 3 maggio 2019. Non so a voi, ma a me lo «sconcerto» del 1° maggio in piazza San Giovanni a Roma mette una tristezza infinita. Colpa mia, lo ammetto, perché leggo che ad altri è piaciuto molto. Forse perché ragiono in termini di comunicazione, ma il maglioncino di Ambra con la scritta «Cgil Cisl Uil» era come mettere il dito nella piaga. Ambra ha assorbito lo spirito polemico del suo fidanzato Massimiliano Allegri e ha voluto infilarsi uno straccetto in polemica con quanti lo scorso anno l' avevano criticata per aver indossato una mise griffata. Avrei voluto essere Lele Adani e spiegarle alcune cose. Forse perché la pioggia suggerisce mestizia, desiderio di un riparo: «C'è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo». O forse per tutti quegli omaggi iniziali a illustri scomparsi: Kurt Cobain, Lou Reed, metà dei Beatles Il problema non è Ambra (per quanto), il problema è la scritta, un vero paradosso. In termini simbolici, il concertone è quanto di più distante esista dalle politiche sindacali, dal tipo di comunicazione di Maurizio Landini (anche lui ha un suo modo di vestirsi), dal vuoto di Carmelo Barbagallo, dalle lezioncine di Annamaria Furlan. E infatti il sindacato è assente, non si rivolge ai giovani, lavora su altre piazze. Certo, la presenza di Noel Gallagher che canta «All you need is love», accanto ai suoi successi con gli High Flying Birds, ha portato un respiro internazionale e ha elevato il tasso di rock della serata dopo un pomeriggio segnato, bisogna dirlo, da bande di misconosciuti (a parte i portentosi Pinguini Tattici Nucleari) in cerca della necessaria visibilità. Poi, come dicono le cronache, «Carl Brave diverte, Manuel Agnelli fa sognare, Daniele Silvestri fa sfogare la piazza con un liberatorio "mortacci", i Subsonica fanno ballare». Accanto ad Ambra c' era Lodo Guenzi. Due spalle (di cui una spalluccia) non fanno un conduttore.

Poche cantanti sul palco. Ma le donne conquistano la scena. Polemiche per una scaletta quasi tutta di uomini ma Ambra Angiolini, Ilaria Cucchi e a Bari Valeria Golino sono le protagoniste di un immaginario che sta cambiando. Meno star e più artisti che parlano ai giovani. Angela Azzaro il 3 Maggio 2019 su Il Dubbio. La scaletta del Concertone a piazza San Giovanni le aveva tenute fuori, ma le donne si sono riprese la scena. La polemica che aveva caratterizzato la vigilia del classico appuntamento del Primo Maggio non era campata in aria e bene hanno fatto le artiste che hanno organizzato un contro evento all’Angelo Mai, lo spazio occupato a Roma. Ma accesi i riflettori, iniziata la “festa” la voce delle donne si è fatta sentire con forza. Si è sicuramente sentita quella di Ambra Angiolini, una attrice e donna di spettacolo che ogni volta, come una sorta di maledizione, deve dimostrare di non essere più la ragazza teleguidata di “Non è la Rai”. Anche questa volta c’è riuscita dominando il palco senza sbavature, con simpatia e professionalità. Ilaria Cucchi, che da anni porta avanti con raro coraggio la battaglia perché emerga la verità sulla morte di Stefano, l’altro ieri ha conquistato anche il palco di San Giovanni. Il suo esempio, più di tanti altri discorsi politici, riesce a parlare alla generazione in piazza, rappresenta un simbolo importante anche per loro che hanno urlato, in coro, il nome del fratello. A Bari, dove era in corso la manifestazione di cinema Bifest, Valeria Golino nel salutare la platea ha osato addirittura fare l’augurio di un buon Primo Maggio con il pugno chiuso, con un gesto fino a qualche anno fa scontato, quasi retorico, ma che oggi in pochi, soprattutto nel mondo del cinema, sembrano ricordarsi e che assume quindi una valenza quasi dirompente. Ma come è possibile che l’accusa di esclusione delle donne dal Primo Maggio e questo protagonismo femminile vadano insieme? La risposta è semplice da enunciare, difficile da rimuovere. Il problema delle artiste che non arrivano sul palco dei grandi eventi non dipende certo dalla mancanza di talenti o dalla mancanza di artiste determinate, ma da una struttura di potere che – più si sale – più resta nelle mani degli uomini. Giustamente gli organizzatori del Primo Maggio hanno protestato contro produttori e agenzie delle cantanti che hanno detto no alle loro proposte di ingaggio. Sotto accusa è la struttura che va cambiata, anche forzando la mano, perché niente accade per caso o con facilità. Ma nonostante il potere continui a restare nelle mani maschili in vari ambiti ( politica, arte, sapere) le donne sono diventate più forti, più determinate e appena conquistano lo spazio pubblico si fanno sentire. Il Primo Maggio lo hanno fatto cogliendo anche il bisogno di simboli di una generazione. Il tifo quasi da stadio per Ilaria, il pugno chiuso di Valeria, la forza di Ambra di uscire dallo stereotipo che le era stato cucito addosso raccontano un immaginario in cui le nuove generazioni cercano di identificarsi. Per tanti anni si era pensato che la società liquida, secondo la definizione stra abusata ( anche da lui stesso) del sociologo Zygmunt Bauman, non avesse bisogno di simboli, che la caduta del muro portasse con sé un immaginario pacificato, lineare. In questi anni abbiamo scoperto, anche amaramente, che non è così. La mancanza di simboli ha generato l’identificazione nella rabbia, nel rancore. La comunità ha trovato coesione non sulla solidarietà ma sull’odio nei confronti dell’altro, un meccanismo profondo, che ha poi avuto nei social network lo strumento per diffondersi e rigenerarsi. Oggi le nuove generazioni sembrano voler chiedere altro, vogliono poter credere in qualcosa. Il successo del film sulla vicenda di Stefano Cucchi, Sulla mia pelle, il calore con cui Ilaria è stata accolta sul palco del Primo Maggio sono i segni di questa necessità, di questo bisogno di uscire dal presente e di credere nel futuro. E’ lo stesso meccanismo che ha fatto scattare Greta Thunberg ( un’altra giovanissima donna). Non solo la questione ambientale, ma il bisogno di credere in qualcosa. La preoccupazione per il pianeta che stiamo distruggendo come necessità di condividere la stessa idea di mondo, di umanità. E per questo che il Concertone funziona ancora: perché dà una risposta anche se occasionale alla necessità di stare insieme intorno a un ideale condiviso. Quest’anno l’offerta era molto giovane, nomi forse non noti a tutti, ma amati dal pubblico che va a piazza San Giovanni. Rancore, Anastasio, Zen Circus, Ghemon, Achille Lauro, Ghali, Motta e gli ormai “vecchi” Daniele Silvestri e i Negrita. I quaranta, cinquantenni si sono molto lamentati. Ma questa volta tocca a loro, a quei ragazzi e a quelle ragazze che hanno urlato “Stefano, Stefano”.

Diritti, lavoro e femminismo: il Concertone-spot per le Europee. Ambra dal palco: "Qui per l'Europa". E si scaglia contro il bonus assunzioni alle donne: "Lo sgravio me lo gestisco io". Giovanni Corato, Mercoledì 01/05/2019 su Il Giornale. "Diritti, lavoro, Europa". A meno di un mese dalle elezioni Europee, Ambra - con una maglietta che riporta le sigle di Cgil, Cisl e Uil - apre il Concertone del Primo maggio con un inno all'Unione europea. E dal palco di piazza San Giovanni a Roma si scaglia contro la proposta di del governo di introdurre uno sgravio da 3mila euro per ogni donna assunta. "E' una proposta", ha detto Ambra, che retoricamente ha chiesto quanti "sgravi", cioé quante donne, fossero presenti al concerto. La conclusione è stata "lo sgravio è mio e lo gestisco io", che rieccheggia il motto femminista "l'utero è mio e me lo gestisco io". E quando Lodo Guenzi, leader de Lo Stato Sociale, ha risposto "Ti assumo io e ci guadagniamo entrambi", lei ha replicato: "No, ci guadagni solo tu". Già nei giorni scorsi la showgirl aveva replicato alle polemiche sulla scarsa partecipazione di donne al Concertone: "Se il Primo Maggio è davvero una radiografia del Paese vuol dire che i problemi sono a monte", ha detto, "Io da donna non mi sento offesa. La selezione del Primo Maggio è stata fatta non in base al genere ma alla musica e ai primi posti in classifica e le donne che c'erano non erano disponibili". I temi toccati sono quelli cari alla sinistra. E non manca una lunga lista di morti sul lavoro. "Vorremo non doverla leggere più. Il lavoro è un diritto ma la vita lo è ancora di più", urla Ambra, "Non si può lavorare per morire. Questa è una vergogna, si trattasse anche di una persona sola". Poi, nel messaggio dei sindacati si parla di Europa: "C'è bisogno di più Europa", ha detto Anna Maria Furlan (Cisl). "Altro che discorsi sovranisti. Ma abbiamo bisogno di un'Europa che non sia solo coefficienti e protocolli, ma che sia carne e ossa e anche un po' d'anima".

·         Il Pettegolezzo.

pettegolezzo, pet·te·go·léz·zo, sostantivo maschile. Chiacchiera inopportuna o indiscreta o malevola.

Pettegolezzo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Con il termine pettegolezzo s'intende una serie di chiacchiere ritenute inopportune o indiscrete nei confronti di altre persone.

Antropologia culturale. Lo scambio d'informazioni e giudizi informali all'interno di un gruppo sociale sui comportamenti dei membri del gruppo stesso viene spesso considerato una forma di controllo sociale, specie da studiosi appartenenti al funzionalismo. Il pettegolezzo è diffuso in molte culture e comunità, anche le più isolate (beduini, nativi americani...), e costituisce una delle principali forme con cui si esercita la sanzione da parte dell'opinione pubblica. Viene utilizzata anche per rimarcare i confini del gruppo, dato che comporta una conoscenza esclusiva e approfondita della comunità stessa. Altri studiosi hanno tuttavia rimarcato il rischio di conflitto a cui possa portare un uso indiscriminato del pettegolezzo.

Il gossip. Col termine gossip (che l'italiano ha preso in prestito dall'inglese, dove significa semplicemente "pettegolezzo" nell'accezione comune) si intendono le notizie sulla vita privata riguardanti personalità note o VIP, pubblicate con o senza il consenso del soggetto in causa. In particolare, il gossip s'interessa delle persone (di solito altrettanto famose) con cui i VIP hanno instaurato relazioni amorose. Il gossip può essere inteso come la parte scandalistica della cosiddetta cronaca rosa, che a sua volta è una derivazione della letteratura rosa.

Elena Meli per “Salute - Corriere della sera” il 17 agosto 2019. Durante l'estate le riviste di gossip fanno faville: chi non le legge almeno una volta nei momenti di relax per evadere dalle solite preoccupazioni? O magari si accontenta di dare un' occhiata a quella del vicino di ombrellone? Farsi gli affari degli altri però non è soltanto uno dei piaceri del dolce far niente vacanziero, ma un' abitudine che tutti coltiviamo dodici mesi l' anno. Senza distinzione di genere, in barba agli stereotipi: le donne hanno la lingua lunga e adorano chiacchierare, ma pure gli uomini non disdegnano affatto il pettegolezzo, anzi. Lo ha messo nero su bianco uno studio scientifico, condotto all' università di Riverside in California da una psicologa, Megan Robbins, che ha cercato di capire a fondo come ci comportiamo quando vogliamo sparlare di qualcuno: per riuscirci, ha piazzato una specie di orecchio elettronico su circa cinquecento volontari disposti a farsi spiare le conversazioni. Lo strumento ha registrato il 10 per cento delle chiacchierate quotidiane dei partecipanti, che poi sono state riascoltate e analizzate dai ricercatori; è stato classificato come gossip qualsiasi dialogo in cui si parlasse di altre persone, non presenti, perché come spiega Robbins: «Non abbiamo voluto dare un giudizio morale su quel che viene detto, ma soltanto tenere conto della caratteristica principale del gossip, ovvero parlare di qualcuno che non c'è». È la definizione «accademica» del pettegolezzo e adottandola è chiaramente impensabile trovare qualcuno che non vi ceda mai: in quel caso significherebbe che si parla di un amico, di un familiare, ma anche di un personaggio pubblico o di una celebrità solo in sua presenza. Ecco perché poi Robbins ha anche esaminato il tipo di discorsi fatti nelle oltre 4mila conversazioni identificabili come gossip: in tre quarti dei casi si tratta di dialoghi neutri, in cui ci si scambiano informazioni su altre persone, ma quando le chiacchiere prendono una piega diversa dalla neutralità scivolano nelle malignità quasi il doppio delle volte. Nell' indagine, i dialoghi con pettegolezzi negativi sono stati il 15 per cento, contro il 9 per cento dei casi in cui le dicerie nei confronti degli assenti erano positive. I risultati peraltro non lasciano adito a dubbi, siamo tutti un po' chiacchieroni: in media infatti passiamo il 14 per cento del tempo parlando di qualcuno che non c' è, ovvero ben 52 minuti al giorno a commentare i fatti altrui, sparlare di qualche vip o semplicemente dire qualcosa che non ci riguarda in prima persona. E non sono le donne a essere più «linguacciute», fa notare l' autrice dello studio: «Le donne parlano effettivamente più degli uomini, ma solo se teniamo conto delle conversazioni neutrali. Considerando il gossip in negativo entrambi i sessi sono a pari merito e lo stesso vale per le persone di estrazione sociale elevata e quelle meno abbienti: chi è ricco e colto sparla tanto quanto chi è più povero e ha studiato poco». Il pettegolezzo insomma è democratico; semmai piace di più a chi è molto estroverso, che chiacchiera in generale parecchio di presenti e assenti, e ai giovani, che peraltro tendono più spesso alle maldicenze e sono meno propensi a parlar bene di chi non c'è. E con buona pace delle riviste scandalistiche che si occupano della vita pubblica e privata dei vip, si tende a parlare, nel bene e nel male, soprattutto di chi conosciamo: nel 91 per cento dei casi il gossip riguarda amici, parenti, colleghi, oppure i classici vicini di casa. Ma tutto questo chiacchiericcio che effetti ha sulle nostre vite? In qualche misura si potrebbe dire che ha anche qualche risvolto positivo, a seconda dell' uso che se ne fa. Una ricerca dell' università di Berkeley ha suggerito che potrebbe essere funzionale a mantenere l' ordine sociale e a farci sentire meglio, se sparliamo di qualcuno che secondo noi si è comportato in modo sbagliato: condividere le informazioni che abbiamo infatti riduce la frustrazione personale di fronte a chi riteniamo scorretto. Insomma la vecchia storia che se diamo un giudizio negativo sull'operato di un' altra persona automaticamente ci sentiamo migliori (ma per questa «scoperta» non servivano grandi studi...). Volendo portare il ragionamento all' estremo, c'è chi sostiene che ascoltare pettegolezzi poco edificanti sui successi o i fallimenti altrui potrebbe avere esiti non sempre disdicevoli. Un gruppo di ricercatori olandesi ha infatti osservato, conducendo esperimenti su alcuni volontari, che ascoltare storie negative sugli altri ci aiuta ad adattarci all' ambiente sociale in cui viviamo, rivela potenziali minacce e alla fine sprona a riflettere su noi stessi. «Quando ascoltiamo gossip implicitamente ci confrontiamo con chi è oggetto delle chiacchiere e ne traiamo spunto per pensare al nostro posto nella cerchia sociale, dall' ufficio al gruppo di amici, ma anche per crescere, migliorarci oppure creare strategie "difensive" sulla base delle informazioni ricevute, riuscendo così a vivere meglio nella comunità», concludono gli autori.

Facciamo gossip 52 minuti al giorno (e gli uomini sono più malevoli). Pubblicato mercoledì, 15 maggio 2019 da Candida Morvillo su Corriere.it. Facciamo gossip per 52 minuti al giorno. Sono tanti? Sono pochi? Dipende. C’è gossip e gossip, infatti. Gli psicologi dell’Università della California che hanno pubblicato uno studio sulla rivista «Social Psychological and Personality Science» considerano il gossip come «parlare di chi non è presente», ma hanno poi preso il minutaggio di chiacchiere neutre, positive o negative. Ne emerge che, per tre quarti del tempo, ci scambiamo informazioni innocue, ma per il resto i giudizi malevoli sono il doppio di quelli benevoli. In pratica, in media, spettegoliamo affettuosamente quattro minuti al giorno e perfidamente per otto minuti. Lo facciamo tutti: uomini e donne, giovani e anziani, ricchi e poveri. Questa prima ricerca sistematica sul tema decreta che spettegolare è trasversale e sfata i luoghi comuni per cui farlo è «da ignoranti, è tipicamente femminile, è da classe sociale inferiore»: scrivono così gli psicologi, che per un po’ di giorni hanno registrato le conversazioni di 467 volontari fra i 18 e 58 anni. Hanno scoperto anche che le donne, quando spettegolano, risultano più neutre degli uomini. Dal che, se ne deduce che lo stereotipo della donna pettegola è, appunto, un pettegolezzo e pure infondato. I dati evidenziano, inoltre, che i giovani tendono a malignare più degli anziani, forse perché, essendo più connessi, hanno più spunti dai social e da Internet. Hanno più stimoli, ma non per questo sono più saggi. Infine, i più ricchi e istruiti fanno gossip quanto i più poveri e meno istruiti. Tutti cercano nelle vite degli altri lo specchio della propria. Può essere un bene, se si tratta di trarne un buon esempio. Poi, ciò che si scatena negli otto minuti crudeli è tutt’altro... Silvana Giacobini, che ha fondato i rotocalchi Chi e Diva e Donna, sintetizza così al Corriere: «Parliamo male di qualcuno per sentirci meglio di lui, sapendo benissimo di non esserlo». Forse non finiremo all’inferno per questo, però è utile ricordare che Papa Francesco, in un’omelia, ha avvisato che «chi non sparla degli altri è sulla buona strada per diventare santo».

Il pettegolezzo fa bene, dice la scienza. Rivistastudio.com. La calunnia è un venticello… che fa danni, o così almeno ci hanno abituati a pensare: «Nelle orecchie della gente/ s’introduce destramente/ e le teste ed i cervelli fa stordire e fa gonfiar», come recita la celebre aria del Barbiere di Siviglia. E se invece sparlare del prossimo facesse anche bene? Alcune ricerche sembrano dimostrare che il pettegolezzo ha una sua utilità sociale: a partire da queste, Ben Healy ha scritto un divertente pezzo a favore del gossip, che è stato pubblicato nel nuovo numero cartaceo dell’Atlantic e può essere letto anche online, e intitolato, senza troppi giri di parole “Gossip is good”. Healy parte da qualche dato su quanto sia diffuso il pettegolezzo. Secondo lo psicologo sociale Nicholas Emler, infatti, il gossip rappresenta due terzi delle nostre conversazioni (in altre parole, del tempo che trascorriamo parlando con gli altri, i due terzi lo passiamo spettegolando). Va detto però che Emler utilizza una definizione relativamente ampia del pettegolezzo: nei suoi studi vengono categorizzate come “gossip” tutte le conversazione che riguardano una terza persona che non è presente. Un altro dato rassicurante è che la maggior parte dei pettegolezzi sono relativamente innocui: secondo una ricerca degli anni Novanta, infatti soltanto il quattro per cento dei pettegolezzi sono “malevoli”, rientrano cioè in quella che potremmo definire calunnia (la fonte è “Human Conversational Behavior”, pubblicata in Human Nature nel settembre del ’97). Il lato più interessante dell’articolo, però, riguarda proprio le calunnie vere e proprie. Uno studio dell’Univeristà del Texas e dell’Univeristà dell’Oklahoma suggerisce che condividere opinioni e idee negative sugli altri aiuta le persone a fare gruppo, a sentirsi più vicine le une alle altre (la fonte è il paper “Interpersonal Chemistry Through Negativity”, uscito in Personal Relationships nel giugno del 2006 e tutt’ora consultabile in rete). Uno studio molto più recente, effettuato da un’università olandese giunge alla conclusione che sentire pettegolezzi potrebbe addirittura renderci più riflessivi e promuovere l’introspezione (“Tell Me the Gossip” pubblicato in Personality and Social Psychology Bulletin nel dicembre del 2014). Lo psicologo Robin Dunbar, che ha una prospettiva evoluzionista, arriva a ipotizzare che per gli umani moderni il pettegolezzo ricopra la stessa funzione che per i nostri antenati era ricoperta… dallo spulciarsi a vicenda: com’è noto, per le scimmie spidocchiarsi l’un l’altra è un modo per formare legami, che a loro volta sono determinanti per la possibilità di sopravvivere, ma visto che noi siamo troppo evoluti per quel genere di cose, allora spettegoliamo. Concludendo, il pezzo dell’Atlantic suggerisce che una certa tendenza umana a parlare male del prossimo non è solamente un fenomeno pervasivo e inestirpabile, ma che ha addirittura una sua funzione sociale. Serve a creare coesione sociale, e forse anche a renderci persone più introspettive. La calunnia rovinerà anche vite e carriere, ma stiamo meglio con che senza. «Dunque la prossima volta che siete in dubbio sul gettare un po’ di fango, fate pure senza timore: magari state promuovendo la coesione sociale, o migliorando l’autostima del vostro interlocutore», conclude Healy, il giornalista. «Almeno è quello che ho sentito dire».

Nell’era di internet, il pettegolezzo logora chi il potere non ce l’ha. La storia della diceria scritta dal responsabile vaticano della comunicazione. Massimiliano Panarari l'8/04/2016 su La Stampa. Cogito ergo sum. Ma, anche, spettegolo e, dunque, comando. Un bizzarro sillogismo, il secondo, che fornisce un’ulteriore – e opportuna – chiave di interpretazione dell’universo del pettegolezzo. Da che mondo è mondo, infatti, dicerie e indiscrezioni suscitano curiosità (morbosa), divertono e intrigano. Ma svolgono anche, foucaultianamente, la funzione di «sorvegliare e punire». Il gossip, allora, è anche una questione di potere (o di contropotere). E, così, ritroviamo tutti insieme, per fare qualche esempio, Dagospia, l’egemonia sottoculturale costruita a colpi di rotocalchi televisivi e cartacei nella fase trionfante del berlusconismo, le foto di François Hollande appena sgattaiolato fuori dall’abitazione dell’allora amante Julie Gayet, il fenomeno della peoplisationche ha investito la classe dirigente. E si capisce perfettamente come la «gossipologia» – pur tra ostracismi e imbarazzi – sia (giustamente) divenuta oggetto di analisi accademica, tra indagini sulla «politica pop» (formula coniata da Gianpietro Mazzoleni) e «cultural studies». Insomma, è Il gossip al potere (come hanno titolato un loro volume gli studiosi Marco Mazzoni e Antonio Ciaglia); in quest’ottica, si spiega anche la rilevanza del tema dei rumors all’interno della Chiesa cattolica, da San Paolo a Vatileaks – e la vera «scomunica» indirizzata nei loro confronti da Papa Bergoglio – come racconta ne Il brusio del pettegolo (Edizione Dehoniane Bologna, pp. 76, €7) il prefetto della Segreteria per la comunicazione della Santa Sede Dario Edoardo Viganò. Che delinea nel libro una fenomenologia e una sociologia dei pettegolezzi dalla cultura orale della Galilea degli anni di Gesù Cristo fino alla loro diffusione virale nel Villaggio globale dei nostri decenni – periodo quest’ultimo in cui hanno trovato un habitat particolarmente favorevole. Il pettegolezzo, che rappresenta una «pratica comunicativa» a tutti gli effetti, è di fatto un’«opera aperta» che si nutre delle rielaborazioni e delle integrazioni dei tanti che lo alimentano, e ha scoperto nel Web e nella comunicazione reticolare dei social network un canale di propagazione che le allegre comari di Windsor e quelle delle goldoniane Baruffe chiozzotte, inchiodate al tam tam e al sussurro all’orecchio altrui, non avrebbero potuto immaginare neppure nel più roseo dei sogni. Per di più, se la società della Rete ha imposto una sorta di «dittatura» della «disintermediazione» in ogni campo, al tempo stesso ha paradossalmente innescato un processo di «rimediazione» in quello dei mass media (e dei rumors): nell’orizzonte tecnologico digitale i vecchi e i nuovi media si contaminano (e «commentano») reciprocamente e senza sosta. E dal momento che i social network posseggono una «natura conversazionale» hanno bisogno di narrazioni rapide, coinvolgenti sotto il profilo emotivo, e in grado di attrarre utenti con caratteristiche diverse: di qui il dilagare sfrenato dei rumors nell’epoca liquida. Visto il suo successo nel mondo postmoderno, il pettegolezzo, declinato nelle varianti della calunnia e della delazione, può essere oggetto di pianificazione, diventando in tutto e per tutto un formidabile strumento di potere oppure un’arma di distrazione di massa. «Il profilo antropologico del pettegolo – scrive Viganò – ha, quindi, i tratti del potente, del legislatore e del giudice o di chi è animato da un desiderio di potenza nella propria comunità». Quelle gossipare possono dunque essere delle soft news «a scopo squadristico» e per il killeraggio degli avversari, difficili da sventare se non ricominciando a riflettere sul sistema di funzionamento (la «logica mediale») dell’eterno e antichissimo passaparola. E, così, tutto si tiene...

Il ruolo sociale del pettegolezzo. Il pettegolezzo ha anche la funzione di permettere il confronto sociale: nei pettegolezzi infatti le persone vengono messe a confronto con altre e con sé stessi e in questo modo si ha la possibilità di conoscere il proprio valore. Huffingtonpost.it il 27/08/2013. Il pettegolezzo è un fenomeno molto studiato e nel tempo gli psicologi sociali hanno formulato diverse definizioni al riguardo : Eder & Enke (1991) ad esempio hanno definito il gossip come "discorsi valutativi che riguardano una persona che non è presente"; Noon e Delbridge (1993) hanno preferito parlare di un "processo comunicativo informale che riguarda informazioni valutative sui membri di un contesto sociale"; Jorg R. Bergmann (1993) ha elencato gli argomenti più comuni del pettegolezzo: qualità personali e idiosincrasie, sorprese e incongruenze comportamentali, discrepanze tra comportamento reale e richieste morali, cattive maniere, modalità non accettate di comportamento, carenze, scorrettezze, omissioni, presunzioni, errori, disgrazie e fallimenti.

Un pettegolezzo, per essere tale, non deve mancare di questi elementi:

- Deve riguardare una terza persona

- La persona deve essere assente al momento in cui se ne parla

- La persona di cui si parla deve essere conosciuta, anche indirettamente, dai pettegoli

- Oltre a fatti e informazioni devono essere espressi dei giudizi valutativi, anche solo con il linguaggio del corpo

È interessante sapere che l'etimologia inglese del termine "gossip" (pettegolezzo), fa risalire l'espressione all'inglese antico "God-sibb": letteralmente una persona collegata ad un'altra per volere di Dio, cioè il rapporto particolare di due persone molto intime, che parlano di questioni personali, ma anche di relazioni, condividendo molti segreti.

Nella lingua tedesca invece esiste l'espressione "coffee-klatch", che riguarda gli incontri di un gruppo di conoscenti che si vedono (ad esempio per prendere un caffè), con l'esplicito proponimento di fare pettegolezzi (klatch). Sembra che il coffee-klatch abbia avuto origine nel diciottesimo secolo nei bar per soli uomini, dove giornalisti e professionisti si ritrovavano per mettere a confronto le loro informazioni. La parola italiana "pettegolezzo" invece, secondo alcuni studiosi, potrebbe derivare dal termine "pithecus" (scimmia). Forse è proprio da questa ipotesi che sono partiti alcuni psicologi sociali (vedi Robin Dumbar, 1998) nel formulare la teoria secondo la quale l'umano pettegolare sia simile al "grooming" dei primati: questi ultimi, spulciandosi reciprocamente, riescono infatti a mantenere le relazioni con la loro cerchia, che in natura conta circa 50 individui. Le cerchie degli esseri umani invece, che sono molto più vaste (in media il social network reale di ogni persona conta circa 150 individui) richiedono, secondo la teoria citata, strumenti sociali come il pettegolezzo, per mantenere i contatti con tutti. Si è inoltre ipotizzato che in una comunità ristretta il pettegolezzo possa servire per preservare la stabilità dei gruppi e la loro convivenza pacifica. Sapere chi sono gli altri intorno a noi e cosa realmente fanno, aiuta a prevenire i conflitti e a garantirsi una certa sicurezza personale. Quando andiamo ad abitare in un nuovo condominio, ad esempio, ci si presenta agli altri in modo informale: diciamo più o meno chi siamo, cosa facciamo e qualche altra amenità, ma non raccontiamo certo il nostro stato di salute, quanto guadagniamo, se abbiamo debiti, se facciamo uso di sostanze, il nostro orientamento sessuale e se abbiamo relazioni extra-coniugali...

Tutte queste informazioni possono essere dedotte dagli altri, a partire da numerose ipotesi e indizi. Avere queste informazioni non è certo essenziale per gli altri condomini, ma è innegabile che si tratta di argomenti che, prima o poi, potrebbero tornare utili nel caso si rendesse necessario avere contatti o interessi comuni con il nuovo condomino. Avere il massimo delle informazioni possibili: ecco perché tutti sentono il bisogno di sapere di più sulle persone che frequentano e, per farlo, ricorrono senza scrupoli ai pettegolezzi. Essere oggetto di un pettegolezzo tuttavia non è mai piacevole e le persone fanno in effetti di tutto per evitare questa situazione (per questo motivo si è anche detto che i pettegolezzi favoriscono i comportamenti morali e virtuosi nella comunità...).

Spesso le dicerie, passando di bocca in bocca, vengono arricchite di commenti e particolari per rendere il pettegolezzo più "gustoso" per chi ascolta. Non tutti i pettegolezzi sono automaticamente maldicenze: si può dire ad esempio di una persona che "fa bene" a fare quello che fa, ma è sicuramente più frequente che i pettegolezzi richiamino le debolezze osservate nella persona, piuttosto che le sue virtù.

Il pettegolezzo trova spazio quando le persone hanno poco in comune e dunque non hanno discorsi o interessi da condividere: in questo caso si ricorre al pettegolezzo proprio per riempire dei vuoti, per superare momenti di silenzio o di noia. In genere si parte con qualche osservazione positiva o neutrale su una persona, per poi arrivare all'elenco delle cose negative che la riguardano.

Il pettegolezzo ha anche la funzione di permettere il confronto sociale: nei pettegolezzi infatti le persone vengono messe a confronto con altre e con se stessi e in questo modo si ha la possibilità di conoscere il proprio valore. A formulare questa teoria fu Leon Festinger (1954), il quale riteneva che le persone avessero un desiderio fortissimo di valutare le loro opinioni e abilità: nell'impossibilità di avere dei banchi di prova reali sui quali potersi confrontare, gli individui cercano di ottenere informazioni sulle reali capacità ed abilità degli altri attraverso i pettegolezzi.

Un altro aspetto, non irrilevante, del pettegolezzo è che esso è un importante strumento di potere, che può essere utilizzato al momento opportuno per distruggere la reputazione di rivali ed avversari. (Si pensi al gossip politico... In America quanti politici hanno dovuto rinunciare alla corsa presidenziale a causa dei pettegolezzi sulla propria vita privata?) Tuttavia, sapere le cose personali dei personaggi famosi o dei politici interessa molto non solo i colleghi o gli avversari, ma anche la gente comune. Il fatto di vedere queste celebrità al cinema, in televisione o sui giornali le rende vicine, per cui si comincia a sentire una certa familiarità nei loro confronti e si desidera sapere di più sulla loro vita privata. In questo modo, si parla per ore di persone mai viste e conosciute direttamente, come se fossero degli amici o dei familiari stretti: quella coppia si lascia, quell'altra aspetta un figlio, quegli altri si tradiscono, ecc...

È un gossip apparentemente inutile e superficiale, ma che è tuttavia importante nella comunicazione sociale perché fornisce un vocabolario comune. Parlare di questi personaggi, vicini e lontani nello stesso tempo, non rende indiscreti nei confronti degli altri, ma nello stesso tempo permette di creare un linguaggio condiviso che facilita la relazione e permette di affrontate argomenti spesso difficili e scabrosi (che per discrezione non verrebbero mai trattati citando situazioni personali).

Il gossip sui personaggi celebri serve inoltre per sognare, fantasticare, esplorare le proprie emozioni nel conoscere i particolari di vite completamente diverse: si può provare invidia, ammirazione, disgusto e tutto questo alimenta quello che chiamiamo "divertimento", cioè tutto ciò che può dare nello stesso tempo svago e piacere.

Infine, un discorso importante sulle dicerie che riguardano fatti non provati, ricevute da fonti anonime, a volte vere e proprie calunnie, capaci di distruggere la vita di una persona. Prima di rendersi responsabili della diffusione di un pettegolezzo troppo malvagio su qualcuno, varrebbe la pena di rifletterci su: come dice Paul Valery, "tutto quello che dici parla di te, in particolar modo quando parli di un altro".

5 tecniche infallibili per difendersi dai pettegolezzi. Il pettegolezzo passa talvolta da una chiacchiera innocente ad una offensiva ma cosa è davvero? Ecco come difendersi. Tuttasalute.net il 22 Gennaio 2013. Il pettegolezzo purtroppo fa parte della realtà quotidiana. Sul posto di lavoro, fra amici o in palestra è capitato a tutti di sentire o riferire qualcosa che riguardasse la vita privata o le abitudini di qualcun’altro. A volte può essere soltanto una chiacchiera innocente che non ha con sè malignità, mentre in altri casi può provocare molti danni. Il pettegolezzo talvolta si diffonde velocemente, trascinando nel fango  persone e le loro famiglie. In questo caso il pettegolezzo diventa vera e propria calunnia e arriva a provocare stati di turbamento e di ansia. In particolare, la situazione peggiore avviene quando il gossip riguarda l‘ambiente di lavoro. Il gossip, che in quel caso diventa mobing, può portare alla rovina di una carriera o alla dissoluzione di una famiglia, soprattutto quando colpisce comportamenti personali, gusti sessuali e altro. Esistono delle tecniche alle quali si può facilmente ricorrere per mettere a tappeto coloro che vi mettono al centro di un pettegolezzo.

La prima regola da seguire è cercare di sembrare indifferenti e superiori alle maldicenze. Quando si accorgeranno che voi non prestate il fianco e non siete colpiti, il tutto perderà sapore. E’ molto probabile che il gossip, così come è nato, sparisca nel nulla; cercate di essere sorridenti e calmi mantenendo sempre i nervi saldi.

La seconda regola, prevede che non ci si debba vendicare; si eviterà così di attizzare il focolare della maldicenza. Meglio essere indifferenti ed aspettare la giusta occasione per chiarire con fermezza ma gentilezza. Cercate un familiare o un amico sincero col quale confidarvi.

Questa terza regola è molto importante perchè permette di avere una valvola di sfogo; inoltre, la certezza di avere una persona amica pronta ad ascoltarci e a consigliarci è un ottimo antidepressivo. Vi sentirete spalleggiati e più forti; parlare ci permette di sentirsi meno soli ed è un modo per liberarsi dalle tensioni accumulate.

La quarta regola riguarda la tendenza, di noi tutti, ad esprimere dei pareri sugli altri. Sottolineare che non si ama il gossip, che si è contrari al pettegolezzo può diventare un vero bumerang. Oltre al fatto di essere giudicati come persone supponenti o snob qualcuno potrebbe notare che qualche volta pure voi avete detto qualcosa su un tale amico o collega. Quindi , il suggerimento è quello di evitare di salire sul piedistallo; è più saggio, non farsi coinvolgere in pettegolezzi mantenendo però sempre la cordialità e il buonumore.

La quinta regola prevede di affrontare apertamente coloro che mettono in giro le calunnie. Con molta calma e correttezza, provate a chiedere quale sia l’origine del suo rancore nei vostri confronti. L’obiettivo di questa chiacchierata deve essere quello di chiarirsi, non quello di arrivare agli insulti; per raggiungere il risultato siate gentili, corretti e non alzate la voce. Certamente, vedendosi scoperto e, soprattutto affrontato, il pettegolo o il gruppo di pettegoli sotterrerà l’ascia di guerra; dal canto vostro continuate a comportarvi come avete sempre fatto, evitando musi o atteggiamenti di scontro. In questo modo non darete appigli a chi cercherà di attaccarvi.

Infine, ricordate che coloro i quali godono di far del male agli altri, probabilmente non hanno altri motivi di gioia e di soddisfazione.

·         La Macchina del Fango? Parcheggiata a sinistra. La primogenitura della diffamazione mediatica.

LA “MACCHINA DEL FANGO”? E’ PARCHEGGIATA A SINISTRA. Donatella Aragozzini per “Libero quotidiano” il 12 agosto 2019. Per 33 anni è stato un uomo Rai, azienda che ha lasciato nel 2016 dopo aver ricoperto pressoché tutti i più importanti ruoli dirigenziali. Oggi, già presidente dell' APA-Associazione Produttori Audiovisivi, Giancarlo Leone è entrato nel Consiglio Superiore del Cinema e dell'Audiovisivo, l'organismo che svolge compiti di consulenza e supporto al MiBac.

Perché questa nomina è tanto importante?

«Perché mi permette di presidiare nell'interesse dell'intero sistema dell'audiovisivo, visto che dal Consiglio passano le principali proposte del Ministero».

Il settore audiovisivo sta diventando più forte di quello cinematografico?

«Sicuramente ha una maggiore presenza e i maggiori investimenti, più o meno 750-800 milioni del miliardo di euro circa che ogni anno viene investito nella produzione, per un'occupazione di circa 220.000 persone e il coinvolgimento di circa 6000 aziende. Già l'avvento della pay tv aveva dato un grande stimolo al mercato e negli ultimi anni, con la fruizione on demand, sono cambiate le modalità produttive e distributive. Il prodotto televisivo era considerato "minore" dall' intellighenzia, oggi ha la stessa dignità di quello cinematografico, che pure resta centrale».

Perché la fiction Rai ha tanto successo?

«Perché ha investito sui produttori indipendenti e su progetti di grande qualità, andando incontro alle esigenze internazionali».

E perché invece quella Mediaset stenta?

«Perché per molti anni non hanno creduto nell' investimento sulla serialità, ritenendo il rapporto costo/ascolto non conveniente. Ma se non produci e non metti in palinsesto un prodotto, abitui il pubblico a non guardarlo. La fiction è il genere più popolare, non c' è broadcaster che possa permettersi il lusso di non averla. Con l' attuale direttore, Daniele Cesarano, la situazione sta però cambiando».

L'Agcom ha preso posizione contro gli agenti che sono anche produttori, come Lucio Presta e Beppe Caschetto. Che ne pensa?

«Ritengo che ci deve essere una separazione netta delle funzioni, garanzia che tutto proceda senza privilegi da una parte e dall' altra. Gli agenti fanno un mestiere diverso da quello dei produttori e lo fanno in maniera eccellente, ma si altera il sistema se un produttore, rivolgendosi a loro per il cast, dialoga anche con dei concorrenti».

Perché ha lasciato la Rai?

«Perché a 60 anni avevo raggiunto i risultati più importanti e sentivo di aver dato tutto. Ho avuto le maggiori soddisfazioni come direttore di Rai1, tra le altre cose sono particolarmente orgoglioso dei due show di Benigni e di aver riportato Dario Fo in Rai. E poi, da amministratore delegato di RaiCinema, ho potuto imprimere una ripresa del cinema italiano perché, ampliando il listino con importanti titoli americani, ho ottenuto che in cambio venissero messi nelle sale anche i nostri film di qualità. Non mi interessava il ruolo di dg, tant' è che quando mi fu offerto dal governo, dopo le dimissioni di Campo Dall' Orto, gentilmente declinai. Era giunto il momento di fare altro».

Come vede oggi la tv di Stato?

«Non ho un' idea ancora chiara di dove stia andando. Avrebbe senso che concentrasse la propria attenzione sulle sue attività "core" perché non si può finanziare tutto: con troppi canali in chiaro, oltre all' offerta digitale di RaiPlay, il rischio è quello di dare un po' a tutti, senza concentrare lo sforzo su alcuni. Però Salini ha un buon progetto sulla riorganizzazione per generi».

Non trova la programmazione Rai un po' datata?

«No, affatto. C' è ripetizione di programmi e modelli ma anche sperimentazione e innovazione. Un esempio per tutti è il Festival di Sanremo, una gara di canzoni che potrebbe essere banalmente ripetitiva e invece ogni anno è capace di rinnovarsi e rigenerarsi. Ci può stare che il Grande Fratello sia stata l' ultima grande invenzione nell' intrattenimento, ma contrasta con la missione del servizio pubblico, è giusto che questi programmi restino sulle reti commerciali».

Reputa giusto il passaggio di Fazio a Rai2?

«Dal mio punto di vista l'errore è stato portarlo su Rai1, è stata una scelta incomprensibile.

Sarebbe stato meglio se fosse rimasto su Rai3 perché quel tipo di programma si porta dietro quegli ascolti, lui è stato bravo a non snaturarsi ma non poteva fare di più».

Come giudica la situazione politica?

«Sono politicamente apolide, mi astengo dal rispondere».

Eppure lei è figlio di Giovanni Leone, ha respirato la politica fin dalla nascita.

«Sì, da 0 a 8 anni ho vissuto a Montecitorio, perché mio padre era Presidente della Camera, e il sabato e la domenica pattinavo nel Transatlantico. E dai 15 ai 22 anni ho vissuto al Quirinale. Ma essere il figlio del Presidente della Repubblica è stato uno sprone a dare sempre il meglio, nello studio e nel lavoro, per dimostrare che quello che facevo non era dovuto al cognome».

Ha pensato di seguire le orme paterne?

«No, ho conosciuto talmente bene la politica, da starne lontano il più possibile».

Si riferisce allo scandalo che ha travolto suo padre?

«Sicuramente quella vicenda mi ha aperto gli occhi sul cinismo della politica. Mio padre era una persona onesta, come è poi stato riconosciuto, ma è stato oggetto di una campagna diffamatoria totalmente infondata del gruppo Repubblica-l' Espresso, perché non si capiva quale importante politico fosse stato corrotto dalla Lockheed (industria aerospaziale americana che pagò tangenti per vendere i propri aerei militari, ndr) e la sinistra, che voleva ribaltare il sistema, ha puntato alla carica più alta, il capo dello Stato. Camilla Cederna scrisse un libro con temi del tutto inventati, lei stessa ammise che la sua fonte principale era stata la OP di Mino Pecorelli, notoriamente un' agenzia diffamatoria».

La macchina del fango della sinistra non si è mai fermata, pensiamo agli attacchi a Berlusconi.

«Non c' è dubbio. La sinistra ha la primogenitura della diffamazione a livello stampa e ha mantenuto nel suo dna queste sue caratteristiche. Ma da quel momento l' attacco ai politici a livello mediatico ha riguardato un po' tutti».

·         La disinformazione, o no?

GLI ITALIANI NON LEGGONO I GIORNALI, MA SI FIDANO DEI GIORNALISTI? Da agi.it il 5 dicembre 2019. Gli italiani sono consapevoli dell’importanza di una “buona e corretta” informazione e del ruolo centrale che possono svolgere i professionisti dei media, ma ritengono che il “modello italiano” sia lontano da quello ideale. Il 70% degli italiani pensa infatti che i giornalisti facciano poco per veicolare un’informazione corretta e professionale: un ritratto aggravato dal 58,8% degli intervistati che vede i giornalisti più orientati a generare traffico piuttosto che a veicolare buona e corretta informazione. Sono i dubbi degli italiani sulla professionalità dei giornalisti ad emergere dal nuovo rapporto Agi-Censis “I professionisti dell’informazione nell’era trans-mediatica: grado di fiducia, elementi critici e attese degli italiani” realizzato nell’ambito del programma pluriennale “Diario dell’Innovazione” della Fondazione per l’Innovazione COTEC che indaga la reazione degli italiani di fronte ai processi innovativi. Ad illustrarlo il Presidente Censis Giuseppe De Rita con il direttore Agi Mario Sechi nel corso dell’evento “Il futuro dell’informazione: dalla storia d’Italia all’editoria 5.0” organizzato da Agi – Agenzia Italia presso il Piccolo Teatro Studio Melato di Milano.

Gli italiani si fidano dei giornalisti- il rapporto Agi-Censis. Con loro anche il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega all’Informazione e all’Editoria Andrea Martella che ha presentato le azioni previste nel nuovo piano del Governo Editoria 5.0 per aiutare il mondo dell’informazione. “Il sistema editoriale attraversa da almeno un decennio una crisi finanziaria profonda, che ha ormai assunto caratteri strutturali. Allo stesso tempo sono mutati i suoi connotati fondamentali” – ha dichiarato il Sottosegretario Martella – “Con riferimento all’informazione primaria, la sua natura di bene pubblico non solo giustifica, ma implica necessariamente un intervento statale. Il mio impegno sarà orientato a verificare tutte le possibili soluzioni, anche di natura legislativa, idonee ad assicurare il necessario sostegno al comparto delle agenzie di stampa, nel rispetto del principio del pluralismo dell’informazione”. Ma se il sentiment nei confronti del mondo dell’informazione è negativo, per gli italiani non è impossibile uscire da questa situazione. Il 69% degli intervistati è infatti convinto che “la capacità di raccontare, la completezza, il pensiero critico, la serenità di giudizi” siano prerogative esclusive dei giornalisti e il 52,7% ritiene che la navigazione casuale in internet non possa sostituire la lettura sistematica di un quotidiano. Recupero reputazionale, rigore professionale, maggiore dialogo e scambio con i lettori, capacità di adattamento al nuovo contesto sono le parole d’ordine che emergono dal Rapporto e che consentirebbero di riporre fiducia in un possibile futuro del giornalismo di qualità. “Da questa ricerca emerge chiaramente il ruolo delicatissimo di noi professionisti dell’informazione, in bilico tra la questione della disintermediazione e il mercato delle notizie, sempre più competitivo e alimentato da esigenze di immediatezza, straordinarietà, appeal del contenuto” – commenta il direttore Agi Mario Sechi – “Gli italiani ci lanciano un messaggio chiaro e preciso: abbiamo bisogno di voi, ma dovete cambiare. Ed è proprio in questa direzione che Agi intende procedere, con un modo di fare e raccontare l’informazione più vicino ai lettori, alle aziende, alle istituzioni. Per questo, oltre alle developing stories che consentono di vedere come una storia cresce e si evolve, per l’inizio del nuovo anno Agi metterà a disposizione una nuova e vasta gamma di prodotti, dai notiziari verticali ai podcast e alle newsletter dedicati alla politica, l’economia, la scienza, l’energia, il cibo e la mobilità sostenibile” continua Sechi “Il percorso di crescita e rinnovamento culminerà con la realizzazione del nuovo sito Internet agi.it: non un semplice restyling grafico ma un nuovo spazio multimediale rimanendo nella tradizione storica dell’agenzia accumulata in 70 anni di attività. Siamo pronti a far cambiare idea agli italiani!”.

Il nuovo panorama dell’informazione: dalla dimensione verticale a quella orizzontale. La produzione dell’informazione si è polverizzata perdendo la sua tradizionale dimensione verticale. Oggi l’informazione viaggia in orizzontale, con i lettori avvolti in una “nebulosa informativa”. Tutto ciò in un contesto generale dove si è assistito alla perdita di centralità della carta stampata, e più di recente alla crisi degli stessi media online, esposti alla micidiale concorrenza di chi oggi controlla sia la produzione dei contenuti che la loro distribuzione. Ci troviamo in un’era trans-mediatica dove la vendita della notizia tende a prevalere sulla modalità di confezionamento.

La domanda sociale di buon giornalismo. Il 52,7% degli italiani ritiene che la navigazione casuale in internet non possa sostituire la lettura sistematica di un quotidiano. Una consapevolezza che si sposa, visti i dati generali sull’acquisto di quotidiani, con un “vorrei ma non posso”. Ai giornalisti viene riconosciuto un ruolo centrale, con il 69% degli intervistati convinto che “la capacità di raccontare, la completezza, il pensiero critico, la serenità di giudizi” siano prerogative esclusive dei professionisti dell’informazione. In tutti questi casi si registra un’accentuazione tra coloro che dispongono di livelli di istruzione più elevati.

I dubbi sulla web-news experience. Gli italiani prendono le distanze da soluzioni che possano allontanare il mondo dei media da una costante attenzione verso la qualità di ciò che producono. Solo il 14%, infatti, prova emozioni positive rispetto alla possibilità che, grazie all’intelligenza artificiale, articoli di giornale possano essere scritti in modo automatico senza il ricorso a giornalisti, con un 42,8% che lo ritiene “inquietante”. Queste resistenze sembrano ridursi, con un 48% di favorevoli, nel momento in cui si restringe il campo ad ambiti di lavoro che appaiono effettivamente standardizzabili, come le previsioni del tempo, la borsa, gli eventi sportivi e i risultati elettorali.

Una reputazione da riconquistare. I dati mostrano come gli italiani siano consapevoli che il modello di informazione reale sia molto distante da quello reale. Il 70,1% degli intervistati ritiene che i giornalisti facciano poco per veicolare un’informazione corretta e professionale. Per le professioni giornalistiche serve quindi uno scatto d’orgoglio che punti ad un recupero reputazionale: il 58,8% degli italiani è convinto che oggi i giornalisti siano più orientati a generare traffico piuttosto che a veicolare buona e corretta informazione.

Il tema, particolarmente sentito, delle fake news. Per il 77,8% degli italiani quello delle fake news è un fenomeno pericoloso, anche perché a oltre il 50% degli utenti è capitato di dare credito a notizie false circolate in rete. Le persone più istruite, inoltre, ritengono che le fake news sul web vengono create ad arte per inquinare il dibattito pubblico (74,1%) e che possono favorire in qualche modo derive populiste (69,4%). Una particolare sensibilità riguarda il tema della salute: quasi 9 milioni di italiani ritengono di essere stati vittima di fake news in materia sanitaria nel 2019.

Nonostante tutto, è ancora possibile sperare in un futuro del giornalismo di qualità. È innanzitutto necessario, secondo il 63% degli utenti, e soprattutto per le donne (66,3%), un maggior dialogo e scambio con i lettori, coniugando rigore professionale e accessibilità, capacità di creare e alimentare communities. Una quota maggioritaria di italiani (59,1%) è poi molto interessata alla possibilità di ricevere notizie che rientrano nella sfera dei propri interessi specifici, percentuale che aumenta al crescere del livello socio-economico della famiglia di appartenenza. 

CI SEI O CI FAKE? Roberto Fabbri per “il Giornale” il 5 giugno 2019. Ventidue parenti ebrei sterminati ad Auschwitz e in altri campi dell' orrore nazisti. Solo una nonna sopravvissuta di un' intera grande famiglia cancellata dall' odio antisemita. E lei, una giovane storica poco più che trentenne con studi a Berlino, Lione e Los Angeles più un dottorato al Trinity College di Dublino in Irlanda destinata a raccogliere le loro storie dimenticate in un blog di grande successo e a registrarle debitamente presso lo Yad Vashem, il memoriale ufficiale dell' Olocausto in Israele. Una storia toccante e di successo: peccato che fosse inventata. E adesso Marie-Sophie Hingst sta cominciando a pagare il prezzo della sua fantasia davvero troppo fervida. La dottoressa Hingst aveva cominciato nel 2013 a trascrivere in un blog intitolato «Continua a leggere, mio caro, continua a leggere» i ricordi che la sua nonna ebrea le avrebbe trasmesso. Storie terrificanti e vivide, ricche di particolari drammatici sulla vita e sulla morte ad Auschwitz e in altri lager nazisti. Storie che Marie-Sophie, dotata di un brillante talento per il racconto, aveva saputo rendere così bene da conquistarsi l' attenzione di 250mila lettori. La giovane storica non si era limitata a questo: dopo aver condotto (così affermò) anni di ricerche d' archivio, nel 2013 prese un volo per Israele e si recò allo Yad Vashem per far registrare i nomi di 15 suoi parenti presuntamente sterminati nell' Olocausto. In seguito, per buona misura, inviò i nomi di altre sette persone per posta elettronica. Tanto zelo le valse nel 2017 il premio di blogger dell' anno della Golden Blogger, il già citato dottorato in Irlanda e una fama crescente. Tanto che la dottoressa Hingst cominciò a scrivere sotto pseudonimo sul rispettato settimanale Die Zeit e a presiedere eventi dedicati all' Olocausto tenuti a Berlino. Una collega esperta di genealogica, però, cominciò ad avanzare dei dubbi, seguita da altri scettici e spingendo la Hingst a contrattaccare, dicendosi vittima di pregiudizi ostili. La dottoressa Gabriele Bergner, però, aveva ragione: facendo quello che indubbiamente si sarebbe dovuto fare subito, cominciò a scavare nella storia familiare della blogger e mise a nudo le sue bugie. La famosa nonna ebrea non era mai esistita: si chiamava Helga Brandl, aveva fatto la dentista, era cristiana e aveva sposato un pastore protestante di nome Rudolf Hingst. Queste imbarazzanti menzogne sono costate alla fantasiosa storica tre conseguenze, queste sì, tombali: la chiusura del suo sito web, il ritiro del premio cui tanto teneva e la comunicazione allo Yad Vashem degli opportuni aggiornamenti sulla storia della sua famiglia. Nel frattempo, a valanga, sono emerse altre invenzioni ascritte alla Hingst, tra cui la fondazione di un ospedale per i poveri di Delhi in India e una meritoria quanto mai avvenuta attività di consulenza a favore degli immigrati siriani in Germania su come comportarsi nei rapporti con le donne tedesche. Il suo legale ha tentato un salvataggio fuori tempo massimo, sostenendo che l' opera della giovane storica fosse «letteratura, e non giornalismo o Storia» e negando che in essa siano state riferite falsità sul conto della sua famiglia. La cosa più buffa in questa vicenda è che a renderla pubblica sia stato il settimanale Der Spiegel. Buffa perché nello scorso dicembre proprio ad un suo cronista, Claas Relotius, era stato revocato il premio di giornalista d' inchiesta tedesco dell' anno: era stato scoperto che si inventava di sana pianta le storie che raccontava così bene, proprio come la dottoressa Hingst.

Noa, parlano i genitori: "Ecco come è morta..." I genitori di Noa Pothoven smentiscono la tesi dell'eutanasia: "Siamo a lutto. È morta domenica davanti ai nostri occhi". Angelo Scarano, Giovedì 06/06/2019 su Il Giornale. Adesso rompono il silenzio. I genitori di Noa Pothoven, la ragazza morta in Olanda, spiegano come sono andate davvero le cose e smontano la tesi dell'eutanasia per la figlia che era caduta in depressione a 17 anni dopo uno stupro. Dopo giorni di silenzio hanno deciso di parlare e di raccontare tutto: "Non è morta per eutanasia, ma si è lasciata morire domenica dopo aver smesso di mangiare e di bere. Era assistita da una equipe di medica", hanno fatto sapere con un comunicato diffuso da quotidiano olandese De Gelderlander. E di fatto adesso alle parole segue il momento del dolore. UIn grande dolore, quello di due genitori che hanno perso la figlia dopo il dramma che ha vissuto: "Siamo completamente in lutto per Noa, e quindi non possiamo assolutamente avere questa seccatura dai media. Anche noi non vogliamo avere niente a che fare con questo. Vogliamo la pace", hanno fatto sapere. In un primo momento si era diffusa la notizia che Noa avrebbe chiesto l'eutanasia. Tesi smentita dalle strutture sanitarie olandesi e adesso smentita anche dai genitori. La ragazza a quanto pare è stata vittima della sua stessa depressione che era sfociata nell'anoressia. Troppo grande quel dolore per uno stupro subito così giovane. "È morta domenica in nostra presenza", prosegue il messaggio dei genitori. Poi conclude: "Chiediamo gentilmente a tutti di rispettare la nostra privacy in modo che come famiglia possiamo osservare il lutto".

Un amico di Noa: “Soffriva molto aveva scritto lettere d’addio già a 11 anni”. Parla l’ultimo amico di Noa. L'ha salutata venerdì, due giorni prima della sua morte. Pietro Del Re il 7 giugno 2019 su La Repubblica. ARNHEM (OLANDA). «Venerdì scorso ho visto Noa nel suo letto di morte. Erano tutti consapevoli che la sua fine era vicina, lei per prima», dice Daan Brouwer, 22 anni, amico della diciassettenne morta domenica. Studente di fisioterapia e tassista per pagare la retta della scuola di specializzazione, Daan non si dà pace «perché se n’è andata via troppo presto e perché c’erano sicuramente altre strade da percorrere per salvarle la vita». Lo incontriamo in un caffè non lontano dalla Grote Kerk, la “grande” chiesa di Sant’Eusebio, il cui sproporzionato campanile fu scapitozzato durante la Seconda guerra mondiale e poi ricostruito ancora più mastodontico di prima.

Lei è andato a trovare Noa il giorno in cui ha smesso di assumere cibo. Come stava?

«Era già sedata. Parlava con un filo di voce, sorrideva mestamente, era serena. Il dolore psicologico può essere più feroce di quello fisico. Il suo è stato insopportabile. Mi ha dato l’idea di essere molto serena al pensiero che di lì a poco sarebbero cessate le sue sofferenze».

Le aveva mai confidato le sue pene?

«Sì, perché eravamo amici. Ma non mi ha mai parlato né del suo stupro né delle molestie sessuali che aveva subito. Mi raccontava invece delle terribili conseguenze della sua malattia psichica. Ciò che la faceva più soffrire era l’anoressia: il suo spaventoso rapporto con il cibo, il terrore di ingrassare e quello di ingerire cibi che temeva fossero veleno. Sopportava molto male anche tutto l’apparato medico-sanitario che da anni l’aveva inghiottita. Era diventata intollerante alle cliniche, ai farmaci, agli stessi psichiatri. Credo che una delle ragioni che l’abbiano spinta a farla finita sia proprio la “medicalizzazione” del suo male. Del resto è stata lei stessa a parlare nella sua autobiografia degli “infernali trattamenti sanitari obbligatori” e delle “umilianti misure coercitive” a cui doveva sottostare».

I suoi cari avrebbero potuto fare qualcosa di più per lei?

«Le è stata vicina tutta la sua famiglia, direi. Quanto alle possibili terapie per salvarla non dipendevano dai suoi genitori i quali una volta prescritte potevano solo assicurarsi che Noa le seguisse. Erano le diverse cliniche e i diversi medici che le imponevano tale o tale farmaco. Una volta Noa m’ha raccontato che le avevano infilato una specie di camicia di forza. E che nel corso di tutta la sua storia psichiatrica è questo l’evento che l’ha fatta più soffrire».

Si può far risalire l’origine della sua depressione e della sua anoressia alle diverse violenze sessuali subìte?

«Una volta sua madre mi raccontò che quando Noa aveva 11 anni, subito dopo il primo episodio di molestie sessuali, trovò in un cassetto della sua stanza una grande busta contenente tante lettere d’addio indirizzate sia ai genitori sia ai suoi più cari amichetti. Il suo profondo male di vivere ha origini lontane».

Eppure ha condotto strenuamente la sua battaglia per morire. Non le sembra che ci sia qualcosa di paradossale in un atteggiamento così vitale e combattivo?

«Noa era profondamente depressa, ma era anche una ragazza molto intelligente. Aveva capito che per combattere o meglio per contenere il suo male doveva accanirsi contro qualcosa. Per alleviare il suo dolore, era quella la sola àncora a cui aggrapparsi. Ora, mi sembra una scelta nobile di averlo fatto contro le istituzioni che non forniscono strutture sufficientemente adeguate per accogliere giovani nelle sue stesse condizioni. Combattere per gli altri le faceva in parte dimenticare le sue pene».

Lei stessa si definiva una “guerriera della malattia mentale”.

«Era proprio questo. Può immaginare la fatica che ha provato nello scrivere il suo libro. Anche perché raccontare il dramma in prima persona, per una schiva e pudica come lei, è equivalso a denudarsi davanti al mondo».

Quale ricordo conserverà di Noa?

«Uno soltanto: il suo meraviglioso sorriso».

Noa e la ribellione ai ricoveri «Così è umiliante». Pubblicato giovedì, 06 giugno 2019 da Elena Tebano su Corriere.it. Arnhem (Olanda) C’è stato un prima e un dopo per Noa Pothoven, la ragazza di 17 anni vittima di violenze sessuali che domenica scorsa è morta per aver rifiutato cibo e acqua, dopo aver chiesto invano l’eutanasia. È il trattamento a cui era stata sottoposta, contro la sua volontà, per impedire che l’anoressia le provocasse il collasso degli organi interni. Noa lo aveva spiegato a chi la conosceva, lo ha scritto nel libro pubblicato a novembre scorso, «Winnen of leren» («Vincere o imparare»): non voleva che la sua volontà fosse violata. Si è opposta con tenacia all’«umiliazione», come la definiva lei, dei ricoveri coatti, all’«orrore» delle vesti contenitive che dovevano evitare si facesse male con le sue mani, alle udienze davanti ai giudici che la facevano «sentire una criminale, anche se non ho mai rubato una caramella in vita mia», al «trauma» dell’isolamento. Ma nonostante i venti ricoveri, un internamento giudiziario in ospedale durato sei mesi, anni di terapie che non sono riuscite ad aiutarla, il suo deperimento era tale che i medici dell’ospedale Rijnstate di Arnhem le hanno indotto un coma farmacologico, le hanno inserito un sondino naso-gastrico per l’alimentazione forzata e somministrato farmaci in vena attraverso una flebo. È stato il punto di non ritorno. A dicembre scorso ha compiuto 17 anni, subito dopo si è insediata una commissione che ha riunito i medici dell’ospedale Rijnstate, quello di famiglia, il suo pediatra, lo psichiatra che la seguiva e poi la stessa Noa, il padre Frans e la madre Lisette. La legge olandese prevede che per le decisioni mediche che riguardano i minori fino a 12 anni siano responsabili i loro genitori, che tra i 12 e i 16 si debba sentire il parere del minore consultando la famiglia, che dopo i 16 anni gli adolescenti abbiano sia il diritto di decidere autonomamente sia quello al rispetto della privacy (quindi possono tenere i genitori all’oscuro di tutto), a patto che siano in grado di capire le conseguenze delle loro scelte. La commissione dell’ospedale, a inizio anno, ha accertato che Noa era capace di prendere decisioni sulla sua salute, che il suo desiderio di rifiutare alimentazione forzata e flebo e di avere invece cure palliative per morire «in modo umano» era legittimo. Anche se il padre e la madre erano convinti che «non volesse davvero morire, ma solo smettere di soffrire», hanno dovuto accettare la sua scelta. È difficile soltanto immaginare la sofferenza che l’ha portata a farla. Trapelava nelle grandi cicatrici rosa che le solcavano i polsi fino alle mani. Dai tentativi di suicidio che si sono ripetuti prima e dopo i ricoveri. Domenica Noa se ne è andata nel modo in cui voleva. È impossibile pensare che sia stata una vittoria, la parola che aveva scelto per il suo libro. Forse deve essere una lezione, perché non si ripeta più. Ieri ci sono stati i funerali in forma privata.

Testo di Noa Pothoven il 7 giugno 2019. Apro gli occhi a fatica. Una camera d'ospedale, un sacco di gente attorno al mio letto. Mi si richiudono subito. Non capisco che cosa stia succedendo. «Ehi, rieccoti qui» dice piano una voce. La luce accecante mi fa sbattere le palpebre, dopodiché socchiudo leggermente gli occhi. La voce è quella di mio padre. I miei genitori sono seduti accanto al letto. «Che cosa succede?» chiedo. «Sei stata in coma. Ieri e oggi. I farmaci per il coma non funzionavano bene, ne servivano troppi, quindi ti hanno già svegliata» dice la mamma. Tossisco e butto fuori del catarro. Ho del muco nei polmoni e un tubo infilato nel naso.

«Tra un attimo la dottoressa torna di nuovo».

«Cosa intendi con "di nuovo"?».

«Ti eri già svegliata prima, ma pensava che te ne saresti dimenticata».

Gli occhi mi si chiudono un' altra volta.

«Ehi, ciao». La pediatra entra nella camera.

Sorrido e rispondo al suo saluto.

«Avrai pensato molto...». «Eh sì».

«Oggi c' è stato un grande consulto. C' erano anche alcuni medici specializzati in terapia intensiva infantile, che hanno protestato con forza quando hanno saputo di quanti farmaci avevi bisogno per restare tranquilla. Ti sei svegliata due volte durante il coma, probabilmente perché il tuo corpo si era abituato a tutti quei farmaci. E quindi abbiamo deciso di svegliarti già oggi. Devi restare ancora un po' in ospedale, con la flebo e col sondino naso-gastrico. Se ti rifiuti, ti portano in un posto dove ti legano al letto» dice Fenna. «Durante il consulto c' erano anche il tuo psichiatra e i coordinatori delle tue cure. Come procediamo ora? Dove vuoi andare quando il tuo corpo riprenderà a funzionare?».

Noa si è lasciata morire, non è stata eutanasia. Olanda, perché le cure non l’hanno aiutata? Sara Volandri il 6 giugno 2019 su Il Dubbio. Non c’è stata nessuna eutanasia, nessuna “complicità” dello Stato olandese nella scomparsa della 17enne Noa Pothoven ritenuta troppo giovane e poco lucida per ricorrere alle procedure della morte assistita. La ragazza, afflitta da una feroce depressione, si è letteralmente lasciata morire nel suo appartamento, smettendo di mangiare e bere. Insomma, tutto lo sgradevole dibattito che si è scatenato attorno a questa triste vicenda, gli schieramenti contrapposti, le polemiche e gli anatemi, ruotavano attorno a una gigantesca fake news, come purtroppo accade sempre più spesso nel tritacarne mediatico moderno. In particolare in Italia i cui organi di informazione sono stati i più zelanti e i più sensazionalisti d’Europa nello sbattere in prima pagina la tragedia della povera Noa. La giovane che soffriva da anni di depressione e anoressia per due stupri subiti quando aveva 11 e 14 anni, non ce la faceva semplicemente più a vivere. Dopo vari tentativi di suicidio e una serie di ricoveri forzati per assicurarne l’alimentazione e una ripresa psicologica, la 17enne si era rivolta a una clinica dell’Aja per chiedere l’eutanasia, nascondendo ai genitori la sua drammatica scelta. A fine dicembre lei stessa aveva raccontato a un giornale che il permesso le era stato negato: «Pensano che sia troppo giovane per morire: pensano che dovrei completare la mia cura post- traumatica, attendere finchè non sia completamente cresciuta, aspettare fino a 21 anni. Sono devastata perchè non ce la faccio ad aspettare così tanto tempo». I genitori per curare la sua depressione avevano anche proposto l’elettroshock ma le era stato rifiutato sempre a causa della giovane età. Di fronte al rifiuto di Noa di sottoporsi a ulteriori trattamenti, i genitori, d’accordo con i medici, hanno acconsentito a non ricorrere all’alimentazione forzata. Noa ha usato gli ultimi giorni per salutare la famiglia e le persone a lei care. «L’amore è lasciar andare, come in questo caso». Nel suo ultimo messaggio, tutto il suo dolore: «Dopo anni di combattimenti, la battaglia è finita. Dopo una serie di valutazioni, è stato deciso che posso andarmene perchè la mia sofferenza è insopportabile. È finita. Da troppo tempo non vivo più, ma sopravvivo, anzi neanche questo. Respiro ma non vivo». Sulla questione è intervenuto l’italiano Marco Cappato, politico ed esponente dell’Associazione Luca Coscioni, che è stato il primo a spiegare che la notizia dell’eutanasia di Stato era una bufala: «Morire smettendo di mangiare e di bere è legale in quasi tutto il mondo, anche in Italia». Resta in ogni caso un senso di profonda amarezza per la morte di una ragazza così giovane, sopraffatta da un dolore estremo e insondabile, una ragazza che nessuno è riuscito ad aiutare. 

“Nessuna eutanasia: Noa si è lasciata morire”. Cappato smentisce la ricostruzione della stampa italiana sulla morte della 17enne olandese. Il Dubbio il 6 giugno 2019. «L’Olanda ha autorizzato l’eutanasia su una 17enne? I media italiani non hanno verificato. L’Olanda aveva rifiutato l’eutanasia a Noa. Lei ha smesso di bere e mangiare e si è lasciata morire a casa, coi familiari consenzienti. Si attendono smentite e scuse». Le parole di Marco Cappato svelano uno scenario del tutto nuovo sulla vicenda di Noa, la 17enne olandese che ha scelto di morire dopo una depressione innescata da uno abuso sessuale. Sarebbe infatti del tutto infondata la notizia diffusa ieri dai giornali italiani, secondo cui lo stato Olandese avrebbe dato l’ok alla sua eutanasia. La verità sarebbe infatti un’altra.  La giovane si sarebbe lasciata morire evitando di mangiare e bere. Ed è giallo anche sull’origine della notizia della presunta eutanasia e sulla quale molti politici italiani non avevano mancato di polemizzare. A cominciare da Giorgia Meloni che si era scagliata contro il governo olandese: “Io non mi arrendo e continuerò a lottare contro la cultura della morte, contro una società insensibile che abbandona le persone fragili e offre alle vittime solo la possibilità di morire per alleviare il dolore”.

Tanto moralismo per un falso tutto mediatico. No, non me la sento di entrare a gamba tesa nella vita di una famiglia che non conosco, non è relativismo, non è lavarsi le mani. È esattamente il contrario: rispetto e amore per la vita. Angela Azzaro il 7 giugno 2019 su Il Dubbio. La vera questione etica è quella che viene prima: prima dei commenti, dei tweet, dei post su facebook. È possibile che si commentino fatti così importanti, come quello della morte di una ragazza sofferente, senza neanche aver verificato bene la notizia, senza averla conosciuta…La vera questione etica è quella che viene prima: prima dei commenti, dei tweet, dei post su facebook. È possibile che si commentino fatti così importanti, come quello della morte di una ragazza sofferente, senza neanche aver verificato bene la notizia, senza averla conosciuta, senza sapere che cosa provava, che cosa hanno provato i suoi genitori, le sue sorelle, i suoi fratelli? Possibile che senza conoscere bene i fatti ci si senta in dovere di giudicare, di sentenziare, di stabilire il confine per gli altri del bene e del male? La storia di Noa a me lascia basita per queste ragioni. È una parabola perfetta del meccanismo di cui siamo succubi e che funziona più o meno così: una notizia mal data dai media tradizionali (senza alcuna verifica delle fonte), la sua diffusione sui social, migliaia e migliaia di utenti che la commentano, pardon: che emettono una sentenza sull’episodio in questione. Più che discutere si giudica, più che capire si infliggono anni di galera, più che elaborare una questione così delicata si preferisce linciare (i genitori). Ma ripercorriamola questa catena che conduce ai giudizi sommari e alla cattiva informazione. In origine ci sono giornali e tv. Spesso quando sentiamo parlare di fakenews pensiamo alle bufale che vengono proposte sui social da siti spesso anonimi. Fosse solo così ci sarebbe da preoccuparsi ma non da disperarsi. Purtroppo invece la fakenews riguardano anche l’informazione tradizionale. Nel caso di Noa, la prima notizia, quella che ha attirato l’attenzione suscitando le polemiche, era che la sua morte fosse un caso di eutanasia. Un’eutanasia a cui il governo olandese, attraverso la commissione preposta, aveva dato l’ok. Solo dopo l’intervento di Marco Cappato, cioè 24 ore dopo, si è chiarito che non si è trattato di eutanasia, non è prevista per i minorenni. La giovane Noa, che aveva subito due violenze sessuali a distanza di anni e che soffriva di anoressia e depressione, si è lasciata morire smettendo di mangiare e bere. I genitori, è il racconto che è emerso dopo, hanno più volte ricorso anche all’alimentazione forzata. Ma questa volta, la volta in cui Noa è morta, hanno accettato la sua ferrea volontà. La confusione con l’eutanasia continua a permanere, viziando il dibattito. Temi così delicati e divisivi richiederebbero ben altra attenzione da parte di chi fa informazione. In generale notizie così sensazionali andrebbero sempre prese con le pinze e sottoposte a tutte le verifiche possibili e immaginabili. Se questa attenzione vale per l’utente facebook, ancora di più dovrebbe essere una sorta di comandamento per chi è giornalista professionista. Ma nessuno dei giornali italiani il giorno dopo ha fatto “mea culpa”, sottolineando la propria negligenza. La smentita di Cappato è stata riportata come se nulla fosse accaduto. La responsabilità è sempre degli altri, mai la nostra. Il secondo anello della catena è l’utente dei social. Il tema della vita e della morte scatena discussione e commenti. C’è da capirlo. Il problema è ragionare su come avviene il dibattito. Più che un confronto, si procede per anatemi. In questi giorni sul caso di Noa si è letto di tutto: i genitori l’hanno abbandonata, l’hanno lasciata sola, nessuno l’ha capita. Lo sgomento è comprensibile. Ciò che invece è difficile da capire è la facilità con cui le persone si sentono in dovere di giudicare la vita degli altri senza conoscerla, senza sapere il grado di sofferenza o l’impegno che in quella vicenda hanno profuso. La morte di una giovane donna non può che destare dolore. Su questo nessuno ha dei dubbi. La contrapposizione, vi prego, non è certo tra chi difende la vita e chi invece no. Né si tratta di arrogarsi il diritto o il dovere di dire se la scelta di Noa sia stata giusta o sbagliata. Non siamo qui per stabilire la verità, per costruire dogmi anche sull’esistenza di una persona su cui abbiamo letto la notizia sbagliata. La domanda da porsi è se il dibattito social, così come si è sviluppato, aiuta a creare un “senso comune” su tematiche tanto delicate ma sempre più impellenti in una società ad alta tecnologia medica o se, al contrario, non si crei un senso di confusione che produce solo rabbia, disinformazione, incapacità di ascolto. No, non me la sento di entrare a gamba tesa nella vita di una famiglia che non conosco, di dire la mia sulla sofferenza altrui. Non è relativismo, non è lavarsi le mani davanti a una vicenda tanto importante. È esattamente il contrario: rispetto e amore per la vita, anche quella degli altri. Ma una cosa la voglio dire anche sul merito della questione. Più passano gli anni e mi occupo da cittadina e da giornalista di questioni legate alla bioetica, più rispetto tutte le posizioni. Ma proprio perché le rispetto penso che lo Stato debba garantire a tutte le persone l’autodeterminazione e la libertà di scelta. Per il resto discutiamo, anche animatamente, ma civilmente e a partire dai dati di realtà.

Vittorio Feltri e la morte di Noa in Olanda, il suicido della stampa: Libero non c'entra e l'Ordine tace. Libero Quotidiano il 6 Giugno 2019.

Accertato. La ragazza olandese di cui ieri tutti i giornali raccontavano la morte per eutanasia in realtà è deceduta perché non si nutriva più e non beveva più. Molte anoressiche fanno la stessa fine, incurabili e insensibili anche alle cure dei familiari. Pertanto la notizia che Noa sia stata uccisa con il benestare dello Stato è semplicemente falsa. Ciò nonostante è stata data con grande rilievo in prima pagina dalla totalità dei quotidiani, incluso il cattolico Avvenire, specialista in prediche contro lo scandalismo e generi affini. Addirittura i giornali hanno pubblicato in vetrina la fotografia della giovinetta pur sapendo che i minori non debbano figurare in effigie sui nostri fogli.

È vietato. Non c'è stato un sol collega che abbia controllato la fondatezza della notizia in questione e abbia rammentato che il volto dei bambini e degli adolescenti non possa essere riprodotto dalla stampa. Si tratta di impedire siano riconosciuti. Di conseguenza mi rivolgo all'Ordine nazionale dei giornalisti e in particolare a quello della Lombardia per denunciare l'accaduto e per sapere come si intende procedere per sanzionare coloro che hanno commesso il descritto abuso. Noi di Libero siamo sistematicamente perseguiti dalla corporazione per la qualità stilistica dei nostri titoli, addirittura veniamo sanzionati severamente poiché diciamo pane al pane e vino al vino, poi ci tocca assistere allo scempio commesso dai cronisti alle prese col dramma olandese senza che i giudici dell'Albo muovano un dito per punire i responsabili. Personalmente sono stato sospeso tre mesi dall'Ordine, ovvero condannato alla disoccupazione, per la famigerata vicenda Boffo soltanto perché il quotidiano del quale ero a capo raccontò una storia parzialmente vera nei dettagli. Risultato: il povero Boffo, direttore ai tempi di Avvenire, è scomparso dalla circolazione mediatica mentre io sono ancora qui a rompere i coglioni.

Ci sarà un motivo. Recentemente l'Ordine mi ha tirato le orecchie perché ho scritto che i criminali islamici sono da scartare, secondo i comandamenti di Trump. Adesso sono curioso di sapere come agirà nei confronti di chi ha enfatizzato la bufala riguardante Noa deceduta naturalmente e fatta passare per vittima delle istituzioni.

Non ho finito. Chiedo al presidente della commissione disciplinare, tale Colonnello, se intenda o meno comportarsi da caporale nel sorvolare sulla foto di Greta, 16 anni, la cui foto è apparsa illegalmente su qualsiasi media. Sono quasi certo che egli farà orecchio da mercante e continuerà a prendersela con noi, risparmiando i suoi amici di sinistra spinta. Vittorio Feltri

Effetto Noa: l'attrazione terribile per il suicidio. Giordano Bruno Guerri, Domenica 09/06/2019, su Il Giornale. La pubblicità è l'anima del commercio, si diceva una volta, e il principio si applica anche alla morte, per quanto assistita. Non sorprende che, dopo il tragico caso di Noa, la clinica olandese che si occupa di suicidio assistito sia stata sommersa da richieste provenienti da tutto il mondo: anche se con quella morte non aveva a che fare, per il solo fatto di essere stata citata. È la conferma che molti desiderano farla finita. Malati terminali cui resta soltanto dolore senza speranza, oppure depressi e infelici, rovinati o giovani disillusi, quando si accorgono che la vita è altra cosa da quello che credevano. Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, il suicidio rappresenta l'1,4 per cento dei decessi, è la diciassettesima causa di morte, e la seconda per i giovani fra i 15 e il 29 anni. Ogni anno si uccidono circa 800mila individui, uno ogni 40 secondi. Per ogni suicidio riuscito almeno 20 falliscono, segno forse di una scarsa determinazione, ma anche un calcolo certo: ogni due secondi qualcuno si accosta volontariamente alla morte. È vero, numeri e percentuali ci dicono che al momento il fenomeno è in calo quasi ovunque, da meno di 13 casi ogni 100mila abitanti nel 2000 a 10,6 nel 2016, con un calo ancora maggiore in Europa, da 21,8 a 15,4 per cento. In Italia siamo a poco più della metà, 8,2 casi ogni 100mila abitanti, ma non è con le statistiche che ci si consola: un'afflizione fatale è ovunque attorno a noi, e c'è da credere che il numero delle morti volontarie aumenterebbe, se suicidarsi fosse facile. La poetessa americana Dorothy Parker, morta con semplicità per un infarto a 74 anni, scrisse: «I rasoi fanno male; i fiumi sono freddi; l'acido macchia; i farmaci danno i crampi. Le pistole sono illegali; i cappi cedono; il gas fa schifo. Tanto vale vivere...». Vi si aggiunga l'orrore che si prospetta alla mente di un suicida solitario e clandestino: chi troverà il suo corpo? Quando? In quali condizioni? Un aumento delle «cliniche della morte», legali e a basso costo, provocherebbe dunque, forse, un aumento dei suicidi. Dico forse perché - probabilmente - invece, li limiterebbe, perché non si potrebbe andare in una di quelle cliniche come si va dal salumiere: «Mi dia una buona morte, bella veloce, mi raccomando». Forse può accadere in Svizzera, dove tutto è stato monetizzato e basta pagare 10mila euro. Ma la clinica olandese è l'esempio della civile applicazione di una civilissima legge. Non si lucra sul dolore disperante, prima si verifica se davvero ci sono la condizione e la convenzione. Chi si vuole uccidere è malato di sofferenza, fisica o mentale. Non lo si dovrebbe lasciare solo, o lo si aiuta a vivere o lo si aiuta a morire. Così, almeno, dovrebbe fare un bravo Stato con i suoi cittadini.

Facebook chiude 23 pagine che diffondevano fake news o messaggi violenti: “Metà a sostegno di Lega o M5s”. In totale, gli account oscurati raggruppavano quasi 2,5 milioni di follower, con 2,44 milioni di interazioni solo negli ultimi tre mesi. Tra le bufale diffuse, il video di un gruppo di immigrati che prendeva a calci un'auto dei Carabinieri. Ma si trattava della scena di un film. Il Fatto Quotidiano il 12 Maggio 2019. he per Davide Casaleggio, è il fondatore del nuovo movimento con Di Maio”. Facebook ha chiuso 23 pagine italiane che, in totale, raggruppavano quasi 2,5 milioni di follower. La decisione dei vertici del social media è arrivata a seguito di un’indagine del movimento cittadino Avaaz che ha raccolto numerosi messaggi che diffondevano informazioni false e contenuti anti-vaccini, antisemiti e contro gli immigrati a ridosso delle elezioni europee. Tra queste, oltre la metà erano a sostegno di Lega o M5s. “Ringraziamo Avaaz – afferma un portavoce di Fb – per aver condiviso le ricerche affinché potessimo indagare. Siamo impegnati nel proteggere l’integrità delle elezioni nell’Ue e in tutto il mondo”. Il portavoce ha poi spiegato che la scelta di rimuovere alcune pagine è legata al fatto che in molti casi si trattava di “account falsi e duplicati che violavano le nostre policy in tema di autenticità, così come diverse pagine per violazione delle policy sulla modifica del nome”. Sono anche stati presi dei provvedimenti per account “che hanno ripetutamente diffuso disinformazione. Adotteremo ulteriori misure nel caso dovessimo riscontrare altre violazioni”, conclude. Le 23 pagine chiuse, afferma Avaaz, “avevano in totale più follower delle pagine ufficiali di Lega (506mila follower) e Movimento 5 Stelle (1,4 milioni follower) messe insieme. Avevano inoltre generato oltre 2,44 milioni di interazioni negli ultimi tre mesi“. Facebook ha deciso di agire dopo che Avaaz ha segnalato numerose violazioni delle condizioni d’uso della piattaforma, come cambi di nome che hanno trasformato pagine non politiche in pagine politiche o partitiche, l’uso di profili falsi, contenuti d’odio. La pagina più attiva, spiegano gli attivisti, era Vogliamo il Movimento 5 stelle al governo, una pagina non ufficiale a sostegno del partito pentastellato. E tra le fake news diffuse da questa pagina ce n’era una, continuano quelli di Avaaz, su una “falsa citazione attribuita allo scrittore e giornalista anti-mafia Roberto Saviano, secondo la quale aveva dichiarato che avrebbe ‘preferito salvare i migranti che le vittime italiane dei terremoti’. Non l’aveva mai detto, ma è stato obbligato a negarlo pubblicamente”. La più attiva pagina a sostegno della Lega, invece, era Lega Salvini Premier Santa Teresa di Riva: “È stata quella – precisa il movimento cittadino – che di recente ha maggiormente condiviso un video che mostrava migranti intenti a distruggere una macchina dei carabinieri. Il video, che ha quasi 10 milioni di visualizzazioni, è in realtà una scena di un film e la bufala è stata smascherata molte volte negli anni, ma il filmato continua ad essere condiviso”. Avaaz aveva condotto un’indagine simile anche in Spagna, ottenendo un risultato simile: la chiusura da parte di Facebook di tre network di estrema destra che diffondevano disinformazione, per un totale di 17 pagine e 1,4 milioni di follower, a pochi giorni dalle elezioni politiche nazionali dello scorso aprile.

Avaaz, l'ong legata a Soros che segnala a Facebook le pagine fake. L'oscuramento delle pagine fake in Italia voluto da Facebook è arrivato dopo le segnalazioni di Avaaz, l'ong con sede a New York che ha profondi legami con il tutto il mondo progressista internazionale, Soros compreso. Roberto Vivaldelli, Domenica 12/05/2019 su Il Giornale. “Qualcosa si muove, finalmente. Qualche anno fa denunciai pubblicamente le pagine Facebook che rilanciavano fake news. Oggi, dopo mesi, dopo il referendum e le elezioni, finalmente pagine con milioni di visualizzazioni per notizie false e diffamanti sono state chiuse”. Il primo ad esultare sui social è l’ex premier Matteo Renzi: nella giornata di oggi, infatti, come riporta l’Ansa, Facebook ha chiuso 23 pagine italiane con oltre 2,46 mln di follower che "condividevano informazioni false e contenuti divisivi contro i migranti, antivaccini e antisemiti, a ridosso delle elezioni europee: tra queste, oltre la metà erano a sostegno di Lega o Movimento Cinque Stelle". La decisione è giunta grazie alle segnalazioni di Avaaz. "Ringraziamo Avaaz - afferma un portavoce di Fb - per aver condiviso le ricerche affinché potessimo indagare. Siamo impegnati nel proteggere l'integrità delle elezioni nell'Ue e in tutto il mondo". Le 23 pagine chiuse, afferma Avaaz, "avevano in totale più follower delle pagine ufficiali di Lega (506mila follower) e Movimento 5 Stelle (1,4 milioni follower) messe insieme. Avevano inoltre generato oltre 2,44 milioni di interazioni negli ultimi 3 mesi". La pagina più attiva, rende noto l’organizzazione non governativa con sede a New York, era "Vogliamo il movimento 5 stelle al governo", una pagina non ufficiale a sostegno del Movimento 5 Stelle: quella a sostegno della Lega, invece, è 'Lega Salvini Premier Santa Teresa di riva’. Come spiega l'ong che collabora con Facebook ”è stata quella che di recente ha maggiormente condiviso un video che mostrava migranti intenti a distruggere una macchina dei carabinieri”. Fin qui, nulla di strano. La disinformazione sui social network esiste e sono numerose le pagine, che pubblicano contenuti che violano le regole della piattaforma. Tuttavia, non si può ignorare il fatto che Avaaz non sia un organo imparziale ed è facilmente dimostrabile che le segnalazioni della ong fondata da Ricken Patel nel 2007 siano politicamente orientate e tutt’altro che super partes. Lo dimostrano le battaglie politiche dell’organizzazioni e i finanziamenti di cui ha beneficiato. avaaz.org, infatti è stata co-fondata da Res Publica e dal gruppo progressista MoveOn.org. Quest’ultimo, vicino al partito democratico americano, ha ricevuto nel 2004, secondo il Washington Post, "1,6 milioni di dollari da "George Soros e sua moglie". Come conferma anche Asra Q. Nomani sul Wall Street Journal, parlando delle proteste progressiste contro il giudice conservatore Kavanaugh “MoveOn.org l’organizzazione vicina ai democratici e fondata grazie al denaro di Soros, ha inviato al suo esercito di seguaci un modulo dove poter richiedere i biglietti del treno per arrivare a Capitol Hill”. Come riporta quest’inchiesta, il primo nome associato all’organizzazione no-profit che, secondo il Guardian, “si fonda totalmente sulla generosità dei singoli membri, che hanno consentito di raccogliere oltre 20 milioni di dollari” è quello del Ceo, il canadese Ricken Patel. Prima di co-fondare la comunità online ha lavorato per Rockerfeller Foundation, la Gates Foundation e per International Crisis Group, oltre ad essere stato volontario di MoveOn.org, come racconta il Times. Tom Perriello, il secondo nome sulla lista dei fondatori di Avaaz è un "funzionario del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti", nonché un avvocato, che "e già rappresentante della Virginia presso il Congresso degli Stati Uniti”. Ovviamente, è un membro del Partito democratico americano. Le battaglie politiche della comunità online la dicono lunga su quanto sia schierata e "partigiana". Nel 2018, per esempio, come ricorda Gli Occhi della Guerra, Avaaz ha lanciato una petizione contro l’organizzazione dei Mondiali in Russia. Nel mirino c'erano Vladimir Putin e il presidente siriano Bashar al-Assad: “Da tutto il mondo vi chiediamo con forza di opporvi ai crimini contro l’umanità che la Russia sta perpetrando in Siria: non andate a giocare i Mondiali in Russia. Onorare il regime russo ai mondiali vorrebbe dire condonare questa violenza, e nessun Paese, squadra o giocatore dovrebbe farlo”. C’è poi l’Italia, che all’ong americana sembra interessare particolarmente, almeno durante il periodo elettorale. Nel febbraio dello scorso anno, come scriveva Franceso Boezi su IlGiornale.it, Avaaz invitava a votare contro la coalizione di centro-destra data per vincente in tutti i sondaggi: tant’è che sulla sua pagina Facebook veniva pubblicato un video dal contenuto eloquente: "La coalizione Berlusconi Salvini Meloni è quasi maggioranza. Maggioranza. Ma possiamo fermarli, basta votare per il candidato con più possibilità di battere la destra nel tuo collegio. Il quattro marzo vota con la testa”.

Tutti i sospetti sulla Ong che denuncia le fake news. Avaaz è la più potente rete di attivisti online. Megafono per l'intervento in Libia e contro Lega e Forza Italia. Gian Micalessin, Martedì 14/05/2019, su Il Giornale.  Facebook s'è scelta un giudice e l'ha incaricato di liberare le sue pagine dalle false notizie. Quel giudice globale si chiama Avaaz e in Italia ha già fatto chiudere 23 pagine sospette. Non abbiamo elementi per negarne la colpevolezza, ma in questa grande caccia agli untori, colpevoli d'incrinare le certezze degli elettori e le verità algoritmiche di Mark Zuckerberg, anche la competenza, l'indipendenza e la neutralità del giudice prescelto rappresentano incognite non da poco. Dietro Avaaz, in sanscrito antico «la voce», lavora un'associazione online messa in piedi nel 2007 dai circoli più «progressisti» e «politicamente corretti» degli Stati Uniti. Un'associazione che grazie a finanziamenti non sempre trasparenti si trasformerà in quella che il quotidiano Guardian definisce «la più ampia e potente rete di attivisti on line». Talmente potente da diventare, nel 2011, il megafono globale della campagna per l'intervento in Libia spingendo Obama ad avvallare la no fly zone voluta da Parigi e ottenere la caduta di Muhammar Gheddafi. Una campagna seguita, nel 2015, dai finanziamenti per oltre mezzo milione di dollari a quel vascello del Moas, vero battistrada di tutte le Ong arrivate poi a traghettare migranti in Italia. Non paga dei disastri libici, Avaaz garantisce il suo sostegno politico ed economico anche alla rivolta siriana costata 400mila vite arrivando, nel 2016, a invocare una no fly zone in difesa delle zone di Aleppo occupate da Jabhat Al Nusra, la costola siriana di Al Qaida. Sul fronte italiano, la plateale partigianeria di Avaaz non è meno spregiudicata. Qui i suoi agit-prop promuovono nel 2013 le campagne per la cacciata dal Senato di Silvio Berlusconi. E al grido di «Salvare Berlusconi è illegale» lanciano una campagna di firme per far pressioni sui settori del Pd poco convinti della necessità di far decadere il Cavaliere. Solo cinque anni dopo, Avaaz è il fulcro della campagna online che invita gli elettori del Sud Italia a votare i pentastellati per fermare l'avanzata di Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia. «Il movimento cittadino Avaaz lancia un appello per unire gli elettori contro l'estrema destra - annuncia nel febbraio 2018 - votando per il candidato che ha più possibilità di batterli: la coalizione di centrosinistra o il Movimento 5 Stelle». Guarda caso è proprio in Sicilia e nel Sud che si concretizza nel marzo 2018 il successo dei pentastellati. Visto l'attivismo nello spostare voti, attirar migranti e attaccare Berlusconi, bisognerebbe chiedersi se Avaaz stia dalla parte dei giudici, come propone Facebook, o da quella degli imputati. Ma l'ambiguità di Avaaz non è l'unica. Pensate a «Newsgard» il «guardiano delle notizie» (letterale) scelto da Microsoft - e pronto a sbarcare in Italia - per proteggerci da siti colpevoli di far il giochino di Russia, movimenti sovranisti o gruppi illiberali. Anche qui la presunta indipendenza è resa dubbia dalla presenza nel comitato di consulenza del danese Anders Fogh Rasmussen, ex-segretario generale Nato fondatore di «Alliance of Democracies Foundation», il cui obiettivo è tenere l'Europa lontana dall'influenza russa. La grande battaglia per la «verità» sembra nascondere il tentativo di far spazio a un'«unica» verità. E a giudicare dai risultati delle campagne di Avaaz in Libia, Siria e sud Italia questo non sembra un gran bene.

Laura Cesaretti per “il Giornale” 13 maggio 2019. L' accusa è precisa: «Affermo pubblicamente che Salvini ha usato parte dei 49 milioni di euro (i fondi spariti al centro di varie inchieste per riciclaggio e finanziamento illecito, ndr) per creare La Bestia, lo strumento di disinformazione della Lega». La sfida è chiara: «Sono curioso di capire se sarò querelato». Matteo Renzi torna in pista, con una lunga intervista su Repubblica, e sembra annusare nell' aria capitolina guai grossi in vista per il capo del Carroccio. Un po' come, nell' ormai lontano 2009, Massimo D' Alema «fiutò» l' aria delle procure attorno al governo Berlusconi e avvertì che, di lì a poco, sarebbero arrivate «scosse» e che l' opposizione doveva essere «pronta» ad affrontarle. Ora l' ex premier Pd affonda il colpo sui 49 milioni, dei cui oscuri passaggi di mano e destinazione si stanno occupando diverse procure, e aspetta la risposta. Che arriva, esattamente nei termini che Renzi aveva previsto: «Non querelo quasi mai nessuno - spiega il vicepremier leghista- Se avessi dovuto querelare Renzi tutte le volte che mi ha insultato... Tanto lo stanno giudicando gli italiani». Insomma, Salvini preferisce lasciar cadere l' accusa di aver usato quei fondi (su cui i tribunali hanno calato la mannaia del sequestro) per alimentare la sua macchina della propaganda denominata, in modo poco rassicurante, «La Bestia». Ma Renzi non molla l' osso, evidentemente convinto che «il tempo è galantuomo» e quei nodi, per il capo leghista e per i partiti che guadagnano voti diffondendo «fake news» facendo «pagare il contribuente», arriveranno al pettine: «Nei prossimi mesi ci saranno novità», assicura, e «Salvini ha una paura matta della verità». Poi avverte: «Salvini non è un pericolo per la democrazia. Dirlo lo trasforma in martire e ci porta a giocare la partita che lui vuole giocare. Salvini è qualcosa di diverso, forse persino di peggio: un seminatore di odio, un predicatore di intolleranza. Il pericolo per la democrazia casomai deriva dall' utilizzo spregiudicato di fake news sui social». Ed è di questa operazione di diffusione di contenuti destinati a provocare «paura e intolleranza» che l' ex leader del Pd accusa la macchina comunicativa del capo del Carroccio. Macchina costosa, la «Bestia», che serve a produrre e propagare i continui messaggi social del Capitano, calibrati nei toni e nei destinatari dall' ampio staff guidato da Luca Morisi: martellamento costante di autopromozione, che ora è quasi interamente a libro paga del Viminale: il «Sistema Intranet» che gestisce le pagine social di Salvini, è curato da Morisi e Andrea Paganella, oggi stipendiati rispettivamente come consigliere strategico e capo della segreteria. Sotto di loro lavorano i quattro membri del «team social» salviniano (tra cui il figlio di Marcello Foa), tutti assunti al ministero. Il costo totale, per le casse pubbliche, è di 314mila euro l' anno, senza contare i 90mila del capo ufficio stampa Pandini: la «Bestia», ha calcolato l' Espresso, ci costa circa mille euro al giorno. Ma è sulla fase precedente all' arrivo al governo di Lega e Cinque Stelle che si concentra l' attenzione di Renzi, che da tempo chiede una commissione parlamentare d' inchiesta «sulle fake news», sui legami tra «La Bestia» di Salvini e le aziende pubbliche, per capire se parte dei 49 milioni sottratti dalla Lega sono finiti a Morisi e se la Casaleggio Associati prende soldi da soggetti pubblici». In Parlamento è stata anche depositata, nel novembre 2018, una interrogazione Pd che poneva le stesse questioni al ministro dell' Interno. Interrogazione rimasta senza risposta. Ora però attorno Salvini sembra crescere l' assedio: il caso Siri, l' inchiesta lombarda che lambisce Giorgetti, la procura di Genova che dà la caccia ai 49 milioni. E Renzi si dice certo che qualche «novità» sia in arrivo.

 CI MANCAVA SOLO IL “MINISTERO DELLA VERITÀ”. Antonio Grizzuti per “la Verità” il 14 maggio 2019. Sbarcano anche in Italia i guardiani delle notizie e inevitabilmente il pensiero corre al «ministero della Verità», uno dei quattro dicasteri descritto nel romanzo 1984 di George Orwell, quello responsabile della vigilanza sull' informazione e sulla propaganda. Da ieri, infatti, è attivo nel nostro Paese il servizio offerto da Newsguard, una startup fondata l' anno scorso negli Stati Uniti che si occupa di svolgere «ricerche sulle testate giornalistiche online per aiutare i lettori a distinguere quelle che fanno realmente giornalismo, da quelle che non lo fanno». Il meccanismo è piuttosto semplice: è sufficiente installare l' apposita estensione nel proprio browser e da quel momento in poi, ogni qual volta si visiterà un sito di informazione, nella barra a fianco all' indirizzo apparirà un simbolo verde (rispetta i parametri di credibilità e trasparenza), rosso (non affidabile) oppure giallo (satira). Dietro a quello che può apparire un banale giochino tecnologico c' è in realtà un lavoro imponente. Nell' esaminare un sito, la redazione di Newsguard prende in considerazione nove criteri, cinque relativi alla credibilità (pubblicazione di contenuti falsi, raccolta di informazioni in modo responsabile, correzione e spiegazione degli errori, gestione della differenza tra notizie e opinioni, titoli ingannevoli) e quattro alla trasparenza (dichiarazione sulla proprietà e sui finanziamenti, distinzione dei contenuti pubblicitari, informazioni sui responsabili e presenza di conflitti di interesse, nomi e profili degli autori dei contenuti). A ciascuno di essi corrisponde un punteggio: se il sito raggiunge almeno 60 punti verrà giudicato affidabile, altrimenti si beccherà il bollino rosso. Se necessario, prima di pubblicare la valutazione, gli analisti potranno contattare gli autori dei contenuti sotto esame per chiedere chiarimenti. Bocciati, tanto per fare qualche esempio, il portale conservatore Breitbart, e i siti di informazioni russi Sputnik news e Russia Today. Può capitare poi che una testata nel complesso sia valutata affidabile ma allo stesso tempo riceva un voto negativo in uno o più criteri, come nel caso di Corriere e Repubblica: entrambi infatti risultano insufficienti nella correzione puntale degli errori e non forniscono informazioni sufficienti sugli autori dei contenuti. Newsguard nasce nel 2018 negli Usa e i suoi fondatori sono Gordon Crovitz, una laurea in legge a Yale e un passato come editorialista al Wall Street Journal, e Steven Brill, fondatore di diverse testate. Nel ruolo di senior advisor troviamo gli italiani Silvia Bencinelli (tra i conduttori della rassegna stampa di Radio3) e Giampiero Gramaglia (trent' anni all' Ansa, oggi direttore di Affarinternazionali.it). Il debutto di Newsguard arriva in piena campagna elettorale per le europee e all' indomani della notizia della chiusura di 23 pagine Facebook, in gran parte vicine a Lega e M5s, accusate di diffondere fake news. Nel Regno Unito, fanno sapere i cacciatori di notizie false, i siti etichettati come inaffidabili sono circa il 15% di quelli presi in considerazione. Ma basta guardarsi intorno per capire che quello in cui ci troviamo immersi è un clima da caccia alle streghe. «Non pretendiamo di rappresentare la verità assoluta», spiega Steven Brill, «ma la credibilità è il nostro core business, il nostro successo dipende dall' essere credibili e affidabili». La domanda che inevitabilmente ci attanaglia però è sempre la stessa: chi controllerà i controllori?

«L’offensiva anti fake? Difficile svuotare un oceano di menzogne». Oreste Pollicino, esperto Ue: «Il codice di auto regolamentazione tra i social viene monitorato. Serve una sinergia tra loro e le istituzioni, da tarare in un tavolo tecnico» Il Dubbio il 14 Maggio 2019. Facebook ha deciso domenica di cancellarne ben ventitré. Ma le pagine che propagandavano odio e fake news saldamente schierate a fianco di Lega e 5 Stelle potrebbero essere soltanto la punta dell’iceberg. Nel rapporto che l’ong Avaaz ha consegnato ai vertici di Menlo Park, il business dell’intolleranza sembra contare infatti su numeri ben più ampi. Ad aver violato le regole del social di Zuckerberg, ci sarebbero infatti altre 14 sottoreti coordinate che vedrebbero coinvolte ben 104 pagine divise in sei gruppi che contano su 18,26 milioni di follower e 23 milioni di interazioni negli ultimi tre mesi. Un vero oceano di menzogne e provocazioni quotidiane, che la Commissione europea ha tentato di arginare già a partire dall’anno scorso, quando ha affidato a un task force di 39 esperti il compito di elaborare una strategia contro l’odiosa tirannide della disinformazione. Della squadra anti- fake news, fa parte in rappresentanza dell’Italia anche Oreste Pollicino, giurista e docente di diritto costituzionale all’Università Bocconi di Milano.

Professore, sono state appena chiuse 23 pagine di fake news. Ed altre ancora sono già nel mirino. I social hanno cominciato a reagire contro le bufale dopo anni di inerzia?

«Difficile desumere da un singolo evento un quadro d’insieme più articolato. Ma certamente siamo in presenza di un importante indizio. Anche se i social non sono mai stati del tutto inerti neppure in passato, da qualche tempo hanno cominciato ad assolvere alle richieste formulate dal comitato dei saggi di cui faccio parte, che sono poi confluite nel codice di autoregolamentazione contro le fake news di cui le piattaforme si sono dotate per affrontare il fenomeno. Hanno cominciato a cooperare maggiormente con l’autorità pubblica, ma sono diventate più sensibili anche alle segnalazioni di società competenti e di privati».

Però è come provare a svuotare il mare con un cucchiaino. Le pagine dell’odio sono a migliaia. Come riconoscerle?

«Dei passi in avanti ci sono stati. Proprio come accaduto nel caso delle pagine social chiuse di recente, spesso all’origine degli spazi dei disinformatori professionali ci sono pagine di intrattenimento o di marketing che nel tempo hanno variato la loro denominazione, ma hanno traghettato nella nuova “destinazione d’uso” della pagina anche gli utenti e i vecchi followers. Parliamo di persone che si sono spesso ritrovate ad essere sostenitori di un partito o di un altro, a loro insaputa. Una circostanza che può certamente profilare un danno a quella consapevolezza critica che è alla base del diritto di voto».

Dalle elezioni americane alla Brexit, le fake news hanno giocato un ruolo non indifferente. Eppure né le leggi né i social sono ancora riusciti a fornire una risposta concreta a quello che è un vero pericolo per la democrazia. Come mai?

«Ai sensi delle direttive europee i social non sono obbligati a effettuare un monitoraggio preventivo dei contenuti. Tra l’obbligo e l’inerzia, esistono tuttavia decine di sfumature. La strada migliore per contrastare le fake news è al momento quella della cooperazione tra piattaforme e istituzioni. L’obiettivo da centrare è quello di creare man mano una best practice che possa essere d’esempio per tutte le altre realtà social che si fondano sulla condivisione».

A gennaio dell’anno scorso la Commissione europea ha accettato il codice di condotta di cui hanno deciso di dotarsi i social contro le fake news. Ma è stato stabilito anche che se lo stesso non dovesse rivelarsi efficace, Bruxelles provvederà a varare una normativa europea più vincolante. La legge arriverà oppure no?

«In questo momento siamo in una fase di monitoraggio del codice di autoregolamentazione che si sono dati i social. Ci troviamo insomma in una fase transitoria che dovrà descrivere un quadro di insieme più ampio. Difficile dire tuttavia che cosa accadrà al termine della fase di sperimentazione. Le prossime europee rendono impredicibile il futuro».

La task force europea di cui fa parte ha avuto un ruolo importante nel disegnare la strategia di contrasto alla disinformazione. Quali sono le linee guida che avete individuato voi esperti?

«Alla base di tutto ci sono due pilastri. In primo luogo abbiamo segnalato la necessità di una sinergia tra social e istituzioni, da mettere a punto attraverso un tavolo tecnico, un codice di condotta o un gruppo di esperti. In secondo luogo è assolutamente necessario puntare all’educazione digitale degli utenti. Comuni e regioni devono investire con maggiore decisione sull’educazione di dei giovani ai nuovi media».

In tanti sono però scettici sulla guerra alle fake news. Dicono che è impossibile abolire le bufale per decreto. È così?

«Anche le false notizie rientrano nel campo della libertà d’espressione. Il diritto a mentire certamente esiste, ma può essere contrastato nella misura in cui esso va oltre il diritto individuale e pregiudica l’interesse collettivo al diritto costituzionalmente tutelato di essere informati».

È venuto il momento di staccare la spina ai social network. L’analisi del New York Times: con Facebook Mark Zuckerberg ha creato un “leviatano” che divora i concorrenti restringe la scelta del consumatore e viola il suo diritto alla privacy. Chris Hughes il 14 Maggio 2019 su Il Dubbio. L’ultima volta che ho visto Mark Zuckerberg era l’estate del 2017, alcuni mesi prima che scoppiasse lo scandalo di Cambrige Analytica. Ci incontrammo al Campus di Facebook a Menlo Park, in California, e da lì mi portò a casa sua, in un tranquillo e rigoglioso quartiere.  Passammo insieme un’ora o due mentre sua figlia piccola ci girava intorno.  Parlammo soprattutto di politica, un po’ di Facebook, e un po’ delle nostre famiglie. Quando le ombre crebbero lunghe, dovetti andar via. Abbracciai sua moglie, Priscilla, e dissi addio a Mark. Da allora, la sua reputazione e quella di Facebook è crollata. Le scorrettezze dell’azienda sono su tutte le prime pagine. Sono passati 15 anni da quando fondammo insieme Facebook ad Harvard, e non lavoro con lui da almeno dieci, ma mi sento comunque responsabile. Mark è ancora la stessa persona di allora, una brava persona. Ma è proprio questo a rendere il suo potere incontrollato un problema. La sua influenza è sbalorditiva, molto più di chiunque altro nel settore privato o nel governo.  Controlla tre principali piattaforme di comunicazione – Facebook, Instagram e Whatsapp – che miliardi di persone usano tutti i giorni. Il comitato di Facebook è un organo più consultivo che di sorveglianza, perché Mark controlla circa il 60% delle quote. Stabilisce da solo le regole per distinguere un linguaggio violento da uno offensivo, e può scegliere di silenziare un avversario acquisendolo, bloccandolo o copiandolo. Preoccupa che l’ambizione lo abbia portato a sacrificare sicurezza e civiltà in cambio di un click. Sono deluso da me stesso per non aver capito che gli algoritmi avrebbero potuto cambiare la nostra cultura, influenzare le elezioni e rafforzare i leader nazionalisti. E temo che Mark si sia circondato di persone che rinforzano le sue idee piuttosto che combatterle. Il governo deve ritenerlo responsabile. La sanzione di 5 miliardi che ci si aspetta gli imponga l’agenzia federale per il controllo sul mercato, non sarà sufficiente. Il potere di Mark è senza precedenti, “non americano”. E’ tempo di rompere con Facebook. L’America è stata costruita sull’idea che il potere non dovrebbe concentrarsi in una sola persona, perché siamo tutti vulnerabili. Proprio per questo i fondatori di Facebook hanno creato un sistema di controlli e contrappesi. Non c’era bisogno di prevedere il suo successo per comprendere la minaccia che una società gigantesca avrebbe posto alla democrazia. Jefferson e Madison erano voraci lettori di Adam Smith, secondo il quale i monopoli impediscono la competizione, che invece fa crescere l’economia. Negli ultimi 20 anni più del 75% delle industrie americane, dalle compagnie aree a quelle farmaceutiche, hanno creato concentrazioni sempre più grandi, e la grandezza media delle società pubbliche è triplicata. La stessa cosa sta accadendo ai social media e alla comunicazione digitale. Dal momento che Facebook domina i social, non deve affrontare le responsabilità basate sul mercato. Questo vuol dire che ogni volta che Facebook commette degli errori, ripetiamo uno schema inesausto: prima l’indignazione, poi la delusione, infine la rassegnazione. Nel 2005, ero nel primo ufficio di Facebook in Emerson Street a Palo Alto, quando lessi la notizia che la News Corportation di Rupert Murdoch stava acquisendo il sito di social network Myspace per 580 milioni di dollari. Sentii un “wow” e la notizia rimbalzò silenziosamente attraverso la stanza. I miei occhi si spalancarono. 580 milioni di dollari, sul serio? Facebook stava gareggiando con Myspace, anche se indirettamente. I nostri utenti erano più coinvolti, con visualizzazioni giornaliere. Se Myspace valeva così tanto, Facebook avrebbe potuto valere almeno il doppio. Fu questa spinta alla “domininazione” che portò Mark ad acquisire negli anni dozzine di società, comprese Instagram e Whatsapp nel 2012 e nel 2014. Facebook è passato da un progetto sviluppato dalla stanza di un dormitorio universitario a una società seria con tanto di avvocati e un dipartimento di risorse umane. Avevamo quasi 50 impiegati, e le loro famiglie facevano affidamento su Facebook per mettere il piatto in tavola. Mi resi conto che non sarebbe mai finita: più diventiamo grandi, più dovremo lavorare per continuare a crescere. Quasi un decennio dopo, Facebook ha guadagnato il prezzo del suo dominio. Vale mezzo trilione di dollari e comanda, secondo la mia stima, più dell’ 80% del fatturato mondiale dei social network. Questo spiega perché anche nell’anno peggiore per Facebook, il 2018, il suo guadagno per azioni crebbe del 40% rispetto all’anno precedente. Il suo monopolio è visibile anche nelle statistiche. Il 70 per cento degli americani adulti usa abitualmente i social media, e la maggior parte di essi è su Facebook. Quasi due terzi usa il sito principale, un terzo usa Instagram e un quinto Whatsapp. Meno di un terzo usa Pinterest, Linkedin o Snapchat. Quello che è nato come uno svago è diventato il modo principale in cui la gente di ogni età comunica online. Anche se le persone volessero lasciare Facebook, non avrebbero alternative significative, come abbiamo visto con lo scandalo di Cambrige Analytica. Preoccupate per la loro privacy e con una fiducia sempre minore in Facebook, gli utenti di tutto il mondo hanno dato inizio a un movimento chiamato “cancella Facebook”. Una parte di essi ha cancellato il proprio account dal telefono, ma solo temporaneamente. D’altronde, dove altro potrebbero andare? Il dominio di Facebook non è un caso fortuito. La strategia aziendale era battere ogni rivale alla luce del sole, e il governo tacitamente ha accettato. L’errore più grande da parte della F. T. C è stato permettere che Facebook acquisisse Instagram e Whatsapp. Quando non è riuscito ad assorbire i suoi rivali, Facebook ha usato il proprio monopolio per abbatterli o copiare le loro tecnologie. Nel frattempo, l’innovazione è cresciuta negli ambiti non monopolizzati del mercato, come il trasporto pubblico, e la criptovaluta. Non biasimo Mark per la sua corsa alla dominazione. Ha dimostrato che nulla è più nefasto della frenetica e virtuosa attività di un imprenditore talentuoso. Ma ha creato un leviatano che divora l’imprenditorialità a restringe la scelta del consumatore. Come abbiamo potuto permettere che accadesse? Il modello di business di Facebook è creato in modo da catturare quanta più attenzione possibile per incoraggiare le persone a creare e a condividere informazioni personali.  Paghiamo Facebook con i nostri dati e la nostra attenzione, ed entrambe le cose non sono a buon mercato.

La politica oggi? È peggio del Truman show (solo che va in diretta su Facebook). Per catturare consenso diventa necessario esibire la sfera intima, privata e familiare: come in un reality show. Lo dimostrano casi come quello di Matteo Salvini e Alessandro Di Battista. Ed è una tendenza che peggiorerà nella prossima campagna elettorale. Massimiliano Panarari l'8 dicembre 2017 su L'Espresso. C’è «la “Social-democrazia” o la minaccia dei social alla democrazia?», si è domandato in una sua recentissima copertina l’Economist, sempre più critico rispetto all’impatto delle piattaforme digitali sulle forme della convivenza civile e politica. Nel corso di questi ultimi anni, i social network sono diventati una delle principali - e, non di rado, delle più discutibili - fonti informative dell’opinione pubblica, con un’influenza considerevole, e una capacità di dettare l’agenda e il framing che li ha resi centrali nell’ecosistema dei media. Anche se non andrebbe mai dimenticato che la televisione continua a giocare un ruolo determinante su alcune fasce di pubblico (rigorosamente al di sopra dei 35 anni), e non si dovrebbe incorrere nel rischio di vederli come dei simulacri dell’opinione pubblica, esattamente come avveniva prima coi sondaggi. I politici nostrani vanno sui social, in alcuni casi, perché “non possono non esserci”, ma soprattutto perché rappresentano delle grancasse propagandistiche di prima mano, e i vettori della disintermediazione che bypassa e salta a piè pari il contraddittorio o le domande scomode dei mediatori. Siamo dunque entrati, senza ombra di dubbio, in una fase di “social-populismo”, che si alimenta frequentemente proprio di fake news. E la galassia della disinformazione, dei fattoidi e degli pseudo-eventi, in un mix di manipolazione ed esagerazioni da click baiting (l’“acchiappa-click”) a scopi commerciali e di business, ha sicuramente trovato nei social network un terreno assai fertile. Con i relativi problemi epistemologici (e cognitivi) riguardanti la pericolosa metamorfosi dei volti della verità e dell’oggettività (come gli studiosi Guido Gili e Giovanni Maddalena raccontano nel loro libro “Chi ha paura della post-verità?”, in uscita a inizio dicembre da Marietti 1820). Nell’impiego dei social media - principalmente Facebook, Twitter e Instagram - la classe politica nazionale oscilla tra l’approccio-vetrina (messa in scena e autorappresentazione di sé stessa, con l’esposizione delle proprie dichiarazioni e delle proprie vittorie, o presunte tali) e l’approccio-speaker’s corner (l’interazione con i propri militanti ed elettori, in omaggio, più formale che reale, ai principi dell’orizzontalizzazione e della partecipazione degli utenti). Ma il secondo tende spesso a trasformarsi in un approccio-tribuna, dove i titolari degli account si fanno tribuni del popolo (e mitraglie spara-tweet), e il corrispettivo “popolo della rete” militante si converte in una tribù di ultrà che attiva un meccanismo confermativo delle tesi del proprio beniamino. La presenza social di Paolo Gentiloni è di tipo molto istituzionale, specchio delle caratteristiche personali dell’uomo, e di come intende il lavoro politico, ancor più dalla postazione di palazzo Chigi, stile “forza tranquilla”. Un utilizzo differente da quello del predecessore Matteo Renzi, i cui i social vorrebbero essere “di lotta e di governo”, in un complicatissimo slalom tra due finalità comunicative antitetiche. Silvio Berlusconi, si sa, è stato il campione della stagione della neotelevisione e della videocrazia in Italia; e, infatti, ha numeri di “seguaci” decisamente inferiori a quelli dei leader politici su piazza più giovani, e trasferisce sui social un paradigma comunicativo verticalizzato tipico del piccolo schermo (che, a ben guardare, presenta parecchie, e tutt’altro che paradossali, affinità con la logica mediale top-down del Blog del tecnopasionario Beppe Grillo). Nell’universo (in grande cambiamento nei pesi interni) del forzaleghismo - come lo chiamava il compianto Edmondo Berselli - il soggetto iperdinamico è Matteo Salvini, il cui account ufficiale su Facebook, nel momento in cui scriviamo, conta 1.939.123 followers, segno inequivocabile, con tutte queste “divisioni corazzate”, dell’esistenza di un’egemonia populista (e sovranista) sul web e della scommessa (riuscita) dell’investimento sulla comunicazione online effettuato da questa parte politica. E a confermare la cifra dominante del social-populismo ci sono i numeri del “descamisado-guevarista” Alessandro Di Battista, che dispone di eserciti di followers superiori al “candidato premier” Luigi Di Maio, in un contesto generale di «narrazione rete-centrica» che di fatto è stata creata in Italia proprio dal Movimento 5 Stelle, come ha evidenziato il sociologo Giovanni Boccia Artieri. Il futuro dei social privilegerà ancora maggiormente le piattaforme fondate sulle immagini rispetto al testo: prepariamoci quindi a una campagna elettorale che vedrà un ulteriore dilagare dell’approccio-vetrina, e a un crescente diluvio di post di politici “pipolizzati” che esibiscono visivamente la loro sfera intima, privata e familiare per umanizzare la propria figura; del resto, l’ultimo coup de théâtre comunicativo del pentastellato Di Battista riguarda proprio la mancata ricandidatura in Parlamento per stare con il figlio (annunciata, naturalmente, durante una diretta Facebook). Insomma, la democrazia liberal-rappresentativa se la passa piuttosto male (ahinoi), e di certo non è stata sostituita da quella internettiana del “sentiment”.

Matteo Salvini, il dossier di Repubblica: "Il piano dei nazisti per infiltrare la Lega". Libero Quotidiano il 14 Maggio 2019. Il direttore di Repubblica Carlo Verdelli ha lanciato la nuova veste del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Non solo una questione grafica, ha sottolineato, ma anche di contenuti. Dal suo insediamento, in fondo, si erano già notati toni decisamente più barricaderi ma oggi, martedì 14 maggio, si sono fatte le cose in grande. A pagina 5 la sparata contro Matteo Salvini "ministro latitante", con titolone-guida. E a pagina 8 il picco di giornata: "Da Bossi al Capitano ecco il piano nazista per infiltrare la Lega". Un bel reportage moderato per illustrare i tentativi di elementi estremisti, fin dal 1985, per influenzare le idee del Carroccio. Il libro I demoni di Salvini svelerebbe appunto i rapporti tra la Lega e certi ambienti di destra eversiva. "Post-nazisti", per la precisione. "Questo non significa - suggerisce l'autore Claudio Gatti - che Salvini oggi, come Bossi ieri, abbia sposato la causa postnazista. E neppure che sia un burattino eterodiretto. Vuol dire che come il suo padre/padrino politico, è un uomo pronto a tutto". Attendiamo fiduciosi un articolo, e magari pure un libro, su Nicola Zingaretti che ringrazia l'Unione sovietica di essere esistita. 

Il libro su Salvini e quel pupazzetto di Zorro che scatena l'ironia social. Nel testo di Chiara Giannini escluso per apologia di fascismo dal Salone del Libro di Torino ha colpito soprattutto una citazione: "D’ingiustizie nella vita ne ha subite anche lui, sin da piccolo, quando racconta ironicamente che all’asilo gli rubarono il pupazzetto di Zorro". E l’hashtag #Zorro è stato subito tra i primi della giornata su Twitter. La Repubblica il 14 maggio 2019. Il più desiderato dalle donne dello Stivale, anche da quelle di sinistra. Vittima di perfide ingiustizie, come il furto di un pupazzetto di Zorro. Capace di toccare il cuore della gente. Capace di parlare senza aver paura di niente. Così Chiara Giannini ci introduce al “fenomeno chiamato Salvini” nell’incipit del suo libro intervista con il leader della Lega che tanto ha fatto discutere: “Io sono Matteo Salvini” -  poco più di 150 pagine a 17 euro - è infatti pubblicato dalla casa editrice Altaforte del leader di Casa Pound Francesco Polacchi, escluso per apologia di fascismo dal Salone del Libro di Torino. Quel bambino che, all'asilo, rubò il pupazzetto di #Zorro a #Salv1n1, certamente non immaginava quale responsabilità si stava prendendo nei confronti dell' umanità intera. P. S. È scritto nelle ultime due righe ; quelle prima sono un chiaro esempio di giornalismo d'inchiesta. Ora però la fotografia di una delle prime pagine del libro sta circolando sui social che ironizzano per la sua devozione al caro leader, testualmente “l’uomo più desiderato dalle donne dello Stivale, anche, di nascosto, da quelle di sinistra, malgrado non abbia propriamente la faccia del latin lover”. Oltre a quella frase vengono sottolineati altri passi dal tono moderatamente elegiaco: “c’è chi pagherebbe oro per vederlo nella quotidianità della vita privata o solo per prenderci un caffè”. Cosa per altro non difficile visti i post su instagram e il concorso “vinci Salvini”, non proprio nascosti al grande pubblico. Ma la citazione più apprezzata è questa: “D’ingiustizie nella vita ne ha subite anche lui, sin da piccolo, quando racconta ironicamente che all’asilo gli rubarono il pupazzetto di Zorro”. Lo stile è un po’ quello delle poesie del primo Bondi dedicate a Berlusconi, scrive qualcuno sui social. Ma soprattutto l’hashtag #Zorro ieri è stato tra i primi della giornata su Twitter.  "... è l'uomo più desiderato dalle donne dello Stivale, anche, di nascosto, da quelle di sinistra". Questa è solo la prima pagina. Figuratevi il resto.#Zorro.  

ALT! SICCOME IL FASCISMO NON BASTA, “REPUBBLICA” PER ATTACCARE MATTEO SALVINI TIRA FUORI IL NAZISMO.  Claudio Gatti per “la Repubblica” il 14 maggio 2019. Chiedersi se il nostro ministro dell' Interno sia fascista non è solo un esercizio inutile. È un grave errore. Non tanto perché Matteo Salvini non ha mai avuto un credo politico, quanto perché la facile smentita può estinguere un dibattito assolutamente necessario. Che deve però essere indirizzato lungo binari differenti. La vera minaccia non viene infatti dai legami con i neofascisti, bensì dall' influenza che hanno esercitato - ed esercitano tuttora - i postnazisti nel suo entourage e nel suo partito. Un' influenza che sono riuscito a ricostruire con un' inchiesta, adesso trasformata nel libro " I Demoni di Salvini", edito da Chiarelettere. Essenziale è stato il contributo di una gola profonda che mi ha aiutato a ricomporre i tasselli di un complotto ordito da un manipolo di ex neofascisti e neonazisti, che dopo aver metabolizzato fascismo e nazismo, sono divenuti "postnazisti". Che questo sia il termine più appropriato per descriverli me lo ha fatto capire una persona che ha partecipato al piano di "infiltrazione e contaminazione" della Lega. Si chiama Andrea Sciandra ed è un ingegnere elettronico oggi manager di una multinazionale europea. Chi spinge Sciandra a muoversi - l' ideatore dell' operazione - si chiama invece Maurizio Murelli, un ex neofascista che nei primi anni 70 è stato condannato a 17 anni per l' uccisione di un agente di polizia. Negli anni trascorsi in carcere, Murelli conosce la crema della destra eversiva e neofascista italiana ma, essendosi reso conto che quello del neo-fascismo è un vicolo cieco, decide di abbandonare la "via del guerriero" per intraprendere quella "del sacerdote". Apre così una casa editrice a Saluzzo (in provincia di Cuneo) e lancia la " rivista militante" Orion. Assieme a Sciandra, Murelli conclude che per dare continuità ai pilastri del pensiero fascio- nazista - quindi tradizionalismo, nazionalismo, autoritarismo e razzismo - occorre un " nuovo veicolo politico". « L' obiettivo era di individuare l' essenza dello spirito guerriero che aveva animato il nazismo e trovarne una nuova rappresentazione », spiega Sciandra. La trovano nel movimento autonomista che col tempo confluirà nella Lega Nord. Marco Battarra, stretto collaboratore di Murelli, ricorda bene quel periodo: « Quando nel 1985 la Lega ha fatto la prima riunione a Milano, contando Bossi eravamo in nove, di cui due di Orion. Nove persone in tutto, intorno a un tavolo a casa del primo segretario della Lega della sezione di Milano. E i primi manifesti della Lega sono stati stampati nella tipografia di Murelli». Poi scende in campo Alberto Sciandra, allora giovane studente del Politecnico: «Entro in quella che era Piemont Autonomista nell' 89. Nel 90 si fonda la Lega in provincia di Cuneo, e io sono uno dei cinque fondatori. Quando poi nella Lega ho incontrato tanti " camerati", mi sono detto: in tanti la pensiamo allo stesso modo, in tanti abbiamo riconosciuto che questo movimento nuovo può essere un veicolo di un pensiero più profondo che altrimenti non potrebbe assumere forma». Senza che Sciandra lo sappia, nello stesso periodo comincia il proprio lavoro di talpa politica anche Mario Borghezio, all' epoca legatissimo al mondo della destra radicale, che entra in rapporti con il gruppo di Saluzzo. Lo conferma Murelli, ma lo stesso Borghezio ammette di essere un esperto dell' arte dell' infiltrazione politica, da lui praticata inizialmente nei confronti della Dc. C' è anche una terza figura classificabile come postnazista che, come Battarra, Sciandra e Borghezio, entra nel cuore leghista. È il giornalista Gianluca Savoini, da decenni amico di Maurizio Murelli e del gruppetto di Orion. Di tendenze " nazional- rivoluzionarie" sin dai giorni del liceo, frequentatore del mondo della destra radicale all' epoca dell' università, nel 1991 Savoini entra nella Lega e qualche anno dopo trova un lavoro a la Padania. Lì stringe un rapporto stretto sia con Bossi sia con Salvini, all' epoca parcheggiato dal Senatur nella redazione del quotidiano leghista. Appena diventa segretario del Carroccio, a fine 2013, Salvini sceglie Savoini non solo come portavoce ma anche come sherpa personale che apra la strada di Mosca. Insomma gli affida un ruolo centrale sia sul fronte interno sia su quello estero. In Bossi e Salvini i postnazisti hanno trovato bersagli e complici ideali, in quanto spregiudicati leader di quello che Sciandra definisce « un corpo senz' anima » il cui unico credo - l' etno-nazionalistismo - era però in linea con i valori e il pensiero della destra radicale. Nel corso di tre decenni spregiudicatezza politica e mancanza di bussola etica hanno guidato i due leader della Lega Nord in un crescendo di artifici demagogici che li ha traghettati dalla xenofobia antimeridionale agli schemi culturali dei cospiratori postnazisti, oggi interamente assorbiti nella liturgia «metapolitica » della Lega. Questo non significa che Salvini oggi, come Bossi ieri, abbia sposato la causa postnazista. E neppure che sia un burattino eterodiretto. Vuol dire che, come il suo padre/padrino politico, è un uomo pronto a tutto. Incluso ad allearsi con i nemici della democrazia. Sia in Italia che all' estero. In Italia lo ha fatto sposando "l' essenza del fascismo", all' estero alleandosi a Vladimir Putin per il quale, guidato da Savoini, ha operato come "agente d' influenza". «Io sono ormai lontano anni luce da quelle idee, ma se guardo a Salvini dico: caspita, sta facendo ora quello a cui io e gli altri di Saluzzo aspiravamo trent' anni fa. E adesso lo trovo terribile!» commenta l' ingegner Sciandra.

DI TUTTA L’ERBA, UN FASCIO - DELBECCHI: “PER SAPERE SE MATTEO SALVINI È FASCISTA (PRENDIAMO UN NOME A CASO), BISOGNEREBBE SAPERE COS'È IL FASCISMO. Nanni Delbecchi per il “Fatto quotidiano” il 14 maggio 2019. Per sapere se Matteo Salvini è fascista (prendiamo un nome a caso), bisognerebbe sapere cos' è il fascismo. E per sapere cos' è il fascismo bisognerebbe sapere cos' è stato. Il reading dal romanzo M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati (sabato sera, Rai3) ha il merito di suggerire questi dubbi. Ma nell' ora affidata a Luca Zingaretti, Valerio Mastandrea e Marco D' Amore si poteva intuire anche qualche risposta. Scurati promette (o minaccia, vedete un po' voi) una trilogia. Ma siccome "non vi sono che inizi", il periodo dalla fondazione dei fasci al delitto Matteotti risulta illuminante. Pensiamo a Mussolini come a un padre, diceva lui - e ripetono tanti pappagalli rapati a zero. Invece fu un figlio, parricida come tutti i figli. Le ideologie, le masse, le rivoluzioni, i regimi: questo fu il Novecento. L' azzardo di Mussolini, "l' uomo del dopo", fu rovesciare l' utopia socialista mettendola al servizio del capitale (dentro ogni uomo forte dorme un piccolo borghese). Nella lettura scenica ideata da Scurati e Marco Fiorini l' equilibrio tra tesi e narrazione regge; aura tenebrosa come prescrive l' attuale dittatura dolorista, ma senza il cilicio di Saviano o il ribobolo di Baricco. Se le voci sono all' altezza, tre sono meglio di una. Mettere all' indice il fantasma del fascismo può fare il suo gioco; meglio cavare gli stivaloni e strappare la maschera a chi lo inventò su misura per i propri calcoli: "M. scommise che tutti avrebbero dato il peggio di sé. E vinse la scommessa".

La lezione di Galli della Loggia: cari antifascisti, siete voi i primi a dover studiare la Costituzione. Il Secolo d'Italia lunedì 13 maggio 15:09 - di Redazione. Illuminante articolo di fondo, oggi sul Corriere della sera, di Ernesto Galli della Loggia, il quale intende difendere un principio cardine della democrazia liberale, e cioè che “tutte le opinioni devono essere libere di esprimersi, anche le più sciocche, crudeli o antidemocratiche. Ciò che è essenziale è che chi professa tali idee si limiti a divulgarle con la parola o con lo scritto senza far ricorso a mezzi violenti”. Coloro dunque che affermano che il fascismo non può essere un’opinione e che è un reato anche quando si tratta di un’opinione sono i primi intolleranti che vanno contro ciò che stabilirono i padri costituenti. La Costituzione infatti, fa notare Galli della Loggia, era talmente inclusiva e così poco rigida da ritenere che fosse vietato con disposizione transitoria ricostituire il partito fascista ma allo stesso tempo vietava solo per 5 anni il diritto di voto ai “capi responsabili del regime fascista”, cioè a coloro “che avevano contribuito in modo decisivo all’instaurazione della dittatura”. Neppure costoro la Repubblica volle mettere al bando, osserva l’editorialista del Corriere. Che fare dunque oggi con i nostalgici del fascismo? “Arrestarli tutti con il bell’effetto magari – si chiede Galli della Loggia – che qualcuno di loro decida di entrare in clandestinità e di mettersi a sparare?”. La risposta dovrebbe essere evidente, eppure – continua – “ogni volta che, come per il Salone del libro di Torino si rende visibile la sparuta presenza di qualche gruppuscolo fascista nel nostro Paese, ogni volta che qualche decina di energumeni di CasaPound mette furori la testa, nessuno del fronte antifascista si attiene all’aurea regola liberale secondo la quale le parole e le idee sono sempre permesse e che solo le azioni se incarnano una fattispecie penale, quelle sì che vanno invece impedite e duramente perseguite e sanzionate. No, in Italia questa regola sembra non valere. Di conseguenza (…) si preferisce evocare le vacue genericità di Umberto Eco sull’ur-Faschismus, lanciare il milionesimo allarme sul ritorno del fascismo, la milionesima deprecazione dell’onda nera che monta. Spacciando alla fine per chissà quale luminosa vittoria della libertà avere fatto chiudere lo stand di una scalcagnatissima casa editrice di serie zeta…”. Tutto questo – conclude Galli della Loggia – non solo è poco serio, ma è anche “ben poco in armonia con i principi di una democrazia liberale”, qualcosa di assai diverso “da quanto pensarono e fecero settant’anni fa i padri della nostra Costituzione”.

Soldi pubblici del Senato per pagare la propaganda social di Matteo Salvini. Una società fondata con soldi della Lega subito dopo le elezioni del 4 marzo da uomini del ministro. Che ha firmato un contratto con il gruppo parlamentare a palazzo Madama. Denaro usato per retribuire Morisi e il suo staff, anche dopo la loro assunzione al Viminale. Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 14 maggio 2019 su L'Espresso. Andrea Paganella, Matteo Salvini e Luca Morisi Matteo Renzi intervistato domenica da Repubblica ha accusato Matteo Salvini di aver usato parte dei famosi 49 milioni per pagare l'ufficio propaganda della Lega. Nicola Zingaretti oggi chiede chiarezza sullo stesso malloppo che viene dal passato, ossia dalla truffa ai danni dello Stato per la quale sono stati condannati Umberto Bossi e Francesco Belsito. «Vedo che Salvini non ha problemi di soldi o finanziamenti. Vedo che alle inchieste della magistratura e dei giornalisti risponde con il silenzio. Non so dove siano finiti i 49 milioni, ma so che c'è bisogno di maggiore trasparenza», ha dichiarato il segretario del Pd. L'Espresso ha scoperto il metodo usato dalla Lega per pagare lo staff comunicazione di Matteo Salvini. I nostri documenti non provano che Morisi & co sono pagati coi 49 milioni, ma di sicuro che soldi pubblici vengono usati per seguire la propaganda personale del leader della Lega. Anche quando lo stesso staff era stato assunto al Viminale e quindi pagato con altri denari della collettività .

Il gruppo di esperti ingaggiato dal Capitano è guidato da Luca Morisi, l'eminenza grigia dei social sovranisti. Da chi è stato pagato Morisi e il suo cerchio magico, tra cui Leonardo Foa, il figlio del presidente della Rai, Marcello ? Dai documenti in nostro possesso risulta che per retribuire il gruppo è stata creata una società ad hoc che ha firmato un contratto con il gruppo Lega al Senato. Soldi pubblici usati per pagare gente che non lavora per il Senato ma per il ministro. La società si chiama Vadolive srl. Nata a maggio 2018, due mesi dopo il trionfo elettorale del 4 marzo. Vadolive è stata costituita da una parente di Alberto Di Rubba, il commercialista bergamasco che è anche il revisore dei conti del gruppo Lega al Senato. Vadolive ha sede allo stesso indirizzio di uno degli uffici dello Studio Dea. Non solo, questa società è solo apparentemente slegata dal Carroccio. Apparentemente, perché il loro capitale sociale di 10mila euro è stato versato con un assegno circolare intestato allo studio Dea. Poi, nei venti giorni che seguono l'addebito dell'assegno circolare sul conto della Dea, lo stesso studio di Di Rubba riceve poco più di 40mila euro dalla Lega Nord. Causale: saldo fatture. Una di queste reca la data del 2 maggio 2018. Esattamente il giorno di costituzione della Vadolive. Perché? Due settimane fa avevamo rivolto questa domanda, insieme a molte altre, a tutti i protagonisti di queste vicende, ma nessuno ci ha mai risposto.

Alla donna imparentata con il professionista leghista dopo pochi mesi subentra Davide Franzini: diventa socio unico e amministratore. Lo stesso è presidente del consiglio di amministrazione di Radio Padania. Nel suo primo anno di attività Valdolive ha ricevuto circa 200 mila euro dal Gruppo parlamentare Lega - Salvini Premier, l’unico modo rimasto a partiti per percepire denaro pubblico. In realtà ne avrebbe dovuti percepire molti di più in virtù di un contratto stipulato con il gruppo del Senato da 480 mila euro l’anno fino alla fine della legislatura. Poi, però, a novembre si interrompe la fatturazione e il contratto con Vadolive termina anticipatamente. I soldi ricevuti fino ad allora li ha usati per pagare, oltre che lo Studio Dea Consulting di Di Rubba, anche la squadra di Luca Morisi, il dio dei social salviniani . In tre mesi la società ha speso quasi 90mila euro per pagare Andrea Paganella, socio storico di Morisi, e tutti i giovani della propaganda salviniana, in molti casi assunti nel frattempo direttamente anche al ministero. Da Matteo Pandini, capo ufficio stampa del Viminale, a Leonardo Foa, figlio del presidente della Rai (Marcello) e collaboratore del ministro insieme a Fabio Visconti, Andrea Zanelli e Daniele Bertana, pure loro retribuiti dalla Vadolive. E per un periodo contemporaneamente pagati dal Viminale dato che risultano nell’elenco dei collaboratori a partire dai primi di giugno 2018.

La propaganda social di Matteo Salvini ora la paghi tu: e ci costa mille euro al giorno. Il primo giorno al Viminale il ministro dell'Interno ha assunto come collaboratori tutti i membri dello staff di comunicazione, incluso il figlio di Marcello Foa. Aumentando a tutti lo stipendio (tanto non sono soldi suoi). Mauro Munafò il 23 agosto 2018. I post contro i migranti e le ong, le dirette Facebook per attaccare a destra e a manca, gli sfottò nei confronti di chiunque lo critichi, le bufale razziste rilanciate a milioni di follower e fan: la comunicazione di Matteo Salvini non è diventata più istituzionale da quando è seduto nella poltrona di ministro dell'Interno. Ma qualcosa in realtà è cambiato: ora la propaganda sulle sue pagine Facebook personali non la paga più lui, ma direttamente il suo dicastero. E quindi tutti gli italiani. Nulla di illecito o illegale sia chiaro. Si tratta dei contratti di collaborazione che ogni ministro, una volta insediatosi, utilizza per formare la sua squadra. Dai documenti del ministero dell'Interno si scopre così che già il primo di giugno, primo giorno con il governo Conte insediato, Salvini ha firmato il decreto ministeriale per assumere i suoi fedelissimi strateghi social, con stipendi di tutto rispetto. Primi a passare a libro paga del Viminale sono stati Morisi e Paganella, i fondatori della “Sistema Intranet” che da anni gestisce le pagine social di Matteo Salvini e tra i principali artefici del successo digitale del leghista. Per Luca Morisi, assunto nel ruolo di “consigliere strategico della comunicazione”, lo stipendio è di 65mila euro lordi l'anno. Meglio ancora va al suo socio Andrea Paganella, capo della segreteria di Salvini, che percepirà invece 86mila euro l'anno fino alla durata del governo. Non finisce qui. Passano due settimane e la squadra di Salvini si allarga: il 13 giugno vengono assunti direttamente dal Viminale anche altri quattro membri del team social già al lavoro per la propaganda social salviniana. Passano a libro paga del governo anche Fabio Visconti, Andrea Zanelli e Daniele Bertana, tutti con lo stesso stipendio: 41mila euro lordi, circa 2mila euro netti al mese. Stessa cifra e carica, “collaborazione con l'ufficio stampa”, anche per Leonardo Foa, il figlio del candidato alla presidenza Rai del governo gialloverde Marcello Foa che già l'Espresso aveva raccontato essere al servizio del segretario della Lega. Il conto totale dello staff di Salvini passato a libro paga delle casse statali è presto fatto: 314mila euro l'anno per lo staff social, a cui vanno aggiunti i 90mila euro l'anno garantiti al capo ufficio stampa Matteo Pandini, ex giornalista di Libero e autore di una biografia di Salvini, assunto il primo luglio scorso. Insomma, più o meno mille euro al giorno pagati da tutti per ricevere tweet, dirette Facebook e selfie da campagna elettorale permanente. Un dettaglio interessante che emerge dagli stipendi del team social è quello della generosità di Matteo Salvini: generosità con i soldi pubblici però. In una dichiarazione del maggio scorso Luca Morisi , rispondendo agli articoli della stampa, aveva affermato che la Lega aveva stipulato con la sua “Sistemi Intranet” un contratto da 170mila euro annuali per i vari servizi di comunicazione che richiedevano il lavoro di 4 persone: fatta la divisione, significa 42mila euro a persona. A un solo anno di distanza, e una volta conquistata la poltrona di ministro, Salvini ha deciso di dare a tutti un aumento: il team social, come abbiamo scritto, si compone ora di sei persone per un totale di 314mila euro annui. In media sono 52mila euro a testa, 10mila in più rispetto a quando gli assegni li firmava via Bellerio. La pacchia è iniziata.

Il figlio di Marcello Foa è stato assunto nello staff di Salvini. E si occupa della propaganda. L'erede del mancato presidente della Rai lavora con il ministro degli Interni, grande sponsor di suo padre. E , come L'Espresso è in grado di raccontare, segue la produzione e la condivisione dei contenuti salviniani su Facebook, preoccupandosi di "renderli virali". Vittorio Malagutti e Mauro Munafò il 2 agosto 2018 su L'Espresso. Nelle sue prime dichiarazioni da presidente (mancato) della Rai Marcello Foa ha rivendicato la sua estraneità ai partiti e alla partitocrazia. Tra i suoi numerosi sostenitori c’è chi lo difende parlandone (e scrivendone) come un intellettuale d’area. Anche Foa, però, tiene famiglia e avere un amico in un partito può far comodo, all’occorrenza. Meglio ancora se l’amico è il capo di un grande partito, nonché ministro dell'Interno e vice Primo ministro. Si scopre così che Leonardo Foa, 24 anni, figlio del presidente designato della Rai dal governo gialloverde, lavora nello staff di comunicazione di Matteo Salvini, alla gestione dei social network per la precisione. Questo è quanto risulta dal profilo Linkedin del giovane Foa, un ragazzo dal curriculum di studi brillante: laurea in Bocconi e master all’Ecole de Management di Grenoble. Un paio di stage. E nel settembre del 2017 il primo impiego, come social media analyst alla "SistemaIntranet.com", la società di Luca Morisi e Andrea Paganella, che gestisce la comunicazione e l'immagine Social di Matteo Salvini. Infine, come lui stesso scrive su Internet, per Leonardo Foa è arrivata la chiamata nello staff del vicepremier. Che incidentalmente è anche il grande sponsor di suo padre. Quello estraneo ai partiti.

Il lavoro di Leonardo Foa. L'Espresso è anche in grado di raccontare esattamente il lavoro svolto dal giovane Leonardo. Sotto la supervisione di Morisi, Foa si occupa della produzione e della condivisione dei contenuti salviniani su Facebook, preoccupandosi di "renderli virali". Un lavoro che, dalle verifiche dell'Espresso, inizia da prima della formazione del governo e si sviluppa anche attraverso tutta una serie di gruppi, ufficiali e non, della galassia salviniana. Nel gruppo Facebook "Matteo Salvini leader", hub ufficiale della comunicazione del leghista da cui poi "partono" tutti i messaggi che diventano virali, Leonardo Foa è uno dei più assidui produttori di contenuti, quasi sempre "benedetti" dal like di Morisi. "Il capitano è pronto. E tu?", "Il capitano è arrabbiato", "Il capitano ce l'abbiamo solo noi", con tanto di Salvini arrabbiato da condividere su Facebook.

Il tentativo di nascondersi sui social. Una passione che per Leonardo Foa va oltre il lavoro. Sul suo profilo twitter infatti era possibile leggere fino a qualche giorno fa diversi messaggi di sostegno a Salvini. Messaggi che oggi diventano difficili da reperire, perché su Twitter il profilo risulta da alcuni giorni "riservato" e illegibile a chi non sia già suo amico. Probabilmente un tentativo di non farsi notare e non creare imbarazzo al padre candidato alla presidenza Rai. Tentativo che si infrange con la possibilità di recuperare i suoi tweet salviniani accedendo alla cache di Google e con la poca lungimiranza del suo capo Luca Morisi che, qualche giorno fa, ha twittato una foto dell'intero staff di Salvini, in cui compare lo stesso Leonardo Foa. Interrogato dai cronisti sull'opportunità di avere tra i suoi dipendenti anche il figlio del candidato alla presidenza Ra, Matteo Salvini ha detto di non provare alcun imbarazzo. Dal Viminale hanno poi voluto chiarire le competenze di Leonardo Foa, per altro mai mese in discussione dall'Espresso. "Foa, giovane laureato, con master e trilingue, ha studiato la comunicazione social di Matteo Salvini nell'ambito del progetto di tesi. In questo modo ha cominciato a collaborare con lo staff di Salvini, esperienza proseguita da quando Salvini è diventato ministro e ora fa parte del team comunicazione", si legge su un comunicato dato alle agenzie.

Lega, truffa elettorale, Renzi: "I 49 milioni usati per fake news:Salvini non querela. Chissà perché". L'ex premier: "Ho l'impressione che su questa storia dei 49 milioni di euro, delle fake news, delle strane sponsorizzazioni di Salvini siamo solo all'inizio di una lunga storia". Il ministro dell'Interno: "Se avessi dovuto querelare Renzi tutte le volte che mi ha insultato..." Alberto Custodero il 13 maggio 2019 su La Repubblica. "In una intervista ho detto che per me la Lega ha usato parte dei 49 milioni di euro che deve restituire allo Stato per creare la macchina della propaganda su Facebook, la cosiddetta Bestia. Ho chiesto a Salvini: se non è vero, querelami. Ovviamente con una strana argomentazione Salvini ha annunciato che non mi querela". Lo scrive Matteo Renzi sulla sua Enews. "Questo che cosa significa? Amici, ho l'impressione che su questa storia dei 49 milioni di euro, delle fake news, delle strane sponsorizzazioni di Salvinisiamo solo all'inizio di una lunga storia. Ora facciamo le elezioni, poi da metà giugno ne parliamo. E alla Leopolda10 (18/20 ottobre) saremo ancora più chiari", aggiunge Renzi. L'intervista cui fa riferimento l'ex premier l'ha rilasciata ieri a Repubblica. "Affermo pubblicamente che Salvini ha utilizzato parte dei 49 milioni per creare 'La Bestia', lo strumento di disinformazione della Lega. Sono curioso di capire se sarò querelato". Questa era stata l'affermazione di Renzi che, a suo dire, non sarà oggetto di querela da parte del segretario della Lega.

La replica di Salvini. Alla provocazione di Renzi aveva replicato sempre ieri Matteo Salvini rispondendo a Lucia Annunziata. "Non querelo quasi mai nessuno - ha dichiarato il titolare del Viminale - ho querelato Saviano perché ha detto che aiuto la mafia e sono il ministro della malavita, invece io la combatto. Se avessi dovuto querelare Renzi tutte le volte che mi ha insultato... Lo stanno giudicando gli italiani. Io non ho toccato una lira, quello che stiamo facendo lo stiamo facendo senza amici banchieri".

La storia della truffa elettorale della Lega. Durante la gestione di Bossi-Belsito erano stati presentati dei rendiconti falsi alla Camera e al Senato che indussero il Parlamento a erogare alla Lega contributi elettorali per 49 milioni. Quando Bossi fu cacciato con il movimento delle scope, parte di quei soldi erano nelle casse del partito. Un'altra parte fu erogata durante le segreterie di Roberto Maroni prima e Matteo Salvini poi. Fu proprio Repubblica per prima a dare la notizia del coinvolgimento dell'ex governatore della Lombardia e dell'attuale vicepremier e ministro dell'Interno il 2 novembre del 2015. Quel che è certo è che quei 49 milioni oggetto della truffa di Bossi-Belsito non furono restituiti al Parlamento, ma furono spesi durante le gestioni Maroni-Salvini. E nessuno sa che fine abbiano fatto. Ecco perché a Salvini viene chiesto da più parti, e ora in modo così provocatorio da Renzi, dove siano spariti quei soldi.

L'indagine della procura di Genova per riciclaggio. L'indagine dei pm di Genova nel frattempo, dopo la condanna di Bossi e Belsito (e l'accordo stipulato dalla Lega di restituire la somma in 80 anni), prosegue con l'ipotesi di riciclaggio: al vaglio di pm e gdf (che hanno compiuto rogatorie anche in Lussemburgo) c'è la documentazione del fondo Pharus Management, società di gestione patrimoniale che opera anche in Svizzera. L'indagine ha preso le mosse seguendo a ritroso le tracce di una decina di milioni di euro che, dopo la caduta di Umberto Bossi e la condanna in coppia con l'ex tesoriere Francesco Belsito, dalle casse della Lega, gestioni Roberto Maroni e Matteo Salvini, erano finite in una serie di conti correnti bancari, poi erano stati dispersi fra alcune fiduciarie riconducibili, secondo la procura, a soggetti vicini alla Lega per poi rientrare in un conto di transito della Cassa di Risparmio di Bolzano. La Sparkasse aveva investito dieci milioni nel fondo Pharus e all'inizio del 2018 tre milioni erano rientrati in Italia. Era scattata una segnalazione dell'antiriciclaggio, Sparkasse aveva sostenuto che si trattasse di "investimenti propri della banca, che non appartenevano ad alcun cliente". Ma per la procura di Genova che aveva aperto un fascicolo per riciclaggio quello fu un indizio concreto. Ed erano scattate le perquisizioni alla Sparkasse. Matteo Salvini ha ripetuto a più riprese (anche a 'Porta a Porta') che "i soldi non sono né in Italia né in Lussemburgo".

Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” 13 maggio 2019. A Luca Morisi sono sempre piaciute le parole semplici ed evocative: a lui si deve il soprannome "Capitano" per Matteo Salvini e la denominazione "Bestia" per il sistema editoriale fatto in casa grazie al quale dal 2013 amministra, con una discreta dose di spregiudicatezza, le pagine social del leader leghista. Una bocca di fuoco unica in Italia: 3,6 milioni di fan su Facebook, 1,4 milioni di follower su Instagram e 1,1 su Twitter. Senza contare i profili di partito, quelli fiancheggiatori e la consulenza prestata a più riprese per altri esponenti della Lega. L' obiettivo - raggiunto da tempo - era quello non tanto di dare un modo come un altro a Salvini di dire la propria. No, era decisamente più ambizioso: orientare, anzi guidare, il dibattito pubblico. Per rendere meglio l' idea, oggi in Italia solo un giornale ha più fan sul social di Mark Zuckerberg ed è Repubblica. «Facebook non è la discarica dei comunicati stampa, come fanno molti politici. È molto di più, se si sa come fare», spiegava Morisi anni fa, quando l' ascesa di Salvini era solo sul nascere. All' epoca, assieme al socio Andrea Paganella, Morisi era l' amministratore di una società di consulenza per il web, la Sistema intranet srl. Occupazione dichiarata come prevalente dall' impresa: "Sviluppo di applicazioni e soluzioni software di database". Zero dipendenti dichiarati ma un super committente a monopolizzare l' attività: la Lega Nord. Più qualche consulenza con aziende sanitarie della Lombardia (amministrata proprio dalla Lega). Appena diventato segretario federale, Salvini capì che il vecchio partito, così com' era e vista la fine del finanziamento pubblico, non era più sostenibile economicamente. Né serviva davvero. In più all' orizzonte si stagliavano le nubi minacciose dell' inchiesta della procura di Genova sui famosi 49 milioni di euro di rimborsi volatilizzati. Così chiuse mezza sede di via Bellerio a Milano, idem il dispendioso giornale La Padania, vendette le frequenze di Radio Padania, mise in cassa integrazione i dipendenti. E investì le risorse rimaste sul lavoro della coppia Morisi-Paganella, fatturandogli circa 300mila euro l' anno. Non poco per un movimento in dismissione. Ma la vera fortuna dei creatori della Bestia è stato andare al governo. Infatti il team nel frattempo si era allargato. Per alimentare continuamente il sistema servivano grafici, smanettoni, militanti appassionati, meglio se giovani e insieme un po' svegli. Oggi il grosso di loro è a carico dello Stato: Paganella è capo di gabinetto del Viminale, Morisi è consigliere strategico per la comunicazione, gli altri sono nello staff comunicazione (Leonardo Foa, Andrea Zanelli, Fabio Visconti, Daniele Bertana, Fabio Montoli). I loro compensi tutti insieme fanno 314mila euro l' anno, calcolò L' Espresso. Soldi sganciati dal ministero: per il partito è un super risparmio. Poi invece un' altra decina di collaboratori esterni gravitano già nel mondo Lega, tra portaborse ed eletti nelle istituzioni locali. A costare adesso però non è tanto la Bestia in sé o chi ci lavora, quanto la promozione dei post di Salvini. Nel solo mese di maggio, facendo una media dei range di spesa forniti da Facebook, le casse della "Lega per Salvini premier" - il partito che anche formalmente sta sostituendo il vecchio guscio della "Lega Nord per l' Indipendenza della Padania", quest' ultimo gravato dal debito che adesso ha con la collettività, cioè i 49 milioni da ridare indietro allo Stato - hanno sborsato 51mila euro per aumentare l' audience del solo leader. Con una media del genere, solo per "spingere" su Facebook fanno come minimo 600mila euro l' anno. Ma da dove arriva questo denaro? Nel 2018 quasi 2 milioni di euro dal 2 per mille, più i contributi dei parlamentari. Dopodiché il sistema messo in piedi da Morisi è rodatissimo e le statistiche dicono che il 95 per cento degli utenti di Facebook è incappato almeno una volta nel Salvini-social. Dentro la pancia della Bestia si lavora come in un quotidiano: non ci sono festività né tempi morti, il verbo del Capitano viene diffuso a intervalli regolari alternando foto, video, dirette, machette, meme, semplici messaggi testuali; politici ma non solo. Le reazioni ai contenuti vengono analizzate continuamente, poi da quello si capisce su quali messaggi puntare di più. O dove lasciar perdere. Che in futuro la Lega potesse allearsi con il M5S lo dicevano proprio i social, non recentemente ma già tre anni fa: «Notiamo che c' è una base comune tra i nostri elettori, sul piano comunicativo», la buttò lì Morisi. Allora per tutti sembrava un' eresia. Non per la Bestia.

·         Il problema delle false citazioni.

Altro che fake news: il vero orrore dei nostri tempi sono le fake quotations. L’Inkiesta il 14 maggio 2019. Più che le notizie, sono le frasi attribuite a persone famose, autorevoli, importanti, ad appiccicarsi nella mente e a trasmettersi di generazione in generazione. Avvalorando un pensiero della banalità più pericoloso delle cosiddette interferenze dei russi. Con la perigliosa polemica sulla partecipazione della casa editrice di estrema destra Altaforte all’edizione 2019 del Salone del Libro di Torino, un elemento ha prevalso su tutti: la citazione sbagliata di Voltaire. Chi difendeva la presenza degli editori vicini a Casapound lo faceva in nome di una supposta perfetta libertà di opinione. Tutti possono dire tutto, perfino quello con cui non si è d’accordo. Stabilita la regola, si finiva sempre declamando il mantra “Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo”. Come ormai tutti sanno, Voltaire non solo non ha mai detto né scritto questa frase (fu un falso d’autore della scrittrice Emily Hall, che la mise tra virgolette in un suo libro riguardante il filosofo francese. Tanto grande fu la polemica che lei stessa fu costretta a confessare la malandrinata), ma non se si sarebbe mai sognato di dirla. Era liberale, sì. Ma non come pensano i liberal-cozzari dei giorni nostri. Il problema delle false citazioni, in ogni caso, è molto più esteso. Forse non supera quello delle fake news, anche se spesso vi si intreccia. Di sicuro, ha un potere di infiltrazione molto più forte (tutti ci cascano) e, soprattutto, di permanenza (tutti continuano a credere che sia stato detto).

Così, come Voltaire non ha mai detto la fatidica frase, nemmeno Galileo Galilei ha mai pronunciato il celebre “Eppur si muove”, e Sharlock Holmes “Elementare, Watson” E se proprio vogliamo dirla tutta, nemmeno la frase “Non sono gli anni della tua vita che contano, ma la vita nei tuoi anni” non è di Abraham Lincoln, come pensano alcuni americani, ma con ogni probabilità risale a qualche claim pubblicitario degli anni ’40 sull’invecchiamento. La versione italiana “non aggiungere giorni alla vita, ma vita ai giorni”, è stata attribuita a volte a un prete, o a un cinese, o a un anonimo e, con una certa ironia, a Rita Levi Montalcini (la quale potrà anche averla pronunciata, ma di sicuro non la ha inventata).

Il fenomeno delle fake quotation è così radicato e diffuso da aver scomodato anche quelli del New York Times, che si sono impegnati a sottoporre al lettore che non vuole cascarci alcuni esempi famosi. “Il capitalismo”, diceva un finto Churchill, “è il peggior sistema economico possibile, a parte tutti gli altri”. Ma “la democrazia”, diceva il vero Churchill, “è la peggior forma di governo a parte tutte le altre provate finora”.

Se tutti hanno sentito dire che “il successo è l’abilità di passare da un fallimento all’altro senza perdere l’entusiasmo”, per usare le parole mai pronunciate da Jefferson, allora sanno anche che “il governo migliore è quello che governa meno”, sempre per citare un’altra frase non sua. Del resto il terzo presidente degli Stati Uniti è uno dei finti autori preferiti: per esempio, non ha mai detto cose del tipo: “La mia lettura della storia mi convince che, in gran parte, un cattivo governo derivi da troppo governo”, e nemmeno ha sostenuto che “La Bibbia è la fonte di ogni libertà”. E neppure che “Quando il discorso condanna la stampa libera, state sentendo le parole di un tiranno” (giusto per tornare sulla questione della libertà d’espressione). Sono tutte citazioni distorte ad arte per sfruttare la sua figura e dare autorevolezza a posizioni che, nei dibattiti, ne avevano ben poca.

Altre volte, invece, le invenzioni sono più innocue: Gianni Brera attribuiva a Guicciardini la sentenza: “Ché se tu fiderai nelli italiani, sempre aurai delusione”, che invece si era inventato. Misteriose sono invece le origini della celebre e mai pronunciata frase di Mike Bongiorno sulla signora Longari, “lei mi è caduta sull’uccello”. Alcuni sostengono di ricordarla, anche se non esistono registrazioni che lo comprovino. In ogni caso Woody Allen non ha mai detto che “Dio è morto, Marx è morto e anche io non mi sento tanto bene”, creazione, con ogni probabilità, di Ionesco. “Suonala ancora, Sam”, in Casablanca, non viene mai pronunciata. E “credo quia absurdum” non è né di Agostino d’Ippona, né di Tertulliano, come si dice spesso.

Leonardo da Vinci, poi, era sì vegetariano, ma non disse mai: “Fin dalla più tenera età, ho rifiutato di mangiar carne e verrà il giorno in cui uomini come me guarderanno all'uccisione degli animali nello stesso modo in cui oggi si guarda all'uccisione degli uomini”, frase inventata in un romanzo su di lui nel 1928. Per restare in tema alimentare, nemmeno la celebre “che mangino brioches” fu mai detta dalla povera Maria Antonietta.

Insomma, sembra che le frasi famose false (FFF) vivano una vita propria, cambino proprietario, autore, inventore: forse perché quello vero non è ritenuto abbastanza popolare o, come è più probabile, abbastanza autorevole. Portatrici di una banalità pericolosa che appiattisce il pensiero, le fff hanno bisogno di un nome importante cui appiccicarsi. Einstein, per esempio, è uno dei migliori. Ma per gli americani il favorito è Jefferson, o Churchill o Machiavelli. Tutti celebri per le cose che hanno fatto, ma citati per quelle che non hanno detto. Una beffa, ma del resto si sa: “È meglio rimanere in silenzio ed essere considerati imbecilli piuttosto che aprire bocca e togliere ogni dubbio”, come diceva – anzi, non diceva – Lincoln.

·         L'Era digitale e la post-notizia. Il Popgiornalismo.

IL CASO DAGOSPIA. Con le continue trasformazioni dell’era digitale, diventa sempre più urgente mettere a punto dinamiche comunicative che sappiano muoversi con la stessa velocità con la quale viaggia la trasmissione dei dati e che, soprattutto, riescano a sviluppare capacità connettive in grado di ricomprendere un numero sempre maggiore di dati-fatti-informazioni. Partendo dal fenomeno giornalistico rappresentato da Dagospia – il sito di Roberto D’Agostino che ha saputo cogliere, sin dagli albori, le possibilità offerte dal mezzo digitale – il libro analizza i caratteri di una nuova forma giornalistica, il popgiornalismo. Al centro di questa recente declinazione informativa non c’è più la notizia ma la post-notizia, la necessità cioè di lavorare sulle connessioni e sugli effetti che ogni nuovo fatto, evento o dato determina. Da qui ne conseguono i tre tratti essenziali dell’approccio popgiornalistico: la “leggerezza” pesante dell’informazione, la conoscenza del quotidiano come opera aperta e la libera responsabilità del lettore.

Salvatore Patriarca. Giornalista, filosofo, è responsabile editoriale del portale «Salute 24 – Il Sole 24 Ore». Traduttore dal tedesco e dal francese, nel 2012 ha pubblicato Il mistero di Maria. La filosofia, la De Filippi e la televisione e Adesso Renzi. I pensieri del rottamatore; nel 2013 The Walking Dead o il male dentro e La filosofia del gatto e, nel 2018, Il digitale quotidiano. Così si trasforma l’essere umano.

Da Letture.org il 2 luglio 2019.

Salvatore Patriarca, lei è autore del libro Popgiornalismo. Il caso Dagospia e la post-notizia edito da Castelvecchi: cosa sono le post-notizie?

«Per cogliere il senso del ragionamento relativo alla post-notizia bisogna fare un passo indietro e partire dall’assunto relativo alla sovrabbondanza informativa dei fatti generata dalla rivoluzione tecnologica. La capacità di conservare ogni singolo aspetto del vivere contemporaneo, sia esso personale o pubblico, è alla portata di ciascuno. Questo determina un oggettivo spostamento di valorizzazione in ottica informativa: se prima sapere un fatto aveva valore, perché generava quell’asimmetria conoscitiva da poter utilizzare a proprio vantaggio, oggi tale vantaggio di posizione non è più sostenibile. A tal proposito basti pensare alla notizia dell’esplosione del reattore nucleare di Chernobyl: ci sono voluti giorni prima che filtrassero i fatti, e settimane prima che fosse ricostruito tutto il contesto e la definizione degli effetti. Oggi avremmo dirette social sin dall’istante dell’accadimento. Tale spostamento determina lo slittamento verso la post-notizia. Il fatto rimane il tassello originario del processo informativo e, con esso, il primo atto di trasmissione che è la notizia. La differenza è che questa connessione non equivale più all’informazione. È come se questo nesso primario fosse stato retrocesso a fondamento sul quale poi concresce l’informare, vero ambito di generazione di interesse. Questo di più è la post-notizia, la dimensione connettiva, valutativa, interpretativa, discorsiva, emotiva, che costruisce il mondo significativo dentro la quale collocare i fatti».

Quali caratteri contraddistinguono il popgiornalismo?

«Qui il ragionamento è ancora più oscillante. Propriamente non ha una natura informativa rispetto alla quale si vada a sostanziare, si tratta più che altro di una modalità, di un atteggiamento complessivo. Gli elementi principali che animano tale approccio sono, senza criterio gerarchico: Il superamento di ogni concezione dicotomica che voglia differenziare in maniera presuntiva un alto da un basso. Qui emerge con forza la dimensione di rottura con una visione tradizionale nella quale ogni successone aveva una valenza gerarchica. La politica aveva più peso dell’economia, la cronaca più della cultura. Gli spettacoli più dello sport. Nell’universo pop, dove l’abbreviazione implica un chiaro rimando alla dimensione popolare, avviene una sorta di orizzontalizzazione. Le notizie sono notizie e si misurano per il valore che hanno, per l’impatto che determinano nella vita e l’immaginario delle persone. La puntata finale di Game of Thrones vale quindi di più della nomina di un ministro. La modifica delle forme di fruizione della dimensione informativa. Se prima valeva l’assunto hegeliano della lettura del giornale come la preghiera laica del mattino e, con l’avvento della televisione, dell’ascolto del telegiornale come preghiera laica della sera, ora nell’era digitale caratterizzata dell’idea di onnipervasività non c’è un tempo per informarsi, perché tutto è informazione. Essere a conoscenza di quanto accada ha perso quel carattere di aggiunta esistenziale che serviva per essere considerato un essere umano di valore, capace di stare al mondo e relazionarsi con esso; conoscere, sapere è diventata la condizione stessa di definizione dell’esserci. Si è sapendo, si partecipa alla società informandosi, ci si relazione agli altri conoscendo. Qui si potrebbe aprire un dibattito sul valore di tali conoscenze, ma sarebbe un ragionamento di tipo assiologico che condurrebbe lontano e avrebbe bisogno dell’esplicitazione di altri presupposti. La regionalizzazione dei fenomeni conoscitivi. Quest’aspetto è ancora poco considerato, ma a breve verrà tematizzato con la profondità che richiede. La complessità di dati, fenomeni, capacità significative, costruzioni simboliche e azioni strategiche che contraddistingue ogni singolo aspetto dell’esistere comune si riverbera sull’ambito informativo. Una stagione sportiva come una serie tv, un reality come un evento gossip (come il Pratigate) si portano dentro una serie di implicazioni che li rendono micromondi complessi, dove chi vi entra ha la possibilità di esperire l’intera gamma del sapere necessario allo stare al mondo. Di questi micromondi complessi il popgiornalismo si fa carico, si deve far carico senza pregiudizio alcuno».

In che modo Roberto D’Agostino, col suo sito Dagospia, ha saputo cogliere, sin dagli albori, le possibilità offerte dal mezzo digitale?

«Le questioni da affrontare sarebbero molte. Provo a sintetizzare il ragionamento, dividendolo in due grossi ambiti. Il primo riguarda la dimensione strumentale; il secondo fa riferimento alla prospettiva contenutistica. Per fiuto personale, per fortuna o per necessità economica (costi infrastrutturali ridotti rispetto a qualunque creazione di prodotto cartaceo), D’Agostino punta senza tentennamenti sul web. Sceglie il digitale. Accetta quel modello di flusso informativo al quale sin dagli inizi internet ambiva e si lancia in quest’avventura. Questa scelta di campo lo libera da ogni battaglia di retroguardia rispetto alla dicotomia carta stampata/web, notizie pensate/notizie superficiali, permettendogli di essere pioniere nella costruzione di un percorso innovativo e privo di competitori paragonabili – aspetto non secondario dal punto di vista del marketing per la collocazione del prodotto rispetto a un target “autocreato”. D’Agostino non sceglie soltanto il web, sceglie un web strutturalmente semplice. Dagospia è un sito dall’estetica minimale, dalla scarsa complessità funzionale, dall’assenza di fronzoli. È una sorta di estetica alla Google, dove il primato non è alla gradevolezza, bensì all’efficacia di funzione (nel caso specifico, informativa). In tal modo è riuscito a sottrarsi agli innamoramenti estetici grafici del momento, ha reso l’esperienza su Dagospia qualcosa di semplice, lineare, quasi banale, focalizzando tutta l’attenzione sul contenuto prodotto. E qui si radica l’altra scelta essenziale di D’Agostino: la peculiarità di costruzione del contenuto. La prima e decisiva decisione è quella di inventare l’ambito post-notiziale: prendere notizie già prodotte e decostruirle, esibendone il non-detto, le dimensioni implicate, le possibili connessioni. La declinazione narrativa della pura dimensione informativa è l’intuizione di D’Agostino, il recupero di una dimensione arcaica (historìa, historeìn) che aveva proprio nella capacità di ricostruzione dei fatti la propria specificità significativa. A questo si aggiunge l’allargamento delle fonti informative. Non solo quanto garantito a livello ufficiale, ma anche il supposto, il verosimile, il piano personale dei protagonisti – in poche parole, il gossip. È come un ingrediente capace di legare, di creare nessi laddove non si vedono. Si badi bene i nessi poi vanno analizzati, vanno valutati, vanno cercati i riscontri. Ma intanto si hanno tracce impreviste, prospettive nuove, ipotesi di rimodulazione del reale. E su questo, ancor oggi a quasi vent’anni della nascita, Dagospia fonda il suo vantaggio competitivo rispetto agli altri attori informativi italiani».

Quali sono i tratti essenziali dell’approccio popgiornalistico?

«L’idea di catalogare quali potessero essere gli ambiti specifici del popgiornalismo si motiva dalla convinzione che il caso Dagospia non debba rimanere qualcosa di isolato. Già oggi molti altri organi d’informazione hanno cercato di replicare vari aspetti dell’universo significativo di Dagospia, senza però riuscire a cogliere i punti nodali che ne caratterizzano la plastica adeguatezza all’era digitale.

Il primo elemento è la leggerezza pesante. Nella grande commistione della vita si affronta tutto, non c’è via preferenziale o gerarchia prestabilita. Ogni dimensione si misura dal grado di propagazione significativa che genera. Questo permette, allo stesso tempo, di mantenere un approccio leggero, ironico, disincantato, costitutivamente sottratto a ogni incasellamento ideologico e di affrontare ogni argomento, dando così peso a un’offerta informativa che non si limita affatto ai soli ambiti della curiosità e del pettegolezzo.

Dal carattere polimorfo dell’approccio contenutistico scaturisce il secondo elemento, la dimensione inevitabilmente aperta di tale progetto informativo. È sempre un farsi e mai un fare. È sempre una proiezione sul reale in via d’aggiustamento (grazie alla scoperta di una connessione ulteriore che smentisce o conferma una congettura precedente) e mai una granitica presa sul reale. Questa dimensione in divenire è rafforzata dalla stessa modalità di fruizione: un flusso continuo nel quale si succede la miscellanea della vita comunitaria.

L’insistita a-morficità ideologica di Dagospia conduce al terzo elemento fondante del popgiornalismo: la libertà dell’utente. In questo rimando all’esperienza del singolo c’è forse la dimensione più innovativa. Il passaggio di Dagospia, a differenza della lettura di un giornale o dell’ascolto di un telegiornale, non è il momento conclusivo del processo conoscitivo. Non è il semplice apprendimento di qualche informazione di cui prima si difettava.

Viceversa è l’apertura verso una proiezione di significatività, è la spinta a esplorare la validità delle congetture e delle ipotesi connettive elaborate. Informarsi su Dagospia è un processo iniziale, non conclusivo. L’amplificazione di questo inizio è nella scelta dell’utente, non più soltanto ricevente passivo. È nella libertà di costruire il proprio percorso informativo la specificità del popgiornalismo digitale, il vantaggio che esso possiede rispetto ai contenitori che rivendicano la validità del modello d’autorevolezza dell’emittente. E, rispetto alle critiche che spesso si sentono dire sul cattivo uso che l’utente compie nella definizione della propria prospettiva informativa, bisogna ricordare la ricchezza della lingua italiana che differenzia appunto la libertà dall’arbitrio. La distorsione personalistica, complottistica, banalizzante del processo innescato dal popgiornalismo non è il prodotto della libertà personale, bensì l’espressione dell’arbitrio soggettivistico che nella presunta forza autofondativa del “secondo me” evita la faticosa ricerca fondativa alla quale obbliga la libertà correttamente intesa».

Massimo Arcangeli per “il Messaggero” il 29 luglio 2019. Se la Rete non ha sostituito i media tradizionali, con i quali ancora convive, nel giornalismo è in corso una rivoluzione: i contenuti dell'informazione sono sempre meno soggetti ai filtri, ai controlli, all'intermediazione del reale e sempre più aperti alla disintermediazione prodotta dall'apporto personale alla ricostruzione, al commento, all'approfondimento dei fatti. I giornali, per reggere alla competizione, fanno così quel possono per adattarsi. In particolare con l'interdiscorsività che in una stessa pagina può far dialogare tra loro più pezzi ed è spesso supportata dall'abbandono dell'impaginazione verticale (a libro) per una più dinamica impaginazione a raggiera, del tipo a stella o a schermo: il primo modello è satellitare (una notizia principale, attorno alla quale ruota un certo numero di testi), il secondo è galattico (una notizia centrale, circondata da una complessa costellazione di articoli, box, immagini, infografici che possono arrivare a occupare due pagine). Tentativi di dialogo interno che mimano un possibile approccio cognitivo, oltreché visivo alla Rete. Prove di sopravvivenza perché tutto questo (insieme a molto altro), se ci trasferiamo nell'ambiente virtuale, può essere di ben altra portata. Così è stato per Dagospia, cui Salvatore Patriarca ha dedicato un denso volumetto (Popgiornalismo. Il caso Dagospia e la post-notizia, Castelvecchi) mettendone in risalto, fra le altre cose, un aspetto: Dagospia è un'opera aperta, disintermedia l'informazione al punto da restituirla, rispetto alla notizia di partenza, in forme in cui il contributo dei lettori può risultare alla fine determinante. Il sito creato da Roberto D'Agostino, così facendo, opera per una convergenza delle persone, per un'interdiscorsività collettiva che induce a riflettere su quel che oggi dovrebbe davvero accomunarci, un sapere realmente partecipato che ci faccia ripartire, in qualche modo, tutti insieme (un sapere di cui conosciamo così bene la veste social, che talvolta è solo una sfolgorante o appariscente maschera, da dimenticare chi siamo quando torniamo a indossare i nostri panni sociali). A guadagnarne è una coscienza critica che lavora per un modello di (ri)trasmissione dell'informazione nel quale un pezzo, di passaggio in passaggio, incorpora commenti, riflessioni, integrazioni a profitto di chi leggerà successivamente, in un processo di complessificazione dei contenuti che approfitta di Dagospia solo per un momentaneo approdo e può non aver fine. Patriarca chiama «leggerezza pesante» il modello di complessità relativa del sito di D'Agostino. È il modello di un'intelligenza condivisa che senza abdicare del tutto alla complessità, e senza arrendersi incondizionatamente alla semplificazione, ha imboccato virtuosamente una strada intermedia.

Furio Colombo per “il Fatto quotidiano” il 29 luglio 2019. Un autore competente sul giornalismo digitale, Salvatore Patriarca, affronta Dagospia, il celebre marchio inventato e gestito da Roberto D' Agostino in rete, con lo stesso spirito di esploratori che è stato tipico di Oreste Del Buono e Umberto Eco quando hanno aperto per i lettori giovani del loro tempo la scatola dei fumetti, e hanno mostrato la qualità innovativa del nuovo strumento, una diversa vocazione a narrare, e hanno chiesto che venissero trattati come seri compagni di viaggio. Patriarca (in Popgiornalismo, il caso Dagospia e la post-notizia, Castelvecchi Editore) prende in mano il groviglio di fatti nuovi della comunicazione digitale e nota il sito chiamato Dagospia come "lo strumento più efficace per la transizione nell' epoca della contemporaneità digitale". Ci dice subito che una prima ragione è il successo "che ne fa un unicum nel panorama informativo italiano". Tutto vero, e stiamo per iniziare un viaggio interessante, in un vasto retrogiardino, molto goduto ma poco spiegato, di un modo diverso di comunicare. Manca a Patriarca, occorre notare, l'allegra chiarezza con cui Del Buono ed Eco hanno portato i fumetti nei templi della letteratura e della saggistica. Per esempio, il nostro autore scrive: "In particolare gli aspetti essenziali che fanno di Dagospia un esempio da studiare per provare a scovare le modalità di una produzione informativa che sappia essere a suo agio nell' attualità dell' oggi (ovvero, ndr) l' esclusività digitale, la dimensione popolare e, rivoluzionando un concetto tradizionale, una linea editoriale polimorfa"; ci sta portando a un seminario in cui loda Dagospia per ciò che l'autore del testo su Dagospia non fa. Sta per dire che la grande trovata di Dagospia è una sorta di educazione informativa all' "opera aperta" dove il lettore diventa autore. Ma lo fa con un linguaggio specialistico che, se non fosse per l' argomento, ti tiene a distanza. Patriarca nota che Dagospia spinge il lettore verso il popgiornalismo, in cui ogni frequentatore diventa professionista di una sua edizione delle notizie del mondo. E diventa più chiaro e più utile quando, nel capitolo "Nuova via dell' informazione", elenca e spiega quelle che, secondo lui, sono le tre direttrici della struttura informativa di Dagospia: il "modello di fruizione" ( che definisce "al passo con il proprio tempo"), il "modello contenutistico" ( "non c' è un preventivo riconoscimento di importanza" di un argomento su un altro), e "il flusso" (un preciso intento di de-gerarchizzazione della notizia"). In altre parole, l'argomento salva il professore e il tema conta. Patriarca ha aperto il dibattito mancante sul fenomeno Dagospia: è la gazzetta di una nuova Italia, che la racconta e la esprime, o ha contribuito a creare una nuova Italia (certo molto diversa ) con la forza di un riuscito strumento di informazione-formazione per le masse in arrivo?

Massimo Falcioni per Gossipblog il 6 ottobre 2019. “Da giovane ho letto tantissimo perché ero balbuziente”. Confessioni di Roberto D’Agostino, rilasciate sabato notte a Io e te. “Non potevo parlare con gli amici, mi prendevano per il sedere. Quindi dialogavo con me stesso e leggevo, leggevo, leggevo”. Il fondatore di Dagospia è un fiume in piena e nel corso del lungo faccia a faccia con Pierluigi Diaco racconta anche il segreto del suo rapporto venticinquennale con la seconda moglie Anna Federici: “Quello che ci unisce è il fatto che siamo complici. Il vero problema nelle coppie è solo quello della comunicazione, spesso non ci si parla e ognuno va nella sua strada. Le coppie devono parlarsi, raccontarsi e farlo in maniera complice. Tanta gente non parla, va dall’analista o lo fa con le amiche”. D’Agostino ricorda pure i dodici anni passati a lavorare in banca e la giovinezza ribelle, che ha centrato in pieno la rivoluzione del ’68. “Una volta fui buttato fuori di casa perché rubai la pelliccia a mia madre per andare al Piper”. Il motivo? Presto raccontato: “Ero andato a vedere i Rolling Stones al Palazzetto e notai Brian Jones con la pelliccia di lupo e le babbucce rosa. Ero col mio amico Paolo, dissi "cazzo, che figa". Paolo però l’aveva di visone, quella di mia madre poraccia era invece ‘na cosa vergognosa. "Vabbè che ce frega", dicemmo”.

Tutto bene, fino al ritorno a casa: “Quando arrivai a casa alle tre di notte con ‘sta pelliccia, alzai lo sguardo e i miei genitori erano affacciati. Papà mi vede con la pelliccia e si rivolse a mamma: ‘oh, c’avemo un figlio frocio’. All’epoca non capivo che per un genitore era uno choc culturale vedere un figlio con la pelliccia, dovevo comprendere, ma non capivo”.

Dagospia il 6 ottobre 2019. ESTRATTI INTERVISTA DI PIERLUIGI DIACO A ROBERTO D’AGOSTINO A “IO E TE DI NOTTE”. 

Dopo la visione della scheda filmata D’agostino commenta…

D’AGOSTINO: A questo punto uno può anche chiudere, troppe cose ho fatto. Come diceva quello… un ragazzo fortunato.

DIACO: molto fortunato, ma ne sei consapevole...

D’AGOSTINO: Fortunato però nello stesso tempo sono nato nel periodo in cui era veramente faticoso riuscire ad avere una identità, tu immagina che nel dopoguerra l’Italia era solo macerie. Il fatto di essere nato a San Lorenzo, il quartiere più bombardato, io da ragazzino giocavo tra le macerie e tra i mattoni… e poi ho preso frontalmente, avendo all’epoca 20 anni, nel ’68 quella che è stata quella grandissima rivoluzione sociale che ha portato al Giovane. Cioè vale a dire che prima c’era l’ometto… il ragazzo si vestiva come il padre, seguiva il padre in tutto… ad un certo punto con Elvis i Beatles e compagnia varia c’è questa rivoluzione di costume e nasce un nuovo soggetto sociale: cioè il Giovane. E questa cosa ha scombussolato tutto perché pure noi non sapevamo cosa fare perché non c’era un modello precedente. Mi ricordo quando per esempio a quindici anni eravamo con Renato Zero e racconto sempre che eravamo dei ragazzi picchiatelli a Roma, andavamo al Piper perché era aperto il pomeriggio e poi la sera. Io mi ricordo quando ci siamo rotti la testa io e Renato Zero, perché andavamo in giro in macchina con uno disgraziato che guidava ma non c’avevamo meta, il nostro divertimento era avere un mangianastri, andare in giro per Roma, fare il giro di Peppe intorno alle 7 chiese ascoltando musica. Non c’erano altri divertimenti.

DIACO: però la differenza con altri della tua generazione permettimi di dirlo è che non ti sei imborghesito. Cioè nel senso quello spirito un po’ ribelle… quella curiosità mi pare che abbia resistito nel tempo.

D’AGOSTINO: avendo in quell’età scoperto tutta la letteratura della beat generation, io ho letto molto appunto perché ero balbuziente e quindi non potevo parlare con gli amici che mi prendevano per il sedere… quando uno è balbuziente dialoga con se stesso, leggevo leggevo leggevo grazie a Dio. Nanda Pivano che è qui rappresentata (in foto) lei scrisse l’introduzione di “Sulla strada” e per me, amici miei come Paolo Zaccagnini e altri… è stata un po’ la guida spirituale della nostra vita… e non era ancora quello che poi è diventato…una specie di santone della letteratura americana, quindi ero pazzo della sua introduzione. Poi la cosa che mi colpì più di tutto fu un altro libro, quello che poi ha cambiato tutto quanto che era “La società dello spettacolo” di Guy Debord. In questo libro che facciamola breve per non annoiare, aveva già predetto quello che sarebbe avvenuto dopo 20 anni, cioè che noi salivamo sul palcoscenico, non eravamo più spettatori, non eravamo più passivi e quindi noi eravamo di nuovo protagonisti e soprattutto questo libro, detto dei situazionisti, è un libro che faceva sepoltura delle ideologie. Io non sono mai stato ideologico, avevo già eliminato quel problema ideologico e quindi la mia capacità era superiore agli altri perché non mettevo paletti.

DIACO: non eri dogmatico.

D’AGOSTINO: non ero rigido, ero molto come dire…come stare su un tavola da surf e seguire l’onda.

DIACO: posso farti questa domanda? Io ho notato, frequentandoti un po’, il rapporto che ti lega ad Anna…

D’AGOSTINO: è mia moglie.

DIACO: è tua moglie, lo dico al pubblico… mi ha sempre colpito del vostro rapporto, a parte le tante cose visibili a chi vi conosce, una passione che avete in comune e che mi colpisce moltissimo perché penso che sia un comune denominatore del vostro rapporto sentimentale e cioè la passione per l’arte, vi ho visto in giro per il mondo viaggiare solo per il semplice piacere di andare a vedere un’opera d’arte.

D’AGOSTINO: non è solo l’arte che può unire due persone… io penso che quello che ci unisce è il fatto che siamo complici in tutto, il fatto che per stare 25 anni, occorre la comunicazione: il vero problema tra due persone è solo quello della comunicazione . Spesso noi non parliamo non diciamo quello che abbiamo nella testa, e in quel momento ognuno va per la propria strada. La comunicazione è la cosa più importante tra due persone: devono parlare. devono dirsi raccontarsi la loro vita quello che fanno e farlo poi in maniera complice. Essendo questo il mio secondo matrimonio, avendo avuto io qualche esperienza dopo il primo ormai mi sapevo regolare. Però io vedo che il problema vero tra le persone è riuscire a connettere insieme quello che uno vede. Tanta gente non parla, va dall’analista, parla con le amiche…poi alla fine credimi è un problema culturale quello di stare insieme ad una persona, non è altro…. è quello di nutrire il tuo cervello, farlo appartenere ad un’altra persona, raccontarsi, dire le proprie esperienze e soprattutto viverle insieme no? Poi questo sembra facile ma non è facile per niente perché la vita è quella che è. Poi la mia vita… è sempre caotica.

DIACO: Anna come giudica il tuo modo quasi operaio di gestire Dagospia, tu apri bottega al mattino presto chiudi tardi, stai tutto il giorno lì fisso su quel computer, parli sempre al telefono, sei sempre connesso… questo iperattivismo lei come lo vive?

D’AGOSTINO: bene, perché capisce che in fondo è lavoro… il problema è trovare il lavoro che ti piace. Faccio il lavoro che mi piace e vivo felice. Avendo io lavorato dodici anni in banca, dodici, dal ’68 fino all’ ’80 contavo i soldi ore e ore davanti allo sportello, stavo lì… lo facevo perché dovevo riempire un frigorifero, perché era una famiglia che non aveva possibilità, ero felicissimo di lavorare in banca, ringrazio ancora il cielo. 16 mensilità ma ovviamente non era il lavoro che io amavo.

DIACO: mi racconti il momento in cui hai detto a te stesso, non ce la faccio più ad andare in banca a lavorare… svolto, oso, mi immagino con coraggio, prendo un’altra decisione, faccio il libero professionista?

D’AGOSTINO: no ma tu pensa che in quegli anni lì lasciare un posto fisso era… infatti io alla mia prima moglie non glielo dissi, gli dissi che avevo preso l’aspettativa, perché era molto preoccupata.

DIACO: immagino…

D’AGOSTINO: guarda che io l’ho fatto impazzendo poi, perché facevo le serate in discoteca, scrivevo dappertutto, cercavo lavori di qua e di là perché dovevo dimostrare di riuscire a pareggiare le entrate che non c’erano più.

DIACO: una volta tanti anni fa mi hai detto una cosa dandomi un consiglio che è diventato un must per me: che le carriere si fanno con il carattere e non con il talento.

D’AGOSTINO: io dico questo, che nel lavoro il talento non è sufficiente, il carattere conta più del talento perché il carattere di una persona poi alla fine si amalgama con gli altri. Gli puoi raccontare una cosa e l’accetta, chi ha un brutto carattere… non fa mai squadra. Se tu mostri il tuo ego significa che sei una persona insicura, se tu sei sicura del tuo valore non hai bisogno di metterti lì a fare il boss.

DIACO: ma con la consapevolezza di oggi cosa diresti a quel bambino che sei stato… (mostra foto di D’agostino bambino).

D’AGOSTINO: direi quello che ho detto a mio figlio: che alla fine la tenacia paga, il lavoro paga e che è importantissimo poi in qualche modo avere la misura. Perché poi in fondo parliamoci chiaro, uno può fare tutto nella vita ma ci vuole sempre una misura, non bisogna mai esagerare che poi ne paghi le conseguenze. Quando è nato Rocco avevo 45/44 anni… io non sapevo che farci con un pupo, come si educa un figlio. Tu c’hai il cane, io ho il figlio. Andai dal pediatra più famoso di Roma che era Bollera.

DIACO: un luminare della psichiatria infantile…

D’AGOSTINO: prendo appuntamento e dissi: mi è nato un figlio che gli devo dire? e lui mi fa: “niente”. Ricorda l’unica educazione che tu puoi dare a tuo figlio è il tuo comportamento. Come tu cammini come tu parli a tavola… però la cosa mi ha terrorizzato.Perché pensate che l’educazione che date ai vostri figli è come vi comportate, come state a tavola, come usate la lingua, come usate il congiuntivo come usate le forchette, il tovagliolo, quando camminate, quando incontrate gli amici. Quella è l’educazione che tu trasmetti a tuo figlio. Quindi è terribile perché dire: “fa il bravo stai zitto e non rompere il cazzo” quello è facile. Il problema vero è poi che il tuo comportamento deve essere da specchio per un ragazzo. È quello è un compito durissimo.

DIACO: ma a proposito di esempi, ci sono degli esempi quando siamo in vita che poi quando salgono in cielo diventano delle voci interiori. Secondo me c’è una voce che risuona dentro di te ma non mi vorrei sbagliare… suona così te la faccio sentire.

(SI ASCOLTA LA VOCE DI FEDERICO ZERI).

D’AGOSTINO: era la voce di un grande genio italiano che è scomparso e che si chiama Federico Zeri. Zeri è stato un grandissimo storico dell’arte ma non solo: io lavoravo all’Europeo dove anche lui arriva come collaboratore, ecc… allora lo incontro e rimango fulminato dalla sua cultura pazzesca. Lui ha vissuto 5 anni dentro il vaticano per studiare le opere. 5 anni senza uscire. nemmeno in clausura. Poi andai 6 mesi a casa sua, 6 MESI, perché ho detto: “un genio così non lo trovo più”. Stavamo lì non parlavamo di arte perché io dovevo ancora distinguere la cornice dal quadro ma io stavo lì ad ascoltarlo a seguire il suo comportamento, poi arrivavano gli ospiti tra una cosa e l’altra e poi abbiamo fatto un libro di conversazione con lui, parlando di tutto. E poi mi ricordo che lui mi chiese di accompagnarlo alla cappella sistina che era stata restaurata dai giapponesi e c’era una trasmissione di Augias e l’altro ospite con Zeri era Gombrich un altro storico dell’arte. Dato che Zeri era quello che era, un genio folle… uno va alla cappella sistina e la prima cosa che fa è alzare lo sguardo e vedere gli affreschi più belli del mondo, Michelangelo, ecc… e lui cominciò a parlare del pavimento. Lui parlò del pavimento, intanto disse: “perché la cappella sistina sta qui, lontana dal corpo della chiesa di San Pietro? perché qui c’è il diavolo”. Come il diavolo? Portò Gombrich e Augias in un punto del pavimento della cappella sistina dove c’è una grata, “qui sotto c’è il diavolo”. Il diavolo ovviamente non era altro che il più grande tempio pagano dedicato a Mitra. Chiodo schiaccia chiodo.Ogni chiesa romana è stata costruita, edificata su un tempio pagano per mettere in piedi la nuova religione di cristo. Qui c’è il diavolo…

DIACO: questo racconto che mi stai facendo di Zeri… mi fa pensare che l’insegnamento tra i tanti che ti ha dato è quello di guardare le cose sempre da un altro punto di vista.

D’AGOSTINO: quello che mi disse Zeri è questo: ognuno vede quello che sa, questo è fondamentale. Se noi andiamo in un qualsiasi posto, il tuo sapere sa connettere, l’intelligenza è sapere connettere le cose, tu vedi, connetti e questa è l’intelligenza, questa è la cultura. Ognuno vede quello che sa. Su certi quadri vedeva delle cose che io non vedevo ovviamente… su altre cose io vedevo delle cose che lui non vedeva. non si può essere Leonardo, però quello che ti volevo dire, l’importante è la tua capacità di studio, devi studiare, non c’è televisione, internet… studiare ti fa capire quello che hai davanti agli occhi.

DIACO: Sai durante la pubblicità sono andato di là, dall’altra parte, ho sentito i tecnici dire che è inedita questa intervista… Nel senso che sentirti parlare, raccontare, narrare, non come nei soliti dibattiti televisivi a cui partecipi è molto bello.

D’AGOSTINO: Anche perché ho vissuto con dei personaggi da Zeri, Arbasino, Arbore, Boncompagni, ho avuto una grande fortuna e anche una grande umiltà di stare appresso a coloro che io reputavo come maestri. Achille Bonito Oliva non è facile come persona.

DIACO: Per niente…

D’AGOSTINO: Per niente… Però io sapevo che potevo succhiare quella cultura da lui.

DIACO: tu i padri cosiddetti nobili, gli insegnanti te li sei andati a cercare?

D’AGOSTINO: Beh certo li ho anche coltivati, per esempio quando ho conosciuto uno come Ettore Scola, Sergio Corbucci. I salotti di una volta a Roma quando c’era Guarini, Moravia, ti mettevano in crisi. Poi Roma era micidiale in questo.

(VIENE TRASMESSO UN FILMATO TRATTO DA MISTER FANTASY)

D’AGOSTINO: Negli anni 80 ad un certo punto si rompe tutto. La morte di Aldo Moro nel ’78 fa da confine. Ad un certo punto scompare quel periodo di ideologia anche criminale e nascono le tribù del rock: ognuno usava avere un’identità per raccontare agli altri non se stesso, perchè nessuno sa che siamo ma il suo immaginario quello che vorrebbe essere. Lo ritroviamo oggi in Instagram e tutto il resto. Ma nasce lì, nasce con la beat generation di Tom Wolfe, Christopher Lasch che scrive la cultura del narcisismo. La fine delle ideologie comportava che ognuno di noi ha un display da raccontare agli altri, non abbiamo più un gruppo, non abbiamo più un’ideale che ci crea un’identità.

DIACO: Ma era più sincera quella aspirazione di cui parli tu adesso o l’aspirazione di uno giovane di 15 anni di oggi che usa i social network per raccontare quello che gli piacerebbe essere e magari non è?

D’AGOSTINO: il problema oggi non è quello di essere se stessi, neanche negli anni 80. Il problema era creare se stessi. Tu dovevi creare una tua identità: una volta uno si metteva in un gruppo, in un corteo e l’insieme faceva l’identità di un ragazzo. Invece ad un certo punto liberi tutti. All’epoca c’era il paninaro, il new wave il rock billy, ognuno rappresentava quello che era la sua testa. Poi lo vediamo benissimo con Instagram. Che differenza c’è tra il fare un selfie e chiedere a qualcuno mi fai una foto con Diaco? È che con il selfie, il telefonino diventa uno specchio, tu metti la tua faccia, fai la tua boccuccia, crei la tua posizione, non sei più a disposizione di uno che ti fa la pancia, gli occhi chiusi eccetera.

DIACO: Cioè che ti ritrae…

D’AGOSTINO: Sei tu che ti crei con i filtri e vari giochetti… Posti una foto che non è reale. Quell’apparenza là è una creazione. Devi sopportare poi quell’apparenza, non è come mettersi una maschera di carnevale. Ed è in quegli anni ’80 che nasce il computer, nell’ 83. Sono quelli gli anni del postmoderno… In quegli anni lì Umberto Eco scrive il Nome della Rosa.

DIACO: La cosa curiosa è che nella tua carriera strettamente televisiva passi dal fare nel 1981 l’inviato per un programma come mister fantasy, a inventarti nel 1985 un personaggio come il lookologo. Ma la cosa assurda è che metti per la prima volta a processo in questa azienda l’istituzione di questa azienda, l’asset della Rai, facendo Sanremo penosi…

D’AGOSTINO: Io ho fatto pure una cosa che poi mi hanno censurato… Quando a Domenica In feci lo zucchino d’oro, dove davo ai personaggi che avevano combinato delle sciocchezze questo zucchino che avevo fatto dipingere d’oro, un bel zuccone che era molto fallico in effetti… Con Gianni ne abbiamo fatte tante di queste. C’era una sorta di cinismo, cattiveria, distacco… Non ce ne fregava niente. Il problema è che non va presa la televisione come se fosse i dieci comandamenti.

DIACO: è un gioco…

(IN STUDIO SI ASCOLTA LA CANZONE DAL JUKE BOX “She’s leaving home” The Beatles)

D’AGOSTINO: Perché ho scelto questa canzone? Ne potevo scegliere 3 mila che mi hanno colpito nella vita, che mi hanno cambiato la vita… Ho scelto questa canzone perché correva l’anno 1967 e c’era questo capolavoro che sta in Sergent Pepper. Questa canzone racconta un dramma: lei sta lasciando la casa. Voi sapete che tutte le canzoni prima dei Beatles raccontano “io mi sveglio la mattina e lei è andata via”. Qui chi va via è una ragazza che lascia la famiglia, scrive un bigliettino, la madre si sveglia e si accorge di questo biglietto diventa pazza, sveglia il padre e inizia la canzone. Lei lascia la casa e i genitori in questo coro da tragedia greca cantano questo: lei lascia la casa ma noi abbiamo lavorato tutta la vita per darle tutto quello che lei sognava . L’amore nessun denaro te lo può comprare, e noi le abbiamo dato l’amore e le abbiamo dato la nostra vita per farla felice…Perché ci lascia? E c’era quello scontro generazionale tra genitori, tra la famiglia e i figli, dove il figlio non riusciva a comunicare che voleva fare un’altra vita che doveva lasciare che doveva tagliare quel cordone ombelicale. Mi sono commosso a quelle parole lì dei genitori: “io ho dato tutta la mia vita per te, perché te ne vai?” Questo intreccio era cantato da Paul McCartney in un’epoca dove il vaffanculo all’istituzione familiare era d’obbligo, i Beatles fanno questa canzone dove mettono la tragedia di vedere una figlia che va via. Io li ho capito anche i miei genitori: io una volta fui buttato fuori di casa perché avevo rubato la pelliccia di mia madre per andare al Piper. Nel 67 vado a vedere i rolling stones al palasport e trovo Brian Jones con una pelliccia di lupo e delle babbucce rosa che suonava la chitarra. Io e il mio amico Paolo Zaccagnini abbiamo detto: cazzo è figa la pelliccia. Tu ce l’hai la pelliccia? Sì quella de mamma, pure io. Solo che lui aveva quella di visone, mia madre poraccia aveva sta pelliccia e non sapevo neanche il nome… d’astrakan, una cosa vergognosa. E vabbè che ce frega: andiamo al Piper con la pelliccia perché dovevamo fare come i Rolling Stones. Arrivo a casa alle tre di notte con la circolare, ero un ragazzino… Alzo lo sguardo e all’epoca si usava così che i genitori erano affacciati alla finestra preoccupati. Papà mi vede con la pelliccia si rivolge a mamma e le dice: aoh c’avemo un figlio frocio. All’epoca non capivo che era uno shock culturale per un genitore, mio padre faceva il saldatore, vedere un figlio con la pelliccia…era una cosa che io dovevo comprendere.

Alessandro Rico per “la Verità” il 7 ottobre 2019. D' Agostino, in Ungheria hanno la flat tax sulle imprese al 9% e al 15% sulle persone fisiche. Qui - l' ha scoperto Dagospia - il governo giallorosso studia l' Irpef monstre al 50% sopra i 300.000 euro di reddito.

«Forse non lo sa, ma qui abbiamo un debito pubblico enorme. Questo comporta anche cifre astronomiche che paghiamo per gli interessi. E d' altra parte c' è una questione di diseguaglianza».

Dice che la flat tax è iniqua?

«Dico che le tasse vanno abbassate, ma ai ceti medi. Chi guadagna tanto, deve pagare tanto. Invece i più ricchi e le grandi aziende, le tasse vanno a pagarle nei Paesi con regimi fiscali di favore».

Chi va in un paradiso fiscale, fugge da un inferno fiscale.

«Molti nostri grandi industriali se ne vanno in Lussemburgo, in Olanda Il punto è che a certi manca proprio la coscienza».

Però quando parte la lotta all' evasione, alla fine chi ci rimette sono i soliti professionisti, le solite partite Iva Tutti criminalizzati.

«All' origine c' è un problema europeo».

Che intende?

«L' Europa è stata costruita a partire dal tetto: hanno piazzato prima la moneta unica. Invece bisognava partire dall' armonizzazione dei regimi fiscali. Le faccio un esempio».

Sentiamo.

«Se porto la sede di Dagospia a Malta, praticamente non pago le tasse. Tutto questo non è sopportabile. Sull' Italia, invece, le posso raccontare un' esperienza personale».

Prego.

«Io ho lavorato dodici anni in banca. A un certo punto, negli anni Settanta, ero responsabile dei fidi per la zona di Roma Sud».

E allora?

«Non riuscivo ad accordare i mutui ai piccoli imprenditori perché nessuno pagava le tasse. Non avevano dichiarazione dei redditi. È per questo che la Dc prendeva tanti voti: consentiva agli italiani di non pagare le tasse».

Non è un' esagerazione?

«No. Infatti eravamo un Paese governato dagli strozzini: chi non può chiedere soldi in banca va dagli usurai».

Ma lei perché non se ne va in Olanda o in Lussemburgo?

«Ah, perché io le tasse le voglio pagare tutte. E vorrei che anche gli altri le pagassero. Sa cosa mi piace del sistema americano?».

Cosa?

«Che gli evasori vanno in galera».

Roberto D' Agostino ha creato una delle testate di maggior successo nel nostro Paese. L'informazione passa quasi sempre pure da Dagospia. Ma l' Italia, D' Agostino la dipinge a tinte fosche. Dagospia sta seguendo la vicenda della visita a Roma del procuratore americano Robert Durham e del ministro della Giustizia Usa, William Barr, che indagano sulle origini del Russiagate. È dalla disponibilità del nostro premier, che ha la delega ai servizi segreti, che arriva il famoso «Giuseppi», l' endorsement di Donald Trump a Conte nel bel mezzo della crisi di governo?

«Be', la politica è questo: una cosa a me, una cosa a te. Trump sta cercando di vendicarsi di chi ha montato la storia del Russiagate, che poi si è rivelato del tutto farlocco. Ed è significativo che la vicenda sia partita da Roma».

Perché?

«Nel 2016, al governo c' era Matteo Renzi. Uno che tifava spudoratamente per Hillary Clinton. Trump dunque accusa l' Italia di aver fatto scoppiare lo scandalo, usando come trappola il professore maltese della Link University, Joseph Mifsud».

Quello che avrebbe rivelato a George Papadopoulos, allora nello staff di Trump, che esistevano delle email compromettenti per la Clinton. Di lui si sono perse le tracce nel maggio 2018.

«Esatto. Che poi vorrei capire, questa Link University, che università sarebbe».

Cioè?

«Io non conosco studenti della Link. Conosco solo spie. Che corsi organizzano in quest' università?».

La Link è un' università fake?

«Non lo so. Bisognerebbe intervistare Vincenzo Scotti Però è un fatto che quest' università abbia prodotto uno come Mifsud. Chi ci mette i soldi? La Link ha una sede costosissima, praticamente non ha studenti. Chi paga?».

La Link è l' ateneo che sforna la classe dirigente grillina, tipo Elisabetta Trenta. E il M5s è anche il partito che sostiene l' accordo filocinese sulla via della Seta.

«Ma sa, i 5 stelle si sono trovati al potere senza avere una rete di rapporti. E hanno trovato Vincenzo Scotti e la Trenta. Non so se hanno avuto un ruolo in questa storia.

Conte è riuscito a soffiare a Matteo Salvini una preziosa sponda, come Washington, proprio nel momento in cui al leader leghista, che aveva consumato lo strappo, quell' alleato sarebbe servito di più?

«Mi pare chiaro che Trump abbia garantito a Conte un endorsement in cambio delle prove del complotto contro di lui. Ma Conte una cosa l' ha sbagliata».

Quale?

«Ha scelto di mettere allo stesso tavolo Gennaro Vecchione, capo dei servizi segreti e una figura politica come il ministro della Giustizia americano, Barr».

E che c' è di male?

«Gli apparati devono avere rapporti solo con altri apparati. Non con i politici. Quella di Conte è stata una scelta inopportuna e credo che ne pagherà le conseguenze».

Sarà costretto a chiarire di fronte al Copasir.

«Ovvio. Conte si affida molto a questo Vecchione, lo considera un amico, ma per me ha fatto una scelta sbagliata. Alla fine, tra l' altro, abbiamo dimostrato per l' ennesima volta che siamo dei camerieri».

Dice?

«Lo voglio vedere un nostro ministro della Giustizia che va, diciamo, da Emmanuel Macron, per avere un' audizione con i servizi francesi. L' Italia è considerata un Paese suddito, in cui ognuno si fa i cazzi propri».

Alla Lega è mancata la capacità di costruire network internazionali?

«L' abbiamo detto tutti. Salvini non ha avuto una visione geopolitica. Non si è reso conto che la politica di oggi è globale, in un' era di guerra fredda dei dazi. In questa situazione non puoi permetterti di andare un giorno da Vladimir Putin a dire che è un grande e il giorno dopo farlo con Trump».

Salvini ha provato a tenere il piede in due scarpe?

«E certo. E questo gioco ti porta a essere considerato da tutti un politico inaffidabile».

Il leader leghista dice che l' accordo per estrometterlo dal governo era già pronto da molto tempo prima che lui staccasse la spina.

«Dove pensava di andare insultando tutti i giorni Macron e Angela Merkel? Un politico deve sapere che a ogni azione corrisponde una reazione. Lui si meraviglia che l' accordo fosse pronto? È la meraviglia del coglione».

Per fare i sovranisti bisogna essere più accorti?

«Intanto, i sovranisti sono incapaci di allearsi tra di loro. Ognuno guarda ai propri interessi. Tant' è che Viktor Orbán e Lech Kaczynski col cazzo che in Europa stanno con Salvini Stanno con la Merkel, perché ha assicurato loro soldi e flessibilità. Salvini è rimasto con il cerino in mano: con i nazisti tedeschi e Marine Le Pen. I più furbi sono stati i 5 stelle, che hanno votato Ursula von der Leyen».

Comunque, anche quando facciamo gli europeisti, noi italiani rimaniamo tutti con il cerino in mano. Adesso tutti esultano per la flessibilità, ma il deficit previsto per la manovra presunta espansiva è al 2,2%.

«Però lei avrà notato che noi giornalisti non siamo più costretti a parlare tutti i giorni di spread e di agenzie di rating. Non stanno lì a regalarci i soldi, ma nemmeno hanno il fucile spianato. Guardi che facendo quella cazzata l' 8 agosto, Salvini s' è salvato la pelle».

Che intende dire?

«Se Salvini fosse arrivato al voto anticipato, per lui sarebbe cominciata una via crucis. Anzi, una via trucis».

L' avrebbero bombardato?

«Quotidianamente. Gli avrebbero fatto uno scherzetto tipo quello che hanno riservato ad Heinz-Christian Strache, l' ex vicecancelliere austriaco. Ti tirano fuori un video compromettente di due anni prima e ti fanno fuori».

Allora per i sovranisti non c' è speranza?

«Se vuoi stare nell' Ue, come in club, devi rispettare le regole. Se no, devi uscire, come ha fatto la Gran Bretagna. Ma è una scelta che ha delle conseguenze economiche. E infatti nella Lega non si sentono più i Claudio Borghi o gli Alberto Bagnai che parlano di uscire dall'euro. E Paolo Savona, il cigno nero? Che fine ha fatto?».

I primi sovranisti sono gli europeisti di Francia e Germania. Loro, delle regole se ne infischiano.

«Sì, ma non possiamo metterci sullo stesso piano di Francia e Germania. L' Italia è vassalla. Qui arriva il ministro della Giustizia americana e parla con chi vuole. Francia e Germania se ne infischiano dei veti sul 5G dell' America».

Ci rassegniamo al ruolo di camerieri?

«Finché dovremo andare a chiedere soldi in Europa, ci terranno al guinzaglio. Il creditore ha sempre il coltello dalla parte del manico».

Il pateracchio giallorosso dura?

«Chiunque destabilizzi questo governo verrà a sua volta destabilizzato».

Quindi il governo è in una botte di ferro?

«L' Europa vuole questa stabilità. Perciò, appena a Luigi Di Maio o Matteo Renzi verrà in mente di fare qualche colpo di testa, arriverà la magistratura a rimetterli a cuccia».

Non hanno loro le leve del potere, insomma.

«Il potere è invisibile, sta in alto, è il deep State. Questi mica sono leader: questi sono delegati dal potere. Uno come Conte, secondo lei, chi rappresenta? Manco la moglie. Essendo burattini, non appena il burattinaio decide che non vanno più bene, taglia i fili».

Che intervista pessimista.

«Si chiama Realpolitik. Non ci sono più ideali o ideologie. Come diceva Cuccia, articolo quinto: chi ha i soldi ha vinto».

·         Diritto all’oblio. Una censura tutta Comunitaria.

Diritto all’oblio, Google  vince la causa: nessun obbligo alla rimozione fuori dalla Ue. Pubblicato martedì, 24 settembre 2019 da Corriere.it. Google non ha l’obbligo di rimuovere i collegamenti a dati personali sensibili a livello globale: è quanto ha sancito martedì 24 settembre la Corte di Giustizia dell’Unione, nella causa tra il colosso tecnologico e i regolatori della privacy francesi. In Francia il garante della privacy del CNIL nel 2016 aveva multato Google per 100 mila euro per aver rifiutato di eliminare informazioni sensibili dai risultati di ricerca su Internet a livello globale - limitandosi alla sola versione europea - in base a quello che viene definito il «diritto all’oblio». Adesso il motore di ricerca non sarà tenuto, fuori dall’Ue, a rimuovere link a contenuti che alcuni utenti vorrebbero non più visibili in virtù di tale diritto. La decisione della Corte farà sì che i contenuti che in Europa siano considerati «dimenticabili», in forza del diritto all’oblio, potranno essere in ogni caso visibili nei risultati di ricerca di Google all’esterno dell’Ue. Il contenzioso tra il motore di ricerca, che vuole preservare il diritto a trovare informazioni sul suo sito, e alcuni Stati membri dell’Unione si protrae da anni. Il diritto all’oblio venne «concesso» ai cittadini dalla Corte europea, nel 2014. Riconosce la possibilità di chiedere che siano cancellati un video, un testo o un’immagine che riguardano il nostro passato e che non siano più rilevanti per l’opinione pubblica. Il diritto di sparire dal Web senza lasciare tracce venne invocato per primo da un cittadino spagnolo che ogni volta che digitava il suo nome su Google vedeva comparire un articolo pubblicato nel 1998 dalla Vanguardia, dove si parlava dei suoi debiti verso lo Stato, poi estinti. Dopo un lungo ricorso, ottenne la deindicizzazione del contenuto. E la sentenza che ne derivò ha dato la possibilità a tutti di chiedere l’eliminazione di ciò di cui ci vergogniamo o da cui ci sentiamo insultati. Operazione non scontata: prevede innanzitutto la richiesta al motore di ricerca di deindicizzare il contenuto. Se non va a buon fine, si può fare ricorso al Garante per la Privacy. Ultima chance, rivolgersi a un giudice. Ma a fare da contraltare al diritto all’oblio c’è il diritto di cronaca: se c’è ancora interesse da parte del pubblico, l’informazione non può essere cancellata.

Google non dovrà garantire il diritto all'oblio su scala globale. Beniamino Pagliaro il 24 settembre 2019 su La Repubblica. Google non dovrà applicare il diritto all'oblio su scala globale: il motore di ricerca non sarà obbligato a rimuovere i link a contenuti che alcuni utenti non vorrebbero più far vedere in nome del diritto all'oblio, fuori dall'Unione europea. La decisione della Corte di giustizia dell'Unione europea farà sì che i contenuti che in Europa sono considerati "dimenticabili" potranno essere in ogni caso visibili nei risultati di ricerca di Google all'esterno dell'Unione. La battaglia tra il motore di ricerca, che vuole preservare il diritto a trovare informazioni sul suo sito, e alcuni stati membri dell'Unione, si protrae da anni. Nel 2016 l'authority per la privacy della Francia aveva multato Google per 100mila euro in quanto il gruppo di Mountain View si era rifiutato di cancellare a livello globale i contenuti che in Europa hanno diritto all'oblio. L'authority aveva poi portato Google in tribunale chiedendo la deindicizzazione globale dei contenuti soggetti al diritto, e la giustizia francese aveva rimandato il caso alla Corte di giustizia. In attesa della decisione comunicata oggi, in realtà, in molti stati europei, dalla Spagna alla Danimarca e alla Grecia, alcune sentenze hanno rigettato l'idea del "global removal", a partire dal principio chiave che una norma possa valere solo nel territorio in cui è stata adottata. Non esiste, insomma, l'extraterritorialità del diritto, anche in tema di informazione. La decisione della Corte sembra confermare questa linea. I risultati delle ricerche su Google non cambieranno in ogni caso in base al dominio: non basterà passare da google.fr o google.it a google.com per vedere i risultati completi. Google restituisce i risutati in base alla localizzione dell'utente. Il diritto all'oblio nell'Unione europea è stato sancito dalla stessa Corte di giustizia con una decisione del 2014, ed è stata poi inclusa nel Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr). Ma non è esportabile. Quella di oggi è una vittoria per Google: all'interno della Ue si è dovuta adeguare alla norma, ma non dovrà farlo a livello globale. I sostenitori del diritto all'oblio sono invece contrariati: "La barriera territoriale appare sempre più anacronistica", ha commentato il garante per la privacy in Italia, Antonello Soro. La decisione contribuirà al tempo stesso ad aumentare ulteriormente le differenze - per alcuni osservatori una vera e propria balcanizzazione - tra l'accesso ai contenuti su internet nelle varie aree del mondo. In Europa i cittadini non vedranno alcuni contenuti a cui potrebbero accedere negli Stati Uniti.

(ANSA il 24 settembre 2019) - La Corte di giustizia Ue dà ragione a Google: i motori di ricerca - qualora dovessero accogliere una richiesta di "diritto all'oblio" da parte di un utente - non sono obbligati ad applicarla in tutte le loro versioni. Tuttavia, fatto salvo alcune eccezioni previste dal diritto Ue, vale invece anche per i gestori dei motori di ricerca il divieto di trattare determinati dati personali sensibili. La prima sentenza della Corte riguarda il ricorso di Google Inc, contro la multa da 100mila euro ricevuta dal Commissione nazionale dell'informativa e delle libertà francese per essersi rifiutato di applicare la "deindicizzazione" dei link, il cosiddetto "diritto all'oblio", a tutte le versioni del suo motore di ricerca. Il ricorso del colosso di Mountain View al Consiglio di Stato ha portato al pronunciamento della Corte europea. I giudici del Lussemburgo sottolineano che per rispettare pienamente il diritto all'oblio sarebbe necessaria un'operazione a livello mondiale. Tuttavia, molti Stati terzi non riconoscono tale diritto o lo applicano diversamente. Di conseguenza, allo stato attuale non sussiste, per il gestore di un motore di ricerca che accoglie una richiesta di deindicizzazione, l'oblio derivante dal diritto dell'Ue di effettuare tale deindicizzazione su tutte le versioni del suo motore. Il motore di ricerca deve invece applicare il diritto all'oblio in tutte le sue versioni negli Stati membri Ue, mettendo in pratica misure che permettano quantomeno di scoraggiare gli utenti dall'accedere, attraverso l'elenco dei risultati, a versioni "extra Ue" del motore stesso. Il secondo blocco di sentenze riguarda invece il ricorso di quattro cittadini contro il rifiuto del Cnil francese di ingiungere alla società Google Inc. di applicare il diritto all'oblio nei loro confronti. Con la sentenza odierna, la Corte sottolinea che il gestore di un motore di ricerca non è responsabile del fatto che dei dati personali sensibili compaiono su una pagina web pubblicata da terzi, ma dell'indicizzazione di tale pagina. Rientra quindi nei suoi compiti verificare se l'inserimento dei link nell'elenco dei risultati sia strettamente necessario per proteggere la libertà d'informazione degli utenti, oppure se questi possano essere "deindicizzati" su richiesta dell'interessato. In particolare, per quanto riguarda i procedimenti penali, qualora non ritenesse di poter accogliere la domanda sul "diritto all'oblio" di una persona, il gestore del motore di ricerca è comunque tenuto a sistemare l'elenco dei risultati in modo tale che l'immagine globale che ne risulta per gli utenti rifletta la situazione giudiziaria attuale facendo comparire per primi i link verso pagine contenenti informazioni più recenti.

(ANSA il 24 settembre 2019) - "Leggeremo le motivazioni della decisione della Corte di Giustizia, che però ha sicuramente un impatto rilevante sulla piena effettività del diritto all'oblio. In un mondo strutturalmente interconnesso e in una realtà immateriale quale quella della rete, la barriera territoriale appare sempre più anacronistica". E' il commento del Garante per la privacy, Antonello Soro, alle sentenze della Corte Ue in materia di applicazione del diritto all'oblio da parte di Google nei Paesi dell'Unione. "A maggior ragione - continua Soro in una nota - acquista ulteriormente senso l'impegno delle Autorità europee di protezione dati per la garanzia universale di questo diritto, con la stessa forza su cui può contare in Europa. L'equilibrio tra diritto di informazione e dignità personale, raggiunto in Europa anche grazie alla disciplina dell'oblio, dovrebbe rappresentare un modello a livello globale".

(ANSA il 24 settembre 2019) - "Dal 2014 ci siamo impegnati per implementare il diritto all'oblio in Europa e per trovare un punto di equilibrio tra il diritto di accesso all'informazione e la privacy. È bello vedere che la Corte ha condiviso le nostre argomentazioni; siamo grati alle organizzazioni indipendenti per i diritti umani, alle associazioni del mondo dell'informazione e alle molte altre associazioni in tutto il mondo che hanno presentato le loro opinioni alla Corte". Lo ha dichiarato Peter Fleischer, Senior Privacy Counsel di Google, commentando la decisione della Corte di giustizia Ue secondo la quale i motori di ricerca - qualora dovessero accogliere una richiesta di "diritto all'oblio" da parte di un utente - non sono obbligati ad applicarla in tutte le loro versioni.

(ANSA il 24 settembre 2019) - "Prendiamo nota della sentenza odierna della Corte di giustizia europea sul diritto all'oblio, che è in linea con la posizione presa dalla Commissione Ue su questo caso". Così un portavoce dell'esecutivo comunitario commentando la decisione dei giudici del Lussemburgo sul ricorso di Google contro la multa da 100mila euro ricevuta dal Cnil francese per essersi rifiutato di applicare la "deindicizzazione" dei link, il cosiddetto "diritto all'oblio", a tutte le versioni del suo motore di ricerca. "La sentenza chiarisce che il diritto all'oblio si applica all'interno dell'Ue e che i gestori dei motori di ricerca devono prendere misure specifiche ed efficaci per assicurare che questo diritto sia garantito - ha aggiunto il portavoce - tuttavia, il diritto all'oblio non si applica necessariamente fuori dall'Europa. All'interno dell'Ue le regole sulla protezione dei dati si applicano e devono essere rispettate, e questo include il diritto all'oblio".

·         Il Diritto di Citazione. Censura e Fake News. Se questi son giornalisti...

Non si è colti, nè ignoranti: si è nozionisti, ossia: superficiali.

Nozionista è chi studia o si informa, o, più spesso, chi insegna o informa gli altri in modo nozionistico.

Nozionista è:

chi non approfondisce e rielabora criticamente la massa di informazioni e notizie cercate o ricevute;

chi si ferma alla semplice lettura di un tweet da 280 caratteri su twitter o da un post su Facebook condiviso da pseudoamici;

chi restringe la sua lettura alla sola copertina di un libro;

chi ascolta le opinioni degli invitati nei talk show radio-televisivi partigiani;

chi si limita a guardare il titolo di una notizia riportata su un sito di un organo di informazione. 

Quel mondo dell'informazione che si arroga il diritto esclusivo ad informare in virtù di un'annotazione in un albo fascista. Informazione ufficiale che si basa su news partigiane in ossequio alla linea editoriale, screditando le altre fonti avverse accusandole di fake news.

Informazione o Cultura di Regime, foraggiata da Politica e Finanza.

Opinion leaders che divulgano fake news ed omettono le notizie. Ossia praticano:  disinformazione, censura ed omertà. 

Nozionista è chi si  abbevera esclusivamente da mass media ed opinion leaders e da questi viene influenzato e plasmato.

Gustavo Bialetti per “la Verità” il 28 novembre 2019. In tempi di buonismi e lotta alle fake news, bisogna riconoscere che la mamma delle notizie stupide è sempre incinta. C' è un tale bisogno di rassicurarci a vicenda del fatto che, grazie al pieno appoggio di ogni élite del pianeta, non torneranno né il nazismo, né il fascismo, né l' antisemitismo, che anche le normali notizie di costume vengono utilizzate per dimostrare che «il Paese reale» è più avanti di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni. E, nel caso si riprendesse dai suoi business, anche di Silvio Berlusconi. L' ultimo saggio di questo schema mediatico da sociologi del bar è la seguente fanta-notizia, che prendiamo dalla Stampa di ieri, ma che era riportata con la medesima gioia un po' ovunque: «Li chiameremo Leonardo e Sofia. Quando gli stranieri scelgono nomi italiani per i figli». Nell' articolo, gonfio di poesia, si parte da Giulietta e Romeo e si ricorda che il nome italiano «per i giovani genitori stranieri da poco arrivati in Italia è uno strumento potente per assicurare ai figli più accoglienza e integrazione». Come no. Anche noi potremmo chiamare un figlio Jeeg o Kyashan, in omaggio ai cartoni, ma questo non garantirebbe che parlasse giapponese. Ma prima di ricavare teorie sull' integrazione buone per la vigilia di Natale, bisognerebbe ricordare che se il fenomeno dei nomi italiani è vero per i cinesi, si tratta spesso di un doppio nome per non essere esclusi dal mondo degli affari. Mentre per i rumeni, che sono di ceppo latino, molti nomi sono comuni alle due lingue. Invece il fenomeno del nome italico è raro per gli islamici, molto gelosi (e giustamente) delle loro tradizioni. E alla fine, anche questo conferma che non si vogliono integrare davvero. Insomma, era la solita fake news dei cacciatori di fake news.

Ferruccio Michelin per formiche.net il 28 novembre 2019. Da un lato la disinformazione diffusa dall’esterno come un’arma per portare avanti una guerra culturale profonda, studiata, secondo i servizi di intelligence americani e non solo, per rovesciare l’ordine occidentale e il suo sistema di valori. Dall’altro la notizia di una sponda prestata, proprio in Italia, a uno dei media-outlet con cui il Cremlino diffonde la sua narrativa in giro per il mondo. Il network internazionale Sputnik, braccio propagandistico con cui il governo russo arriva in almeno 32 lingue, italiano compreso, ha tenuto l’altro ieri all’Università di Messina – ateneo istituito nel 1548 da Paolo III (il papa del Concilio di Trento e dell’approvazione alla Compagnia di Gesù) – una sessione formativa dedicata alle ultime tendenze nello sviluppo nell’ambiente globale dell’informazione e alla ricerca di nuovi canali e modalità di fornitura di contenuti ai consumatori. Sono stati in molti, però, a rilevare come la testata in questione sia da tempo al centro di critiche internazionali, che comprendono anche quelle negli Stati Uniti in relazione al cosiddetto Russiagate. Un esempio recente che ha fatto discutere: la morte di Abu Bakr al Baghdadi. Il Califfo s’è probabilmente suicidato meno di due mesi fa, braccato dagli americani della Delta Force che gli erano piombati addosso nel compound siriano dove viveva sotto gli occhi dei lealisti russi. Il presidente statunitense ha pubblicamente ringraziato la Russia per aver fatto passare gli elicotteri delle forze speciali che hanno condotto l’operazione: ed è realmente andata così, perché Mosca controlla i cieli siriani. Non solo: cinque giorni dopo l’operazione americana erano stati quelli dello Stato islamico ad ammettere l’enorme perdita celebrando pubblicamente il martirio del Califfo. Ma per i media del Cremlino Baghdadi non è morto, anzi dicono che non c’è stata proprio nessuna operazione quella notte; fermo restando che Sputnik ne ha annunciato l’uccisione per mano russa almeno tre volte e ultimamente scriveva che si sarebbe rifugiato in Libia. È una prassi molto comune e nota della Russia (e in passato dell’Unione sovietica), che fa lega anche sui media russi vicini o controllati da Mosca. Si chiama disinformatja, serve a rovesciare il senso delle cose, della realtà e della verità. Ha lo scopo di mandare in tilt chi ascolta, far perdere l’orientamento tra le informazioni. Mette il pubblico davanti al dubbio, rimbalzato dai social network. Nell’ambito del progetto “SputnikPro”, a Messina c’erano la vicedirettrice capo di Russia Today, Natalya Loseva, e la vicedirettrice della divisione trasmissioni estere, Tatyana Kukhareva. Il dibattito sui media moderni è stato moderato dal presidente del più grande gruppo editoriale siciliano, Ses, Lino Morgante. Il rettore dell’Università di Messina, Salvatore Cuzzocrea, ha anche sottolineato che l’evento si è svolto all’interno delle mura dell’antica Accademia Peloritana, che è stata creata a Messina nel 1729 per diffondere i valori culturali, scientifici e umanistici. Secondo il rettore, le relazioni degli ospiti provenienti dalla Russia “rispondono” a queste tradizioni e soddisfano gli interessi di sviluppo delle relazioni internazionali dell’Università. Ma c’è chi nutre forti dubbi a riguardo.

Davide Desario per leggo.it il 17 dicembre 2019. All'inizio del 2019, con un vezzo quasi maniacale, ho preso un bloc notes e l'ho dedicato agli errori di Leggo. Ora che l'anno è quasi in chiusura mi rendo conto che ho scritto solo una pagina. Ma, purtroppo, l'ho scritta. Perché alla squadra di giornalisti che quotidianamente elabora su carta e su web tanti articoli (selezionandoli tra il fiume notizie e verificandoli fino all'ultimo minuto) è capitato di sbagliare. Mai in malafede, posso garantirvelo. Così, laddove possibile, abbiamo corretto subito su internet; in altri casi abbiamo rettificato nei giorni successivi. A nessuno fa piacere commettere errori. Non dovrebbe capitare, ma è capitato. Per questo oggi abbiamo dedicato una pagina alle notizie sbagliate. Chiediamo scusa ai lettori tutti. Fare meglio è difficile, ma è possibile. Provarci è il nostro dovere.

Leggo è una squadra di giornalisti che cerca ogni giorno di informare al meglio i lettori sull'attualità: dalla cronaca alla politica, dallo sport agli spettacoli. Lo facciamo con attenzione cercando di verificare sempre le notizie. Eppure qualche volta commettiamo degli errori: per eccessiva fiducia nelle fonti, per un maledetto momento di distrazione, per la concitazione di certi instanti, può capitare di sbagliare. Ci sembra giusto, quindi, per un dovere di trasparenza verso i lettori, in chiusura di questo 2019 ricordare alcune delle occasioni in cui ci siamo sbagliati. Chiediamo scusa agli interessati e ai lettori tutti. Con una certezza: ogni giorno iniziamo a lavorare pensando a come avremmo potuto fare meglio il giorno prima. E non smetteremo mai di farlo.

Il 26 luglio è stato ucciso il carabiniere Cerciello Rega. Al momento del suo assassinio alcune agenzie di stampa, e altre fonti, sostenevano che a ucciderlo fossero stati due uomini di colore. Venne fornito un identikit degli assassini. E anche noi di Leggo in un primo momento sul nostro sito internet riportammo la stessa versione. Sbagliammo, perché con il passare delle ore a venire a galla fu un'altra verità: ad essere coinvolti nell'omicidio del maresciallo Cerciello Rega erano due turisti statunitensi in vacanza a Roma. Correggemmo subito.

Stavolta c'era anche un video choc. In primavera, una ragazza di Portici (Napoli) denunciò di essere stata violentata dal branco nell'ascensore della stazione della Circumvesuviana di San Giorgio a Cremano, il paese di Massimo Troisi. I presunti autori della violenza furono fermati, le prove sembravano schiaccianti. Dammo per certa la notizia senza dire che fosse la sua versione. Ma il racconto della ragazza non risultò del tutto veritiero.

A luglio, in cronaca di Roma, abbiamo pubblicato la foto di un mezzo pubblico nel quale entrava pioggia dal tetto. Avevamo indicato quel mezzo come uno dei nuovi filobus comprati dal Comune dopo mesi di attesa. In realtà era solo un autobus di linea. Nelle stesse pagine, un altro errore. È di giovedì scorso e riguarda sempre il maltempo, non pioggia ma freddo. Alcuni inquilini delle case popolari avevano dato vita a una protesta per far accendere i termosifoni. Nel titolo avevamo indicato l'Ater come responsabile: erano invece case del Comune.

Anche nelle pagine di politica c'è scappata la gaffe. In un'intervista indicammo l'ex-ministra Beatrice Lorenzin come appartenente al Pd. All'epoca invece era un'esponente di Ap. Una gaffe, profetica tant'è che poco dopo si iscrisse effettivamente ai Dem. (R. Leggo)

Vittorio Sabadin per “la Stampa” il 15 dicembre 2019. La Bbc è uscita un po' ammaccata dalla campagna elettorale più ricca di bugie della storia britannica, al punto da domandarsi se non sia diventato molto difficile, nell' era dei social media, fare un' informazione corretta. Il direttore generale Tony Hall ha mandato un messaggio ai dipendenti, ringraziandoli per il lavoro fatto. Ha dovuto però ammettere anche qualche errore, «del tutto comprensibile in una campagna così frenetica». Ma i suoi giornalisti non pensano che le cose siano così semplici. Il Guardian ha dedicato una lunga analisi al problema, osservando che per la prima volta il rigore informativo si è confrontato direttamente con le chiacchiere dei social. Il rigore è rimasto così spiazzato da lasciare il campo con profonde ferite. Colpa anche di alcuni errori, dovuti all' innata tendenza della Bbc a essere un po' governativa: sono state tagliate le risate del pubblico alla domanda, rivolta a Johnson, se un politico debba essere sincero; è stato preso per vero, senza controllare, l'inesistente schiaffo di un laburista a un ministro. Ma per la prima volta imprecisioni anche meno gravi di queste sono state amplificate da un'onda di critiche su Twitter e sui social, che contemporaneamente diffondevano versioni diverse di ogni fatto. «Le cose diventavano virali in così poco tempo - ha detto Fran Unsworth, la responsabile delle News - che la nostra capacità di replicare con una informazione corretta è stata limitata. Dopo che un' informazione non vera si è diffusa, la gente sembra quasi non volere sentire la verità». Con le elezioni, il modello di reporting neutrale della Bbc, indispensabile alla democrazia in una nazione divisa, è entrato in crisi perché non è più adatto a un' era nella quale i politici manipolano i media traendone vantaggio. Ingenti somme sono state spese da Laburisti e Conservatori per diffondere su Facebook e su altri social informazioni che gruppi di verifica dei fatti come Full Fact hanno scoperto essere per l' 80% non veritiere. La crisi della Bbc ha messo allo scoperto anche un conflitto generazionale. I giornalisti più giovani hanno confessato di essere paralizzati dall' idea che qualunque parola dicano in tv o alla radio debba passare lo spietato e spesso irresponsabile scrutinio dei social media. I più anziani danno meno peso alle critiche di Twitter, ma sono accusati a loro volta dai colleghi giovani di usare male i social, nei quali si esprimono con un linguaggio povero, sarcastico e disattento. Tony Hall ha auspicato che le piattaforme social si pongano il problema di un controllo sui contenuti che diffondono, e sui continui attacchi a chi cerca di fare informazione corretta. I giornalisti della Bbc sentiti dal Guardian hanno detto che non parlano più del loro lavoro ai ricevimenti e alle feste: c' è un' astiosità tangibile, alimentata dai social. «La Bbc non va bene? Finiranno con Fox News e Russia Today» è stato uno dei loro commenti. «Meglio essere criticati che ignorati, vuol dire che siamo ancora importanti», ha concluso Fran Unsworth. Ma il problema è serio, e non si risolve con le battute.

Giangavino Sulas per “Oggi” il 28 novembre 2019. La macchina delle fake news non si ferma. E non guarda in faccia nessuno. Anzi, per diffondere le sue bufale, sembra scegliere con cura personaggi diventati famosi a causa di terribili storie di cronaca nera. Qualche settimana fa tv e giornali avevano preso per vera la notizia di un'eredità a Pietro Maso, ma Oggi, sul n. 45, ha smascherato l'invenzione: tutto falso. Ora tocca ad Annamaria Franzoni: avrebbe chiesto il Reddito di cittadinanza e le sarebbe stato negato. Ma le cose non stanno così. La Franzoni, accusata di aver ucciso a Cogne, il 30 gennaio 2002, il figlioletto Samuele di 3 anni, dopo una condanna in primo grado a 30 anni usufruì del parziale vizio di mente e in Appello la pena fu ridotta a 16 anni diventati 13 grazie a un indulto. Ne ha scontati sei in carcere e cinque ai domiciliari. Oggi vive a Monteacuto Vallese, a pochi chilometri da San Benedetto Val di Sambro, con il marito Stefano Lorenzi che lavora con il suocero-patriarca e l'ultimo figlio Gioele, nato l'anno dopo l'omicidio di Samuele. Il primogenito Davide, 25 anni, è andato a vivere in Romania con la compagna. Nei giorni scorsi numerosi giornali, riprendendo un comunicato stampa della misteriosa associazione Giustitalia, hanno reso noto che la Franzoni aveva chiesto il Reddito di cittadinanza e che l'Inps di Bologna aveva respinto la domanda. Aggiungendo che Giustitalia avrebbe affiancato la Franzoni per presentare il ricorso. Secca e puntuale è arrivata la smentita. L'avvocato Paola Savio ha fatto sapere che Annamaria non ha mai presentato alcuna richiesta di Reddito e di non averci mai neppure mai pensato. Non ha aggiunto altro e perfino Giustitalia ha preferito tacere. La stessa Giustitalia solo un paio di settimane fa aveva dato la notizia che anche a Marita Conti, la moglie di Massimo Bossetti, era stato negato il Reddito di cittadinanza e che aveva deciso di affiancare la donna per tutelarne i diritti. È vera solo la prima parte della notizia. Marita Conti, convinta da un'amica, nel febbraio scorso aveva fatto domanda per accedere al Reddito ma prevedeva già che sarebbe stata respinta perché nei due anni precedenti aveva percepito un reddito piuttosto alto grazie a alcune interviste pagate profumatamente da un settimanale e ad alcune apparizioni in tv. Somme che Marita non ha neppure visto. Sono servite per sostenere le spese processuali del marito. Oggi la moglie di Bossetti lavora part-time con un'agenzia di pulizie. Si alza alle 5 del mattino e guadagna 500 giuro al mese. L'aiuta il primo-genito Nicolas che ha compiuto i 18 anni e lavora come idraulico con lo zio. Marita non ha intenzione di rifare la domanda per avere il Reddito e soprattutto precisa di non aver mai ricevuto da Giustitalia alcuna proposta per fare ricorso.

Wikileaks, la verità sull'attacco chimico a Douma in Siria. Un anno e mezzo fa, il presunto attacco chimico a Douma, in Siria, il 7 aprile del 2018, scatenò una profonda reazione internazionale e si dette la colpa al presidente Bashar al-Assad. Ora, però, la verità potrebbe essere riscritta. Una mail interna all'Opac, ottenuta da WikiLeaks, lascia affiorare le perplessità di un ispettore dell'Organizzazione che nel 2018 partecipò all'indagine. Stefania Maurizi il 24 novembre 2019 su La Repubblica. E' un episodio che poteva far sprofondare il mondo in una nuova guerra in stile Iraq, innescata dalle inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam. Un anno e mezzo fa, il presunto attacco chimico a Douma, in Siria, il 7 aprile del 2018, scatenò una profonda reazione internazionale, con le foto dei bambini rilanciate da tutti i media del mondo, tanto che appena una settimana dopo Stati Uniti, Francia e Inghilterra lanciarono una serie di bombardamenti contro la Siria di Bashar al-Assad. Da subito, infatti, si dette la colpa al regime di Assad, senza neanche aspettare l'indagine scientifica dell'Opac, l'Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche, l'organismo tecnico internazionale che vigila sul rispetto della Convenzione sulle armi chimiche. Ora, però, la verità su Douma potrebbe essere riscritta. Una mail interna all'Opac, ottenuta da WikiLeaks e condivisa con il nostro giornale, lascia affiorare le perplessità di un ispettore dell'Organizzazione che nel 2018 partecipò all'indagine. Già un mese fa, Repubblica aveva raccontato dell'esistenza di un whistleblower – la cui identità non è nota al nostro giornale - che accusa l'Opac di aver manipolato il rapporto tecnico su Douma. Repubblica aveva prontamente contattato l'Organizzazione, chiedendo chiarimenti sulle gravi accuse lanciate dal whistleblower. Dopo quasi un mese di silenzio, l'Opac ci ha risposto due giorni fa, confermando di attenersi alle sue conclusioni: “ci sono motivi fondati di credere che l'uso di un'arma chimica è avvenuto a Douma il 7 aprile del 2018” e “l'elemento tossico era probabilmente cloro molecolare”. La nuova email appena rivelata da WikiLeaks, però, potrebbe riaprire il caso, innescando un dibattito alla luce del sole, in una vicenda tanto complessa e oscura. Il documento è datato 22 giugno 2018, in quei giorni tutto il mondo aspettava le conclusioni degli ispettori dell'Opac inviati a Douma, ma il rapporto finale fu pubblicato con un enorme ritardo, quasi un anno dopo: solo nel marzo 2019. Oggi, questa email lascia affiorare le perplessità che in quei mesi circolavano tra le fila dei tecnici. A scrivere è il whistleblower che si rivolge al diplomatico inglese Robert Fairweather, capo di gabinetto dell'allora direttore generale dell'Opac, il diplomatico turco Ahmet Uzumcu. “Gentile Rob”, recita il testo, “come membro del team della missione di Fact-finding che ha condotto l'inchiesta sul presunto attacco a Douma, il 7 aprile, desidero esprimere la mia più grave preoccupazione per la versione redatta del rapporto della missione di Fact-finding”. Il whistleblower non fa nomi, ma attribuisce responsabilità ai livelli più alti dell'Organizzazione: l'ufficio del Direttore generale. E continua: “Dopo aver letto questo rapporto modificato, che tra l'altro nessun altro membro del team inviato a Douma ha avuto l'opportunità di fare, io sono rimasto colpito da quanto rappresenta i fatti in modo errato”. L'email non contiene alcuna valutazione politica: riporta esclusivamente considerazioni tecniche. Per esempio, contesta il fatto che a Douma gli ispettori abbiano appurato la presenza di alti livelli di “derivati organici contenenti cloro […] rilevati nei campioni ambientali” e scrive che essi erano “nella maggior parte dei casi, presenti solo in parti per miliardo, un livello così basso di 1-2 parti per miliardo, che essenzialmente significa tracce”. Il tecnico contesta anche che, mentre il report originale degli ispettori discuteva in dettaglio le contraddizioni tra i sintomi accusati dalle presunte vittime e quelli riportati dai testimoni e visti nei video che circolavano, queste considerazioni sono state omesse nel rapporto redatto e sottolinea che “queste incongruenze erano state notate non solo dal team della Fact-finding mission, ma erano state fortemente confermate da tre tossicologi con una competenza specifica in materia di esposizione alle armi chimiche”. Infine, l'ex ispettore contesta l'affermazione che il gas tossico fosse fuoriuscito da due cilindri metallici gialli, le cui foto fecero il giro del mondo. Lunedì l'Opac terrà la conferenza di tutti i suoi Paesi membri a L'Aia: l'Organizzazione premio Nobel per la Pace 2013 farà chiarezza sulle gravi accuse del whistleblower, dopo questa email?

CI SEI O CI FAKE? Daniela Ranieri per "il Fatto quotidiano” il 17 ottobre 2019. Italia Viva è viva e lotta contro le fake news. Il partitino di Renzi chiede la costituzione di una commissione d' inchiesta sulle bugie. La proposta di legge, la cui prima firmataria è Maria Elena Boschi, prevede che la commissione indaghi "sui casi di informazioni distorte per influenzare consultazioni elettorali" e indichi al Parlamento "specifiche forme di repressione penale per la diffusione di contenuti illeciti". Di seguito un breve promemoria a uso di chi dovesse essere condotto in ceppi davanti al giudice con l' accusa di aver fatto perdere ai renziani il referendum del 2016 mediante "la diffusione seriale massiva di contenuti illeciti e di informazioni false attraverso la rete".

"L' Italia è più grande di chi vorrebbe fermarla e l' autostrada Salerno-Reggio Calabria è il simbolo che se tutti insieme lavoriamo nella stessa direzione alla fine i risultati parlano". "La Salerno Reggio Calabria sarà pronta #comepromesso il 22 dicembre. Intanto da oggi è a 4 corsie. L' Italia cambia passo dopo passo #lavoltabuona". Per pre-inaugurare a marzo 2016 la Salerno-Reggio Calabria (paventando che il 22 dicembre non ci sarebbe stato lui a tagliare il nastro, come infatti è stato) e vendicarsi della stampa straniera che rise di lui, Renzi accorcia l' autostrada di 95 km (da 450 a 355), chiude 4 cantieri su 5, restringe le corsie da 4 a 1 nei pressi di Cosenza. A giugno 2018, i cantieri ancora aperti erano 67.

"I cittadini sceglieranno quali consiglieri regionali andranno a Palazzo Madama. Si vota, c' è la legge elettorale, non c' è trucco e non c' è inganno" (29.11.2016) Nel #matteorisponde Renzi agita una scheda elettorale per "smontare la bufala che i senatori saranno nominati dai partiti". Sostiene sia un fac-simile: in realtà è una fotocopia fatta a mano. Non esisteva nessuna legge elettorale per il Senato. Tra quel foglio e delle elezioni vere c' era la stessa relazione che c' è tra un atto di nascita falso e un parto.

"La riforma costituzionale darà al Sud gli stessi livelli di cura del Nord: se c' è un farmaco sull' epatite C, perché in Lombardia ci si mette 3 mesi per liberarlo e in altre Regioni 3 anni? Perché i sistemi sono diversi, con la riforma cambia il Titolo V e il livello di assistenza sarà in Lombardia e in Calabria" (Renzi, 27.11.2016).

"Oggi non c' è lo stesso diritto per ciascun cittadino di accedere alle stesse cure in termini di malattie molto gravi come il tumore o di vaccini. Se passa la riforma invece avremo il dovere che ci sia lo stesso tipo di diritti a prescindere dalla regione dove vivono" (Boschi, 11.2016). Posto che la riforma non toccava affatto le disparità tra Regioni, la Costituzione vera già prevede Sanità pubblica e gratuita per tutte le Regioni, e la legge del 2003 sui Lea (livelli essenziali d' assistenza) impegna le Regioni a offrire ai cittadini cure adeguate a uno standard nazionale (che questo avvenga o no, nulla c' entra col referendum).

"Se vince il No lo spread salirà; le Borse scenderanno; il Paese andrà in recessione; gli investimenti caleranno del 17%, il Pil del 4%; ci saranno 600mila posti di lavoro in meno e 430mila poveri in più" (Centro studi Confindustria, luglio 2016). Dopo il referendum, Csc ritratta: nel 2017 il Pil sarà +0,8%e nel 2018 +1%. A proposito di informazioni distorte per influenzare consultazioni elettorali.  "Oggi la banca è risanata, investire è un affare. Su Mps si è abbattuta la speculazione, ma oggi è risanata, è un bel brand" (Renzi, gennaio 2016).

"Le banche italiane stanno molto bene" (Renzi, 6.2016). La banca invece era sull' orlo del disastro. A dicembre 2016, dopo il fallimento di un salvataggio di mercato di 5 miliardi, il governo annuncia un salvataggio pubblico, che la Bce alza a 8 miliardi.

"La riforma comporta risparmi per un miliardo" (aprile 2014); "Basta un Sì per risparmiare 500 milioni" (11.2016). In realtà secondo la Ragioneria generale dello Stato si sarebbe trattato di 50 milioni.

"Diamo vita ad un festival delle idee che preferisce la banda larga al Ponte sullo Stretto" (Renzi, Fuori!, 2011). Alla celebrazione dei 110 anni di Salini-Impregilo, settembre 2016, dice ai costruttori: "La Napoli-Palermo, preferiamo dire così che Ponte sullo Stretto, può creare centomila posti di lavoro. Vi sfido. Noi siamo pronti". Dopo la generale indignazione, si affretta a far bocciare dalla sua maggioranza il finanziamento del riavvio delle procedure per il Ponte nella legge di Stabilità.

"La posizione di Zingaretti sull' accordo con 5S è molto ambigua. Noi non possiamo fare l' accordo con chi mette in discussione i vaccini #senzadime" (Renzi, 25.9.2018).

"Oggi i giornali rilanciano accordo coi Cinque Stelle. Penso a Di Maio/Gilet Gialli, Di Battista contro Obama, Lezzi sul PIL , Taverna sui vaccini, scie chimiche, vaccini, Olimpiadi, Tav, allunaggio. E ripeto forte e chiaro il mio NO all' accordo con questi #SenzaDiMe" (12.7.2019). "La mia risposta a chi vuole fare accordi con i Cinque Stelle 'per difendere insieme certi valori'. Perché io sono contrario a questo accordo #SenzadiMe" (17.7.2019).

"È Gentiloni che ha fatto passare il messaggio di una triplice richiesta di abiura da parte del Pd ai 5Stelle. Il modo in cui lo spin è stato passato è un modo finalizzato a far saltare tutto" (23.8.2019). No comment.

"Ma non ci penso proprio ad uscire da un partito che è il mio partito. Poi non starò mai in un partito che fa l' accordo coi Cinque Stelle" (Renzi, 23/7/2019). "Fare un nuovo partito non è una questione all' ordine del giorno. Roba da addetti ai lavori, fantapolitica. Io ho scelto di fare una battaglia culturale dentro la politica italiana. Continuerò a farla da senatore che ha vinto il suo collegio" (2.2019). Come s' è appreso, l' en plein della frottola.

"Diamo un hashtag: #enricostaisereno. Vai avanti, fai le cose che devi fare. Io mi fido di Letta, è lui che non si fida. Non sto facendo manfrine per togliergli il posto" (16.1.2014). È la ur-fandonia, la sovra-fake news al cui cospetto ogni altra impallidisce.

"È del tutto evidente che se perdo il referendum, considero fallita la mia esperienza in politica " (29.12.2015). "Ho già preso il solenne impegno: se perderemo il referendum lascio la politica" (15.1.2016).

"Se non passa il referendum, la mia carriera politica finisce. Vado a fare altro" (11.5.2016).

"Se perdo il referendum, troveranno un altro premier e un altro segretario" (1.6.2016).

"O cambio l' Italia o cambio mestiere" (2.6.2016). "Tre anni fa la #Brexit. La realtà dimostra che tutta la campagna elettorale si basava su #FakeNews: le bugie ti fanno vincere referendum ma poi sono i cittadini a pagare i danni" (Renzi, 24.6.2019). La realtà dimostra che non sempre le bugie ti fanno vincere i referendum.

SINODO, FRANCESCO E LO SPIRITO DELL'AMAZZONIA. Estratto dell’articolo di Eugenio Scalfari per “la Repubblica” (8 ottobre 2019). Papa Francesco non ha mai parlato dell’Io come l’elemento determinante dell’uomo. Chi ha avuto, come a me è capitato più volte, la fortuna d’incontrarlo e di parlargli con la massima confidenza culturale, sa che papa Francesco concepisce il Cristo come Gesù di Nazareth, uomo, non Dio incarnato. Una volta incarnato, Gesù cessa di essere un Dio e diventa fino alla sua morte sulla croce un uomo. La prova che conferma questa realtà e che crea una Chiesa completamente diversa dalle altre è provata da alcuni episodi che meritano di essere ricordati. Il primo è quello che avviene nell’Orto di Getsemani dove Gesù si reca dopo l’Ultima Cena. Gli apostoli che sono a pochi metri da lui lo sentono pregare Dio con parole che furono a suo tempo riferite da Simon Pietro: «Signore — disse Gesù — se puoi allontanare da me questo amaro calice, ti prego di farlo, ma se non puoi o non vuoi io lo berrò fino in fondo». Fu arrestato dalle guardie di Pilato appena uscito da quel giardino.

Matteo Matzuzzi: Comunicato direttore Sala stampa vaticana: smentito Scalfari, il Papa non ha negato la divinità di Gesù Cristo. 9 ottobre 2019.

Nota della Sala Stampa Vaticana il 10 ottobre 2019. Come già affermato in altre occasioni, le parole che il dottor Eugenio Scalfar attribuisce tra virgolette al Santo Padre durante i colloqui con lui avuti non possonc essere considerate come un resoconto fedele di quanto effettivamente detto, me rappresentano piuttosto una personale e libera interpretazione di ciò che ha ascoltato, come appare del tutto evidente da quanto scritto oggi in merito alla divinità di Gesù Cristo.

Franca Giansoldati per Il Messaggero.it il 10 ottobre 2019. «Come già affermato in altre occasioni, le parole che il dottor Eugenio Scalfari attribuisce tra virgolette al Santo Padre durante i colloqui con lui avuti non possono essere considerate come un resoconto fedele di quanto effettivamente detto, ma rappresentano piuttosto una personale e libera interpretazione di ciò che ha ascoltato, come appare del tutto evidente da quanto scritto oggiin merito alla divinità di Gesù Cristo». Il portavoce del Vaticano, Matteo Bruni ha diffuso una nota per correggere le parole di Eugenio Scalfari che, stamattina, in un editoriale pubblicato sulla Repubblica, dedicato al tema del sinodo sull'Amazzonia, ha riportato - come spesso gli è capitato di fare anche in passato - una conversazione tra lui e Papa Francesco. Scalfari aveva scritto, attribuendo al Papa queste parole, che « Gesù di Nazareth, una volta diventato uomo, sia pure un uomo di eccezionale virtù, non era affatto un Dio». Praticamente negando la natura divina del Figlio di Dio.

Massimo Gaggi per il ''Corriere della Sera'' il 7 ottobre 2019. Richard Jewell, la guardia giurata che nel 1996 sventò un attentato durante le Olimpiadi di Atlanta, venne trasformato in poche ore da eroe in presunto terrorista per i sospetti dell’Fbi. Una reputazione distrutta dal megafono della stampa per 88 lunghi giorni. Poi arrivò il proscioglimento totale. Ma anche dopo le scuse dei federali e gli indennizzi ricevuti dalle tv, Richard, ormai mentalmente condannato dall’opinione pubblica, non recuperò mai la sua immagine eroica e nemmeno la sua dignità. Come tanti altri film, Richard Jewell, la pellicola di Clint Eastwood che uscirà negli Usa il 12 dicembre, racconta una storia vera che fa riflettere su angoli poco illuminati della realtà sociale americana. Ma questo del grande regista e attore americano, una delle poche figure di Hollywood schierate sul fronte conservatore, politicamente attivo fino al punto di calcare il palco delle convention del partito repubblicano, è anche un film dal sapore politico che, a meno di un anno dalle elezioni presidenziali, prende di mira le due bestie nere di Donald Trump: la stampa e i poliziotti federali che indagano su di lui. In quella che, almeno dal trailer, sembra la scena-madre del film, Jewell (interpretato da Paul Walter) viene messo con le spalle al muro con un perentorio «hai contro le forze più potenti, i media e il governo americano». Richard è sospettato anche perchè — poliziotto fallito che diventa vigilante privato, obeso, solitario — può essere facilmente dipinto nei panni dell’asociale rancoroso, in cerca di vendetta. Quella di Eastwood è una denuncia, ma anche la trasposizione sullo schermo di un «cambio di stagione» nel rapporto di fiducia col pubblico che giornali e televisioni già vivono da tempo. «È la stampa bellezza, e tu non ci puoi fare niente»: da L’ultima minaccia, il film del 1952 nel quale Humhpery Bogart fa ascoltare all’uomo più potente della città l’avvio della stampa del giornale che denuncia i suoi crimini, a Tutti gli uomini del presidente, la trasposizione cinematografica dell’inchiesta del Washington Post che costrinse il presidente Nixon alle dimissioni, il ruolo di indagine e critica dei media, essenziale in democrazia, ha fatto a lungo parte della cultura popolare americana. Un rispetto conquistato per l’efficacia del ruolo istituzionale svolto da giornali e tv, ma anche grazie alle storie hollywoodiane di giornalisti trasformati in eroi. Negli ultimi anni però, con la perdita d fiducia nelle istituzioni — accelerata da alcuni aspetti della cultura digitale — che ha travolto non solo parlamenti e accademie, ma anche l’informazione, la fiducia nella stampa ha subito duri colpi. Accentuati dalla difficoltà di fornire informazioni equilibrate in un clima politico sempre più polarizzato. Ne ha approfittato Donald Trump che, criticato fin dal suo insediamento per le esternazioni brutali, le affermazioni false e gli attacchi ai meccanismi di bilanciamento della democrazia americana, ha reagito con veemenza attaccando i giornalisti. E quando l’Fbi ha indagato sui suoi comportamenti sospetti, anche i «federali» sono diventati nei tweet del presidente pericolosi nemici dell’America. La riflessione critica di Eastwood ha qualche precedente: anche vecchi film come Quarto potere di Orson Welles o Diritto di cronaca, con la giornalista (Sally Field) che da cacciatrice sulle orme dei presunti misfatti del figlio di un criminale (Paul Newman), ci hanno fatto riflettere su eccessi e abusi a volte commessi anche dalla stampa. Ma, in questo momento di scontri esasperati, sarà usato anche come arma politica.

«Denzel Washington sostiene Trump», la bufala su Facebook. Ennesimo caso di propaganda veicolata da American News, sito che posta contenuti falsi per orientare il dibattito. L’attore trasformato in un supporter del presidente eletto, scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 16 dicembre 2016. Tanto Denzel Washington risponde ad un giornalista che gli chiedeva un’opinione sulle fake news e sul ruolo dell’informazione moderna. Se non leggi i giornali sei disinformato, se invece li leggi sei informato male. Quindi cosa dovremo fare? chiede il giornalista, Washington replica: “Bella domanda. Quali sono gli effetti a lungo termine di troppa informazione? Una delle conseguenze è il bisogno di arrivare per primi, non importa più dire la verità. Quindi qual è la vostra responsabilità? Dire la verità, non solo arrivare per primi, ma dire la verità. Adesso viviamo in una società dove l’importante è arrivare primi. “Chi se ne frega? Pubblica subito” Non ci interessa a chi fa male, non ci interessa chi distrugge, non ci interessa che sia vero. Dillo e basta, vendi! Se ti alleni puoi diventare bravo a fare qualsiasi cosa. Anche a dire stronzate” tuona il celebre attore e regista.

I giornalisti professionisti si chiedono perché è in crisi la stampa. Le loro ovvie risposte sono:

Troppi giornalisti (litania pressa pari pari dalle lamentele degli avvocati a difesa dello status quo contro le nuove leve);

Troppi pubblicisti;

Troppa informazione web;

Troppi italiani non leggono.

La risposta invece è: troppo degrado intellettuale degli scribacchini e troppi “mondi di informazione”. Quando si parla di informazione contemporanea non si deve intendere in toto “Il Mondo dell’Informazione”, quindi informazione secondo verità, continenza-pertinenza ed interesse pubblico, ma “I Mondi delle Informazioni”, ossia notizie partigiane date secondo interessi ideologici (spesso di sinistra sindacalizzata) od economici.  Insomma: quanto si scrive non sono notizie, ma opinioni! I lettori non hanno più l’anello al naso e quindi, diplomati e laureati, sanno percepire la disinformazione, la censura e l’omertà. In questo modo si rivolgono altrove per dissetare la curiosità e l’interesse di sapere. I pochi giornalisti degni di questo titolo sono perseguitati, perchè, pur abilitati (conformati), non sono omologati.

Paolo Mieli, il nuovo libro: l’antica genealogia delle «fake news». Pubblicato domenica, 22 settembre 2019 su Corriere.it. Finalmente ci siamo accorti, da cittadini, da consumatori, che le fake news sono veleno. Le contraffazioni della realtà hanno danneggiato in giro per il mondo più d’una elezione (e che elezioni!), generando rancore e rabbia non ancora smaltiti, orientando in maniera fasulla il sentimento degli elettori. Paolo Mieli, «Le verità nascoste», Rizzoli, pagine 330, euro 19,50, in libreria dal 24 settembre. Ma se la contraffazione delle notizie venisse da lontano, se fosse cioè annidata in centinaia di testi di storia e riguardasse decine e decine di momenti chiave della vicenda umana, che cosa potremmo fare oggi per correggere il passato, restituendo a Cesare quel che sarebbe dovuto essere di Cesare? La ricetta, Paolo Mieli non la dà. Ma nel suo nuovo, affascinante libro (Le verità nascoste, in uscita il 24 settembre per Rizzoli) indica «trenta casi di manipolazione della storia» su cui vale la pena soffermarsi per capire che accanto alle fake news, pericolosa realtà ormai nota, c’è un fenomeno subdolo, di dimensioni gigantesche e di età antica, che potremmo chiamare fake history.

Gli episodi allineati da Mieli nel suo lavoro vanno, solo per fare qualche esempio, dalla vera statura politica e umana di Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma, all’inattesa mancanza di esorcismi nel Medioevo; dall’assenza di visione in Spartaco, schiavo rivoltoso ma non rivoluzionario, al reale rapporto tra Nikita Krusciov e Palmiro Togliatti; dall’irrituale «Non ci sto!» scandito il 3 novembre del 1993 in tv dal presidente Oscar Luigi Scalfaro (sul quale aleggiava il sospetto di uso improprio dei fondi riservati dei servizi segreti) al ruolo doppio che ebbe Ciceruacchio, al secolo Angelo Brunetti, capopopolo a Roma nel 1848, nemico-amico di Pio IX. Nelle pagine di Le verità nascoste (omaggio al bel film di Robert Zemeckis, citato nell’introduzione) si celano tre tipi di manipolazione, che danno titolo alle tre sezioni che compongono il libro: le verità indicibili, le verità negate, le verità capovolte. Tra imbarazzi, alterazioni, nascondimenti e falsificazioni, ce n’è per tutti. Un caso molto interessante, la cui eco sentiamo fino ai nostri giorni, è quello dell’onestà dei gerarchi fascisti. «Nel 1975 — riferisce Mieli — durante uno spettacolo a Genova, Walter Chiari (che in gioventù aveva aderito alla Repubblica sociale italiana) lanciò una provocazione: “Quando fu appeso per i piedi a piazzale Loreto, dalle tasche di Mussolini non cadde nemmeno una monetina (…) Se i nuovi reggitori d’Italia subissero la stessa sorte, chissà cosa uscirebbe dalle loro tasche!”. La battuta provocò un grande applauso a dispetto del fatto che la città fosse medaglia d’oro della Resistenza (…). Da allora la battuta di Walter Chiari divenne un luogo comune della destra e, più in generale, dei settori qualunquisti e conservatori dell’opinione pubblica italiana». Ma davvero i gerarchi erano onesti? Mieli cita a questo punto il lavoro certosino di due storici, Mauro Canali e Clemente Volpini, che sono andati — come suol dirsi — a fare i conti in tasca ai gerarchi. E le sorprese sono consistenti. A cominciare dai risultati della commissione d’inchiesta voluta da Badoglio nell’agosto del ’43. Saltarono fuori ricchezze impressionanti con conseguenti «fughe rocambolesche, rotoli di banconote nascosti nell’acqua degli sciacquoni, arresti eccellenti, favolosi patrimoni in ville, tenute, palazzi e castelli. (…) Gran parte dei fascisti di primo piano a partire da Mussolini e dai familiari della sua amante Claretta Petacci si arricchirono in modo considerevole». Ma il vero Paperone del regime risultò essere Costanzo Ciano, padre di Galeazzo. «Alla sua morte — riferisce Mieli — Vittorio Emanuele III aveva confidato a Mussolini che l’uomo aveva accumulato un patrimonio di circa 900 milioni». Altro miracolato fu Roberto Farinacci, ras di Cremona, squadrista, antisemita, filonazista. La commissione d’inchiesta accertò, dopo 13 anni di lavoro, che il suo patrimonio, a valutazione 1949, ammontava a 614 milioni e 627 mila lire. Per dare un’idea, un senatore del Regno guadagnava 20 mila lire al mese, un maestro intorno a diecimila e un operaio 4.238 lire. Un altro svelamento sul terreno della cultura popolare riguarda la Spagnola, tremenda pandemia che tra il 1918 e il 1920 uccise tra 50 e 100 milioni di persone, vale a dire — nota Mieli — tra il 2,5% e il 5% della popolazione mondiale d’allora. La verità nascosta da sempre è che di spagnolo, quella epidemia d’influenza, non aveva quasi niente e che in ogni caso, visto il suo terribile effetto sul pianeta, non si spiega come mai nei libri sul Novecento sia pressoché assente. La storia vera è ben altra, e comincia — racconta Mieli — negli Stati Uniti (da poco entrati nella Prima guerra mondiale) «la mattina del 4 marzo 1918», quando «il ranciere Albert Gitchell si presentò all’infermeria di Camp Funston, in Kansas, con mal di gola, febbre e mal di testa. All’ora di pranzo l’infermiera si trovò a gestire più di cento casi simili. Metaforicamente parlando — riferisce Mieli citando la storica Laura Spinney — cinquecento altri milioni di persone seguirono Albert Gitchell in infermeria». Il male, dunque, partì dal Kansas. Come ebbe allora in sorte il nome di Spagnola? Va detto che si viaggiava per mare, le navi americane andavano in guerra cariche di soldati con destinazione l’Europa. Cosicché, di lì a poco, di porto in porto la pandemia si estese dall’Europa all’Asia (fu l’India il Paese con più morti). Ma nessuno aveva dato un nome al male né comunicava la reale contabilità di morte per non deprimere le truppe ancora impegnate nella guerra contro gli austro-tedeschi. I francesi, per esempio, la chiamavano col nome in codice maladie onze (cioè undici). Nessuna capitale si salvò, neppure Madrid. In quei giorni lì andava in scena un’operetta che aveva come clou una canzonetta, Il soldato napoletano. A un medico spagnolo venne in mente di battezzare con questo nome (non si sa perché) la mortale influenza. «Dopo di che — annota Mieli — tutti i Paesi lontani dal teatro di guerra accusarono qualcun altro di essere all’origine della malattia. In Senegal fu l’influenza brasiliana. In Brasile, la tedesca. I danesi la chiamarono il male del sud. I polacchi malattia bolscevica. I persiani diedero la colpa ai britannici, a Tokyo misero sotto accusa i lottatori, poiché il primo focolaio si sviluppò a un torneo di lotta giapponese, e la chiamarono malattia del sumo. Poi, quando ci si rese conto che si trattava di un’unica pandemia globale, fu adottato il nome che le avevano dato i Paesi vincitori della guerra e si chiamò Spagnola».

Massimo Arcangeli per “il Messaggero” il 30 luglio 2019. Tra le patacche più note c'è il documento sulla donazione di Costantino, l'editto con importanti concessioni alla Chiesa di Roma che l'acribia dell'umanista Lorenzo Valla rivelò come clamorosamente falso. Una delle più antiche, secondo Tucidide (Guerra del Peloponneso, I, 128), racconta invece di una lettera in cui lo spartano Pausania scrive a Serse, re dei Persiani (da lui stesso sconfitti a Platea nel 479 a. C.), per offrirgli il dominio sulla Grecia. Un altro testo fasullo l'ha definitivamente ribadito Luciano Canfora, fine conoscitore del mondo antico: La storia falsa (Rizzoli, 2008) , e tuttavia il condottiero greco, per quel falso, fu condannato alla pena capitale. Era riuscito a riparare in un tempio ma gli efori (alti magistrati spartani) ne avevano sigillate le porte, e lui era morto di fame e di sete. Se sono in tanti, come lo psicologo della comunicazione Giuseppe Riva (Fake news. Vivere e sopravvivere in un mondo post-verità, il Mulino, 2018), ad aver affrontato le fake news al tempo di Internet, in un saggio fresco di stampa di un archeologo spagnolo, Néstor F. Marqué, ritorna l'antica Roma. Il libro (Fake news de la antigua Roma. Engaños, propaganda y mentiras de hace 2000 años, Espasa), dal 14 novembre anche in traduzione italiana, è una storia delle notizie false o presunte che dalle leggende delle origini, attraverso l'età repubblicana, si estende fino al periodo imperiale: dai rumores annotati da Tacito, le dicerie circolanti fra la plebe di Roma, alla singolare vicenda, probabile parto della fantasia del caricaturista americano Robert Ripley (1890-1949), del poeta Virgilio e del funerale in pompa magna celebrato per l'amata zanzara, con tanto di orazione funebre pronunciata da Mecenate prima della tumulazione dell'insetto in un sontuoso monumento funebre. Oggi le fake news dilagano, ma sull'etimologia del termine bufala continua ad aleggiare il mistero. La parola è spiegabile a partire da quel prendere per il naso che ripete, sul piano figurato, l'azione compiuta nel trainare un bue (il quale, con l'anello al naso, si lascia guidare docile), ma ultimamente si è tentato di ricondurre bufala, guarda caso, al romanesco. C'è chi ha pensato alla carne di bufala, spacciata nella capitale per carne di vitella da alcuni furbetti della ristorazione, e chi invece a porcheria, fregatura: nel 1960 un film, ancor prima di essere proiettato, sarebbe stato bollato come una bufala da pochi intimi. Confermerebbe la seconda ipotesi un passo di un romanzo del 1956 (Ercole Patti, Un amore a Roma, Bompiani): «Non ha visto il Pozzo dei miracoli? Meglio così. Una vera bufala. Una? chiese Marcello. Una bufala. Si dice così a Roma quando si vuole alludere a un film brutto e noioso». Un film, insomma, che un po' è una palla e un po' una sòla.

Davide Brullo per pangea.news il 16 ottobre 2019. Qualche lettore affezionato mi fa: non fai più le stroncature, ti sei inchinato ai ‘poteri forti’. No, gli rispondo. Semplicemente, le stroncature non me le fanno più fare, sono stato stroncato. Mi hanno cacciato, licenziato. Colpa di. Nadia Terranova, Veronica Raimo, Teresa Ciabatti. Cioè di un pretesto. Piuttosto vile. Alquanto esemplare.

Chi semina vento raccoglie tempesta, dicono i maligni, gli avidi d’ignavia. In realtà, chi semina il vero raccoglie invidia.

Premessa. La stroncatura è un genere nobile, connesso alle origini del giornalismo culturale. Non lo pratica più nessuno. Perché? Perché in Italia puoi essere (anzi, devi essere) politicamente scorretto, ma non puoi fare il culturalmente anarchico. Insomma: sfottere il politico va bene, ma non toccate libri, scrittori, i potentati dell’editoria, la cristalleria della cultura. Come mai? Relazioni. L’Italia, di facciata, è un popolo di santi, poeti, navigatori; in realtà, è un paese di mafiosi, di leccaculo e di pavidi.

La stroncatura, per essere tale, deve rispondere a due criteri. Primo: leggere minutamente il libro stroncato, e citarlo con dovizia. Secondo: si stronca soltanto uno più grande di te. La legge di Davide vs. Golia. Non è ammesso fare il forte con i deboli. Scrivere stroncature chiede avventatezza e cinica leggerezza: devi sfracellarti contro uno più potente.

Ho scritto stroncature per una vita giornalistica. Prima su “il Domenicale”, poi su “Libero”, infine su “Linkiesta”. Un’era fa, per Francesco Borgonovo, tenevo anche una rubrica radiofonica di stroncature: si chiamava “L’animale della critica”. L’ultima stroncatura autentica – che appartiene alla rubrica “Il bastone e la carota” – l’ho firmata il 21 settembre 2019, su “Linkiesta”. Ne sono orgoglioso, è il primo esperimento di stroncatura in versi. La prima, per la stessa testata, è uscita il 31 marzo 2017. Ora non ne firmerò più. Ho stroncato di tutto, con coscienza critica. Scrittori ‘da classifica’ (da Valeria Parrella a Chiara Gamberale, da Marco Missiroli a Luca Ricci, da Paolo di Paolo a Stefano Benni…), ministri (Dario Franceschini), giornalisti bolliti (Aldo Cazzullo), cantanti-scrittori (Francesco Guccini), guru della cultura (Corrado Augias) e della scrittura (Antonio Moresco) e del giornalismo (Eugenio Scalfari), scienziati (Carlo Rovelli), neo-teologi (Vito Mancuso), santoni (Enzo Bianchi), parolieri (Alessandro Di Battista). Ho stroncato Papa Francesco, Andrea Camilleri, Adriano Sofri. Selvaggia Lucarelli e Paolo Sorrentino. Beppe Severgnini, Alberto Angela, il Cardinale Ravasi. A volte ho ricevuto lettere dagli avvocati dei permalosi stroncati. Spesso, privatamente, via mail, ho accusato messaggi più o meno minatori, viziosi, sibillini, diabolici: caro Brullo, un talento come lei, perché si spreca in simili esercizi giornalistici?

L’unica cosa che raccogli scrivendo stroncature è livore altrui e un buon carico di nemici. Ti fanno il vuoto. Se scrivi una stroncatura – ne ho le prove – se la legano al cuore per anni. Ti tagliano fuori da tutto, i valvassini e i vassalli del potere culturale. Ma ho sempre creduto che alcune cose, impagabili, andassero fatte. Diciamo che ho shakerato un po’ l’annoiato, asfittico, grigio mondo culturale italiano. Ora, finalmente, scrittori ed editori dormiranno sonni tranquilli.

“Linkiesta”, come si sa, ha cambiato direttore. Prima c’era Francesco Cancellato. Ora c’è Christian Rocca. Il nuovo direttore non ama le stroncature e mi fa avvisare, tramite il caporedattore, che non le scriverò più. Professionalmente, ha ragione. Non puoi lasciare un carico di granate in mano a uno sconosciuto: costui farà scoppiare soltanto casini, rovinandoti il fragile sistema di relazioni che ti sei costruito in lustri di onorato servizio. D’altronde, dopo due anni e mezzo di stroncature, una a settimana, una pausa va pur bene, passare i fine settimana a leggere cretinate a pagamento (per vigore morale compro sempre i libri che scelgo di stroncare) non è un piacere. Sia lode a Bruno Giurato, con cui ho ideato la rubrica di stroncature, e a Francesco Cancellato, il direttore che ha avuto il coraggio di pubblicarle.

Due cose mi danno fastidio. Primo. Prima ti mandano da solo a fare la guerra, in prima linea (stroncali tu, tanto noi la pensiamo come te…). Poi ti sparano alla schiena. Secondo. Tra uomini che esercitano l’intelligenza (i giornalisti) pretendo chiarezza. Non dico il coraggio di parlarti guardandoti nelle palle degli occhi, ma almeno i coglioni di scriverti una mail. Gentile dott. Brullo, la sua professionalità non rientra nei progetti di rinnovamento del giornale… Invece, niente.

I fatti. Cambia il direttore a “Linkiesta”. Il caporedattore mi avvisa, stop alle stroncature, se ti va, vada per una rubrica di recensioni. Va bene, dico. M’invento la rubrica “I sommersi e i salvati”. Alterno un libro buono di oggi a un libro riscoperto di ieri. La rubrica dura due puntate, alla terza mi defenestrano. Con un pretesto. Che cosa ho scritto? Un articolo su Maria Grazia Ciani, straordinaria classicista, che per Marsilio ha tradotto Iliade e Odissea e ha pubblicato, quest’anno, il romanzo La morte di Penelope. Parlo, tra l’altro, della meravigliosa traduzione di Lucrezio a firma di Milo De Angelis. Il pezzo mi pare fin troppo colto. Lo mando. Il caporedattore mi fa i complimenti. Ringrazio. Il giorno dopo il caporedattore mi telefona. Il direttore non vuole che collabori più. Come mai?, dico, un poco stralunato. Perché, esercitando l’attività critica (cioè, il cervello), ho scritto, in calce alla recensione, questa frase: “Il romanzo, in forma teatrale – voci che si rincorrono, nel destino a labirinto, Penelope e Antinoo, Telemaco, Argo, lo Straniero – ha una tensione che convince, radicale e quotidiana insieme. Eppure, sulle copertine dei giornali non è finita Maria Grazia Ciani – che per altro, velata di pudore, rifiuterebbe ogni forma di fama – ma scrittrici meno capaci di lei, dal profilo televisivo, Nadia Terranova, Veronica Raimo, Teresa Ciabatti… perché?”.

Come è possibile che una frase simile, placida fino al pallore, mi costi il posto (e quel poco di denaro, per me, per altro, tantissimo, visto che sono un poveraccio)? È un vile pretesto. Pretendo, con due mail formali, una risposta riguardo all’accaduto dal direttore. La risposta non è egualmente formale. Il giorno stesso, vedo su “Linkiesta” un articolo di Nadia Terranova sul conferimento del Nobel per la letteratura. Arguisco che il trio Terranova-Raimo-Ciabatti sia all’origine del mio licenziamento. Per altro, il riferimento alle tre scrittrici “sulle copertine dei giornali” si lega a un articolo del 21 agosto 2019 commissionatomi proprio da “Linkiesta”: ciò che prima era degno di plauso (e di soldi) ora è causa di scandalo. Il resto, ripeto, è un giudizio critico: chiunque ha testa capirà che Terranova-Raimo-Ciabatti, singolarmente o prese tutte insieme, sono “meno capaci” di Maria Grazia Ciani, un genio (sono “meno capace” pure io rispetto a MGC), e che hanno certamente un “profilo televisivo”: è un insulto? Semmai, è leggera ironia, piuma di pavone. D’altronde, la pratica giornalistica insegna che se in un articolo piuttosto neutro fiammano alcune frasi ritenute dalla testata “pericolose”, il caporedattore o il direttore contattano il collaboratore per capire se quelle frasi si possono smussare, cancellare etc. Di solito, si trova un punto d’accordo. In questo caso, visto che la vicenda mi pare una viziata minchiata, sarei stato d’accordo ad andarmene. Al direttore ho scritto: “Mi sembra dunque che lei abbia atteso un mero pretesto per ‘farmi fuori’: da buon direttore poteva parlare apertamente, subito, senza alcun problema, senza vergogna né viltà, senza celarsi in un qualche velo di timore”. Proprio per la sua banale meschinità, la vicenda andava narrata. Paradosso: al festival “Libropolis”, domenica prossima, mi hanno invitato a parlare dell’arte della stroncatura (se ci siete: domenica 20 ottobre, a Pietrasanta, ore 11,45). Dirò l’unica cosa che va detta: la stroncatura misura la limpidezza culturale di un paese, la sua altezza.

Il Diritto di Citazione e la Censura dei giornalisti. Il Commento di Antonio Giangrande.

Se questi son giornalisti...

In un mio saggio sulla mafia mi è sembrato opportuno integrare, quanto già ampiamente scritto sul tema, con una tesi-articolo pubblicato su "La Repubblica" da parte di un'autrice poco nota dal titolo "La Mafia Sconosciuta dei Basilischi". Dacchè mercoledì 16 gennaio 2019 mi arriva una e-mail di diffida di questo tenore: qualche giorno fa mi sono resa conto che senza nessuna tipologia di autorizzazione Lei ha fatto confluire il mio abstract pubblicato da la Repubblica ad agosto 2017, in un suo libro "La mafia in Italia" e forse anche in una seconda opera. Le ricordo che a norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali." NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. La sua opera essendo caratterizzata da fini di lucro, (viene venduta al pubblico ad uno specifico prezzo) rientra a pieno in un'attività economica. L'art 70 ut supra  è, pertanto, pienamente applicabile al caso del mio abstract, non rientrando neanche nel catalogo di articoli a carattere "economico, politico o religioso", poichè da questi vengono escluse "gli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico ", di cui all'art 65 della medesima legge (secondo un'interpretazione estensiva della stessa), la cui riproduzione può avvenire in "altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite." Pertanto La presente è per invitarLa ad eliminare nel più breve tempo possibile il mio abstract dalla sua opera (cartecea e digitale), e laddove sia presente, anche da altri eventuali suoi libri, e-book e cartacei, onde evitare di dover adire le apposite sedi giudiziarie per tutelare il mio Diritto d'Autore e pedissequamente richiedere il risarcimento dei danni.

La mia risposta: certamente non voglio polemizzare e non ho alcun intendimento a dissertare di diritto con lei, che del diritto medesimo ne fa una personalissima interpretazione, non avendo il mio saggio alcun effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione rispetto al suo articolo. Nè tantomeno ho interesse a mantenere il suo articolo nei miei libri di interesse pubblico di critica e di discussione. Libri a lettura anche gratuita, come lei ha constatato, avendo trovato il suo articolo liberamente sul web. Tenuto conto che altri sarebbero lusingati nell’essere citati nelle mie opere, e in migliaia lo sono (tra i più conosciuti e celebrati), e non essendoci ragioni di utilità per non farlo, le comunico con mia soddisfazione che è stata immediatamente cancellata la sua tesi dai miei saggi e per gli effetti condannata all’oblio. Saggi che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente.

La risposta piccata è stata: Guardi mi sa che parliamo due lingue diverse. Non ho dato nessuna interpretazione mia personale del diritto, ma come può notare dalla precedente mail, mi sono limitata a riportare il tenore letterale della norma, che lei forse ignora. Io credo che molte persone, i cui elaborati sono stati interamente riprodotti nei suoi testi, non siano assolutamente a conoscenza di quello che lei ha fatto. Anche perché sono persone che conosco direttamente e con le quali ho collaborato e collaboro tutt'ora. Di certo non sarà lei attraverso l'estromissione (da me richiesta) dalle sue "opere" a farmi cadere in qualsivoglia oblio, poiché preferisco continuare a collaborare con professionisti (quali ad esempio Bolzoni) che non mettono in vendita libri che non sono altro che un insieme di lavori di altri, come fa lei, ma che come me continuano a studiare ed analizzare questi fenomeni con dedizione, perizia e professionalità. Ma non sto qui a disquisire e ad entrare nel merito di determinate faccende che esulano la questio de quo. Spero che si attenga a quanto scritto nella precedente mail.

A questo preme puntualizzare alcuni aspetti. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Molti moralizzatori, sempre col ditino puntato, pretendono di avere il monopolio della verità. Io che non aspiro ad essere come loro (e di fatto sono orgoglioso di essere diverso) mi limito a riportare i comizietti, le prediche ed i pistolotti di questi, contrapponendo gli uni agli altri. A tal fine esercito il mio diritto di cronaca esente da mie opinioni. D'altronde tutti i giornalisti usano riportare gli articoli di altri per integrare il loro o per contestarne il tono o i contenuti.

Sono Antonio Giangrande autore ed editore di centinaia di libri.

Io sono un giurista ed un blogger d’inchiesta. Io esercito il mio diritto di cronaca e di critica. Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica. Per gli effetti ho diritto di citazione con congruo lasso di tempo e senza ledere la concorrenza. All’uopo ho scritto decine di libri con centinaia di pagine cadauno, basandomi su testimonianze e documenti credibili ed attendibili, rispettando il diritto al contraddittorio, affrontando temi suddivisi per argomento e per territorio, aggiornati periodicamente. Libri a lettura anche gratuita. Non esprimo opinioni e faccio parlare i fatti e gli atti con l’ausilio di migliaia di terzi, credibili e competenti, che sono ben lieti di essere, pubblicizzati, riportati e citati nelle mie opere. Opere che continuamente sono utilizzati e citati da terzi in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente. Libri a lettura anche gratuita. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Io sono un giurista ed un blogger d’inchiesta. Opero nell’ambito dell’art. 21 della Costituzione che mi permette di esprimere liberamente il mio pensiero. Nell’art. 65 della legge n. 633/1941 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”).

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

La dottrina e la giurisprudenza interpretano tassativamente, restrittivamente e non analogicamente tale articolo, al pari delle altre fattispecie di libere utilizzazioni. Ciò non toglie che la norma possa essere interpretata estensivamente (in tal senso dottrina e giurisprudenza sono sostanzialmente unanime).

Secondo il parere dell'Avv. Giovanni D'Ammassa, su Dirittodautore.it,  limiti individuati dalla dottrina e dalla giurisprudenza italiane alla facoltà di citazione ex art. 70 Legge sul Diritto d’Autore sono i seguenti:

la sussistenza della finalità di critica, discussione, insegnamento o ricerca scientifica;

l’opera critica deve avere fini del tutto autonomi e distinti da quelli dell’opera citata, e non deve essere succedanea dell’opera o delle sue utilizzazioni derivate. La ricorrenza dello scopo di critica non è pregiudicata dal fatto che la citazione sia fatta nella realizzazione di un’opera immessa sul mercato a pagamento;

l’utilizzazione dell’opera deve essere solo parziale e mai integrale, deve avvenire nell’ambito delle finalità tassativamente indicate e nella misura giustificata da tali finalità;

l’utilizzazione non deve essere concorrenziale a quella posta dal titolare dei diritti, non deve avere un rilievo economico tale da poter pregiudicare gli interessi patrimoniali dell’autore o dei suoi aventi causa. A questo proposito va ricordato che il concetto di concorrenza espresso dall’art. 70 Legge sul Diritto d’Autore è ben più ampio e diverso dal concetto di concorrenza sleale espresso dall’art. 2598 cod. civ.: l’assenza dell’elemento della concorrenza è condizione perché possa parlarsi di libera utilizzazione dell’opera. Una recente dottrina sostiene che bisogna avere riguardo esclusivamente alla portata della utilizzazione in relazione alla sua capacità di incidere sulla vita economica dell’opera originale; da ciò la valorizzazione dell’assenza di concorrenza dell’opera citante con i diritti di utilizzazione economica sull’opera citata, in modo da consentire anche citazioni integrali dell’opera dell’ingegno purché non si pongano in concorrenza con i diritti di utilizzazione economica dell’opera;

devono essere effettuate le menzioni d’uso (indicazione del titolo dell’opera da cui è tratta la citazione, del nome dell’autore e dell’editore);

infine si sostiene che l’interpretazione di tale articolo deve tenere conto anche del progresso tecnologico. È indubbio che l’art. 70 Legge sul Diritto d’Autore sia applicabile anche in caso di messa a disposizione online delle opere.

Secondo l'Avv. Alessandro Monteleone, su Altalex.com, tale requisito postula che l’utilizzazione dell’opera non danneggi in modo sostanziale uno dei mercati riservati in esclusiva all’autore/titolare dei diritti: non deve pertanto influenzare l’ammontare dei profitti di tipo monopolistico realizzabili dall’autore/titolare dei diritti. Secondo VALENTI, in particolare, il carattere commerciale dell’utilizzazione e, soprattutto, l’impatto che l’utilizzazione può avere sul mercato – attuale o potenziale – dell’opera protetta sono elementi determinanti nel verificare se l’utilizzazione possa considerarsi libera o non concreti invece violazione del diritto d’autore. Potrebbe ad esempio costituire concorrenza alla utilizzazione economica la riproduzione che, ancorché parziale, svii i potenziali acquirenti dall’acquistare l’originale perché avente ad oggetto le parti di maggiore interesse. Interessante è la pronuncia della Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.01.2007 n° 149: Con l’espressione "a fini di lucro" contenuta nella fattispecie criminosa di cui all’art. 171 ter della legge sul diritto d’autore (L. 633/41) deve intendersi "un fine di guadagno economicamente apprezzabile o di incremento patrimoniale da parte dell’autore del fatto, che non può identificarsi con un qualsiasi vantaggio di altro genere; né l’incremento patrimoniale può identificarsi con il mero risparmio di spesa derivante dall’uso di copie non autorizzate di programmi o altre opere dell’ingegno, al di fuori dello svolgimento di un’attività economica da parte dell’autore del fatto, anche se di diversa natura, che connoti l’abuso". Lo ha precisato la Sezione Terza penale della Cassazione, con la sentenza n. 149 del 9 gennaio 2007, estensibile all'art. 70.  

Io sono un Segnalatore di illeciti (whistleblower). La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.

Io sono un Aggregatore di contenuti tematici di ideologia contrapposta con citazione della fonte, al fine del diritto di cronaca e di discussione e di critica dei contenuti citati.

Dr Luigi Amicone, sono il dr Antonio Giangrande. Il soggetto da lei indicato a Google Libri come colui che viola il copyright di “Qualcun Altro”. Così come si evince dalla traduzione inviatami da Google. “Un sacco di libri pubblicati da Antonio Giangrande, che sono anche leggibile da Google Libri, sembrano violare il copyright di qualcun altro. Se si controlla, si potrebbe scoprire che  sono fatti da articoli e testi di diversi giornalisti. Ha messo nei suoi libri opere mie, pubblicate su giornali o riviste o siti web. Per esempio, l'articolo pubblicato da Il Giornale il 29 maggio 2018 "Il serial Killer Zodiac ... ". Sembra che abbia copiato l'intero articolo e incollato sul "suo" libro. Sembra che abbia pubblicato tutti i suoi libri in questo modo. Puoi chiedergli di cambiare il suo modo di "scrivere"? Grazie”.

Mi vogliono censurare su Google.

Premessa: Ho scritto centinaia di saggi e centinaia di migliaia di pagine, affrontando temi suddivisi per argomento e per territorio, aggiornati periodicamente. Libri a lettura anche gratuita. Non esprimo opinioni e faccio parlare i fatti e gli atti con l’ausilio di terzi, credibili e competenti, che sono ben lieti di essere riportati e citati nelle mie opere. Opere che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente. Libri a lettura anche gratuita. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Reclamo: Non si chiede solo di non usare i suoi articoli, ma si pretende di farmi cambiare il mio modo di scrivere. E questa è censura.

Ho diritto di citazione con congruo lasso di tempo e senza ledere la concorrenza.

Io sono un giurista ed un giornalista d’inchiesta. Opero nell’ambito dell’art. 21 della Costituzione che mi permette di esprimere liberamente il mio pensiero. Nell’art. 65 della legge n. 633/1941 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”).

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

Io sono un Segnalatore di illeciti (whistleblower). La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.

Io sono un Aggregatore di contenuti tematici di ideologia contrapposta con citazione della fonte, al fine del diritto di cronaca e di discussione e di critica dei contenuti citati.

Quando parlo di aggregatore di contenuti non mi riferisco a colui che, per profitto, riproduce tout court integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o dipressreader.com.

Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa su su articoli di terzi. Vedi  “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news.

Io esercito il mio diritto di cronaca e di critica. Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.

Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.

Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica.

NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione. Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione. Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Io sono il segnalatore di illeciti (whistleblower) più ignorato ed  oltre modo più perseguitato e vittima di ritorsioni del mondo. Ciononostante non mi batto per la mia tutela, in quanto sarebbe inutile dato la coglionaggine o la corruzione imperante, ma lotto affinchè gli altri segnalatori, che imperterriti si battono esclusivamente ed inanemente per la loro bandiera, non siano tacciati di mitomania o pazzia. Dimostro al mondo che le segnalazioni sono tanto fondate, quanto ignorate od impunite, data la diffusa correità o ignoranza o codardia.

Segnalatore di illeciti. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il segnalatore o segnalante di illeciti, anche detto segnalatore o segnalante di reati o irregolarità (termine reso a volte anche con la parola anglosassone e specificatamente dell'inglese americano whistleblower) è un individuo che denuncia pubblicamente o riferisce alle autorità attività illecite o fraudolente all'interno del governo, di un'organizzazione pubblica o privata o di un'azienda. Le rivelazioni o denunce possono essere di varia natura: violazione di una legge o regolamento, minaccia di un interesse pubblico come in caso di corruzione e frode, gravi e specifiche situazioni di pericolo per la salute e la sicurezza pubblica. Tali soggetti possono denunciare le condotte illecite o pericoli di cui sono venuti a conoscenza all'interno dell'organizzazione stessa, all'autorità giudiziaria o renderle pubbliche attraverso i media o le associazioni ed enti che si occupano dei problemi in questione. Spesso i segnalatori di illeciti, soprattutto a causa dell'attuale carenza normativa, spinti da elevati valori di moralità e altruismo, si espongono singolarmente a ritorsioni, rivalse, azioni vessatorie, da parte dell'istituzione o azienda destinataria della segnalazione o singoli soggetti ovvero organizzazioni responsabili e oggetto delle accuse, venendo sanzionati disciplinarmente, licenziati o minacciati fisicamente.

La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). In inglese viene invece utilizzata la parola whistleblower, che deriva dalla frase to blow the whistle, letteralmente «soffiare il fischietto», riferita all'azione dell'arbitro nel segnalare un fallo o a quella di un poliziotto che tenta di fermare un'azione illegale. Il termine è in uso almeno dal 1958, quando apparve nel Mansfield News-Journal (Ohio). L'origine dell'espressione whistleblowing è tuttavia ad oggi incerta, sebbene alcuni ritengano che la parola si riferisca alla pratica dei poliziotti inglesi di soffiare nel loro fischietto nel momento in cui avessero notato la commissione di un crimine, in modo da allertare altri poliziotti e, in modo più generico, la collettività. Altri ritengono che si richiami al fallo fischiato dall'arbitro durante una partita sportiva. In entrambi i casi, l'obiettivo è quello di fermare un'azione e richiamare l'attenzione. La locuzione «gola profonda» deriva da quella inglese Deep Throat che indicava l'informatore segreto che con le sue rivelazioni alla stampa diede origine allo scandalo Watergate.

Definizione. Il segnalatore di illeciti è quel soggetto che, solitamente nel corso della propria attività lavorativa, scopre e denuncia fatti che causano o possono in potenza causare danno all'ente pubblico o privato in cui lavora o ai soggetti che con questo si relazionano (tra cui ad esempio consumatori, clienti, azionisti). Spesso è solo grazie all'attività di chi denuncia illeciti che risulta possibile prevenire pericoli, come quelli legati alla salute o alle truffe, e informare così i potenziali soggetti a rischio prima che si verifichi il danno effettivo. Un gesto che, se opportunamente tutelato, è in grado di favorire una libera comunicazione all'interno dell’organizzazione in cui il segnalatore di illeciti lavora e conseguentemente una maggiore partecipazione al suo progresso e un'implementazione del sistema di controllo interno. La maggior parte dei segnalatori di illeciti sono "interni" e rivelano l'illecito a un proprio collega o a un superiore all'interno dell'azienda o organizzazione. È interessante esaminare in quali circostanze generalmente un segnalatore di illeciti decide di agire per porre fine a un comportamento illegale. C'è ragione di credere che gli individui sono più portati ad agire se appoggiati da un sistema che garantisce loro una totale riservatezza.

La tutela giuridica nel mondo. La protezione riservata ai segnalatori di illeciti varia da paese a paese e può dipendere dalle modalità e dai canali utilizzati per le segnalazioni.

Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Nell'introdurre un nuovo art. 54-bis al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, si è infatti stabilito che, esclusi i casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile italiano, il pubblico dipendente che denuncia all'autorità giudiziaria italiana o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto a una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia. Inoltre, nell'ambito del procedimento disciplinare, l'identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso, sempre che la contestazione dell'addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione. Si è tuttavia precisato che, qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l'identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell'incolpato, con conseguente indebolimento della tutela dell'anonimato. L'eventuale adozione di misure discriminatorie deve essere segnalata al Dipartimento della funzione pubblica per i provvedimenti di competenza, dall'interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell'amministrazione nella quale le discriminazioni stesse sono state poste in essere. Infine, si è stabilito che la denuncia è sottratta all'accesso previsto dalla legge 7 agosto 1990, n. 241; tali disposizioni pongono inoltre delicate problematiche con riferimento all'applicazione del codice in materia di protezione dei dati personali. Nel 2014 ulteriori rafforzamenti della posizione del segnalatore di illeciti sono stati discussi con iniziative parlamentari, nella XVII legislatura. In ordine alla possibilità di incentivarne ulteriormente l'emersione con premi, l'ordine del giorno G/1582/83/1 - proposto in commissione referente del Senato - è stato accolto come raccomandazione; invece, è stato dichiarato improponibile l'emendamento che, tra l'altro, puniva con una contravvenzione chi ne rivelasse l'identità. Nel 2016 la Camera dei deputati, nell'approvare la proposta di legge n. 3365-1751-3433-A, «ha scelto, tra l'altro, la tecnica della "novella" del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165» per introdurre una disciplina di tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro. Il testo pende al Senato come disegno di legge n. 2208 Il decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 90 afferma che - a decorrere dal 4 luglio 2017, data di entrata in vigore del predetto decreto - i soggetti destinatari della disposizioni ivi contenute (tra i quali intermediari finanziari iscritti all'Albo Unico, società di leasing, società di factoring, ma anche dottori commercialisti, notai e avvocati) sono obbligati a dotarsi di un sistema di segnalazione di illeciti, l'istituto di derivazione anglosassone per le segnalazioni interne di violazioni.

Stati Uniti d'America. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.

Sono Antonio Giangrande autore ed editore di centinaia di libri. Su uno di questi “L’Italia dei Misteri” di centinaia di pagine, veniva riportato, con citazione dell’autore e senza manipolazione e commenti, l’articolo del giornalista Francesco Amicone, collaboratore de “Il Giornale” e direttore di Tempi. Articolo di un paio di pagine che parlava del Mostro di Firenze ed inserito in una più ampia discussione in contraddittorio. L’Amicone, pur riconoscendo che non vi era plagio, criticava l’uso del copia incolla dell’opera altrui. Per questo motivo ha chiesto ed ottenuto la sospensione dell’account dello scrittore Antonio Giangrande su Amazon, su Lulu e su Google libri. L’intero account con centinai di libri non interessati alla vicenda. Google ed Amazon, dopo aver verificato la contronotifica hanno ripristinato la pubblicazione dei libri, compreso il libro oggetto di contestazione, del quale era stata l’opera citata e contestata. Lulu, invece,  ha confermato la sospensione.

L’autore ed editore Antonio Giangrande si avvale del Diritto di Citazione. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

Nei libri di Antonio Giangrande, per il rispetto della pluralità delle fonti in contraddittorio per una corretta discussione, non vi è plagio ma Diritto di Citazione.

Il Diritto di Citazione è il Diritto di Cronaca di un’indagine complessa documentale e testimoniale senza manipolazione e commenti con di citazione di opere altrui senza lesione della concorrenza con congruo lasso di tempo e pubblicazione su canali alternativi e differenti agli originali.

Il processo a Roberto Saviano per “Gomorra” fa precedente e scuola: si condanna l’omessa citazione dell’autore e non il copia incolla della sua opera.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o di pressreader.com.

Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa anche su commento di articoli di terzi. Vedi “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news, ecc.

Comunque, nonostante la sua opera sia stata rimossa, Francesco Amicone, mi continua a minacciare: “Domani vaglierò se inviare una email a tutti gli editori proprietari degli articoli che lei ha inserito - non si sa in base a quale nulla osta da parte degli interessati - nei suoi numerosi libri. La invito - per il suo bene - a rimuovere i libri dalla vendita e a chiedere a Google di non indicizzarli, altrimenti è verosimile che gli editori le chiederanno di pagare.”

Non riesco a capire tutto questo astio nei miei confronti. Una vera e propria stolkerizzazione ed estorsione. Capisco che lui non voglia vedere il suo lavoro richiamato su altre opere, nonostante si evidenzi la paternità, e si attivi a danneggiarmi in modo illegittimo. Ma che si impegni assiduamente ad istigare gli altri autori a fare lo stesso, va aldilà degli interessi personali. E’ una vera è propria cattiva persecuzione, che costringerà Google ed Amazon ad impedire che io prosegui la mia attività, e cosa più importante, impedisca centinaia di migliaia di lettori ad attingere in modo gratuito su Google libri, ad un’informazione completa ed alternativa.

E’ una vera è propria cattiva persecuzione e della quale, sicuramente, ne dovrà rendere conto. 

La vicenda merita un approfondimento del tema del Diritto di Citazione.

Il processo a Roberto Saviano per “Gomorra” fa precedente e scuola.

Alcuni giornalisti contestavano a Saviano l’uso di un copia incolla di alcuni articoli di giornale senza citare la fonte.

Da Wikipedia: Nel 2013 Saviano e la casa editrice Mondadori sono stati condannati in appello per plagio. La Corte d'Appello di Napoli ha riconosciuto che alcuni passaggi dell'opera Gomorra (lo 0.6% dell'intero libro) sono risultate un'illecita riproduzione del contenuto di due articoli dei quotidiani locali Cronache di Napoli e Corriere di Caserta, modificando così parzialmente la sentenza di primo grado, in cui il Tribunale aveva rigettato le accuse dei due quotidiani e li aveva anzi condannati al risarcimento dei danni per aver "abusivamente riprodotto" due articoli di Saviano (condanna, questa, confermata in Appello). Lo scrittore e la Mondadori in Appello sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro più parte delle spese legali. Lo scrittore ha presentato ricorso in Cassazione contro la sentenza e la Suprema Corte ha confermato in parte l'impianto della sentenza d'Appello e ha invitato alla riqualificazione del danno al ribasso, stimando 60000 euro una somma eccessiva per articoli di giornale con diffusione limitatissima. La condanna per plagio nei confronti di Saviano e della Mondadori è stata confermata nel 2016 dalla Corte di Appello di Napoli, che ha ridimensionato il danno da risarcire da 60.000 a 6.000 euro per l'illecita riproduzione in Gomorra di due articoli di Cronache di Napoli e per l'omessa citazione della fonte nel caso di un articolo del Corriere di Caserta riportato tra virgolette.

Conclusione: si condanna l’omessa citazione dell’autore e non il copia incolla della sua opera.

Cosa hanno in comune un giurista ed un giornalista d’inchiesta; un sociologo e un segnalatore di illeciti (whistleblower); un ricercatore o un insegnante e un aggregatore di contenuti?

Essi si avvalgono del Diritto di Citazione. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Il Diritto di Citazione è il Diritto di Cronaca di un’indagine complessa documentale e testimoniale senza manipolazione e commenti con di citazione di opere altrui senza lesione della concorrenza con congruo lasso di tempo e pubblicazione su canali alternativi e differenti agli originali.

Il Diritto di Citazione si svolge su Stampa non periodica. Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Il diritto di cronaca su Stampa non periodica diventa diritto di critica storica.

NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione. Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione. Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

L’art. 21 della Costituzione permette di esprimere liberamente il proprio pensiero. Nell’art. 65 della legge l. n. 633/1941 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”).

A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.

Quando si parla di aggregatore di contenuti non mi riferisco a colui che, per profitto, riproduce tout court integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o di pressreader.com.

Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa anche su commento di articoli di terzi. Vedi “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news, ecc.

In un mio saggio sulla mafia mi è sembrato opportuno integrare, quanto già ampiamente scritto sul tema, con una tesi-articolo pubblicato su "La Repubblica" da parte di un'autrice poco nota dal titolo "La Mafia Sconosciuta dei Basilischi". Dacchè mercoledì 16 gennaio 2019 mi arriva una e-mail di diffida di questo tenore: qualche giorno fa mi sono resa conto che senza nessuna tipologia di autorizzazione Lei ha fatto confluire il mio abstract pubblicato da la Repubblica ad agosto 2017, in un suo libro "La mafia in Italia" e forse anche in una seconda opera. Le ricordo che a norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali." NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. La sua opera essendo caratterizzata da fini di lucro, (viene venduta al pubblico ad uno specifico prezzo) rientra a pieno in un'attività economica. L'art 70 ut supra  è, pertanto, pienamente applicabile al caso del mio abstract, non rientrando neanche nel catalogo di articoli a carattere "economico, politico o religioso", poichè da questi vengono escluse "gli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico ", di cui all'art 65 della medesima legge (secondo un'interpretazione estensiva della stessa), la cui riproduzione può avvenire in "altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite." Pertanto La presente è per invitarLa ad eliminare nel più breve tempo possibile il mio abstract dalla sua opera (cartecea e digitale), e laddove sia presente, anche da altri eventuali suoi libri, e-book e cartacei, onde evitare di dover adire le apposite sedi giudiziarie per tutelare il mio Diritto d'Autore e pedissequamente richiedere il risarcimento dei danni.

La mia risposta: certamente non voglio polemizzare e non ho alcun intendimento a dissertare di diritto con lei, che del diritto medesimo ne fa una personalissima interpretazione, non avendo il mio saggio alcun effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione rispetto al suo articolo. Nè tantomeno ho interesse a mantenere il suo articolo nei miei libri di interesse pubblico di critica e di discussione. Libri a lettura anche gratuita, come lei ha constatato, avendo trovato il suo articolo liberamente sul web. Tenuto conto che altri sarebbero lusingati nell’essere citati nelle mie opere, e in migliaia lo sono (tra i più conosciuti e celebrati), e non essendoci ragioni di utilità per non farlo, le comunico con mia soddisfazione che è stata immediatamente cancellata la sua tesi dai miei saggi e per gli effetti condannata all’oblio. Saggi che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente.

La risposta piccata è stata: Guardi mi sa che parliamo due lingue diverse. Non ho dato nessuna interpretazione mia personale del diritto, ma come può notare dalla precedente mail, mi sono limitata a riportare il tenore letterale della norma, che lei forse ignora. Io credo che molte persone, i cui elaborati sono stati interamente riprodotti nei suoi testi, non siano assolutamente a conoscenza di quello che lei ha fatto. Anche perché sono persone che conosco direttamente e con le quali ho collaborato e collaboro tutt'ora. Di certo non sarà lei attraverso l'estromissione (da me richiesta) dalle sue "opere" a farmi cadere in qualsivoglia oblio, poiché preferisco continuare a collaborare con professionisti (quali ad esempio Bolzoni) che non mettono in vendita libri che non sono altro che un insieme di lavori di altri, come fa lei, ma che come me continuano a studiare ed analizzare questi fenomeni con dedizione, perizia e professionalità. Ma non sto qui a disquisire e ad entrare nel merito di determinate faccende che esulano la questio de quo. Spero che si attenga a quanto scritto nella precedente mail.

A questo preme puntualizzare alcuni aspetti. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Molti moralizzatori, sempre col ditino puntato, pretendono di avere il monopolio della verità. Io che non aspiro ad essere come loro (e di fatto sono orgoglioso di essere diverso) mi limito a riportare i comizietti, le prediche ed i pistolotti di questi, contrapponendo gli uni agli altri. A tal fine esercito il mio diritto di cronaca esente da mie opinioni. D'altronde tutti i giornalisti usano riportare gli articoli di altri per integrare il loro o per contestarne il tono o i contenuti. Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili.

Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.

Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.

Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Certamente le mie opere nulla hanno a che spartire con le opere di autori omologati e conformati, e quindi non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera altrui. Quindi questi sconosciuti condannati all'oblio dell'arroganza e della presunzione se ne facciano una ragione.

Ed anche se fosse che la mia cronaca, diventata storia, fosse effettuata a fini di insegnamento o di ricerca scientifica, l'utilizzo che dovrebbe inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali è pienamente compiuto, essendo io autore ed editore medesimo delle mie opere e la divulgazione è per mero intento di conoscenza e non per fini commerciali, tant’è la lettura può essere gratuita e ove vi fosse un prezzo, tale è destinato per coprirne i costi di diffusione.  

Valentina Tatti Tonni soddisfatta su Facebook il 20 gennaio 2018 ". "Ho appena saputo che tre dei miei articoli pubblicati per "Articolo 21" e "Antimafia Duemila" sono stati citati nel libro del sociologo Antonio Giangrande che ringrazio. Gli articoli in questione sono, uno sulla riabilitazione dei cognomi infangati dalle mafie (ripreso giusto oggi da AM2000), uno sulla precarietà nel giornalismo e il terzo, ultimo pubblicato in ordine di tempo, intitolato alla legalità e contro ogni sistema criminale".

Dr Luigi Amicone, sono il dr Antonio Giangrande. Il soggetto da lei indicato a Google Libri come colui che viola il copyright di “Qualcun Altro”. Così come si evince dalla traduzione inviatami da Google. “Un sacco di libri pubblicati da Antonio Giangrande, che sono anche leggibile da Google Libri, sembrano violare il copyright di qualcun altro. Se si controlla, si potrebbe scoprire che  sono fatti da articoli e testi di diversi giornalisti. Ha messo nei suoi libri opere mie, pubblicate su giornali o riviste o siti web. Per esempio, l'articolo pubblicato da Il Giornale il 29 maggio 2018 "Il serial Killer Zodiac ... ". Sembra che abbia copiato l'intero articolo e incollato sul "suo" libro. Sembra che abbia pubblicato tutti i suoi libri in questo modo. Puoi chiedergli di cambiare il suo modo di "scrivere"? Grazie”.

Mi vogliono censurare su Google.

Premessa: Ho scritto centinaia di saggi e centinaia di migliaia di pagine, affrontando temi suddivisi per argomento e per territorio, aggiornati periodicamente. Libri a lettura anche gratuita. Non esprimo opinioni e faccio parlare i fatti e gli atti con l’ausilio di terzi, credibili e competenti, che sono ben lieti di essere riportati e citati nelle mie opere. Opere che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente. Libri a lettura anche gratuita. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Reclamo: Non si chiede solo di non usare i suoi articoli, ma si pretende di farmi cambiare il mio modo di scrivere. E questa è censura.

Ho diritto di citazione con congruo lasso di tempo e senza ledere la concorrenza.

Io sono un giurista ed un giornalista d’inchiesta. Opero nell’ambito dell’art. 21 della Costituzione che mi permette di esprimere liberamente il mio pensiero. Nell’art. 65 della legge n. 633/1941 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”).

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

Io sono un Segnalatore di illeciti (whistleblower). La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.

Io sono un Aggregatore di contenuti tematici di ideologia contrapposta con citazione della fonte, al fine del diritto di cronaca e di discussione e di critica dei contenuti citati.

Quando parlo di aggregatore di contenuti non mi riferisco a colui che, per profitto, riproduce tout court integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o dipressreader.com.

Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa su su articoli di terzi. Vedi  “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news.

Io esercito il mio diritto di cronaca e di critica. Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.

Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.

Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica.

NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione. Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione. Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".  

Diritto di citazione. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il diritto di citazione (o diritto di corta citazione) è una forma di libera utilizzazione di opere dell'ingegno tutelate da diritto d'autore. Infatti, sebbene l'autore detenga i diritti d'autore sulle proprie creazioni, in un certo numero di circostanze non può opporsi alla pubblicazione di estratti, riassunti, citazioni, proprio per non ledere l'altrui diritto di citarla. Il diritto di citazione assume connotazioni diverse a seconda delle legislazioni nazionali.

La Convenzione di Berna. L'articolo 10 della Convenzione di Berna, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: Articolo 10

1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

2) Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

3) Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore.

Le singole discipline.

Stati Uniti. Negli Stati Uniti è il titolo 17 dello United States Code che regola la proprietà intellettuale. Il fair use, istituto di più largo campo applicativo, norma generalmente anche ciò che nei paesi continentali europei è chiamato diritto di citazione.

Italia. L'art. 70, Legge 22 aprile 1941 n. 633 (recante norme sulla Protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio) dispone che «Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali.». Con il decreto legislativo n. 68 del 9 aprile 2003 è stata introdotta l'espressione di comunicazione al pubblico, per cui il diritto è esercitabile su ogni mezzo di comunicazione di massa, incluso il web. Con la nuova formulazione c'è una più netta distinzione tra le ipotesi in cui “il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera" viene effettuata per uso di critica o di discussione e quando avviene per finalità didattiche o scientifiche: se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. L'orientamento giurisprudenziale formatosi in Italia sul vecchio testo dell'art. 70 è stato in genere di restringerne la portata. In seguito a successive modifiche legislative, è stata fornita tuttavia una diversa interpretazione della normativa attualmente vigente, in particolare con la risposta ad un'interrogazione parlamentare nella quale il senatore Mauro Bulgarelli chiedeva al Governo di valutare l'opportunità di estendere anche in Italia il concetto del fair use. Il governo ha risposto che non è necessario intervenire legislativamente in quanto già adesso l'articolo 70 della Legge sul diritto d'autore va interpretato alla stregua del fair use statunitense. A parere del Governo il decreto legislativo n. 68 del 9 aprile 2003, ha reso l'articolo 70 della legge sul diritto d'autore sostanzialmente equivalente a quanto previsto dalla sezione 107 del copyright act degli Stati Uniti. Sempre secondo il Governo, sono quindi già applicabili i quattro elementi che caratterizzano il fair use:

finalità e caratteristiche dell'uso (natura non commerciale, finalità educative senza fini di lucro);

natura dell'opera tutelata;

ampiezza ed importanza della parte utilizzata in rapporto all'intera opera tutelata;

effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione.

Sempre a parere del governo, la normativa italiana in materia del diritto d'autore risulta già conforme non solo a quella degli altri paesi dell'Europa continentale ma anche a quello dei Paesi nei quali vige il copyright anglosassone.

A rafforzare il diritto di corta citazione è nuovamente intervenuto il legislatore, che all'articolo 70 della legge sul diritto d'autore ha aggiunto il controverso comma 1-bis, secondo il quale «è consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro [...]». La norma, tuttavia, non ha ancora ricevuto attuazione, non essendo stato emanato il previsto decreto ministeriale. Altre restrizioni alla riproduzione libera vigono nella giurisprudenza italiana, come, per esempio, quelle proprie all'assenza di libertà di panorama.

Francia. In Francia la materia è regolata dal Code de la propriété intellectuelle.

Unione europea. L'Unione europea ha emanato la direttiva 2001/29/CE del 22 maggio 2001 che i singoli Paesi hanno applicato alla propria legislazione. Il parlamento europeo nell'approvare la direttiva Ipred2, in tema di armonizzazione delle norme penali in tema di diritto d'autore, ha approvato anche l'emendamento 16, secondo il quale gli Stati membri provvedono a che l'uso equo di un'opera protetta, inclusa la riproduzione in copie o su supporto audio o con qualsiasi altro mezzo, a fini di critica, recensione, informazione, insegnamento (compresa la produzione di copie multiple per l'uso in classe), studio o ricerca, non sia qualificato come reato. Nel vincolare gli stati membri ad escludere la responsabilità penale, l'emendamento si accompagnava alla seguente motivazione: la libertà di stampa deve essere protetta da misure penali. Professionisti quali i giornalisti, gli scienziati e gli insegnanti non sono criminali, così come i giornali, gli istituti di ricerca e le scuole non sono organizzazioni criminali. Questa misura non pregiudica tuttavia la protezione dei diritti, in quanto è possibile il risarcimento per danni civili.

Citazioni di opere letterarie. La regolamentazione giuridica delle opere letterarie ha una lunga tradizione. La citazione deve essere breve, sia in rapporto all'opera da cui è estratta, sia in rapporto al nuovo documento in cui si inserisce. È necessario citare il nome dell'autore, il suo copyright e il nome dell'opera da cui è estratta, per rispettare i diritti morali dell'autore. In caso di citazione di un'opera tradotta occorre menzionare anche il traduttore. Nel caso di citazione da un libro, oltre al titolo, occorre anche menzionare l'editore e la data di pubblicazione. La citazione non deve far concorrenza all'opera originale e deve essere integrata in seno ad un'opera strutturata avendo una finalità. La citazione inoltre deve spingere il lettore a rapportarsi con l'opera originale. Il carattere breve della citazione è lasciato all'interprete (giudice) ed è perciò fonte di discussione. Nell'esperienza francese, quando si sono posti limiti quantitativi, sono stati proposti come criterio i 1.500 caratteri. Le antologie non sono giuridicamente collezioni di citazioni ma delle opere derivate che hanno un loro particolare regime di autorizzazione, regolato in Italia dal secondo comma dell'articolo 70. Le misure della lunghezza dei brani sono fissati dall'art 22 del regolamento e l'equo compenso è fissato secondo le modalità stabilite nell'ultimo comma di detto articolo.

Citare, non copiare! Attenzione ai testi altrui. Scrive il 2 Giugno 2016 Chiara Beretta Mazzotta. Citare è sempre possibile, abbiamo facoltà di discutere i contenuti (libri, articoli, post…) e di utilizzare parte dei testi altrui, ma quando lo facciamo non dobbiamo violare i diritti d’autore. Citare o non citare? Basta farlo nel modo corretto! Si chiama diritto di citazione e permette a ciascuno di noi di utilizzare e divulgare contenuti altrui senza il bisogno di chiedere il permesso all’autore o a chi ne detiene i diritti di commercializzazione. Dobbiamo però rispettare le regole. Ogni testo – articoli, libri e anche i testi dal carattere non specificatamente creativo (ma divulgativo, comunicativo, informativo) come le mail… – beneficia di tutela giuridica. La corrispondenza, per esempio, è sottoposta al divieto di rivelazione, violazione, sottrazione, soppressione previsto dagli articoli 616 e 618 del codice penale. Le opere creative sono tutelate dalla normativa del diritto d’autore e non possono essere copiate o riprodotte (anche in altri formati o su supporti diversi), né è possibile appropriarsi della loro paternità. Possono, però, essere “citate”.

È consentito il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti d’opera, per scopi di critica…L’art. 70, Legge 22 aprile 1941 n. 633 (recante norme sulla Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio) dispone che «il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti d’opera, per scopi di critica, di discussione ed anche di insegnamento, sono liberi nei limiti giustificati da tali finalità e purché non costituiscono concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera». Vale a dire che – a scopo di studio, discussione, documentazione o insegnamento – la legge (art. 70 l. 633/41) consente il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o parti di opere letterarie. Lo scopo deve essere divulgativo (e non di lucro o meglio: il testo citato non deve fare concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera stessa).

Dovete dichiarare la fonte: il nome dell’autore, l’editore, il giornale, il traduttore, la data di pubblicazione. Per rispettare il diritto di citazione dovete dichiarare la fonte: il nome dell’autore, l’editore, il giornale, il traduttore, la data di pubblicazione.  Quindi, se per esempio state facendo la recensione di un testo, il diritto di citazione vi consente di “copiare” una piccola parte di esso (il diritto francese prevede per esempio 1500 caratteri; in assoluto ricordate che la brevità della citazione vi tutela da eventuali noie) purché diciate chi lo ha scritto, chi lo ha pubblicato, chi lo ha tradotto e quando. Nessun limite di legge sussiste, invece, per la riproduzione di testi di autori morti da oltre settant’anni (questo in Italia e in Europa; in Messico i diritti scadono dopo 100 anni, in Colombia dopo 80 anni e in Guatemala e Samoa dopo 75 anni, in Canada dopo 50; in America si parla di 95 anni dalla data della prima pubblicazione). Se volete citare un articolo, avete il diritto di riassumere il suo contenuto e mettere tra virgolette qualche stralcio purché indichiate il link esatto (non basta il link alla home della testata, per dire). Va da sé che no, non potete copia-incollare un intero pezzo mettendo un semplice collegamento ipertestuale! Questo lo potete fare solo se siete stati autorizzati. Tantomeno potete tradurre un articolo uscito sulla stampa estera o su siti stranieri. Per pubblicare un testo tradotto dovete infatti essere stati autorizzati. Quindi, se incappate in rete in un post di vostro interesse che non vi venga in mente di copiarlo integralmente indicando solo un link. Aggregare le notizie, copiandole totalmente, anche indicando la fonte, non è legale: è necessaria l’autorizzazione del titolare del diritto. E poi, oltre a non rispettare le leggi del diritto d’autore, fate uno sgarbo ai motori di ricerca che penalizzano i contenuti duplicati.

Prestate cura anche ai tweet, agli status e a tutto ciò che condividete in rete. E se scoprite un plagio in rete? Dal 2014 non c’è più bisogno di ricorrere alla magistratura. Cioè non c’è più bisogno di un processo, né di una denuncia alle autorità (leggi qui). C’è infatti una nuova procedura “accelerata”, introdotta con il recente regolamento Agcom, e potete avviare la pratica direttamente in rete facendo una segnalazione e compilando un modulo (per maggior informazioni su come denunciare una violazione leggi la guida: “Come denunciare all’Acgom un sito per violazione del diritto d’autore”).

Volete scoprire se qualcuno rubacchia i vostri contenuti? Basta utilizzare uno tra i tanti motori di ricerca atti allo scopo. Per esempio Plagium. È sufficiente copiare e incollare il testo e analizzare le corrispondenze in rete. Spesso, ahimè, ne saltano fuori delle belle… Mi raccomando, prestate cura anche ai tweet, agli status e a tutto ciò che condividete in rete. Quando fate una citazione – che si tratti di una grande poetessa o dell’ultimo cantante pop – usate le virgolette e mettete il nome dell’autore e del traduttore. È una questione di rispetto oltre che legale. E se volete essere presi sul serio, fate le cose per bene.

LO SPAURACCHIO DELLA CITAZIONE DI OPERA ALTRUI. Avvocato Marina Lenti Marina Lenti su diritto d'autore. A volte mi capita di rispondere a dei quesiti postati su Linkedin e siccome quello che segue ricorre spesso, colgo l’occasione per trattarlo,in maniera molto elementare (niente legalese! ), anche in questa sede. Si tratta di una delle maggiori preoccupazioni di chi scrive: la citazione. Può trattarsi della citazione di una dichiarazione rilasciata da qualcuno, oppure la citazione di un titolo di un libro o di un film, o similia. Spesso gli autori sono paralizzati perché pensano che ogni volta sia necessaria l’autorizzazione del titolare dei diritti connessi alla dichiarazione o all’opera citata. Ovviamente non è così perché, in tal caso si arriverebbe alla paralisi totale e tutta una serie di generi morirebbe: manualistica, saggistica, biografie… Bisogna ricordare sempre che il diritto d’autore, oltre a proteggere la proprietà intellettuale, deve contemperare anche l’esigenza collettiva di poter usare materiale altrui, a certe condizioni, in modo da creare materiale nuovo, anche sulla base di quello vecchio, che arricchisca ulteriormente la collettività. E’ per questo che si ricorre al concetto di fair use, che nella nostra Legge sul Diritto d’Autore si ritrova al primo comma dell’art. 70: “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera”.

In aggiunta, il concetto è più chiaramente formulato nella Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche, cui l’Italia aderisce, all’art. 10 comma 1: “Sono lecite le citazioni tratte da un’opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo”.

Dunque, non c’è bisogno di autorizzazioni se, per esempio, se in un dialogo, un personaggio riferisce all’altro di aver letto il libro X, o aver visto il film Y, o aver letto l’intervista rilasciata dal personaggio famoso Z. Diverso sarebbe, ovviamente, se ci si appropriasse del personaggio X dell’altrui opera Y per farlo agire nella propria (e se state pensando alle fan fiction, ebbene sì, a stretto rigore le fan fiction sono illegali, solo che alcuni autori, come J.K. Rowling, le tollerano finché restano sul web e sono messe a disposizione gratuitamente; altri, come Anne Rice, le combattono invece in tutti i modi). Lo stesso vale se si riporta la dichiarazione di un’intervista, oppure un brano di un’altrui opera. In questo caso basterà citare in nota la fonte: nome dell’autore, titolo dell’intervista/opera, data, numeri di riferimento (a seconda della pubblicazione), editore, anno. Oltretutto, riportare la fonte dà maggiore autorevolezza alla vostra opera perché dimostra che le citazioni riportate non sono "campate in aria". Ovviamente la citazione deve constare di qualche frase, non di mezza intervista o mezzo libro, altrimenti va da sé l’uso non sarebbe più "fair", cioè "corretto".

Bisogna tuttavia fare attenzione al contenuto di ciò che si cita, per non rischiare di incorrere in altri possibili problemi legali diversi dalle violazioni del diritto d’autore: se, ad esempio, si cita una dichiarazione di terzi che accusa la persona X di essere colpevole di un reato e questa dichiarazione è priva di fondamento (perché, ad esempio, non c’è stata una sentenza di condanna), ovviamente potrà essere ritenuto responsabile della diffamazione alla stregua della fonte usata.

Il concetto di fair use, a differenza che in Italia, è stato oggetto di elaborazione giurisprudenziale molto sofisticata in Paesi come l’America. Magari in un prossimo post esamineremo i quattro parametri di riferimento elaborati dai giudici statunitensi per discernere se, in un dato caso, si verta effettivamente in tema di fair use. Tuttavia, nonostante questa lunga elaborazione, va tenuto presente che si tratta sempre di un terreno molto scivoloso, che ha volte ha dato luogo pronunciamenti contraddittori.

La riproduzione e citazione di articoli giornalistici. Di Alessandro Monteleone.

La normativa.

La materia trova disciplina nei seguenti testi di legge: art. 10, comma 1, Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche (ratificata ed eseguita con la L. 20 giugno 1978, n. 399); artt. 65 e 70, Legge 22 aprile 1941, n. 633 (di seguito anche “Legge sul Diritto d’Autore”).

L’opera giornalistica.

Come noto, l’opera giornalistica che abbia il requisito della creatività è tutelata dall’art. 1 della Legge sul Diritto d’Autore. Il quotidiano (ovvero il periodico) è considerato pacificamente opera “collettiva”, in merito alla quale valgono le seguenti considerazioni. In base al combinato disposto degli artt. 7 e 38, Legge sul Diritto d’Autore l’editore deve essere considerato l’autore dell’opera. L’editore – salvo patto contrario – ha il diritto di utilizzazione economica dell’opera prodotta “in considerazione del fatto che […] è il soggetto che assume su di sé il rischio della pubblicazione e della messa in commercio dell’opera provvedendovi per suo conto ed a sue spese”. L’editore è titolare “dei diritti di cui all’art. 12 l.d.a. (prima pubblicazione dell’opera e sfruttamento economico della stessa). E ciò senza alcun bisogno di accertare […] un diverso modo ovvero una distinta fonte di acquisto del diritto sull’opera componente, rispetto a quello sull’opera collettiva”, inoltre “il diritto dell’editore si estende a tutta l’opera, ma includendone le parti”.

Disciplina normativa in materia di citazione e riproduzione di articoli giornalistici.

Con riferimento alla possibilità di riprodurre articoli giornalistici in altre opere si osserva quanto segue:

La Convenzione di Berna contiene una clausola generale che disciplina la fattispecie della citazione di un’opera già resa accessibile al pubblico. In particolare, in base all’art. 10 della Convenzione di Berna, la libertà di citazione incontra quattro limiti specifici:

1) l’opera deve essere stata resa lecitamente accessibile al pubblico;

2) la citazione deve avere carattere di mero esempio a supporto di una tesi e non deve avere come scopo l’illustrazione dell’opera citata;

3) la citazione non deve presentare dimensioni tali da consentire di supplire all’acquisto dell’opera;

4) la citazione non deve pregiudicare la normale utilizzazione economica dell’opera e arrecare un danno ingiustificato agli interessi legittimi dell’autore. Per essere lecite, altresì, le citazioni devono essere contenute nella misura richiesta dallo scopo che le giustifica e devono essere corredate dalla menzione della fonte e del nome dell’autore.

Art. 10, Convenzione di Berna: “1)Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. 2) Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. 3) Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore”.

Con riferimento alla normativa nazionale l’art. 65, Legge sul Diritto d’Autore recita testualmente: “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l'utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichino la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell'autore, se riportato […]”.

L’articolo appena citato è considerato in dottrina una norma eccezionale non suscettibile di applicazione analogica con riguardo al carattere degli articoli, pertanto, l’elencazione sopra proposta ha natura tassativa. (R. Valenti, Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza). Si deve comunque evidenziare che una parte della dottrina (R. Valenti, nota a Trib. Milano, 13 luglio 2000, in Aida, 2001, 772, 471) ritiene che una corretta interpretazione dell’art. 65, Legge sul Diritto d’Autore porti a ritenere lecita solo la riproduzione di articoli di attualità a carattere politico, economico e religioso (con esclusione pertanto degli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico) che avvenga in altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite.

Ulteriore disciplina è dettata nell’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore che fa salva la libera riproduzione degli articoli giornalistici, a prescindere dall’argomento trattato, purché sussista una finalità di critica, discussione od insegnamento. Questa norma dà prevalenza alla libera utilizzazione dell’informazione, proteggendo la forma espressiva e lasciando libera la fruibilità dei concetti. Art. 70 LdA: “1. Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica odi discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. 1-bis. E' consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro. Con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali, sentiti il Ministro della pubblica istruzione e il Ministro dell'università e della ricerca, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, sono definiti i limiti all'uso didattico o scientifico di cui al presente comma 2. Nelle antologie ad uso scolastico la riproduzione non può superare la misura determinata dal regolamento, il quale fissa la modalità per la determinazione dell'equo compenso. 3. Il riassunto, la citazione o la riproduzione debbono essere sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore, dell'editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”.

In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. (R. Valenti, cit.). Secondo la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie anche questa norma ha carattere eccezionale e si deve interpretare restrittivamente. (Da ultime Cass. 2089/1997 e 11143/1996. L’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore richiede inoltre che “il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico”, perché siano leciti, “non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera [citata]”. Tale requisito postula che l’utilizzazione dell’opera non danneggi in modo sostanziale uno dei mercati riservati in esclusiva all’autore/titolare dei diritti: non deve pertanto influenzare l’ammontare dei profitti di tipo monopolistico realizzabili dall’autore/titolare dei diritti. Secondo VALENTI, in particolare, il carattere commerciale dell’utilizzazione e, soprattutto, l’impatto che l’utilizzazione può avere sul mercato – attuale o potenziale – dell’opera protetta sono elementi determinanti nel verificare se l’utilizzazione possa considerarsi libera o non concreti invece violazione del diritto d’autore. Infine, il terzo comma dell’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore richiede che “il riassunto, la citazione o la riproduzione” siano “sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore, dell'editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”.

In considerazione di ciò, la mancata menzione degli elementi succitati determina una violazione del diritto di paternità dell’opera dell’autore, risarcibile in quanto abbia determinato un danno patrimoniale al titolare del diritto.

Conclusioni. La lettura combinata degli artt. 65 e 70, Legge sul Diritto d’Autore porta a ritenere che, per citare o riprodurre lecitamente un articolo giornalistico in un’altra opera, debbano ricorrere i seguenti presupposti:

1) art. 65, LdA (limite contenutistico): nel caso di riproduzione di articoli di attualità che abbiano carattere economico, politico o religioso pubblicati nelle riviste o nei giornali, tale riproduzione può avvenire liberamente purchè non sia stata espressamente riservata e vi sia l’indicazione della fonte da cui sono tratti, della data e del nome dell’autore, se riportato;

2) art. 70, LdA (limite teleologico e dell’utilizzazione economica): la citazione o riproduzione di brani o parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi qualora siano effettuati per uso di critica, discussione, insegnamento o ricerca scientifica entro i limiti giustificati da tali fini e purchè non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera citata o riprodotta. In relazione ai singoli articoli, quindi, l’editore potrà far valere l’inapplicabilità dell’art. 65 LdA tutte le volte in cui “il titolare dei diritti di sfruttamento – dell’articolo riprodotto – se ne sia riservata, appunto, la riproduzione o la utilizzazione” apponendovi un’espressa dichiarazione di riserva.

IL DIRITTO D’AUTORE TRA IL DIRITTO DI CRONACA E LA CREAZIONE LETTERARIA.

Diritto d'autore e interesse generale. Contemperare l’esigenza collettiva di poter usare materiale altrui in modo da creare materiale nuovo, anche sulla base di quello vecchio, che arricchisca ulteriormente la collettività. Opera letteraria - giornalistica, fonte di informazione e di cronaca. Diritti costituzionalmente garantiti, senza limitazione dall'art 21 della Costituzione italiana: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.»

Questa libertà è riconosciuta da tutte le moderne costituzioni.

Ad questa libertà è inoltre dedicato l'articolo della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948: Art. 19: Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.

La libertà di espressione è sancita anche dall'art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ratificata dall'Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848:

1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.

2. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati.

Tesi di Laurea di Rosalba Ranieri. Pubblicato da Studio Torta specializzato in proprietà intellettuale.

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BARI “ALDO MORO” DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN GIURISPRUDENZA. TESI DI LAUREA IN DIRITTO COMMERCIALE. IL DIRITTO D’AUTORE TRA IL DIRITTO DI CRONACA E LA CREAZIONE LETTERARIA: IL CASO “GOMORRA” RELATORE: Ch.issima Prof. Emma Sabatelli LAUREANDA Rosalba Ranieri.

La maggior parte delle persone comuni, non giuristi, quando pensano al diritto d’autore hanno un’idea precisa: basandosi sui fatti di cronaca, ritengono che il diritto d’autore tuteli quel cantante o autore famosi ai quali è stata rubata o copiata l’idea della propria canzone o del proprio libro. Tuttavia questa è una visione alquanto semplicistica.

Sfogliando qualsiasi manuale di diritto industriale o un’enciclopedia giuridica veniamo a sapere che: “il diritto d’autore è quel complesso di norme che tutela le opere dell’ingegno di carattere creativo riguardanti le scienze, la letteratura, la musica, le arti figurative, l’architettura, il teatro, la cinematografia, la radiodiffusione e, da ultimo, i programmi per elaboratore e le banche dati, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione, attraverso il riconoscimento all’autore dell’opera di una serie di diritti, sia di carattere morale che patrimoniale”. Dunque, del diritto d’autore non dobbiamo avere una visione riduttiva, come la si aveva in passato, in quanto il diritto d’autore ha un campo d’azione molto più ampio di quanto si possa ad un primo approccio immaginare. Si può ben pensare che in passato, a fronte delle rudimentali scoperte e conoscenze nei diversi settori in cui oggi opera, il diritto d’autore tutelava parzialmente l’autore, poiché solo gli scrittori di opere letterarie potevano esser lesi nel diritto esclusivo di usare economicamente la propria opera con la riproduzione non autorizzata della stessa a mezzo della stampa.

É dunque l’invenzione della stampa che fa sorgere l’esigenza di un diritto d’autore, che nasce prima in Inghilterra con il “Copyright Act”, la legge sul copyright (il diritto alla copia) della regina Anna del 1709; poi negli Stati Uniti, ispirati dalla legge inglese, con la legge federale del 1790 e poi in Francia con le leggi post-rivoluzionarie del 1791-1793, nelle quali si riconoscono per la prima volta i diritti morali dell’autore. Solo successivamente gli altri Stati europei, come l’Italia, adotteranno una legge a tutela del diritto d’autore. Tuttavia, prima di queste leggi, il diritto d’autore inizia a formarsi già nel mondo antico. Infatti nell’Antica Grecia non c’erano specifiche disposizioni legislative, perciò le opere letterarie erano liberamente riproducibili, ma veniva condannata l’appropriazione indebita della paternità. A Roma, invece, si distingueva il diritto di proprietà immateriale dell’autore (corpus mysticum), creatore ed inventore dell’opera, dal diritto di possesso materiale del bene del libraio e dell’editore (corpus mechanicum), essendo questi ultimi che possedevano materialmente i supporti contenenti le opere. Perciò, il diritto romano riconosceva i diritti patrimoniali soltanto ai librai e agli editori, perché una volta che l’opera fosse stata pubblicata (mediante una lettura in pubblico e la diffusione di manoscritti) i diritti venivano traslati sulla cosa materiale, invece agli autori riconosceva altri diritti quali: il diritto di non pubblicare l’opera, il diritto di mantenere l’opera inedita ed altri diritti inerenti la paternità. Con la caduta dell’Impero Romano, la cultura si rifugia presso i monasteri; infatti i monaci amanuensi, avendo a disposizione numerosi volumi, iniziarono a ricopiarne manualmente il contenuto presso vaste sale illuminate: le scriptoria. Poco tempo dopo nacquero le prime Università (a Bologna, Pisa, Parigi…) e di conseguenza la cultura non fu più di esclusivo appannaggio dei religiosi, ma anche dei laici. Molti uomini ricchi del Quattrocento si interessarono alla lettura soprattutto di testi religiosi, giuridici, scientifici, ma anche di romanzi. La diffusione della cultura e l’aumento della domanda di copie di testi letterari portò ad un mercato del libro, che permetteva ottime possibilità di guadagno, allorché fu inventata la tecnica, che avrebbe consentito la riproduzione dell’opera in maniera più rapida, più economica, e meno faticosa su centinaia o migliaia di copie. Nel 1455 nacque la stampa a caratteri mobili ad opera del tedesco Johannes Gutenberg e con essa nasce l’interesse di tutelare i testi e gli autori che li producevano. È con l’avvento della stampa che l’autore è riconosciuto come titolare di privilegi di stampa, che in passato erano concessi solo agli editori. Questo sistema resse fino al XVIII sec., fino alla produzione di leggi più organiche sul diritto d’autore. Dunque, si può affermare che il diritto d’autore in senso moderno nasce con l’invenzione della stampa e dalla necessità di dare tutela alle sole opere letterarie ed artistiche che possono essere prodotte a mezzo della stampa. Successivamente, esso fu esteso anche ad altre tipologie di opere, che possono essere prodotte con mezzi diversi dalla stampa. Il diritto d’autore si sviluppa al progredire della scienza e della tecnologia e questo ha reso ancora più ampio il margine del suo utilizzo; difatti, il diritto d’autore è oggi “un istituto destinato a proteggere opere eterogenee (opere letterarie, artistiche, musicali, banche dati, software e design)”, dunque anche opere digitali e multimediali, create con programmi di computer. Da qui emerge la difficoltà di delineare una nozione di opera dell’ingegno, tutelata dal diritto d’autore.

Inoltre, il diritto d’autore riconosce una pluralità di diritti (Si tratta del diritto esclusivo di riproduzione dell’opera e del diritto esclusivo degli autori di comunicare l’opera al pubblico “qualunque ne sia il modo o la forma” (con la rappresentazione, l’esecuzione e la diffusione a distanza)) e facoltà agli autori e diverse tecniche di protezione tanto da rendere difficile anche definirne unitariamente il contenuto. Tuttavia, è possibile ravvisare dei caratteri e dei requisiti comuni alle opere eterogenee, facendole rientrare nelle norme che tutelano il diritto d’autore, così come è possibile ravvisare degli interessi ben precisi che la legge del diritto d’autore tutela, come: l’interesse collettivo a favorire ed incentivare la produzione di opere dell’ingegno attraverso la libera circolazione delle idee e delle informazioni e l’interesse individuale, propriamente dell’autore, a godere del diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera per conseguire un profitto dall’utilizzazione di essa e a godere dei diritti morali, mediante i quali si tutela la personalità dell’autore.

LE FONTI NORMATIVE NAZIONALI ED INTERNAZIONALI La capacità dell’opera creativa di suscitare interesse non solo in delimitati ambiti territoriali ha fatto sì che non si potesse prevedere una tutela limitata nello spazio, bensì una tutela universale (L’interesse di conoscere o avere tra le mani un’opera d’ingegno non si limita ai soli cittadini del territorio in cui l’autore abbia inventato la sua creazione), che permettesse la diffusione e l’utilizzo economico dell’opera anche al di là dei confini di uno Stato. Per queste ragioni sono state elaborate Convenzioni internazionali multilaterali in materia di diritto d’autore e dei diritti connessi, le quali hanno portato uno stravolgimento della previgente disciplina (Fino al 1993, anno in cui entrò in vigore il Trattato CE, oggi Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, vigeva il principio di territorialità, in base al quale il nostro ordinamento rinviava alla legge dello Stato nel quale l’opera era utilizzata o era destinata ad essere utilizzata. In tal modo, il diritto italiano accordava protezione soltanto alle opere dei cittadini italiani o alle opere di autori stranieri che fossero state pubblicate o realizzate per la prima volta in territorio italiano. Inoltre, fino al 1993, vigeva il principio di reciprocità, superato dalle Convenzioni internazionali attualmente in vigore, secondo il quale in Italia si sarebbero potute tutelare altre opere di stranieri, solo in quanto lo Stato di appartenenza dello straniero accordasse la stessa protezione concessa ai propri cittadini alle opere dei cittadini italiani), ma hanno garantito ai cittadini di ciascuno Stato contraente la possibilità di godere di una tutela uniforme. La Convenzione più importante in ordine di tempo è la Convenzione d’Unione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche, firmata nel 1886 a Berna e modificata nelle successive conferenze diplomatiche, alla quale ha aderito il maggior numero di Stati. Da ricordare è anche: la Convenzione universale sul diritto d’autore, firmata nel 1952 a Ginevra da parte degli Stati che non avevano firmato la Convenzione di Berna, tra questi in primis gli Stati Uniti d’America; la Convenzione internazionale sulla protezione degli artisti interpreti o esecutori, dei produttori di fonogrammi e degli organismi di radiodiffusione, firmata nel 1961 a Roma; I trattati dell’OMPI sul diritto d’autore e sulle interpretazioni, esecuzioni e fonogrammi, firmati nel 1996 a Ginevra, volti ad integrare le lacune delle precedenti Convenzioni. Queste Convenzioni non solo obbligano gli Stati firmatari a rispettare il principio di assimilazione o del trattamento nazionale, secondo il quale gli Stati devono accordare ai cittadini degli Stati contraenti la stessa protezione riconosciuta ai propri cittadini, ma, in aggiunta, prevedono anche una protezione minima specifica e comune per colmare le tutele insufficienti delle leggi nazionali. Nel nostro Stato il diritto d’autore è regolato tanto dalle Convenzioni appena richiamate, alle quali ha aderito l’Italia, quanto dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea in tema di non discriminazione, di libera circolazione dei prodotti e dei servizi e di tutela della concorrenza; dalle Direttive comunitarie emanate in materia di diritto d’autore e anche dalla l. 22 aprile 1941, n. 633 (La l. n. 633/1941 è stata novellata ripetutamente dal nostro legislatore per dare attuazione alle direttive comunitarie, in ragione dell’obbligo di adeguamento alla normativa comunitaria, che incombe su tutti gli Stati aderenti all’ UE.) e dagli artt. 2575- 2583 c.c., che hanno recepito la codificazione normativa del Droit d’auteur francese sancita nella legge del 19/24 luglio 1793 (La legge francese sul diritto d’autore del 1793, intitolata “Droit de proprieté des auteurs”, modificata il 3 agosto 2006, è tutt’ora vigente in Francia). Dunque, ci si può domandare per quale ragione una materia così consolidata, come è attualmente la tutela del diritto d’autore, sia oggetto di questa ricerca e, come si è già anticipato, la risposta al quesito risiede nel caso giudiziario “Gomorra”, alquanto recente, che ha suscitato un notevole interesse non solo tra i giuristi ma anche tra i meri lettori del libro. Analizzando il caso concreto è possibile scorgere una serie di questioni e di profili rilevanti sul piano giuridico, che incidono addirittura sull’esito della controversia giudiziaria, mettendo in crisi l’efficacia della tutela, che non sono regolati precisamente dal legislatore e sui quali dottrina e giurisprudenza non hanno raggiunto, ancora oggi, orientamenti pacifici. In altre parole, il caso giudiziario “Gomorra” può essere utilizzato come la cartina tornasole con la quale verificare l’effettiva efficacia degli strumenti posti a tutela del diritto d’autore.

(Il caso concreto applicato al tema trattato della riproduzione di un opera con doverosa citazione dell'autore e dell'editore, al netto nella menzione sul Plagio, ossia mancanza di citazione, nota dell'autore.)

Il Convenuto. Aspetto quantitativo ed incidentale: Dunque, i convenuti respingono le doglianze della parte attrice asserendo in primo luogo che le similitudini tra gli articoli di giornale e il libro sono dovute all’identità delle fonti consultate dai giornalisti e dall’autore (forze dell’ordine e investigatori) e che gli articoli di giornale rappresentano una componente qualitativamente e quantitativamente irrilevante del libro: poche pagine rispetto alle trecentotrenta dell’intero.

La Corte. Creazione di opera letteraria atipica. Accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet, utilizzando fonti di dominio pubblico al di là dello spazio temporale congruo, senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica”.

Tribunale di Napoli – sezione specializzata in materia di proprietà industriale ed intellettuale sentenza n. 773, 7 luglio 2010. Il Tribunale di Napoli respinge la domanda della parte attrice, fondando la decisione sulle seguenti ragioni di fatto e di diritto:

1) L’opera “Gomorra” non può essere considerata un “saggio” ma “neppure tutt’altro, un’opera di fantasia” ma essa deve essere ricondotta al genere “romanzo no fiction, dedicato al fenomeno camorristico, contenenti ampi riferimenti alla realtà campana”. In particolare “Gomorra” costituisce “un accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Il suo carattere creativo emerge dall’originale combinazione delle vicende criminali del fenomeno camorristico, peraltro non esaminate in maniera organica, né secondo criteri, che avrebbero invece caratterizzato un’opera di genere saggistico. In esso fatti di cronaca vengono mescolati “con le vicende e le sensazioni personali dell’autore”, dal che deriva la nettissima distanza dell’opera “dalla mera cronaca giornalistica degli avvenimenti, da cui pure muove l’autore, e che trova puntuale riscontro nello stesso testo dell’opera”. Delineato, dunque, il genere letterario di appartenenza dell’opera di Saviano, il Tribunale esclude la violazione dell’art. 65 della legge sul diritto d’autore in quanto la norma richiede, perché ci sai plagio, “un ambito di riferimento omogeneo”, che non ricorre nel caso di specie, perché gli articoli di giornale sono stati utilizzati da Saviano mesi dopo la loro pubblicazione sulla testata giornalistica ed impiegati in un ambito e con uno scopo diverso: differentemente dal giornale con il quale si propone di dare informazioni contingenti, il libro di Saviano intende approfondire e riflettere sul fenomeno camorristico, trattato nel suo libro. (L’opera diventa di pubblico dominio quando decadono i diritti di sfruttamento economico della stessa oppure quando decorre il tempo massimo di tutela stabilito dall’ordinamento, il quale solitamente scade dopo settant’anni dalla morte dell’autore, ma vi sono altri casi in cui il termine è diverso, come ad esempio per le opere collettive, nelle quali vi rientrano i giornali, le riviste, le enciclopedie, i cui diritti di sfruttamento economico dell’opera scadono dopo settant’anni dalla pubblicazione, ma i diritti del singolo autore seguono la regola generale. L’opera di pubblico dominio può liberamente essere pubblicata, riprodotta, tradotta, recitata, comunicata, diffusa, eseguita, ecc…, ma i diritti morali devono essere sempre rispettati.)

2) L’opera “Gomorra” non promuove la critica o la discussione sul contenuto degli articoli e ciò viene confermato dalla “scrittura tesa e volutamente poco attenta ai dettagli” dell’autore. Pertanto, il Tribunale di Napoli esclude la violazione dell’art. 70 l. n. 633/1941, che richiede “la menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore e dell'editore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”, in quanto il riferimento alla norma risulta “del tutto incongruo”.

3) L’autore ha utilizzato fonti di dominio pubblico senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica” e ciò esclude la violazione dell’art. 101 l. n. 633/1941. (L’art. 101 l. n. 633/1941 così recita “La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l'impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte”).

La Corte d'Appello. Distinzione di Articoli di giornale: Cronaca; Opinione; Intervista. La rilevanza dello spazio temporale. Prevalenza dell'interesse pubblico su quello privato.

Corte d'Appello di Napoli - Sezione specializzata in materia d'impresa. Sentenza 4135/2016 del 26 settembre 2016, pubblicata il 21 novembre 2016 RG 4692/2015 repert n. 4652/2016 del 21/11/2016.

Gli articoli di giornali e le riviste rientrano a pieno titolo tra le opere protette dal diritto d’autore, ai sensi dell’art. 3 l. n. 633/1941. Sull’assunto non può sorgere alcun dubbio, non solo a causa della lettera della norma, ma anche perché bisogna distinguere le tipologie di articoli: l’articolo di cronaca, l’articolo d’opinione e l’intervista.

Il primo dà notizie di un avvenimento di attualità in modo obiettivo; perciò il cronista deve riferire l’accaduto, senza inserire alcun commento sulla vicenda.

Il secondo contiene non solo informazioni e riferimenti all'attualità, ma anche l'opinione del giornalista su una determinata questione di costume, di cronaca, culturale, ecc…

L’intervista, infine, è il resoconto di un dialogo tra l’intervistatore e la persona intervistata. Tuttavia, l’articolo di giornale, oltre ad avere carattere informativo, legato ai fatti di cronaca, può avere anche contenuti descrittivi e narrativi. In esso, infatti, il giornalista può inserire una propria visione ideologica, politica, culturale, sulla notizia in questione. A fronte di tale classificazione si esclude che gli articoli di cronaca possano essere plagiati a differenza di quanto avviene per gli articoli di giornale.

Le norme del diritto d’autore in tema di libere utilizzazioni sono del tutto eccezionali e ciò esclude che gli articoli di giornale tutelati possano essere riprodotti, citati o sunteggiati al di fuori dei rigorosi limiti in esse posti, nonché in assenza delle condizioni da esse previste. (...) É pur vero che, trascorso un certo spazio temporale dall’originaria pubblicazione della notizia, il fatto diventa notorio e non vi è alcuna violazione del diritto d’autore, se si utilizzano informazioni diffuse; tuttavia, rilevano le modalità con le quali le informazioni vengono usate. (...) È assolutamente fondato che nessuno ha il monopolio delle informazioni afferenti a fatti noti ed oggettivamente accaduti e che nessuno può subordinare all’obbligo di citazione la riproduzione o comunicazione di un’informazione, ma è pur vero che l’articolo di giornale può non essere solo informativo, come l’articolo di cronaca, quando non si limita ad esporre i fatti così come sono accaduti nella realtà, ma è connotato da una parte descrittiva e narrativa, che rende l’opera creativa e tutelata dal diritto d’autore. (...)

Gli articoli 657 , 708 e 1019 l. n. 633/1941 prevedono dei limiti ai diritti patrimoniali dell’autore, non anche a quelli morali, in quanto consentono la riproduzione, la comunicazione al pubblico, il riassunto, la citazione ecc… di opere per favorire l’informazione pubblica, la libera discussione delle idee, la diffusione della cultura e di studio, che prevalgono sull’interesse personale dell’autore. (L’art. 65 l. n. 633/1941 così recita “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l'utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichino la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell'autore, se riportato”. 8L’art. 70 l. n. 633/1941 così recita “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali”).

Corte di Cassazione. Prima sezione civile. Sentenza n. 12314/1015. L'originalità e creatività dell'opera creata con l'ausilio di articoli di giornale.

(...)La violazione del diritto d’autore non si ha solo nell’ipotesi di integrale riproduzione dell’opera altrui ma anche nel caso di mera contraffazione e, dunque, nel caso di riproduzione indebita di alcune parti dell’opera, nelle quali si ravvisano “i tratti essenziali che caratterizzano l’opera anteriore”. "Cass., 5 luglio 1990, n. 7077, in Giur. it., 1991, p. 47". Su questo punto la Cassazione si è più volte pronunciata (Cass., 5 luglio 1990, n. 7077, in Giur. it., 1991, p. 47. 12 Cass., 27 ottobre 2005, n. 20925, in Foro it. 2006, p. 2080; conf. Cass., 5 luglio 1990, n. 9139, in Giust. civ., 1991, p. 152), sostenendo che sia opportuno distinguere la riproduzione abusiva in senso stretto dalla contraffazione e dall’elaborazione creativa perché la prima consiste nella “copia integrale e pedissequa dell’opera altrui”; la seconda nella riproduzione non integrale ma sostanziale dell’opera, in quanto ci sono poche differenze e di mero dettaglio; la terza, invece, consiste in un’opera originale, in quanto si connota per l’apporto creativo del suo autore ed è, pertanto, meritevole di tutela, ex art. 4 l. n. 633/1941. (...)

Conclusioni.

Tuttavia, è certo che gli articoli di giornale e “Gomorra” seguono scopi distinti, infatti, con i primi si informa e si danno informazioni contingenti, invece, con il secondo si segue il fine di approfondire e di indurre il lettore alla riflessione sul fenomeno criminale denominato camorra. La forma e la struttura espositiva dell’opera permettono di riflettere su un altro punto nevralgico della vicenda, che vede, ancora una volta, opinioni contrastanti tra la dottrina e la giurisprudenza: l’articolo di giornale rientra tra le opere protette dal diritto d’autore? Risponde al quesito sia l’art. 3 l. n. 633/1941, che annovera tra le opere tutelate dal diritto d’autore anche gli articoli pubblicati su giornali e sulle riviste, sia la distinzione tra l’articolo di cronaca e l’articolo d’opinione. Come si può leggere nel Cap. III, par. 3.1, l’articolo di cronaca non può essere plagiato, in quanto, per definizione, si limita a narrare i fatti così come sono accaduti, nella loro successione cronologica, senza che vi ricorrano i requisiti che un’opera protetta dal diritto d’autore debba avere per legge. Tali requisiti sono elencanti nel Cap III, par. 3.1. L’articolo di opinione, invece, non è una mera elencazione, bensì, un’esposizione di fatti con terminologie e prospettive proprie del giornalista, correlate, in taluni casi, dalle opinioni di chi scrive. In essi, dunque, il giornalista racconta i fatti in modo creativo, suggerendo un’impronta personale, tali da ricondurli direttamente a se stesso, cosicché è possibile che vi siano articoli scritti da giornalisti diversi, che, seppure raccontano gli stessi fatti, non incorrono nel plagio. Gli articoli di opinione possono, dunque, essere oggetto di plagio. In conclusione, l’articolo di giornale, che ricorre nel caso giudiziario in esame, non è assimilabile ad un articolo di cronaca, così come delineato nel Cap. I, par. 1.3, e, colta questa differenza, non si può negare che l’articolo di giornale sia un’opera protetta dal diritto d’autore. Tuttavia, è bene chiarire che riconoscere come meritevoli di tutela gli articoli di giornale, nei limiti appena chiariti, non significa attribuire l’esclusiva dell’informazione al giornalista e alla testata giornalistica presso la quale costui lavora, in quanto il singolo giornalista non può essere l’unico legittimato a dare informazioni. Se così fosse, si riconoscerebbe il monopolio dell’informazione a favore della testata giornalista, che per prima ha dato la notizia, in contrasto con il principio fondamentale di libertà d’espressione, sancito nell’art. 21 della Costituzione. Sul punto si rinvia al Cap. III, par. 3.2.

Non sempre è sufficiente riconoscere fra le opere protette dal diritto d’autore gli articoli di giornale perché essi possano esser tutelati efficacemente dal diritto d’autore. Infatti, come dimostra il caso esaminato, la prospettiva assunta per l’analisi della controversia può indurre il giudice a mettere in secondo piano gli articoli rispetto il libro. Più precisamente, il giudice avrebbe potuto escludere il plagio, se, durante il confronto delle due opere letterarie, ne avesse enfatizzato il suo carattere originale e creativo, rispetto alla conformazione delle notizie di cronaca contenute nell’opera. Assumere questa prospettiva, in cui il libro diventa il termine di paragone prevalente, significa non dare la giusta rilevanza agli articoli di giornale nel giudizio di plagio. Rileverebbe unicamente che gli articoli di giornale occupino un esiguo numero di pagine del libro e, poiché rappresentano una piccola parte, si escluderebbe, a priori, che un’opera alla stregua di “Gomorra” possa essere un’opera plagiaria. Pertanto, la quantità delle pagine del libro, nelle quali sono riportati gli articoli di giornale, non ritengo sia una ragione valida per escludere il plagio. Assumere, invece, la prospettiva opposta, nella quale gli articoli di giornale diventano il primo termine di paragone, consente di rilevare il plagio, se quest’ultimi sono riprodotti nel libro con la stessa forma e la stessa struttura espositiva dei giornalisti e senza che ne venga citata la fonte. In queste disposizioni normative, la legge speciale sul diritto d’autore ammette la libera pubblicazione o comunicazione al pubblico e la libera citazione delle opere protette dal diritto d’autore, affinché, in tal modo, si permetta la diffusione delle informazioni, del sapere e della cultura. Tuttavia, tale interesse generale non deve ledere i diritti d’autore, ma deve realizzarsi nel rispetto delle norme, sancite dal legislatore. Per impedire che si violassero i diritti d’autore, si è attributo alle norme che sanciscono la libera utilizzazione dell’opera protetta il carattere eccezionale. Ciò significa che esse si applicano secondo le modalità e nei casi espressamente previsti dal legislatore e che non sono suscettibili di applicazione analogica; pertanto, non è possibile applicare queste norme a casi diversi da quelli delineati dal legislatore. Dunque, le utilizzazioni devono avvenire mediante la citazione della fonte, della data e dell’autore - le c.d. menzioni d’uso - con le quali si riconosce che “una certa opera o parte di essa è frutto del lavoro di un 91 altro autore, così da evitare di essere accusati di plagio se si attinge da un testo altrui”. Se consideriamo il caso di specie, le menzioni d’uso mancano nel libro “Gomorra”. Invece, l’art. 65 l. n. 633/1941, che ritengo applicabile al caso “Gomorra”, resta, tuttavia, inosservato nell’esecuzione dell’opera. Pertanto, sarebbe bastato riportare la fonte, perché venisse riconosciuta infondata l’accusa rivolta nei confronti di Saviano. In tal modo, l’autore, non solo sarebbe stato scagionato da ogni accusa di plagio, ma avrebbe arricchito il suo lavoro di ricerca sui fatti raccontati, avrebbe permesso ai lettori di approfondire gli avvenimenti e, allo stesso tempo, il suo libro non sarebbe stato meno interessante. Dunque, la Corte non riconosce i presupposti in virtù dei quali è ammessa dal giudice in primo grado la libera riproduzione delle notizie contenute negli articoli, in quanto esclude che le vicende narrate negli articoli di Libra siano divenute di pubblico dominio e ritiene irrilevante che Saviano abbia riprodotto gli articoli nella sua opera a distanza di tempo. L’opera diventa di pubblico dominio quando decadono i diritti di sfruttamento economico della stessa oppure quando decorre il tempo massimo di tutela stabilito dall’ordinamento, il quale solitamente scade dopo settant’anni dalla morte dell’autore, ma vi sono altri casi in cui il termine è diverso, come ad esempio per le opere collettive, nelle quali vi rientrano i giornali, le riviste, le enciclopedie, i cui diritti di sfruttamento economico dell’opera scadono dopo settant’anni dalla pubblicazione, ma i diritti del singolo autore seguono la regola generale. L’opera di pubblico dominio può liberamente essere pubblicata, riprodotta, tradotta, recitata, comunicata, diffusa, eseguita, ecc…, ma i diritti morali devono essere sempre rispettati.  I primi due gradi di giudizio Il Tribunale di Napoli respinge la domanda della parte attrice, fondando la decisione sulle seguenti ragioni di fatto e di diritto: 1) L’opera “Gomorra” non può essere considerata un “saggio” ma “neppure tutt’altro, un’opera di fantasia” ma essa deve essere ricondotta al genere “romanzo no fiction, dedicato al fenomeno camorristico, contenenti ampi riferimenti alla realtà campana”. In particolare “Gomorra” costituisce “un accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Il suo carattere creativo emerge dall’originale 16 combinazione delle vicende criminali del fenomeno camorristico, peraltro non esaminate in maniera organica, né secondo criteri, che avrebbero invece caratterizzato un’opera di genere saggistico. In esso fatti di cronaca vengono mescolati “con le vicende e le sensazioni personali dell’autore”, dal che deriva la nettissima distanza dell’opera “dalla mera cronaca giornalistica degli avvenimenti, da cui pure muove l’autore, e che trova puntuale riscontro nello stesso testo dell’opera”. Delineato, dunque, il genere letterario di appartenenza dell’opera di Saviano, il Tribunale esclude la violazione dell’art. 65 della legge sul diritto d’autore in quanto la norma richiede, perché ci sai plagio, “un ambito di riferimento omogeneo”, che non ricorre nel caso di specie, perché gli articoli di giornale sono stati utilizzati da Saviano mesi dopo la loro pubblicazione sulla testata giornalistica ed impiegati in un ambito e con uno scopo diverso: differentemente dal giornale con il quale si propone di dare informazioni contingenti, il libro di Saviano intende approfondire e riflettere sul fenomeno camorristico, trattato nel suo libro.  2) L’opera “Gomorra” non promuove la critica o la discussione sul contenuto degli articoli e ciò viene confermato dalla “scrittura tesa e volutamente poco attenta ai dettagli” dell’autore. Pertanto, il Tribunale di Napoli esclude la violazione dell’art. 70 l. n. 633/1941, che richiede “la menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore e dell'editore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”, in quanto il riferimento alla norma risulta “del tutto incongruo”. 3) L’autore ha utilizzato fonti di dominio pubblico senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica” e ciò esclude la violazione dell’art. 101 l. n. 633/1941.

IL DIRITTO D’AUTORE NELL’OPERA GIORNALISTICA. I CARATTERI DELL’OPERA PROTETTA DAL DIRITTO D’AUTORE. Sarebbe utopistico credere che qualsiasi opera possa esser protetta dal diritto d’autore; infatti, lo sono solo le opere che hanno una serie di caratteri di fondo ben fissati da parte del legislatore. Pertanto, in presenza di opere nelle quali si ravvisano determinati requisiti si applica la disciplina concernente il diritto d’autore e le tutele previste al suo autore o ad altri soggetti, diversi da quest’ultimo, lesi nei loro diritti patrimoniali e morali. Si potrebbe pensare erroneamente che la ricorrenza delle medesime caratteristiche includa nella tutela del diritto d’autore solo opere omogenee, ma in realtà si tratta di una nozione così di ampio respiro da consentire ad opere diversificate ed eterogenee di rientrare comunque nella tutela del diritto d’autore. In essa rientrano, infatti, le opere letterarie, artistiche e musicali tradizionali, le banche di dati, il software e il design. Analizzare i caratteri dell’opera protetta dal diritto d’autore, dunque, diventa importante per comprendere in quali casi l’autore gode di determinati diritti e quando può agire a tutela di essi.

L’opera dell’ingegno umano. Il primo carattere che deve ricorrere affinché l’opera sia protetta dal diritto d’autore è quello di “opera dell’ingegno umano”. Si tratta di una nozione legislativa che si ricava dagli artt. 1 e 2 della l. n. 633/1941, nei quali rispettivamente si definiscono e si classificano le opere oggetto del diritto d’autore; esse sono il frutto di una “creazione intellettuale”, che si realizza a fronte dell’attività dell’intelletto umano di ideazione ed esecuzione materiale dell’opera. Dunque il concetto di creazione intellettuale é così ampio ed elastico da consentire addirittura di comprendere opere che appartengono a campi e categorie fenomenologiche diverse, come la letteratura, la musica, le arti figurative, l’architettura, il teatro e la cinematografia, le quali, seppure si avvalgono di mezzi espressivi differenti tra loro, allo stesso tempo presentano come primo carattere di fondo l’essere un’opera derivante dall’attività dell’ingegno umano.

Il carattere rappresentativo: la forma interna e la forma esterna Un requisito che ricorre nelle opere oggetto di tutela del diritto d’autore è il carattere rappresentativo, al quale Paolo Auteri attribuisce un significato: l’opera è destinata a “rappresentare, con qualsiasi mezzo di espressione (parola scritta o orale, disegni e immagini, fisse o in movimento, suoni, ma anche il movimento del corpo e qualsiasi altro segno), fatti, conoscenze, idee, opinioni e sentimenti; e ciò essenzialmente allo scopo di comunicare con gli altri”. In parole più semplici, l’opera deve avere una forma “percepibile” e non rimanere a livello di mero pensiero; ovviamente, se così fosse, la semplice idea astratta, che non è idonea a rappresentare con organicità idee e sentimenti, non potrebbe essere oggetto di tutela. Questo carattere è sancito a livello internazionale nell’art. 9 n.2 dell’Accordo TRIPs, il quale protegge la forma espositiva con cui l’opera appare, ad es: l’insieme di parole e frasi (c.d. forma esterna); la struttura espositiva, ad es: l’organizzazione del discorso, la scelta e la sequenza degli argomenti, le prospettive adottate, ecc... (c.d. forma interna), e non il contenuto di conoscenze, informazioni, idee, fatti, teorie in quanto tali e a prescindere dal modo in cui sono scelti, esposti e coordinati. (L’Accordo TRIPs, “The Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights” (in italiano, Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale), è un trattato internazionale promosso dall'Organizzazione mondiale del commercio, al fine di fissare i requisiti e le linee guida che le leggi dei paesi aderenti devono rispettare per tutelare la proprietà intellettuale. L’art. 9 n.2 dell’Accordo TRIPs così recita: “La protezione del diritto d’autore copre le espressioni e non le idee, i procedimenti, i metodi di funzionamento o i concetti matematici in quanto tali”. 29 La distinzione tra forma esterna, forme interna e contenuto è stata elaborata sin dall’inizio del secolo scorso ad opera di un autorevole giurista tedesco, il Kohler, e viene seguita dalla dottrina e giurisprudenza prevalenti. Essa è stata fortemente criticata da più parti, tanto dalla dottrina, rappresentata da Piola Caselli in Italia e da Ulmer in Germania, che dalla parte minoritaria della giurisprudenza. Si è contestato, in breve, il fondamento teorico della tesi di Kohler e la difficoltà, se non l’impossibilità, di distinguere tali tre elementi a livello pratico. Inoltre, ci sono state pronunce di merito, come ad esempio la sentenza del Tribunale di Milano del 11 marzo 2010, dalle quali emerge che non sempre il contenuto è irrilevante ai fini del riconoscimento del plagio. Infatti, è possibile distinguere le idee diffuse nella cultura comune dalle idee innovative, che non appartengono al pensiero comune e che possono essere ricondotte ad un autore in particolare. Secondo tali pronunce giurisprudenziali, l’utilizzo del primo tipo di idee in un’opera dell’ingegno non produrrebbe plagio purché le idee vengano rielaborate in modo originale, invece l’utilizzo del secondo tipo di idee, anche se espresse in forma diversa, difficilmente escluderebbero il plagio).

Il carattere creativo: originalità e novità. Il carattere creativo è un criterio espressamente richiesto dal legislatore, negli artt. 1 l. n. 633/1941 e 2575 c.c., affinché l’opera sia protetta dal diritto d’autore. In dottrina tale carattere non è definito in termini omogenei. Su questo punto, la dottrina è divisa: una opinione predilige il criterio della c.d. “creatività oggettiva” 30 , secondo il quale è creativa “l’opera dotata di caratteristiche materiali, oggettive appunto, tali da distinguerla da tutti i lavori ad essa preesistenti” 31 ; l’altra, invece, sostiene il criterio della c.d. “creatività soggettiva”32 , secondo il quale è creativa l’opera che riflette la personalità dell’autore e il suo modo personale di rappresentare ed esprimere fatti, idee e sentimenti, tale da renderla “direttamente riconducibile al suo autore” (c.d. individuabilità rappresentativa). In merito alla creatività soggettiva, la dottrina ha individuato due profili del carattere creativo: l’originalità e la novità. L’originalità consiste nel risultato di un’elaborazione intellettuale che riveli la personalità dell’autore, indipendentemente dalle dimensioni e dalla complessità del contenuto dell’opera, il quale può anche essere modesto e semplice o appartenere al patrimonio comune. Dunque sarebbero originali tutte quelle opere che, seppure appaiano molto simili tra loro, hanno un taglio o una prospettiva che le rende “frutto di una elaborazione autonoma del loro autore”. Invece la novità si ha quando sono nuovi o inediti gli “elementi essenziali e caratterizzanti” dell’opera, senza che la novità sia assoluta o diventi creazione. Infatti nuove non sono solo le opere che si basano su un’idea che non ha precedenti, ma anche quelle che rielaborano elementi di opere preesistenti con forme o mezzi di espressione innovativi, tali da distinguerle dalle opere precedenti (c.d. novità in senso oggettivo). L’orientamento che ha riscontrato il maggior successo nelle pronunce giurisprudenziali è quello della “creatività soggettiva”.

La compiutezza espressiva. Un altro requisito posto dalla legge per la tutela dell’opera dell’ingegno è quello della c.d. “compiutezza espressiva”, definita dalla dottrina come “l’idoneità a soddisfare l’esigenza estetica, emotiva o informativa, del fruitore di un determinato evento creativo”. Così come asserito da Kevin de Sabbata, tale nozione è assolutamente opinabile e non vi è ancora una pronuncia giurisprudenziale o uno studio dottrinale, che sia pervenuta ad attribuirle un significato stabile e chiaro. Motivo per il quale si ravvisa una difficoltà di applicazione del principio, seppure risulterebbe rilevante per la risoluzione di casi giudiziari di plagio parziale.

La pubblicazione dell’opera. Diversamente da quanto si possa pensare, il diritto d’autore non protegge solo le opere già pubblicate e già immesse nel mercato ma anche quelle non pubblicate e non note al pubblico, le c.d. opere inedite. Infatti, la Suprema Corte, riprendendo gli artt. 6 l. n. 633/1941 e 2575 c.c., ha ribadito che il diritto d’autore ha origine nel momento della mera creazione dell’opera, che costituisce un atto giuridico in senso stretto, e non al seguito del conseguimento di formalità, come gli adempimenti di deposito e di registrazione dell’opera . Nel 2012 i giudici di legittimità hanno escluso definitivamente che l’opera debba costituire “una sorgente di utilità” ai fini di tutela, potendo, dunque, essere oggetto di tutela anche prima della pubblicazione.

IL DIRITTO D’AUTORE E IL DIRITTO D’INFORMAZIONE E DI CRONACA. Dato per scontato che il diritto d’autore tuteli, ai sensi dell’art.1 l. n. 644/1941 e dell’art. 2575 c.c., le opere caratterizzate da requisiti di fondo delineati nel paragrafo precedente, possiamo asserire che tali caratteri ricorrono nell’opera giornalistica e che, pertanto, anche gli articoli di giornale sono tutelati dal diritto d’autore. Estendere la disciplina del diritto d’autore all’articolo di giornale comporta, come conseguenza inevitabile, che le norme a tutela dell’autore possano incidere sull’esercizio dell’attività di comunicazione e di informazione sociale, che si promuove con l’opera giornalistica. Il diritto d’autore e il diritto d’informazione e di cronaca possono entrare addirittura in conflitto tra loro, perché, da un lato vi è l’interesse di tutelate i diritti patrimoniali e morali dell’autore con la limitazione della libera divulgazione delle opere protette e, dall’altro lato vi è l’interesse generale alla diffusione di informazioni esatte su fatti rilevanti e di interesse generale. Diventa, dunque, necessario approfondire i profili di rilevo costituzionale sui quali può incidere il diritto d’autore, quali il diritto 61 d’informazione e il diritto di cronaca, per poter comprendere come essi si conciliano tra loro. Il diritto d’informazione è un diritto fondamentale delle persone, che è compreso, assieme al diritto d’opinione e di cronaca, nella libertà di manifestazione del proprio pensiero, sancita a livello nazionale dall’art. 21 della Costituzione e a livello sovranazionale dall’art. 19 della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” e dall’art.10 co. 1, della “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” , che consiste “nella libertà di esprimere le proprie idee e di divulgarle ad un numero indeterminato di destinatari”, senza porre limiti in merito ai mezzi di espressione e in merito agli scopi, circostanze, contenuti da esprimere, ecc… Il diritto d’informazione ha una duplice profilo: quello attivo consiste nel diritto di informare e di diffondere notizie; invece, quello passivo consiste nel diritto di essere informati, sempre che l’informazione sia “qualificata e caratterizzata (…) dal pluralismo delle fonti da cui attingere conoscenze e notizie”. In conseguenza del diritto di essere informati è fatto divieto, ai sensi dell’art. 21, co. 2, Cost., di sottoporre la stampa a controlli preventivi. Nel nostro ordinamento è dunque, vietata la possibilità di sottoporre la divulgazione dell’informazione ad autorizzazioni o censure, al fine di evitare manipolazioni della notizia e compromettere il diritto della collettività a ricevere corrette informazioni. Il diritto dei cittadini ad essere informati si esercita mediante il diritto di cronaca, definito dalla giurisprudenza come “il diritto di raccontare, tramite mezzi di comunicazione di massa, accadimenti reali in considerazione dell’interesse che rivestono per la generalità dei consociati”. Dunque, l’informazione viene comunicata e diffusa per mezzo dell’esercizio del diritto di cronaca, il quale incontra una serie di limiti per evitare che l’esercizio di questo diritto possa ledere altri diritti inviolabili. Infatti l’art. 21 co. 3 Cost., sancisce il limite del rispetto del “buon costume”, generalmente inteso come il rispetto del “pudore sessuale”. Si tratta, però, di un concetto sprovvisto di una definizione normativa e, dunque, di un significato stabile, ma a ciò sopperiscono il legislatore e l’interpretazione giurisprudenziale, tenendo conto dell’evoluzione dei costumi. Ad esempio, la legge sulla stampa n. 47 del 1948, ha stabilito che é contrario al “buon costume” la pubblicazione di contenuti impressionanti e raccapriccianti, che provocano turbamento del “comune sentimento della morale o l’ordine familiare”. Tuttavia, tanto la giurisprudenza che il legislatore nelle altre brache del diritto ammettono ulteriori limiti, quando l’esercizio del diritto d’informazione, o più in generale del diritto d’espressione, potrebbe ledere altri diritti della persona costituzionalmente tutelati ed inderogabili, quali, ad esempio il diritto alla privacy o alla riservatezza, al nome, all’immagine, alla dignità della persona e ai diritti dell’autore, riconosciuti dalla legge sul diritto d’autore. A tal proposito, la giurisprudenza, a più riprese, ha individuato una serie di requisiti, che il giornalista deve rispettare per garantire un equo bilanciamento del diritto di cronaca con altri diritti inviolabili, che potenzialmente possono entrarvi in conflitto. Per quanto riguarda il bilanciamento degli interessi dell’autore alla tutela dei suoi diritti patrimoniali e morali con gli interessi della collettività alla diffusione delle informazioni e delle notizie è intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza 12 aprile 1973, n. 38, nella quale ha affermato che le norme del diritto d’autore, rapportate all’informazione giornalistica, non contrastano con i principi costituzionali perché non limitano in alcun modo la “libera estrinsecazione e manifestazione del pensiero” e non “assoggettano la stampa ad autorizzazioni o censure”, ma, piuttosto, “tutelano l'utilizzazione economica del diritto d'autore e sono dirette ad assicurare la prova e a determinare l'indisponibilità della cosa, sia per preservarla da distruzione o alterazione, sia per assicurare l'attribuzione dell'opera all'avente diritto, sia per impedire ulteriori danni derivanti da violazione del diritto di autore”. Infatti, il legislatore garantisce il diritto d’informazione e il diritto di cronaca, ammettendo la libera utilizzazione dell’opera protetta purché si seguano i fini esplicitamente delineati nell’art. 70 l. n. 633/1941 – per uso di critica o di discussione, insegnamento o ricerca scientifica – e purché tale utilizzazione non costituisca una forma di concorrenza economicamente rilevante. La ratio della norma si rinviene nelle esigenze di progresso e diffusione della cultura e delle scienze. La questione, però, non è pacifica perché, se da un lato la Corte Costituzionale afferma che la tutela del diritto d’autore non può limitare la libera manifestazione del pensiero, dall’altro, alcuni giudici di merito, di fronte al caso concreto, ritengono che il diritto di cronaca non possa incidere sull’estensione del diritto d’autore, in quanto, a tale proposito, nessun limite è previsto espressamente dalla legge. Di conseguenza, nei fatti la delimitazione reciproca dei due diritti è rimessa al prudente apprezzamento dei giudici di merito.

L’OPERA GIORNALISTICA. Sulla base degli argomenti esposti in precedenza si può, dunque affermare che anche l’opera giornalistica è tutelata dal diritto d’autore, essendo una creazione intellettuale, la quale deriva dall’esercizio del diritto d’informazione e di cronaca. Infatti, l’art. 3 l. n. 633/1941 annovera i giornali e le riviste tra le c.d. opere collettive, che sono “costituite dalla riunione di opere o di parti di opere, che hanno carattere di creazione autonoma, come risultato della scelta e del coordinamento ad un determinato fine letterario, scientifico, didattico, religioso, politico ed artistico”, ma non informativo. In effetti, l’opera giornalistica é il frutto di una molteplicità di apporti creativi di diversi autori, coordinati e selezionati dal direttore della testata giornalistica. Dunque, in tale opera si possono distinguere due distinti livelli creativi: quello dei singoli giornalisti, che contribuiscono a comporre l’opera, e quello del direttore, che provvede a progettare l’opera complessiva, a scegliere e coordinare i contributi, ad organizzare e dirigere l’attività creativa dei collaboratori. Una volta rilevata questa duplice creatività, sorge spontaneo domandarsi come il legislatore tuteli tali opere. Ciò che potrebbe risultare complesso è stato, invece, risolto con estrema facilità dal legislatore, il quale ha riconosciuto come meritevole di tutela non la creatività dei singoli giornalisti, bensì quella del direttore che, mediante l’attività di scelta, di coordinamento e di organizzazione dei contributi, realizza l’opera complessiva: l’opera giornalistica. È sulla base di questa prospettiva che ben si spiegano gli artt. 7 e 38 l. n. 633/1941. L’art. 7 l. n. 633/1941 riconosce come autore delle opere collettive “chi ha diretto e organizzato la creazione dell’opera stessa”. Pertanto, rivestendo il ruolo di autore dell’opera giornalistica, il direttore del giornale può, ex art. 41 l. n. 633/1941, “introdurre nell’articolo da riprodurre quelle modificazioni di forma che sono richieste dalla natura e dai fini del giornali”, le quali, se sono sostanziali, possono essere apportate solo con il consenso dell’autore, sempre che questi sia reperibile; altrimenti, ex art. 9 dal Contratto Nazionale di Lavoro Giornalistico (FNSI – FIEG 1 aprile 2013 – 31 marzo 2016), “l’articolo non dovrà comparire firmato nel caso in cui le modifiche siano apportate senza l’assenso del giornalista”. Normalmente gli articoli che, a giudizio del direttore, rivestono particolare importanza sono pubblicati con la firma dell’autore, invece quelli meno rilevanti possono essere riprodotti anche senza l’indicazione del nome dell’autore. Solo se non compare la firma dell’autore, il direttore della testata giornalistica non solo può modificare ed integrare l’articolo di giornale ma anche sopprimerlo e non pubblicarlo. L’art. 38 l. n. 633/1941 attribuisce il diritto di utilizzazione economica dell’opera all’editore, salvo patto contrario, senza precludere ai singoli collaboratori di utilizzare la propria opera separatamente, purché si rispettino gli accordi intercorsi fra i collaboratori e l’editore, nei quali sono precisati i limiti e le condizioni dell’utilizzazione separata dei contributi dei singoli, a salvaguardia dello sfruttamento dell’opera collettiva. Sostanzialmente l’art. 38 l. n. 633/1941 attribuisce lo sfruttamento economico dell’opera all’editore, nel rispetto dei principi fondamentali, ai sensi degli artt. 12 e ss. l. n. 633/1941, e allo stesso tempo garantisce il diritto ai giornalisti di utilizzare il proprio articolo separatamente dall’opera complessiva, senza pregiudicare il diritto di sfruttamento economico esclusivo dell’editore sull’opera collettiva. Infatti, il legislatore, nell’art. 42 l. n. 633/1941, assicura all’autore dell’articolo di giornale pubblicato in un’opera collettiva il diritto di riprodurlo in estratti separati o raccolti in volume, in altre riviste o giornali, purché “indichi l’opera collettiva dalla quale è tratto e la data di pubblicazione”. Alla regola dell’art. 38 l. n. 633/1941, il legislatore ammette una sola eccezione, fissata nel successivo art. 39, secondo la quale l’autore può riacquistare il diritto di disporre liberamente dell’opera al ricorrere di due condizioni: 1) quando il giornalista è estraneo alla redazione del giornale, non ha un accordo contrattuale con la testata giornalistica, ma ha invitato l’articolo al giornale perché venisse riprodotto in esso; 2) quando il giornalista non ha ricevuto notizia dell’accettazione entro un mese dall’invio o la riproduzione dell’articolo non è avvenuta entro sei mesi dalla notizia dell’accettazione.

LA RIPRODUZIONE E LA CITAZIONE DELL’ARTICOLO DI GIORNALE NELL’OPERA LETTERARIA. Talvolta un libro nasce dall’esigenza di voler raccontare una storia, frutto della fantasia dell’autore, basata su fatti realmente accaduti. Infatti, molto spesso leggiamo libri con riferimenti a persone esistenti o a fatti realmente accaduti. Per scrivere un libro basato su fatti già accaduti e magari notori, lo scrittore deve informarsi servendosi di giornali, riviste e altro materiale, reperibile in qualsiasi modo. Così l’autore può ricostruire gli accadimenti e assumere informazioni dettagliate, utili per il proprio libro. Questa attività di ricerca e informazione risulta di grande importanza, in quanto, solo di seguito ad essa, lo scrittore inizierà a scrivere il suo libro. Però lo scrittore deve estrarre dalle fonti le informazioni utili e rielaborarle in modo creativo. Se, invece, si limita ad un lavoro di “copia e incolla”, corre il rischio di ledere il diritto d’autore. Una volta chiarito che, gli articoli di giornale e l’opera giornalistica nel suo insieme sono tutelati dal diritto d’autore, cosa succede se ad esser riprodotto senza citazione della fonte e dell’autore in un’opera letteraria, come è accaduto nel caso di specie “Gomorra”, sia un articolo di giornale? Per rispondere al quesito è necessario esaminare il contenuto degli artt. 65, 70 e 101 l. n. 633/1941, in materia di eccezioni e limitazioni del diritto d’autore.

Gli articoli di attualità. Nell’art. 65 della legge 53 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali, quando ricorrono tre requisiti:

1) che si tratti di articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, o altri materie dello stesso genere. Sul punto la dottrina è divisa, perché, da una parte c’è chi sostiene che sia lecita la riproduzione di articoli di attualità specificamente indicati dal legislatore (a carattere politico, economico e religioso), con l’esclusione degli articoli di cronaca a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico, mentre dall’altra parte c’è chi farientrare queste ultime fattispecie di articoli tra “gli altri materiali dello stesso carattere”; (L’art. 65 della l. n. 633/1941 così recita “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l’utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichi la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell’autore, se riportato”). 

2) che siano pubblicati in riviste o in giornali;

3) che la riproduzione o l’utilizzazione non sia espressamente riservata, ovvero quando manchi l’indicazione, anche in forma abbreviata, delle parole “riproduzione riservata” o di altre espressioni dal significato analogo, all’inizio o alla fine dell’articolo, secondo quanto prevede l’art. 7 del regolamento di esecuzione della legge sul diritto d’autore, approvato con il R.D. 18 maggio 1942, n. 1369. È necessario a questo punto fare una puntualizzazione, perché potrebbe intendersi erroneamente il significato dell’espressione “libera utilizzazione”. La libera utilizzazione consiste nella riproduzione o comunicazione al pubblico dell’opera senza il consenso dell’autore, ma nel rispetto di determinati adempimenti, fissati dalla legge, come l’indicazione della fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell’autore, se riportato. Tali formalità devono essere adempiute anche nell’ipotesi, delineata dall’art. 65 co. 2 l. n. 633/1941, di riproduzione o comunicazione al pubblico di opere o materiali protetti, utilizzati in occasione di avvenimenti di attualità per fini informativi e di cronaca, fatta eccezione del caso di impossibilità di conoscere la fonte e il nome dell’autore. (“La riproduzione o comunicazione al pubblico di opere o materiali protetti utilizzati in occasione di avvenimenti di attualità è consentita ai fini dell'esercizio del diritto di cronaca e nei limiti dello scopo informativo, sempre che si indichi, salvo caso di impossibilità, la fonte, incluso il nome dell'autore, se riportato”).  La norma in esame è eccezionale e non suscettibile di applicazione analogica, ragione per la quale la libera utilizzazione non si estende alle rassegne-stampa; infatti, la riproduzione di queste ultime deve sempre essere effettuata con il consenso dei titolari dei diritti.

La libertà di citazione. Prima della legge italiana sul diritto d’autore, la libertà di citazione è stata regolata dall’art. 10 della Convenzione d’Unione di Berna, il quale riporta pressoché il contenuto fissato nell’art. 70 l. n. 633/1941. Il legislatore italiano non ha provveduto, come previsto dalla norma internazionale, a chiarire espressamente che l’opera citata debba esser stata pubblicata e che la citazione debba avere un carattere di mero esempio e supporto di una tesi e non lo scopo di illustrare l’opera citata. (L’art. 10 della Convezione di Berna così recita “Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore”. 56 La Convenzione d’Unione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche fu firmata nel 1886 a Berna e ratificata ed eseguita in Italia con la legge 20 giugno 1978, n. 399. Sul punto si rinvia al Cap I, par. 1.2.).

Infatti, nell’art. 70 della legge italiana sul diritto d’autore ( L’art. 70 l. n. 633/1941 così recita “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali”)  il legislatore italiano si è limitato a sancire il libero riassunto, la citazione o la riproduzione dell’opera e la loro comunicazione al pubblico, purché:

1) vi ricorra una finalità di critica, discussione, insegnamento o ricerca scientifica, così da garantire l’informazione e la diffusione della cultura, in quanto si permette la libera fruibilità dei concetti esposti nell’opera. La dottrina precisa che si ha “uso di critica”, quando l’utilizzazione è finalizzata ad esprimere opinioni protette dagli artt. 21 e 33 Cost.;

2) l’opera critica abbia fini autonomi e distinti da quelli dell’opera citata e non sia succedanea dell’opera o delle sue utilizzazioni derivate;

3) l’utilizzazione non sia di dimensioni tali da supplire all’acquisto dell’opera, pertanto l’utilizzazione non debba essere concorrenziale a quella posta dal titolare dei diritti e idonea a danneggiare gli interessi patrimoniali esclusivi dell’autore o del titolare di diritti; 4) siano rispettate le menzioni d’uso, quali l’indicazione del titolo dell’opera da cui è tratta la citazione o la riproduzione, il nome dell’autore e dell’editore. Dottrina e giurisprudenza concordano che anche questa disposizione normativa sia del tutto eccezionale, cosicché non può essere applicata per analogia, ma deve essere interpretata restrittivamente.

Informazioni e notizie giornalistiche. L’art. 101, infine, tutela le informazioni e le notizie giornalistiche, stabilendo che sono liberamente riproducibili altrove, purché non si ricorra ad “atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e (…) se ne citi la fonte”. In questo primo comma, il legislatore non ha definito gli atti contrari, ma ha fatto rinvio alle regole di correttezza professionale, fissate nel codice deontologico dell’attività giornalistica, lasciando al giudice il compito di decidere, in merito ai casi concreti per i quali è chiamato a giudicare, se quel comportamento è scorretto o meno. (L’art. 101 co. 1 l. n. 633/1941 sancisce che “La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l'impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte”). Tuttavia, il legislatore colma la genericità del primo comma con il secondo, nel quale specifica alcuni comportamenti che, senza alcun dubbio, costituiscono atti di concorrenza sleale: per esempio, la riproduzione o la radiodiffusione, senza autorizzazione, dei bollettini di informazioni distribuiti dalle agenzie, prima che siano trascorse sedici ore dalla diramazione del bollettino stesso a coloro che ne hanno diritto, oppure prima che l’editore autorizzato abbia pubblicato la notizia; il c.d. “parassitismo giornalistico”, che si ha nel caso in cui il giornalista scorretto effettua la riproduzione o la radiodiffusione sistematica di informazioni e notizie, attingendo da altri giornali o fonti, che svolgono un’attività giornalistica a fine di lucro. Tutte queste pratiche scorrette sono sanzionate dalla legge con l’arresto dell’attività di concorrenza, con la rimozione degli effetti dell’illecito, con la condanna al risarcimento dei danni e la pubblicazione della sentenza. (L’art. 101 co. 2 l. n. 633/1941 così recita “Sono considerati atti illeciti: a) la riproduzione o la radiodiffusione, senza autorizzazione, dei bollettini di informazioni distribuiti dalle agenzie giornalistiche o di informazioni, prima che siano trascorse sedici ore dalla diramazione del bollettino stesso e, comunque, prima della loro pubblicazione in un giornale o altro periodico che ne abbia ricevuto la facoltà da parte dell'agenzia. A tal fine, affinché le agenzie abbiano azione contro coloro che li abbiano illecitamente utilizzati, occorre che i bollettini siano muniti dell'esatta indicazione del giorno e dell'ora di diramazione; b) la riproduzione sistematica di informazioni o notizie, pubblicate o radiodiffuse, a fine di lucro, sia da parte di giornali o altri periodici, sia da parte di imprese di radiodiffusione”).

CRONACA, INDAGINE GIORNALISTICA E ANALISI SOCIALE. Quando accade un fatto di rilievo pubblico, un ruolo fondamentale è svolto dal cronista, il quale giunge presso il luogo del fatto per raccontare gli avvenimenti così come accadono, nella loro precisa successione cronologica, realizzando un’attività di testimonianza diretta o indiretta. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”). Dunque, appare evidente che, diversamente dal giornalismo tradizionale, il quale attinge le notizie da fonti ufficiali e istituzionali perché si dia informazione sui fatti, il giornalismo d’inchiesta impiega mesi e mesi per sviluppare e preparare un’indagine giornalistica in quanto approfondisce aspetti e circostanze su fatti socialmente rilevanti, così da indurre il lettore a riflettere e formare la propria opinione, seppure diversa da quella letta sul giornale. L’inchiesta, pertanto, mette in rilievo problemi sociali o vicende politiche attuali e consente di compiere un’analisi sociale. L’inchiesta e la cronaca sono tipologie giornalistiche che si distinguono da “Gomorra”, la quale è a tutti gli effetti un’opera letteraria, che racchiude diversi generi, come “il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Dunque, accanto alla cronaca giornalistica, che consiste nel narrare fatti realmente accaduti “secondo la successione cronologica, senza alcun tentativo di interpretazione o di critica degli avvenimenti”, vi è il romanzo, un componimento letterario in prosa, di ampio sviluppo, frutto della creazione fantastica dell’intelletto dell’autore; il saggio, un componimento relativamente breve, nel quale l’autore “tratta con garbo estroso e senza sistematicità argomenti vari (di letteratura, di filosofia, di costume, ecc.), rapportandoli strettamente alle proprie esperienze biografiche e intellettuali, ai propri estri umorali, alle proprie idee o al proprio gusto”; e per finire il pamphlet, definito come un “breve scritto di carattere polemico o satirico”.

Informazione online e querele: la storia del Legno storto. I pareri in rete sulle richieste di risarcimento presentate dai giudici Davigo e Palamara. Pietro Salvatori il 7 luglio 2010 su Il Post. C’è una questione di informazione libera o regolata che è stata assai dibattuta in rete in questi giorni: e riapre l’eterna discussione sulle regole della rete e sull’applicazione di legge e norme nel nuovo mondo dei contenuti online. Il Legno Storto è un sito di informazione con simpatie per il centrodestra a metà tra un blog ed un aggregatore di articoli esterni. Vi si possono leggere, tra gli ultimi, pezzi di Oscar Giannino, Mario Sechi, Luigi Amicone, Carlo Panella. Il Legno Storto è iscritto anche al network di blog vicini al centrodestra Tocqueville. Il 2 luglio due degli autori de Il legno storto pubblicano in evidenza una “Lettera da diffondere”. Vi si spiega che il blog ha scoperto da un articolo su Repubblica che è stato aperto un fascicolo dalla Procura di Roma per le minacce che avrebbe rivolto a Luca Palamara, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati. L’articolo a cui ci si riferisce, pubblicato il 28 gennaio del 2010 a firma di Bartolomeo Di Monaco, è effettivamente poco generoso nei confronti di Palamara, a cominciare dall’incipit: “Lo confesso: a vederlo e a sentirlo parlare, quel Luca Palamara, il presidente cioè dell’Anm, dà una sensazione sgradevole. Ha una espressione troppo furba per potergli credere. Dovessi stipulare un accordo con lui, mi farei assistere (avendone i mezzi, e non li ho) dai migliori specialisti internazionali. E non sarei sicuro lo stesso”. Palamara viene criticato in particolar modo per la decisione dell’Anm di uscire dalla cerimonia di apertura dell’anno giudiziario nel momento in cui i rappresentanti del governo prendevano la parola. Ma Palamara non è l’unico ad aver agito per vie legali contro Il legno storto. Tra gli altri ci sarebbero anche il sindaco di Montalto di Castro del Partito Democratico, Salvatore Carai, che ha querelato per diffamazione il blog per un articolo del 27 ottobre 2009 a firma di Sergio Bagnoli, e Piercamillo Davigo, attualmente consigliere della Corte di Cassazione, già membro negli anni ’90 del pool di Mani Pulite. Davigo chiederebbe al sito un risarcimento di 100.000 euro per diffamazione a mezzo stampa. L’articolo che lo riguarda risale al 21 giugno 2009. Lo firma Vittorio Zingales. L’argomento è Tangentopoli. L’autore sostiene senza mezzi termini che nel 1992 in Italia si è perpetrato un colpo di Stato da parte dell’”inquisizione rosso-togata”. Una rivoluzione, secondo l’autore, perpetrata da presunti “poteri forti industriali e bancari italiani ed anglo-americani”, perchè “è chiaro che un Borrelli, un Di Pietro, un Davigo, un D’Ambrosio, ecc, non possono avere nessuno spessore culturale per organizzare il golpe”. L’articolo (lunghissimo) continua sullo stesso tenore, non nominando più esplicitamente Davigo, ma ponendo sotto accusa il lavoro dell’intero pool. Il 3 luglio, il giorno successivo alla pubblicazione dell’appello su Il legno storto, ad occuparsi della vicenda è Marcello Foa, inviato de Il Giornale con un post del suo Il cuore del mondo: “La mia impressione è che le richieste dei due magistrati siano sproporzionate rispetto alle offese. Una richiesta di rettifica, anche energica, sarebbe stata più che sufficiente. Ma i magistrati hanno preferito querelare. E Il Legno Storto si trova con l’acqua alla gola”.

Lunedì 5, il caso arriva all’attenzione di Alessandro Gilioli dell’Espresso, che lo segnala nel suo seguitissimo blog Piovono Rane. “Come qui si è più volte scritto, la questione della diffamazione nei blog è abbastanza complessa: da un lato c’è l’esigenza che ognuno si assuma sempre le responsabilità di quello che scrive, dall’altro però c’è l’indubbio dato di fatto che i blog non dispongono dei mezzi economici propri degli editori, quindi basta una sola causa persa in tribunale per fargli chiudere bottega. E meno voci plurali ci sono in un paese, peggio è per tutta la società. Per questo io ritengo che chiedere mega risarcimenti in denaro ai blog come se fossero giornali sia una pessima idea”.

Non tutti i suoi lettori, a giudicare dai commenti al post, condividono il pensiero di Gilioli. Dello stesso avviso di Gilioli è invece un altro popolare blogger (e collaboratore del Post), Massimo Mantellini, che dopo poche ore riprende il post di Gilioli. Dice Mantellini, voltairianamente: “Ho letto i tre fastidiosi articoli di Legno Storto (loro li definiscono “duri”) che hanno generato le querele di Davigo, Palamara e Carai e certo non mi illudo che nessuno di costoro (che sono persone pubbliche per le quali la scala comunicativa dovrebbe avere un valore diverso da quella della signora Pina, 2° piano interno 4) decida di darmi retta. Quello che so è che se fossero persone che apprezzano (come me) la libertà di opinione che Internet ha così improvvisamente elevato quelle querele dovrebbero rimetterle”.

In serata ha chiosato Christian Rocca del Sole24Ore, dal suo Camillo: “I post incriminati, condivisibili o no, non sembrano diffamatori. Questo da quelli che straparlano di bavaglio alla libera informazione”.

Intanto Il legno storto ha rivolto un appello ai lettori più affezionati per aiutarli nel sostenere le spese legali che dovranno affrontare.

Il mondo alla rovescia dell'eclettico Luigi Amicone - Corriere.it. 19 maggio 2012. Oggi consigliere comunale di Forza Italia, ma decenni prima è stato tra i fondatori di Comunione e Liberazione e poi del settimanale d’area «Tempi», ma soprattutto attivista di tutte le battaglie perse d’Italia.

Amicone dice “basta” a Berlusconi: “I suoi guai giudiziari al primo posto”. Il direttore del settimanale ciellino "Tempi", una volta un fedelissimo di Silvio, ora gli volta le spalle: "C'è delusione e rabbia negli ambienti di Comunione e liberazione per il suo ritorno in campo. L'ex premier ha bloccato il rinnovamento del Pdl vero. Così la destra non vincerà". Il Fatto Quotidiano l'11 dicembre 2012. Anche Luigi Amicone, uno dei fedelissimi di Silvio Berlusconi, gli volta le spalle. Il direttore di Tempi, settimanale ciellino distribuito con Il Giornale di Sallusti, da sempre un pasdaran e uno dei maggiori sostenitori dell’ex premier, ora ha solo parole dure contro Berlusconi e il suo ritorno in campo. Dalle colonne del Mattino Amicone, in un’intervista, sostiene che in alcuni ambienti di Comunione e liberazione c’è “delusione e rabbia” per la piega che Silvio Berlusconi sta facendo prendere al Pdl. Il direttore spiega che “è forte la delusione comune a tanti cittadini che avevano creduto nella battaglia politica del Pdl rivolta a liberare la società dai lacciuoli della burocrazia”. Accusa Berlusconi di non pensare al bene dei cittadini, ma di voler ricandidarsi per evitare i suoi guai giudiziari: “C’è rabbia perché questo leader non si rende conto che un partito non può mettere al primo posto i suoi bisogni di tipo giudiziario”. E ancora: “Il solo nome di Berlusconi evoca prospettive nere nell’establishment internazionale” e del resto “possibilità di vittoria non ce ne sono per il centrodestra. Berlusconi ha bloccato il rinnovamento del Pdl vero, la trasformazione in Ppe italiano, nell’obiettivo di guadagnare quei cinquanta, sessanta deputati fedeli al capo e ai suoi interessi”. Meglio sarebbe stato andare avanti con Forza Italia 2.0, “liberando il partito dal suo capo carismatico”. La battaglia per ora la potrà portare avanti “di sicuro Mario Mauro”. Nel frattempo “dopo le elezioni – a fronte di qualsiasi risultato – bisognerà appoggiare chi sarà chiamato alla guida del Paese. Anche se dovesse essere Bersani, come appare molto probabile”. E sui temi etici “ci potrebbe essere una moratoria di due anni” visto che “c’è ben altro cui pensare: il pane viene prima dei temi bioetici”.

Amicone vieni via con me. Andrea Scanzi 6 Gennaio 2012 andreascanzi.it (Saturno, Il Fatto Quotidiano, numero di fine 2011 sui “piccoli sfizi gratis” da togliersi nel 2012). Che vertiginosa assenza di talento. Che folgorazione. Che uomo, Luigi Amicone. Il “Fabris” dei berlusconiani. Il droide scombinato. Il ballerino di seconda fila da chiamare quando tutti, ma proprio tutti, hanno declinato l’invito. A differenza di Fabris, mesto personaggio di Compagni di scuola, Amicone si piace: moltissimo. Anche se è un teocon che perdona il bunga bunga (gli Englaro no). Anche se annaspa quando parla. Anche se dirige un giornale all’insaputa del giornale (e dei lettori). Luigino è l’Enrico Toti senza stampella, senza gambe, senza Toti: non è. Idolo. Custodisco un sogno: essere, almeno una volta, con Lui in tivù. A La7, alla Rai, al circo. Rapito, ascolterei le sue astruse tirate ad minchiam. Per poi dirgli: “Luigino, dai, torniamo a casa. Ti accompagno io. In camera ci sono i Lego ad aspettarti. C’è persino Big Jim vestito da Baget Bozzo. Vieni via, per il tuo bene. Smettila di far sghignazzare il mondo”. Un impegno concreto per il 2012: salvare il soldatino Amycon. (Saturno, Il Fatto Quotidiano, numero di fine 2011 sui “piccoli sfizi gratis” da togliersi nel 2012)

Luigi Amicone, uno di noi. Il Criminoso di Andrea Scanzi andreascanzi.it 20 luglio 2009 scanzi-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it. Durante questa settimana non è successo molto. Dario Franceschini si è accorto che esiste il conflitto di interessi, Debora Serracchiani si è accorta di essere la Serracchiani e Antonio Socci si è frantumato l’ulna con un piccone (per sentirsi più vicino a Papa Ratzinger). A parte questo, la mia vita è stata illuminata da Luigi Amicone. Quanto tempo ho sprecato. Per anni – me tapino – ho creduto di dovermi ispirare a Indro Montanelli, a Enzo Biagi, a Pio Pompa. Che stupido. Adesso so dove conduce il mio cammino: alla redazione di Tempi. Frequentando – mio malgrado – persone come voi, giustizialiste e manichee, sovversive e illiberali, null’altro che grumosi insufflatori di verità liberticide, non conoscevo Luigi Amicone. Per colmare tale assenza, decisamente imperdonabile, ho mandato una mia controfigura qualche giorno fa a La7. Sapevo che, in studio, ci sarebbe stato anche lui. Intendevo conoscerlo, toccarlo con mano. Luigi Amicone, la mia Madonna di Medjugorie; il mio Zeus del giornalismo; il mio Big Jim del Nuovo Testamento. Ora tutto mi è chiaro: la Luce risiede in me. Ho il terzo occhio e pure la quarta gonade. Amicone è per me come la Forza per Luke Skywalker. Sarà il mio Vessillo contro il comunismo, il baluardo ultimo in difesa dei valori cristiani: la muraglia cinese eretta a salvezza delle anime. Chi è Luigi Amicone, chiederanno alcuni di voi, colpevolmente saturi di criminosità. La vostra ignoranza mi offende, ma è giusto che perfino voi sappiate. Anzitutto andate qui: Amicone si illumina di immenso, punendo come una locusta biblica gli afflati fastidiosamente manettari di Marco Lillo (un anonimo portaborse di Magistratura Democratica). Ve ne innamorerete. Chi è Luigi Amicone, dicevamo. E’ molto semplice. Luigi Amicone è il nuovo volto del centrodestra. E’ garbato, misurato, accomodante. E’ bello. E’ buono, è bravo. Luigi Amicone è un refuso di Gianni Baget Bozzo. Furoreggia a Telelombardia, compare a La7. Nella vita di tutti i giorni, oltre a giocare all’Inquisitore Immaginario con Giuliano Ferrara, è direttore di Tempi. A questo punto potreste domandarmi cosa sia Tempi. Risposta: boh. Non lo ha mai letto nessuno. Credo sia un settimanale cattolico, involontariamente comico. Una sorta di manifesto dei cristianisti scritto sotto i fumi di Khomeini. Titolo-tipo: “God Save Silvio”. Una rivista sobria, ecco. Ogni tanto la vendono allegata al Giornale: due miserie in un corpo solo (cit). Luigi Amicone è un opinion maker abbacinante. La sua biografia ammalia. A 14 anni si iscrisse ad Avanguardia Operaia. Lì toccò con mano “la violenza dell’utopia, fu per me il segnale che qualcosa non funzionava”. Il suo maestro è Pier Paolo Pasolini, a cui somiglia come Hugo Maradona al fratello. A La7 mi ha rapito con tre asserzioni:

1 – Il Pd deve rimpiangere la Bicamerale

2 – Grillo e Travaglio sono birichini

3 – No ai “bastoni metaforici”.

Parole colme di saggezza. Ascoltandolo ho maledetto tutti questi anni. Li ho buttati via, pigramente criogenizzato in un loft di Nicola Latorre, cresciuto con la chimera massimalista secondo cui l’erede di Che Guevara fosse Cesare Salvi. Quanto tempo ho perduto. Ho analizzato, con approccio idolatrante, il Verbo di Luigi Amicone. L’ho fatto mio. E intendo condividerlo con voi (anche se non lo meritereste). Studiatelo a scuola, vestitevi come lui, pensate come lui. Siate amiconi di voi stessi. Sia fatta la sua volontà. Succede i problemi (cit). “Quando io scelgo di fare il sacerdote, so che la Chiesa prevede una certa cosa. Cosa prevede? (Amicone ha questa mania di farsi le domande da solo: lo fa sentire meno solo). La Chiesa prevede semplicemente che uno ehhhhh ohhh (ogni tanto si incarta, lo vedremo) uno che decide di entrar.. di farsi prete deve essere ca-pa-ce (scandito) di amare una donna, di poter avere dei figli da una donna e di ess… e di essere in grado di essereeeee eeeehhh di avere (???) una paternità. Cioè prevede che sia un UOMO (urlato) affettivamente maturo (???). La Chiesa ritiene contrariamente al pensiero oggi dominante di cult… diffuso dalla cultura gay (che secondo Amicone è dominante)… ritiene (sì, l’hai già detto) che non è una maturazione affettiva piena perché ritiene che la realtà dei fatti – e io sono abbastanza la condivido anzi in pieno (parole sparse in un tappeto random, tipo Dj Molella) – è che ci siano due sessi, maschile e femminile (ah sì? Geniale, Amicone: je t’aime) e che la differenza SESSUALE (scandito) è fondamentale per una realizzazione piena della persona. Allora l’omosessuale non è che deve essere ahh uhm gghh l’uomo di serie B trattato male (no, scherzi?) come effettivamente non mi pare che ci sia un problema di persecuzione di omosessuali, casomai mi pare che io eterosessuale mi sento un po’…. (mi sto perdendo) col complesso perché ehhhhhh (eh cosa?) in effetti la società è più diciamo più tendente al gay (certo: la Dittatura di Platinette) i dubbi sono più…. No, come non sto dicendo (sì, mi sto perdendo)… Io mi sento però come cultura dominante (qui muove le dita con fare amletico) cioè fa più trend… insomma, questo basta ricn…. (certo, come darti torto: “questo basta ricn”. Parole come pietre). La Chiesa dice semplic-mc-mc-ente (Effetto Eco) secondo la visione ghmgh (gorgheggio ruleZ) la realtà uman pienamen è quindi (contrazioni come se piovesse) un uomo che si fa prete non è che deve rinunciare effettivamente a qualche cosa, nel senso non che va a farsi prete perché non sa cosa far…cioè…lui con le donne non… o ha altre tendenze vuole nascondere…no…. Perché così cosa succede? (eddai con le domande autorivolte: si sente proprio solo) Succede i problemi (SUCCEDE I PROBLEMI) perché un problema nascosto all’inizio… non presentato, non vissuto apertamente… poi, poi (e poi, e poi, e poi sarà come morire) poi diventa il Problema all’interno”. E quando il Problema diventa all’interno, è la fine. Si sa. Bastoni metaforici. “Cos’è l’alternativa (al Pd) che viene dai Grillo ai Travaglio? Io ho sentito anche ieri Grillo dire a Telelombardia (qui indossa lo sguardo schifato) che Fassino non è nessuno, è tutta gente morta, sono peggio di Berlusconi… Cosa sono? A me la sensazione è appunto (???) questa pretesa un po’ fanatica un po’ brutta perché si vede anche in questi volti (???) di gente che pensa di rappresentare il nuovo in assoluto e di portare quella pu… (”pu” cosa? Puleggia? Pulici? Pulicinella?) A me ricorda gente del Ventennio dello scorso secolo, gente che ha una presunzione smisurata e che così cancella, con tutti i limiti che puòòòòòaaaaveravuto (gli è saltata la funzione “space”, perdonatelo) una storia comunque di persone come Fassino D’Alema certamente con tutti i limiti ma insomma non stiamo qui a ripeterli (no no, figurati) sono un giornalista conservatore diciamo così (diciamo così). Maaaaa (qui sale di tono e stringe acutamente l’occhio) questa presunzione, questa arroganza, questo bastone metaforico (uh) che porta come alternativa le manette per tutti o i magistrati come politici ah oh io ho PAURA (scandito) fa paura questa gente, chiusa la parentesi (che non aveva mai aperto)”.

Eluana. “Napolitano collabora attivamente all’eutanasia di Eluana”. Lo ha detto lui. Qui non mi viene da ridere e glisso, ma rimando tutti a questo filmato, dove Amicone impiega tre minuti – è prooooooolisssssoooooo – per impacchettare il solito anatema da ultrà teo-con talebano.

Berlusconi è Dio. “Il moralismo va sempre a finire in politica un po’ bassa politica (l’aveva già detto, “politica”: ancora Effetto Eco, forse parla da dentro le trombe di Eustachio di Marizio Lupi, da qui il rimbombo). Certo si può discutere il criterio delle scelte dei cand delle cand dei candidati che poi in realtà appunto uuuuuuuhhhh eeeh è stata una polm pol… polemica suuuuu (ahia, è andato in loop il neurone) su personaggi che eran stati indicati dalla stampa però ufficialmente mai indicati dal Premier. Eeeeeeeeeeeeeeh (addio, lo abbiamo perso) in realtà (fiuuuuu, per fortuna c’è ancora) Berlusconi ha fatto una rivo… sta vincendo una rivoluzione anche sul piano antropologico. Non dico che in questo dimostra il meglio dell’umanità del mondo (no, quello è Fede) però di fatto sta imponendo alla realtà italiana la la la (sta cantando? La la la la la la la, “She’s got a look She’s got a look na na na na na na na…”) come dire (eh, se non lo sai te) il carattere di un Monarca un principe di un Signore (Dio, insomma) della della della (quanto tartaglia questo qua?) società italiana che come dire (e stai zitto se non lo sai dire, no?) fa fuori tutto un modo anche di pensare di di di di (un altro motivetto degli anni Ottanta? Di di di di di di) fare politica società eccetera eccetera eccetera che è stato tradizionale per tanti decenni”. Niente, non ce la faccio: io questo qua non lo capisco.

Fanculo Gramsci (stesso video, ma dal minuto 2:20). “E’ di tutti i giorni che tutto ruoti intorno a Berlusconi (cominciamo bene, vai). Il politico, il dibattito sociale, il costume… ehhhhehhh è un fatto assolutamente straordinario no? (No). Tempo fa anni addietro parlavamo di egemonia gramsciana (qui ride: ahahahahahah), di politica fondata da ghh sulla base degli intellettuali (ma COME parli, come parliiiiiii? Le parole sono importantiiiiiiii, cit). Oggi tutto questo viene spazzato via devo dire e non credo che sia del tutto negativo (no no, anzi: passare da Antonio Gramsci a Barbara Matera è elettrizzante; la prossima mossa sarà sostituire Socrate con Mengacci). Occorreva questa rivoluzione, perché dopo tanti anni di noia, di palude, di chiacchiere eccetera (anche “eccetera” lo dice ottanta volte a intervento), si dimostra che un uomo da solo è capace di fare politica società costume antropologia più di tutti i nostri intellettuali e di tutta la cultura che in tanti anni si è sedimentata. Anche qui, eh: chapeau. Eh eh eh”. Eh eh eh.

Amicone non lasciarci. “Ma io devo vivere (non è obbligatorio) in un paese dove telefonare dove cough telefonare anche a un politico diventa il problema cioè in un paese (noooooo, un’altra parentesi noooo) dove c’è un controllo orwelliano (lui ha letto Orwell, voi al massimo avete guardato il Grande Fratello: pezzenti) dopo mezz’ora ho mandato un fax dicendo mi scuso (ma che dice?) e… credo che comunque sia la ssshhh responsabilità eccetera eccetera (mi mancava) io in un paese così sottoposto a un controllo di polizia sistematico non ci voglio vivere”. Non sia mai: il popolo italiano, già spossato dalla scomparsa del Bagaglino, non sopravviverebbe a un’altra assenza di cotanto rilievo.

Concludendo (le Dieci Tavole di Amicone Nostro). 1) Berlusconi è Dio. 2) Meglio un festino oggi che un omosessuale domani. 3) Il cristianesimo è un dogma liquido, occorre essere integralisti (eutanasia) e tolleranti (orge) a seconda della bisogna. 4) Quando non sai cosa dire, apri una parentesi e ripeti “eccetera eccetera”: qualcosa nascerà. 5) Quando ero piccolo, gli intellettuali di sinistra mi scherzavano (e ora mi vendico). 6) Il Pd è perfetto così. 7) Travaglio ce l’ha piccolo. 8)  Ghm umgh cough sssshhh. 9) Grillo mi ricorda Mussolini, Di Pietro sembra Hitler (e Don Backy ha un che di Mengele). 10) No ai bastoni metaforici: sì alle verghe erette di Villa Certosa.

E ora scusate, vado su Facebook a chiedere l’amicizia a Luigi Amicone.

Quel gran genio del mio Amicone. Il Criminoso di Andrea Scanzi andreascanzi.it 22 ottobre 2010 scanzi-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it. Ero lì, che mi inebriavo di cedrata guatemalteca. Aiutato dagli effluvi erbaceo-etilici, immaginavo Rosario Dawson che ballava sul mio petto Dance little sister, di Terence Trent D’Arby (Daaaance little sister, Don’t give up today, Hang on till Tomorrow, I don’t wanna hear you’re laaaaaate). Era una cosa bella. Pura. Casta. Oddio, proprio casta no. Comunque era una cosa bella. Poi, di colpo, in tivù è apparso un mattatore coi pantaloni fucsia e la pettinatura dei Playmobil sotto pressa idraulica. Ho provato a resistere, a non deconcentrarmi, a stare sul pezzo. Niente. L’uomo coi pantaloni viola aveva vinto. Luigi Amicone si era imposto su Rosario Dawson.

Per mille scalpi (cit). Il pasdaran teocon del nulla. Quanto mi era mancato, Luigi Amicone. Quel suo adorabile ammantare di gravità pensosa ogni afflato impalpabile. Dei droidi berlusconiani, è quello (apparentemente) più annacquato. Non ha la balbuzie livida di Bondi, non ha l’autismo concettuale di Lupi, non ha la frustrazione carnivora di Capezzone, non ha la vacuità becera di Gasparri e neanche la volgarità guerreggiante di La Russa. Amicone, di tutto questo, non ha niente. Più esattamente, non ha niente. E basta. Dirige una pubblicazione che compra solo lui, non ha lettori, non ha storia. In virtù di questo saturo background, spopola su La7, il cui palinsesto ha un debole per gli uomini senza un why e un because - da qui l’assidua presenza sua e di Stracquadanio. La tecnica di Amicone è sempre la stessa: riverberare il più prono e sussiegoso berlusconismo, foderandolo però di un vago bon ton. Di una affettata educazione di fondo (notate: in due righe, ho usato “prono”, “sussiegoso”, “foderandolo” e “affettata”. Vi è smargiassa ostentazione di scibile, ne convengo). I suoi contenuti non sono meno democraticamente raggelanti di Mavalà Ghedini, però lui li pronuncia quasi dispiacendosi. Quasi dissociandosi da se stesso (intento lodevole, peraltro). Ogni volta che Amicone parla, è come se dicesse: guardate, io questa cosa ve la dico, però mica sono tanto convinto. E’ che devo dirla. E basta. Se ci pensate, Amicone mette un po’ tenerezza. Uomo di destra non per scelta, ma perché quelli di sinistra non se lo sono mai filato e allora lui – per dispetto – è andato a vivacizzare epici brainstorming con Marcellus Veneziani, Jerry Calà e Smila, il simpa-Luigi è un pasdaran teocon dell’ovvio: l’idea che una parrucchiera ha dei giornalisti (semi cit).  Pantaloni fucsia e fonemi allo stato brado. Incapace di uscire dalla sinossi precedentemente concordata con chi di dovere, munito al massimo di sei o sette discorsi precotti (i temi: giustizialismo e derivati), tradisce una tenera insicurezza non appena un conduttore (qualsiasi conduttore) gli pone una domanda. Lo vedi, allora, arrampicarsi sugli specchi di una conoscenza fraintesa: annaspa, gesticola, si chiude per interminabili secondi in un silenzio più sconfortato che rancoroso. Ridestatosi dal proprio torpore cerebrale, prorompe tenue in un livido balbettio, tartagliando frasi a caso. Fino all’eclisse, che saluta con un moto di giubilo percettibile. Convinto di esserne uscito vincente. Come quando giocava a chi ricordava più rime del VII canto del Purgatorio con Gianni Baget Bozzo. L’altra sera – quella mentre Rosario Dawson ballava Dance Little Sister – l’ho visto all’Infedele. Gad Lerner lo invita spesso, immagino per sadismo. C’era anche Marco Travaglio. Quel forcaiolo pippone del Trava. Amicone è fissato con lui. Lo cita di continua. Probabilmente vorrebbe essere Travaglio. O più semplicemente vorrebbe essere chiunque altro. Tranne Amicone. Riporto qui una compita esegesi di alcuni suoi interventi, rimandando al reperto video, laddove Amicone sfodera fieri pantaloni fucsia rubati dal guardaroba dismesso di Leopoldo Mastelloni, accavallando le gambe quasi come Eleonora Duse dopo il colpo della strega. Amicone vive, redime, blasta (giovanilismo), glorifica, vivifica, signoreggia e soprattutto soverchia. “In ggghm anni (cominciamo bene) hanno saputo ripetere (parla dei giustizialisti), non so (appunto), indignazione, insorgere, hanno come dire hanno (certo: hanno) giocato tutta la lingua (?) in una battaglia che in fondo è una battaglia giudiziaria, che avrà tutta la sua ricchezza del giornale Il Fatto (Madre misericordiosa, come parla male), nel senso che tutti i giorni (certo, è un quotidiano: e comunque il lunedì non esce) si aggiorna di nuovi elementi dal punto di vista giudiziario (non è una cosa empia, eh: si chiama giornalismo d’inchiesta) eee ma gggheeeeee (lui intercala così, al posto delle virgole simula emboli) è una dimensione povera (con le mani – sbucci le cipolle, cit – mima doviziosamente un vaso dell’Ottocento) o comunque pppparziale della realtà. Il popolo non può vivere nel sogno che si realizzi laaaaa-aaaaa (aaaaaaaa) nemesi laaaaaa-aaaaa (aaaaaa) rivoluzione (MA COSA DICE?) … è una parte (di che?) quindi (quindi niente) la visione di di di (Dee Dee Bridgewater, certo) del mondo è stata ristretta (anche la tua chiarezza non è larghissima, a dire il vero)”. In un minuto di sermone pre-stampato, è riuscito a non dire NULLA. Ma lui alla fine è contento. Sorride, libero.

Che ometto tenero. Il silenzio del simpa-Luigi. Lerner però lo incalza, osando fare domande intelligenti. Ad esempio sulla disparità di reddito tra ricchi e poveri, qui non intesi come band musicale. “Ma tu (tu “povero”, intende) non puoi vivere sull’invidia dei ricchi come poteva essere nella società… non puoi… come dire (eh, se non lo sai tu qui butta male Luigi, io te lo dico) eeehhh ahhhh (intercalare amiconiano) una vecchia lotta di classe che non c’è più (che non c’è più lo dici tu) perché oggi invece il tema dell’informazione individuale (comincia a scuotersi violentemente, come se colpito dal 220) e della libertà, dell’aff (??) della creatività (cioè del come diventare Berlusconi) è un elemento che capisce anche l’artigiano che dice ggggh (e quando un artigiano dice ggggh, poi non ci sono cazzi)”. Ora fate attenzione: Lerner gli fa notare come ormai la gente non solo non invidi il ricco, ma applauda pure se il potente (Berlusconi, nello specifico) ostenta le sue venti ville, siano esse ad Arcore o Antigua. Guardate Amicone, guardatelo bene: non sa rispondere. Si nasconde, muto come un film di inizio secolo scorso venuto male. Lerner fa tre pause, gli dà il tempo di formulare qualcosa di sensato: niente. Amicone è esanime. Assente ingiustificato. Guarda in basso, sconfitto. Sorride imbarazzato. E fa scena muta.

Il dramma di un uomo. Poi il simpa-Luigi accenna un vago ridestarsi, nel GELO dello studio. Ma ormai è solo l’ombra di se stesso (che già fa poca luce di suo). Ascoltiamolo: “Ma certamente (bell’inizio) perché io sono sono (effetto eco) convinto d’altra parte che uno del deee deee del (qui imita Stefano di X Factor 4) delle ragioni del successo eeeeh ahhhhhh (intercalare amiconiano) di di di (sempre Dee Dee Bridgewater) Berlusconi in questi anni è stato il fatto del la la la la cccggh (fonemi allo stato brado) la presenza di una cospicua aaaaahhhhhh (aaaahhhhh) parte della politica la più importante (ma COSA dici, cribbio?) che gli ha fatto la guerra per somma (per cosa? “Per somma”? E che guerra è? La battaglia degli addendi?) Cioè l’esistenza del Fatto Quotidiano è una delle ragioni del successo di Berlusconi, paradossalmente (ci ha messo mezzora per dire l’ennesima volta che gli antiberlusconiani fanno il gioco di Berlusconi: c’era arrivato persino Veltroni)”. A questo punto parla Marco Travaglio, che fa scempio e strali del simpa-Luigi, a cui va la mia totale solidarietà perché vive lo stesso dramma Leonardo Manera: gli hanno detto di fare un mestiere che non è il suo. A metà strada tra Telepinolo e Antenna Lessa. Io però voglio insegnarvi ad amare Luigi Amicone, perché lo merita. Io lo conosco, beviamo cedrata guatemalteca insieme: è un bravo ragazzo. Veramente. E per dimostrarvelo, vi mostro questo secondo reperto video. E’ uno straordinario materiale d’archivio. Un messaggio auto promozionale in cui Amicone deve (dovrebbe) incensare la sua rivista, Tempi. L’idea è quella di fare il verso a Passaparola, lo spazio web (e ormai non solo web) di Travaglio. Il risultato è a metà strada tra Telepinolo e Antenna Lessa. Siamo nell’aprile di due anni fa. Guardate. A prima vista, si nota la tristezza pentecostale dell’arredamento, al cui confronto la grafica del Commodore 64 era futurista e il mobilio dell’Ikea assurge a trionfo smodato del lusso. L’audio è pure peggio. C’è un fastidiosissimo sibilo, reperibile solo nei bootleg unplugged di Claudio Rocchi a Magliano Sabina. Amicone, alla sinistra dello schermo (lo specifico perché potreste scambiarlo col desktop sulla destra, invero più espressivo e guizzante), racconta – con l’entusiasmo contagioso di chi subisce una detartrasi da Mengele – la storia di Tempi. E fa bene a raccontarla, perché non la conosce nessuno. “Sono tredici anni che Tempi èèèèè un laboratorio in corso d’opera (perifrasi per dire: Non vendiamo una mazza, ma lo facciamo apposta, noi siamo sperimentali) un giornaaaale e adesso e adesso (e ci seeeeeei, adessso tu, a dire un senso ai giorni miei, va tutto bene dal momento che ci seeeeeiiiii) come vedeteeee siamo anche in Internet (è il 2008 e tutti sono su – non “in” – Internet da decenni, ma lui lo afferma come se fosse il Pioniere del web) non solo col giornale che esce in edicola tutte le settimane il giovedì con Il Giornale (che culo: due miserie in un corpo solo, cit) ma anche con servizi nuovi eeeeeh (eeeeeh) cose curiose (“cose curiose”: neanche Mara Venier parlando con la Bianchetti profferirebbe un tale assurto) e insomma tutta una serie di cose che inventeranno (parola pertinente, ma involontaria) gli amici della redazione”. Già questo incipit basterebbe per non comprare mai Tempi. Neanche per disgrazia. Ma Amicone va avanti. E fa sognare. Ascoltate bene, perché qui è bellissimo. Quali sono i pregi di Tempi? Quali le caratteristiche? Il simpa-Luigi ce le racconta. Daje. “Intanto, questa settimana, sappiate (mi raccomando: s-a-p-p-i-a-t-e) che giovedì troverete (troverete?), oltre che le anticipazioni che avete già visto nel sito, troverete (troverete?) sul giornale…. La copertina, ovviamente”. Avete letto bene: sul giornale troverete la copertina. Non è una mia interpolazione (?). E non è neanche una battuta autoironica (Amicone non fa battute: la comicità è sempre di sinistra e non piace a Madre Chiesa, a meno che non contempli bestemmie contestualizzate). L’ha detto davvero e sul serio: sul giornale troverete la copertina. Pensate che idea geniale. Un giornale con la copertina. Chi mai poteva pensarci? Soltanto quel gran genio del mio Amicone. Lui saprebbe cosa fare, con un cacciavite in mano fa miracoli (e coi pantaloni fucsia è anche meglio). Un giornale con la copertina. Che spettacolo. Sarebbe come se uno, per promuovere un disco, dicesse: dentro ci troverete le canzoni. Oppure: dentro il film ci troverete le immagini. O ancora: dentro Amicone ci troverete delle idee. Ma anche no.

LUIGI AMICONE SI SCUSI CON NUZZI E FITTIPALDI. PUO’ CAPITARE DI ESPRIMERSI MALE. Corrado Giustiniani 08/12/2015 su Alganews.it. Luigi Amicone sarà pure direttore di Tempi (testata che sinceramente non conosco) ma credo che di inchieste giornalistiche, in vita sua, ne abbia fatte ben poche. Ieri, su La7, si è permesso di ridicolizzare i libri di Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi definendoli “non frutto di un lavoro d’inchiesta, ma di uno svuotamento di banca dati”. E non bisogna avere forse contatti eccellenti e credibilità professionale, per arrivare a chi ti fornisce questi dati? E una volta ottenuti, non bisogna forse trovare collegamenti e riscontri? Nella seconda metà degli anni ’90, sul Messaggero, mi occupai intensamente di evasione fiscale e riuscii a trovare la notizia dell’infedeltà tributaria di Luciano Pavarotti. Chiaro che qualcuno da dentro mi passò il dato. Non potevo mica fare irruzione nel ministero delle Finanze (l’Agenzia delle Entrate non c’era ancora) aprendo cassetti e scartabellando archivi. Telefonai alla moglie di allora del famoso tenore e riuscii a capire che la notizia era vera. Con una certa dose di rischio, pubblicai il dato. E’ sempre così per chi trova una notizia: c’è sempre una fonte interna interessata a fornirtela, ma la dà a te perché si fida, perché ti sei conquistato una credibilità, perché ci stai lavorando sopra. E tu devi cercare di verificarla. Fai una cosa, Luigi Amicone: telefona a Nuzzi e Fittipaldi, e chiedi scusa. Ti eri espresso male, alle volte capita.

Rissa con Amicone: "I soldi li do in beneficenza, non come Comunione e Fatturazione". A L'Infedele di Lerner si parla del libro sul Vaticano "Sua Santità". Il ciellino Amicone attacca: "Solo marketing". E l'inviato di Libero lo punge. Libero Quotidiano il 22 Maggio 2012. E' proprio il caso di dirlo, per il mondo cattolico Gianluigi Nuzzi è L'Infedele. Ospite del programma del lunedì di Gad Lerner su La7, l'inviato di Libero è protagonista di un durissimo faccia a faccia con Luigi Amicone, direttore del settimanale Tempi e ciellino di ferro. Si parla di Sua santità, l'ultimo libro di Nuzzi sui misteri e i lati oscuri del Vaticano. Le lettere segretessime indirizzate a Papa Benedetto XVI, ora pubblicate nero su bianco, non vanno giù ad Amicone che paragona Nuzzi a Julian Assange, l'uomo nero di Wikileaks. "Così si mette a rischio un'istituzione - è l'accusa del direttore di Tempi -. C'è solo un buon motivo per fare libri come il tuo, ed è commerciale". Nuzzi non ci sta e contrattacca: "Forse non lo sai ma come per Vaticano Spa (il precedente besteseller del giornalista, ndr) il 50% delle vendite andrà in beneficenza. Io non faccio come Comunione e Fatturazione...", stilettata alle vicende di Comunione e Liberazione e del governatore della Lombardia Roberto Formigoni, caro ad Amicone. Lerner dà spazio anche ad un'intervista all'ex direttore de L'Avvenire Dino Boffo, tirato in ballo dalle lettere del Vaticano per il caso della misteriosa velina ripresa da Vittorio Feltri sul Giornale che ne provocò la defenestrazione. Evidentemente turbato, Boffo ha riferito di un sms di fuoco a Nuzzi una volta saputo della pubblicazione delle sue lettere: "Per soldi uccideresti anche tua madre". "So bene di aver aperto una ferita con il sale - ha risposto in studio l'inviato di Libero - e provo dolore io per primo. Ma se non avessi pubblicato quei documenti mi avrebbero accusato di tenerli in serbo a fini ricattatori".

Luigi Amicone, il consigliere di Berlusconi. Marianna Venturini il 23 Agosto 2013 su lettera43.it. Non una parola dopo la sentenza di condanna della Cassazione del primo agosto. Silvio Berlusconi ha scelto una forma di mutismo impenetrabile, se si escludono i messaggi fatti filtrare via Facebook e l’intercessione dei fedelissimi. IL CAV SCEGLIE L’HOUSE ORGAN DI CL. Per raccontare il suo stato d’animo, il Cavaliere ha scelto Luigi Amicone e il settimanale ciellino Tempi, non uno dei quotidiani a lui più vicini. L’intervista ha anticipato gli umori dell’ex premier e la sua percezione di quello che considera «l’epilogo di quella guerra dei 20 anni». In un momento di distanza tra Comunione e liberazione e il Pdl, qualcuno ha trovato alquanto bizzarro che l’ex premier abbia scelto proprio quella rivista per confidarsi, potendo contare su corazzate come Il Giornale, Panorama o Canale5. Ma a fargli da garante ci ha pensato il direttore e fondatore del settimanale, con cui l’ex premier in passato ha avuto un rapporto privilegiato.

Sei figli, 57 anni e un passato nella redazione de Il Sabato, Amicone è abbastanza stimato dalle parti di Arcore da essere diventato in breve tempo un confidente privilegiato dell’ex premier. Del resto il giornalista è un ciellino sui generis. Di stretta osservanza giussaniana, non perde occasione per ribadire la sua vena anarchica, forse in ricordo del breve passaggio per Avanguardia Operaia quando aveva 15 anni. «A volte Luigi è una scheggia impazzita», è il commento ricorrente nel giro dei ciellini lombardi, spesso critici nei suoi confronti.

TEMPI, UNA PARTENZA IN SORDINA. Al momento della fondazione nel 1994, Tempi era considerato un settimanale mezzo clandestino perché si poteva trovare solo in alcune edicole di Milano oppure in abbonamento. Da lettura di nicchia, pian piano si è diffuso senza diventare mai un fenomeno di massa. A un certo punto era venduto in abbinamento a Il Giornale fino allo sdoganamento completo nel 2009, quando è stata decisa la sua diffusione capillare in tutta Italia. Negli anni Amicone ha fatto scrivere su Tempi chiunque. Perfino Antonio Socci nel periodo di oblio. E ancora oggi si permette provocazioni come l’azzardato parallelo tra Berlusconi e Che Guevara. LA NICCHIA CON UNA VENA POP. A differenza di Tracce, il mensile di Comunione e liberazione più ortodosso, Tempi è un giornale che lascia largo spazio all’attualità, meno pregno di religiosità. «Ma soprattutto è più leggibile», sottolinea qualcuno. Il risultato è un prodotto un po’ corsaro che strizza l’occhio alle campagne sul sovraffollamento delle carceri di Marco Pannella, sostiene l’amnistia e raccoglie le firme contro la legge sull’omofobia. Sempre su Tempi ha trovato poi grande spazio la vicenda di Antonio Simone, ex assessore regionale tra i fondatori del settimanale che è finito in carcere sei mesi per le mazzette sulla Sanità in Lombardia. Ma tanto vigore politico per Amicone non si è ancora trasformato in un impegno diretto. Solo una volta il direttore decise di candidarsi. Ed era stato nel pieno della campagna di Giuliano Ferrara contro l’aborto che lo aveva coinvolto in prima persona.

IL SOSTEGNO ALLA LISTA DI FERRARA. In quell’occasione erano dovuti intervenire i vertici di Cl per fermare quella che sembrava ormai cosa fatta e pregarlo di non esporsi. Così si era fatto da parte, ma aveva comunque chiesto alla sorella di essere inserita in lista perché ci fosse il loro cognome ben visibile. Limitandosi a sostenere la lista Aborto, no grazie dalle pagine del suo giornale. A farlo desistere, contribuì anche il legame con l’allora governatore della Lombardia, Roberto Formigoni. Quello con il Celeste, del resto, è un rapporto profondo. Chi conosce Amicone spiega infatti che il giornalista «argomenta bene qualsiasi tesi» ma «quella a cui di solito è più affezionato è la difesa di Formigoni, sempre e comunque». A questo rapporto di amicizia col tempo si è affiancato anche quello con il Cavaliere. Il che ha fatto virare la linea editoriale del giornale verso il centrodestra.

LA PARENTESI FILO-MONTIANA. Un’amicizia che ha avuto anche momenti bui. Nel dicembre 2012, infatti, Amicone si era fatto portavoce del malessere di tanti che avevano creduto nel Pdl e che erano stati profondamente delusi dalla scelta di togliere la fiducia al governo Monti. «Questo leader», disse il giornalista riferendosi all’ex premier, «non si rende conto che un partito non può mettere al primo posto i suoi bisogni di tipo giudiziario». Sembrava la pietra tombale sul rapporto di amicizia, una presa di posizione a favore del fuoriuscito montiano Mario Mauro. Invece è bastato poco per invertire la tendenza. E mettere a segno sul suo settimanale un’altra intervista esclusiva.

Il finanziatore del settimanale ciellino Tempi? E’ ai domiciliari per riciclaggio. Una società del broker Jelmoni finanziava il settimanale ciellino. Ora l'uomo d'affari è agli arresti ed è accusato di aver gestito, su banche e conti off shore, oltre 200 milioni di euro dell'evasione fiscale della famiglia novarese Giacomini. E il giornale pubblica le sue lettere dal carcere. Vittorio Malagutti il 7 settembre 2012 su Il Fatto Quotidiano. Riciclaggio e opere di bene. Una frode fiscale in Lussemburgo e la beneficenza a favore di Tempi, il settimanale vicinissimo a Comunione e liberazione. Il finanziere Alessandro Jelmoni, proprio non ce l’ha fatta a restare in equilibrio tra questi due estremi. La sua veloce carriera di broker internazionale è andata a sbattere contro un’accusa di riciclaggio che gli è costata il carcere. Jelmoni è sospettato di aver gestito su banche e conti off shore i proventi (oltre 200 milioni di euro) della colossale evasione fiscale della famiglia novarese Giacomini. La trama dei suoi affari, però, era molto più estesa. E, come emerge dalle indagini della procura di Milano, una pista porta fino alla cooperativa che gestisce il periodico ciellino Tempi. Si parte dalla Rmj, una sigla che sta per Reginato Mercante Jelmoni. Sede a Milano, nella centralissima via Brera, il gruppo Rmj gestisce tra l’altro alcuni fondi d’investimento, tre in tutto. L’ultimo nato, a gennaio dell’anno scorso, si chiama Fondo “Tempi d’in-Presa”. Un fondo speciale, recitano gli spot targati Rmj, perché fa beneficenza. Come funziona? Semplice: una quota del patrimonio del fondo, per l’esattezza l’1,5 per cento, viene destinato a due attività no profit: la cooperativa editoriale Tempi e la Fondazione Emilia Vergani, che si occupa di formazione professionale. Complimenti per il programma, se non fosse che Jelmoni, uno dei promotori della meritoria iniziativa, è finito nel calderone dell’inchiesta per riciclaggio che coinvolge, oltre ad alcuni membri della famiglia di industriali Giacomini, anche il gruppo bancario Intesa tramite la controllata lussemburghese Seb. Jelmoni, agli arresti domiciliari da metà agosto, era legato a doppio filo al gruppo Reginato Mercante. E non solo perché la sua lussuosa abitazione si trova allo stesso indirizzo della società di gestione di fondi. Il finanziere ha rassegnato le sue dimissioni da consigliere della holding Reginato Mercante solo l’11 giugno scorso, quando si trovava in carcere ormai da un mese. In consiglio, peraltro, rimane suo fratello Paolo. A fine agosto, su richiesta della Procura di Milano, è stato anche sequestrato il capitale sociale della Reginato Mercante, che era intestato al trust Moloce, con sede nel paradiso off shore dell’isola di Jersey e gestito via Lussemburgo. Per un’altra coincidenza che non sembra del tutto casuale, nel collegio sindacale della Rmj sgr, cioè la società di gestione del fondo, troviamo Guido Riccardi, uno dei commercialisti di fiducia della famiglia Giacomini. Nel bilancio 2011, la Rmj sgr rivendica la propria “vocazione solidaristica che si traduce nella creazione e gestione di fondi che si caratterizzano per il loro contenuto devolutivo (sic) destinato a specifiche iniziative individuate su gruppi di persone legate da una forte identità socio culturale”. La frase è piuttosto contorta. Ma par di capire che i soldi raccolti tra i risparmiatori servono anche a fare del bene. Questo almeno nelle intenzioni dichiarate dai promotori. Nello specifico, i contributi vanno almeno in parte a finanziare il giornale ciellino diretto da Luigi Amicone. In uno spot dei fondi Rmj rintracciabile in Internet, il settimanale Tempi viene definito “un’isola di cultura e informazione libera nel panorama italiano”. Un’isola così libera che nelle settimane scorse ha ospitato anche numerosi interventi sul tema della carcerazione preventiva, delle condizioni dei detenuti e a favore dell’amnistia. Il più attivo su questo fronte, con una quarantina di articoli sotto forma di lettera, è Antonio Simone, ciellino, amico del governatore della Lombardia Roberto Formigoni. Simone si trova carcere da aprile con l’accusa di aver gestito i fondi neri della clinica Maugeri. La cella accanto a quella dell’amico di Formigoni ospitava Jelmoni, firmatario, anche lui, di una lettera a favore dell’amnistia come rimedio per l’affollamento delle carceri. E Tempi, l’11 agosto, non ha mancato di dare spazio all’intervento del finanziere. Del resto, a quanto pare, lo conoscono bene. Il Fatto Quotidiano del 6 settembre 2012

Il settimanale ha risposto a questo articolo inviando una lettera pubblicata dal sito Dagospia in cui Jelmoni viene definito “un importante finanziere” e si annuncia una querela.

Dagospia il 6 settembre 2012. Riceviamo e pubblichiamo: In merito all'articolo apparso oggi sul Fatto quotidiano (Tempi & CL: riciclaggio in Lussemburgo), il direttore di Tempi Luigi Amicone ha inviato questa lettera al direttore Antonio Padellaro. Ne anticipiamo il contenuto di seguito. Gentile direttore, in merito all'articolo pubblicato sul Fatto quotidiano in data 6 settembre 2012 (Tempi & CL: riciclaggio in Lussemburgo), a firma di Vittorio Malagutti, vorrei precisare che il movimento di Comunione e Liberazione non è coinvolto in nessun modo con il settimanale Tempi. La Cooperativa editrice di Tempi non ha nessun tipo di legame con società estere. Per quanto riguarda il fondo Tempi d'In-Presa, approvato nel 2011 da Banca d'Italia, esso si configura come un innovativo sistema di finanziamento ad opere sociali che non implica alcuna donazione da parte di terzi, ma che trova nel valore percentuale offerto dal fondo le risorse da destinare al mondo no-profit. Grazie a Rmj Sgr, società di gestione del risparmio, che viene remunerata esclusivamente da commissioni di risultato, dal patrimonio del fondo è prelevato un contributo di devoluzione pari all'1,50% su base annua, che viene pariteticamente erogato a favore di Tempi Società Cooperativa e Fondazione Emilia Vergani, due opere no profit che non hanno nessun ruolo e collegamento societario con Rmj. Alessandro Jelmoni è un importante finanziere che si è offerto di aiutarci in un'opera di beneficienza. Abbiamo accettato volentieri e per quello che ha fatto lo ringraziamo. Abbiamo dato mandato ai nostri legali di predisporre querela nei confronti del Fatto Quotidiano. Luigi Amicone, direttore settimanale Tempi

Paolo Mieli e la storia manipolata: «Il bello di raccontare le verità indicibili». Pubblicato lunedì, 21 ottobre 2019 su Corriere.it da Camilla Baresani. Per lo storico e giornalista, perfino il mito di Spartacus era una fake news. E «laddove s’è affermato un dogma serve più di una generazione prima che venga messo in discussione». Paolo Mieli, storico e giornalista «Laddove si è affermato un dogma ci vuole più di una generazione prima che venga messo in discussione» È un indefesso ribaltatore di certezze acquisite, di teoremi condivisi, di punti di vista assodati. Paolo Mieli esercita questa sua inclinazione con una tale scaltra pacatezza da riuscire a prendere all’amo le persone più faziose e portarle a concludere che in realtà la sua opinione è proprio quella che loro stessi nutrivano. Questo anche se a te, spettatore muto del dibattito, pareva il contrario, cioè che i due fossero partiti da posizioni radicalmente lontane. È la ben nota tecnica dello storico e giornalista Paolo Mieli: dare ragione al contendente e poi dimostrare che però le conclusioni stanno all’opposto, con stile così soave e indiscutibile che l’antagonista non si accorge del modo in cui le sue posizioni sono state debellate. Con Le verità nascoste - Trenta casi di manipolazione della storia (Rizzoli), da pochi giorni in libreria, Mieli fa la stessa cosa. Prende trenta convinzioni correnti in materia di eventi storici e ne dimostra la vacuità. Lo fa con grazia e ricchezza di argomentazione per cui si esce dalla lettura senza sentirsi in colpa per la dabbenaggine di aver creduto a dicerie storiche. Fake news storiche, comode versioni, vicende contraffatte, strumentalizzazioni politiche.

Sono temi che le appartengono sia in campo storico sia nell’analisi della cronaca politica. Come storico e giornalista, è più importante raccontare presunte verità o svelare bugie?

«La cosa più importante è cercare la verità sapendo che quella assoluta non esiste, che si tratta di un’approssimazione progressiva e continua. I fatti possono essere incontrovertibili grazie alle testimonianze dirette, ma sono l’analisi e l’interpretazione dei fatti a interessare la storia, che invece è controvertibile. Il mestiere del giornalista e quello dello storico sono intrecciati, applicano le stesse tecniche perché interpretare e raccontare richiede la ricerca e la comprensione dei motivi profondi. Bisogna essere consapevoli che non c’è una meta. Una volta che ho scritto l’ultima pagina di un libro non è finito tutto: ho semplicemente messo in discussione delle verità precedenti, consapevole del fatto che poi il mio libro verrà messo in discussione, perché la scienza storica è una ruota che deve girare continuamente».

Lei descrive trenta casi di manipolazione della storia ordinandoli secondo una tripartizione: verità indicibili, verità negate, verità capovolte. Quale tra queste è la sedimentazione più pericolosa?

«La verità indicibile fa più danni. Laddove si è affermato un dogma ci vuole più di una generazione prima che venga messo in discussione. Le faccio due esempi. Il dogma della positività della Rivoluzione francese: ci è voluto più di un secolo perché si accettasse che alcuni temi della storiografia controrivoluzionaria, tra cui quello del genocidio della Vandea compiuto dai rivoluzionari, erano reali e andavano immessi nel dibattito della storiografia ufficiale. L’altro esempio, a noi più vicino anche se di minore portata, riguarda i crimini commessi dai “buoni” sulla frontiera orientale: l’indicibile questione delle foibe. Esisteva una storiografia nostalgica e locale che aveva posto la questione sin dall’inizio, ma la storiografia ufficiale non teneva in nessun conto le ragioni dei perdenti. In Italia, ci sono voluti cinquant’anni anni perché questo tema venisse dibattuto. Non si tratta di creare un controdogma, ma bisogna smantellare le certezze correnti e aprirle a interpretazioni che sono in grado di minarne le fondamenta».

Di tutte le omissioni e trascuratezze storiche circolanti, quali sono le più evidenti?

«La più colossale è quella che riguarda il medioevo: millennio maledetto tra due epoche luminose, incuneato tra la caduta dell’Impero romano e il Rinascimento, sempre descritto come periodo buio di peste e di orrori. In realtà, secondo la storiografia più recente, il Medioevo è stato una delle stagioni più ricche e interessanti della storia e noi ne siamo figli ben più che dell’antica Roma. È invece un caso di omissione quello che riguarda la storia dell’Impero bizantino. Dal 300 dopo Cristo fino al 1450, ci sono ben 1150 anni di una storia trascurata dai manuali scolastici. Succede perché la storia viene raccontata come antefatto del presente con riferimento alla creazione della grandezza del proprio Paese, e poiché la Turchia è marginale rispetto alle nazioni dove si è fatta la storia europea, viene quasi del tutto ignorata. Questo dimostra che non si fa una storia reale dei millenni che ci hanno preceduto, ma una storia sottilmente manipolata, che giudica il passato come un continuo cammino verso il nostro presente».

Il web ha accorciato i tempi della sedimentazione necessaria a trasformare una boutade in verità acclarata, trasformando notizie falsificate in verità storiche?

«Le persone che si formano sul web sono più esposte a prendere per vere asserzioni che sono frutto di congetture. Le illazioni sono più affascinanti delle verità e più utili a dar ragione ai propri pregiudizi nascondendo le notizie scomode. Bisogna avere l’avvertenza di cercare informazioni che danno torto alle proprie tesi, interessarsi a tutto ciò che crea conflitto con la propria identità, trascurando le ricostruzioni che vengono usate per far quadrare i conti con l’oggi».

Di quanto distacco c’è bisogno per affrontare un fatto?

Il libro di Mieli «La storiografia può essere convincente soltanto quando si è persa la memoria militante. Deve riguardare fatti non vissuti direttamente né da noi né dai nostri padri o nonni e non può mai essere autobiografica. La storia di come è stata costruita l’Italia nell’Ottocento e poi dal 1861 è ancora difficile da affrontare. Solo in anni recenti si è potuto distinguere meglio ragioni e torti, il che non significa rinnegare lo Stato unitario, ma semplicemente riconoscere i limiti delle azioni e delle convinzioni dei nostri progenitori».

L’insegnamento scolastico della storia si è fatto più critico e meno ideologico?

«Direi di sì. Per esempio, un manuale che conosco bene, il Giardina, Sabbatucci, Vidotto viene riscritto e modulato continuamente, tenendo conto dei dibattiti storiografici e delle nuove scoperte. Un tempo, nei testi scolastici, il mondo musulmano era praticamente ignorato. Oggi, conoscere la controversia scoppiata nel 657 tra sciiti e sunniti, circa trent’anni dopo la morte di Maometto, fa parte delle basi culturali indispensabili per analizzare il presente».

Immagino che anche nella vita di Paolo Mieli, giornalista, direttore, storico e personaggio pubblico, ci siano verità indicibili o negate o capovolte. Me ne svela almeno una?

«Ho la certezza che ci siano ma, a meno di non essere dei mascalzoni che riscrivono la propria vita capovolgendo il passato, nessuno è veramente consapevole di sé, ed è per questo che ci vuole il lavoro di una persona terza, necessario sia per quello che riguarda la storia sia per la propria identità. Potrei risponderle, però ironicamente, come fanno molti quando gli si chiede di rivelare un difetto: la verità indicibile è che sono troppo buono, che sono per bene, che ho sottovalutato gli eventi per eccesso di generosità. Girare i difetti in modo tale che siano complimenti a sé stessi. È un classico dei libri di memorie, dove l’autore ha sempre incontrato persone celebri e grandiose, che immancabilmente concordavano con le sue tesi. Tipico anche di quegli articoli sulla morte di una persona nota, scritti facendo trapelare l’ammirazione che il defunto aveva per l’autore dello scritto. Tornando a me, evito però anche ogni affermazione autoironica perché è capitato che delle mie battute, decontestualizzate e trascritte sul web, mi venissero rinfacciate perché prese per vere!»

La storia è piena di fake news ma sono tutte da studiare. A volte pettegolezzi, o rumours montati ad arte, sono tracce importanti. La Seconda guerra mondiale lo dimostra. Eugenio Di Rienzo, Giovedì 08/08/2019, su Il Giornale. Quasi quotidianamente politici, filosofi, scienziati sociali, sacerdoti del «politicamente» corretto ci mettono in guardia dalle fake news, invitandoci a gettarle nel bidone della spazzatura dell'informazione come si farebbe per qualsiasi altro materiale tossico e inquinante per la nostra salute mentale. Da storico, io penso, invece, che se l'analista del passato è vocato anche lui a smascherare le fake (flatus vocis spontanee della pubblica opinione o notizie ingannevoli costruite ad arte per operazioni di propaganda e di contropropaganda), egli deve concentrarsi con estrema attenzione anche su questo materiale di risulta per accertarsi che dietro quel ciarpame non ci siano elementi di verità utili al suo lavoro. In altri termini, ritengo che nulla debba essere scartato, a priori, nell'indagine storica. Come scrive Marc Bloch, nella prefazione al suo La società feudale, comparso nel 1940, «lo storico non è un uomo libero perché del passato sa solamente quel che esso vuole confidargli». E proprio per questo a lui non è consentito di trascurare anche il più insignificante ed equivoco indizio. Al pari di un detective, lo storico non può basare la sua ricostruzione degli eventi solo su una «prova regina», che raramente o forse mai gli è dato di ritrovare, ma il più delle volte deve operare su semplici voci, su dati marginali a volte genuini a volte contraffatti, su scarti di magazzino, appunto, che però, se attentamente decifrati, gli consentono di approssimarsi alla verità, se pure questo termine è davvero idoneo a definire il risultato della sua ricerca. A dimostrazione di quanto detto, vorrei qui parlare di alcune bufale storiche che molto ci dicono, però, sull'ultima fase del Secondo conflitto mondiale dove accanto alla guerra guerreggiata si combatté anche una «guerra diplomatica» che, nei propositi dei suoi attori, avrebbe dovuto portare a cambiamenti di fronte e a ribaltamenti di alleanze che più che la forza delle armi potevano, se condotti a termine, portare alla vittoria finale. Il primo caso, da prendere in esame, è la lettera di Vanni Teodorani inoltrata a Piero Buscaroli, il 16 luglio 1964, gentilmente messami a disposizione dalla figlia di Teodorani, Anna Tagliarini Teodorani, in cui il primo faceva una sconcertante rivelazione all'autore dell'appassionante volume, Dalla parte dei vinti. Memorie e verità del Novecento (Mondadori). Teodorani scriveva, infatti, di essere al corrente «di alcuni importanti retroscena del cosiddetto incontro di Feltre del 19 giugno 1943 tra Hitler e Mussolini», aggiungendo che «a quel convegno aveva dato adesione il Commissario del Popolo agli Esteri, Molotov», per sondare la possibilità di una soluzione politica del conflitto, tale da neutralizzare il fronte orientale, portando Mosca a sganciarsi dall'alleanza con gli Alleati. Una notizia, questa, che Teodorani aveva anticipato nel suo diario degli anni 1945-1946, dove, pur senza fare nomi, scriveva dell'«auspicata presenza di un terzo personaggio» che avrebbe dovuto partecipare al bilaterale tra il Capo del governo italiano e il Führer svoltosi, in realtà, nelle sale di Villa Gaggia alla periferia di Belluno. Qui è da notare, in primo luogo, la qualità dei corrispondenti. Se Buscaroli, musicologo prestato alla storia, si sforzò costantemente, a volte con penetrante intuito, di fare luce sulle trame della «diplomazia occulta» che precedettero la caduta di Mussolini, nella fatidica notte del 25 luglio, Teodarani, marito di Rosa Mussolini, figlia del fratello minore del Duce (l'amatissimo Arnaldo) doveva essere al corrente delle segrete cose del regime. Nonostante, ciò, la notizia, fatta salva l'onestà intellettuale di Teodorani nel riportarla, è palesemente falsa, perché è veramente difficile ipotizzare che il Ministro degli Esteri sovietico avrebbe corso il rischio di passare personalmente le linee e di trasferirsi in territorio nemico per iniziare una trattativa, la cui apertura doveva, verosimilmente, essere affidata a membri del corpo diplomatico, influenti ma di minor rilevanza pubblica, o meglio ancora ad agenti qualificati dell'intelligence russa. Più tardi, tuttavia, lo scenario congetturato da Teodorani sembrò effettivamente sul punto di avverarsi. Alla fine dell'agosto 1943, i governi delle Nazioni belligeranti e neutrali furono scossi dalla notizia di un prossimo summit tra Molotov e Ribbentrop per trattare le condizioni di un armistizio (della cui eventualità lo stesso ministro degli Esteri del Reich accennò, poi, nelle sue memorie, collocando però la data della sua missione al gennaio 1945). Il 30 agosto, il nostro ambasciatore a Berlino, Rogeri di Villanova, scriveva che quella notizia poteva dirsi verosimile perché in Germania aveva prevalso un «partito della pace», maggioritari «in non pochi ambienti responsabili dello Stato Maggiore della Wehrmacht, dell'industria e della burocrazia», persuasi che il Reich, una volta snervato l'esercito sovietico, «grazie a una guerra imposta su criteri esclusivamente difensivi», dovesse iniziare con i Russi formali negoziati per interrompere le ostilità. Il giorno seguente, il nuovo ministro degli Esteri, Raffaele Guariglia, succeduto a Ciano, reputava che tale convinzione potesse addirittura aver fatto breccia nel «cerchio magico» di Hitler (Göring, Bormann, Goebbels) e scriveva al nostro rappresentante nella capitale tedesca di controllare le voci ricorrenti e presumibilmente fondate di un'improvvisa partenza di Ribbentrop per Mosca, per rinnovare il Patto Hitler-Stalin del 23 agosto 1939. Il 2 settembre, dopo un abboccamento con il collega nipponico, di cui resta traccia nelle intercettazioni del servizio informazioni statunitense, Rogeri di Villanova, liquidava la missione di Ribbentrop in Unione Sovietica come una mera invenzione, scrivendo che «l'ambasciatore giapponese, particolarmente interessato a uno sviluppo del genere, mi ha dichiarato nel modo più categorico non esistere alcuna premessa, né politica né militare, che possa far credere a una prossima soluzione politica del conflitto tedesco-sovietico». Sia l'indiscrezione di Teodorani che quella di Rogeri di Villanova si riducevano, dunque, a due bolle di sapone prive di consistenza. Eppure queste «bufale» contenevano un largo margine di verità. Come ho dimostrato nel volume scritto a quattro mani con Emilio Gin, Le Potenze dell'Asse e l'Unione Sovietica, 1939-1945 (Rubbettino Editore) e in altri interventi, già tra la fine dell'inverno e la tarda estate del 1943, a Stoccolma, si erano sviluppati negoziati tra emissari tedeschi e sovietici per arrivare al cessate il fuoco sul fronte dell'est, che ebbero come protagonista un parterre politico di altissimo livello. La delegazione russa contava, infatti, tra le sue file, l'ambasciatrice sovietica nella capitale scandinava, Alexandra Mikhailovna Kollontai, il già incaricato d'affari a Berlino e ora capo della Divisione Affari Esteri per l'Europa Centrale, Andrej Alexandrov, e Wladimir Semjonov che agiva in diretto contatto con il potente Commissario del Popolo per gli Affari Interni, Lavrentij Berija, notoriamente propenso alla pace con il Reich. Mentre quella germanica era guidata da un fedelissimo fiduciario di Ribbentrop, l'alto dirigente del ministero degli Esteri, Paul Otto Gustav Schmidt. Del resto la possibilità di un riavvicinamento tra il colosso comunista e il Moloch nazista aveva raccolto largo credito tra vari esponenti d'eccellenza del mondo politico italiano, immediatamente prima del 25 luglio. In essa aveva confidato Vittorio Emanuele III, secondo il diario del suo aiutante di campo, Paolo Puntoni, vedendo nell'accostamento nazi-bolscevico la sola possibilità di evitare la catastrofe militare, cui l'Italia sembrava ineluttabilmente destinata, e la ragione per mantenere in sella Mussolini. A essa si era affidato, l'ancora molto influente Presidente della Confindustria, Giovanni Volpi di Misurata, quando in una conversazione privata aveva sostenuto «che essendo Hitler e Stalin uomini di buon senso, una pace tra i loro Paesi non poteva tardare». E di essa avrebbe parlato, ancora, il 21 marzo 1944, il Sottosegretario generale agli Esteri, Renato Prunas, confidando al nuovo Ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, che se la Russia temeva di essere circondata, dopo la fine del conflitto da una cintura sanitaria di Paesi anticomunisti a lei ostili, Regno Unito e Stati Uniti paventavano, invece, l'eventualità non peregrina di una pace separata tra Berlino e Mosca che avrebbe capovolto l'esito della guerra in corso. Quanto detto, mi pare, dimostra a sufficienza che tra verità e falsificazione il discrimine è davvero stretto, quando si tratta di ricostruire gli eventi del passato. E allo storico, allora, tocca far sua la regola aurea enunciata da Sherlock Holmes nel romanzo di Arthur Conan Doyle, Il segno dei quattro: «Una volta eliminato l'impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità».

Fake news, quello che ci insegna la storia di Ronchey. Dino Cofrancesco il 6 settembre 2019 su Nicolaporro.it. Fake news, si legge in Treccani Cultura-Enciclopedia on line, è “una locuzione inglese (lett. notizie false), entrata in uso nel primo decennio del XXI secolo per designare un’informazione in parte o del tutto non corrispondente al vero, divulgata intenzionalmente o inintenzionalmente attraverso il web, i media o le tecnologie digitali di comunicazione, e caratterizzata da un’apparente plausibilità, quest’ultima alimentata da un sistema distorto di aspettative dell’opinione pubblica e da un’amplificazione dei pregiudizi che ne sono alla base, ciò che ne agevola la condivisione e la diffusione pur in assenza di una verifica delle fonti”. Alle fake news è stato dedicato ampio spazio nella seconda edizione del Festival della Politica (Santa Margherita Ligure 20/21/22 agosto) organizzato dall’Associazione Culturale Isaiah Berlin e dedicato, quest’anno, al tema “Democrazia e Comunicazione”. Ne hanno parlato, tra gli altri, la sociologa del diritto Simona Andrini, lo storico delle dottrine politiche Enzo A. Baldini, il saggista Corrado Ocone. Non poteva mancare, ovviamente, il riferimento alla bufala di Donald Trump su Barack Obama “nato in Kenya”, un caso limite di disinformazione programmata (in questo caso per presentare Obama come “straniero” indegno di ricoprire la carica più alta degli S.U.). Indubbiamente, le fake news — sulle quali, peraltro, Eugenio Di Rienzo ha scritto un illuminante articolo su Il Giornale, La storia è piena di fake news ma sono tutte da studiare, 8 agosto u.s.— sono i veleni dell’informazione in una società aperta ma, a ben riflettere, la disintossicazione non è difficile anche in virtù della loro evidenza e facile confutabilità. Mi sembra assai più insidiosa, invece, la ricostruzione degli eventi (passati e presenti) che col metodo “forbici/copia e incolla”, incide, a tempo indeterminato, sulle credenze collettive e, combinando omissioni ben calibrate e qualche congettura presentata come fatto certo, foggia un senso comune e interpretazioni storiche e sociali al riparo da dubbi e confutazioni. Ne costituisce un esempio l’Addio ad Alberto Ronchey un giornalista indipendente, apparso su La Repubblica dell’8 marzo 2010 a firma di Ettore Boffano. A mio avviso, si tratta di uno scritto che dovrebbe essere letto e meditato in tutte le scuole di giornalismo, come case study di violazione dell’etica professionale che impone agli operatori della carta stampata di raccontare, prima di tutto i fatti, seguiti semmai (ma non è indispensabile) da un commento (anche di parte). Boffano ricostruisce la carriera di Ronchey, prestigioso editoralista (dal Corriere d’Informazione a La Stampa di cui fu direttore, dal Corriere della Sera a La Repubblica) e per qualche tempo ministro dei Beni Culturali, ma sul suo “lungo passaggio al Corriere della Sera che lascia nel 1981, in piena bufera P2″– un rapporto tormentato su cui ci sarebbe da scrivere un lungo saggio — non solo è telegrafico ma fa il gioco delle tre carte (per non dire altro). L’articolo, infatti, termina con una testimonianza che è tutto un peana a Piero Ottone e alla (presunta) “bontà dei cavalieri antichi”. Piero Ottone lo ricorda così: “La sua cifra più autentica era lo scrupolo di non sbagliare mai, di non imporre mai al lettore un qualsiasi errore. Qualcosa che nel giornalismo odierno non esiste più. Controllava tutto, numeri, date, nomi e non era mai soddisfatto sino a quando non vedeva l’articolo stampato, sempre in ansia di non aver fatto tutto il possibile”. “Aveva un senso etico, morale del giornalismo – conclude Ottone – che ha ispirato tutta la sua vita personale e professionale. Nel 1977, quando lasciai la direzione del Corriere, i Rizzoli padre e figlio mi chiesero un consiglio sul mio successore e io feci il suo nome. Apparvero entusiasti, ma poi cambiarono idea. Seppi dopo che era scattato un veto da parte di Licio Gelli che non lo voleva direttore. La scusa ufficiale per quel no fu che Alberto era troppo amico di Agnelli”. In realtà, è difficile sapere come si sono svolti i fatti. Che il veto di Licio Gelli, nel 1977, fosse decisivo e che la scusa dell’amicizia con Gianni Agnelli fosse credibile è qualcosa che può credere solo un lettore immemore che abbia dimenticato l’accusa che si faceva a Ronchey di essere troppo vicino a Bettino Craxi e di avere in un certo senso “tradito” le sue vecchie amicizie repubblicane. Lucio Colletti raccontava che a impedire la successione di Ronchey alla direzione del CorSera fu il segretario della DC Benigno Zaccagnini, in accordo con Aldo Moro, ma tale ipotesi, tutt’altro che irrealistica, non avrebbe gettato ombre inquietanti sulla sinistra democristiana e sul leader politico candidato agli onori dell’altare? Meglio, quindi, non parlarne e riversare tutte le colpe sull’infame Licio Gelli, al quale potrebbe oggi imputarsi anche lo scioglimento dei ghiacciai. Sennonché, al di là della domanda “chi pose il veto a Ronchey?” sarebbe stato interessante ricordare a quale Corriere sarebbe stata assai poco gradita la direzione di uno dei più grandi editorialisti colti del secondo Novecento. Ce lo racconta in un libro dimenticato (et pour cause!) un altro prestigioso giornalista scomparso nel 2017, Enzo Bettiza. In Via Solferino. La vita del Corriere della Sera dal 1964 al 1974 (Ed. Rizzoli 1982), si rileva che “la formula ottoniana del “quotidiano di tutti”, mentre pretendeva di rispecchiare liberalmente gli umori della società moderna, in realtà rispecchiava soprattutto l’ideologi della microsocietà illiberale che, promossa e protetta dal sindacato, si era cristallizzata all’interno del Corriere|….| Questo processo di radicalizzazione e di spartizione dei ruoli, che vede il comitato di Fiengo || Raffaele Fiengo per vent’anni è stato un pilastro del Comitato di redazione, chiamato “il Soviet di Via Solferino”|| usurpare col beneplacito di Ottone diverse prerogative direttoriali, sfocerà fatalmente in vari atti di censura, sofisticata o diretta. Ai miei commenti di politica estera seguiranno sempre più spesso dei controcommenti, che diranno il giorno dopo esattamente l’opposto di quello che dicevo io il giorno prima. Più tardi verrà il momento in cui certi articoli scomodi di Alberto Ronchey, destinati al fondo, saranno per così dire disinnescati con la elzevirizzazione di terza pagina. Un destino analogo capiterà a Piero Ostellino. In fondo, può rilevarsi ironicamente il Corriere aveva tenuto conto della lezione di un mio compianto maestro, Norberto Bobbio, che in uno dei suoi scritti più lontani dell’universo liberale, aveva lamentato che la democrazia si arrestasse alle soglie delle aziende. Non era certo il caso di Via Solferino dove, sempre nel racconto di Bettiza, il 1° marzo 1974, nel vasto salone della mesa, un migliaio di persone del comitato di redazione e del consiglio di fabbrica, mise sotto accusa Cesare Zappulli che, sulla Domenica del Corriere aveva criticato il segretario generale della CISL, Bruno Storti. “Qualche giorno dopo la Domenica del Corriere ospitava una minacciosa petizione sindacale contro il profanatore, al quale la direzione stessa del settimanale negava il diritto di replica”. “C’era solo da domandarsi—concludeva amaramente Bettiza—cosa sarebbe avvenuto del nemico del popolo Zappulli se coloro che detenevano già tanto potere dentro l’azienda di Via Solferino avessero avuto nelle loro mani anche i ministeri della polizia e della cultura.” Saggiamente, dal suo punto di vista, il giornalista genovese (in seguito vicedirettore del Fatto quotidiano) non ha neppure accennato al clima che si respirava al Corriere negli anni 70. Se l’avesse fatto qualcuno avrebbe potuto pensare: “ma che probabilità c’erano, che con quei redattori e con quei tipografi—che avevano fatto entrare “la democrazia in azienda”– Alberto Ronchey divenisse il successore di Piero Ottone?”. Qui non siamo in presenza di fake news in senso stretto ma, certamente, di un’operazione di insabbiamento ideologicamente motivata, che ci riporta alla filosofia del “Grande Fratello”. È il potere che dice “come sono andati i fatti”: se ne ricordano quelli che fanno comodo, si cancellano gli altri (la grande colpa di Renzo De Felice, storico del fascismo, è stata quella di non cancellare niente….). Se è vero che con le mezze verità, diceva Indro Montanelli, si costruiscono le menzogne, quelle inventate di sana pianta (come quella di Obama nato in Kenya) sono, in definitiva, meno pericolose delle menzogne che, proprio per il loro richiamarsi ai fatti, appaiono verità indiscusse. Dino Cofrancesco, 6 settembre 2019

La guerra delle fake news: così si manipolano i media. Comprendere come funziona la macchina della disinformazione. Per combattere (e vincere) la battaglia delle bufale. Matteo Carnieletto, Venerdì 03/05/2019, su Il Giornale. "Io mi chiedo che cosa succederà dopo queste elezioni? Che cosa succederà alla stampa? Non si è mai vista una stampa così compatta e unita contro un candidato (...). Che cosa succederà ora che la stampa non ha più forza?". Basterebbe questa frase, pronunciata da Giovanna Botteri all’indomani dell’elezione di Donald Trump, per capire l’importanza e il peso politico di quello che, non a caso, è stato definito “quarto potere”. Politica e bugie, e soprattutto menzogne e guerra, vanno a braccetto. Lo abbiamo visto in Libia, Ucraina e Siria, solo per citare i casi più recenti. Se invece vogliamo andare a ripescare qualcosa del passato, possiamo citare il grande storico francese Marc Bloch che ha dedicato alcune sue riflessioni proprio all’uso strumentale delle false notizie durante il primo conflitto mondiale. Ma questa è, appunto, storia. Ciò che ci interessa è invece comprendere come funziona la macchina della disinformazione, un tema che è stato toccato dall’evento La manipolazione delle notizie, organizzato dai fratelli Della Cagnoletta e del comune di Sondrio. Sul palco, Laura Lesèvre, project manager de Gli Occhi della Guerra, Andrea Pontini, Ceo de ilGiornale.it, Fausto Biloslavo, storico inviato di guerra de ilGiornale e Andrea Indini, caporedattore deilGiornale.it. In collegamento Skype, il presidente della Rai, Marcello Foa. A fare gli onori di casa, tutta la giunta e l’assessore alle Pari Opportunità, Barbara Dell’Erba. Ed è proprio Foa a spiegare: “Da giornalista mi sono sempre chiesto quali sono gli strumenti che possono alterare tutta la stampa, ovvero come è possibile che in alcuni casi si possa imporre solamente una versione?”. La comunicazione - prosegue sempre Foa - rientra in quella che è stata definita guerra asimmetrica e che è orchestrata dagli “stregoni della notizia”, ovvero da ex giornalisti che, conoscendo i meccanismi dell’informazione, cercano di portare avanti una determinata agenda politica. Questa guerra asimmetrica si sta combattendo anche in Libia. La propaganda di Khalifa Haftar, per esempio, ha pubblicato le foto di alcuni miliziani di Tripoli che sventolano la bandiera nera per accusare Fayez al Sarraj di esser sostenuto dai jihadisti. Una battaglia fondamentale, quella dell’informazione, tanto che l’uomo forte della Cirenaica ha organizzato un dipartimento ad hoc per diffondere notizie contrarie a Tripoli, come spiega Biloslavo, da poco tornato dalla Libia. Fake news, o balle, che tormentano la Libia dal 2011, da quando fu abbattuto Muammar Gheddafi. Il Rais, intervistato da Biloslavo, aveva previsto tutto: gli sbarchi di migranti in Italia, il terrorismo e perfino la sua stessa morte. Eppure quelle parole sono rimaste inascoltate e la realtà della Libia, ormai un Paese distrutto, è sotto gli occhi di tutti. Ma come si può combattere questa “battaglia” dell’informazione? Lo spiega Andrea Pontini che, parlando de Gli Occhi della Guerra, dice: “Raccontiamo il mondo in presa diretta, mandando reporter di ogni colore politico in ogni angolo del globo per raccontare storie, con un’unica richiesta: che raccontino la realtà con lealtà”. Ed è per questo che, a partire dal 13 maggio, Gli Occhi della Guerra diventeranno InsideOver, due nuovi siti, uno in italiano e uno in inglese, che continueranno a raccontare il mondo in presa diretta. Con passione e lealtà.

I migranti protestarono per Sky? Arriva la conferma: notizia vera. Un anno fa le polemiche per una notizia smentita e poi confermata. Oggi anche l'ordine dei giornalisti conferma: la protesta era vera. Chiara Sarra, Sabato 20/07/2019, su Il Giornale. "Migranti in rivolta per avere Sky". Era il 10 agosto di un anno fa quando sui giornali - anche il nostro - veniva riporta la notizia di una singolare protesta al centro culturale San Paolo di Vicenza. Protesta che era stata raccontata il giorno prima dal Giornale di Vicenza e che ha in poche ore scatenato media e social network dopo che Fabio Butera - giornalista de Le Iene e Repubblica - aveva sostenuto in un post sul suo profilo Facebook che si trattava di una bufala e di una storia non verificata "per mancanza di tempo" dal collega vicentino. Peccato che lo stesso giornalista sulle pagine del Giornale di Vicenza confermasse in quelle ore che i migranti protestavano per avere documenti, ma anche per condizioni di vita migliori, tra cui l'abbonamento ai canali satellitari. Come dimostrava anche un dossier inviato dalla cooperativa in questura qualche giorno prima. Non solo: una settimana dopo gli stessi richiedenti asilo ci avevano confermato che tra i motivi della rivolta c'era anche l'abbonamento ai canali di Sky calcio. Ma giornali e commentatori erano già incappati nel cortocircuito della fake news buonista della presunta fake news, che in realtà era una notizia vera. Ora però arriva un'altra "sentenza" che ristabilisce la verità: il Consiglio di disciplina territoriale dell'Ordine dei giornalisti del Veneto ha deciso di "archiviare il procedimento" contro Valentino Gonzato, il giornalista che per primo aveva riportato la questione e finito nel mirino di esposti all'Odg. "Sono emersi elementi idonei a far ritenere non sussistente una sua responsabilità disciplinare", dicono dall'ordine, sottolineando come "l'articolo in questione, alla luce delle testimonianze prodotte, sia l’effettiva cronaca dei fatti accaduti, aventi una indubbia notiziabilità in ragione della particolare e inusuale richiesta fatta dai migranti alla questura e che pertanto la notizia sia confermata". E ancora si spiega come "l’articolo non contenga notizie non vere, che le stesse notizie siano state verificate, anche da fonti che il giornalista, per ovvi motivi, non rivela, che non si ravvisano quindi elementi che possono far ritenere l’articolo segnalato un elemento di diffusione di informazioni imprecise, sommarie o distorte riguardo a migranti o richiedenti asilo".

Estrae l'arma, agente alla gogna. Ma la verità del video è un'altra. Al porto di Civitavecchia scoppia il caos. La rivolta di alcuni tunisini. Tre persone in manette. Arresti confermati dal giudice. Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 01/07/2019, su Il Giornale. Daji contro al poliziotto che estrae la pistola, manco avesse crivellato di colpi qualcuno. Il video diffuso online su quanto successo al porto di Civitavecchia è diventato in poche ore virale. E in perfetto stile italiano si è subito trasformato in una gogna mediatica. Tutto inizia ieri sera quando su Twitter si diffonde un video che mostra un alterco piuttosto animato tra due operatori della polizia di Frontiera di Civitavecchia e alcuni tunisini. Un gruppo di persone circonda gli agenti, poi partono alcuni spintoni, uno dei due uomini in divisa rifila un ceffone ad uno dei presenti e infine estrae la pistola. "Guarda che ti sparo, eh", urla nella concitazione del momento. Apriti cielo. Nel Paese in cui pure il taser diventa un'arma al limite della tortura, se un poliziotto urla "ti sparo" è come se avesse scaricato l'intera cartuccia su un innocente. In stile Usa, avete presente? E infatti online si sprecano commenti del tipo "è follia", "ma cosa siamo diventati", "l'Italia salviniana", "si sentono intoccabili", "far west" e via dicendo. Pure Peppe Civati incornicia il tutto con un laconico "la deriva", come se ci fosse scappato il morto. E alcuni quotidiani non mancano di criticare la "reazione dell'agente" che appare "decisamente sproporzionata rispetto al contesto". Ecco, il contesto. "Chiedo a chi giudica: voi cosa avreste fatto?", domanda Maurizio Germanò, segretario romano del Siap. Già: cosa avreste fatto? Perché quel video mostra solo "la seconda parte di quanto successo". È una visione parziale e che non tiene conto "dell'adrenalina del momento", del sentirsi accerchiati, delle persone intorno. "Stare lì è difficile - dice Germanò - Non è come in un talk show". Come ilGiornale.it è in grado di ricostruire, il patatrac ha luogo attorno al molo 28 di Civitavecchia, dove la "Catania" aveva attraccato in attesa di ripartire per Tunisi. "Quella nave carica fino a 900-1000 persone", ci fa sapere una fonte di polizia. "Aveva un'avaria ed è arrivata in notevole ritardo". Sarebbe bastato informare i passeggeri, che invece restano per ore "sotto lo schioppo del sole". Poi improvvisamente si diffonde la voce "che l'imbarcazione non sarebbe partita". E così esplodono "fortissime proteste". A quel punto due guardie giurate chiamano allarmate il 112, raccontando di essere state aggredite e accerchiate. Avvicinandosi al molo, i poliziotti vengono bloccati da una Mercedes grigia con targa francese che impedisce l'accesso in entrata e in uscita dalla "Catania". Insomma: il caos più totale. La versione ufficiale delle autorità afferma che "gli operatori intervenuti si sono trovati di fronte molte persone dagli animi esagitati che pretendevano di imbarcarsi immediatamente". I poliziotti sul momento tentano di ripristinare la viabilità ("spostate la macchina", urlano), ma i proprietari del mezzo non intendono ascoltare. La protesta esaspera gli altri automobilisti, in un domino di tensione molto pericoloso. E infatti gli agenti vengono "accerchiati e strattonati fino a quando un cittadino tunisino" colpisce "all'addome uno dei due operatori".

"Offese e strattonamenti", si legge nella nota della polizia, continuano per diversi minuti. La sproprozione tra i due agenti e le centinaia di persone al molo costringe le divise a chiamare i rinforzi e a difendersi. "Per una cazzata può scatenarsi l'inferno", precisa la fonte. È in questo contesto che uno dei due poliziotti colpisce con uno schiaffo un uomo ed estrae la pistola "a scopo intimidatorio e al solo fine di evitare ulteriori sopraffazioni". Nessun morto, né feriti. Anzi: tre tunisini finiscono in manette per lesioni, offese e resistenza a pubblico ufficiale (arresti poi convalidati dal giudice). Messi in fila i fatti, ora passiamo alle opinioni. I poliziotti non capiscono, ancora una volta, perché sia partita una caccia allo "sbirro cattivo". "Qui parliamo di una situazione radicata dove gli extracomunitari la fanno da padrone - attacca Germanò - Loro reagiscono, ti mettono le mani addosso. Non hanno timore delle divise, ci sbeffecciano e non ci rispettano". Una situazione paradossale, che nessun'altra nazione europea permetterebbe. Ma l'Italia sì. Anzi, alla fine c'è pure chi si scaglia contro i tutori dell'ordine (salvo poi versare lacrime di coccodrillo se qualcuno viene accoltellato come a Tor Bella Monaca). C'è poi da considerare un problema operativo. "Lasciare due uomini da soli in quel modo - fa notare Germanò - non denota buona organizzazione". Certo è che se chiunque può permettersi di reagire impunemente all'ordine di un poliziotto e magari mettergli pure le mani addosso, ogni discussione diventa inutile. A questo punto meglio tenere la pistola nella fondina. O dotare gli agenti di fucili ad acqua. Almeno si risparmierebbero le critiche.

FUBINI O FURBINI? Mario Giordano per “la Verità” il 3 maggio 2019. Aveva una notizia. Una notizia vera. E questa è già una notizia. Ma, ecco la seconda notizia, ha pensato bene di non pubblicarla. Ovvio, no? Si capisce. Che cos' è questa brutta abitudine di pubblicare le notizie? Per di più vere, per altro? Così Federico Fu(r)bini, vicedirettore del Corriere della Sera, membro del board di Open society di George Soros e gran difensore dell' establishment europeo, ha pensato bene di aggiungere un capitolo al suo personale manuale di giornalismo, quello che prevede la pubblicazione certa solo delle notizie che certamente non sono vere. Come quando diede per sicura l' apertura della procedura di infrazione Ue contro l' Italia (che infatti non ci fu). O come quando annunciò a più riprese le dimissioni del ministro Giovanni Tria (che infatti è ancora al suo posto). Le notizie vere, invece, no. Quelle non si danno. Quelle si nascondono. Chiaro, no? È così che si fa carriera. Non a caso il nostro Federico è entrato pure a far parte della task force europea che vigila sulla correttezza dell' informazione. Ma si capisce: l' informazione deve essere corretta. Politicamente corretta. Europeisticamente corretta. Sorosianamente corretta. E se non è corretta, la corregge lui. Che sa come si fa. Ma sì: c' era una volta il caffè corretto grappa. Ora c' è l' informazione corretta Fu(r)bini. È sempre roba che dà un po' alla testa, in effetti. Del resto è stato lo stesso giornalista (senza offesa per il giornalismo) a svelare il fatto in un' intervista a Tv2000, la tv dei vescovi. Di che si tratta? Semplice: Federico nostro aveva scoperto che in Grecia in un anno erano morti 700 bambini in più rispetto all' anno prima a causa della «crisi economica e del modo in cui è stata gestita». Tradotto: le scriteriate politiche dell' austerity imposte da Bruxelles (quelle per cui poi Jean-Claude Juncker, con colpevole ritardo ha chiesto scusa) avevano fatto aumentare a dismisura la mortalità fra i bimbi da zero a 12 mesi di vita. Bimbi denutriti, bimbi nati sottopeso che non ce l'hanno fatta a sopravvivere, bimbi malati che non hanno avuto le cure necessarie.

Settecento morti in un anno. Proprio 700. Due al giorno. Per colpa dell' austerity di Bruxelles. È una notizia forte, no? Eppure i lettori del Corriere della Sera non l' hanno mai letta. Fu(r)bini, infatti, l' ha trovata. Ma ha pensato bene di non pubblicarla. Del resto, si capisce: perché rovinarsi la reputazione diffondendo notizie vere? Meglio andare avanti come sempre, annunciando le dimissioni di Tria...Bisogna capirlo, povero paladino dell'informazione corretta (grappa). Uno ci mette una vita a farsi una certa fama, costruisce giorno dopo giorno quell' immagine di credibilità che traspare anche dal board della Open society, oltre che dalle notizie sulla procedura d'infrazione contro l'Italia, scrive infinite articolesse sui troll russi usati per attaccare Sergio Mattarella salvo poi dover ammettere «è impossibile sapere se i troll russi abbiano avuto un ruolo nella campagna contro il capo dello Stato», insomma si dà un sacco da fare per rendere evidente che lui i rapporti con le notizie li ha interrotti da un pezzo, specialmente con le notizie vere, che sono il genere più pericoloso. Perché dovrebbe all' improvviso buttare a mare tutto questo impegno? Perché ha incontrato una notizia vera? Che riguarda 700 bambini morti? Ma che saranno mai 700 bambini morti? Fossero almeno immigrati, per altro. Che così almeno poteva interessare un po' a Soros. Invece niente: questi bimbi muoiono in Grecia, schiacciati dall' austerity di Bruxelles, prima di compiere un anno di vita. E senza avere nemmeno il buon senso, prima di morire, di mettersi su un barcone nel Mediterraneo. È ovvio che vanno cancellati. Prima dalla Terra. Poi anche dai giornali. Per fortuna la notizia, anziché nelle mani di una di quelle tribù di ultimi mohicani convinti che le notizie vadano pubblicate (pensate che pazzi), soprattutto quando sono vere (pazzi al cubo), è caduta nelle mani sapienti di Fu(r)bini. Il quale, come ha spiegato lui stesso a Tv2000, mentre presentava il suo ultimo libro Per amor proprio, ha pensato che se avesse pubblicato una notizia vera come quella poteva essere «strumentalizzato» da qualcuno (poveretto), forse anche «ostracizzato» (poveretto) da qualcun altro, e per di più (poveretto al cubo) avrebbe dovuto «passare il tempo» a difendersi «da attacchi assurdi sui social network».

Non sia mai detto: il suo tempo è sacro, mica come la vita di 700 bambini della Grecia, che possono anche essere seppelliti in silenzio. Del resto, si sa: Fu(r)bini non ha un minuto da perdere, c'è sempre una nuova dimissione di Tria da raccontare. Magari c' è anche una procedura d' infrazione che non c'è. E allora perché stare lì sui social a difendere una notizia vera quando si può utilizzare lo stesso tempo per difendere una notizia falsa? A questo punto anche noi dobbiamo fare una confessione. Prima della sua ultima incredibile rivelazione, di cui stiamo modestamente cercando di dar conto, avevamo qualche perplessità sulla nomina del vicedirettore del Corriere nella task force Ue che dovrebbe andare a caccia di bufale. E invece adesso abbiamo finalmente capito le ragioni di questa scelta, davvero azzeccatissima: chi c' è, in effetti, in tutt' Europa, più esperto di lui in bufale? Come pratica, è evidente, non c' è nessuno che gli tenga testa. E anche per la teoria sta facendo progressi: il nuovo manuale di giornalismo furbiniano, per esempio, è pronto per essere diffuso tra i giovani praticanti desiderosi di una carriera brillante come la sua.

Prima regola: guai a pubblicare una notizia vera, soprattutto se dà fastidio a chi conta. Per esempio: se vi trovate di fronte 700 bambini morti, prima di farlo sapere in giro, chiedetevi: chi li ha uccisi potrebbe esserne danneggiato? Se la risposta fosse «sì», beh, allora dite che non volete essere strumentalizzati, dite che non volete essere ostracizzati, dite che non volete perdere tempo sui social network, e dedicatevi a qualcosa di un po' meno vero. Perbacco. Che nessuno lo sappia. Se poi, dopo un po' di tempo, vi sentite proprio in colpa, scrivete un libro e intitolatelo Per amor proprio. Facendo finta (vi verrà facile) di averne ancora uno.

FUBINI O FURBINI? 1 - DALL’ACCOUNT TWITTER DI FEDERICO FUBINI  il 10 luglio 2019. E così il Fatto adesso mi attacca (titolo e foto grandi in prima) perché avevo delle rate arretrate con l’ordine dei giornalisti. Nel frattempo saldate, va €2000. Certo, cambiato casa e Paese tante volte e fatto un po’ di casino, lo ammetto. Ma mi permetto una domanda ai coraggiosi “colleghi” (virgolette d’obbligo) del Fatto: avete fatto controllare ai vostri amici se io sono in regola con le bollette della luce? Fatemi sapere! Good luck

Gaia Scacciavillani per il “Fatto quotidiano”  il 10 luglio 2019. "Sarà l'autorità giudiziaria a dover stabilire se c'è stata o meno una violazione dell' obbligo di iscrizione all' Ordine e, quindi, l'esercizio abusivo della professione". Il presidente dell' Ordine dei giornalisti, Carlo Verna, non ha esitazioni. Eppure il caso è spinoso: l'inviato speciale e vicedirettore ad personam del Corriere della Sera, Federico Fubini, ha lavorato con un contratto giornalistico per quasi 14 anni senza risultare iscritto all'Ordine: era stato cancellato a novembre del 2005, per morosità. L'autorevole firma - il quotidiano milanese lo ha riportato a casa, strappandolo a Repubblica, pochi anni fa - ha all' attivo pubblicazioni di altissimo livello, e la nomina all' interno del panel di 39 esperti internazionali che Bruxelles aveva radunato a gennaio 2018 per combattere le fake news diffuse online, in vista delle elezioni europee. Interpellato in merito dal Fatto Quotidiano, Fubini ha spiegato di essere stato "distratto", e di essere venuto a conoscenza della cosa solo ieri. A suo dire, non sarebbe stato raggiunto dalle notifiche che pure - fanno sapere dall' Ordine regionale - sono state eseguite correttamente in quadruplice copia (destinatario, Inpgi, Casagit e Procura della Repubblica). Il vicedirettore del primo quotidiano nazionale aggiunge di aver sanato la posizione giusto ieri, giorno in cui afferma di aver saputo per la prima volta dell' esistenza del problema. Esibisce copia dell' ordine di bonifico di 2.500 euro (tra arretrati e morosità) che riporta, come data di esecuzione quella del 10 luglio (oggi per chi legge, ndr), e una email inviata alla segretaria dell'Ordine regionale qualche ora prima di essere raggiunto dalla nostra telefonata. "La sua storia quindi non esiste", conclude minacciando querele. Da un punto di vista amministrativo, effettivamente tutto è "perdonato", come conviene lo stesso Verna, pur confermando che resta il nodo dei 14 anni di esercizio della professione (dal 2005 al 2019), senza essere iscritto all' Ordine professionale. Complicando ulteriormente una vicenda che aveva già dell' incredibile, e che è venuta a galla nei giorni scorsi, quando un avvocato aveva scritto all' Ordine nazionale chiedendo conto proprio dell' iscrizione all' albo dei professionisti di Fubini (nel 2002). Era quindi emerso così che, tre anni dopo l'iscrizione, Fubini nel 2005 veniva cancellato dall'albo per il mancato versamento dei contributi, continuando a esercitare la professione con un contratto giornalistico, con tanto di contributi versati all'ente pensionistico della categoria, l'Inpgi, e al fondo sanitario Casagit. "Credo che si potrebbe configurare, ma ovviamente lo andrebbe verificato, una sorta di esercizio abusivo della professione. Siamo nell' ambito di un rapporto di lavoro strutturato di carattere giornalistico che è andato avanti per tanti anni", ha commentato Verna, interpellato in merito dal Fatto Quotidiano. "Spero che anche per lui ci sia stata la non conoscenza del provvedimento, spero che non abbia saputo di essere stato cancellato per morosità. Certamente lui per 14 anni non si è mai posto il problema di andare a pagare le quote dell' Ordine", aveva aggiunto Verna prima di ricevere la notizia dell' avvenuto "ravvedimento", precisando ancora che "non è assolutamente possibile che un non iscritto all' albo abbia un rapporto di lavoro in base al contratto giornalistico". Nei confronti di un non iscritto, peraltro, l' Ordine non può nemmeno eseguire un' azione disciplinare. Va detto che gli iscritti che sono stati cancellati per morosità "si possono re-iscrivere in qualunque momento, e meraviglia che non lui l' abbia ancora fatto". Ora l' ha fatto. Su Twitter, nella tarda serata di ieri, Fubini scrive: "Il Fatto torna ad attaccarmi, con metodi e obiettivi degni di altri tempi e altri Paesi. Non faranno di me quello che vogliono, un personaggio politico da schierare e attaccare. Non lo sono. Per certa gente provo vergogna e basta".

Un libro sulle "atrocità partigiane". Ma l'Anpi e i dem lo boicottano. A Bologna Forza Italia organizza la presentazione di "Compagno Mitra" di Gianfranco Stella. Protestano l'Anpi e l'assessore Lepore. Bignami: "I partigiani rossi hanno paura", scrive Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 16/01/2019, su "Il Giornale". "Li hanno ammazzati a forza di botte". Piange, Cesare Govoni. Il tempo ricuce i lembi delle ferite ma non il dolore. Alle sue spalle le foto del papà e degli zii trucidati. Cesare è il figlio di Dino, uno dei sette fratelli Govoni torturati e uccisi dai partigiani comunisti della Brigata Garibaldi. Era l'11 maggio del 1945. "Vennero con una scusa - ricorda - Li prelevarono dicendo che il fratello Marino era a Bologna e dovevano andare ad un interrogatorio. Ma poi si fermarono, li chiusero in una stalla a Casadio e li uccisero. Sono stati seppelliti vivi in una fossa". I contorni dell'eccidio di Argelato nel Bolognese rivive nelle parole di chi ancora oggi, a 74 anni di distanza, piange la barbarie del dopoguerra. È il triangolo rosso della morte, una storia spesso offuscata dalle dimenticanze di alcuni. Ieri come oggi. A Bologna la storia di quegli anni divide ancora la politica. Venerdì Forza Italia presenterà l'ultimo libro di Gianfranco Stella, un "saggio storico sulle atrocità partigiane". Ma l'evento dedicato a "Compagno Mitra" ha scatenato la protesta di Anpi e del Pd: i partigiani scenderanno in piazza, i dem invece si "oppongono" a parole. "Trovo vergognoso che si offenda chi non può più difendersi perché morto, Michelini appunto - ha detto l'assessore Matteo Lepore a Repubblica - E poi la dico così: come rappresentanti delle istituzioni, come amministratori, dobbiamo avere il coraggio di opporci e di dire di no. No a questa presentazione, no a manifestazione di stampo neofascista. Proviamo a farlo tutti". L'uscita di Lepore ha scatenato l'ira degli organizzatori. Per Galeazzo Bignami (deputato Fi), Marco Lisei (capogruppo Fi in Comune) e Dalila Ansalone (presidente Azione Universitaria Bologna) il libro di Stella "narra gli eccidi compiuti dai comunisti" e non si tratta di "negazionismo". "Anpi e Pd vogliono boicottarlo - dice Bignami - Credo che il confronto sia sempre giusto e che possa aiutare a capire le posizioni di chi anche non la pensa allo stesso modo. Impedire a qualcuno quindi di esprimere le proprie idee è sempre una sconfitta". Ognuno, in fondo, è libero di pensarla come vuole. Senza bisogno di ricorrere allo spauracchio del revisionismo storico. "È bene che qualcuno si ricordi di come a Bologna e nel bolognese centinaia e centinaia di famiglie abbiano pianto i propri caduti - conclude il deputato - Furono prelevati da volgari assassini ammantati di rosso, che dopo la guerra avevano il solo obiettivo di sostituire una dittatura con un’altra dittatura. Affermarlo non è negazionismo, negazionismo è continuare a negare che i fatti siano questi".

Andrea Romano (Pd): "Luca e Paolo epurati da Freccero": ecco la gag su Toninelli, scrive il 4 gennaio 2019 L’Espresso. "Un violento editto Freccero contro chiunque critichi il governo Lega/M5s: via Luca e Paolo da Rai2, colpevoli di averci fatto ridere su Toninelli. Una gag straordinaria, da rivedere prima che l'epurator Freccero la tolga anche dal web". Lo scrive su Twitter il deputato pd Andrea Romano a proposito dei programmi annunciati dal nuovo direttore di RaiDue Carlo Freccero. Anche la parlamentare dem Alessia Morani punta il dito contro il neodirettore di RaiDue: "il buongiorno di Freccero: epurati Luca e Paolo per leso Toninelli e leso Casalino, sfrattato Costantino della Gherardesca che faceva ascolti, smembrato Nemo. Calata la scure sovranista su raidue".

Freccero: riporta Luttazzi a Raidue ma epura Luca e Paolo? Scrive Angela Azzaro il 6 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Scoppia il caso sul duo comico. Le intenzioni del nuovo direttore di Raidue Carlo Freccero sembravano le migliori possibili. Ad iniziare da una sorta di contro editto Bulgaro – come lo ha definito il Fatto quotidiano – per riportare nella tv di Stato Daniele Luttazzi, allontanato da viale Mazzini, quando al governo c’era Berlusconi nel 2001, e mai più rientrato. «Che servizio pubblico sarebbe altrimenti? È finita – ha spiegato Freccero l’era di Berlusconi e di Renzi, ci mancherebbe che questa nuova epoca proibisse la satira». Queste le parole pronunciate in una conferenza stampa fiume giovedì per presentare la nuova programmazione del secondo canale. Ma – come hanno fatto notare diversi esponenti del Pd nel momento stesso che faceva questo proclama, annunciava la fine della striscia quotidiana del duo comico Luca e Paolo (Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu) Quelli che dopo il Tg. Al suo posto andrà una striscia di informazione, ma per il deputato Pd, Andrea Romano, il vero motivo della scelta è da ricercare nell’imitazione fatta dal duo del ministro delle Infrastrutture. La loro colpa scrive su twitter – è quella «di averci fatto ridere su Toninelli. Una gag straordinaria, da rivedere prima che l’epurator Freccero la tolga anche dal web». Parole durissime riprese anche da un altro piddino, segretario della commissione vigilanza Rai, Michele Anzaldi: «Con lo specchietto delle allodole di Luttazzi in realtà Freccero elimina la satira. Non c’è solo il caso di Luca e Paolo, che pagano per l’imitazione di Toninelli. È grave anche lo spostamento di Enrico Lucci in seconda serata». E per la dem Alessia Morani è tutta la programmazione «sovranista» da mettere sotto accusa: «Il buongiorno di Freccero: epurati Luca e Paolo, sfrattato Costantino della Gherardesca, smembrato il programma Nemo». Paolo Kessisoglu, che insieme a Luca conduce anche il programma sportivo della domenica pomeriggio, smorza i toni, ma non l’allarme: «Parlare di epurazione mi pare esagerato perché siamo ancora su Raidue con Quelli che il calcio. Ma certo ci chiediamo il perché della chiusura di una striscia quotidiana con ascolti in salita e non in discesa. Ancora nessuno ci ha detto niente, ma può capitare». Anche Costantino della Gherardesca smorza i toni e rifiuta il ruolo di vittima. «Nessuna epurazione», dice. «Ma se in Rai non mi vogliono, esistono altre tv». La striscia quotidiana di Luca e Paolo affronta temi di attualità anche politica ma con uno sguardo ironico e con il supporto di un altro comico d’eccezione come Ubaldo Pantani. Tra le sue imitazioni più riuscite quella di Rocco Casalino, portavoce del presidente Conte. Nessun riguardo, come è giusto che sia, nei confronti del governo, a prescindere da chi lo guidi. Sarebbe stato logico continuare su questa strada, visto il successo crescente del programma. Insomma, il dubbio che si tratti, se non di una epurazione, di una censura c’è tutto. Anche perché Freccero in qualche modo aveva annunciato che il contro editto avrebbe avuto un sapore di vendetta. Il suo non è un semplice ritorno in Rai, ma una resa dei conti con chi lo aveva a sua volta “epurato” e confinato a Rai4, lontano dai fermenti della tv pubblica più vista e più produttiva. Alla notizia del ritorno di Luttazzi in Rai (pare comunque in autunno), Sabina Guzzanti ha gioito. «Non torneremo a essere un Paese normale, ma il fatto che ci possa essere una televisione libera e che la cultura possa tornare a respirare aiuta tutto il resto». Chissà cosa dirà ora leggendo la notizia su Luca e Paolo…

Rai, Freccero: "Ma quale epurazione, ho chiesto a Luca e Paolo di fare la parodia di Toninelli a Quelli che il calcio". Il neodirettore di Rai2 era stato accusato di aver penalizzato il duo comico per via dell'imitazione in chiave ironica del ministro delle Infrastrutture. Anzaldi (Pd), attaccato dal direttore di Rai2, replica: "Sta buttando il suo curriculum alle ortiche", scrive Tiziana Testa il 5 gennaio 2019 su "La Repubblica". Luca e Paolo epurati. La striscia del duo comico - Quelli che dopo il tg -  cancellata a causa dell'imitazione del ministro delle Infrastrutture Toninelli. L'accusa, piovuta ieri dal Pd, scuote Carlo Freccero. E il neodirettore di Rai2 decide di rispondere attraverso l'Adnkronos. "Ho chiesto a Luca e Paolo di fare la parodia di Toninelli in diretta a Quelli che il calcio", ha detto Freccero. "Questo dimostra - aggiunge con tono ironico - come siano stati epurati. Gli ho chiesto infatti anche di salutarmi in diretta Michele Anzaldi", riferendosi al deputato del Pd, segretario della commissione di Vigilanza Rai, che lo aveva accusato di voler eliminare la satira dei due comici dalla seconda rete. Anzaldi - parlando con Repubblica - aveva accusato Freccero di aver utilizzato come uno specchietto per le allodole il ritorno in Rai di Luttazzi per oscurare la riduzione della satira non solo con l'abolizione della striscia di Luca e Paolo, ma anche con il ridimensionamento di Enrico Lucci, spostato in seconda serata. Oggi Anzaldi replica al direttore di Rai2 dicendo: "Per la seconda volta Freccero si rivolge a me in modo sprezzante, ma il mio è un ruolo istituzionale in quanto membro della Vigilanza. Dopodiché, vuole farmi salutare in diretta? Tra qualche giorno sarò io a salutarlo con il suo curriculum buttato alle ortiche visto che la striscia di Luca e Paolo sarà sostituita dall'approfondimento di un Tg che ha una miriade di esposti per violazione della par condicio". Anzaldi attacca il direttore del Tg2 Sangiuliano per come sta raccontando il caso dei sindaci che protestano contro il decreto sicurezza ("due giorni fa sono stati definiti “antisicurezza”, ieri è andata in onda a pranzo e a cena l'intervista a un magistrato vicino al centrodestra sulla mancata applicazione della legge). Poi si rivolge al numero uno della Vigilanza, il forzista Alberto Barachini: "Cosa sta facendo? Guardi quante sedute c'erano state nella legislatura precedente con la presidenza di Roberto Fico". Dal duo comico ieri era arrivata già ieri la risposta di Paolo Kessisoglu: "Parlare di epurazione mi sembra esegerato perché siamo ancora su Rai2 con Quelli che il calcio, ma ci chiediamo il perché visti gli ascolti in crescita". A difendere Freccero, e la scelta di esportare la parodia di Toninelli a "Quelli che il calcio", è il senatore M5S Gianluigi Paragone: "Negli anni abbiamo assistito a 'cacciate' esemplari quanto vergognose: Gabanelli, Biagi, Santoro e Luttazzi. Noi non epuriamo nessuno. La satira è sacrosanta e deve essere rispettata".

Censure, editto bulgaro, programmi tv sospesi: quando la politica non ama i comici. Dalla coppia Tognazzi-Vianello a Sabina Guzzanti, la storia del difficile rapporto tra esponenti politici, comicità e satira, scrive Arianna Ascione il 7 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera". A molti (Pd in primis) la cancellazione del programma «Quelli che dopo il Tg» di Luca e Paolo, annunciata venerdì dal nuovo direttore di rete di Rai2 Carlo Freccero, era subito parsa molto sospetta: il duo comico era forse finito nei guai a causa della parodia del Ministro delle Infrastrutture Toninelli (trasformato nei "tre Ninelli")? In seguito alle inevitabili polemiche Freccero aveva precisato di aver chiesto ai due di portare il loro sketch in diretta a «Quelli che il calcio», rigettando qualsiasi accusa di 'epurazione'. Ma, come si può facilmente evincere da quanto accaduto, il tema ovvero il rapporto tra comici e politica è spinoso e anche la storia della televisione italiana è costellata di scontri celebri, programmi televisivi sospesi, clamorosi abbandoni e vere e proprie censure.

Dario Fo. A causa del veto imposto su uno sketch sulla sicurezza nei cantieri edili Dario Fo, che nel 1962 conduceva insieme a Franca Rame «Canzonissima», decise di abbandonare la trasmissione (insieme a Rame). L'attore aveva già portato in scena all'interno del programma altri monologhi su temi sociali scottanti, che provocavano continui contrasti con i dirigenti Rai, ma di fronte a questa censura decise di abbandonare definitivamente il progetto.

Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello. Il programma di varietà «Un, due, tre», con Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello, andava in onda da ormai sei stagioni quando nel 1959 subì una brusca e inaspettata interruzione. Tutta colpa di uno sketch dei due comici, una parodia di quanto accadde all'allora Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi che al Teatro alla Scala cadde a terra mentre si stava sedendo su una sedia, alla presenza del suo omologo francese Charles De Gaulle in visita ufficiale in Italia. Dopo che la scenetta andò in onda Tognazzi e Vianello vennero licenziati in tronco e la trasmissione fu chiusa.

Daniele Luttazzi. Il comico Daniele Luttazzi (che Freccero vorrebbe riportare in tv) è tra i protagonisti, insieme ai giornalisti Enzo Biagi e Michele Santoro, del famoso 'editto bulgaro': nel 2002 i tre vennero citati dall'allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi durante una conferenza stampa indetta in occasione di una visita ufficiale a Sofia e accusati di un «uso criminoso della tv pubblica» («L'uso che Biagi - come si chiama quell'altro? - Santoro - ma l'altro? - Luttazzi, hanno fatto della televisione pubblica, pagata coi soldi di tutti, è un uso criminoso. E io credo che sia un preciso dovere da parte della nuova dirigenza di non permettere più che questo avvenga»). Nei mesi successivi i programmi condotti da Santoro e Biagi non vennero confermati per la stagione successiva. «Satyricon» invece, condotto da Luttazzi, era già stato chiuso nel 2001 in seguito alle polemiche per un'intervista al giornalista Marco Travaglio su Berlusconi e Dell'Utri - e conseguenti cause legali -.

Sabina Guzzanti. Sabina Guzzanti ha fatto in tempo a portare in tv una sola puntata del suo programma, «Raiot - Armi di distrazione di massa» (2003): a causa di una querela per diffamazione targata Mediaset (vinta poi dall'attrice) la trasmissione - che fu poi riproposta in teatro negli anni successivi - venne sospesa. La vicenda ispirerà il film documentario «Viva Zapatero!» (2005).

Beppe Grillo. Fondatore del Movimento 5 Stelle insieme a Gianroberto Casaleggio Beppe Grillo è rimasto lontano dalla Rai diversi anni (dal 1986 al 1993) «per due battute che anticipavano Tangentopoli» (evento rievocato anche nella postfazione del libro «Regime» di Marco Travaglio e Peter Gomez, scritta dal comico). Una di queste fu pronunciata in prima serata su Rai Uno durante Fantastico 7, il 15 novembre 1986: «Ma allora se (in Cina ndr.) sono tutti socialisti a chi rubano?».

Paolo Rossi. RaiDue nel 2005 bloccò la messa in onda della seconda puntata di uno spettacolo satirico di Paolo Rossi, «Questa sera si recita Moliere - Nuovo delirio organizzato». Uno stop inatteso, dato che la prima puntata aveva ottenuto ottimi riscontri. «Quando mi hanno comunicato che la prima parte era stata vista da un milione di persone ero entusiasta - disse il comico commentando la decisione della rete - però subito dopo ho pensato che in quel milione poteva esserci anche qualcuno che me lo avrebbe bloccato. E così è stato».

C’è una nuova guerra mondiale. Ed è quella dell’informazione, scrive Lorenzo Vita il 2 gennaio 2019 su Gli Occhi della Guerra su Il Giornale. Russia, Stati Uniti, Cina, Unione europee e potenze internazionali combattono una guerra senza esclusione di colpi sul fronte dell’informazione. Questo nuovo dominio su cui si confrontano il mondo, molti lo chiamano (spesso erroneamente) information warfare. Ma l’importante è il concetto. Esiste un nuovo dominio, oltre a terra, mare, cielo, spazio e che corre parallelo al cyber. È il dominio dell’informazione e dell’utilizzo dei media. Campo di battaglia fondamentale per comprendere le dinamiche del mondo e soprattutto per comprendere anche l’importanza che assumono certe indagini e scontri internazionali che riguardano l’uso dei media. Non è un mistero che il 2018, come gli anni immediatamente precedenti, siano stati segnati dallo scontro sulla cosiddette fake news. Il dibattito politico è costantemente riempito da questa terminologia con’ cui si accusano gli avversari di riportare notizie o dati falsi per aumentare il consenso o danneggiare gli oppositori. Entrata nel vocabolario di tutti i giorni anche grazie all’utilizzo del termine da parte di Donald Trump nella campagna elettorale per la Casa Bianca, oggi una fake news si può considerare effettivamente un’arma. E quello scontro che appare puramente politico, sta assumendo sempre più i connotati di un vero e proprio conflitto che rientra in un gioco internazionale ben più importante e grave di quanto si possa credere. La dimostrazione arriva soprattutto dagli Stati Uniti, dove sono in corso indagini su indagini, legate al filone Russiagate, sulla presunta manipolazione delle informazioni da parte della Russia. Gli apparati di intelligence americani e molti segmenti della politica statunitense, sia democratica che repubblicana, accusano Mosca di aver organizzato una rete di disinformazione allo scopo di avvantaggiare Trump e colpire Hillary Clinton. L’accusa nei confronti di Mosca è di essere una centrale di disinformazione che sfrutta le notizie false per cambiare gli equilibri politici di un Paese. Accuse che sono tornate di recente in auge anche in America, con un editoriale di Renée Di Resta, leader di una società di cybersicurezza incaricata dal Senato di analizzare le presunte manipolazioni russe. Come ha scritto Il Corriere della Sera, il capo dell’organizzazione “la mette giù dura: parla di guerra mondiale dell’informazione e, in un editoriale sul New York Times, afferma che è iniziata una corsa agli armamenti che non può essere vinta, visto che gli arsenali sono in continua evoluzione. Ma può essere gestita per minimizzare i danni se politica, aziende digitali e utenti si rendono conto della gravità di quanto sta accadendo, dei rischi per la democrazia, e accettano davvero di cooperare”. I rapporti commissionati dal Senato statunitense hanno dato un quadro che conferma quanto affermato da sempre sia dai democratici che dai repubblicani contrari a Trump: la Russia, secondo le accuse, avrebbe diffuso notizia false non solo per favorire The Donald ma anche per costruire una sorta di platea elettorale più vicina al candidato repubblicano. Addirittura c’è chi parla di un piano per allontanare la popolazione nera dalle urne in modo che l’assenza dell’elettorato afroamericano favorisse l’elezione dell’attuale presidente degli Stati Uniti. Accuse che hanno avuto e che continuano ad avere un impatto non indifferente anche nei rapporti politici fra Stati Uniti e Russia. Perché è del tutto evidente che accusare un governo di aver messo in atto una campagna disinformativa allo scopo di orientare il proprio elettorato, incide non solo sui rapporti fra un presidente eletto e un Paese (come avvenuto con Trump), ma mina tutti i rapporti, sia a livello culturale che politico. Di fatto è uno scontro che modifica il modo di relazionarsi fra due Stati. Ma escludendo il solo scontro fra Mosca e Washington, la guerra dell’informazione si allarga anche nel resto dell’Occidente e dei conflitti in corso. La manipolazione dell’informazione esiste e viene utilizzata da tutti. Da chi vuole sostenere una protesta come da chi vuole invece sostenere un governo. Ma c’è anche chi ha utilizzato fake news per scatenare guerre o per sostenere interventi armati o raid punitivi, come nel caso della Siria. E questo mina profondamente anche la credibilità stessa del mondo dei media, che entrano in campo più o meno consapevolmente in una guerra che ha dei risvolti enormi. Sia dal punto di vista interno che internazionale. Proprio per questo motivo, c’è chi inizia a parlare di questa minaccia in termini diversi. Dopo il “deep State”, ora si inizia a parlare anche di “deep fake”: un sistema profondo, radicato e estremamente complesso che riuscirebbe non solo a manipolare l’informazione, ma anche le stesse immagini, gli audio e i video per costruire notizie totalmente false ma che iniziano a circolare in rete. E nel mondo dell’informazione di oggi, bastano pochi minuti perché un video diventi virale, anche se completamente falso. E adesso le accuse non arrivano solo nei confronti di Trump, ma anche nei confronti di tutti quei leader considerati in qualche modo scomodi. Nona caso negli ultimi tempi c’è chi ha iniziato a parlare di fenomeno fake news in Brasile, Paese che vede l’elezione di Jair Bolsonaro. Secondo le agenzie di fact-checking, il Brasile è il Paese dove attualmente circolano più notizie false sui social network. Ed è un fenomeno che molti analisti stanno osservando anche in Africa e in tutta l’America Latina, soprattutto attraverso Whatsapp. L’idea è che possa esserci qualcosa di molto più grande. E lo dimostra anche l’attuale assedio nei confronti di Mark Zuckerberg, attuale proprietario sia di Facebook che di Whatsapp.

«Mosca ha interferito nell’elezione di Trump, ma lui non lo sapeva». Usa, pubblico il rapporto Muller sul Russiagate. Confermate le conclusioni del procuratore. Certa l’ingerenza dei russi nelle presidenziali 2016. Nessuna prova sul ruolo del Tycoon, che esulta: «una bufala storica», scrive Alessandro Fioroni il 19 Aprile 2019 su Il Dubbio. C’era una grande attesa per la conferenza stampa che il procuratore generale William Barr ha tenuto ieri, 9.30 ora locale, a Washington. Al centro dell’incontro con i media l’ormai famoso “rapporto Muller”, il documento finale sulle presunte intromissioni russe nella politica statunitense, in particolar modo nelle elezioni presidenziali del 2016 che portarono alle elezioni di Donald Trump. In realtà il documento completo e le sue conclusioni sono state consegnate al Congresso, a maggioranza democratica, solo nel tardo pomeriggio. La circostanza di una conferenza stampa, indetta prima che i deputati fossero a conoscenza dell’intero documento, ha da più parti sollevato concreti dubbi. Il sospetto è stato quello che questa mossa fosse stata architettata per modellare la percezione pubblica a favore del presidente. In 22 minuti Barr ha ripercorso la vicenda del “Russiagate” e sostanzialmente ha confermato il contenuto che era stato estrapolato e reso noto dal Dipartimento di Giustizia nel marzo scorso. Il procuratore generale ha confermato sostanzialmente che interferenze russe vi furono e sono state accertate ma non si arriva alla conclusione «che persone che si sono occupate della campagna elettorale di Trump abbiano collaborato o si siano coordinate con il governo russo». Inoltre Barr ha anche ribadito la piena collaborazione da parte della Casa Bianca alle indagini. Insomma «no collusion», nessuna relazione pericolosa tra Trump e i troll russi. Il procuratore Barr, per la verità con una certa leggerezza, ha dichiarato alla stampa di aver preso in esame 10 circostanze nelle quali Trump potrebbe aver manovrato in modo di porre degli ostacoli all’inchiesta del consulente speciale Robert Muller. E’ questo il passaggio che ha suscitato le maggiori perplessità in quanto Barr ha giustificato l’atteggiamento del presidente come il risultato di frustrazione e rabbia. In realtà Trump ha sempre rifiutato di essere ascoltato da Muller; si tratta di un elemento fondamentale perché questo atteggiamento non ha permesso di giungere a prove sufficienti tali da stabilire che il presidente abbia commesso il reato di ostruzione alla giustizia. Sembra così essere arrivata al termine, con la vittoria di Trump, una vicenda iniziata con il licenziamento del capo dell’Fbi, James Comey, che ha visto il coinvolgimento di 19 avvocati, numerosi agenti del Federal Bureau oltre a informatici ed analisti. Ma se dalla casa Bianca “The Donald” ha twittato immediatamente un significativo “Game Over” forse la storia non si è ancora chiusa del tutto. Riamane da sapere quali sono le prove, sebbene insufficienti, sul coinvolgimento russo che trovò Muller. Un compito che ora spetta al Congresso, il lavoro del quale è separato da quello giudiziario. I democratici poi sicuramente non allenteranno la presa sulle altre grane di Trump come le presunte violazioni delle norme sul finanziamento alla politica, i sospetti per un caso di molestie sessuali. Per non parlare dei rapporti quantomeno opachi tra il suo impero economico e il fisco.

Federica Olivo per huffingtonpost 18 aprile 2019.  "Non c'è nessuna prova sul fatto che un americano qualsiasi - e nello specifico qualche membro della campagna presidenziale di Trump - fosse colluso con il governo russo". William Barr, segretario di Stato alla giustizia, illustra in conferenza stampa le conclusioni della relazione del super procuratore Robert Mueller sul Russiagate, in anticipo rispetto alla consegna di queste al Congresso. Decisione, quest'ultima, che ha suscitato le ire dell'opposizione, con la speaker democratica che ha chiesto a Mueller di andare a testimoniare davanti ai deputati. "Il report conferma che il governo russo non ha compiuto alcuna ingerenza nelle elezioni del 2016 e che non è stata trovata nessuna traccia che qualche americano cospirasse con il Cremlino. Nella sua lunga inchiesta - conosciuta come Russiagate - Mueller ha esaminato dieci episodi in cui Donald Trump avrebbe ostruito il percorso normale della giustizia, ma non ha raccolto prove sufficienti per incriminarlo. Nonostante le conclusioni siano, quindi, favorevoli a Trump, Barr si mostra in disaccordo con Mueller su quest'ultimo punto dell'inchiesta. Ha spiegato, infatti, di non condividere il fatto che il superprocuratore abbia analizzato questi dieci casi. Lui e il suo vice, Rod Rosenstein - ha argomentato - si sono trovati in disaccordo con alcune delle "teorie giuridiche" di Mueller.  "Il rapporto contiene dieci episodi che riguardano il presidente e affronta teorie giuridiche potenziali per collegare queste azioni a elementi di un reato di ostruzione -ha spiegato -sebbene non ci siamo trovati concordi con qualcuna delle teorie giuridiche del procuratore speciale e abbiamo ritenuto che alcuni di questi episodi esaminati non equivalessero a ostruzione della giustizia, tuttavia non ci siamo basati esclusivamente su questo per prendere la nostra decisione". Non è chiaro quali siano gli episodi di cui parla Barr, ma alcuni sono noti, in particolare il licenziamento di James Comey allo scopo di bloccare l'inchiesta sulle collusioni tra la campagna elettorale e la Russia: in un'intervista alla Nbc Trump ammise che "questa cosa russa" era nella sua mente quando decise di licenziare il direttore dell'Fbi. Un riferimento poi all'episodio che ha scatenato l'inchiesta: la diffusione, da parte del sito Wikileaks, di circa 20mila email dello staff della campagna presidenziale di Hillary Clinton, che sfidava il tycoon nel 2016. "Nessuna persona associata con il presidente Trump ha illegalmente partecipato alla diffusione" di materiale hackerato, come le mail sottratte al Consiglio nazionale dei democratici (Dnc) e a John Podestà, capo della campagna elettorale di Hillary Clinton, ha sottolineato Barr. Gli avvocati di Donald Trump hanno avuto modo di vedere il rapporto di Robert Mueller prima della sua pubblicazione. Lo ha spiegato Barr, sottolineando che la Casa Bianca non ha richiesto o effettuato modifiche al rapporto, non ha rivendicato il privilegio esecutivo, con il quale avrebbe potuto bloccare la pubblicazione di alcune informazioni private. La Casa Bianca, continua il ministro della Giustizia "ha cooperato pienamente con le indagini" di Mueller. Per i legali del presidente le conclusioni del report sono "una vittoria totale". Dal canto suo Trump ha festeggiato la notizia su Twitter. Tanti i post in cui ha evidenziato che non ci sono prove a suo carico. Nell'ultimo utilizza un'immagine ripresa dalla serie Game of Thrones. "Nessuna collusione, nessuna ostruzione. Game over per gli hater democratici e radicali di sinistra", si legge nella foto. Ha causato molta tensione a Washington la scelta di Barr di presentarsi alla stampa poco prima che il documento, comunque depurato di tutta una serie di dettagli, venisse messo a disposizione del Congresso. Il democratico Jerry Nadler lo ha accusato di non aver lasciato che "i fatti parlassero da soli", decidendo di incontrare prima la stampa. "Il ministro della Giustizia Barr ha confermato lo sconcertante fazioso tentativo dell'amministrazione Trump di orientare la visione del pubblico sul rapporto Mueller, completato dall'ammissione che il team di Trump ha ricevuto un'anteprima. È più urgente che mai che il procuratore speciale Mueller testimoni davanti al Congresso", ha scritto su Twitter la speaker democratica alla Camera degli Stati Uniti, Nancy Pelosi.

Giuseppe Sarcina per il ''Corriere della Sera'' il 19 aprile 2019. Washington Robert Mueller elenca i dieci tentativi condotti da Donald Trump per bloccare o arginare l' inchiesta sul «Russiagate». Ma il superprocuratore conclude «di non essere in grado» di stabilire se il presidente abbia commesso il crimine passibile di impeachment : ostruzione della giustizia. Ieri il ministro della Giustizia William Barr ha diffuso il rapporto di 448 pagine. Confermato il risultato essenziale: «nessuna prova di collusione» tra il comitato elettorale di Trump e la Russia per interferire nelle elezioni presidenziali del 2016. Il leader della Casa Bianca è passato all' incasso politico con un tweet: «Nessuna collusione, nessuna ostruzione!». I democratici, invece, chiedono a Mueller di testimoniare al Congresso «il più presto possibile». C' è un punto fermo nell' indagine durata due anni. Il governo russo ha condotto azioni di disturbo per destabilizzare la competizione presidenziale del 2016. Tra gli strumenti messi in campo, spicca la campagna di disinformazione sui social alimentata dalla Ira, Internet research agency, con sede a San Pietroburgo. La società era finanziata dall' oligarca Eugeny Prigozhin, boss del catering, talmente vicino al presidente russo da essere soprannominato «il cuoco di Vladimir Putin». In parallelo agivano gli agenti del servizio segreto militare di Mosca, il Gru. Sono stati loro a rubare le email dal server del comitato elettorale di Hillary Clinton e poi a passarle a WikiLeaks. Il documento descrive la fitta rete di contatti tessuta dai consiglieri di Trump. George Papadopoulos aveva ricevuto da Joseph Mifsud, un professore attivo a Londra e collegato anche con l' Università Link di Roma, l' offerta di «materiale compromettente» su Hillary. Non se ne fece nulla. Stesso discorso per i legami intrecciati da Carter Page, Paul Manafort, fino al generale Michael Flynn che incontrò diverse volte l' ambasciatore russo a Washington, Sergei Kislyak, promettendogli che l' amministrazione Trump avrebbe cancellato le sanzioni imposte da Barack Obama. Ma non esistono le prove che anche solo una di queste relazioni spericolate si sia trasformata in una vera cospirazione. Il passaggio più atteso era quello sull' ostruzione della giustizia. Mueller offre solo una risposta parziale: «Se avessimo la certezza, dopo aver svolto un esame approfondito dei fatti, che il presidente non abbia commesso ostruzione della giustizia, lo affermeremmo. Ma sulla base dei fatti e degli standard di legge applicabili in questo caso, non siamo in grado di raggiungere quel giudizio. Di conseguenza, da una parte questo rapporto non conclude che il presidente abbia commesso un crimine, ma nello stesso tempo non lo assolve». Il testo analizza dieci episodi, tutti noti.

Si parte da metà gennaio del 2017, quando Trump convoca il direttore dell' Fbi, James Comey, e gli chiede «di lasciar andare quel bravo ragazzo di Flynn». Niente da fare. Trump licenzia brutalmente Comey e il 17 maggio il viceministro Rod Rosenstein nomina superprocuratore Robert Mueller e gli affida il dossier. «È la fine della mia presidenza», commenta Trump, che da quel momento moltiplicherà gli sforzi per rimuovere Mueller o almeno arginarne il raggio d' azione. Il presidente cerca di confondere le carte, spingendo il figlio Donald Trump jr a mentire sull' incontro organizzato alla Trump Tower il 9 giugno 2016 per ottenere «materiale compromettente» su Hillary Clinton da un' avvocata russa. Su ordine del padre, Donald jr in un primo momento sostiene che nel meeting si era parlato solo di adozioni. Stesso schema con Michael Cohen, l' avvocato personale di Trump. Cohen viene indotto dal suo capo a sostenere che la trattativa con i russi per la costruzione di una Trump Tower a Mosca si era interrotta all' inizio della campagna elettorale, mentre era proseguita per tutto il 2016. Tutto ciò è compatibile con l' articolo 2 della Costituzione che assegna ampi poteri di intervento al presidente? Mueller non ha risolto il dubbio.

Chi ha scritto il rapporto Mueller? La pista in un indizio. Tipografico. Pubblicato domenica, 21 aprile 2019 da Davide Casati su Corriere.it. C’è qualcosa di anomalo, nel rapporto Mueller. E per una volta non ci si riferisce al contenuto di questo gigantesco (446 pagine) report, con il quale il superprocuratore ed ex capo dell’Fbi ha tentato di capire se ci fosse stato un coordinamento tra la campagna elettorale di Donald Trump e la Russia durante le ultime presidenziali statunitensi. No, l’anomalia di cui parliamo qui — e che è stata scovata dal sito Quartz — è tipografica. Perché ogni frase del rapporto (che potete leggere per intero, omissis a parte, qui, e che è stato pubblicato il 18 aprile dal ministro della Giustizia William Barr) si conclude nello stesso modo: con una doppia spaziatura dopo il punto. Come si vede nella foto sopra, l’effetto grafico è bizzarro (anche perché sommato all’assenza di spazi dopo i trattini). Qual è la ragione di questa particolarità? La risposta è semplice: si tratta di un retaggio del passato. Per la precisione: di un passato nel quale si utilizzavano non i computer, ma le macchine per scrivere. A differenza dei pc, infatti, le macchine per scrivere assegnavano a ogni lettera lo stesso spazio: sia che si trattasse di lettere «larghe» (come le “m”) sia che fossero, invece, «smilze» (come le «l» o i segni di interpunzione). Per evitare confusioni, a chi imparava a battere a macchina veniva dunque insegnato di concludere ogni frase con un punto seguito da un doppio colpo sulla barra spaziatrice. Quella regola, però, è stata di fatto cancellata dalla scomparsa delle macchine per scrivere. Perché questa piccola anomalia può avere una qualche rilevanza? Semplice: perché svela qualcosa riguardo a chi abbia materialmente scritto il gigantesco documento. Potrebbe essere stato lo stesso Mueller, un collaboratore, una segretaria: ma di sicuro qualcuno di una certa età (come il superprocuratore, appunto, che ha 74 anni). Insomma, come scrive Quartz: a conoscere «ben di più dell’americano medio quel che si cela dietro a quelle righe di omissis» c’è di sicuro qualcuno che ha molte primavere alle spalle.

AMERICA FATTA A MAGLIE. Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 20 aprile 2019. Game Over, twitta  il presidente  con soddisfazione,  e poi lancia la provocazione: governerò per altri 10 o 14 anni. Trump adora epater i suoi odiatori, sembra volerne provocare le reazioni più infantili con battutacce come questa. Certo, la macchia che ha oscurato e minacciato i suoi primi due anni e mezzo di presidenza, che per altri versi si potrebbe considerare ricca di straordinari successi in campo economico ed anche internazionale, la macchia terribile di un presidente che ha vinto solo grazie all'inganno, che per farlo si è venduta a una potenza straniera, un traditore della patria, è stata lavata, e i vari Pelosi, Schumer, Shiff,Nadler Sanders, hanno poco da strillare  perché  dal Russia Gate non è uscito niente, neanche a spremerlo come un limone. Che però sia finita,  questo no. Macché. Ovvio che non finirà mai, non sarete mica stati così ingenui da credere che sia sufficiente per farla finita con la nuova guerra civile americana versione XXI secolo che il  procuratore speciale Robert Mueller  non abbia trovato assolutamente niente  in quasi due anni di indagine, centinaia di collaboratori utilizzati e decine di milioni di dollari spesi, più la pistola puntata alla tempia di dovercela  fare per forza a trovare qualcosa, visto che appartiene al gruppo di potere  scalzato, che di mollare non ne vuole sapere! No, leggetevi i titoli dei  giornali americani , ascoltate tra lo scandalizzato e il divertito un bel dibattito di Cnn, poi virate sui giornali italiani e su qualche sano corrispondente TV, e scoprirete che arrampicarsi sugli specchi e’ ancora lo sport mondiale, saprete che Trump non è né colpevole innocente, non è incriminato e non è scagionato, non ha fatto ostruzione attiva ma potrebbe averla fatta passiva, ci sono stati almeno 10 potenziali tentativi di ostacolare la giustizia ma nessuna prova che lo fossero, e insomma che alla fine, siccome niente è stato trovato, allora si ricomincia con le indagini perché all’ impeachment si deve in qualche modo arrivare, o almeno a una situazione di caos permanente. Si deve qualche modo arrivare perché il Partito Democratico questa terribile strada ha scelto di praticare invece di un agenda politica, anche perché quell’ agenda là dove c'è, è talmente estremista e radicale che voti, salvo in alcune strisce costiere, New York, Boston, Los Angeles, San Francisco, Seattle, non solo non gliene porta, gliene toglie. Sarà anche cambiato tutto nella politica americana come in quella globale, gli estremi si saranno anche radicalizzati e incarogniti, ma il Partito Democratico delle neo barricadere alla Ocasio Cortez, delle velate antisemite alla Ilhan Omar, il voto della classe media non l'ha preso mai, tantomeno un presidente. Avrete capito che  la storia bollita  dell'indagine speciale sul cosiddetto Russia Gate finita in niente è tornata alla ribalta perché il dipartimento di Giustizia ha diffuso il rapporto del procuratore speciale. Non dice niente che non sapessimo, ovvero che Mosca ha interferito nelle elezioni americane (e quando mai non lo ha fatto, e non solo in quelle americane), ma non c'è stata collusione con la campagna del presidente. Se non c'è stata e il procuratore ha dovuto gettare la spugna, ci pensano i media a intervenire. Sentite. "Sono fottuto, è la fine della mia presidenza". Donald Trump reagì così, il 17 maggio 2017, quando fu informato sulla nomina di Robert Mueller a procuratore speciale per il Russiagate. Il dettaglio è inserito nel rapporto di 448 pagine pubblicato dal Dipartimento di Giustizia. A pagina 78, si legge che Trump fu informato dall'attorney general, Jeff Sessions. "O mio Dio. È terribile. Questa è la fine della mia presidenza. Sono fottuto", disse Trump secondo la documentazione raccolta dagli investigatori. Che Trump si sia spaventato ed irritato è dimostrazione evidente di colpevolezza, argomentano i nostri, mentre a voi sicuramente viene in mente che un neo presidente il cui ministro sia così debole non solo da non rappresentarlo e difenderlo, ma addirittura da far nominare un procuratore generale per investigare sulla sua campagna elettorale, sìa invece ragione di letizia e leggerezza. “Sono appena diventato presidente, contro tutto e tutti, compreso il partito repubblicano che dovrebbe essere il mio partito, mi fate subito partire il fuoco amico di un'indagine, ci mettete a capo un nemico potente ex direttore dell' FBI, perché dovrei essere arrabbiato?” Di pasta ben diversa da quella dell'ex Attorney General, Jeff Sessions, è l'attuale,, William Barr, che giovedì pomeriggio ha  detto per l'appunto che le interferenze russe nella campagna elettorale americana ci sono state ma che non c'è stata nessuna collusione tra lo staff del presidente e Mosca. Barr ha rivelato anche i famosi "10 episodi" analizzati accuratamente nell'indagine, in cui Trump avrebbe cercato di ostacolare la giustizia. Che questo tentativo sia vero non è stato dimostrabile ne’  dimostrato. Barr  ha difeso Trump  sostenendo che Il presidente è stato messo sotto pressione "da parte dei pubblici ministeri federali" e che si è verificata  "una spietata speculazione nei mezzi di informazione sulla colpevolezza personale del presidente". Argomenti definiti scandalosa pubblicità di parte da alcuni esponenti del partito democratico, ma a parte il fatto che quello è un ministro di Trump, non sembrerebbero argomenti così peregrini per chi abbia seguito  le vicende americane dal 2015 in avanti. Ci sarebbe anche l'obiezione costituzionale secondo la quale se il presidente è il responsabile e amministratore numero uno della Giustizia, non si capisce come possa essere anche colui che fa ostruzione alla giustizia. Semplicemente decide. Ma sulla questione del presunto ostacolo alla giustizia, Mueller si è cavata qualche magra soddisfazione e ha lanciato qualche appiglio agli amici democratici, che ora invece di dichiarare morta e sepolta la questione, vorrebbero chiamarlo a deporre al Congresso. Ma che cosa potrebbe dire di più e di diverso da quel che ha scritto? Il procuratore speciale scrive nel rapporto: "se avessimo la certezza, dopo un'indagine approfondita dei fatti, che il presidente chiaramente non ha commesso ostruzione alla giustizia, lo diremmo". Ma anche: "sulla base dei fatti e degli standard legali applicabili, in ogni modo, non siamo stati in grado di arrivare a tale conclusione". Come mai? Mueller precisa che "gli sforzi presidenziali per influenzare l'inchiesta sono per lo più falliti, ma questo in gran parte è perché le persone che circondavano il presidente si sono rifiutate di rispettare gli ordini o di aderire alle sue richieste". Ma come, e i grandi pentiti, i mascalzoni collaboratori di Trump come  Manafort e Cohen, dei quali per mesi si è detto che per salvarsi il culo fossero pronti a raccontare tutte le nefandezze del loro capo? E se  fosse vero il rifiuto di alcuni, se collaboratori o ex collaboratori della campagna Trump avessero esplicitamente dichiarato di essere stati invitati a delinquere, e di aver detto di no, questo avrebbe costituito comunque una prova, o no? Cercasi straccio di pretesto a cui per continuare a gettare fango sulla presidenza e sulla nazione, al contrario di quanto William Barr ha invitato a fare ovvero ritenere che il risultati dell'indagine  “is something that all Americans can and should be grateful to have confirmed”, sia qualcosa di cui tutti gli americani possono e dovrebbero essere grati di essere stati rassicurati. Non Hillary Clinton, prima accusatrice sulla possibile collusione perché non intese accettare la sconfitta, ed ora possibile bersaglio, assieme ad altri importanti componenti della passata Amministrazione Obama, di una contro indagine. Ma di questo parleremo nella prossima puntata. Ora preme ricordare che l'intero sistema politico americano è stato viziato da un'indagine così terribile e su accuse così gravi.  Ha il Russia Gate influenzato o no  il voto di componenti del Congresso sulle tasse, i confini, ha influenzato il risultato delle elezioni del novembre scorso di meta’ mandato?. Con che cuore infatti si può chiedere a un americano di votare per gli uomini di un presidente che potrebbe essere nelle mani di Putin? Quanta resistenza nelle trattative per accordi internazionali hanno opposto nazioni come la Cina o la Corea del Nord, proprio perché ritenevano Trump un presidente dimezzato dall'inchiesta? Qui si parla di nucleare. E quanto hanno pensato e sperato di Non doversi ritenere a lungo questo presidente scomodo le nazioni europee sollecitate a pagare la quota Nato, o sfidate da Trump nella battaglia dei dazi? Vi dicevo dell'altro lato della storia,  che ora dovrà essere investigato, si spera con la stessa accanita serietà. Sono seriamente sospettate di deviazioni le agenzie di servizi e di polizia, la CIA e Fbi, per dirne due per avere prima lavorato per fare eleggere a tutti i costi Hillary Clinton nascondendo nei comportamenti illegali e criminali,, poi altrettanto alacremente aver lavorato per minare la presidenza Trump. I nuovi nomi da investigare si chiamano Jim Comey, John Brennan and James Clapper. Poi si va più su ancora di rango nel passare da accusatori ad accusati, e giovedì William Barr ha promesso che queste indagini si faranno. Vedremo.

IL RUSSIAGATE, LA PIÙ GRANDE FAKE NEWS DI QUESTA GENERAZIONE. DAGONOTA del 27 marzo 2019. Trump aveva pagato il silenzio di una pornostar. È questa l’unica certezza che esce dalla mega inchiesta denominata “Russiagate” che, come abbiamo detto su questo disgraziato sito fin dall’inizio con Maria Giovanna Maglie, si è dimostrata essere una gigantesca bolla, gonfiata ad arte dall’intero sistema mediatico americano, che da subito aveva respinto il puzzone arancione e sperava in San Mueller, il procuratore speciale mandato dal cielo che li avrebbe liberati dal cattivo presidente venduto al nemico, riportando l’ordine naturale delle cose. Peccato che, come spiega alla perfezione Matt Taibbi in questo estratto del suo libro “Hate inc.”, tutta la vicenda fosse chiara fin dall’inizio. “Non c’è mai stata un’area grigia. O Trump è un agente venduto al nemico, o non lo è. E se non lo è, i media ancora una volta hanno messo in atto una gigantesca campagna di disinformazione, un errore molto, molto più grande di qualsiasi altro fatto nel passato, compresa la grande truffa delle armi di distruzione di massa”. Abbiamo tradotto e “arrangiato” gli estratti Da “Hate inc”, libro di Matt Taibbi, editor di "Rolling Stone", di cui l’autore ha pubblicato in anteprima una parte su taibbi.substack.com all’indomani della consegna del Rapporto Mueller. All’interno dell’articolo originale, che vi consigliamo di leggere dall’inizio alla fine, ci sono i link a ogni singola citazione riportata. Nessuno vorrebbe sentirselo dire, ma la notizia che il procuratore speciale Robert Mueller se ne torna a casa senza un’accusa seria è il colpo di grazia alla reputazione del sistema dei media americani. Come si vociferava da tempo, l’indagine indipendente dell’ex capo dell’FBI si è conclusa senza l’incriminazione per cospirazione, che avrebbe potuto compromettere la presidenza, né niente che possa definirsi tecnicamente “collusione con la Russia”. Con la premessa che persino questa notizia possa in qualche modo essere rigirata e strumentalizzata, il dettaglio chiave in molti articoli sulla fine dell’indagine è stato espresso al meglio dal New York Times: Un alto funzionario del dipartimento di giustizia ha detto che Mueller non avrebbe proposto nuove incriminazioni. (A senior Justice Department official said that Mr. Mueller would not recommend new indictments). Il ministro della giustizia americano William Barr ha inviato una lettera al congresso sintetizzando le conclusioni di Mueller, citando direttamente il report del procuratore speciale: “L’indagine non ha riscontrato che i membri della campagna di Trump abbiano cospirato o si siano coordinati con il governo russo nelle sue attività di interferenza nelle elezioni.” Durante il fine settimana, il Times ha provato ad ammorbidire la batosta per i milioni di americani che in questi anni erano stati addestrati a sperare che Mueller abbattesse la presidenza Trump. Come nella stragrande maggioranza della copertura sui media, era quasi nulla la pretesa che l’indagine fosse una missione di ricerca dei fatti neutrale, sembrava più un’allegoria religiosa, con Mueller nel ruolo dell’eroe inviato per uccidere il mostro. Il procuratore speciale è letteralmente diventato una figura religiosa negli ultimi anni, si vendevano perfino candele votive con la sua immagine, e il cast del Saturday Night Live intonava e gli dedicava “All I Want for Christmas is You” con la rima: “Mueller please come through, because the only option is a coup” (“Mueller, ti prego, pensaci tu, perché l’unica opzione è un colpo di stato”). Gli articoli del Times ancora oggi provano a preservare la reputazione di “Santa Mueller”, notando come la reazione del ministro della giustizia Barr sia una specie di “endorsement” all’accuratezza del lavoro di Mueller: In un apparente endorsement di un'indagine che Trump ha inesorabilmente attaccato come una "caccia alle streghe", Barr ha detto che i funzionari del Dipartimento di Giustizia non sono mai dovuti intervenire per impedire a Mueller di compiere un passo inopportuno o ingiustificato. In alter parole, Mueller non avrebbe mai oltrepassato i confini dati dal suo incarico. Ma si può dire lo stesso dei giornali e dei media americani? Per chi freme nel mantenere vivo il sogno, il Times ha pubblicato la sua solita grafica dei “contatti” tra Trump e la Russia, invitando i lettori a fare i propri collegamenti. Ma in un pezzo separato di Peter Baker, il giornale ha osservato che la conclusione delle indagini porta con sé gravi conseguenze per la stampa: Sarà una resa dei conti per il presidente Trump, certo, ma anche per Robert S. Mueller III,  lo “special counsel”, per il Congresso, per i democratici, per i repubblicani, per i mezzi di informazione e, sì, per il sistema nel suo insieme ...Lo stesso Times si auto-incrimina in prima pagina. Nonostante le infografiche “collega-i-puntini” nell’altro articolo, e nonostante un ulteriore, sorprendente editoriale carico di sentimento che suggeriva che “non abbiamo bisogno di leggere il report” perché tanto sappiamo che Trump è colpevole, Baker almeno ha cominciato a preparare i lettori a una domanda: “Non è che i giornalisti hanno messo insieme troppi pezzi che non combaciano?” Il giornale stava dicendo al mondo che aveva capito: adesso ci si porranno molte domande sul fatto che gli stessi media abbiano fatto errori galattici scommettendo fortemente e senza alternativa in un nuovo e politicizzato approccio, in cui provano a essere fedeli al “giudizio della storia”, oltre al già abbastanza difficile lavoro di essere veritieri. Peggio ancora, con una brutale ironia che tutti avrebbero dovuto vedere arrivare, la stampa ha consegnato a Trump la madre di tutte le questioni elettorali in vista delle elezioni del 2020. Nessuna delle cose di cui Trump sarà accusato d’ora in poi sarà creduta da enormi settori della popolazione, un gruppo che (forse anche grazie a questa storia) adesso è più grande dei suoi originali sostenitori. Come nota lo stesso Baker, il 50,3% degli intervistati in un sondaggio condotto questo mese dice di essere d’accordo con Trump sul fatto che il Russiagate sia una caccia alle streghe. Negli ultimi mesi sono usciti molti articoli che paventavano un finale “deludente” per il Rapporto Mueller, come se un presidente che non è una spia straniera potesse in qualche modo essere una cattiva notizia. Usare apertamente questo linguaggio è sempre stato l’equivalente di un’incriminazione. Quanto bisogna essere ciechi per non rendersi conto che ti fa sembrare in malafede, quando le notizie non corrispondono alle aspettative del pubblico che tu stesso hai sollevato. Non esserne consapevoli è incredibile, è l'equivalente giornalistico di andarsene in giro, a spasso, senza pantaloni. Ci saranno persone che protesteranno: il rapporto di Mueller non prova nulla! Che dire delle 37 incriminazioni? Delle condanne? Delle rivelazioni sulla Trump Tower? Le bugie! L'incontro con Don, Jr.? Le questioni finanziarie! C'è l’indagine del gran giurì in corso e possibili indagini ancora segrete, e poi c’è la commissione d’inchiesta della Camera che...Smettetela. Smettetela. Qualunque giornalista che si butta in questa direzione sta solo peggiorando le cose. Per anni, qualsiasi commentatore e politico democratico a Washington si è eccitato su ogni nuovo titolo di giornale sulla Russia come se fosse l’irruzione al Watergate. Oggi, perfino Nancy Pelosi ha detto che l’impeachment non è possibile, a meno che non si scopra qualcosa così “convincente e schiacciante e bipartisan” contro Trump che valga la pena di essere perseguito nonostante gli evidenti ostacoli politici. La cosa più grossa che questa storia ha scoperchiato, fin qui, è che Donald Trump ha pagato una pornostar. Che è dannatamente lontano da quello che si pensava ci fosse all’inizio, e ogni reporter che finge non sia così deve solo vergognarsi. Fin dall’inizio ci hanno raccontato che c’era di mezzo lo spionaggio: che c’era un contatto segreto tra lo staff di Trump e alcuni loschi personaggi russi che lo avevano aiutato a vincere le elezioni. La narrativa dell’alto tradimento non è mai stata riportata come metafora. Non era tipo “a Trump piacciono i russi così tanto, potrebbe essere una loro spia”. Si parlava letteralmente di alto tradimento, di crimini, di manipolazione delle elezioni, al punto che un ex dipendente dell’Nsa, John Schindler, disse ai giornalisti che Trump sarebbe “morto in galera”. Nei primi mesi dello “scandalo”, il New York Times sosteneva che gli emissari della campagna di Trump avevano avuto “contatti ripetuti” con l’intelligence russa; il Wall Street Journal ci raccontava che i nostri agenti segreti stavano tenendo nascoste informazioni al presidente nel timore che fosse compromesso; uscivano retroscena sui capi dei servizi avevano detto ad altri paesi come Israele di non condividere la loro intelligence con noi, perché i russi potevano avere “strumenti di pressione” su Trump. La Cnn ci ha raccontato che alcuni funzionari del presidente erano in “contatto costante” con “russi noti all’intelligence americana” e che l’ex direttore della CIA, che aveva aiutato a far decollare tutto l’impianto che avrebbe portato all’indagine di Mueller, aveva detto che il presidente era colpevole di “alti crimini e reati”, avendo commesso “atti quantomeno sovversivi”. Nel frattempo Hillary Clinton insisteva nel dire che i russi “non avrebbero potuto sapere come trasformare in armi” annunci e pubblicità politiche se non fossero stati “guidati” da americani. A chi le chiedeva se si riferiva a Trump, disse: “È abbastanza difficile non farlo”. Allo stesso modo Harry Reid disse che “non aveva dubbi” che la campagna di Trump fosse “in combutta” coi russi per aiutarli nelle fughe di informazioni dal Partito Democratico. Niente di tutto questo è stato ritrattato. Per essere chiari, se Trump fosse stato ricattato da agenzie russe come l’FSB o il Gru, se avesse avuto qualsiasi tipo di relazione con l’intelligence russa, sarebbe un crimine ben oltre lo standard “schiacciante e bipartisan”, e Nancy Pelosi starebbe lanciando missili per un impeachment immediato. La questione è che non c'è mai stata una vera area grigia. O Trump è un agente straniero compromesso, o non lo è. E se non lo è, i media hanno ancora una volta inghiottito una gigantesca campagna di disinformazione, solo che questo errore è molto, molto più stupido di quelli fatti nel passato recente, inclusa la grande truffa delle armi di distruzione di massa. Reporter onesti come Terry Moran dell'ABC lo hanno capito: Mueller che torna a mani vuote sulla collusione significa una “resa dei conti per il sistema dei media”. Naturalmente, questa resa dei conti non ci sarà (non c’è mai). Ma ci dovrebbe essere. Perseguendo così questa storia abbiamo infranto ogni regola scritta e non scritta, a partire dal divieto di diffondere informazioni e riportare cose che non possiamo confermare. Il Russiagate ha fatto il suo debutto nelle notizie a metà dell’estate 2016. Ma le radici di questa storia, cioè quando sono cominciate le indagini, risalgono almeno all’anno precedente. Curiosamente, il punto di inizio non è ancora stato fissato, e il pubblico degli stati a maggioranza democratica non sembra neppure essere così interessato a farlo. Tra giugno e luglio 2016, pezzettini del dossier compilato dall’ex spia britannica Christopher Steele, finanziato dal Comitato Nazionale Democratico attraverso lo studio legale Perkins Coie (che a sua volta ingaggiò una società che si occupa di raccogliere informazioni sugli avversari politici, la Fusion GPS), erano già nell’etere. Il rapport Steele occupa nel Russiagate lo stesso ruolo che le trame tessute da Ahmed Chalabi occupavano nel gran casino sulle armi di distruzione di massa. Ancora una volta, una narrazione diventa sovralimentata quando “funzionari con un movente” acchiappano la stampa per il naso e la conducono in una palude di affermazioni private non confermabili. Alcune tra le prime storie, come un pezzo di Franklin Foer su Slate (del 4 luglio 2016) intitolato “il burattino di Putin”, avevano già illustrato i temi del futuro rapporto Steele in forma circostanziale. Ma l’effettivo dossier, che pure ha influenzato alcuni articoli sui contatti pre elettorali tra Trump e la Russia (in particolare uno di Michael Isikoff su Yahoo!) per un po’ non fu dato alle stampe. Sebbene fosse stato spedito ad almeno nove mezzi di informazione durante l'estate e l'autunno del 2016, nessuno lo pubblicò, per un’ottima ragione: cioè che le sue rivelazioni non si potevano verificare. Se fossero state vere, le accuse di Steele sarebbero state esplosive. L’ex spia sosteneva che all’assistente di Trump Carter Page erano state offerte delle quote del gigante petrolifero russo Rosneft, a patto che avesse contribuito a far revocare le sanzioni contro la Russia. Steele sosteneva pure che l’avvocato di Trump, Michael Cohen, era andato a Praga per “discussioni segrete con rappresentanti, operatori e hacker associati al Cremlino”. Com’è noto, nel rapporto si sostiene anche che il Cremlino aveva “kompromat” (materiale compromettente) su Trump che “aveva violato” il letto usato usato da Barack e Michelle Obama nel loro viaggio ufficiale a Mosca ingaggiando “prostitute che gli facessero una golden shower” proprio lì sopra. Questa era una storia troppo gustosa per non essere pubblicata. Doveva uscire, con le buone o con le cattive. Il primo colpo sparato è stato quello di David Corn di Mother Jones il 31 ottobre del 2016: “Una spia di lungo corso ha dato all’Fbi informazioni che sostengono ci sia un’operazione russa per lavorarsi Donald Trump”. Nel pezzo non si parlava di urina, né di Praga né di Page, ma si diceva che l’intelligence di Mosca aveva materiale con cui ricattare Trump. Deontologicamente era un pezzo pubblicabile, perché Corn non stava trascrivendo le accuse vere e proprie, ma diceva soltanto che l’Fbi ne era in possesso. C’era bisogno di un pretesto più serio per far sì che uscissero gli altri dettagli. E questa occasione arriva subito dopo l’elezione, quando 4 funzionari dell’intelligence portarono le copie del dossier al Presidente eletto Trump e a quello uscente Obama. Dai suoi appunti, sappiamo come il direttore dell'FBI James Comey, preoccupato evidentemente per il benessere di Trump, abbia detto al nuovo presidente che lo stava solo avvertendo di ciò che era là fuori, come possibile materiale di ricatto: Non stavo dicendo che [il rapporto di Steele] era vero, volevo solo che lui sapesse sia che ne avevano scritto i giornali sia che quel rapporto era finito in molte mani. Gli ho detto che i media come la CNN lo possedevano e che cercavano solo un gancio per pubblicare le notizie. Gli ho detto che era importante non dare loro la scusa per scrivere che l'FBI avesse il materiale o [OMISSIS] e che ce lo stavamo tenendo molto stretto. Il generoso avvertimento di Comey a Trump sul non fornire un “gancio per le notizie”, insieme con la promessa cha sarebbe stato mantenuto tutto “molto stretto”, ebbe luogo il 6 gennaio 2017. Nel giro di quattro giorni, praticamente l’intero sistema dei media di Washington sapeva ogni dettaglio di questo meeting e aveva avuto il gancio che aspettava per rendere tutto pubblico. Nessuno, all’interno della stampa mainstream, pensò che questo fosse strano o necessitasse una riflessione. Lo stesso Donald Trump fu probabilmente abbastanza intelligente da annusare l’aria quando, di tutte le testate, fu la CNN che per prima riportò la notizia di alcuni “documenti secretati presentati la scorsa settimana a Trump”. Era il 10 gennaio. Proprio in quei giorni, Buzzfeed prese la storica decisione di pubblicare l’intero dossier Steele, riversando anni di pipì nelle nostre vite. Fu questa decisione a dare il via al fenomeno Russiagate come fattore onnipresente e senza fine, minuto dopo minuto, nel flusso delle notizie americane. Comey aveva ragione. Non avremmo potuto riportare questa storia senza un “gancio”. E infatti le notizie su Steele tecnicamente non erano sulle accuse in sé, ma piuttosto sul percorso che avevano fatto quelle accuse, da un gruppo di mani ufficiali a un altro. La consegna del report a Trump aveva creato il pretesto perfetto. Questo trucco era stato usato già in precedenza, sia a Washington che a Wall Street, per rendere pubbliche alcune ricerche private non confermate. Poniamo il caso che un venditore allo scoperto assuma una società di consulenza per preparare un report su una compagnia contro cui ha scommesso. Quando il documento è completo, l’investitore prova a farlo entrare in possesso della SEC o dell’FBI. Se ci riesce, esce la notizia che la società è “sotto indagine”, il titolo crolla, e tutti vincono. Lo stesso trucco si usa in politica. Una traiettoria simile è alla base dei titoli negativi sullo scandalo relativo al senatore democratico del New Jersey Bob Menendez, che si diceva essere sotto indagine dell’FBI per reati sessuali su minori (anche se alcuni erano scettici). La storia iniziale non stava in piedi, ma portò ad altre indagini. Lo stesso è avvenuto con il cosiddetto “progetto Arkansas”, con i milioni di dollari di ricerche private (filo-repubblicane) che produssero abbastanza rumore sullo scandalo Whitewater da creare anni di titoli sui Clinton. Un altro esempio fu la campagna Swiftboating per lanciare fango sul passato militare di John Kerry. Le “oppo research”, le indagini private sugli avversari politici, non sono di per sé cattive. In realtà hanno portato ad alcuni scoop incredibili, tra cui il caso Enron. Ma i reporter di solito sono scettici quando ricevono questo tipo di informazioni, e cercano di capire che interessi abbia chi le ha commissionate. Oggi, dopo la fine dell’inchiesta Mueller, la sequenza degli eventi in quella seconda settimana del gennaio 2017 dovrà essere profondamente riesaminata. Adesso sappiamo, dalla sua stessa testimonianza, che l’ex direttore della National Intelligence James Clapper ha avuto un qualche ruolo nell’aiutare la CNN a preparare la sua cronaca degli eventi, presumibilmente confermando parte della storia, forse tramite un intermediario o due (c’è qualche incertezza su chi esattamente fu contattato, e quando). Perché dei veri funzionari di sicurezza dovrebbero far filtrare una questione così seria attraverso i media? Perché le agenzie investigative più potenti del mondo si comportano come se stessero provando a spostare un titolo in borsa, dando in pasto ai giornali un documento privato e non verificato che, come persino BuzzFeed aveva ammesso, conteneva varie inesattezze fattuali? Non aveva senso allora, ne ha ancora meno adesso. Nel gennaio del 2017, la pila di accuse di Steele divenne pubblica e fu letta da milioni di persone. “Non solo non è confermato”, ammise Buzzfeed, “ma include alcuni chiari errori”. La decisione del sito ha fatto saltare ogni standard giornalistico contro la pubblicazione consapevole di materiali di cui si dubita la veridicità. Anche se esperti di etica dei media si meravigliarono, la cosa non sembrava infastidire il grosso dei reporter. Il direttore di Buzzfeed, Ben Smith, ancora oggi è orgoglioso della sua decisione. E penso che questo sia dovuto al fatto che molti giornalisti pensavano che il report Steele fosse vero. Quando io lo lessi, fui scioccato. Ho pensato che fosse un romanzo di suspense di quarta fila (e io ne so qualcosa visto che scrivo romanzi di suspense di quarta fila). Inoltre, sembrava modificato e corretto sia per incontrare il gusto del grande pubblico, sia per soddisfare i clienti di Steele al Comitato Nazionale Democratico (DNC). Steele parlava di russi in possesso di un file di "informazioni compromettenti" su Hillary Clinton, solo che incredibilmente questo file non conteneva "dettagli e prove di comportamenti non ortodossi o imbarazzanti" o di "condotta imbarazzante". Cioè noi avremmo dovuto credere che i russi, dopo decenni di ricerche, avessero in mano solo una cartellina vuota su Hillary Clinton. Per non parlare di quella prima pagina di tabloid ambulante anche conosciuto come Bill Clinton? Questa precisazione [che sulla Clinton non c’era niente di sporco] appariva più volte nel rapporto, come se fosse enfatizzata a beneficio di chi l’avrebbe letto. C’erano altre parti curiose, come quella sui russi che avevano “talpe” all’interno del DNC, oltre ad alcuni dettagli linguistici che mi facevano mettere in dubbio la nazionalità dell'autore del rapporto. Eppure, chissà? Magari era vero. Ma anche una lettura totalmente superficiale metteva in risalto dei problemi fondamentali del rapporto, che necessitava di molte conferme. Questo ha reso ancora più sorprendente che Adam Schiff, il deputato più alto in grado della Commissione Intelligence della Camera, il 20 marzo 2017 abbia tenuto udienze in cui leggeva senza tante premure ad alta voce gli estratti della relazione Steele come se fossero fatti reali. Dalle considerazioni preliminari di Schiff: Secondo Christopher Steele, un ex ufficiale dell'intelligence britannica che stando alle informazioni disponibili è tenuto in grande considerazione dall'intelligence statunitense, fonti russe lo hanno informato che Page ha avuto anche un incontro segreto con Igor Sechin (SEH-CHIN), CEO del gigante russo Rosneft ... A Page vengono offerte commissioni di intermediazione da parte di Sechin su un accordo che riguardava una quota del 19% della società. Mentre osservavo tutto questo ero sbalordito. È prassi che i membri del Congresso, così come i giornalisti, si sforzino di verificare almeno i discorsi preparati, prima di renderli pubblici. E invece qui avevamo Schiff che diceva al mondo che all’assistente di Trump Carter Page erano state offerte enormi commissioni su una partecipazione del 19% in Rosneft - una società con una capitalizzazione di 63 miliardi di dollari - durante un incontro segreto con un un oligarca russo che sarebbe stato anche un “agente del KGB e un amico intimo di Putin”. (Schiff intendeva “agente dell’FSB”. L’incapacità dei “#Russiagaters” di ricordarsi che la Russia non è l’Unione Sovietica fa infuriare sempre di più man mano che passa il tempo. Donna Brazile ancora non ha cancellato il suo tweet in cui afferma che “i comunisti ora ci stanno imponendo i termini del dibattito”). Il discorso di Schiff ha sollevato non poche domande. Non dobbiamo più preoccuparci di preparare un’accusa solida e suffragata se il soggetto è legato al Russiagate? E se Page non avesse fatto nessuna di queste cose? Finora non è stato accusato di niente. Un membro del Congresso non dovrebbe preoccuparsi di questo? Qualche settimana dopo quell’udienza, Steele testimoniò nell’ambito di una causa fatta nel Regno Unito da una delle compagnie russe menzionate nei suoi dossier. In una memoria scritta depositata in giudizio, Steele affermò che le sue informazioni erano “grezze” e che “dovevano essere analizzate e verificate/indagate più a fondo”. Scrisse anche che (almeno per quanto riguardava quel caso) non aveva redatto il report “con l’intenzione che fosse letto dal grande pubblico”. Si tratta di una dichiarazione quantomeno curiosa, dato che sappiamo che Steele ha parlato con molti giornalisti nell’autunno del 2016. Ciò detto, questa era la sua strategia difensiva. La notizia delle dichiarazioni di Steele alla corte britannica non ha avuto molto spazio negli Stati Uniti, fatta eccezione per alcuni stralci in giornali conservatori come il The Washington Times. Ho contattato l’ufficio di Schiff per chiedere se il deputato sapesse che Steele aveva ammesso che il suo report aveva bisogno di essere verificato, e se questo aveva cambiato in qualche modo il suo punto di vista. La risposta (l’enfasi è mia): Il dossier compilato dall'ex agente dei servizi segreti britannico Christopher Steele, che è stato divulgato pubblicamente diversi mesi fa, contiene informazioni che potrebbero essere pertinenti alla nostra indagine. Questo è vero indipendentemente dal fatto che fosse destinato o meno alla divulgazione pubblica. Di conseguenza, la Commissione spera di parlare con il Sig. Steele affinché ci aiuti a confermare o confutare ciascuna delle accuse contenute nel dossier. Quindi Schiff non aveva parlato con Steele prima dell’udienza, e aveva letto ad alta voce le accuse sapendo che non erano suffragate da prove. Il dossier Steele è la Magna Carta del Russiagate. Ha fornito il contesto implicito per migliaia di articoli a venire, eppure nessun giornalista era in grado di confermare le sue accuse più scandalose: il piano che andava avanti da cinque anni con l’obiettivo di “lavorarsi” Trump, i ricatti, la tangente da Sechin, il viaggio a Praga, la scappatella a base di pipì, eccetera. In termini metaforici, non eravamo in grado di ricreare i risultati di Steele in laboratorio. Il non aver saputo fare i conti con questo elemento chiave ha reso la narrazione marcia sin dall’inizio. Per anni, ogni indizio che indicava la veridicità del dossier è diventato un titolo a tutta pagina, mentre ogni volta che venivano gettati dubbi sulle rivelazioni di Steele la stampa taceva. Il giornalista del Washington Post Greg Miller aveva messo su una squadra che lavorava nella ricerca di prove che Cohen fosse stato a Praga. I reporter, ha detto, “hanno letteralmente passato settimane e mesi nel tentativo di mettere nero su bianco” la storia di Cohen. "Li abbiamo mandati in tutti gli hotel di Praga, dappertutto, solo per cercare di capire se fosse mai stato lì," disse, "e siamo tornati a mani vuote." Questo è giornalismo da testa o croce, ma nel senso di: “testa, vinco io; croce, perdi tu”. Se la squadra avesse trovato il nome di Cohen nel registro di un albergo, sarebbe finito in prima pagina sul Post. Il contrario, invece, non ha meritato nemmeno una menzione nel giornale di Miller, che ha parlato di questa storia soltanto durante una la presentazione del suo nuovo libro trasmessa dal canale dei lavori parlamentari C-SPAN. Solo The Daily Caller e alcuni blog conservatori ne hanno poi parlato. Lo stesso è successo quando Bob Woodward ha detto “Non ho trovato [spionaggio o collusioni]... eppure eccome se ho cercato, ho cercato in lungo e in largo”. Il celebratissimo “ravanatore di scandali” del Watergate - che una volta disse di aver ceduto al "groupthink’’, il condizionamento del suo circolino, nel caso delle armi di distruzione di massa aggiungendo: "Do la colpa a me stesso per non aver spinto più forte [alla ricerca della verità]" - neanche in questo caso deve aver spinto molto forte. La notizia che aveva provato a trovare la “collusion” ma non ci era riuscito non è stata data neppure dal suo stesso giornale. Venne fuori, anche in questo caso, soltanto durante la promozione del suo libro “Fear”, in una discussione con il presentatore conservatore Hugh Hewitt. Quando Michael Cohen testimoniò davanti al Congresso negando sotto giuramento di essere mai stato a Praga, è successo lo stesso. Poche testate si sono preoccupate di quanto questa dichiarazione avrebbe influito su quello che avevano scritto fino ad allora. Un uomo sull’orlo di un patteggiamento mentirebbe al Congresso in diretta tv nazionale su una tema come questo? Uscì un pezzo della CNN, ma il resto degli articoli erano tutti sui media conservatori – la National Review, Fox, The Daily Caller. La risposta del Washington Post fu un editoriale indignato su “Come i media conservatori hanno minimizzato la testimonianza di Michael Cohen”. Probabilmente però il peggior episodio di tutti riguarda il giornalista di Yahoo! Micheal Isikoff. Era già stato protagonista di una storia strana: il “double-dipping”, il “doppio-intingolo” dell’FBI che chiese un mandato FISA [le FISA court sono tribunali segreti specializzati in questioni di spionaggio e sicurezza nazionale attraverso udienze a porte chiuse e di cui non esiste traccia fino a conclusione delle indagini, per non comprometterle, ndDago] per sorvegliare segretamente Carter Page, il potenziale genio del male che avrebbe dovuto negoziare un accordo con l'oligarca Sechin. Nella richiesta FISA, l’FBI includeva sia il non confermato rapporto Steele, sia l’articolo di Isikoff pubblicato su Yahoo! il 23 settembre 2016, “Funzionari dell’intelligence statunitense indagano sui legami tra un assistente di Trump e il Cremlino”. L’articolo di Isikoff, che sosteneva che Page si era incontrato con “funzionari di alto grado sottoposti a sanzioni”, si basava su Steele come fonte anonima. E’ simile alla tecnica di riciclaggio usata nell’ambito delle notizie sulle armi di distruzione di massa, chiamato “stove-piping” (in italiano potremmo tradurlo con “ribollita”, ndDago). Cioè agenti dell’intelligence che usano articoli di stampa per "confermare" davanti a un giudice le informazioni che loro stessi hanno fornito ai giornalisti, così da ottenere un mandato per investigare a fondo qualcuno. Ma di questo “ricicciare” nessun giornale ne ha parlato, salvo quelli conservatori e il Washington Post, ma solo un articolo che aveva l’obiettivo di sminuire la questione. (Ogni notizia che mette in dubbio l’ipotesi accusatoria della collusione sembra scatenare un “fact-checking” istantaneo al Post.) Il Post insisteva sul fatto che la questione del mandato FISA non era così seria, tra le altre cose, perché Steele non costituiva una delle "fondamenta" del pezzo di Isikoff. Isikoff è con tutta probabilità il giornalista che conosce meglio Steele. Lui e Corn di Mother Jones, che pure ha avuto a che fare con l’ex spia, hanno scritto un best seller basato sulle teorie di Steele, “Russian Roulette”, che includeva pure una riflessione sull’episodio della pipì. Tuttavia a fine 2018 Isikoff improvvisamente ha detto che alla fine il rapporto Steele si sarebbe rivelato “perlopiù falso”. Ancora una volta, questa dichiarazione è emersa solo durante un podcast, “Free Speech Broadcasting” di John Ziegler. Qui c’è una trascrizione di una parte rilevante.

Isikoff: Quando si entra nei dettagli del dossier Steele, le accuse specifiche, sapete, non abbiamo visto delle prove a sostegno. E in effetti ci sono buone basi per pensare che alcune delle accuse più sensazionali non saranno mai provate e sono ampiamente false.

Ziegler: Questo è...

Isikoff: Penso si tratti al massimo di un chiaroscuro, a questo punto, anche se le cose potrebbero cambiare, Mueller potrebbe ancora produrre prove che cambiano questa previsione. Ma basandoci su quanto è di pubblico dominio fin qui devo dire che la maggior parte delle accuse specifiche non sono state confermate.

Ziegler: È interessante sentirti dire questo, Micheal, perché, come sono certo saprai, il tuo libro è stato di fatto usato per avvalorare il “pee tape” (il nastro della pipì), o come vogliamo chiamarlo.

Isikoff: Sì, Penso di aver trovato prova di un evento che potrebbe aver ispirato il “pee tape” ed è stata la visita che Trump ha fatto con un certo numero di personaggi che in seguito sono stati a Mosca, parlo in particolare di Emin Agalarov e Rob Goldstone, in una discoteca zozzona di Las Vegas dove uno degli spettacoli che veniva messo in scena più spesso era lo sketch "Hot For Teacher", in cui ballerine travestite da studentesse del campus urinavano - o fingevano di urinare - sul loro professore. Il che mi colpì come una strana coincidenza. Credo che, sai, non è implausibile che l'evento possa aver ispirato ...

Ziegler: Una leggenda metropolitana?

Isikoff: ...accuse che erano apparse nel rapporto Steele.

Isikoff ha raccontato questa storia con tono ridanciano. Senza interruzioni è passato a ciò che lui chiama il “vero punto”, cioè “l’ironia che Steele potrebbe avere ragione, ma non era il Cremlino che aveva materiale sessuale compromettente su Donald Trump, bensì il National Enquirer”.

Ricapitolando: il giornalista che ha introdotto Steele al mondo (il suo articolo del 23 settembre 2016 è stato il primo a riferirsi a lui come una fonte), che aveva scritto un libro che come lui stesso sostiene “ha convalidato” la “pee tape story”, improvvisamente torna sui suoi passi e dice che l’intera situazione potrebbe essere ispirata da uno spettacolino a Las Vegas. Eppure tutto questo non importa, perché Stormy Daniels, eccetera eccetera.

Un’altra storia di questo tipo è la causa intentata da Webzilla e la sua casa madre XBT contro Steele e Buzzfeed, che avevano menzionato la loro azienda in uno dei promemoria. Nella testimonianza venne fuori che Steele aveva raccolto informazioni su XBT / Webzilla da un post 2009 sulla pagina "iReports" della CNN. Alla domanda se l’ex spia avesse capito che questi post provenivano da utenti casuali e non da giornalisti della CNN con fonti verificate e verificabili, Steele rispose "No". Questo dettaglio abbastanza comico ci ricorda quando il secondo dossier dell’Mi6 britannico, pubblicato poco prima dell'invasione irachena, era stato in parte copiato dalla tesi di una studentessa tredicenne della California State University, e non da parte di persone dei servizi, ma da funzionari di medio livello in forze all’ufficio stampa di Tony Blair. C’erano così tanti profili in cui Steele veniva rappresentato come un esperto di spionaggio “straordinariamente diligente” come se fosse uscito direttamente da Le Carré: era regolarmente descritto come un tritacarne di stampo Lecarreiano, simile per aspetto e modi al leggendario George Smiley. Era un uomo nell’ombra la cui intensità romanzesca veniva smentita dal suo modo di fare “medio”, “neutrale”, “tranquillo”, che sembrava più sobrio di quello di Smiley. Uno penserebbe che il nuovo “Smiley” che si mette a fare copia-e-incolla da testi apocrifi come la matricola di un college statale avrebbe meritato qualche approfondimento. Ma la storia a malapena fece notizia.

Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 25 marzo 2019. Com'è finita l’inchiesta Russiagate che doveva portare alla cacciata con ignominia dell'usurpatore Donald Trump? “Nessuna collusione, nessun ostruzionismo, completo e totale scagionamento, l'America resta grande”. No Collusion, No Obstruction, Complete and Total EXONERATION. KEEP AMERICA GREAT! Tweet di domenica. Anche noi di Dagospia siamo grandi e ce lo possiamo dire, passato il weekend in cui abbiamo taciuto, proprio come Donald Trump. Lui ha giocato a golf, godendosi l'arietta tiepida della Florida e annusando, da quello squalo che è, il sangue delle ferite degli avversari sconfitti. Noi a golf non giochiamo ma quante volte l'abbiamo scritto che l'intera indagine denominata Russia Gate era basata sul nulla e che a nulla sarebbe arrivata dopo aver sparso dubbi, sospetti, calunnie, insinuazioni sul presidente degli Stati Uniti?. E quante volte avete letto titoli del tipo “Trump trema”, la Casa Bianca in frantumi,” “il cerchio si stringe intorno a Trump”? Fino all'ultimo, fino alla mattina di venerdi’ in cui il procuratore speciale Robert Mueller ha chiuso l'inchiesta e l'ha inviata al dipartimento di Giustizia. Il Donald vittorioso finalmente dopo due anni di attacchi calunniosi - poche cose sono gravi come accusare un presidente di tradimento e cospirazione con la Russia- ha anche usato toni patriottici e pacati, presidenziali, nel commentare la conclusione dell'indagine.  “No matter your ideologies or your loyalties, this is a good day for America. No American conspired to cooperate with Russia in its efforts to interfere with the 2016 election, according to Robert Mueller, and that is good.”  Non importa la vostra ideologia o le vostre appartenenze, questo è un giorno importante per l'America. Nessun americano ha cospirato con la Russia negli sforzi di interferire nelle elezioni del 2016, secondo Robert Mueller, e questo è positivo. Poi la notizia: “The Special Counsel did not find that the Trump Campaign, or anyone associated with it, conspired or coordinated with the Russian Government in these efforts, despite multiple offers from Russian-affiliated individuals to assist the Trump Campaign.” Il consigliere speciale non ha trovato prove che la campagna Trump o chiunque associato con essa  cospirasse  o tramasse col governo Russo in questi sforzi, nonostante numerose offerte da parte di individui affiliati ai russi di assistere la campagna Trump. Nella serata di domenica Donald il vittorioso si è andato scaldando nelle reazioni, e alla fine, prima di salire sull'aereo che lo riportava alla Casa Bianca dal suo Buen Retiro in Florida, ha ricordato rabbiosamente quanta gente è stata attaccata e ferita e ha in qualche modo giurato che si vendicherà. Operation Russia Gate, qualche cifra.

Costo: piu' di 25 milioni di dollari. 19 Avvocati, 40 Agenti, analisti, analisti legali contabili, piu' altri professionisti. 2.800 mandati di comparizione, 500 mandati di perquisizione, 230 ordini di consegna di materiale, 50 ordini di consegna di dati telefonici, 13 richieste a Paesi stranieri e piu' di 500 testimoni.

Articoli a sostegno della tesi della collusione, cioè  del tradimento del presidente, che si sarebbe servito delle trame russe e degli interventi sui social, e dei soldi messi a disposizione da Mosca, per sconfiggere illegalmente l'avversaria Hillary Clinton, e quindi sarebbe stato meritevole di procedura di impeachment.

Solo negli ultimi sei mesi, da settembre 2018: Washington Post: 1,184

The New York Times: 1,156

CNN: 1,965

MSNBC: 4,202

Ovvero una media di 13 articoli al giorno per giornale o canale TV, tutti sostenuti da una unica tesi: il procuratore speciale sta raccogliendo prove terribili e le persone messe sotto processo, anche se i loro reati nulla hanno a che fare con la campagna elettorale, stanno collaborando e raccontando tutto. Sarà bene ricordare che per i media americani mainstream e per quelli italiani naturalmente la collusione di Trump con la Russia non era un'accusa da dimostrare, era una certezza sostenuta  dal Teorema dell'amicizia ambigua tra Trump e Putin, dal postulato secondo il quale la Russia possedeva materiale ricattatorio sul presidente americano. L’ombra costante e continua del Russia Gate ha influenzato e inficiato l'intera azione del governo americano e i suoi rapporti internazionali in questi anni. Se sei nelle mani di Putin come puoi essere autorevole? Se sei ricattato dalla Russia come puoi dire all'Unione europea che le politiche sui dazi devono essere concordate e corrette?  Figurarsi se puoi chiedere che i membri della NATO paghino la giusta quota per pretendere di essere uniti nella difesa Atlantica. Sono state danneggiate le relazioni internazionali come l'azione e l'agenda nazionale, in queste condizioni, praticamente con le mani legate dietro la schiena, Donald Trump governato per 2 anni e ha affrontato le delicate elezioni di midterm, metà mandato, quando si rinnova l'intera Camera bassa e un terzo del Senato, oltre a un alto numero di governatori, come è stato nel 2018. Alla fine non c'era niente. Dopo due anni di indagine, nessuna collusione è emersa: nulla, o potete giurare che chi  ha speso tanto tempo e tanti soldi si sarebbe attaccato anche al minimo pretesto. Di cosa si è discusso, dunque, negli ultimi anni? Su quali basi numerose ipotesi sono state enunciate? Per essere brutali, con quale  faccia tosta il procuratore speciale e’ andato avanti così a lungo? In realtà il perché si capisce molto bene ascoltando la rabbia delle reazioni degli esponenti democratici e dei media liberal di questi giorni. Non ci vogliono proprio stare e se la prendono anche con lui, con il procuratore speciale, che alla fine ha ceduto le armi e ha rinunciato all'incriminazione del presidente. Tanto la lezione non gli servirà, ne’ ai politici ne’ ai media, che pure dovrebbero in queste ore recitare un doloroso mea culpa. A Robert Mueller resterà attaccata l'etichetta di codardo, così lo ha definito il professore di Harvard e famoso avvocato Alan Dershowitz, uno che non ha mai accettato di entrare nella folla dei faziosi ultra’, e per questo ha pagato un alto prezzo da democratico ed elettore della Clinton. Non c'è solo Mueller, il deep state ci ha dato dentro per far fuori Donald Trump, e in mezzo c'è tutta la corte della Clinton e dei Clinton, e tutta quella di Barack Obama, non certo e non solo collaboratori di Trump. Vi elenco  i personaggi sui quali si è indagato ma anche quelli sui quali sarebbe stato il caso di indagare, e che hanno inquinato il Russia Gate prima e durante.

Loretta Lynch: Ministro della Giustizia che si incontra di nascosto in un hangar dell'aereoporto di Phoenix con Bill Clinton per assicurare che Hillary venisse "scagionata" dallo scandalo delle e-mail.

Sally Yates: vice al Ministero di Giustizia della Lynch e reggente per un breve periodo. Licenziata da Trump  per non voler eseguire il famoso "ban"  degli immigrati da Paesi sospetti. Fu lei a denunciare il generale Flynn.

Susan Rice: Capo della Sicurezza Nazionale di Obama. Ordinò' di rendere noti i nomi di alcuni dei cittadini USA coinvolti nelle indagine segreta sulla "collusione".

James Comey, direttore dell'FBI che scagionò la Clinton. Licenziato.

Robert Mueller: ex capo dell'FBI, quando Comey era suo Vice. Poi nominato Special Counsel per l'indagine Russiagate.

Andrew McCabe: numero due dell'FBI , cospira contro Trump, si capisce dai messaggi che scambia con Strozk e Page. Licenziato nel 2018.

Jill McCabe: moglie di Adrew, candidata democratica, che riceve dalla campagna Clinton 600.000 dollari per la sua campagna.

Peter Strozk: Capo della sezione controspionaggio dell'FBI,  a capo dell'inchiesta sulla Clinton e poi collaboratore di  Mueller, Special Counsel, nell'indagine su Trump.Anche lui che scambia messaggi chiaramente anti Trump con Mccabe e con la Page sua amante a proposito dell'indagine su Trump. Licenziato nel 2018.

Lisa Page: Agente FBI,  scambia messaggi anti Trump con Mccabe e con Strozk, ilsuo amante, a proposito dell'indagine su Trump. Licenziata nel 2018.

Bruce Orr: Vice direttore associato del Dipartimento di Giustizia che fornisce il "Dossier" alla stampa e a politici. Si incontra più volte anche a Londra con Christopher Steele di Fusion GPS.

Nellie Ohr: moglie di Bruce che lavorava per Simpson alla Fusion GPS.

Glenn R. Simpson: titolare della FUSION GPS ditta che commissiona e costruisce dossier incriminanti imbarazzanti sui politici non solo in USA,  coinvolta in affari con vari paesi inclusi alcuni del Sud America. Creò il famoso Dossier farlocco su Trump.

Christopher Steele: ex agente di MI6 che crea il Dossier su Trump con i suoi contatti legati all'Intelligence Russa.

Marc Elias dell'ufficio legale Perkins Coie che commissiona per 6 milioni di dollari in nome e per conto della Campagna Clinton e del Partito democratico il Dossier a Simpson.

Michael Flynn: capo della sicurezza nazionale di Trump per un  solomese,  accusato di essere lobbista con la sua Flynn Intel Group assime al figlio per paesi stranieri nel 2015-2016 senza dichiaralo nell'apposito registro. Indagato.

John Podesta: capo della Campagna Clinton. titolare assieme al fratello della omonima società Podesta Group, noti  lobbisti di Washington associati allo studio Manafort per contatti con l'Uzbekistan tra altri paesi esteri.

Tony Podesta: Fratello di John e titolare assieme a lui della omonima societa' .

Paul Manafort: Capo per tre mesi della campagna Trump, titolare della Black, Manafort and Stone i Condannato per evasione fiscale, associazione a delinquere, truffa bancaria per gli anni 2013/15.

Roger Stone: amico  di Trump, titolare della Black, Manafort and Stone, associati allo studio Podesta nel 2015 per contatti con l'Uzbekistan tra altri paesi esteri. Indagato

Tra i commenti desolati di quelli che credevano di vedere Donald Trump cacciato con ignominia, spiccano titoli sul regalo che il procuratore speciale ha fatto al presidente in vista della rielezione del 2020 concludendo l'inchiesta e scagionando lo. Dopo 2 anni di martellamento hanno il coraggio di chiamarlo proprio così, un regalo. Ammettiamo che sia davvero un assist per la rielezione di Trump, non è stato certo lui a chiederlo.

“Non sono stati i russi a far vincere Trump”, scrive il 25 marzo 2019 Orlano Sacchelli su Il Giornale. Donald Trump esulta. “No collusione né ostruzione, assoluzione completa e totale”. È felice, il presidente, nel suo consueto e torrenziale sfogo via Twitter, poco dopo che il ministro della Giustizia Usa, William Barr, ha consegnato al Congresso le conclusioni del rapporto del procuratore speciale per il Russiagate, Robert Mueller. Vi si legge che Trump non ha vinto grazie ai russi: non sono state trovate prove di cospirazione (con Mosca) a carico di Trump e del suo staff per interferire nelle elezioni del 2016, e nemmeno prove per incriminare il presidente per ostruzione della giustizia. La lettera di Barr, che riassume due anni di indagini, conferma che il procuratore non chiederà nuove incriminazioni. Rudolph Giuliani, legale di Trump, è (ovviamente) molto soddisfatto: “Il rapporto del procuratore speciale per il Russiagate è migliore di quanto mi aspettassi”. Lo sono decisamente meno i democratici, che non hanno preso bene la notizia: buona parte di loro resta convinta che l’inchiesta non scagioni Trump, chiedono di rendere pubblico l’intero rapporto e, al contempo, accusano il ministro della Giustizia di non essere neutrale. “Il procuratore speciale non ha scagionato il presidente”, afferma David Cicilline, deputato democratico membro della commissione Giustizia della Camera. “In effetti – spiega Cicilline – nella lettera inviata il ministro parla di indicazioni evidenti che il presidente si è impegnato a ostacolare la giustizia. Il ministro deve rendere queste prove disponibili al Congresso immediatamente, insieme all’intero rapporto di Mueller, in modo che possiamo decidere quali passi prendere”. Ecco cosa dice la lettera di Barr:

1) L’inchiesta sul Ruassiagate non ha trovato prove che i membri della campagna di Trump abbiano cospirato o si siano coordinati con il governo russo nelle loro attività di interferenza elettorale.

2) “Se il rapporto non conclude che il presidente abbia commesso un reato, neanche lo esonera – si legge – ma il governo dovrebbe dimostrarlo oltre ogni ragionevole dubbio”. Ma cosa vuol dire questa frase? Formula per certi versi pilatesca: non incrimina ma neanche assolve del tutto Trump.

3) Sulla divulgazione del rapporto il procuratore generale, William Barr, ricorda che secondo i regolamenti il suo lavoro deve essere contenuto in un rapporto confidenziale al ministro della Giustizia. “Devo identificare qualsiasi informazione che possa interessare altre questioni in corso, comprese quelle che il procuratore speciale ha inviato ad altri uffici. Non appena tale processo sarà completato, potrò muovermi rapidamente per determinare cosa può essere rivelato”.

4) Non ci saranno altre incriminazioni. “Il rapporto non raccomanda nessun altro procedimento giudiziario e il procuratore speciale non ha ottenuto nuove accuse… che devono ancora essere rese pubbliche”.

5) Sulle presunte interferenze russe nel 2016 il rapporto conferma “da parte di Mosca due sforzi principali di interferire”. Il primo si riferisce alle attività dell’Internet research agency russa per condurre “operazioni di disinformazione e reti sociali negli Usa” al fine di “seminare discordia sociale e interferire nelle elezioni”. Il secondo nella misura in cui “il governo russo ha hackerato i computer e ottenuto email da persone affiliate alla campagna di Clinton e alle organizzazioni del Partito Democratico e ha diffuso tali materiali attraverso vari intermediari, tra cui WikiLeaks”. Tra gli imputati ci sono 26 cittadini russi, che quasi sicuramente non saranno mai giudicati negli Usa perché i due Paesi non hanno un trattato bilaterale di estradizione. Nonostante questo secondo Barr il rapporto non ha rilevato alcuna collusione.

6) Barr osserva che il procuratore speciale Mueller “ha emesso più di 2.800 citazioni, eseguito quasi 500 mandati di perquisizione, ottenuto più di 230 richieste di documenti di comunicazione, ottenuto quasi 50 registrazioni di comunicazioni telefoniche, fatto tredici richieste a governi stranieri e ha intervistato circa 500 testimoni”. Insomma, nel suo lavoro è andato a fondo. Ma alla fine nulla di compromettente è emerso nei confronti di Trump e del suo entourage.

L’avvocato di Trump: “L’Italia ha cospirato contro il presidente”. Roberto Vivaldelli su it.insideover.com il 10 agosto 2019. Dopo l’audizione dell’ex Procuratore speciale Robert Mueller e la chiusura delle indagini sul Russiagate, siamo passati alla fase due e tutta l’attenzione ora si focalizza sull’opaca condotta dell’Fbi e sul sospetto che l’agenzia federale abbia abusato dei suoi poteri e agito in maniera illegittima nei confronti della campagna di Donald Trump del 2016 allo scopo di “sabotare” l’elezione del tycoon. Una teoria del complotto? Negli Usa sono sempre più convinti che l’Fbi – al tempo diretto da James Comey – abbia molto da chiarire e che abbia agito in collaborazione con i servizi segreti occidentali ed europei, italiani compresi. Poche settimane fa, il procuratore generale William Barr ha nominato John Durham al fine di esaminare le origini dell’indagine sul Russiagate e determinare se la raccolta di informazioni sulla campagna di Trump fosse “lecita e appropriata”. Ospite di Sean Hannity su Fox News, commentando gli ultimi sviluppi di questa vicenda, Rudy Giuliani, ex sindaco di New York e ora avvocato del presidente Donald Trump, ha confermato che le indagini del procuratore Durham sulla condotta opaca dell’agenzia si stanno concentrando anche sull’Italia e sul ruolo del nostro Paese nel 2016. “Non puoi credere a ciò che verrà fuori” ha sottolineato l’ex sindaco della Grande Mela. “Questi sono crimini che colpiscono al cuore la nostra repubblica”, ha aggiunto. “Queste persone avevano un progetto per impedire che il candidato repubblicano venisse eletto e poi hanno messo in atto un piano per rimuoverlo dalla carica basandosi su false prove e false testimonianze. Il tutto è stato inventato sin dall’inizio e l’hanno venduto ai nostri media. È una tragedia!”, ha commentato Giuliani. Secondo Giuliani ci sarebbe stata una cospirazione internazionale contro il presidente Usa: “Ci sono molte prove di ciò che è accaduto in Ucraina. Numerose prove di ciò che è accaduto nel Regno Unito. In Italia. Questa è stata una cospirazione globale che ha cercato di privare il popolo americano della persona che ha eletto presidente”. “Sembra che il Procuratore John Durham stia spendendo molto del suo tempo in Europa”, ha annotato Hannity. “So perché sta trascorrendo molto tempo in Europa – ha replicato l’avvocato di Trump – Passa molto tempo a indagare su Ucraina, Italia, Regno Unito e Australia”. Giuliani conferma quanto già dichiarato dal presidente Trump nelle scorse settimane: nel 2016 l’Italia avrebbe cospirato contro di lui.

Che cosa c’entra l’Italia con l’indagine di Durham. Figura chiave di questa storia è il professor Joseph Mifsud della Link University, l’università privata fondata dall’ex ministro degli esteri Vincenzo Scotti. Secondo la ricostruzione ufficiale, il docente affermò in un incontro dell’aprile 2016 a George Papadopoulos, consigliere della campagna di Trump, di aver appreso che il governo russo possedeva “materiale compromettente” (dirt) su Hillary Clinton “in forma di e-mail”. Papadopoulos avrebbe riportato tali informazioni all’Alto Commissario australiano a Londra, Alexander Downer, che a sua volte riferì tutto alle autorità americane. Da qui, il 31 luglio 2016, partirono le indagini dell’Fbi sui presunti collegamenti fra Trump e la Russia, accuse che in seguito si sono dimostrate false. Come raccontato su IlGiornale.it, Mifsud avrebbe di recente fornito una deposizione audio al procuratore John Durham, incaricato dal ministro della giustizia Barr di fare luce su questa vicenda. La notizia della deposizione di Mifsud è stata data in diretta su Fox News dal giornalista investigativo John Solomon: “Posso assolutamente confermare che gli investigatori di Durham hanno ottenuto una deposizione audio di Joseph Mifsud dove egli descrive il suo lavoro, perché ha preso di mira George Papadopoulos, chi lo ha indirizzato a fare questo, quali istruzioni gli furono date, e perché ha messo in moto l’intero processo di introduzione di Papadopoulos alla Russia nel marzo 2016, che è davvero il punto focale e di partenza di tutta la vicenda della narrativa sulla collusione” ha spiegato Solomon incalzato dalle domande di Sean Hannity. “Posso inoltre confermare – ha aggiunto il giornalista – che la Commissione giudiziaria del Senato ha ottenuto la stessa deposizione”. Secondo quanto riferito da Solomon nei giorni scorsi e pubblicato su The Hill, “Mifsud era un collaboratore di vecchia data dei servizi di intelligence occidentali cui venne richiesto specificatamente dai suoi contatti alla Link University di Roma e London Center of International Law Practice (Lcilp) – due gruppi accademici legati alle diplomazie e servizi di intelligence occidentali – di incontrare Papadopoulos a pranzo a Roma a metà marzo 2016”. Solomon ha ottenuto queste informazioni direttamente dall’avvocato del professor Mifsud, Stephan Roh. L’avvocato sta cercando di dimostrare al procuratore John Durham che il suo assistito è un collaboratore dell’intelligence occidentale a cui è stato chiesto di presentare Papadopoulos ai russi.

Le nuove rivelazioni su Bruce Ohr. Giuliani è stato chiamato da Fox News per commentare le ultime notizie riguardanti l’ufficiale del Dipartimento di Giustizia Bruce Ohr, che avrebbe collaborato e incontrato più volte nel 2016 l’ex spia britannica Christopher Steele, colui che ha redatto il falso dossier dal quale emergevano contatti frequenti tra lo staff di Donald Trump e gli intermediari del Cremlino durante la campagna elettorale del 2016. Un dossier che poi si è rivelato essere in larga parte infondato e falso, come lo stesso ex membro dell’agenzia di spionaggio per l’estero della Gran Bretagna ha ammesso in seguito. Il dossier di Steele è stato finanziato in parte dalla Fusion Gps, dal Washington Free Beacon, dal Democratic National Committee e dalla campagna di Hillary Clinton. Contiene affermazioni infondate secondo cui gli agenti dell’intelligence russa avrebbero filmato il presidente Trump con delle prostitute in un hotel di Mosca. Judicial Watch, gruppo conservatore con sede a Washington Dc, ha chiesto e ottenuto, in base al Freedom of Information Act, la pubblicazione di tutte gli interrogatori di Bruce Ohr all’Fbi. È bene ricordare che la moglie di Ohr, Nellie, ha lavorato per la Fusion Gps, società che fu assoldata dalla campagna 2016 di Hillary Clinton e dal Comitato nazionale democratico prima delle elezioni. La pubblicazione del materiale sta già facendo discutere. Il senatore repubblicano Lindsey Graham, intervenuto su Fox News, ha dichiarato: “Ecco cosa stiamo commentando: la corruzione sistematica ai massimi livelli del Dipartimento di Giustizia e dell’Fbi contro il presidente Trump e a favore di Hillary Clinton”, ha sottolineato. “Credo che il mandato del Foreign Intelligence Surveillance Act contro Carter Page fosse una frode. L’indagine sul controspionaggio è qualcosa che dobbiamo esaminare molto attentamente”.

Russiagate, Papadopolous: “L’Italia chiarisca il suo ruolo nello spygate”. Roberto Vivaldelli su it.insideover.com l'11 agosto 2019. “Tutto quello che posso dire è che a mio avviso, il rapporto dell’Italia [con gli Stati Uniti] non progredirà a meno che tutte le informazioni sulle attività di Joseph Mifsud e la Link Campus riguardanti lo spionaggio e il lavoro con le agenzie di intelligence americane contro di me e Trump nel 2016-2017 venga rivelato”. A rilasciare questa dichiarazione a InsideOver è George Papadopoulos, ex membro del comitato consultivo per la politica estera nella campagna elettorale di Donald Trump durante le elezioni presidenziali del 2016. Condannato nel settembre 2018 a 14 giorni di carcere per aver mentito all’Fbi durante le indagini sulle presunte ingerenze russe, Papadopoulos ha pubblicato il libro Deep State Target, un “resoconto di prima mano che dimostra il tentato sabotaggio della campagna presidenziale di Donald Trump da parte di servizi di intelligence americani e internazionali”. Un “complotto” in piena regola, secondo Papadopoulos, che prenderebbe il nome di “Spygate”. Come ha sempre sostenuto Papadopoulos, il nostro Paese è “l’epicentro della cospirazione”. Una tesi che negli Stati Uniti non è affatto solitaria e sta prendendo sempre più piede. Tant’è che, come vi abbiamo raccontato, poche settimane fa, il ministro della giustizia William Barr ha nominato il procuratore John Durham al fine di esaminare le origini dell’indagine sul Russiagate e determinare se la raccolta di informazioni sulla campagna di Trump fosse “lecita e appropriata”. Anche Rudy Giuliani, ex sindaco di New York e ora avvocato del presidente Donald Trump, ha confermato a Fox News che le indagini del procuratore Durham sulla condotta opaca dell’agenzia si stanno concentrando anche sull’Italia e sul ruolo del nostro Paese nel 2016. “Sembra che il Procuratore John Durham stia spendendo molto del suo tempo in Europa”, ha annotato Sean Hannity. “So perché sta trascorrendo molto tempo in Europa – ha replicato l’avvocato di Trump – Passa molto tempo a indagare su Ucraina, Italia, Regno Unito e Australia”.

Papadopoulos: ecco perché sono stato un bersaglio. L’ex consigliere di Donald Trump ci racconta perché è stato, a suo dire, vittima di questa grande cospirazione che coinvolge l’intelligence americana e i servizi segreti occidentali: “Il mio lavoro nel settore dell’energia nel fornire consulenza ai governi e alle compagnie energetiche americane e israeliane è la ragione per cui questa tremenda vicenda di spionaggio mi ha investito” spiega. Ed è qui che il consulente politico statunitense tira in ballo l’Italia nel periodo in cui al governo c’erano Matteo Renzi e Paolo Gentiloni: “Ora tutto ciò si è rivoltato contro le agenzie di intelligence americane e italiane nel 2016 e molte altre”. Infine, aggiunge l’ex consigliere di Trump, “sono lieto di vedere che Matteo Salvini sta accogliendo il presidente. Sarà benefico per lui essere trasparente”. Ma qual qual è la connessione fra l’inchiesta sul Russiagate e i presunti contatti della campagna di Donald Trump con i russi, la Link University di Roma e il docente maltese Joseph Mifsud citato da George Papadopolous? Figura chiave di questa storia è proprio il professor Mifsud della Link University, l’università privata fondata dall’ex ministro degli esteri Vincenzo Scotti. Secondo la ricostruzione ufficiale, il docente affermò in un incontro dell’aprile 2016 a George Papadopoulos, consigliere della campagna di Trump, di aver appreso che il governo russo possedeva “materiale compromettente” (dirt) su Hillary Clinton “in forma di e-mail”. A quel punto l’ex consulente del presidente avrebbe ripetuto tali informazioni all’alto Commissario australiano a Londra, Alexander Downer, che a sua volte riferì tutto alle autorità americane. Da qui, il 31 luglio 2016, partirono le indagini dell’Fbi sui presunti collegamenti fra Trump e la Russia, accuse che in seguito si sono dimostrate false. Ma, allora, chi ha architettato e confezionato tutto con l’obiettivo di “incastrare” Trump? La giustizia americana sta facendo il suo corso. Su twitter l’ex consigliere di Donald Trump, poco dopo aver parlato con noi, pubblica una dichiarazione sibillina: “Non mollare mai. Se potessi gestire l’intero peso di cinque governi che si concentrano su di me, una caccia alle streghe e tutto lo stress che ne deriva, tutto ciò che dovrei fare è guardarmi allo specchio e dire a me stesso che tutto è possibile. Il momento in cui ti arrendi è finito. Il destino ci chiama”. E ancora: “Alexander Downer (l’ambasciatore australiano che riferì dei contatti russi alle autorità americane, ndr), è finito. Sa di essere il prossimo”.

La deposizione di Mifsud. Secondo quanto riferito dal giornalista investigativo John Solomon nelle scorse settimane e pubblicato su The Hill, “Mifsud era un collaboratore di vecchia data dei servizi di intelligence occidentali cui venne richiesto specificatamente dai suoi contatti alla Link University di Roma e London Center of International Law Practice (Lcilp) – due gruppi accademici legati alle diplomazie e servizi di intelligence occidentali – di incontrare Papadopoulos a pranzo a Roma a metà marzo 2016”. Solomon ha ottenuto queste informazioni direttamente dall’avvocato del professor Mifsud, Stephan Roh. In seguito, lo stesso docente avrebbe fornito una deposizione audio al procuratore Durham. Lo stesso Solomon a Fox News racconta: “Posso assolutamente confermare che gli investigatori di Durham hanno ottenuto una deposizione audio di Joseph Mifsud dove egli descrive il suo lavoro, perché ha preso di mira George Papadopoulos, chi lo ha indirizzato a fare questo, quali istruzioni gli furono date, e perché ha messo in moto l’intero processo di introduzione dell’ex consigliere di Trump alla Russia nel marzo 2016, che è davvero il punto focale e di partenza di tutta la vicenda della narrative sulla collusione”. Se l’ex consulente del presidente americano ha ragione e racconta la verità, lo scopriremo presto.

L’ITALIA HA AIUTATO L’FBI CONTRO TRUMP? DAGONOTA (fonti: ZeroHedge/The Hill) il 22 agosto 2019. Come sa chi legge Dagospia e gli articoli di Maria Giovanna Maglie, l’inchiesta conosciuta come Russiagate è stata un insieme arraffazzonato di fake news, rapporti incestuosi tra giornalisti e servizi, e aveva un solo obiettivo, abbastanza dichiarato e telefonato, che ha sfiorato l’ossessione: abbattere il puzzone. Una storiaccia colossale ben riassunta dall’articolo di Matt Taibbi di “Rolling Stone” (che abbiamo tradotto qui). Ma ora potrebbe rivelarsi un boomerang per gli stessi attori che l’hanno portata avanti come un’ariete per sfondare la Casa Bianca: cioè il Partito Democratico e i giornali liberal (New York Times e Washington Post in testa. E anche l’Italia, che , durante il governo Renzi, avrebbe dato il suo contributo con i servizi per assistere l’Fbi e trovare le connessioni per la fantomatica “collusion” di Trump con i Russi. Collusion che, ca va sans dire, non è mai stata trovata. Secondo Zerohedge, che cita un articolo di John Solomon per The Hill, ci sono 10 documenti classificati, che Donald Trump potrebbe rendere pubblici, che potrebbero causare un terremoto politico a Washington, radere al suolo il Partito Democratico americano e garantire al presidente la rielezione certa. Vediamo quali sono:

I report degli incontri tra Steele e l’Fbi. Questi documenti sono classificati come rapporti 1023 e sono in pratica i verbali delle conversazioni tra l’ex spia britannica e gli agenti federali. La grande rivelazione, secondo le fonti di Solomon, potrebbe essere il fatto che l’Fbi possa aver condiviso informazioni sensibili con Steele, come l’esistenza di “Crossfire Hurricane”, cioè l’operazione di contro-intelligence sulle connessioni tra Trump e il governo russo. Sarebbe una scoperta mica male sapere che l’Fbi ha dato a Steele informazioni di intelligence su Trump nel bel mezzo di un’elezione (). Ps. Steele aveva compilato un dossier finanziato dai Democratici che è iniziato a uscire online nel giugno-luglio 2016, l’operazione CH è stata aperta il 31 luglio e a novembre ci sono state le elezioni).

Le 53 interviste del comitato per i servizi segreti, dove ci sarebbero prove che un avvocato legato al Comitato nazionale democratico aveva contatti con la Russia, tramite la Cia.

I documenti di Stefan Halper: l’accademico e una sua assistente lavoravano come fonti per l’Fbi. Uno o entrambi, secondo quanto riferisce Solomon, hanno avuto contatti con lo staff della campagna di Trump (con Carter Page e George Papadopoulos, in particolare) alla fine delle elezioni. Ma secondo altre fonti potrebbero esserci altri documenti che mostrano che Halper possa essere arrivato a consulenti senior della Casa Bianca come Peter Navarro, nell’estate del 2017. Ci sarebbero dei documenti che dimostrano che Halper era eterodiretto dalle agenzie di intelligence…

Le email dell’Fbi datate ottobre 2016. L’Fbi era a conoscenza dell’uso del rapporto Steele e di altre prove, e discuteva con il ministero della giustizia per ottenere un mandato FISA (le FISA court sono tribunali segreti specializzati in questioni di spionaggio e sicurezza nazionale attraverso udienze a porte chiuse e di cui non esiste traccia fino a conclusione delle indagini, per non comprometterle, ndDago) destinato alla campagna di Trump.

Page / Papadopoulos - la cattiva condotta dell’FBI e/o del dipartimento di giustizia sarebbe dimostrabile anche con le intercettazioni delle conversazioni dei due membri dello staff di Trump. Papadopoulos sostiene per esempio di aver detto a una fonte sotto copertura dell’FBI che non stavano cercando di ottenere materiale sporco sulla Clinton dalla Russia, e che riteneva il fare una cosa del genere tradimento. Se l’avesse detto davvero mentre era monitorato dall’FBI e questa dichiarazione non fosse stata divulgata alla FISA Court, sarebbe la pistola fumante contro i servizi, perché dimostrerebbe che c’era la volontà specifica di cercare solo prove contro Trump.

Il materiale informativo della "Banda degli Otto". Si tratta di una serie di briefing che l'FBI e il DOJ ha fornito ai leader del Congresso nell'estate del 2018, che identificano tutte le carenze nella narrazione della “collusion” con la Russia. Di tutti i documenti mostrati dai leader del Congresso, dice Solomon, “questo mi viene spesso citato in privato in quanto ha cambiato le idee dei legislatori, che inizialmente non erano convinti degli abusi dell'FISA o delle irregolarità dell'FBI”.

Lo spreadsheet di Steele. L’Fbi avrebbe redatto un foglio excel valutando l’accuratezza e l’affidabilità di ogni richiesta nel rapporto Steele. Il 90% delle affermazioni non potevano essere confermate. E visto che il rapporto Steele è la base su cui si basa tutto il Russiagate, significa che si tratta di un colossale castello di sabbia.

L'intervista a Steele. È stato riferito e confermato che l'ispettore generale del dipartimento di giustizia ha intervistato l'ex agente dei servizi segreti britannico per almeno 16 ore sui suoi contatti con l'FBI mentre lavorava, su incarico del partito democratico, con lo studio legale Perkins Coie (che a sua volta ingaggiò una società che si occupa di raccogliere informazioni sugli avversari politici, la Fusion GPS). Steele ha ammesso nell'autunno 2016 che era alla disperata ricerca di sconfiggere Trump, e che stava lavorando per la campagna DNC / Clinton. Lo ha detto anche all’Fbi?

La terza domanda di rinnovo del mandato FISA. Nel giugno 2017 il mandato alla Fisa Court è stato rinnovato per la quarta volta, ed è stato firmato dall’allora vice procuratore generale Rod Rosenstein. Dentro, secondo Solomon, potrebbero esserci altre prove.

L’ultimo e più interessante punto, se visto dall’Italia, sono i documenti che proverebbero che gli alleati degli Usa avrebbero contribuito agli sforzi dell’Fbi per verificare i collegamenti di Trump con la Russia. I membri del congresso hanno cercato contatti con l’intelligence britannica, ma anche Australia e Italia probabilmente sono state invitate ad aiutare il Federal bureau of investigation ad abbattere il puzzone cercando in ogni modo un collegamento con la Russia. Non a caso Papadopoulos dice da tempo che Roma è l’epicentro della cospirazione, vista anche l’attività - e poi il mistero della scomparsa - di Joseph Misfud. Il 7 dicembre 2016 Renzi si dimette da Presidente del Consiglio e 5 giorni dopo entra in carica Gentiloni. Hanno avuto un ruolo anche loro nel Russiagate?

Questi documenti, conclude Solomon, se fossero resi pubblici mostrerebbero tutti gli errori e le scelte volontarie fatte per trasformare un’indagine di controspionaggio nella più grande cospirazione contro una nomina alla presidenza degli Stati Uniti, in quello che sarebbe stato un trucco clamoroso orchestrato dai Democratici. Con l’aiutino, forse di alcuni amici al di qua dell’Oceano.

Spygate, Conte al Copasir: i punti oscuri della vicenda. Roberto Vivaldelli su it.insideover.com il 23 ottobre 2019. Per il premier Giuseppe Conte si avvicina l’ora della verità sulla vicenda Russiagate/Spygate. Questo pomeriggio il presidente del consiglio sarà chiamato a riferire al Copasir dove dovrà spiegare i punti oscuri della doppia visita del ministro della giustizia Usa William Barr e del procuratore John Durham a Roma datate 15 agosto e 27 settembre. Come dichiarato dallo stesso presidente del Consiglio, fu lui ad autorizzare l’incontro tra il capo del Dis Gennaro Vecchione e Barr per cercare “nell’interesse dell’Italia di chiarire quali fossero le informazioni degli Stati Uniti sull’operato dei nostri Servizi all’epoca dei governi precedenti”, quindi Renzi e Gentiloni.

Come riporta l’agenzia Adnkronos, l’appuntamento è per oggi alle ore 15 a Palazzo San Macuto. “Chi è più vicino al presidente del Consiglio – riporta l’agenzia – lo descrive impaziente di varcare il portone a due passi da Palazzo Chigi per rispondere alle domande dei membri dell’organismo parlamentare chiamato a vigilare sui servizi segreti.” “È assolutamente tranquillo – spiegano i suoi più stretti collaboratori – la sua disponibilità a chiarire è massima e lo era già quando scoppiarono le polemiche”. Sul Russiagate, sostiene Giuseppe Conte, “è stato scritto un mare di fesserie”. “Quando spiegherò la realtà dei fatti questa vicenda si scioglierà come neve al sole. Il più grande rammarico è che siano stati tirati in ballo uomini e donne della nostra intelligence che lavorano giorno e notte per la nostra sicurezza”.

I misteri di Conte: oggi dovrà parlare al Copasir. In attesa delle spiegazioni di Conte, come spiega Repubblica, rimane ignota la natura delle informazioni che, tra il 15 agosto e il 27 settembre scorsi, il direttore del Dis Vecchione, su espressa indicazione del premier, chiese di raccogliere alle nostre due agenzie di Intelligence – Aise e Aisi – perché venissero condivise con il ministro di giustizia Barr e il procuratore speciale Durham ma l’ipotesi più accreditata è che possano riguardare il professor Mifsud e tutta la sua cerchia. Un funzionario dell’ambasciata americana a Roma ha confermato al Daily Beast che quella di Barr è stata una visita inaspettata e che gli americani erano particolarmente interessati da ciò che i servizi segreti italiani sapevano sul conto del misterioso docente maltese Joseph Mifsud al centro del Russiagate americano, colui che per primo – secondo l’inchiesta del procuratore Mueller – avrebbe rivelato a George Papadopoulos l’esistenza delle mail compromettenti su Hillary Clinton. Sempre secondo Repubblica, Conte venne messo al corrente del lavoro di raccolta di informazioni, avviato da Aise e Aisi pochi giorni dopo la prima visita di Barr a Roma (il 15 agosto). Ed ebbe modo di discuterne a Palazzo Chigi con Vecchione e i direttori di Aise (Luciano Carta) e Aisi (Mario Parente) almeno in un paio di riunioni. Della seconda, c’è una data: il 26 settembre. Vale a dire 24 ore prima dell’ultimo incontro del ministro della Giustizia americano con i nostri servizi. Ed è certo – per quello che sin qui Palazzo Chigi ha lasciato informalmente filtrare – che proprio quell’ultima riunione preparatoria tra Conte e i vertici dei nostri Servizi, sottolinea Repubblica, servì a concordare quanto era opportuno condividere con gli americani. È stato il direttore del Dis Vecchione ad avviare gli accertamenti, riporta il Corriere della Sera, su richiesta del ministro della Giustizia Barr, e la riunione convocata il 27 settembre scorso è servita proprio a dare conto dell’esito delle verifiche.

Il premier è a un bivio. Va tenuto presente lo scenario politico. Tra il 15 agosto – primo incontro fra Barr e i nostri servizi – e il 27 settembre in Italia cambia tutto. Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ora è alleato del Partito democratico, che al 2016 era al governo, nel periodo in cui si sarebbe consumato il presunto “complotto” contro Donald Trump: ciò che Conte aveva presumibilmente promesso agli investigatori americani non può più essere mantenuto, perché i nemici di prima sono diventanti i nuovi amici e alleati. Conte però è in difficoltà: correre anche solo il rischio di compromettere il rapporto con Renzi, Gentiloni, Minniti e Zingaretti equivale a minare le fondamenta del nascente esecutivo giallo-rosso. A quel punto la disponibilità concessa agli americani diventa un ritroso imbarazzo. Le richieste avanzate a ferragosto si rivelano delle pietre di inciampo. Le promesse fatte prima non possono più essere mantenute. E questo ai procuratori americani non piace per nulla. Lo stesso Conte, stuzzicato, ha ammesso ciò che InsideOver ha scritto per mesi: l’obiettivo dell’indagine di Washington è stabilire se Roma nel 2016 – nel periodo dei governi Renzi e Gentiloni – abbia collaborato con i democratici per fabbricare false prove sul Russiagate: cosa di cui lo stesso presidente Donald Trump e i repubblicani sono più che convinti. Conte, dunque, è a un bivio: se smonterà la narrativa di Donald Trump deluderà fortemente l’alleato americano. Se, al contrario, confermerà parte dei sospetti di Washington sul 2016, farà inevitabilmente salire la tensione nella maggioranza e si inimicherà il Partito democratico e Italia Viva di Matteo Renzi (che già lo vorrebbe sostituire con Dario Franceschini). Pertanto Conte dovrà muoversi su un equilibrio estremamente delicato.

FATE PARLARE PAPADOPOULOS. Da Adnkronos il 23 agosto 2019. "Voglio che gli americani vedano cosa è successo. Essere spiati da Fbi/Cia, dal Regno Unito, dall’Australia e dall’Italia non è uno scherzo, specialmente quando lo scopo era tentare un colpo di stato e interferire nel processo democratico in America. Lo dirò per la prima volta". George Papadopoulos, ex consigliere per la politica estera della campagna di Donald Trump per il voto 2016, si esprime così in un tweet. Papadopoulos si è dichiarato colpevole di aver reso una falsa dichiarazione al Fbi riguardo ai suoi contatti con funzionari legati al governo russo e ha scontato 14 giorni di carcere. In un altro messaggio, Papadopoulos si dice pronto a "testimoniare" al Congresso e pubblica il filmato di una dichiarazione di Lindsey Graham, presidente della Commissione Giustizia del Senato, in una trasmissione della Fox: "Mi piacerebbe convocarlo e vorrei che dicesse al mondo che tipo di interazioni ha avuto, dove le ha avute...", le parole di Graham riferite a Papadopoulos.

Roberto Vivaldelli per it.insideover.com il 23 agosto 2019. George Papadopoulos, ex membro del comitato consultivo per la politica estera nella campagna elettorale di Donald Trump durante le elezioni presidenziali del 2016, sarà ascoltato nei prossimi giorni dal presidente della Commissione Giustizia del Senato, il Senatore Lindsey Graham. Papadopoulos sarà sentito dopo che, lo scorso aprile, il ministro della Giustizia americano William Barr ha costituito un team investigativo guidato dal procuratore John Durham per indagare sulle origini delle indagini dell’Fbi sul Russiagate nel 2016 e determinare se la raccolta di informazioni sulla campagna di Trump fosse “lecita e appropriata”. Su Twitter, l’ex consulente di The Donald conferma di essere “in attesa di testimoniare” e anticipa i contenuti delle sue dichiarazioni. Il governo italiano dell’epoca (Renzi-Gentiloni) sarebbe pienamente coinvolto e le accuse sono pesantissime: “Voglio che gli americani vedano cosa è successo. Essere spiati da Fbi/Cia, dal Regno Unito, dall’Australia e dall’Italia non è uno scherzo, specialmente quando lo scopo era tentare un colpo di stato e interferire nel processo democratico in America. Lo dirò per la prima volta. Attraverso i miei occhi”.

Papadopoulos contro Renzi e Gentiloni. Nelle scorse settimane, l’ex consigliere di Donald Trump ha rilasciato un’intervista a InsideOver, nel quale affermava: “Tutto quello che posso dire è che a mio avviso, il rapporto dell’Italia [con gli Stati Uniti] non progredirà a meno che tutte le informazioni sulle attività di Joseph Mifsud e la Link Campus riguardanti lo spionaggio e il lavoro con le agenzie di intelligence americane contro di me e Trump nel 2016-2017 venga rivelato”. Papadopoulos ha da poco pubblicato il libro Deep State Target, un “resoconto di prima mano che dimostra il tentato sabotaggio della campagna presidenziale di Donald Trump da parte di servizi di intelligence americani e internazionali”. Un “complotto” in piena regola, secondo l’ex collaboratore del tycoon, che prende il nome di “Spygate”. Come ha sempre sostenuto, il nostro Paese è “l’epicentro della cospirazione”. Per questo il senatore Graham, vicino al presidente Usa, ascolterà il consulente di origini greche nei prossimi giorni. Come aveva peraltro annunciato poche settimane fa. “Chiameremo Papadopoulos; scopriremo cosa è successo”, ha dichiarato nel mese di luglio il repubblicano della Carolina del Sud in un’audizione con il direttore dell’Fbi Christopher Wray. In un’intervista rilasciata a Fox News, il presidente della Commissione Giustizia del Senato ha ribadito che vuole delle risposte circa il ruolo della Cia e della Casa Bianca di Obama nell’azione di controspionaggio ai danni di Donald Trump nel 2016 e se l’ex Presidente ne fosse a conoscenza. “In tutta questa operazione di intelligence, che ruolo ha avuto la Cia? Chi lo sapeva alla Casa Bianca? C’è una domanda da porsi” ha sottolineato Graham. “Il presidente Obama è stato informato del fatto che stavano aprendo un’indagine di controspionaggio contro la campagna di Trump? Mi piacerebbe saperlo”.

Si parlerà di Joseph Mifsud. Nella sua deposizione, Papadopoulos parlerà sicuramente anche di Joseph Mifsud il professore della Link University, l’università privata fondata da Vincenzo Scotti. Secondo la ricostruzione ufficiale, il docente rivelò in un incontro dell’aprile 2016 all’allora consulente di Trump di aver appreso che il governo russo possedeva “materiale compromettente” (dirt) su Hillary Clinton “in forma di e-mail”. Papadopoulos avrebbe ripetuto tali informazioni all’Alto Commissario australiano a Londra, Alexander Downer, che a sua volte riferì tutto alle autorità americane. Da qui, il 31 luglio 2016, partirono le indagini dell’Fbi sui presunti collegamenti fra Trump e la Russia, accuse che in seguito si sono dimostrate false. Come vi abbiamo raccontato su Il Giornale.it, il professore maltese nelle scorse settimane ha fornito una deposizione audio al Procuratore John Durham. La notizia della deposizione di Mifsud è stata data in diretta su Fox News dal giornalista investigativo John Solomon: “Posso assolutamente confermare che gli investigatori di Durham hanno ottenuto una deposizione audio di Joseph Mifsud dove egli descrive il suo lavoro, perché ha preso di mira George Papadopoulos, chi lo ha indirizzato a fare questo, quali istruzioni gli furono date, e perché ha messo in moto l’intero processo di introduzione di Papadopoulos alla Russia nel marzo 2016, che è davvero il punto focale e di partenza di tutta la vicenda della narrativa sulla collusione” ha spiegato Solomon incalzato dalle domande di Sean Hannity. “Posso inoltre confermare – ha aggiunto il giornalista – che la Commissione giudiziaria del Senato ha ottenuto la stessa deposizione”. In attesa che le indagini proseguano, negli Stati Uniti è maturata la piena convinzione che nel 2016 l’Italia cospirò contro l’allora candidato alla presidenza Donald Trump, come confermato anche dall’avvocato del tycoon, l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani. “Ci sono molte prove di ciò che è accaduto in Ucraina. Numerose prove di ciò che è accaduto nel Regno Unito. In Italia. Questa è stata una cospirazione globale che ha cercato di privare il popolo americano della persona che ha eletto presidente” ha dichiarato di recente l’ex sindaco della Grande Mela.

Antonio Grizzuti per “la Verità” il 2 settembre 2019. Uno tsunami geopolitico di proporzioni gigantesche, partito dall' altra sponda dell' Atlantico e in procinto di abbattersi sulle nostre coste. Nato come filone del Russiagate (l' indagine sulla presunta e ormai smentita collusione del presidente Donald Trump col Cremlino), lo Spygate rappresenta il presunto piano ordito ai danni del presidente per danneggiare la campagna e minarne la reputazione. Parte della risposta a questo mistero potrebbe essere proprio in Italia, nascosta tra le pieghe di una vicenda della quale i media hanno parlato alcuni mesi fa e che pare caduta nel dimenticatoio. Ma che adesso, grazie ai nuovi sviluppi, è pronta a esplodere. Protagonisti di questo giallo George Papadopoulos, ex consigliere della campagna di Trump, e il maltese Joseph Mifsud, docente all' Università privata Link Campus di Roma, fondata dall' ex ministro Vincenzo Scotti. Nel 2016 Mifsud incontra Papadopoulos proprio alla Link, e lo introduce negli ambienti russi, millantando di essere in possesso di migliaia di email compromettenti firmate da Hillary Clinton. Il giovane consigliere casca nella trappola, ma quando se ne accorge è troppo tardi perché il Russiagate ormai ha già travolto tutti. Ora che la vicenda dell' ingerenza russa è scoppiata come una bolla di sapone, Papadopoulos verrà ascoltato dal presidente della commissione Giustizia del Senato americano, Lindsey Graham. Un' audizione nella quale lui stesso annuncia di voler rivelare dettagli scottanti anche sul nostro Paese: «Essere spiato da Fbi, Cia, Regno Unito, Australia e Italia non è uno scherzo, specie quando lo scopo era ordire un colpo di stato e interferire col processo democratico in America». Possibile che il governo guidato da Paolo Gentiloni e il Pd di Matteo Renzi non fossero a conoscenza di questa storia? Per questo le voci dicono che le confessioni di Papadopoulos potrebbero riservare brutte sorprese ai due politici dem. Nella vicenda potrebbe rimanere invischiato anche il M5s, non fosse altro perché dalla Link ha pescato a piene mani (il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, e il viceministro degli Esteri, Emanuela Del Re, hanno insegnato proprio in quell' ateneo) e considerato che ora rischia di trovarsi alleato di governo con il Pd. La vicenda dimostra che destra e sinistra non sono le uniche direttrici entro le quali si muove la crisi di governo italiana. Da Washington seguono con attenzione le nostre fortune politiche arrivando, come raramente accaduto in passato, a sbilanciarsi sul risultato della partita. Prova ne è il fatto che negli ultimi giorni due tra i più diffusi quotidiani degli Usa, Wall Street Journal e New York Times, hanno dedicato ampio spazio agli sviluppi della crisi, fornendo peraltro chiavi di lettura alternative. Nell'editoriale pubblicato martedì, il Wsj si è esposto sorprendentemente a favore del leader leghista: «Se gli sforzi per la formazione di un governo con un' altra maggioranza dovessero fallire», si legge nell' articolo, «gli elettori potrebbero dare un' altra possibilità a Salvini». A quel punto, a prescindere dalle rigide regole di bilancio, i «mandarini di Bruxelles» dovrebbero fare un bel bagno di umiltà e lasciare spazio al Capitano: «Un' Italia povera e non riformata non è una minaccia minore alla stabilità politica ed economica dell' Europa rispetto all' idea di rilancio che Salvini sta cercando di attuare tramite le riforme nell' ambito del fisco e della politica». Più tiepido ma decisamente meno favorevole all' opzione del ritorno alle urne il New York Times, che utilizza un tono molto critico nei confronti di Salvini, sottolineando il fatto che per molti analisti le elezioni vengono considerate uno «scenario da incubo».

 “TRUMP È IL PIÙ GRANDE PRESIDENTE DEL SECOLO". DAGONEWS il 22 agosto 2019. L’ottantenne Jon Voight incensa sui social Donald Trump e incassa i ringraziamenti del Presidente. Nei giorni scorsi l’attore, padre di Angelina Jolie, ha pubblicato un video in cui randellava la sinistra radicale e definiva Trump il più grande presidente di questo secolo: «Questa non è pace. Questo non è amore. Questo è odio della sinistra radicale. L'amore è ciò per cui dovremmo votare. E devo dire che noi - il Partito repubblicano - abbiamo votato per il rinnovamento, per un posto sicuro, una comunità dove tutti possono avere la pace. Ma questa è guerra portata dalla sinistra. Hanno odio in corpo, il loro è come un veleno. Niente parole di Dio, niente parole d'amore, ma solo odio». L’attore ha poi aggiunto: «L’ho detto molte volte e lo dico di nuovo. Dal profondo del mio cuore e della mia anima, vi dico che il presidente Trump è un uomo di verità, amore e giustizia per il popolo americano e anche per il popolo di un luogo sacro come è Israele. Non solo ama il nostro paese, gli Stati Uniti d'America, ma ha amore per il popolo di tutte le nazioni. Preghiamo per la pace, preghiamo per questo paese affinché il presidente Trump lavori per altri quattro anni. Lui è il più grande presidente di questo secolo». Le parole di Voight sono state accolte positivamente da Trump che ha twittato: «Grazie Jon, sto lavorando sodo!».

Spygate, quel piano di Fbi e Clinton contro Trump. Roberto Vivaldelli su it.insideover.com il 14 agosto 2019. Judicial Watch, gruppo di attivisti vicini al mondo conservatore, ha chiesto e ottenuto la pubblicazione di un carteggio di 34 pagine con le trascrizioni degli interrogatori dell’Fbi – condotti tra la fine del 2016 e i primi mesi del 2017 – a Bruce Ohr, il funzionario del Dipartimento di Giustizia (Doj) che aveva contatti continui Christopher Steele, l’ex spia britannica che ha prodotto per conto della società Fusion Gps il dossier contenente false informazioni sui rapporti fra la campagna di Donald Trump e la Russia durante la campagna presidenziale del 2016. Un dossier finanziato dalla campagna di Hillary Clinton, dal Democratic National Committe e dal Washington Free Bacon. Il memorandum pubblicato – denominato report 302 – descrive nel dettaglio la dozzina di interviste che gli agenti hanno fatto a Ohr mentre l’agenzia stava indagando sui potenziali legami tra Trump e la Russia. La moglie di Ohr, Nellie, lavorava per la società investigativa privata Fusion Gps e ha riferito al marito delle indagini che Steele stava conducendo per conto l’azienda. “Questi nuovi documento mostrano uno sforzo irregolare senza precedenti da parte dell’Fbi, del Dipartimento di Giustizia e del Dipartimento di Stato per gettare fango sul presidente Trump usando il compromesso Bruce Ohr, sua moglie, la campagna di Clinton e Fusion Gps”, ha spiegato Tom Fitton di Judicial Watch, il gruppo conservatore che ha ottenuto i documento grazie al Freedom of Information Act.

Un “complotto” contro Donald Trump? Judicial Watch ha ottenuto le e-mail di Ohr che dimostrano come il funzionario sia rimasto regolarmente in contatto con l’ex spia britannica e collaboratore di Fusion Gps Christopher Steele nonostante quest’ultimo fosse stato licenziato dall’Fbi nel novembre 2016 per aver rivelato ai media la sua posizione di informatore confidenziale del bureau. Ohr organizzò diversi incontri con Steele, gli parlò regolarmente al telefono e gli fornì assistenza quando l’ex spia dovette parlare con i media. Ohr, che conosceva Steele dal 2007, aveva avuto un incontro con lui il 30 luglio 2016, poco prima che l’Fbi avviasse ufficialmente le sue indagini su Donald Trump e la Russia. Ma il funzionario del dipartimento ha mantenuto i contatti con Steele anche dopo le elezioni. Tra la fine di novembre 2016 e maggio 2017, Ohr parò con Steele quasi una dozzina di volte. I documenti rivelano inoltre che Ohr incontrò anche Glenn Simpson, cofondatore di Fusion Gps, che assunse Steele per produrre il dossier. Il 10 dicembre 2016, Simpson ha dato a Ohr una chiavetta contenente le ricerche che credeva fossero di Steele. Ohr consegnò la chiavetta Usb all’Fbi come prova due giorni dopo. Come se non bastasse, Ohr sapeva già nel luglio 2016 che Steele voleva che Trump perdesse e che il suo dossier era finanziato dalla campagna di Hillary Clinton. Nonostante ciò, ha continuato a utilizzare il dossier Steele per richiedere altri tre mandati di sorveglianza su un ex funzionario della campagna Trump senza dirlo al tribunale. Il dossier, i cui contenuti sono stati smentiti dallo stesso Steele in seguito, conteneva affermazioni infondate secondo cui gli agenti dell’intelligence russa avrebbero filmato il presidente Trump con delle prostitute in un hotel di Mosca. Inoltre, secondo il dossier, Michael Cohen, ex avvocato del tycoon, si sarebbe recato a Praga nell’agosto del 2016 per prendere accordi con gli agenti del Cremlino e con gli hacker. Un mare di bugie.

“Solo la punta dell’icerberg”. Il senatore Lindsey Graham ha dichiarato che le rivelazioni su Bruce Ohr sono solo “la punta dell’iceberg”. Durante un’intervista con Sean Hannity su Fox News, il repubblicano della Carolina del Sud ha dichiarato di aspettarsi la pubblicazione di ulteriori informazioni sulla genesi dell’indagine Trump-Russia e sui possibili comportamenti scorretti da parte dell’Fbi e del Dipartimento di Giustizia. “So personalmente che c’è molto di più e ciò che è esce è solo parziale”, ha detto Graham. “Ecco cosa stiamo osservando: corruzione sistematica ai massimi livelli del Dipartimento di Giustizia e dell’Fbi contro il presidente Trump e a favore di Hillary Clinton“, ha detto Graham. Per il deputato Jim Jordan, viene confermato “ciò che già sapevamo: la narrativa della "collusione russa" è stata costruita sul coordinamento tra i massimi funzionari dell’Fbi/Doj e la campagna di Clinton”. Che l’Fbi sapesse che il dossier Steele fosse inattendibile è un dato di fatto. Il resoconto del vice segretario di Stato Kathleen Kavalec del suo incontro dell’11 ottobre 2016 con Christopher Steele conferma che il già funzionario dell’intelligence britannica, finanziato dalla campagna elettorale di Hillary Clinton, ammise in tempi non sospetti che la sua ricerca era politica e doveva produrre qualcosa entro la data delle elezioni del 2016. Quella confessione, osserva John Solomon su The Hill, avvenne 10 giorni prima che l’Fbi usasse il dossier completamente screditato di Steele per giustificare l’ottenimento di un mandato del Foreign Intelligence Surveillance Act (Fisa) per sorvegliare l’ex consigliere della campagna Trump, Carter Page.

Hillary Clinton, lo scandalo delle e-mail è tutt’altro che chiuso. Roberto Vivaldelli il 26 agosto 2019 su it.insideover.com. Il caso delle e-mail di Hillary Clinton potrebbe essere tutt’altro che chiuso. Nel luglio 2016, l’Fbi, attraverso l’ex capo del bureau James Comey, comunicò che non ci sarebbe stata alcuna incriminazione per l’ex segretaria di Stato, in merito al contestato utilizzo di un server privato per la posta elettronica, nel periodo in cui la Clinton guidava la diplomazia Usa. Comey definì Clinton e il suo staff “estremamente negligenti” per quanto hanno combinato con la storia delle mail, ma sottolineò che non c’era alcuna prova che abbiano inteso violare la legge. Ora, però, sembra esserci l’ennesimo colpo di scena. Come riporta il giornalista investigativo John Solomon su The Hill, grazie all’incessante lavoro del presidente della commissione finanze del Senato Chuck Grassley e del presidente della commissione per la sicurezza e gli affari governativi del Senato Ron Johnson, infatti, sembra che il caso delle e-mail sia tutt’altro che chiuso. Secondo un memorandum dei due senatori che indagano sul caso, nel 2016 l’Fbi – non esaminò prove “altamente classificate” che potrebbero dare risposte a molte domande sull’operato di Hillary Clinton.

Nel 2016 l’Fbi ignorò prove fondamentali. Da ciò che emerge, la sensazione è che il bureau non fece adeguatamente il proprio dovere fino in fondo. Forse per salvare Hillary Clinton dalla possibile incriminazione? Secondo il memorandum redatto dai due senatori, nel 2016 “l’Fbi decise di non accedere a determinate informazioni altamente classificate e potenzialmente rilevanti per l’indagine” si legge, nonostante il bureau fosse consapevole della loro importanza ai fini dell’indagine e una loro lettura fosse “necessaria”. A seguito di questa rivelazione, il 16 aprile 2019, i senatori Grassley, Johnson e Graham hanno inviato una lettera al procuratore generale William Barr ribadendo la necessità di una risposta scritta. “Inizialmente – scrive Solomon – il capo avvocato dell’Fbi James Comey pensava che Hillary Clinton dovesse essere incriminata, e l’ufficio scrisse una bozza a sostegno di quella decisione, salvo poi rinunciare. E ora apprendiamo che l’Fbi ha scelto volontariamente di ignorare prove altamente classificate nel caso delle e-mail. È esattamente quel tipo di comportamento che porta molti americani a chiedersi se ci siano due sistemi giudiziari all’interno dell’Fbi: uno per i Clinton e uno per il resto del Paese”. Nei giorni scorsi, inoltre, sempre sul caso emailgate, un giudice federale di Washington Dc ha accolto quasi tutte le richieste di ulteriori accertamenti da parte del gruppo conservatore Judicial Watch. Nei prossimi mesi, sette funzionari del Dipartimento di Stato dovranno pertanto deporre rispetto alla loro condotta nel periodo in cui Hillary Clinton era Segretario di Stato.

Così l’Fbi salvò Hillary dall’incriminazione. Secondo quanto emerso a dicembre 2017, la dichiarazione dell’ex direttore dell’Fbi James Comey inerente l’inchiesta sulle e-mail di Hillary Clinton fu modificata più volte in modo da “annacquare” le conclusioni del bureau e salvare Hillary dall’incriminazione. Come dimostra la documentazione resa pubblica dal senatore Ron Johnson – presidente del Senate Homeland Security Committee – l’agenzia governativa ha apportato delle modifiche alla bozza in maniera tale da non dare luogo a un’accusa formale nei confronti dell’ex Segretario di Stato. Nella bozza iniziale, Comey affermava che era “ragionevolmente probabile” che “attori ostili” avessero accesso all’account personale di posta elettronica dell’ex segretario di stato Hillary Clinton: quel “probabile” è stato modificato successivamente in “possibile”, stravolgendo completamente il peso della dichiarazione. Un altra modifica mostra come le azioni di Clinton e dei suoi colleghi siano passate dall’essere “negligenti” a “estremamente distratte”. Questa è, come rileva Fox News, una distinzione legale fondamentale e non una banale questione stilistica o di forma.

Così Obama ha coperto George Soros in Ucraina, scrive il 29 marzo 2019 Roberto Vivaldelli su Gli Occhi della Guerra. Ucraina, 2016. Mentre negli Stati Uniti infuria la battaglia politica per le elezioni presidenziali in cui si sfidano Donald Trump e Hillary Clinton, a Kiev i pubblici ministeri indagano sulle attività dell’organizzazione no-profit Anti-Corruption Action Center (AntAC). L’attenzione degli inquirenti sull’organizzazione – i cui giovani attivisti sono soliti indossare le celebri r-shirt “Ucraina F * & k Corruption” – fa parte di una più ampia indagine avviata dall’Ufficio del Procuratore generale dell’Ucraina su una donazione illegale di circa 4,4 milioni di dollari proveniente dagli Stati Uniti. Secondo il Procuratore generale, quei soldi erano stati donati all’organizzazione in maniera impropria. Tuttavia, come racconta l’inchiesta del giornalista investigativo John Solomon pubblicata per The Hill,  l’amministrazione americana di Barack Obama e l’ambasciata statunitense di Kiev si mettono di mezzo alle indagini che riguardano proprio l’AntAC, un’organizzazione no-profit finanziata dal magnate George Soros, fondatore dell’Open Society Foundations. 

Così Barack Obama “bloccò” l’inchiesta sul gruppo finanziato da George Soros. Come dimostra il carteggio pubblicato da The Hill, George Kent, funzionario dell’ambasciata americana in Ucraina, scrive nell’aprile 2016 una lettera all’ufficio del Pubblico ministero nella quale afferma che i funzionari americani non hanno dubbi sulla legalità delle donazioni provenienti dagli Usa. “L’inchiesta che coinvolge l’ Anti-Corruption Action Center (AntAC) è fuori luogo” scrive il 4 aprile 2016 George Kent a Yuriy Stolyarchuk, all’epoca Procuratore generale dell’Ucraina. “In quel periodo – sottolinea Solomon su The Hill – il Procuratore generale viene licenziato, su pressione degli Stati Uniti, e non viene nominato un sostituto permanente”. Alcuni mesi dopo, Yuri Lutsenko, ex Ministro dell’Interno, “considerato un eroe in Occidente” viene nominato “Procuratore generale e subito invitato a incontrare il nuovo ambasciatore degli Stati Uniti in Ucraina, Marie Yovanovitch”. L’ambasciatrice americana, come conferma lo stesso Lutsenko, consegna al neo-Procuratore una lista di persone “da non perseguire” tra cui il fondatore del gruppo AntAC e due parlamentari vicini al gruppo finanziato dal magnate Soros. 

Un messaggio chiaro: non far scoppiare lo scandalo. Come rileva Solomon, il messaggio implicito che arriva ai procuratori ucraini è chiaro: non prendere di mira l’AntAC nel bel mezzo di un’elezione presidenziale americana in cui George Soros sta sostenendo Hillary Clinton al fine di succedere a un altro politico vicino al finanziere, Barack Obama. Secondo quando riportato da Business Insider, infatti, Soros destina all’allora candidata alle elezioni presidenziali per il partito democratico circa 6 milioni di dollari. Secondo Politico, tuttavia, le donazioni del magnate destinate al partito democratico americano superano la cifra record di 25 milioni di dollari. Il finanziere, ora contribuente della campagna elettorale di +Europa di Emma Bonino per le elezioni europee, poteva forse permettersi di essere coinvolto in uno scandalo in Ucraina proprio durante le elezioni? Alla fine, su pressione dell’amministrazione Obama, nessuna azione legale viene intrapresa contro AntAC, che continua ad operare ancora oggi e dichiara di essere estranea al finanziere Soros e alle sue attività. Chi si stupisce dei metodi impiegati dal magnate dovrebbe ascoltare l’intervista nel quale lo stesso fondatore della Open Society ammette di aver avuto un ruolo cruciale nei fatti di EuroMaidan nel 2014. “Ebbene ho creato una fondazione in Ucraina prima che diventasse indipendente dalla Russia. La fondazione è in funzione da allora e ha giocato un ruolo importante negli eventi attuali”. Parola di George Soros. 

Quei comici vicini alla sinistra che ora non fanno più ridere, scrive il 27 marzo 2019 Matteo Carnialetto su Gli Occhi della Guerra. “Signor presidente, siamo dispiaciuti di averla chiamata un corrottosauro con la testa a forma di zucca arancione amante del piscio russo. Parti di queste definizioni non erano accurate. Quello che è successo è stato come scendere le scale il giorno di Natale sperando di trovare una Bmx nuova di zecca, e invece trovare il cadavere di Babbo Natale bruciato perché i tuoi genitori si sono dimenticati di spegnere il fuoco”.  A parlare è Trevor Noah, presentatore del Daily Show. Il signor presidente, invece, è Donald Trump, ormai scagionato dalle accuse di collusione con i russi. Il famoso (e famigerato) Russiagate si è alla fine rivelato una balla colossale. Una bolla di sapone creata per screditare un presidente di rottura. Tant’è che ora i democratici, che non si sono ancora ripresi dalla botta del 2016, stanno cercando nuove vie per mettere nell’angolo il tycoon, chiedendo la pubblicazione integrale del rapporto di Mueller. Eppure, la lettera inviata dal ministro della Giustizia, William Barr, ai leader delle Commissioni giustizia di Camera e Senato è chiara: “L’inchiesta del Super procuratore ha concluso che il comitato elettorale di Donald Trump e alcuno dei suoi consiglieri non abbiano cospirato o non si siano coordinati con la Russia nello sforzo di influenzare le elezioni generali del 2016”. Certo, nella stessa lettera si legge anche: “Il Super procuratore non raggiunge una conclusione, in un senso o nell’altro, quando si tratta di verificare se la condotta del presidente costituisca o no ‘ostruzione’. Il Super procuratore stabilisce che mentre questo rapporto non conclude che il presidente abbia commesso un crimine, nello stesso tempo non lo scagiona del tutto”. Innocente, quindi, fino a prova contraria. Ma pur sempre innocente, piaccia o meno. Ma Noah non è l’unico comico ad aver chiesto “scusa” a The Donald. Stephen Colbert, per esempio, è riuscito a fare di “meglio”: “Ho detto una o due cose su Donald Trump, definendo un presidente terribile. Signor presidente, se sta guardando, e so che lo sta facendo… Mi dispiace che lei sia un presidente terribile”. E ancora: “In questo fine settimana abbiamo ricevuto notizie preoccupanti secondo le quali il nostro presidente non è una risorsa dei russi. Ma se Trump non lavora con i russi, allora che diavolo c’è di sbagliato in lui? Perché continua a dire cose carine su Vladimir Putin”. Stessa linea di Jimmy Kimmel di Abc: “Putin lo voleva lì e ha fatto quello che doveva fare. Fondamentalmente Trump è entrato nella Casa Bianca nello stesso modo in cui Lori Loughlin ha portato suo figlio alla Usc”. Il riferimento è a un presunto pagamento di 500mila dollari, fatto dall’attrice, per far ammettere la figlia nella prestigiosa università. In pratica, Putin avrebbe pagato – chi non è dato sapere – per dare una spintarella a Trump. Accuse inesistenti, come abbiamo detto. Ma il vero punto è un altro. Trump non piace a quello che, forse un po’ troppo sbrigativamente, potremmo chiamare establishment e che tocca ogni aspetto della vita e della politica americana, in particolare i media.  Ricordate Giovanna Botteri? “Che cosa succederà a noi giornalisti? Non si è mai vista come in queste elezioni una stampa così compatta e unita contro un candidato… che cosa succederà ora che la stampa non ha più forza e peso nella società americana?”. E poi c’è il mondo dello spettacolo. Marylin Manson, per esempio, pubblicò un video in cui si vedeva un uomo, vestito come Trump, senza testa e in una pozza di sangue. E che dire di Robert De Niro? L’attore ha per esempio detto di voler tirare un pugno in faccia al tycoon. Una violenza verbale che avrebbe provocato una levata di scudi se solo il presidente fosse stato democratico. Ma ora il risultato dell’inchiesta di Mueller ha ribaltato tutto. Ma in America c’è ancora chi non ci crede. Perché l’obiettivo, messo da parte il Russiagate, rimane sempre e comunque Trump.

Quelle fake news contro Kim e Trump. Roberto Vivaldelli 3 giugno 2019 su it.insideover.com. Kim Yong-chol, vicepresidente del Comitato centrale del Partito dei lavoratori della Corea del Nord, era a Pyongyang domenica sera ad assistere ad un concerto. Soltanto venerdì il Chosun Ilbo, quotidiano di Seul, aveva scritto che l’ex capo dei servizi militari era finito in un’ampia epurazione e inviato in un campo di lavoro pagando il fallimento del secondo summit con gli Usa del 27-28 febbraio, ad Hanoi: epurazione che sarebbe costata la vita anche al diplomatico Kim Hyok-chol e ad altri quattro funzionari del ministero degli Affari Esteri del Paese. Come spiega il Corriere della Sera, Kim Yong-chol, 72 anni, ha il rango di vicepresidente del Comitato centrale del Partito dei lavoratori e oggi è stato citato dall’agenzia nordcoreana Kcna al decimo posto nell’elenco di 12 alti funzionari che hanno assistito al fianco del Supremo Leader a un concerto tenuto domenica sera a Pyongyang. In realtà, nonostante la grande diffusione mediatica, la notizia diffusa dal Chosun Ilbo, ora definitivamente smentita dalle immagini circolate in queste ore, era stata appresa con scetticismo persino dai funzionari e dai diplomatici degli Stati Uniti in Asia, scrive il Washington Post. Peraltro, né il governo sudcoreano né quello degli Stati Uniti hanno pubblicamente confermato il rapporto su Kim Hyok-Chol e Kim Yong-Chol.

Le “Fake news” dei media sudcoreani. La notizia del ciclo d’epurazioni che avrebbe colpito in Corea del Nord i funzionari “responsabili” del fallimento del secondo summit con gli Usa di fine febbraio si è dunque rivelata in buona parte falsa e infondata e fa parte di una narrativa portata avanti da alcuni media sudcoreani come il Chosun Ilbo al fine di influenzare i colloqui fra Kim e Trump. Come ricorda il Washington Post, il quotidiano di Seul riportò nel 2013 la notizia che Hyon Song Wol, un’artista nordcoreana descritta come l’ex-fidanzata di Kim Jong Un, era stata giustiziata in pubblico per la presunta vendita di materiale pornografico. Buona parte di quella news si rivelò in seguito falsa: Hyon si recò due giorni a Seoul nel gennaio 2018, ed era viva. Il Chosun Ilbo è uno dei maggiori quotidiani della Corea del Sud e segue con fervore gli eventi della Corea del Nord (dopo il summit di Kim Jong-Un con il presidente della Corea del Sud Moon Jae-lo scorso maggio, ha chiesto agli esperti di osservare le scarpe del leader nordcoreano nel tentativo di valutare la sua altezza). Tuttavia, osserva il Wp, il giornale ha una linea editoriale fortemente conservativa ed è molto critico nei confronti della Corea del Nord. Ha riportato una serie di storie sensazionali su Pyongyang che in seguito si sono rivelate infondate. L’alto livello di segretezza della società nordcoreana consente a queste speculazioni di diffondersi rapidamente. Secondo il Corriere della Sera, in passato, i giornali di Seul hanno anticipato la morte di alti gradi del regime, come lo zio di Kim Jong-un epurato e giustiziato nel 2013; ma il Chosun Ilbo ha anche dato per morti altri esponenti che poi sono tornati in scena e godono di ottima salute.

Rapporti freddi dopo il summit di Hanoi. Al di là delle presunte epurazioni di Kim, i rapporti fra Stati Uniti e Corea del Nord si sono effettivamente raffreddati. La scorsa settimana, Pyongyang ha preso di mira John Bolton, definito un “mercante di guerra” e un “prodotto umano difettoso”. Il consigliere sulla Sicurezza nazionale della Casa Bianca aveva definito i recenti test di missili a corto raggio di Pyongyang un’evidente violazione delle risoluzioni dell’Onu, sottolineando che le sanzioni “devono essere mantenute”. “Le sue affermazioni sono più che ignoranti – ha dichiarato un portavoce del ministero degli Esteri nordcoreano all’agenzia di stato Kcna – le nostre esercitazioni militari non hanno preso di mira nessuno né hanno messo in pericolo i Paesi confinanti. Ma Bolton si accanisce a dire che questo costituisce una violazione delle risoluzioni, mettendo il naso impudentemente in affari interni altrui”. “Sarebbe giusto chiamare Bolton non un consigliere di sicurezza ma un consigliere distruttore sicurezza che fa a pezzi la pace e la sicurezza”, ha aggiunto. Per Donald Trump, il falco neoconservatore John Bolton comincia ad essere un serio ostacolo: a questo punto potrebbe essere tentato di tornare a quella “diplomazia personale” che tanto lo ha contraddistinto rispetto a tutti gli altri presidenti Usa.

NER-VINO VERITAS. Guido Santevecchi e Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 12 giugno 2019. Kim Jong-nam è partito per l'ultimo viaggio mimetizzandosi da turista ma armato come una spia. Nel suo bagaglio a mano ha infilato un paio di passaporti e una scorta di fialette d' atropina, un antidoto contro i veleni. Poi un computer, zeppo di dati che doveva passare ad un suo contatto. Un uomo della Cia con il quale si era visto più volte. Un rapporto che gli è stato fatale: agli occhi del suo fratellastro, il Maresciallo Kim Jong-un, ha rappresentato un atto di tradimento. Jong-nam trescava con il nemico e lo faceva per soldi. Dunque doveva essere punito con una morte atroce, avvenuta il 13 febbraio del 2017 a Kuala Lumpur, Malaysia. La storia dei legami tra la vittima e l' intelligence statunitense non è inedita, era già emersa dopo l' agguato. Solo che ora è stata rilanciata dal Wall Street Journal e da un nuovo libro, The Great Successor , scritto dalla brava giornalista Anna Fifield. Risvolti che destano maggiore interesse visto l' instabile dossier coreano, con le voci inverificabili, i messaggi a distanza (Trump ha ricevuto una lettera dal leader) e la consueta difficoltà a comprendere cosa accada realmente nel Paese più chiuso al mondo. Torniamo allora all'inverno di due anni fa. Kim Jong-nam vive da tempo con la famiglia a Macao, qui ha coltivato grandi rapporti, soprattutto con cinesi e giapponesi. Fa la bella vita, butta un mare di soldi nei casinò e si dedica al turismo. Il regime, per un certo periodo, se ne è servito. Ad esempio fornendogli dollari falsi stampati nel Regno Rosso e poi riciclati all' estero, uno dei tanti canali di autofinanziamento creati dagli apparati riservati. Solo che Jong-nam non si accontenta, ha bisogno di altro liquido, è corteggiato da amici e nemici di Pyongyang come possibile alternativa all' attuale leader. Non ha le stesse capacità, è stato estromesso dai giochi, però è parte della dinastia. E questo basta. Inoltre ha mantenuto buoni rapporti con lo zio, Jang Song-thaek, personaggio gradito a Pechino e poi giustiziato dal plotone d' esecuzione nel 2013, in quanto considerato una minaccia interna. Una parabola che sarà seguita anche da Kim Jong-nam. Le sue mosse infatti iniziano a destare allarme in patria, i servizi temono che qualcuno lo appoggi per un golpe. Da qui parte un ordine, perentorio, con il quale il presidente chiede al fratellastro di rientrare. Lui prende tempo. Sa che i richiami, a volte, sono l' anticamera per il patibolo. Alle resistenze unisce altri passi, imprudenti, che accelerano la sua fine. Usando sempre i viaggi all' estero come copertura incontra ripetutamente un presunto emissario della Cia. Ha i tratti asiatici, ha radici coreane, conosce bene la regione ed è basato a Bangkok. Vuole sapere molto, in cambio offre molto: quei dollari fruscianti che alimentano passioni e vizi di Kim. Il meccanismo funziona, dunque lo ripetono appena è possibile. Il 6 febbraio 2017, il fratellastro del grande leader lascia Macao e raggiunge Kuala Lumpur, due giorni dopo si trasferisce in un resort sull' isola di Langkawi. Bagni, divertimento, sole e lavoro. Perché il 9 appare l' agente Cia. Kim e l'emissario si ritrovano nell' hotel, stanno insieme per due ore. Una telecamera di sicurezza li filma - in apparenza - in ascensore. È durante questo meeting, come accerteranno le successive indagini, che nel portatile della vittima viene inserita una chiavetta Usb, probabilmente necessaria al passaggio di materiale. Il 12 la coppia si divide. Kim torna a Kuala Lumpur, qualche ora dopo è un uomo morto, ucciso da una miscela al nervino che due donne gli hanno cosparso sul volto nell' aeroporto di Kuala Lumpur.

Attentato attribuito ai servizi nordcoreani e per il quale non ha pagato nessuno. Le due esecutrici materiali, identificate dalle telecamere di sicurezza dell' aeroporto di Kuala Lumpur sono state arrestate, rinviate a giudizio e liberate in circostanze poco chiare all' inizio di quest' anno. Erano due giovani attive nel mondo dell'«intrattenimento» (prostituzione) in Malesia: una vietnamita, l' altra indonesiana. Si sono difese sostenendo di essere state ingannate da uomini che le avevano ingaggiate come comparse per uno show televisivo tipo «Scherzi a parte». Il loro compito sarebbe stato di spargere olio sulla faccia di un ignaro viaggiatore all' aeroporto. Gli «sceneggiatori» - in realtà 007 di Pyongyang - gli hanno indicato un tipo sovrappeso in attesa di un volo per Macao. Era proprio Kim Jong-nam. E l' olio per bambini era in realtà agente VX nervino. Un' operazione gestita da almeno tre team poi dileguatisi. Quando la polizia malese perquisisce il bagaglio della vittima trova, oltre all' atropina, 120 mila dollari divisi in mazzette sigillate. Possibile che il bersaglio li avesse ricevuti dall' agente statunitense. Un premio per la sua collaborazione. La possibile prova del doppio/triplo gioco del fratellastro. Sempre che sia andata così. Gli intrighi nordcoreani non sono mai semplici.

Gli Usa accusano l’Iran? Nel video c’è qualcosa che non torna. Lorenzo Vita su it.insideover.com il 16 giugno 2019. C’è qualcosa che non torna nel video con cui gli Stati Uniti hanno accusato l’Iran per l’attacco alle petroliere in Oman. Un video che per la Us Navy e Donald Trump è la prova che dietro il colpo alle navi nel Golfo ci sia la mano dei Pasdaran iraniani, ma che merita una profonda attenzione, soprattutto per i rischi che comporta il fatto di fornire prove che appaiono schiaccianti, ma che poi si rivelano molto meno chiare i quanto facciano credere i suoi distributori. Purtroppo non è una novità che le prove possano essere manipolate, architettate, modificare a regola d’arte. Ma, molto più banalmente, può essere semplicemente che un indizio esista, come il caso del video, ma che venga reso molto più forte e chiaro di quanto in realtà lo sia. E purtroppo, come già visto in Iraq, i precedenti in questo senso non mancano, tra fialette all’antrace e arsenali proibiti che non sono mai esistiti. Proprio per questo motivo, quando si parla del video con la marina degli Stati Uniti punta il dito sui Guardiani della rivoluzione, occorre andare coi piedi di piombo. Perché se è vero che le analisi dimostrano che il video sia effettivamente genuino, le conclusioni su cosa stessero facendo quei pasdaran appaiono molto meno nette. Sicuramente meno di quanto affermato dalla Us Navy e dal suo portavoce.

L’autenticità del video. Secondo quanto affermato dalla Marina americana, il video mostrerebbe un’imbarcazione appartenente ai pasdaran iraniani avvicinarsi alla petroliera Kokuka Courageous e un membro dell’equipaggio rimuovere una mina magnetica inesplosa dallo scafo della nave della società giapponese. Secondo le prime indagini sulla veridicità del video, il filmato appare autentico. Effettivamente quella nave sembra essere la petroliera giapponese e la barca che le si avvicina un mezzo dei militari iraniani. Il problema è che tra l’autenticità del video e l’autenticità della versione data dagli Stati Uniti, c’è una differenza abissale. Anche perché va ricordato che alle prime indicazioni su un “siluro” o una mina che avrebbero provocato l’esplosione dello scafo. sono seguite le frasi della stessa società giapponese che ha invece parlato di “oggetti volanti” che avrebbero colpito lo scafo. Insomma, la differenza di versione è talmente netta che una contrasta apertamente con l’altra. Quindi esiste già il dubbio sul fatto che possa essere stata una mina ad aver causato l’esplosione.

I dubbi sulla mina usata. Il Pentagono ha subito parlato di una mina patella. La stessa Us Navy ha pubblicato un’immagine della nave indicando da una parte lo scafo danneggiato dall’esplosione e dall’altra parte il punto in cui sarebbe stata rimosso l’oggetto inesploso. L’immagine comunque appare assolutamente poco chiara, oltre che appare anche poco chiaro il motivo per cui gli iraniani abbiano scelto di mettere una mina su quel lato dello scafo. Ed è soprattutto questo ad aver attratto l’attenzione di molti analisti, consapevoli che questo video provi qualcosa ma non per forza quanto sostenuto dalla Casa Bianca. Il motivo, come spiega Agi, è triplice. Da un lato, spiega l’agenzia, “tali mine vengono piazzate da sommozzatori nella parte dello scafo che si trova sott’acqua, non sopra”. Il motivo è semplice: posizionarla nella parte sotto la linea di galleggiamento implica la possibilità di fare danni maggiori. Si voleva evitare che colasse a picco? In ogni caso, il fatto che sia scoppiato un incendio lascia aperti degli interrogativi di non poco conto. Inoltre, è molto difficile credere che la mina sia stata piazzata durante la navigazione: è molto più semplice farlo dal porto di partenza. Inoltre, è quasi impossibile credere che i Pasdaran, forze d’élite dell’Iran, compiano un’operazione così superficiale, con una barca affollata e senza ad esempio l’ausilio di sommozzatori. Terza questione: il video mostra un uomo rimuovere qualcosa, ma innanzitutto non si sa cosa, poi è abbastanza difficile ritenere che un’operazione così complessa come quella di rimozione di una mina patella venga compiuta con un barchino pieno di persone. 

Le coincidenze. Sulle coincidenze, inoltre, tanti altri dubbi. Come già abbiamo spiegato su questa testata, l’attacco alla Kokuka e alla Altair è arrivato proprio mentre Shinzo Abe era impegnato in una fondamentale visita a Teheran. Il primo ministro giapponese ha incontrato Hassan Rouhani e l’Ayatollah Ali Khamenei e voleva dimostrare di essere in grado di essere il leader di una potenza asiatica in grado di mediare fra gli Stati Uniti (maggiore alleato del Giappone) e il peggiore nemico. Missione fallita anche a causa di questi attacchi, che è impossibile non considerare un chiaro avvertimento nei confronti dell’asse Tokyo-Teheran. Capire chi abbia voluto rendere inefficace questa missione diplomatica è probabilmente la chiave per comprendere la regia dietro gli attacchi alle petroliere al largo dell’Oman. Una frangia interna o un avversario esterno? Forse la prova non è nel video.

«Impeachment per Trump, ha tradito il nostro Paese»: l’annuncio dei democratici. Pubblicato mercoledì, 25 settembre 2019 da Corriere.it. Donald Trump ora è formalmente indagato dal Congresso per il caso «Biden-Ucraina». Ieri sera Nancy Pelosi, Speaker della Camera dei deputati ha annunciato la formazione di una commissione di inchiesta per avviare l’«impeachment» del presidente, accusandolo di «aver violato la Costituzione», di aver «tradito il suo giuramento, tradito la sicurezza nazionale e tradito l’integrità del processo elettorale. Nessuno è al di sopra della legge». È una svolta cruciale per la politica americana. Il precedente più ravvicinato è quello di Bill Clinton, incriminato per aver mentito sul suo rapporto con Monica Lewinsky. La Costituzione prevede che il presidente possa essere rimosso se colpevole di «tradimento, corruzione e altri gravi reati». La procedura è complessa. La House of Representatives, ora controllata dai democratici, decide a maggioranza se rinviare a giudizio, oppure no, il capo dello Stato. Ma il verdetto finale tocca al Senato, che invece è nelle mani dei repubblicani: per la condanna occorre il «sì» dei due terzi nell’Aula. Sulla carta, dunque, Trump non rischia di essere cacciato dalla Casa Bianca (anche Clinton si salvò in Senato). Ma è chiaro che «l’impeachment» eleva alla massima potenza lo scontro politico in un Paese già lacerato. L’indagine promossa da Nancy Pelosi partirà dalla telefonata del 25 luglio scorso tra Trump e il neopresidente ucraino Volodymyr Zelensky. Secondo la ricostruzione dei giornali, dal Washington Post al Wall Street Journal, il leader americano avrebbe chiesto per ben otto volte a Zelensky di riaprire un’inchiesta per corruzione sulla Burisma, un’azienda del gas nel cui consiglio di amministrazione sedeva, fino all’aprile del 2019, Hunter Biden. In cambio Trump avrebbe promesso lo sblocco di aiuti militari per circa 391 milioni di dollari, attesi dal governo ucraino per fronteggiare l’invasione dei russi nel Donbass. Trump, dopo diverse oscillazioni, ha replicato: al telefono si parlò di Biden e di corruzione, ma il presidente non ha fatto pressione sul governo di Kiev. «Il congelamento» delle forniture, ha spiegato Trump, serviva a spingere l’Unione Europea a sostenere gli sforzi di Kiev. Ieri, poco prima della riunione dei deputati democratici in cui è maturata la mossa dell’impeachment, lo stesso Biden aveva dichiarato che sarebbe stato giusto mettere sotto accusa Trump «se non avesse reso pubblica la trascrizione della chiamata». Subito dopo il presidente Usa, impegnato all’Onu, ha fatto sapere che il contenuto della telefonata sarebbe stato consegnato al Congresso. Poi ha twittato: «Vedrete che, contrariamente a quanto hanno fatto Biden e suo figlio, non c’è alcun quid pro quo . Questa non è altro che la più grande e distruttiva caccia alle streghe di tutti i tempi. Spazzatura». Ma è in arrivo una fase piena di insidie per Trump. Pelosi ha disposto che sei commissioni della Camera continuino a indagare su tutti i dossier già in campo, dal rapporto tra il comitato elettorale trumpiano e i russi ai conflitti di interesse del presidente. Nel quadro «dell’inchiesta ombrello» sull’Ucraina.

(ANSA  il 16 ottobre 2019) - La speaker Nancy Pelosi e i leader democratici alla Camera americana hanno deciso di non tenere, come chiedevano la Casa Bianca e i repubblicani, un voto in seduta plenaria per l'avvio formale dell'indagine di impeachment contro il presidente Donald Trump per l'Ucrainagate. Lo riporta Politico, citando vari parlamentari e loro collaboratori. Finora l'indagine e' stata condotta da tre commissioni ma la Casa Bianca si e' rifiutata di cooperare anche per la mancanza di un voto formale della House. Voto non e' richiesto dalla costituzione ma si è tenuto nei pochi precedenti esistenti. Il voto costringerebbe i parlamentari a mettere nero su bianco la loro posizione, creando difficolta' nelle elezioni del 2020 ai democratici che dovranno difendere o conquistare un seggio negli Stati vinti da Trump ma anche ai repubblicani, che dovranno allinearsi totalmente al tycoon per non perdere l'appoggio della base repubblicana.

(ANSA  il 16 ottobre 2019) - "Non c'e' alcun requisito che dobbiamo tenere un voto e quindi in questo momento non avremo un voto": cosi' la speaker Nancy Pelosi ha giustificato la decisione di non far votare la Camera per l'avvio dell'indagine di impeachment contro il presidente americano Donald Trump.

DAGONOTA: allora non c'era neanche nessun requisito – infatti nella Costituzione americana non c'è – che imponga di dichiarare l'intenzione di aprire una procedura d'impeachment, come ha fatto la Pelosi quasi un mese fa. Era per l'appunto solo un gesto dimostrativo per lanciare il tema, vedere che effetto faceva nei sondaggi e placare la base che la picconava per i suoi tentennamenti

«Fammi un favore, indaga su Biden». La telefonata che accusa Trump. Pubblicato mercoledì, 25 settembre 2019 da Corriere.it. «Vorrei che lei ci facesse un piacere...». Donald Trump si rivolge così al presidente ucraino Volodymir Zelensky, il 25 luglio 2019, come risulta dalla trascrizione completa della telefonata diffusa ieri dalla Casa Bianca. È la frase chiave che secondo i democratici giustifica la procedura di «impeachment». Il testo mostra come il leader americano, in realtà, chieda a Zelensky due favori. Il più rilevante riguarda l’ex vice presidente Joe Biden, al momento ancora il suo avversario più quotato per le elezioni del 2020. Ecco il passaggio: «Si fa un gran parlare del figlio di Biden, si dice che Biden abbia bloccato l’inchiesta e molta gente vuole capire che cosa sia successo e qualunque cosa lei possa fare con il nostro attorney general (William Barr, ministro della giustizia americano, ndr) sarebbe grande. Biden andava in giro a vantarsi di aver bloccato questa inchiesta e tutto ciò a me sembra orribile». Trump si riferisce all’inchiesta per corruzione a carico della Burmisa, un’azienda del gas nel cui consiglio di amministrazione sedeva, fino all’aprile scorso, Hunter, il figlio dell’ex vice presidente di Barack Obama. L’indagine venne archiviata, ma Rudy Giuliani, avvocato personale di Trump, venne a sapere che si poteva riaprire dall’ex procuratore generale ucraino, Yuriy Lutsenko, condannato per corruzione nel 2010 e graziato da Viktor Yanukovich, l’ex presidente filo russo ucraino. Per Trump, come si legge nella trascrizione, quel procuratore «è molto bravo ed è stato fatto fuori in modo scorretto». Ma l’analisi del leader americano è sfasata, non tiene conto del nuovo clima politico a Kiev. Zelensky, con tatto diplomatico, annuncia che «il prossimo procuratore sarà al 100% una persona di mia fiducia». Lutsenko, infatti, verrà rimosso alla fine di agosto. Nei giorni scorsi, però, il Washington Post aveva scritto che Trump aveva promesso di sbloccare gli aiuti militari all’Ucraina in cambio della riapertura dell’inchiesta sul figlio di Joe Biden. Nella telefonata questo collegamento diretto non c’è o comunque non è espresso in modo così netto, chiaro. Trump comincia mellifluo: «Lei sa che abbiamo fatto molti sforzi per aiutare l’Ucraina, molto più di quello che hanno fatto i Paesi europei, più di Angela Merkel e di Emmanuel Macron». Poi, presumibilmente dopo qualche minuto, passa a chiedere «il favore». La difesa di Trump si articola sostanzialmente su due punti. Primo: «È stata una telefonata corretta, non c’è alcuna pressione, alcuno scambio». Secondo: «I democratici dovrebbero scusarsi. Hanno avviato l’impeachment, con l’appoggio delle fake news, per bloccare i nostri grandi successi nell’economia. Non a caso la Borsa è salita appena abbiamo diffuso il testo della conversazione». Trump ora si trova in una situazione non certo programmata e in cui si è cacciato per essersi fidato delle manovre di Giuliani. Non solo. L’altra prova dell’incredibile approssimazione è la seconda richiesta che Trump fa a Zelensky, quel 25 luglio: «Mi piacerebbe sapere che cosa è successo con l’intera vicenda ucraina, dicono con la Crowdstrike...credo che voi abbiate una persona ricca lì, Il server, dicono che ce l’ha l’Ucraina». Zelensky non ci capisce nulla e ha ragione. Il presidente americano sta esponendo una teoria sgangherata: la Crowdstrike sarebbe una società controllata da un oligarca ucraino che sarebbe entrata in possesso del server del Partito democratico, dove erano custodite le mail di Hillary Clinton. Tutto falso, secondo i servizi segreti americani e il rapporto del super procuratore Mueller, furono i russi a rubare i messaggi. La Crowdstrike ha sede in California e non c’entra nulla con l’Ucraina.

Diffusa la telefonata di Trump a Zelensky: «Fammi un favore, indaga su Biden». Pubblicato mercoledì, 25 settembre 2019 da Corriere.it. «Vorrei che tu parlassi con Rudy Giuliani...» dice Donald Trump al telefono con il presidente dell’Ucraina Zelensky. E i due capi di stato parlano della possibilità di indagare sul figlio di Joe Biden, ex numero due della Casa Bianca ai tempi di Obama (e ora di nuovo in corsa per la presidenza). E’ uno dei passaggi cruciali della telefonata del luglio scorso e che potrebbe rivelarsi la base per l’impeachmente dell’attuale presidente Usa, richiesta che i democratici si apprestano ad avanzare. Il testo della telefonata è stato diffuso della Casa Bianca, la quale ha specificato che si tratta di una trascrizione «non letterale» e che «il documento riporta le note e quanto viene ricordato da parte dello staff cui è affidato il compito di ascoltare e trascrivere la conversazione». Il testo, va detto subito, rivela una richiesta esplicita di trump affinché si indaghi sul rivale politico ma non c’è traccia di minacce e ritorsioni. La conversazione inizia con Trump che si congratula con il presidente ucraino per la vittoria alle elezioni ma ben presto l’interlocutore da Washington chiede «Vorrei che tu ci facessi una favore...vorrei che il nostro ministro della giustizia ti chiamasse...». Più avanti Trump sottolinea che il ministro, vale a dire Rudolph Giuliani, «è una persona molto rispettata, è stato sindaco di New York e mi piacerebbe che ti chiamasse...». Pochi istanti dopo, sempre Trump esplicita il perché di quella richiesta: «Ci sono molte chiacchiere a proposito del figlio di Biden , che Biden ha bloccato un’indagine...così, qualunque cosa tu potessi fare con il ministro della giustizia sarebbe grande. Biden va in giro vantandosi di aver fermato l’indagine , così, se tu potessi approfondire...mi pare una cosa orribile....». La risposta di Zelensky è rassicurante: «A settembre avremo il nuovo procuratore . Lui o lei approfondirà la questione, in particolare sulla società a cui ti riferisci (quella del figlio di Biden, ndr.)...ti chiedo cortesemente se hai informazioni da fornirci, sarebbe di aiuto alla nostra indagine». Trump a questo punto si mostra soddisfatto: «Bene, andremo fino in fondo alla questione...la vostra economia andrà sempre meglio, prevedo...». Il presidente ucraino coglie la palla al volo: «Ti assicuro che lavoreremo molto seriamente all’inchiesta...riguardo all’economia, un argomento per l’Ucraina è l’indipendenza energetica», materia sulla quale Kiev entra periodicamente in conflitto con i vicini russi.

La conversazione si chiude con la reciproca promessa di incontrarsi al più presto di persona. Va ricordato che il testo diffuso da Washington è lungo appena cinque pagine mentre la telefonata durò più di mezz’ora. Un testo, insomma, più che sintetizzato. Tra i primi a reagire alla diffusione del documento, Hillary Clinton: «Il presidente degli Stati Uniti ha tradito il nostro paese. Non è una dichiarazione politica, è una dura realtà e dobbiamo agire. È un chiaro e attuale pericolo per le cose che ci tengono forti e liberi. Sostengo l’impeachment», ha twittato l’ex candidata alla Casa Bianca. La richiesta di processare Trump deve passare sia alla camera che al Senato: nella prima assemblea i democratici hanno la maggioranza, nella seconda le parti si rovesciano.

Kievgate la talpa: «Trump voleva insabbiare tutto». Greta Marchesi il 27 Settembre 2019 su Il Dubbio. Il testo della denuncia è stato reso pubblico. Il presidente ha usato il suo potere per avere «vantaggi personali», spingendo l’Ucraina ad aprire un’indagine sul suo rivale politico alle presidenziali 2020, Joe Biden. Lo scandalo della conversazione telefonica tra Donald Trump e il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, si allarga e ormai si è avviata l’inchiesta di impeachment contro il presidente americano. Nelle parole del tycoon – che chiede al suo omologo straniero di indagare sul suo avversario alle presidenziali del 2020, Joe Biden e su suo figlio – hanno fatto parlare di «minaccia alla sicurezza nazionale del Paese» alla speaker democratica della Camera, Nancy Pelosi. L’esponente dem ha attaccato il presidente, che avrebbe «tradito il suo giuramento, la nostra sicurezza nazionale e l’integrità delle elezioni». Il direttore ad interim della National Intelligence ( Nsa), Joseph Maguire ( indicato dallo stesso Trump dopo l’allontanamento di Dan Coats) ha preso la parola in audizione davanti alla commissione Intelligence della Camera, definendo la vicenda «senza precedenti» e dicendosi convinto che «il whistleblower stia agendo in buona fede e ha fatto una cosa giusta, seguendo la legge in ogni passaggio». Tuttavia, anche la posizione dell’Nsa mostra punti oscuri: nonostante la segnalazione della telefonata fosse «urgente» e «allarmante», infatti, è rimasta insabbiata negli uffici della National Security Agency. A scoperchiare il vaso di Pandora, è stato un funzionario dell’Intelligence per ora rimasto anonimo, che ha presentato rapporto contro Trump. Nel testo, reso pubblico dal Congresso, si legge che «I giorni seguenti alla telefonata ho appreso da molti funzionari governativi che funzionari esperti della Casa Bianca erano intervenuti per blindare tutte le registrazioni della telefonata, specialmente la trascrizione parola per parola della chiamata. Questo genere di azioni indica, secondo me, che i funzionari della Casa Bianca avevano compreso la gravità di ciò che era emerso dalla telefonata». La talpa ha proseguito, scrivendo che «Negli ultimi quattro mesi più di una mezza dozzina di funzionari governativi mi ha informato di vari fatti legati a questo obiettivo». Proprio il numero di funzionari che ha ascoltato la telefonata dimostra come fosse stata considerata tra quelle di routine e che quindi nessuno si aspettasse di ascoltare quelle parole da parte di Trump. «Sono preoccupato – ha aggiunto ancora l’informatore che queste azioni pongano in pericolo la sicurezza nazionale degli Stati Uniti e rendano vani i tentativi del governo di contrastare l’interferenza straniera nelle elezioni americane». Infine, a riprova che tutti si fossero resi conto della gravità di quanto ascoltato, il whistleblower ha spiegato come i funzionari della Casa Bianca «Mi hanno detto che era già in corso una discussione con i legali della Casa Bianca su come trattare questa vicenda nel caso fossero stati chiamati a testimoniare il fatto che il presidente stesse abusando del suo ufficio per ottenere guadagni personali». La telefonata di Trump non sarebbe poi caduta nel vuoto: il giorno dopo l’inviato per l’Ucraina e l’ambasciatore americano in Ue, Gordon Sondland vennero incaricati di sondare Kiev sulla richiesta del presidente. Inoltre, a metà luglio il «whistleblower» venne a sapere che Trump aveva ordinato di sospendere l’invio degli aiuti militari all’Ucraina, senza però dare alcuna giustificazione della scelta. Il sospetto, dunque, sarebbe che il presidente abbia usato questo blocco di forniture come leva per persuadere il leader ucraino a cedere alla sua richiesta.

 Caso Ucraina, la Casa Bianca provò a coprire Trump. Pubblicato giovedì, 26 settembre 2019 da Giuseppe Sarcina su Corriere.it. La Casa Bianca ha cercato di insabbiare il contenuto della telefonata tra Donald Trump e il presidente ucraino Volodymir Zelensky. In quella conversazione, il 25 luglio scorso, il leader americano chiedeva «un favore» al suo interlocutore di Kiev: riaprite l’inchiesta per corruzione sulla Burisma, un’azienda di gas nel cui consiglio di amministrazione sedeva Hunter Biden, figlio dell’ex vicepresidente Joe Biden. È una delle novità contenute nel rapporto di un informatore coperto («un whistleblower») consegnato ieri al Congresso da Joseph Maguire, direttore ad interim della Nsa, la National Security Agency, la struttura che coordina i servizi segreti di Washington. Lo stesso Maguire è comparso davanti alla Commissione Intelligence della Camera dei Rappresentanti per una lunga audizione. È praticamente il primo atto della procedura di «impeachment», la messa in stato di accusa del presidente, annunciata martedì 24 settembre dalla Speaker della Camera, Nancy Pelosi che ieri ha aggiunto: «I fatti dimostrano che il presidente ha tradito il Paese, ignorando e violando la Costituzione, mettendo a rischio la sicurezza nazionale e l’integrità delle elezioni». Una manovra durata mesi. Protagonista assoluto sul campo è Rudy Giuliani, avvocato personale del presidente. È lui che, già nel gennaio 2019, tiene i contatti con il controverso procuratore generale dell’Ucraina, Yuriy Letsenko. L’ex sindaco di New York è ben introdotto a Kiev fin dai tempi del presidente filo russo Viktor Yanukovich. Ma la trama di Giuliani si esaurisce a fine agosto, quando Zelensky sostituisce il procuratore Letsenko. A quel punto Trump sblocca gli aiuti militari promessi al governo di Kiev e sospesi, racconta la «talpa», a metà luglio. Oltre ai fatti, contano le procedure. Ieri democratici e repubblicani della Commissione Intelligence hanno cercato di tirare da una parte e dall’altra le parole di Maguire. Il direttore della Nsa ha difeso «la talpa», probabilmente un agente della Cia sotto copertura. «Ha fatto il suo dovere in buona fede, ha seguito perfettamente il protocollo». Opposto il giudizio di Trump: «Questi funzionari sono come spie e le spie andrebbero punite per tradimento, come ai vecchi tempi». La Casa Bianca aggiunge che le nove pagine della «spia» contengono informazioni di «terza mano». Ma sono in arrivo settimane e mesi complicati per Trump. Alla Camera i democratici sono in larga maggioranza: praticamente tutti d’accordo per rinviare il presidente al giudizio finale del Senato, controllato, però, dai repubblicani.

Caso Ucraina, la Cia aveva allertato la Casa Bianca sulla talpa. Pubblicato venerdì, 27 settembre 2019 da Corriere.it. La Casa Bianca è venuta a sapere delle accuse della «talpa», che ha poi svelato la telefonata fra Donald Trump e il presidente ucraino Zelensky, subito dopo tale conversazione telefonica. Lo riporta il New York Times citando alcune fonti, secondo le quali l’informatore — il« whistleblower» — si era inizialmente rivolto al legale della Cia tramite un processo anonimo e poi, quando si è reso conto che la Casa Bianca era già a conoscenza delle sue mosse, per proteggersi da ritorsioni, ha scritto il rapporto e presentato formalmente denuncia. L’agente avrebbe riferito in forma anonima a un legale della Cia informazioni sul probabile abuso di potere e il tentativo di copertura messo in atto dalla Casa Bianca. Ma il legale avrebbe poi subito informato della faccenda la Casa Bianca e il dipartimento di Giustizia. A quel punto, lo 007 avrebbe sporto denuncia. Queste ultime rivelazioni gettano nuova luce su come le sue accuse dell’agente informatore siano state gestite dalle istituzioni Usa. I legali del «whistleblower» rifiutano di confermare che lui sia un agente della Cia, aggiungendo che la pubblicazione di informazioni sul suo conto lo mette in pericolo: «Il whistleblower ha il diritto all’anonimato» ha scandito Andrew Bakaj, capo del suo team legale. Né la Casa Bianca, né il National Security Council, interpellati dal NYT hanno voluto commentare. Il direttore del quotidiano newyorchese Dean Baquet è intervenuto precisando di aver divulgato questo dettaglio sull’informatore (che si tratti di un agente della Cia) in risposta ai tentativi di screditare la fonte messi in atto da Trump e i suoi sostenitori. E questo, precisa il New York Time, malgrado la Casa Bianca sapesse già che il whistleblower era un informatore della Cia.

Trump e l’impeachment, ecco la denuncia del whistleblower: «Preoccupato dall’abuso di potere del presidente Usa». Pubblicato giovedì, 26 settembre 2019 da Corriere.it. Il Congresso degli Stati Uniti ha pubblicato la denuncia del whistleblower che ha dato il via al caso «Kiev-gate», cioè il presunto tentativo da parte del presidente degli Stati Uniti di spingere l’Ucraina a indagare Joe Biden — ex vicepresidente degli Stati Uniti e tra i candidati democratici alla presidenza — e il figlio Hunter. Il documento è disponibile qui. «Sono profondamente preoccupato che ci siano rischi per la sicurezza nazionale e per gli sforzi del governo americano volti ad evitare interferenze sulle elezioni», si legge nel documento. «E sono profondamente preoccupato per quello che appare come un serio e flagrante abuso di potere e di violazione della legge da parte del presidente». «Ho ricevuto informazioni da diversi funzionari del governo che il presidente sta usando il suo potere per sollecitare interferenze da parte di un Paese straniero sulle elezioni del 2020», si legge nella denuncia, che fu presentata il 12 agosto. «Le interferenze — prosegue lo 007 — includono tra l’altro la pressione su un Paese straniero per indagare uno dei maggiori rivali politici del presidente. Ieri la Casa Bianca ha pubblicato estratti di una telefonata avvenuta tra Trump e il presidente ucraino Volodymir Zelensky. Nel corso della telefonata, Trump ha chiesto apertamente al leader ucraino di «fargli un favore» e di indagare su Biden.

Incontri col procuratore e promesse di aiuti all’Ucraina le mosse di Giuliani. Pubblicato giovedì, 26 settembre 2019 da Corriere.it. «Scrivo per segnalare una preoccupazione urgente», comincia così il rapporto compilato il 12 agosto scorso da un agente della Cia sotto copertura. Nove pagine che descrivono le manovre di Trump, del suo avvocato personale Rudy Giuliani, di alcuni diplomatici per incastrare Joe Biden, l’avversario più quotato nelle presidenziali del 2020. Nel testo si parla, genericamente, anche di «un coinvolgimento» del ministro della Giustizia, William Barr. L’informatore, il whistleblower, premette di non essere «testimone diretto» dei fatti, ma di aver raccolto le notizie, «negli ultimi quattro mesi» da «più di una mezza dozzina di funzionari del governo». Il momento più drammatico arriva il 25 luglio. «La mattina presto il presidente parla al telefono con l’omologo ucraino Volodymyr Zelensky. Non so chi abbia chiamato...molti funzionari della Casa Bianca con una diretta conoscenza della telefonata mi informarono sui contenuti». Viene fuori quello che abbiamo già letto nella trascrizione della telefonata resa pubblica il 25 settembre dall’amministrazione. Trump chiede a Zelensky «il favore» di indagare su Hunter Biden, il figlio dell’ex vicepresidente democratico. «I funzionari che erano presenti nella Situation Room con cui parlai erano profondamente turbati». Gli avvocati della Casa Bianca sono così preoccupati da «disporre» l’archiviazione «in un sistema elettronico separato» anziché tra i file «non classificati», come sarebbe stato normale. In pratica un’operazione di schermatura. L’agente, intanto, mette a fuoco un contesto più ampio. Giuliani è il più attivo, formalmente un privato cittadino senza alcuna carica ufficiale. È lui che tiene i contatti con il Procuratore generale dell’Ucraina, Yuriy Letsenko. Una figura controversa, già condannata per corruzione nel 2010. Letsenko sostiene che «il vicepresidente Joe Biden nel 2016 esercitò pressioni sull’allora presidente Petro Poroshenko per fermare l’inchiesta giudiziaria sulla Burisma Holding», di cui era consigliere d’amministrazione il figlio Hunter. Biden, nei giorni scorsi, ha smentito seccamente. Ma l’informatore passa oltre, arriva al 2019: «È stato pubblicamente riportato che Giuliani incontrò almeno due volte Letsenko, prima a New York a fine gennaio e poi a Varsavia a metà febbraio». Numerosi giornali, come il New York Times citato dal whistleblower scrivono che l’avvocato personale di Trump stava facendo pressioni sul governo ucraino «per alimentare indagini giudiziarie che avrebbero aiutato il presidente per la sua rielezione nel 2020». E così si arriva al 25 luglio, il momento decisivo. Ma prima succede ancora una cosa sorprendente: «Il 18 luglio l’ufficio della gestione di Bilancio informò il Dipartimento di Stato che il presidente aveva dato ordine di sospendere tutti gli aiuti per la sicurezza destinati all’Ucraina». Sono le forniture militari promesse a Kiev. Lo strumento per un possibile scambio, da usare come leva per smuovere Zelensky. Missione fallita, però. Il presidente ucraino a fine agosto sostituisce l’amico di Giuliani, il Procuratore Letsenko.

Ucraina gate, Rudy Giuliani da super procuratore a faccendiere Impeachment: 5 cose da sapere. Pubblicato sabato, 28 settembre 2019 su Corriere.it da Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington. Vita e carriera di uno degli uomini chiave del nuovo scandalo che ha investito la Casa Bianca e dell’ex sindaco dell’11 settembre. James Comey, ex direttore dell’Fbi, racconta nel suo libro di memorie («A Higher Loyalty») che il posto più pericoloso nella New York degli anni Ottanta era lo spazio che separava Rudy Giuliani dal microfono per le conferenze stampa. L’allora procuratore del Southern District di Manhattan si beava sotto la luce dei riflettori. E i suoi numerosi detrattori, equamente distribuiti tra repubblicani e democratici, sostengono ancora oggi che la sua popolarità e il suo successo siano dipesi in gran parte dalla sua capacità di abbindolare i media, attribuendosi il merito esclusivo delle inchieste contro i boss della mafia e i truffatori di Wall Street. La fama e la visibilità di Rudy diventarono mondiali, da sindaco dell’11 Settembre. Può stupire allora scoprire in questi giorni il Giuliani settantacinquenne che trama nell’ombra, in un territorio lontano come l’Ucraina, con personaggi sconosciuti all’opinione pubblica americana. Rudolph William Louis Giuliani, nato a Brooklyn, nonni italiani, padre implicato nel gioco d’azzardo clandestino, si è laureato al Manhattan College e poi alla Law School della New York University. Per anni ha messo l’ambizione politica sopra ogni cosa, puntando al massimo. Si è candidato alle primarie repubblicane nel 2008; ha sperato fino all’ultimo di diventare Segretario di Stato con Trump nel 2016. Poi ha dovuto arrendersi e si è adattato al ruolo del consigliere, del manovratore, coltivando, nello stesso tempo, l’altra sua grande passione: fare soldi. Nel 2002 fonda la «Giuliani Partners», la piattaforma delle sue numerose consulenze. Gradualmente esce dalla galleria dei potenziali statisti ed entra nell’albo, decisamente più affollato, dei faccendieri. Come altri sodali di Trump, fra tutti Roger Stone e Paul Manafort, anche Giuliani intuisce che i business più promettenti vanno cercati nei Paesi dalla dubbia reputazione. Uno di questi è l’Ucraina, dominata dagli oligarchi e umiliata da una corruzione capillare. L’ex teorico della «tolleranza zero» allaccia rapporti trasversali, promuovendo affari con i potentati fedeli a Kiev e con quelli apertamente filorussi, come Pavel Fuks, costruttore e immobiliarista di Kharkiv, la seconda città del Paese. Fuks, si legge nel Rapporto del super procuratore Robert Mueller, è l’intermediario che ha trattato con Trump dal 2004 al 2010 per la costruzione di un grande albergo a Mosca. Un’amicizia continuata negli anni, visto che il businessman ucraino fu invitato all’inaugurazione del presidente americano nel gennaio 2017 (e anche su questo ha indagato Mueller). Ma sono eccellenti anche le relazioni con Kiev. Giuliani incontra spesso Petro Poroshenko, presidente ucraino fino allo scorso aprile, e il magnate dei metalli, Victor Pkinchuk che nel 2016 versa un contributo di 150 mila dollari alla Trump Foundation. Pur impegnato in seminari, convegni e altri eventi in Ucraina, tutte occasioni per fare il pieno di incarichi a favore della sua società specializzata in «sicurezza», Giuliani non perde mai di vista gli interessi del cliente che siede nello Studio Ovale. Nel rapporto compilato dall’agente della Cia, all’origine dell’impeachment di Trump, è scritto che fin dal gennaio scorso Rudy aveva individuato una pista per incastrare Hunter Biden, figlio dell’ex vicepresidente democratico Joe Biden, in corsa per la nomination nelle presidenziali del 2020. La sua fonte era il procuratore generale dell’Ucraina, Yuriy Letsenko, una figura non esattamente «law and order» visto che era stato condannato per corruzione nel 2010 e che fu tirato fuori di galera dall’allora presidente filorusso Viktor Yanukovich.

Trump a Zelensky: spero che l'Ucraina faccia la pace con la Russia. Piccolenote.it è un sito a cura di Davide Malacaria su Il Giornale  27 settembre 2019. Nell’incontro tra Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, tenutosi a margine dell’Assemblea generale dell’Onu, il presidente americano ha più volte espresso l’auspicio che l’Ucraina si rappacifichi con Mosca e con Putin (vedi report della Casa Bianca). Nella bufera mediatica scatenata dalla telefonata tra Trump e Zelensky (per la quale rimandiamo alla nota precedente), le parole di Trump sono passate inosservate, ben al di sotto dei radar dei media. Non è un caso, dato che, come abbiamo spiegato in una nota pregressa, la marea montante contro Trump, obiettivo impeachement, è stata creata dall’ambito neocon, in combinato disposto con quello liberal-clintoniano (due facce della stessa medaglia). Ambiti che vedono il processo distensivo Usa-Russia, direttrice primaria della politica estera di Trump, come fumo negli occhi. E un riavvicinamento tra Mosca e Washington non può non passare anche da una distensione tra Russia e Ucraina. Ciò perché sia la rivolta di Piazza Maidan (o colpo di stato, come da analisi di Jonathan Steele sul Guardian), che la seguente guerra del Donbass (che ha opposto Kiev alle regioni orientali, filorusse, dell’Ucraina), hanno allontanato ancora di più gli Stati Uniti dalla Russia, creando contrasti ancora forti sull’asse Mosca-Kiev. Né poteva essere altrimenti, dato che i russi hanno visto l’appoggio di Washington alla “nuova Ucraina” come una minaccia portata dagli Stati Uniti alla propria sicurezza nazionale. Così veniamo a quanto ha detto Trump nel corso della conferenza stampa congiunta tenuta con Zelensky dopo il vertice tra i due presidenti. Un’altra “cosa che ho sentito”, ha detto a un certo punto il presidente americano, “è che recentemente, in un periodo abbastanza breve, hai davvero fatto progressi con la Russia. Molti progressi, mi hanno detto. Continua così. Sarebbe bello porre fine a tutto questo disastro”. Poi, in seguito, ha aggiunto: “Spero davvero che la Russia… perché credo davvero che il Presidente Putin vuole fare qualcosa [per favorire la distensione]. Spero davvero che tu e il Presidente Putin vi incontriate e che possiate risolvere il vostro problema. Sarebbe un risultato straordinario. E so che stai cercando di farlo”. Zelensky, che pure ha fatto aperture non secondarie a Putin, è evidentemente meno libero di Trump, dato il forte contrasto che trova all’interno dell’Ucraina la sua spinta a un accordo con Mosca. Così , durante il suo intervento, ha glissato sull’argomento, accennando che avrebbe parlato delle “relazioni con la Russia”, ma poi dimenticandosi di dar seguito al cenno. Resta però l’esplicita esortazione di Trump a fare la pace con Mosca, che poi è anche l’ennesima apertura a Putin, che questa pace sta cercando da tempo perché consentirebbe alla Russia di abbassare l’allarme rosso alla sua frontiera occidentale. Nella tempesta che l’ha investito, e che vuole mettere la sordina ai tentativi di rappacificazione Est – Ovest da lui esperiti, Trump si mostra fermo nella sua direttrice di politica estera. Nella speranza che i cittadini americani e il mondo lo comprendano, nonostante l’avverso clamore politico-mediatico. Ne ha bisogno, dati i suoi tanti e potenti nemici.

Dago Spia il 26 settembre 2019. L'EDITORIAL BOARD DEL ''NEW YORK TIMES'' NEL 2015 SCRISSE UN EDITORIALE PER CAZZIARE BIDEN (ALLORA VICEPRESIDENTE) NEL SUO ATTEGGIAMENTO CON L'UCRAINA, COMPROMESSO DAI RAPPORTI DEL FIGLIO CON UN OLIGARCA INDAGATO PER CORRUZIONE. ''Tristemente, la credibilità del messaggio di Biden [sull'Ucraina] è compromessa dall'associazione di suo figlio con un'azienda di gas naturale ucraino, Burisma Holdings, che è di proprietà di un ex dirigente pubblico sospettato di essere corrotto (…) sotto indagine nel Regno Unito e in Ucraina. Dovrebbe essere chiaro a Hunter Biden che i suoi rapporti con un oligarca ucraino danneggiano gli sforzi del padre per aiutare il Paese. Quello non è un consiglio d'amministrazione nel quale dovrebbe sedere''.

Anna Guaita per “il Messaggero” il 26 settembre 2019. Da quando gli Stati Uniti esistono come nazione indipendente, nessun presidente è stato rimosso in seguito a un processo di impeachment. Due sono stati assolti in fase di giudizio al Senato Andrew Johnson nel 1868 e Bill Clinton nel 1998 - e uno si è dimesso prima che la procedura di impeachment venisse avviata, Richard Nixon nel 1974. La procedura di rimozione è in effetti molto difficile, soprattutto quando le due Camere sono divise fra i due partiti come è attualmente, con la Camera a maggioranza democratica e il Senato a maggioranza repubblicana. La procedura di impeachment è divisa in due fasi: la raccolta delle prove, e il giudizio. Sta alle commissioni della Camera indagare e accertarsi se ci siano davvero gli estremi per scrivere dei capi d'accusa. Se le commissioni trovano prove convincenti di crimini o reati commessi dal presidente, allora questi vengono messi al voto dell'intera Camera. Basta una maggioranza semplice perché il presidente venga accusato formalmente. I deputati poi presentano i capi d'accusa al Senato, che funziona da aula di tribunale. A presiedere la seduta viene chiamato il giudice in capo della Corte Suprema, ai senatori è dato il ruolo di giuria, mentre i deputati hanno il compito di agire da procuratori. Il presidente verrebbe riconosciuto colpevole solo se i due terzi dei senatori votassero in tal senso. Poiché i democratici sono in minoranza al Senato, ci vorrebbe una defezione di almeno venti senatori repubblicani perché Donald Trump venga condannato. L'ipotesi appare alquanto improbabile, a meno di scoperte sconvolgenti che scuotano la granitica fedeltà espressa verso Trump finora dai repubblicani. Il partito conservatore oggi è molto più coeso, meno moderato e centrista di com'era negli anni Settanta, quando Nixon capì che se fosse andato al processo ci sarebbero state forti chances di essere riconosciuto colpevole. Fu anzi proprio un gruppetto di senatori repubblicani che andò alla Casa Bianca ad ammonirlo del rischio che correva. Le due Camere erano allora tutte e due in mani democratiche, e sembrava chiaro che anche vari repubblicani si sarebbero schierati contro Nixon, cosa che oggi non sembra possibile contro Trump. L'unico senatore repubblicano che finora ha espresso qualche dubbio sul comportamento di Trump è stato Mitt Romney. Nessun altro sembra finora intenzionato a seguirne l'esempio. Nel caso di Bill Clinton, due erano i capi di accusa derivati dallo scandalo dei rapporti sessuali con la stagista Monica Lewinsky: di aver ostacolato la giustizia e di aver giurato il falso. Il Senato aveva 55 senatori repubblicani e 45 democratici. Per condannare il presidente ci sarebbero voluti 67 voti, cioè i repubblicani avevano bisogno di almeno 12 democratici. Invece avvenne il contrario, e dieci repubblicani disertarono il voto di colpevolezza, assicurando l'assoluzione del presidente.

Flavio Pompetti per “il Messaggero” il 26 settembre 2019. I repubblicani gridano allo scandalo di fronte alla pubblicazione della telefonata: «Dov'è il qui pro quo?» chiede Lindsay Graham; «Questo scandalo poggia su aria fritta», denuncia Mitch McConnell. I democratici mostrano invece i volti severi e contriti delle grandi occasioni: «Questa è una tragedia nazionale» annuncia il presidente della commissione Giustizia Adam Schiff. «Nessuno è sopra la legge, nemmeno il presidente», chiosa la leader dell'opposizione alla camera Nancy Pelosi, neo convertita alla causa dell'impeachment. Nei commenti dei politici di riferimento del partito si coglie un senso di compiacimento, la consapevolezza di una vittoria. Il successo potrebbe rivelarsi doppio. Perché lo scandalo ucrainagate e l'apertura di un'inchiesta di impeachment nei confronti di Trump segnano una chiave di svolta nel più importante processo politico che fa da sfondo a questa vicenda: le elezioni presidenziali del 2020. Il presidente si era svincolato la scorsa estate dalla morsa del russiagate, che lo ha tenuto in stato di assedio per i primi due anni e mezzo di presidenza. Le commissioni parlamentari hanno continuato ad indagare sulla vicenda negli ultimi mesi, ma il tono del confronto era molto cambiato. Trump e i suoi collaboratori si sono permessi comportamenti offensivi nei confronti dei politici dell'opposizione, e hanno calpestato il protocollo con apparizioni dissacranti nelle commissioni. Sul fronte della comunicazione tra esecutivo e congresso, hanno chiuso la porta ad ogni richiesta di documenti e ad ogni convocazione per le testimonianze. L'ucrainagate, e l'inchiesta per l'impeachment, rinforza ora i poteri degli inquirenti parlamentari, e da maggiore incisività alle richieste che questi faranno nei tribunali. Da ieri Trump e la sua amministrazione sono tornati in trincea, e l'opposizione democratica farà tutto quanto in suo potere per tenerceli il più a lungo possibile sulla rotta del voto presidenziale del 2020. L'altro vantaggio che si profila all'orizzonte riguarda lo schieramento dei candidati democratici. Si è già visto negli ultimi giorni che l'amministrazione Trump si difenderà dall'accusa di aver complottato con l'Ucraina, opponendo le rivelazioni raccolte da Rudy Giuliani sul conto di Hunter, il figlio di Biden. Come tanti rampolli dei politici di lunga data, Hunter ha goduto di opportunità di carriera e di risultati finanziari che vanno ben oltre l'esperienza frammentaria di lavoro che gli è stata concessa da una vita disordinata, e assediata dall'alcool e dalle droghe. Le inchieste riavviate in Ucraina potranno anche assolverlo da reati, ma sarà impossibile arginare almeno i sospetti di favoritismi ottenuti all'ombra della politica, e di conseguenza macchiare l'immagine del padre. Tutto questo accade in un momento particolarmente propizio per i democratici. L'immagine di Joe Biden, candidato-fiore all'occhiello dell'establishment democratico, ed erede destinato del trono che ha già servito da vice durante la reggenza di Obama, inizia a mostrare segni di corruzione progressiva e forse già inarrestabili, anche al netto delle polemiche su suo figlio. Il vantaggio abissale che Biden vantava sugli avversari diretti per la nomination democratica: Bernie Sanders e Elizabeth Warren, si è assottigliato nell'ultima settimana soprattutto a vantaggio dell'ex professoressa, che negli ultimi sondaggi lo ha appaiato e poi staccato di almeno sette punti (29 a 22%). Quella che si profilava come una sconfitta della macchina elettorale potrebbe ora essere presentata come un incidente di percorso, una chiamata di responsabilità del padre per le colpe del figlio, che agevolerebbe il passaggio di consegne all'interno del ticket.

SIAMO SICURI CHE LA TRASCRIZIONE DELLA TELEFONATA DI TRUMP A ZELENSKY SIA LA “SMOKING GUN” PER L’IMPEACHMENT? Roberto Vivaldelli per Il Giornale il 25 settembre 2019. All'indomani dell'annuncio della speaker della Camera, Nancy Pelosi, dell'avvio della richiesta formale di impeachment nei confronti del Presidente Degli Stati Uniti Donald Trump, la Casa Bianca - come annunciato ieri dallo stesso Presidente Usa - ha pubblicato la trascrizione della telefonata del 25 luglio scorso con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. "Mr. Giuliani è un uomo molto rispettato, è stato sindaco di New York, un grande sindaco, e vorrei tu parlassi con lui. Rudy sa molto di quello che è successo ed è un tipo molto capace. Se tu potessi parlare con lui sarebbe grande" ha affermato Trump nella telefonata con l'omologo ucraino. "Ci sono molte discussioni sul figlio di Biden, che Biden ha fermato l'inchiesta e molte persone vogliono che capire, così qualsiasi cosa tu possa fare con il Procuratore generale sarebbe grande. Biden se ne è andato in giro vantandosi di aver fermato l'inchiesta, così se puoi verificare...Mi sembra orribile" si legge ancora in un passaggio delle 4 pagine di trascrizione della telefonata tra il presidente americano e Zelensky. La trascrizione conferma che durante la telefonata Trump chiese al presidente ucraino di contattare il ministro della Giustizia Usa William Barr per discutere la possibile apertura di un'indagine per corruzione su Joe Biden e suo figlio. Il Presidente Usa chiese inoltre a Zelensky di collaborare con il suo avvocato Rudy Giuliani, ex sindaco di New York. Tuttavia, come nota Fox News, il documento dimostra che il Presidente americano non sfruttò in maniera esplicita o ricattò Zelensky con gli aiuti militari o usò questi ultimi come merce di scambio, come invece hanno accusato i democratici giustificando l'inizio della procedura della messa in stato di accusa del Presidente. Un dettaglio non di poco conto. Prima che la trascrizione fosse resa pubblica, i democratici hanno accusato The Donald di aver usato impropriamente il suo potere per fare pressione su un altro Paese al fine di indagare su uno dei suoi principali, Joe Biden. Ma la verità è che la condotta dei democratici in Ucraina è stata tutt'altro che pulita e regolare. Sui social, il Presidente americano è tornato a sostenere di essere vittima di una "caccia alle streghe", all'indomani dell'annuncio della speaker della Camera, Nancy Pelosi, dell'avvio della richiesta formale di impeachment nei suoi confronti per il caso Ucraina. "Non c'è stato nessun presidente nella storia del nostro Paese che sia stato trattato così male quanto me", ha scritto su Twitter. "I democratici sono congelati dall'odio e dalla paura. Non ottengono nulla. Non dovrebbe mai essere permesso che accada a un altro presidente. Caccia alle streghe!". Nel frattempo, secondo quanto diffuso dal New York Times, più dei due terzi dei democratici alla Camera sarebbero a favore dell'impeachment. Dopo l'annuncio di richiesta formale di mettere sotto accusa il presidente Trump, la conta dei congressisti a favore o contro starebbe registrando un'accelerazione: servono 218 voti, sui 435 totali della Camera, per avviare l'impeachment. Ieri, prima dell'annuncio fatto dalla Speaker della Camera, Nancy Pelosi, si erano pronunciati a favore in 161. Adesso, secondo un conteggio aggiornato fatto dal Nyt, che dal 30 maggio ha chiesto ai congressisti di esprimere la propria posizione, sarebbero 205 a favore dell'impeachment, 131 risultano o contrari o non hanno ancora deciso, 98 non hanno ancora risposto. In sostanza, mancherebbero solo 13 voti per arrivare a quota 205. Tuttavia, molti funzionari del partito democratico esprimono dubbi e preoccupazione sul fatto che con questa precipitata mossa i leader possano finire per fare il gioco del presidente e favorire la sua rielezione. "Certo che da un punto di vista morale voglio l'impeachment, ma da un punto di vista politico non voglio che per un anno si parli di come i democratici abbiano tentato di mettere sotto accusa Trump e non ci siano riusciti", ha detto Michael Ceraso che è stato direttore della campagna presidenziale di Pete Buttigieg. Secondo il commentatore conservatore Mark Levin, i media stanno cercando di coprire il vero scandalo che riguarda Joe Biden e i democratici: "Qui c'è un enorme scandalo democratico ed è per questo che i media si stanno comportando in questa maniera. Ecco perché i democratici stanno cercando di capovolgere tutto. Per proteggere Biden e attaccare Trump, ma non funzionerà" ha osservato.

UCRAINA-GATE, CHI CI GUADAGNA? Federico Rampini per “la Repubblica”il 26 settembre 2019. In 24 ore tutto è cambiato, questa sarà la campagna elettorale segnata dall'impeachment. Chi ha più da guadagnarci e chi corre i maggiori rischi? Non si sfugge all' impressione che Donald Trump abbia "voluto" trascinare i democratici verso uno scontro tutto sul terreno giudiziario. Anche la leadership democratica però ha fatto i suoi calcoli, prima di intraprendere una strada che può essere di non-ritorno. Solo nel novembre 2020 sapremo chi aveva visto giusto. Ai nastri di partenza questa è la situazione. Trump ha molto da perdere. Se dalla fondazione degli Stati Uniti ad oggi si sono verificati solo tre casi di (tentato) impeachment, una ragione c'è. La messa sotto stato di accusa è una svolta grave per l'immagine del presidente. E tuttavia la sensazione che lui l'abbia cercato genera ogni sorta di sospetti. Bisogna ricordare che questo è un presidente "di minoranza" fin dalle origini. Eletto con tre milioni di voti in meno rispetto a Hillary, non è mai riuscito ad avvicinare la soglia del 50% dei consensi. Caso unico nella storia, si presta a una campagna per la rielezione anch'essa unica nella storia. Trump ha bisogno di ricorrere a mezzi estremi. Impostare la campagna come un lungo processo, gridare alla persecuzione, atteggiarsi a vittima, è un' opzione rischiosa ma non illogica. Anche i democratici rischiano. Lo sanno ed è questa la ragione per cui la presidente della Camera Nancy Pelosi fino all' ultimo aveva tentato di evitare l' avvio della procedura preliminare verso l' impeachment. Ecco i tre scenari in cui la vicenda prende una brutta piega per loro:

1) Il Kiev-gate compromette il presidente che ha cercato di arruolare una nazione straniera per attaccare un suo rivale politico interno, però macchia anche la reputazione di Joe Biden (il favorito finora tra i dem) per i sospetti di corruzione che rimarranno attorno al figlio.

2) La Camera vota sull' impeachment e ci sono defezioni nei ranghi dei democratici più moderati, tali da far mancare la maggioranza; va ricordato che ancora ieri sera dopo il pronunciamento di Pelosi rimanevano alcune decine di deputati dem contrari all' impeachment; questo sarebbe uno smacco, si aprirebbe una lotta intestina al partito che indebolirebbe qualsiasi candidato prescelto per affrontare Trump.

3) La Camera vota a maggioranza la messa in stato di accusa, poi il processo passa al Senato; dove si arena perché manca la maggioranza qualificata dei due terzi necessaria all' interdizione; per condannare Trump ci vorrebbero defezioni massicce nel suo stesso partito, al momento improbabili. I democratici griderebbero che il processo è truccato, però il presidente sarebbe salvo. Si rischierebbe uno scenario alla Bill Clinton: dopo la mancata condanna al Senato, la sua popolarità addirittura ebbe un aumento. Qualcuno sospetta che Nancy Pelosi abbia placato la sua ala sinistra giustizialista, ma che ora lei stessa possa cominciare un gioco dilatorio per spostare molto in là la votazione effettiva sull' impeachment.

Chi è la «talpa» della Cia  che fa tremare Trump? La denuncia anonima, i ritardi,  le frasi: 5 cose da sapere. Pubblicato venerdì, 27 settembre 2019 da Corriere.it. Il 18 luglio il presidente Trump ordina il blocco del pacchetto di aiuti militari all’Ucraina del valore di 250 milioni di dollari attesi dall’Ucraina per fronteggiare l’invasione dei russi nel Donbass. Una settimana dopo, il 25 luglio, il capo della Casa Bianca parla per 30 minuti con il presidente dell’Ucraina: Trump chiede al leader di Kiev di riaprire un’inchiesta giudiziaria per corruzione su Hunter Biden, il figlio di Joe Biden, il rivale oggi più accreditato per le elezioni del 2020. Biden junior è consigliere di amministrazione della Burisma, un’azienda di gas in Ucraina. Anche se non esplicitato nella telefonata, la contropartita offerta dal presidente Usa sarebbe lo sblocco delle forniture militari. Dell’esistenza di questa conversazione non si è saputo nulla fino al 9 settembre, quando il Congresso americano apprende del rapporto-denuncia di un informatore. È l’informativa della «talpa» dell’Intelligence, consegnato al Congresso soltanto il 26 settembre. Il documento — 9 pagine destinate ai presidenti delle commissioni Intelligence di Camera e Senato, Adam Schiff e Richard Burr — diventa pubblico all’indomani della diffusione del testo della telefonata Trump-Zelensky: «Fammi questo favore. Vai a fondo su Biden e figlio» incalzava il presidente Usa. Le pressioni per riaprire l’inchiesta cadono nel vuoto e la manovra per incastrare Biden si dissolve: il 29 agosto il presidente ucraino manda via il procuratore amico dell’avvocato di Trump, Rudy Giuliani, e lo sostituisce con uno suo stretto collaboratore. Tuttavia il 12 settembre l’Amministrazione di Washington invia gli aiuti militari promessi a Kiev. Il rapporto diventa pubblico quando ormai la procedura per l’«impeachment» del presidente è stata avviata: il 24 settembre la Speaker della Camera dei deputati Nancy Pelosi ha annunciato la formazione di una commissione di inchiesta ad hoc.

 (ANSA il 27 settembre 2019) - Donald Trump è un "chiaro pericolo", una "minaccia" per gli Stati Uniti". Lo afferma Hillary Clinton, in un'intervista a Cbs che andrà in onda domenica e di cui sono stati diffusi degli estratti. L'ex segretario di Stato definisce Trump un "tornado umano corrotto". "Non importa se si è democratici o repubblicani quando un presidente che ha giurato per proteggere la Costituzione usa la sua posizione per cercare di estorcere qualcosa a un governo straniero per i suoi motivi politici", spiega Clinton.

(ANSA il 27 settembre 2019) - Donald Trump ha cercato di "rubare le elezioni. Avrebbe voluto l'aiuto straniero per vincere al voto". Lo afferma Joe Biden, il candidato democratico alla Casa Bianca.

(ANSA il 27 settembre 2019) - Il timore "fondato" di perdere le elezioni del 2020 ha spinto Donald Trump a fare pressione sul leader ucraino Volodymyr Zelensky per indagare Joe Biden. Lo afferma il direttore della comunicazione della campagna di Biden, Kate Bedingfield. "La volontà di Trump di vendere i nostri interessi nazionali per un suo guadagno personale mette a rischio la nostra sicurezza e la stabilità della nostra democrazia", aggiunge Bedingfield.

Glauco Maggi per “Libero quotidiano” il 27 settembre 2019. Mercoledì, la pubblicazione della trascrizione della telefonata tra Trump e il presidente Volodymyr Zelensky, preceduta dal lancio dell' impeachment di Trump da parte di Nancy Pelosi, Speaker della Camera e titolare della procedura. Giovedì, il rilascio del rapporto fornito dal whistleblower alla Direzione Nazionale di Intelligence, che aveva appunto al centro quella telefonata, con la parallela audizione in Congresso del capo della DNI Joseph Maguire. Lo scandalo Ucrainagate ha preso il volo e il connesso processo di impeachment (i deputati Democratici a favore sarebbero già oltre il quorum necessario in caso di voto) è di fatto diventato il tema politico centrale su cui i Democratici hanno deciso di puntare tutte le loro carte per il 2020. Il più esplicito è stato Al Green, deputato DEM del Texas: «Se non facciamo l' impeachment il presidente sarà rieletto». I Democratici, in effetti, non possono certo correre parlando di economia o di guerra, essendo Trump il miglior generatore di posti di lavoro e di crescita del business, ed anche più allergico alle avventure militari degli ultimi 3 o 4 presidenti dei due partiti. Soltanto con una strategia di attacchi personali i suoi avversari possono pensare di togliere di mezzo Donald, e la manovra di impeachment garantisce che i media lo sbattano in prima pagina per un anno e sognino il bis del Watergate. Per la verità, con il Senato controllato da 53 repubblicani su 100, è certo che i Democratici non avranno mai i 67 voti (i due terzi) per cacciare il presidente, anche se avranno superato il primo obiettivo, ossia l' ok della maggioranza semplice della Camera. Dovrebbero emergere ben altri elementi di condanna di Trump, capaci di spostare i repubblicani in parlamento, e prima di loro l' opinione pubblica: finora, i sondaggi hanno mostrato che solo un terzo degli elettori è a favore dell' impeachment, e 6 su dieci sono contrari. Ma il costante focus sull' Ucraina, che sarà al centro delle accuse DEM a Trump di aver spinto Kiev a indagare su Biden, avrà un ovvio effetto, mettere in luce l' operato più che sospetto di Joe e di suo figlio Hunter, e non solo in Ucraina ma anche in Cina. Nel maggio del 2014, Hunter era stato assunto dalla società ucraina di gas naturale Burisma Holdings, con un contratto di cinque anni e uno stipendio mensile di 50mila dollari, senza alcuna esperienza nel ramo. Ian Bremmer, presidente dell' Eurasia Group e columnist di Time Magazine, intervistato dalla CNN, non poteva essere più sferzante: «Biden ha un problema: 50mila dollari al mese al figlio Hunter chiaramente per vendere influenza, perché nessuno gli darebbe tanti soldi, e in una compagnia che francamente era piuttosto corrotta, e che da prima dell' assunzione era sotto inchiesta. È dura pensare che Joe non fosse consapevole».  Gli americani chiederanno, ha rincarato oggi Karl Rove sul WSJ, «perché Biden fosse stato cieco di fronte all' evidente comportamento non appropriato che da vicepresidente tenne nel 2015 e nel 2016, quando fece pressioni sul governo ucraino affinché combattesse la corruzione mentre suo figlio Hunter stava lavorando per Burisma». L' azienda aveva messo nel suo board Hunter e un altro americano, Devon Archer (amico dell' allora segretario di Stato John Kerry), con un contratto quinquennale, scaduto il maggio scorso. Gli era stato offerto il rinnovo, ma Hunter ha rinunciato perché il padre è sceso in corsa: ma se era un lavoro senza macchia quando Joe era in carica, perché diventa tossico ora che è un semplice candidato? L' ipocrisia è lampante, e del resto i Biden sono abituati, in stile Clinton, a mischiare potere di governo e affari di famiglia. Nel libro "Secret Empires. How the American Political Class Hides Corruption and Enriches Family and Friends" ("Imperi Segreti: come la classe politica americana nasconde la corruzione e arricchisce famiglia e amici"), il giornalista investigativo Peter Schweizer ha rivelato un anno fa che nel 2013 l' allora vicepresidente in carica Biden fece un viaggio ufficiale in Cina, a bordo del suo Air Force Two, portandosi appresso il figlio Hunter. La coppia incontrò chi doveva, a Pechino, e dieci giorni dopo una sussidiaria della Bank of China chiamata Bohai Capital firmò un contratto esclusivo con la società finanziaria di Hunter Biden (la Rosemont Seneca Bohai) per costituire un fondo d' investimento congiunto tra le due entità, da un miliardo di dollari, chiamato Bohai Harvest RST. L' accordo, in seguito, fu incrementato a 1,5 miliardi di dollari. Con quella iniziativa, scrive Schweizer, presidente dell' Istituto per il controllo delle responsabilità del governo e giornalista di Breitbart News, «il governo cinese stava letteralmente finanziando un business di cui Pechino era comproprietario assieme ai figli di due dei più potenti decision makers d' America». Socio di affari finanziari di Hunter Biden, dal 2009, è infatti Christopher Heinz, il figliastro di John Kerry. I trascorsi più che opachi di Biden, insomma, garantiscono che la campagna di Trump potrà usare tante ed efficaci munizioni nel caso Joe dovesse riuscire a conquistare la nomination. Questo è da vedere, e non solo perché Elizabeth Warren sta avanzando sondaggio dopo sondaggio. C' è anche il fuoco amico, alimentato dalla sempre più forte sinistra interna dei DEM. Spingendo per l' impeachment attraverso l' Ucrainagate, Ocasio e compagni sanno benissimo di esporre in pubblico le vergogne dei Biden, candidato che disprezzano quasi quanto Trump.

Il filo che collega lo Spygate italiano alla “talpa” anti-Trump. Roberto Vivaldelli su it.insideover.com il 6 novembre 2019. Benché secondo i democratici e i suoi legali abbia pieno diritto all’anonimato, il nome della “talpa” della Cia (whisteblower) che ha denunciato il presunto abuso di potere esercitato dal presidente Donald Trump nei confronti dell’omologo ucraino Volodymyr Zelensky in una telefonata del 25 luglio scorso, dando di fatto inizio alla procedura di impeachment, è ormai noto alle cronache giornalistiche. Come ha rivelato nei giorni scorsi RealClear Investigations si tratterebbe Eric Ciaramella, già al servizio dell’ex vicepresidente Joe Biden e dell’ex direttore della Cia e arcinemico di Donald Trump, John Brennan. Secondo RealClear Investigations, Ciaramella avrebbe lasciato il suo incarico presso il Consiglio della sicurezza nazionale alla Casa Bianca a metà 2017 perché avrebbe rivelato alcune informazioni riservate ai media. Da allora è tornato al quartier generale della Cia a Langley, Virginia. “È stato accusato di aver lavorato contro Trump e di aver fatto trapelare notizie contro il presidente”, ha spiegato un ex funzionario della Sicurezza nazionale, parlando a condizione di anonimato. “Tutti sanno chi è. La Cnn lo sa. Il Washington Post lo sa. Il New York Times lo sa. Il Congresso lo sa. La Casa Bianca lo sa. Persino il presidente sa chi è”, ha dichiarato Fred Fleitz, ex analista della Cia e funzionario nel consiglio per la sicurezza nazionale di Trump. Ciaramella, il “whisteblower” che ha presentato la denuncia dopo la conversazione telefonica del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, con il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, avrebbe inoltre consultato il comitato di intelligence della Camera prima di procedere. Il presidente del comitato è il democratico Adam Schiff, che dunque era a conoscenza della denuncia del “whisteblower” contro il presidente Donald Trump prima che fosse resa pubblica, come ha reso noto il New York Times.

Quel pranzo con Biden, Obama… e Renzi. Ufficiale della Cia specializzato in Russia e Ucraina, Eric Ciaramella ha collaborato con il Consiglio di sicurezza nazionale dall’estate del 2015, lavorando sotto Susan Rice, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Obama. Ha anche lavorato a stretto contatto con l’ex vicepresidente Joe Biden. I registri federali, riporta RealClear Investigations, mostrano che l’ufficio di Joe Biden ha invitato Ciaramella a un pranzo di stato nell’ottobre 2016 con l’allora premier italiano Matteo Renzi. Tra gli altri erano presenti John Brennan e l’allora direttore dell’Fbi James Comey, oltre all’allora direttore dell’intelligence nazionale James Clapper. Secondo diversi funzionari statunitensi, è piuttosto insolito invitare a un pranzo di questo tipo un dipendente federale di livello “relativamente basso” come Ciaramella. Secondo gli ex funzionari della Casa Bianca, Ciaramella si occupava dell’Ucraina per conto dell’ex vicepresidente Biden nel 2015 e nel 2016, negli anni in cui lo stesso era il punto di riferimento di Obama su Kiev. Laureato a Yale, si dice che l’analista della Cia parli russo, ucraino e arabo. Fu promosso da John Brennan. Come ipotizza Antonio Grizzuti su La Verità, potrebbe essere un legame fra Ciaramella, lo Spygate che coinvolge anche l’Italia e l’impeachment contro Trump. “Cosa ci faceva Ciaramella, esperto di Ucraina, alla cena di Renzi insieme allo stato maggiore dell’intelligence Usa?” osserva. “La talpa ha forse qualche collegamento con il versante italiano dello Spygate? Dopo una prima disponibilità a testimoniare di fronte al Congresso l’informatore ha fatto retromarcia, alimentando così i dubbi sul suo ruolo nell’intera vicenda”.

“La talpa deve testimoniare”. C’è un’altra prova che sembra inchiodare Ciaramella, la presunta talpa della Cia che ha denunciato Trump. Come riporta Breitbart, il nome di Eric Ciaramella compare in una serie di mail governative dell’era Obama rilasciate dal Dipartimento di Stato nell’ambito di due precedenti richieste del Freedom of Information Act. Al momento degli scambi, Ciaramella era direttore degli affari del Baltico e dell’Europa orientale per il Consiglio di sicurezza nazionale di Barack Obama. Ora è un’analista della Cia. Ciaramella era in copia quando i funzionari dell’amministrazione Obama celebravano la firma di un prestito da un miliardo di dollari Usa verso l’Ucraina. E ora i repubblicani sono pronti a fare il suo nome, come ha annunciato il senatore Rand Paul. “Sono più che disposto a farlo, e probabilmente lo farò ad un certo punto”, ha dichiarato a The Hill. “Non esiste una legge che impedisce a chiunque di pronunciare quel nome”. Ora conosciamo anche il nome dell’informatore, ha aggiunto durante un comizio con il presidente Donald Trump. “L’informatore deve presentarsi come testimone perché ha lavorato per Joe Biden mentre Hunter Biden stava ottenendo denaro da oligarchi corrotti. Per quanto ne sappiamo potrebbe aver viaggio con Joe Biden e Hunter in Ucraina“. Sul tema è intervenuto anche il deputato Jim Jordan: “Sei settimane fa, Adam Schiff disse che il whistleblower avrebbe testimoniato. Ora ha cambiato idea. Cosa è successo nel frattempo? Solo due cose: abbiamo appreso che l’individuo ha incontrato il personale di Schiff e conosciamo il suo pregiudizio politico”.

LA TRAGEDIA POLITICA DI JOE BIDEN. Massimo Gaggi per “il Corriere della sera” il 27 settembre 2019. Con le severe regole anticorruzione che lei vuole introdurre, il figlio di Biden avrebbe potuto accettare gli incarichi finanziari e lobbistici che ha svolto mentre il padre era al governo? «Non lo so», ha risposto Elizabeth Warren ai giornalisti, «dovrei studiare a fondo il caso». Intanto Rudy Giuliani promette altre puntate nell' offensiva di Trump per gettare fango sull' ex vicepresidente usando il figlio che, dice, «ha avuto problemi di droga». Chiedendo al presidente ucraino di indagare sui Biden, Trump ha compattato i democratici, ormai obbligati ad andare fino in fondo con l' impeachment , anche perché le responsabilità del presidente appaiono più gravi e dirette rispetto al Russiagate. Ma, personalizzando lo scontro con quello che considera il suo probabile sfidante fino al punto di tirare in ballo il figlio, Trump mette anche una mina nella campagna elettorale dei progressisti. Usando le consulenze ucraine di Hunter come le email di Hillary Clinton del 2016, The Donald prova a ripetere lo stesso colpo: non solo infangare l' avversario, ma anche fornire munizioni ai liberal democratici ostili ai candidati centristi. Tre anni fa, durante le primarie, i fan di Sanders attaccarono la «corrotta» Hillary gettandole contro pacchi di banconote. Biden non subirà trattamenti simili: è ormai il perno della battaglia legale contro il presidente. Rischia, però, di fare la stessa fine: bruciato nella battaglia dell' impeachment nel corso della quale Trump, come al solito, più che dirsi innocente, sosterrà che gli altri sono come o peggio di lui, attaccando Biden attraverso il «problematico» Hunter: finanziere e lobbista mentre Joe era al governo, accusato dalla moglie, nella causa di divorzio, di aver dilapidato un patrimonio in droga e prostitute. Una mazzata per Joe. Gli elettori democratici, pur dandolo ancora per favorito nei sondaggi, da mesi spostano i consensi verso candidati più giovani e radicali: la Warren lo ha superato negli Stati (Iowa e New Hampshire) che apriranno le primarie. Una vera tragedia politica greca la storia di Biden: nel 1972, appena eletto senatore, perse in un incidente stradale la moglie Neilia e la piccola Naomi, mentre gli altri figli, Beau e Hunter, rimasero feriti. Beau, l' adorato figlio-modello, è stato poi ucciso da un cancro. L' unico sopravvissuto rischia di strappare l' ultima e più alta pagina della sua carriera.

DAGONEWS il 21 novembre 2019. Per Biden le rogne non finiscono mai, e arrivano sempre dal figlio Hunter, che da anni lotta con la dipendenza da alcol e droghe e che lo ha messo nei pasticci con le sue ingiustificabili parcelle da consulente (3 milioni di dollari) in Ucraina quando il padre era vicepresidente. Lunden Roberts (28 anni) ha presentato un'istanza in un tribunale dell'Arkansas per far riconoscere che Hunter è il padre biologico di suo figlio, nato nell'agosto 2018. Biden jr. aveva negato, ma aveva accettato di sottoporsi a un test del DNA, che avrebbe dimostrato il legame di sangue. Nell'atto di citazione si legge che ''il test ha dimostrato con certezza scientifica che la controparte è il padre del bambino''. Non solo: gli avvocati chiedono che il bimbo, la cui identità è stata secretata, abbia diritto alle misure di sicurezza riservate alla famiglia dei candidati presidenziali, ovvero a una scorta del Secret Service. Hunter Biden ha tre figli dalla prima moglie, Kathleen, dalla quale ha divorziato nel 2017 anche per la sua passione per le escort (dice lei). Lo stesso anno ha allacciato una relazione con la vedova del fratello Bo, durata fino all'inizio del 2019. Pochi mesi dopo, a maggio, ha sposato Melissa Cohen. Secondo gli atti, fino al matrimonio avrebbe pure mantenuto la sua tresca con Lunden Roberts. È stato dopo la rottura che la donna ha presentato la prima denuncia, per ottenere il riconoscimento del figlio e gli alimenti. ''Non vuole che questo diventi uno spettacolo mediatico, né condizionare la campagna elettorale di Joe Biden'', hanno detto i suoi avvocati. ''Vuole solo che il bimbo riceva il giusto sostegno economico dal padre''.

Impeachment Trump, cade la prima testa: si dimette Kurt Volker, l'inviato Usa in Ucraina. Mise in contatto Giuliani con Zelensky. Il legale personale del presidente americano ha deciso di rinunciare alla partecipazione come speaker pagato ad un evento in Armenia sponsorizzato dal Cremlino. Alberto Custodero il 28 settembre 2019 su La Repubblica. Cade la prima testa nell'Ucrainagate. Kurt Volker, l'inviato speciale Usa in Ucraina, si è dimesso un giorno dopo la diffusione della denuncia di uno 007-talpa sulla telefonata in cui il presidente americano Donald Trump - nei cui confronti è stato chiesto l'impeachment - chiese a quello ucraino Volodymyr Zelenskyj di indagare padre e figlio Biden (Joe e Hunter). E, poi, sul tentativo di insabbiarla. Il Dipartimento di Stato Usa ieri aveva confermato che Volker mise in contatto Rudy Giuliani, l'avvocato personale di Trump anch'egli al centro dell'Ucrainagate, con un alto collaboratore del leader ucraino Zelensky "su richiesta del consigliere presidenziale Andriy Yermak". Ma precisando che il legale "non parlava per conto del governo Usa". In una intervista a Sky News, Giuliani ha poi affermato che "vorrebbe testimoniare" al Congresso Usa, aggiungendo che il capo della Casa Bianca "non ha fatto proprio niente di sbagliato". In un'intervista alla Cnn, Giuliani aveva fornito la sua versione spiegando che il 19 luglio scorso Volker lo contattò a proposito del fatto che avrebbe dovuto mettersi in contatto con uno dei principali consiglieri di Zelensky, Yermak: secondo il racconto dell'avvocato di Trump alla Cnn, dopo almeno due telefonate fra Giuliani e Yermak, i due si incontrarono a Madrid il 1° agosto e Giuliani condivise tutti i dettagli di quelle conversazioni con il dipartimento di Stato, e in particolare con Volker. Giuliani aveva spiegato poi che Volker lo informò che la telefonata del 25 luglio fra Zelensky e Trump, ora al centro dell'indagine formale di impeachment, era andata bene. In una dichiarazione dello scorso 23 agosto, il dipartimento di Stato Usa ha riconosciuto che Volker mise il consigliere di Zelensky, Andriy Yermak, in diretto contatto con Giuliani, ma aveva ribadito che "Giuliani è un cittadino privato e agisce come avvocato del presidente Trump" e "non parla per conto del governo Usa". I presidenti di tre commissioni della Camera hanno emesso un mandato perché il segretario di stato Mike Pompeo fornisca al Congresso entro il 4 ottobre i documenti relativi all'interazione di Trump con Zelensky nell'ambito dell' indagine di impeachment sul presidente. Tra il 2 e il 10 ottobre invece sono state fissate le deposizioni di cinque dirigenti del dipartimento di Stato, tra cui Volker. A questo proposito Giuliani ha dichiarato che non testimonierà al Congresso nell'indagine di impeachment senza consultarsi con il Tycoon e ha sostenuto che il suo lavoro dovrebbe essere protetto dal privilegio che tutela i rapporti tra avvocato e cliente. "Alla fine, se io fossi per il sì e lui per il no, non potrei testimoniare", ha detto, precisando di non aver parlato col presidente Usa della possibilità di una sua testimonianza.

Giuliani non farà lo speaker a pagamento in evento finanziato dal Cremlino. Giuliani ha deciso intanto di rinunciare alla partecipazione come speaker a pagamento ad un evento in Armenia sponsorizzato dal Cremlino. Lo ha fatto sapere sia al New York Times e sia alla Cnn dopo la notizia, riportata dal Washington Post, sulla sua presenza alla conferenza alla quale è prevista la partecipazione anche del presidente russo Vladimir Putin.

Trump chiede a capo lobby armi aiuto per difesa impeachment. Il presidente Trump ha incontrato Wayne LaPierre, il capo della National Rifle Association (Nra), la potente lobby delle armi americana, per discutere di possibili finanziamenti da destinare alla sua difesa dall'impeachment. Lo riporta il New York Times segnalando che Trump dovrebbe, in cambio, opporsi ad ogni legge sul controllo delle armi.

Cnn: in registri separati anche telefonate con Putin. La Casa Bianca avrebbe "nascosto" in registri separati anche le trascrizioni delle telefonate del presidente Trump con il presidente russo Putin e il principe coronato saudita Mohammed bin Salman (Mbs). Lo riporta la Cnn, precisando che, per quanto riguarda Mbs, la telefonata sarebbe avvenuta dopo l'omicidio del giornalista saudita dissidente Jamal Khashoggi che l'intelligence americana ha attribuito a Riad. La Casa Bianca, nello stesso modo, aveva limitato l'accesso alla trascrizione della telefonata tra Trump e il presidente ucraino Zelensky al centro dell'inchiesta sul possibile impeachment dell'inquilino della Casa Bianca.

Kiev-gate, Giuliani incontrò cinque procuratori ucraini. Wp: "Così ottenne informazioni su Biden". L'avvocato personale di Trump prevedeva di andare a Kiev nel maggio scorso per incontrare il nuovo presidente ucraino, Volodimir Zelenskij, ma dopo che il New York Times rivelò il suo programma, cancellò il viaggio. Incontrò tuttavia a Parigi altri procuratori. La Repubblica il 27 settembre 2019.  Nel suo ruolo di avvocato personale del presidente Donald Trump, Rudolph Giuliani incontrò cinque procuratori ed ex procuratori ucraini già lo scorso anno. Lo rivela lo stesso legale al Washington Post, riferendo che in quei colloqui ottenne informazioni su Hunter Biden e su quella che Giuliani definisce la collusione tra i dem e l'Ucraina nelle elezioni del 2016. Biden, ora candidato presidenziale dem, era membro del cda di una società energetica ucraina. Giuliani e un imprenditore ucraino-americano che lavorava con lui, Lev Parnas, hanno raccontato al Washington Post che i colloqui includono una telefonata via Skype lo scorso anno con l'ex procuratore generale ucraino Viktor Shokin, di cui Joe Biden aveva chiesto il licenziamento. Poi Giuliani incontrò l'allora procuratore generale Iuri Lutsenko a New York in gennaio e nuovamente a Varsavia a febbraio. L'avvocato prevedeva di andare a Kiev in maggio per incontrare il nuovo presidente ucraino, Volodimir Zelenskij, ma dopo che il New York Times rivelò il suo programma, cancellò il viaggio. Incontrò tuttavia a Parigi altri procuratori, tra cui Nazar Kholodnitskij, capo dell'ufficio anti corruzione di Kiev.

Usa, si teme per la "Talpa" della telefonata fra Trump e Zelenskij: è sotto la protezione degli 007. Il capo della Casa Bianca: "Ho il diritto di incontrare il mio accusatore. Questa persona stava spiando il presidente degli Stati Uniti?" La Repubblica il 30 settembre 2019. La talpa della telefonata fra il presidente americano Donald Trump e il leader ucraino Volodymyr Zelenskij è sotto protezione delle autorità federali, che ne temono per la sicurezza. Lo riportano i media Usa citando una lettera del legale della talpa, Andrew Bakaj, secondo la quale il numero uno dell'intelligence americana ha attivato le "appropriate risorse" per proteggere la talpa. Nella telefonata il capo della Casa Bianca chiedeva al collega di riaprire l'inchiesta sul figlio di Joe Biden, per screditare l'avversario possibile candidato democratico alle presidenziali e dunque di interferire nelle elezioni del 2020. Trump chiede intanto di incontrare la talpa e avverte: potrebbero esserci gravi conseguenze per chi ha passato le informazioni. "Questa persona stava spiando il presidente americano?", twitta Trump. "Come ogni americano merito di incontrare il mio accusatore", che "ha scritto cose terribili dicendo che sarei stato io a dirle. Non solo voglio incontrare il mio accusatore, che ha presentato informazioni di seconda e terza mano, ma voglio incontrare la persona che gli ha dato le informazioni". Joe Biden, da parte sua, scrive ai big della tv Usa e chiede di non invitare più Rudy Giuliani, il legale personale di Donald Trump, ai loro programmi per discutere dell'Ucrainagate. L'accusa all'ex sindaco di New York è di gettare fango sulla famiglia del candidato democratico alla Casa Bianca, diffondendo teorie false e complottiste per conto del presidente Donald Trump. La missiva è firmata dai responsabili della campagna dell'ex vicepresidente americano ed è stata inviata ai Ceo di Abc, Cbs, Nbc, Cnn e Fox News.

Federico Rampini per “la Repubblica” l'1 ottobre 2019. Il video mostra Joe Biden che minaccia di cancellare un miliardo di dollari di aiuti all' Ucraina, se non viene cacciato un procuratore di quel Paese. «Quando il presidente Trump chiede all' Ucraina di indagare sulla corruzione, i democratici vogliono destituirlo. Hanno perso l' elezione. Ora la vogliono rubare». È la pubblicità a pagamento che la campagna elettorale di Donald Trump sta mandando in onda su diverse reti tv. Non appena i democratici hanno avviato alla Camera la procedura d' impeachment, dal quartier generale della campagna per la rielezione di Trump è partita un' offensiva pubblicitaria da 10 milioni di dollari. Mentre nel partito repubblicano sono ancora minoritarie le voci di chi prende le distanze dal presidente, o addirittura ne appoggia l' impeachment, in quello democratico le accuse a Biden trovano un terreno favorevole. Il partito è diviso sulla nomination nella corsa alla Casa Bianca 2020. L' ala sinistra - la stessa che ha sempre richiesto l' interdizione del presidente - è anche la più feroce avversaria di Biden. Ora potrebbe aver preso due piccioni con una fava: la prima vittima dell' impeachment rischia di essere proprio il vicepresidente di Barack Obama. Mentre la condanna finale di Trump al momento appare improbabile - servono i voti di due terzi del Senato, dove i repubblicani hanno la maggioranza - per condannare Biden è sufficiente un' emorragia di consensi nella base. Il problema dell' ex numero due è lo stesso Kiev-gate che inguaia Trump. All' origine dello scandalo c' è una vicenda in cui sono coinvolti due Biden, padre e figlio. L' inizio di quella storia è nel 2014, quando il presidente ucraino Viktor Yanukovitch viene deposto da proteste anti-russe e filo-occidentali. Gran parte della sua "famiglia" - il clan mafioso che lo circonda - fugge in Russia. Uno degli oligarchi vicini a Yanukovitch decide di rimanere in Occidente. E' Mykola Zlochevsky, magnate del gas.

La sua azienda, la Burisma, è al centro di accuse di corruzione. Quando Zlochevsky era ministro dell' Energia dal 2010 al 2012 la Burisma si vide assegnare diverse licenze statali. Lui sosteneva di aver ceduto il controllo dell' azienda; in realtà lo aveva trasferito a se stesso, tramite società-ombra a Cipro. Zlochevsky dopo la caduta del suo protettore finisce sotto inchiesta in patria e all' estero: è tra gli indagati da parte dell' Fbi che cerca di recuperare ben 100 miliardi di dollari trafugati da Yanukovitch. Nell' aprile l' oligarca nomina nel consiglio di amministrazione di Burisma Hunter Biden, figlio del vicepresidente democratico allora in carica a Washington. Con uno stipendio da 50.000 dollari al mese. È la vicenda per la quale Trump - nella "telefonata da impeachment" - ha chiesto al neopresidente ucraino un aiuto per inguaiare Biden. Nel frattempo Hunter si è dimesso. Le indagini ucraine in passato non lo hanno mai incriminato. Sta di fatto che suo padre quando era il vice di Obama si occupava da vicino della crisi ucraina e in nome della lotta alla corruzione aveva chiesto la cacciata di un procuratore. Ora i media - non solo quelli di destra - scavano sul passato di Hunter, compresa una causa di divorzio in cui la ex-moglie lo accusa di aver dilapidato una fortuna in droga e prostitute. Nulla di tutto ciò è paragonabile alla gravità del gesto di Trump, la richiesta a un governo straniero d' immischiarsi nella campagna elettorale americana. Tuttavia Biden stava già calando nei sondaggi, tallonato dalla beniamina della sinistra, Elizabeth Warren: questo potrebbe essere il colpo di grazia.

Telefonata Trump-Zelenskij, l'intelligence Usa difende la "talpa": "Nessun complotto". Smentita ogni teoria cospirazionista sulla persona che ha svelato la telefonata fra Trump e Zelenskij: "Tutto si è svolto nell'ambito della legge. Ha parlato per diretta conoscenza". La Repubblica l'1 ottobre 2019. Nessun complotto. L'ufficio dell'ispettore generale dell'intelligence statunitense smentisce ogni teoria cospirazionista sul whistelblower, la talpa della Cia al centro dell'inchiesta sul possibile impeachment del presidente Donald Trump. In un lungo comunicato, l'ufficio dell'ispettore generale, così come aveva già fatto in audizione il Direttore della National Intelligence, Joseph Maguire, ha precisato che la talpa ha seguito le procedure e si è mosso nell'ambito della legge. Ha inoltre indicato come la talpa avesse "diretta conoscenza" rispetto a determinate accuse. Erano stati Trump e alcuni repubblicani a contestare il fatto che il whistleblower avesse informazioni di seconda mano. La denuncia riguardava le pressioni di Trump, durante un colloquio telefonico, sul presidente ucraino Volodymyr Zelensky, perchè indagasse sull'ex vice presidente Joe Biden  con l'obiettivo di intralciare la sua corsa alla Casa Bianca. Ieri Trump aveva chiesto di incontrare la talpa ed aveva avvertito che potrebbero esserci gravi conseguenze per chi ha passato le informazioni. "Questa persona stava spiando il presidente americano?", ha twittato Trump. Che ha aggiunto: "Come ogni americano merito di incontrare il mio accusatore", che "ha scritto cose terribili dicendo che sarei stato io a dirle. Non solo voglio incontrare il mio accusatore, che ha presentato informazioni di seconda e terza mano, ma voglio incontrare la persona che gli ha dato le informazioni". Intanto l'avvocato personale di Donald Trump, Rudy Giuliani, segnala che potrebbe non rispettare il mandato di consegna di documenti della Camera dei Rappresentanti Usa sul caso. "Ho ricevuto un ordine firmato solo dai presidenti democratici che hanno pregiudizi su questo caso. Questo solleva questioni significative sulla legittimità, sulla costituzionalità e su questioni legali, comprese, tra le altre, il privilegio avvocato-cliente. Vi sarà dedicata appropriata considerazione", ha twittato Giuliani al quale è stato intimato di rispettare l'ordine entro il prossimo 15 ottobre. All'ex sindaco di New York, le commissioni Intelligence, Vigilanza ed Esteri della Camera che indagano sul possibile impeachment di Trump, hanno chiesto di fornire tutti gli sms, le registrazioni delle chiamate e altre comunicazioni relative al colloquio tra il miliardario e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Trump ha chiesto a Zelensky di indagare sull'ex vice presidente Usa Joe Biden per intralciare la sua corsa per la Casa Bianca nel 2020.

Iran, Trump aspetta invano la telefonata di Rouhani. Il presidente iraniano rifiuta di uscire dalla stanza. Secondo il "New Yorker", il colloquio telefonico era stato organizzato dal capo di Stato francese. Macron sarebbe andato inaspettatamente al Millennium Hilton Hotel, vicino al quartier generale dell'Onu, dopo essersi assicurato la possibilità di allacciare una linea di contatto telefonica sicura tra i due. Rouhani però si è rifiutato di lasciare la suite dove alloggiava. La Repubblica l'1 ottobre 2019. La linea telefonica era stata segretamente installata. Il presidente Donald Trump attendeva dall'altra parte. Tutto quello che il presidente iraniano Hassan Rouhani dell'Iran doveva fare era uscire dalla sua suite d'albergo ed entrare in una stanza sicura per parlare con il suo omologo americano. Niente di fatto. Trump ha aspettato invano la telefonata che il capo di Stato francese Emmanuel Macron aveva cercato di organizzare durante il vertice Onu di New York, non è mai avvenuta. Rouhani non ha respinto il tentativo del colloquio telefonico a tre a margine dei lavori della 74esima Assemblea Generale a Palazzo di Vetro. Macron ha cercato per mesi di mediare un disgelo nello stallo tra gli Stati Uniti e l'Iran, che ha minacciato di degenerare in una nuova guerra in Medio Oriente. Accompagnato da una piccola squadra di consiglieri, Macron attendeva la risposta di Rouhani fuori della suite del leader iraniano al Millennium Hilton Hotel, vicino al quartier generale dell'Onu martedì sera. Secondo il New Yorker che cita tre testimoni, il presidente iraniano si sarebbe rifiutato di lasciare la stanza. L'ennesimo tentativo di Macron è arrivato dopo l'intervento di Trump al dibattito generale.

Impeachment, Trump attacca: "È un colpo di Stato". Dura offensiva del presidente e della sua amministrazione contro l'inchiesta per la messa in stato d'accusa del capo della Casa Bianca. Pompeo accusa i democratici di "intimidazione, bullismo e trattamento improprio" dei funzionari del dipartimento di Stato chiamati a testimoniare. La Repubblica il 02 ottobre 2019. Donald Trump e la sua amministrazione rompono gli indugi e vanno all'assalto dei democratici e dell'inchiesta per la messa in stato d'acussa del presidente. Trump su Twitter parla di "colpo di Stato" mentre il suo segretario di Stato Mike Pompeo accusa i democratici di "intimidazione, bullismo e trattamento improprio" a proposito dei funzionari del dipartimento di Stato chiamati a testimoniare nell'ambito dell'indagine sulla telefonata fra il presidente e il suo omologo ucraino Zelenskij per danneggiare Joe Biden, probabile candidato dem alle elezioni del 2020 . "Sono arrivato alla conclusione che quello che sta avvenendo non è un impeachment. E' un colpo di Stato - ha scritto Donald Trump su Twitter - volto a prendere il potere delle persone, i loro voti, le loro libertà, il loro secondo emendamento, la religione, l'esercito, il muro al confine, e i loro diritti di cittadini degli Stati Uniti d'America!". Un attacco durissimo anticipato da alcune mosse di Pompeo. Il segretario di Stato ha fatto sapere i funzionari del suo dipartimento non testimonieranno. "Sono preoccupato - ha twittato durante la sua visita in Italia - da alcuni aspetti della richiesta della commissione, che possono essere ritenuti solo un tentativo di intimidazione, bullismo e trattamento improprio di diversi professionisti del dipartimento di Stato". Poi in un secondo tweet aggiunge: "Lasciatemi essere chiaro: non tollererò queste tattiche e userò tutti i mezzi a mia disposizione per evitare e denunciare ogni tentativo di intimidire i professionisti zelanti che sono orgoglioso di guidare e con cui sono orgoglioso di prestare servizio al dipartimento di Stato". Allo stesso Pompeo è stato ordinato di consegnare i documenti necessari ai deputati per l'indagine formale di impeachment. Alla presa di posizione di Pompeo hanno risposto i presidenti di tre commissioni della Camera che hanno detto di aspettarsi dal segretario di stato Mike Pompeo "piena ottemperanza", dopo il suo rifiuto di far deporre alcuni dirigenti del dipartimento nell'indagine di impeachment su Trump. "Ogni sforzo di intimidire testimoni o impedire loro di parlare al Congresso è illegale e costituirà prova di ostruzione della giustizia", hanno replicato, accusando Pompeo di proteggere se stesso dato che partecipò alla controversa telefonata di Trump col presidente ucraino. Intanto l'ex inviato Usa in Ucraina, Kurt Volker, fresco di dimissioni, sarà il primo testimone dell'inchiesta sul possibile impeachment. Secondo la Cnn, Volker ha confermato che parlerà in audizione giovedì come previsto nonostante il niet di Pompeo. Volker, stando all'emittente americana, intende invece rispettare il mandato. L'ex inviato di Washington per l'Ucraina sarebbe stato direttamente coinvolto nel Kiev-gate, organizzando incontri tra il legale personale di Trump, Rudy Giuliani, e il presidente ucraino Volodymyr Zelenskij.

Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 27 settembre 2019. Quanti soldi ha già raccolto Donald Trump per la sua rielezione? A chi vanno i soldi di Wall street? Quanti debiti ha il partito Democratico più de sinistra degli ultimi 30 anni? Quanto manca al primo martedì di novembre del 2020? Un sacco di tempo, troppo per pensare di sopportare il clima di caccia alle streghe e bufale un tanto al chilo. Ma non c'è niente da fare. Ucrainagate, poi il prossimo gate. Titolo del Corriere della Sera: La «talpa» della Cia che fa tremare Trump. E’ caccia all’identità dello 007 che ha denunciato la telefonata tra il presidente Usa e il leader ucraino costata al capo della Casa Bianca una richiesta di impeachment. Titolo de la Repubblica: Wistleblower alla Casa Bianca: "Così Trump cercò di insabbiare pressioni su Zelenskij". Biden: "Ha cercato di rubare le elezioni". Svolgimento dei giornaloni e delle TV italiane: Diffusa la denuncia del funzionario dell'intelligence che ha lanciato l'allarme facendo scattare il caso di impeachment. Il Tycoon: "È una spia, come tale va trattato". Chiarito che il tycoon sarebbe il presidente degli Stati Uniti, che la telefonata presunta incriminata e alla base dello scandalo tra presidente ucraino e presidente americano è stata diffusa e non ha rivelato proprio niente di illegale, figurarsi ostruzione alla giustizia; acclarato che l'apertura di un'inchiesta in vista di impeachment è pura propaganda dei dem, che si tratta in realtà di una guerra interna al partito Democratico, purtroppo orientato a sinistra estrema "metoo", contro Biden candidato alle presidenziali moderato, che però la famiglia Biden e in specie il figliuolo Hunter sono andati soprattutto a caccia di quattrini illegali ricavati da abuso di potere, si farà ogni giorno più difficile distinguere notizie allarmistiche sul impeachment imminente dalla verità della propaganda elettorale. Ci proviamo, ma è necessario anche dire che per un New York Times, un WAPO, una CNN, che gonfiano il presunto scandalo, ci sono anche giornali e media che approfondiscono, informano correttamente, e ci sono i documenti, che a fare il proprio mestiere potrebbero essere direttamente letti, per esempio la relazione che sull'informazione della " talpa" ha fornito al Congresso Adam Schiff, Democratico di Burbank e West Hollywood. Intanto per dire che il cosiddetto analista della Cia che ha denunciato le presunte pressioni  nella telefonata con il Presidente ucraino non era presente alla telefonata  e non sa direttamente nulla. Quello che ha raccontato è solo  sentito dire, poi smentito da quanto pubblicato come trascrizione della telefonata e successivamente  dal presidente ucraino e da membri del suo Governo.  Chi è, e perché tanto zelo? L'identità è coperta ma  sarebbe un dirigente della CIA lasciato a fare la talpa dal suo ex capo John Brennan, Direttore della CIA dell'amministrazione Obama. Uno che Trump lo odia e che è stato dentro tutti i presunti intrighi e scandali orditi contro la presidenza attuale. Ad Adam Schiff sono arrivati due tweet chiari da Donald Trump:

1) Rep. Adam Schiff totally made up my conversation with Ukraine President and read it to Congress and Millions. He must resign and be investigated. He has been doing this for two years. He is a sick man! Ha completamente falsato la mia conversazione col presidente ucraino leggendo al Congresso e milioni di americani. Deve dimettersi ed essere indagato Sono due anni che lo fa, è malato.

2) Rep. Adam Schiff fraudulently read to Congress, with millions of people watching, a version of my conversation with the President of Ukraine that doesn’t exist. He was supposedly reading the exact transcribed version of the call, but he completely changed the words to make it.....sound horrible, and me sound guilty. HE WAS DESPERATE AND HE GOT CAUGHT. Adam Schiff therefore lied to Congress and attempted to defraud the American Public. He has been doing this for two years. I am calling for him to immediately resign from Congress based on this fraud! Il secondo tweet è più specifico, Trump accusa Schiff di aver manipolato in modo fraudolento la conversazione, fornendone una versione inesistente ai parlamentari e al pubblico mentre avrebbe dovuto leggere l'esatta trascrizione. Lo avrebbe fatto per disperazione, e rendendo nota la vera conversazione, il presidente ritiene di averlo smascherato e chiede che si dimetta, perché fa questi imbrogli da 2 anni.

Siamo solo alle prime puntate perché probabilmente i dirigenti del Partito Democratico si sono infilati in un tunnel dal quale è difficile uscire e sono costretti a proseguire con questa pantomima dell'Impeachment, ma anche perché prevale in questo momento la volontà di favorire contro Biden, del quale nei prossimi giorni vi racconterò qualche segreto e prodezza,  la al momento favorita Pocahontas, termine Made in Trump, perché la signora si era inventata origini "pellerossa" per rientrare in un gruppo di minoranza privilegiato in un concorso universitario, ovvero Elizabeth Warren. Bene, per darvi un'idea del clima generale, i finanziatori del partito Democratico di Wall Street, ovvero la cassaforte, Il portafogli di queste elezioni, come di tutte le altre, fanno sapere al partito che se la nominata sarà la Warren, chiuderanno la cassa o passeranno a finanziare Donald Trump. Non è un caso, visto che la Warren è un critico esplicito delle grandi banche, delle corporation e  imporrebbe una bella patrimoniale, una tassa sulla ricchezza. Ha fatto scalpore una inchiesta della Cnbc nel corso della quale  un importante dirigente di una private equity ha dichiarato che l'esigenza sua e di altri di aiutare il partito democratico, viene meno se il prescelto è lei perché lei ha intenzione di colpire gli interessi di Wall street, perciò alla fine lui ed altri aiuteranno Trump. It's the economy stupid, perché stupirsi?

La Warren ha risposto con un tweet nel quale conferma tutto: Mi batto per un'economia e un governo che funzionano per tutti, non solo per i ricchi e quelli con i giusti contatti. Non ho paura di interviste anonime o che  finanziatori ricchi si lascino spaventare. Non arretreremo perché intendo combattere per i grandi cambi strutturali dei quali abbiamo bisogno.

La Warren coerentemente sta raccogliendo denaro per la sua campagna elettorale, circa 19 milioni di dollari nel secondo quadrimestre dell'anno, con piccoli finanziatori. Gli aspiranti candidati democratici sono  20. Nel partito repubblicano c'è un unico candidato, Donald Trump, che nello stesso periodo ha raccolto 100 milioni di dollari, record assoluto. Il comitato elettorale repubblicano sta intorno ai 60 milioni, quello Democratico solo a 7,9 milioni e ne ha 7,2 di debito. La verità? Suicidio perfetto, perché il vecchio Biden, che ha molti scheletri nell'armadio suo, soprattutto il figlio Hunter, sarebbe l'unico in grado di raccogliere denaro in buona quantità per la campagna, sanando le casse del partito, che nel 2020 non ha da affrontare solo la campagna presidenziale, ma anche l'intera Camera e  un terzo del Senato da rinnovare. Vi sembra che il problema siano le chiacchiere sull'impeachment per una telefonata che parlava di un abuso commesso da Biden nell'esercizio delle sue funzioni di vicepresidente, in territorio straniero, contro gli interessi americani, per ragioni squisitamente private? Ma se continuate a leggere i giornaloni e i titoli dei tg, leggete un'altra storia.

Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 25 settembre 2019. "Il Kievgate travolge Trump, crescono richieste di impeachment". " Impeachment contro Trump, al via l'indagine formale. L'annuncio della speaker Pelosi che parla di "tradimento". Titolo rispettivamente della ADNKronos  e titolo dell'Ansa , cito agenzie di stampa, non profluvio di titoli di giornaloni giornaletti e telegiornali dei giorni scorsi e di questa mattina. Si attendono smentite serali, ma vedrete che non arriveranno, perché il debunking, lo smontaggio delle fake news, altrimenti dette bufala, funziona a senso unico. Immaginatevi poi quando riguarda Trump, uno ritenuto colpevole di esistere, figuriamoci di essere in corsa per la rielezione nel 2020 contro un'armata Brancaleone di aspiranti candidati democratici che vanno dal vice che fu di Obama, Biden, ora sotto attenta osservazione, a simpatiche giovanotte antisemite e terrapiattiste. Andiamo per ordine, vi prometto che ancora una volta, a costo di nausearvi chiuderò spiegando che cos'è un impeachment, e come di questa procedura – peraltro fatta in modo così perfetto dal sistema che finisce sempre male, perché un presidente è un presidente – qui non ci sia neanche l'ombra dell'annuncio. In realtà solo folklore del partito Democratico ed eccitazione dei convenuti sul clima a New York. Ottenuta l'autorizzazione dal collega ucraino, il presidente americano come promesso ha reso noto il testo della telefonata incriminata del 25 luglio, su Dagospia e ne avete già letto praticamente la parte più importante come anticipata dalla editorialista del Wall Street Journal, Kimberley Strassel. Ve la ripeto per comodità, si dice testualmente: "Fammi un favore. Si parla molto del figlio di Biden, che Biden fermò l'indagine e molte persone vogliono sapere, così tutto quello che puoi fare con il procuratore generale sarà grandioso. Biden è andato in giro a dire che aveva bloccato l'indagine, quindi se puoi darci un'occhiata. A me sembra orribile". Sono alcune delle frasi tratte dalla telefonata - di cui è stata diffusa la trascrizione declassificata e senza omissis. Trump chiede al presidente ucraino di mettersi in contatto con il ministro della Giustizia Usa, William Barr, per discutere la possibile apertura di un'indagine per corruzione su Joe Biden e suo figlio. Chiede anche a Zelenskij di collaborare con il suo avvocato personale, l'ex sindaco di New York Rudy Giuliani. "Bene - dice il presidente Trump - perché ho sentito che un procuratore molto bra-vo era stato allontanato e questo è davvero ingiusto. Giuliani è un uomo altamente rispettato, è stato il sindaco di New York, un grande sindaco, e vorrei che ti chiamasse. Ti chiedo di parlarci assieme al procuratore generale. Rudy  è molto informato su ciò che è successo ed è un ragazzo in gamba. Se potessi parlare con lui sarebbe grandioso. L'ex ambasciatrice degli Stati Uniti era sgradevole, e così la gente con cui aveva a che fare in Ucraina, volevo che lo sapessi". "Volevo parlarti del procuratore", risponde Zelenskij. Primo di tutto capisco e sono a conoscenza della situazione. Dopo che abbiamo conquistato la maggioranza assoluta in Parlamento, il prossimo procuratore generale sarà al cento per cento una persona mia, un mio candidato, che sarà votato dal Parlamento e comincerà a lavorare da settembre. Lui o lei si occuperanno della situazione, specialmente dell'azienda a cui hai fatto cenno... A proposito, ti chiedo se hai altre informazioni da fornirci, sarebbe molto utile per l'indagine. Sull'ambasciatrice concordo al cento per cento. Ammirava il mio predecessore, non avrebbe accettato me come nuovo presidente". Conclude Trump: "Ti faccio chiamare da Giuliani e farò in modo che lo faccia anche il procuratore generale Barr e andremo a fondo sulla vicenda. Ho sentito che il pro-curatore era stato trattato molto male. Dunque, buona fortuna per tutto. Prevedo che la tua economia migliorerà sempre di più. È un grande Paese. Ho molti amici ucraini, persone incredibili". Dov'è l'abuso di potere? Comincia dove finisce una doverosa richiesta di chiarimenti di un comportamento illegale, peraltro molte volte propalato dallo stesso Biden, il quale ha lasciato anche intendere che Obama fosse informato? A giustificare le accuse membri del Congresso americano avevano dichiarato di voler indagare  per appurare se Trump nella telefonata abbia offerto in cambio il ripristino degli aiuti da poco congelati. Lo hanno scritto alcuni media Usa, quelli italiani hanno giudiziosamente riportato. Ma non è così. Nella trascrizione prima di chiedere a Kiev di controllare i comportamenti del figlio di Joe Biden  (membro del board della società energetica ucraina Burisma group il cui proprietario era stato indagato dalla procura locale), Trump e' molto chiaro: "Direi che facciamo molto per l'Ucraina", più di quanto faccia l'Europa. "La Germania non fa niente per voi. Tutto quello che fanno è chiacchierare, penso che dovresti chiederne conto. Quando ho chiesto a Angela Merkel, lei parla dell'Ucraina ma non fa niente. Molti Paesi europei fanno lo stesso, quindi penso che è qualcosa che avrai notato, invece gli Stati Uniti sono stati molto bravi con l'Ucraina. ". Zelenskij risponde: "Hai assolutamente ragione. Non solo al cento per cento, ma al mille per cento, e ti dico questo. Ho parlato con Angela Merkel e l'ho incontrata. Ho parlato e incontrato anche Macron e ho detto loro che non fanno abbastanza riguardo alle sanzioni. Non le stanno rafforzando. Non lavorano quanto dovrebbero per l'Ucraina. Gli Stati Uniti, tecnicamente, sono un partner più grande dell'Unione Europea e ti sono molto grato. Vorrei anche ringraziarti per il tuo sostegno nel campo della difesa. Siamo pronti a cooperare per i prossimi passi". È a questo punto che Trump apre il capitolo su Joe Biden: "Vorrei che ci facessi un favore". Ovvero il favore di appurare la verità rispetta un'inchiesta illegalmente bloccata da uno che vuole candidarsi a presidente. Perciò chissà che avrà voluto dire, e con quale residua lucidità, la speaker della Camera la democratica Nancy Pelosi, quando ha dichiarato che Donald Trump non è "al di sopra della legge" e risponderà del suo comportamento, aggiungendo che "Il fatto è che il presidente degli Stati Uniti, violando le sue responsabilità costituzionali, ha chiesto a un governo straniero di aiutarlo nella sua campagna politica, a spese della nostra sicurezza nazionale, minando anche l'integrità delle nostre elezioni". Qui se c'è qualcuno che va in giro a minare l'integrità degli Stati Uniti è la famiglia di Joe Biden, e io qui vi dico e sottoscrivo che la sua campagna elettorale è finita. Infatti, nel 2016 quando Joe Biden era Vicepresidente degli Stati Uniti ed era delegato speciale per l'Ucraina, un suo figlio difficile, Hunter Biden, una vita dentro e fuori da cliniche per riabilitazione. diventa consigliere d'amministrazione della azienda di estrazione del gas ucraino. Gli USA concedono all'Ucraina miliardi di dollari di finanziamenti e il figlio di Biden riceve in 5 anni 3 milioni di dollari di compenso. Verso la fine del mandato di Biden l'Ucraina incarica un pubblico ministero speciale, Viktor Shokin, di investigare sui grandi casi di corruzione nella politica e Viktor Shokin mette gli occhi sulla strana relazione tra la società` del gas ed il figlio di Biden. Biden chiede allora che sia licenziato ma il presidente Ucraino non lo fa. Chiede all'Europa, alla Merkel, di intervenire ma il presidente Ucraino non cede. Allora Biden vola a Kiev, incontra il presidente e gli da l'ultimatum: o licenzi Viktor Shokin o non ti arriva l'ultimo miliardo di dollari dagli USA. Il presidente ucraino  licenzia Viktor Shokin e mette al suo posto un PM che in pochissimo tempo scagiona il figlio di Biden da ogni addebito. Tutto sarebbe finito lì se Biden non si fosse vantato di aver fatto licenziare il buon Viktor Shokin in sole sei ore. Siamo in campagna elettorale, vi stupisce se Trump in una telefonata con il presidente ucraino chiede di vederci chiaro nella storia del figlio tossico di Biden? Un arrogante e un chiacchierone, il favorito dei progressisti del mondo. Quanto all'impeachment del quale blaterano tutti di qua e di là dell'oceano, mi rifaccio da Facebook agli amici che vivono da tanti anni in Usa, Sartori e Graziadei, che ringrazio perché davvero non ne possiamo più di ripetere che l'impeachment e' un processo, come altri che necessita di prove contro l'accusato, prove vere non dicerie o supposizioni. La Costituzione e le leggi USA, per proteggere la carica del Presidente e le cariche di altri pubblici ufficiali, prevedono che non possano essere accusati, e quindi giudicati, dal sistema comune e allo scopo hanno stabilito delle regole particolari. Una volta che delle accuse prendano forma e che siano comprovate da fatti e da circostanze il Congresso procede a stilare gli articoli (le accuse) del cosiddetto “impeachment”. Ogni capo di accusa sarà un “impeachment” separato. Dopo che il Congresso avrà votato su ogni capo per procedere, ed ottenuto la maggioranza assoluta, tutto il procedimento passa al Senato, presieduto, nel caso l’accusato sia il Presidente, dal Giudice anziano della Corte Suprema. Il procedimento si svolge esattamente come un qualsiasi processo: alcuni Senatori scelti sosterranno l’accusa, presentando le prove (non le dicerie o supposizioni) e i testimoni; altri sosterranno la difesa assieme agli avvocati difensori, che porteranno le loro prove ed i loro testimoni; alle udienze deve sempre essere presente il quorum di 50+1. I Senatori sono 100. I testi verranno tutti ascoltati, sotto giuramento, con la normale trafila di tutti i processi: testimoni d’accusa, di difesa ed interrogatorio e controinterrogatorio e alla fine la maggioranza dei due terzi del Senato (67 Senatori) dovra' esprimersi per la condanna, altrimenti il tutto decade. Ad oggi il Congresso è composto da 435 Parlamentari di cui 235 Democratici, 198 Repubblicani, 2 decaduti in attesa di elezione. Il Senato di 100 Senatori di cui 53 Repubblicani, 45 Democratici e 2 Indipendenti (King e Sanders che votano quasi sempre con i Democratici). Perciò no way per la caccia alle streghe, quanto alle bufale ci stiamo attrezzando, sarà una campagna lunga quella delle presidenziali del 2020

I vertici segreti tra il ministro di Trump  e i servizi italiani. «Autorizzati» da Conte. Pubblicato mercoledì, 02 ottobre 2019 su Corriere.it. Ci sono stati almeno due incontri tra il ministro della giustizia statunitense William Barr e i capi dei servizi segreti italiani. Riunioni segrete che avevano come obiettivo la raccolta di informazioni sull’origine del Russiagate e in particolare sul destino di Joseph Mifsud, il professore dell’università Link Campus di Roma che nel 2016 avrebbe informato George Papadopoulos - all’epoca consigliere della campagna elettorale di Donald Trump - dell’esistenza di «migliaia di mail imbarazzanti su Hillary Clinton», in possesso dei russi. Per oltre un anno il procuratore Robert Mueller ha indagato su un possibile complotto ordito contro la Clinton dal comitato elettorale di Trump e il Cremlino. Al termine dell’inchiesta Mueller ha dichiarato di non aver raccolto prove sufficienti a dimostrarlo, ma ha comunque documentato le trame e lo scambio di documentazione. Ed è proprio questo a preoccupare la Casa Bianca, anche per le possibili nuove rivelazioni sul ruolo degli uomini più vicini al Presidente. Barr sta dunque cercando elementi per screditare il suo lavoro e proprio in questa attività si inquadrano i suoi recenti viaggi in Italia. (America-Cina è la nuova newsletter del Corriere che racconta cosa succede nelle due superpotenze. Iscriviti gratis qui). Adesso sarà il Comitato di controllo sui Servizi a dover indagare sulla «legittimità» dei contatti autorizzati da palazzo Chigi. Barr è infatti un esponente politico dell’amministrazione statunitense e bisognerà accertare come mai Gennaro Vecchione, il capo del Dis, abbia ritenuto opportuno assecondare la richiesta. Anche perché prima che New York Times e Washington Post rivelassero le «missioni» di Barr nella capitale — accompagnato dal procuratore John Durham incaricato proprio da lui di «rileggere» l’inchiesta sul Russiagate — nessuno aveva mai ritenuto di dover rendere noto che l’Italia aveva avuto un ruolo attivo nella vicenda. E questo nonostante l’attenzione fosse rivolta anche alla Link, ritenuta molto «vicina» al Movimento 5 Stelle. Si torna dunque allo scorso agosto quando Barr arriva a Roma. Secondo il sito Politico alloggia al Marriott Grand Flora Hotel, in via Veneto, a due passi dall’ambasciata americana, ed è accompagnato da alcuni collaboratori. Il ministro Usa, si scopre adesso, ha contatti con il premier Giuseppe Conte — titolare della delega ai servizi segreti — che fornisce il via libera alla collaborazione e poi incontra il capo del Dis Gennaro Vecchione. L’obiettivo di Barr è chiaro: scoprire se il nostro Paese abbia avuto un ruolo nel Russiagate, se abbia ottenuto documenti riservati e soprattutto se gli 007 abbiano effettivamente aiutato Mifsud — che ha fatto perdere le proprie tracce nell’ottobre 2017 — a trovare un rifugio sicuro. In quei giorni è ancora in carica il governo gialloverde: Conte ha informato i suoi ministri dei contatti con Barr? Dopo quel primo appuntamento Vecchione chiede notizie ai capi delle due agenzie — l’Aisi per la sicurezza interna e l’Aise per quella esterna — e mantiene aperto il canale con Washington. La scorsa settimana — al governo c’è la coalizione M5S-Pd — l’impegno preso da Vecchione si concretizza con una riunione «allargata». Barr torna a Roma e incontra nella sede del Dis di piazza Dante lo stesso direttore, il capo dell’Aise Luciano Carta e quello dell’Aisi Mario Parente. Con loro c’è anche il procuratore Dhuram. Viene rinnovata la richiesta — già rivolta a Gran Bretagna e Australia — di mettere a disposizione eventuale documentazione raccolta in questi anni. L’attenzione si concentra su Mifsud, visto il ruolo chiave che gli ha assegnato Papodopoulos. Agli atti ci sono diversi incontri tra i due, alcuni anche in compagnia di Olga Polonskaya, ex manager di una società russa che si sarebbe presentata come amica dell’ambasciatore russo a Londra. Barr insiste più volte sulla necessità di scoprire che fine abbia fatto. Nonostante risultasse irreperibile dal 2017, il professore avrebbe alloggiato infatti a Roma, in un appartamento intestato a una società collegata con la Link Campus, fino a maggio 2018. Barr chiede notizie sull’Università e sui collegamenti con M5s. Al termine dell’incontro Vecchione informa Conte. Chi altri è a conoscenza della riunione? Il 30 settembre una nota di palazzo Chigi rende noto che il presidente del Consiglio ha incontrato il ministro della Difesa Lorenzo Guerini e quello degli Esteri Luigi Di Maio, ma senza specificare il motivo. Sarà il Copasir a dover accertare se si sia parlato anche delle missioni di Barr e Dhuram.

Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 2 ottobre 2019. "A Roma ci sono le chiavi del regno", parola di George Papadopoulos, già consulente del candidato Trump nel 2016, finito nei guai per la storia di spionaggio che poi avrebbe preso il nome di Russia gate. Da Roma è appena ripartito William Barr, procuratore generale di Trump, una visita molto riservata, al contrario di quella appena iniziata dal Segretario di Stato. È arrivato infatti  Mike Pompeo a Roma, e ci resta fino a venerdì mattina, tra incontri romani e incontri vaticani, una puntatina giovedì nel paesino della Maiella abruzzese, Pacentro,  dal quale partirono i bisnonni, e lui ci tiene tanto da aver preteso di mantenere la dizione del suo cognome esattamente com'è, Pompeo, e non come di consuetudine Pompio, cosa non facile per gli americani. A Roma si prevedono giornate di traffico caotico e disagi per i romani, ovvero non cambia niente. Poi c'è la visita, anzi le due visite, quella ufficiale, importante è dichiarata, quella del non detto e dei problemi da risolvere, cioè la più delicata e interessante perché delle varie spy stories, tornate tanto di moda, Roma è un crocevia. Intanto il Vaticano, che è evidentemente al centro del tentativo di ricucitura, visto che Pompeo, cattolico, vede prima Parolin, suo omologo, ma anche in udienza privata, Bergoglio, e si accrediterà sicuramente come uomo potente della ricucitura. Chissà se arrivando a San Pietro vedrà quel terribile monumento al migrante che da domenica scorsa deturpa la piazza e la vista del colonnato, ma che indica con la pesantezza adeguata la linea politica di questo papa. Tanto a Città del Vaticano quando a Roma Pompeo si presenta e accredita come un segretario di Stato forte come non era mai accaduto dai tempi di Bush, figurarsi nell'era Trump. Non c'è dubbio che, da ex direttore della Cia e con l’uscita di scena del Consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, che aveva  in mano numerosi  dossier di politica estera, ora è una star e gli affari internazionali sono tutti in mano a lui, ma proprio nell'era Trump molto potere significa anche grande rischio. Sul tavolo degli incontri italiani con Sergio Mattarella, che va in visita ufficiale Washington a metà ottobre, con Di Maio, che in realtà si porta dietro il duo che comanda, Sequi Belloni, e naturalmente con Giuseppi, le molto enfatizzate chiacchiere sulla simpatia tra il presidente americano e il presidente del Consiglio italiano incontreranno i fatti, ovvero i disaccordi profondi su Cina, Iran, Venezuela, 5G e Huawei, contributo alla Nato, e naturalmente la Russia. Ma occhio, parlo di Russiagate, non in questo caso  della politica di Putin, ovvero parlo del desiderio abbastanza pressante di Donald Trump e rappresentato da Pompeo di sapere che ruolo abbiano svolto governo e personaggi italiani nel pezzo romano di trama contro il candidato e poi presidente americano, diventato noto col nome di Russiagate...Molto ruota intorno al Russia gate, anche l'attuale Ucrainagate e la polemica su Biden e figlio, che dalle parti del Comitato nazionale Democratico hanno inventato per coprire le malefatte passate sulla Russia. Sulla Cina un accordo completo è impossibile perché l'intera Europa pensa in termini di costi-benefici di breve durata e non riesce ad accettare i termini di una sfida per la leadership mondiale nei quali pensano nella Washington di Trump. Figuriamoci il nuovo governo PD 5 stelle, che alle regole dell'Europa è legato mani e piedi, con tanti saluti al progetto urgente strategico di controllo  sul flusso dati delle reti. Stesso conflitto sulle sanzioni all'Iran, con il quale Roma intende aprire negoziati e invece Trump ha già visto bruciata questa carta del compromesso dagli Ayatollah e dalle loro bugie. Si aspetta una posizione netta italiana anche se tardiva sul Venezuela di Maduro, che piace tanto ai grillini e ai comunisti di Leu, ma non suscitano ottimismo le dichiarazioni farlocche messe in giro negli ultimi giorni da ambienti della Farnesina su quanto sia squalificato  il suo avversario Guaidò. Il quale sarà anche autore di prese di potere fallite, ma rispetto al dittatore affamatore è un diamante nella roccia. Ci sono 150.mila italiani in Venezuela, difficile sostenere che stiano con Maduro. Tutta da vedere infine l'evoluzione della minacciata guerra commerciale che in realtà non ha Roma come epicentro ma la Germania e i dazi imposti da questa agli Stati Uniti ai quali ora Trump si ribella minacciando a sua volta, così come i commerci con la Cina, di nuovo la Cina. Certo è un bel dilemma, perché guai a noi se dovesse finire male quella che oggi è ancora tra Italia e Stati Uniti una relazione felice, i cui scambi bilaterali in beni e servizi sono arrivati l’anno scorso a quasi 100 miliardi e lo stock di investimenti complessivi è di 80 miliardi. Tutto questo richiede degli scambi ed è qui la parte riservata della visita sulla quale si può però agevolmente speculare e fare delle supposizioni utili.  Può essere accaduto che Donald Trump così come ha fatto nella telefonata col presidente ucraino Zelenski, abbia chiesto a Giuseppe all'amico Conte di dargli una mano nelle indagini sull'intera storia dello spionaggio cominciata con Russia gate? Di questa versione non troverete naturalmente alcuna traccia su giornaloni e TG italiani, tutti occupati solo a indagare sulle malefatte del presidente americano, con l' eccezione brillante di Federico Punzi su Atlantico Quotidiano, e per quel che posso della sottoscritta, che scrive queste cose da tre anni almeno. Entrambi sosteniamo che non c'è mai stata una collusione tra la Campagna Trump e la Russia, ma al contrario una triangolazione dell’amministrazione Obama con agenzie e personaggi da Italia, Regno Unito, Australia per fabbricare lo scandalo, utilizzando potenze straniere per impedire prima l'elezione poi il governo del presidente americano; che lo stesso sta accadendo nell’ultimo caso, il cosiddetto Kievgate. Altro che procedura di impeachment. Nei prossimi giorni tornerò più dettagliatamente a parlarvi di questo gigantesco complotto, orribile nel contenuto e nello scopo, affascinante nella forma e nella costruzione. È mia ferma convinzione che Trump sia passato al contrattacco, e che in cambio di collaborazione da chi sa toglie o promette aiuti. Con il presidente ucraino lo aveva appena fatto prima della telefonata che i democratici cercano di incriminare e alla quale si è saputo era presente Mike Pompeo.. Ora tocca a noi.

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della sera” il 2 ottobre 2019. Ci sono stati almeno due incontri tra il ministro della giustizia statunitense William Barr e i capi dei servizi segreti italiani. Riunioni segrete che avevano come obiettivo la raccolta di informazioni sull' origine del Russiagate e in particolare sul destino di Joseph Mifsud, il professore dell' università Link Campus di Roma che nel 2016 avrebbe informato George Papadopoulos - all' epoca consigliere della campagna elettorale di Donald Trump - dell' esistenza di «migliaia di mail imbarazzanti su Hillary Clinton», in possesso dei russi. Per oltre un anno il procuratore Robert Mueller ha indagato su un possibile complotto ordito contro la Clinton dal comitato elettorale di Trump e il Cremlino. Al termine dell' inchiesta Mueller ha dichiarato di non aver raccolto prove sufficienti a dimostrarlo, ma ha comunque raccontato le trame e lo scambio di documentazione. Ed è proprio questo a preoccupare la Casa Bianca, anche per le possibili nuove rivelazioni sul ruolo degli uomini più vicini al Presidente. Barr sta dunque cercando elementi per screditare il lavoro di Mueller e proprio in questa attività si inquadrano i suoi recenti viaggi in Italia. Adesso sarà il Comitato di controllo sui Servizi a dover indagare sulla «legittimità» dei contatti autorizzati da Palazzo Chigi. Barr è infatti un esponente politico dell' amministrazione statunitense e bisognerà accertare come mai Gennaro Vecchione, il capo del Dis, abbia ritenuto opportuno assecondare la richiesta. Anche perché prima che New York Times e Washington Post rivelassero le «missioni» di Barr nella capitale - accompagnato dal procuratore John Durham incaricato proprio da lui di «rileggere» l' inchiesta sul Russiagate - nessuno aveva mai ritenuto di dover rendere noto che l' Italia aveva avuto un ruolo attivo nella vicenda. E questo nonostante l' attenzione fosse rivolta anche alla Link, ritenuta molto «vicina» al Movimento 5Stelle. Si torna dunque allo scorso agosto quando Barr arriva a Roma. Secondo il sito Politico alloggia al Marriott Grand Flora Hotel, in via Veneto, a due passi dall' ambasciata americana, ed è accompagnato da alcuni collaboratori. Il ministro Usa, si scopre adesso, ha contatti con il premier Giuseppe Conte - titolare della delega ai servizi segreti - che fornisce il via libera alla collaborazione. Poi incontra il capo del Dis Gennaro Vecchione. L' obiettivo di Barr è chiaro: scoprire se il nostro Paese abbia avuto un ruolo nel Russiagate, se abbia ottenuto documenti riservati e se gli 007 abbiano effettivamente aiutato Mifsud - sparito dall' ottobre 2017 - a trovare un rifugio sicuro. In quei giorni è ancora in carica il governo gialloverde: Conte ha informato i suoi ministri dei contatti con Barr? Dopo quel primo appuntamento Vecchione chiede notizie ai capi delle due agenzie - l' Aisi per la sicurezza interna e l' Aise per quella esterna - e mantiene aperto il canale con Washington. La scorsa settimana - al governo c' è la coalizione M5S-Pd - l' impegno preso da Vecchione si concretizza con una riunione «allargata». Barr torna a Roma e incontra nella sede del Dis di piazza Dante lo stesso direttore, il capo dell' Aise Luciano Carta e quello dell' Aisi Mario Parente. Con loro c' è anche il procuratore Dhuram. Viene rinnovata la richiesta - già rivolta a Gran Bretagna e Australia - di mettere a disposizione eventuale documentazione raccolta in questi anni. L'attenzione si concentra su Mifsud, visto il ruolo chiave che gli ha assegnato Papodopoulos. Agli atti ci sono diversi incontri tra i due, alcuni anche in compagnia di Olga Polonskaya, ex manager di una società russa che si sarebbe presentata come amica dell' ambasciatore russo a Londra. Barr insiste più volte sulla necessità di scoprire che fine abbia fatto. Nonostante risultasse irreperibile dal 2017, il professore avrebbe alloggiato infatti a Roma, in un appartamento intestato a una società collegata con la Link Campus, fino a maggio 2018. Barr chiede notizie sull' Università e sui collegamenti con M5s. Al termine dell' incontro Vecchione informa Conte. Chi altri è a conoscenza della riunione? Il 30 settembre una nota di palazzo Chigi rende noto che il presidente del Consiglio ha incontrato il ministro della Difesa Lorenzo Guerini e quello degli Esteri Luigi Di Maio, ma senza specificare il motivo. Sarà il Copasir a dover accertare se si sia parlato anche delle missioni di Barr e Dhuram. 

DAGONEWS dall'articolo di Barbie Latza Nadeau per Dailybeast.com il 2 ottobre 2019.  Il ''Daily Beast'' ricostruisce la visita in incognito di William Barr a Roma la settimana scorsa. ''Quando è arrivato all'ambasciata americana di Via Veneto, il ministro della Giustizia aveva due richieste: una saletta in cui incontrare i vertici dei servizi segreti italiani, con la certezza che nessuno ascoltasse quelle conversazioni; e una sedia in più per il procuratore John Durham del Connecticut, che avrebbe partecipato come suo braccio destro''. Il sito approfondisce poi il motivo del viaggio organizzato in fretta e furia: parlare del maltese John Mifsud, che nel 2016 avrebbe promesso a George Papadopoulos – allora un membro della campagna Trump – del materiale scottante su Hillary Clinton. Secondo il ministero della Giustizia italiano, Mifsud aveva chiesto la protezione della polizia dopo essere sparito dalla Link University, dove lavorava e, nel fare quella richiesta, aveva registrato una deposizione per spiegare perché qualcuno avrebbe voluto fargli del male. Secondo una fonte del ministero italiano, che ha parlato con il ''Daily Beast'', Barr e Durham hanno ascoltato la registrazione, e visto altre prove raccolte dalle autorità italiane su Mifsud. Da quando Mueller ha chiuso la sua indagine a marzo 2019, Barr ha lavorato per ridurne l'impatto, e ha iniziato a investigare sugli investigatori. Non fidandosi degli interni all'amminsitrazione di Washington, Barr ha scelto Durham per risalire alle origini del Russiagate. L'intelligence italiana aveva Mifsud nel radar da anni, prima che si infilasse nei pasticci della campagna Trump. La sua affiliazione con l'Università Link e il London Center of International Law Practice (entrambe spesso accostate alla diplomazia e ai servizi segreti occidentali) lo hanno reso un bersaglio facile. Così come le accuse relative ai molti appartamenti che possedeva a Malta che sarebbero legati a un mercato di passaporti maltesi comprati dai russi a buon mercato. Cosa Mifsud sapesse delle email della Clinton non è chiaro; quello che hanno ascoltato Barr e Durham ancora meno; Papadopoulos ha preso le distanze dal professore, twittando questa settimana che lui ha ''svelato le connessioni tra Mifsud e l'intelligence italiana'', anche se gli italiani lo tenevano d'occhio molto prima che le strade dei due si separassero. Mifsud ha conosciuto Papadopoulos quando lui e la sua moglie italiana, Simona Mangiante – avvocato e modella di lingerie part-time, che sperava di lanciare la sua carriera d'attrice interpretando Brigitte Bardot in un film inglese – lavoravano per una compagnia gestita da Mifsud. Mangiante ha dichiarato al ''Daily Beast'' di aver incontrato Mifsud mentre faceva delle consulenze legali per il Parlamento Europeo. I suoi legami con la Russia sembravano potenzialmente utili al marito, che in quel momento era un ingranaggio fondamentale del comitato di consiglieri sugli affari esteri della campagna Trump. Prima di sparire, Mifsud ha detto di aver incontrato Papadopoulos ''tre o quattro volte'', aiutando a facilitare legami tra ''fonti ufficiali e non ufficiali'' in Italia, Russia e Ucraina. Ha negato ogni addebito ma nel 2017 è svanito nel nulla, o in modo autonomo o sotto protezione delle autorità italiane, e da allora è stato solo visto in qualche fotografia. Alcuni giornali italiani martedì hanno scritto che Mifsud sta cooperando con l'indagine di Barr e Durham e alcuni hanno anche suggerito che li avrebbe incontrati di persona a Roma. L'avvocato svizzero di Mifsud, Stephan Roh, ha detto al ''Daily Beast'' di non aver incontrato il suo cliente nell'ultimo periodo ma che ''dubitava'' che si sarebbe fatto vedere a Roma. Anche Pompeo, attualmente a Roma, incontrerà gli stessi vertici dell'intelligence che hanno accolto Barr.

DAGONOTA il 2 ottobre 2019. Come avevamo anticipato il 14 marzo (vedi articolo a seguire), è definitivamente esplosa la bomba Link University-Servizi Segreti. Nonostante gli avvertimenti della stampa di mezzo mondo, il capo supremo delle spie de’ noantri, Gennaro Vecchione, ha trascinato l’Intelligence italica in una vicenda nella quale ormai le opzioni sono due: perdere o perdere. L’uomo che Conte ha messo a capo del Dis, avrebbe dovuto far riflettere meglio il premier sulla inopportunità di ricevere e attovagliare nella nuova sede dei Servizi di piazza Dante il ministro della Giustizia Usa, Raymond Barr, atterrato (per la seconda volta in poche settimane) in Italia per dimostrare la tesi del complotto ai danni del suo presidente Trump, già minacciato senza successo da impeachment per il Russia-gate. La storia vuole che le spie, da sempre, parlino solo con altre spie, giammai con leader politici di altri paesi. E un motivo ci sarà: queste vicende, vere o presunte, vanno chiarite solo tra addetti ai lavori. Ora che la frittata-Link è fatta e ne parlano i media del mondo, ci si domanda cosa avrebbe comunicato il nostro capo delle spie al ministro americano. Vecchione potrebbe aver ammesso che la sua Intelligence nulla sapeva di quello che era accaduto nelle segrete stanze della Link University di Enzo Scotti - benché sia inzeppata di agenti segreti italiani, impegnati a condurre corsi di intelligence e a fare conferenze (sic!). Oppure: avrebbe fatto capire agli americani che la nostra Intelligence aveva avuto un qualche ruolo o sentore nella vicenda del Russia-Gate (all’epoca c’era il governo Gentiloni), alle spalle di Trump, candidato americano alla presidenza. In entrambi i casi la nostra Intelligence fa una brutta figura (eufemismo). Ovviamente la terza via, quella più saggia, non è stata seguita da Vecchione né suggerita al premier con la pochette. Vale a dire: dopo aver fatto tutti i dovuti accertamenti in casa,  lasciare che la questione fosse affrontata dal ministro della Giustizia americano unicamente con gli esponenti del governo italiano, quindi lasciare la questione a un livello meramente politico. Evidentemente Gennaro Vecchione, pur di non deludere il suo mentore Conte, si è infilato in un cul de sac, dal quale non sarà semplice né possibile uscire senza lividi e brividi. Non proprio il massimo per una Intelligence già provata da incessanti tensioni interne. PS. Il Presidente della Repubblica, se c’è, batta un colpo prima che sia troppo tardi…

DAGONEWS del 14 marzo 2019. Al Link Campus di Vincenzo Scotti, luogo di incontri tra i protagonisti del Russiagate, non poteva mancare il 19 marzo la lectio magistralis del prefetto Gennaro Vecchione, neo capo Dipartimento Intelligence, con parterre spionistico al gran completo. Incredulità tra gli addetti ai lavori dopo le notizie pubblicate dal ‘’Il Foglio’’ (articolo a seguire), che vedono la Link, al centro di incontri del RussiaGate dopo le rivelazioni pubbliche di alcuni protagonisti dello scandalo americano. E’ l’ateneo dove il Capo del Dipartimento delle Spie, terrà, con tempismo perfetto e magari alla presenza del suo “Capo” Conte e di tutti i più alti vertici della intelligence italiana, la sua lectio magistralis, al master di specializzazione. La Link è la nota fucina della classe dirigente pentastellata, nonché, a leggere non solo l’elenco dei docenti del master, ateneo di riferimento di conferenzieri-spia, alcuni famosi per la poca passione per i rischi del mestiere e molta per i titoli accademici, le relazioni politiche e i salotti. L’evento, oltre ad accreditare  definitivamente l’idea che la pentastellatissima Link University sia la unica incubatrice delle spie italiane (in provetta), pone un interrogativo allarmante: nella poderosa macchina del Dipartimento nessuno, tra spie, conferenzieri/spia e papà spie di lungo corso, ha mai avuto sentore delle vicende pubblicate dal ‘’Fogli’’o sussurrandole al Prefetto Vecchione? La risposta, qualunque risposta, metterà alla prova la nota suscettibilità del Direttore Generale perché in ogni caso sarebbe imbarazzante. E se Conte è ansioso di ascoltare il suo pupillo conferenziere alla pentastellata Link di Tarzan Scotti, Salvini osserva muto in un angolo mentre il Colle pensieroso riflette. Per ora... 

''NON È IMPEACHMENT, È UN COLPO DI STATO''. (ANSA il 2 ottobre 2019) - "Mentre apprendo sempre di più ogni giorno, sto arrivando alla conclusione che ciò che sta avvenendo non è un impeachment, è un colpo di Stato, volto a prendere il potere delle persone, i loro voti, le loro libertà, il loro secondo emendamento, la religione, l'esercito, il muro al confine, e i loro diritti di cittadini degli Stati Uniti": lo ha twittato Donald Trump dopo gli ultimi sviluppi dell'Ucrainagate.

(ANSA il 2 ottobre 2019) - Vladimir Putin difende Donald Trump sul caso Ucraina e sostiene di non aver notato "nulla di compromettente" nella trascrizione della telefonata tra il presidente americano e il suo omologo ucraino Volodymyr Zelensky. Trump è accusato di aver voluto sollecitare indagini ucraine contro Joe Biden, suo rivale politico nella corsa alla Casa Bianca, e il figlio di questi, Hunter Biden, che sedeva nel consiglio di amministrazione di una società di gas naturale ucraina mentre il padre era vice presidente americano. "Il presidente Trump - ha affermato Putin, citato dall'agenzia Interfax - si è rivolto a un collega con la richiesta di investigare un possibile caso di corruzione legato a membri della precedente amministrazione. Qualunque capo di Stato - ha proseguito Putin - avrebbe agito in questo modo".

(ANSA il 2 ottobre 2019) - "Le domande poste a noi violano in maniera profonda la separazione dei poteri. Risponderemo al nostro obbligo costituzionale ma in modo che siano in linea con il sistema americano e non tollereremo intimidazioni". Lo ha detto il segretario di Stato Usa Mike Pompeo in merito al suo veto agli interrogatori di cinque dirigenti del dipartimento di Stato nell'indagine d'impeachment contro Donald Trump nella vicenda dell'Ucrainagate e confermando aver partecipato alla telefonata tra Trump e il leader ucraino Zelensky. Pompeo, rispondendo ad una domanda durante la conferenza stampa a Villa Madama, ha confermato di aver partecipato alla conversazione telefonica tra Trump e Zelensky del 25 luglio, oggetto dell'indagine per l'impeachment, ma non ha fornito dettagli su quella telefonata. Il segretario di Stato ha solo specificato di conoscere bene la politica americana in Ucraina, "una politica costante, che continueremo perseguire". Con l'obiettivo di "eliminare la minaccia della Russia nel paese, aiutare gli ucraini a eliminare la corruzione e costruire un'economia prospera".

(ANSA il 2 ottobre 2019) - Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha dichiarato ieri di non aver mai incontrato il legale di Trump, Rudolph Giuliani, e di non aver mai parlato al telefono con lui. Lo riporta l'agenzia Interfax. "Non ho mai incontrato Rudy Giuliani. Non ho mai avuto nessuna conversazione telefonica con lui", ha affermato Zelensky. L'ex inviato Usa in Ucraina Kurt Volker si è dimesso dopo essere stato accusato di aver messo in contatto un consigliere di Zelensky con Rudy Giuliani, l'avvocato personale del presidente americano. Trump voleva sollecitare indagini ucraine contro Joe Biden, suo rivale politico nella corsa alla Casa Bianca, e il figlio Hunter.

(ANSA il 2 ottobre 2019) - L'ex presidente ucraino Petro Poroshenko afferma di aver incontrato l'avvocato di Trump, Rudy Giuliani, nel 2017 come "amico dell'Ucraina" e di aver discusso con lui di "sostegno politico e di investimenti" ma di non aver mai parlato di aziende ucraine né con lui né con altri notabili americani. "Noi - ha dichiarato Poroshenko - decisamente non vogliamo essere coinvolti nel processo politico interno degli Stati Uniti". Trump voleva sollecitare indagini ucraine contro Joe Biden, suo rivale politico nella corsa alla Casa Bianca, e il figlio di questi, Hunter Biden, che sedeva nel consiglio di amministrazione di una società di gas naturale ucraina mentre il padre era vice presidente americano.

L’America First  di Trump è isolata? Non ha mai avuto tanti «amici». Pubblicato lunedì, 19 agosto 2019 da Ian Bremmer su Corriere.it. È opinione diffusa, tra gli analisti più quotati, che l’approccio di Donald Trump in materia di politica estera, in linea con il suo programma «America First» — vale a dire un approccio unilaterale, mercanteggiante e sprezzante della storia — abbia contribuito a isolare gli Stati Uniti dal resto del mondo come non era mai accaduto fino ad ora. Tuttavia, osserviamo che mentre i continui attacchi di Trump contro i valori occidentali, tra i quali lo stato di diritto e la libertà di espressione, hanno indubbiamente logorato i legami con i partner tradizionali, come Canada, Germania e Francia, la sua strategia «America First» ha assicurato agli Stati Uniti una nuova categoria di alleati. Difatti, quasi la metà dei capi di Stato del G20 oggi preferiscono di gran lunga Trump al suo predecessore Obama. In Brasile, il presidente Jair Bolsonaro è stato soprannominato il «Trump dei tropici», e il palese disprezzo manifestato per la correttezza politica fa a gara con le posizioni di Trump. Allo stesso modo, ci sono altri capi di Stato mondiali che in materia di migrazione si misurano con la retorica di Trump, come Matteo Salvini della Lega. Sia Salvini che Bolsonaro sono stati eletti al termine di campagne improntate allo stile di Trump. Scott Morrison sarà il primo premier australiano, dal lontano 2006, ad essere onorato da un presidente americano con un ricevimento di Stato. Ben risapute sono le affinità fra Trump e il principe saudita Mohamed bin Salman, e i rapporti tra i sauditi e l’amministrazione Trump sono infinitamente migliori di quelli intercorsi con Obama. Trump gode di rapporti personali molto calorosi con Narendra Modi e nessun altro leader mondiale si è mai dimostrato abile quanto il primo ministro indiano nello sfruttare al massimo la politica divisiva del «noi contro loro» per portare a casa vittorie politiche. Mauricio Macri, in Argentina, vanta un’amicizia personale con Trump, costruita sugli affari e sul golf, che precede addirittura la loro nomina al governo dei rispettivi Paesi. Altrettanto dicasi del primo ministro britannico nuovo di zecca, Boris Johnson. Trump lo ha gratificato con il massimo complimento, definendolo «il Trump britannico». Non occorre sprecare altro inchiostro sulla reale e profonda simpatia che Trump nutre verso il presidente russo Vladimir Putin, un sentimento ricambiato, anche se la diffidenza bipartisan che regna a Washington nei confronti di Putin fa sì che le relazioni Usa-Russia siano state per il momento congelate. Stessa storia con il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan. Ci troviamo davanti a un grande cast di attori politici, ciascuno dei quali, ha i suoi buoni motivi per preferire Trump. Ma, facendo un passo indietro, si possono identificare due distinte tendenze che caratterizzano le attrattive di Trump agli occhi di molti leader mondiali. Queste si concretizzano, per i Paesi democratici, nel populismo di Trump e nella sua capacità di raggiungere quegli elettori che per troppo tempo si sono sentiti emarginati; per i regimi autoritari, nell’approccio commerciale di Trump e nella sua indifferenza davanti alle violazioni dei diritti umani, se vanno a intralciare le realtà della politica. È importante inoltre tener conto di quei leader mondiali che avrebbero tutte le ragioni per essere in buoni rapporti con Trump, ma non lo sono. Il presidente cinese Xi Jinping si aspettava di poter lavorare serenamente con Trump, l’uomo d’affari, per stringere gli accordi più vantaggiosi per il proprio Paese e al contempo gratificare la controparte nella sua fortuna personale e politica. E invece Xi Jinping si ritrova bersaglio di una politica americana molto aggressiva nei confronti della Cina. Allo stesso modo, il leader giapponese Shinzo Abe non sa spiegarsi come mai, dopo tre anni di aperte sollecitazioni e blandizie di ogni genere avanzate dal leader di un paese democratico avanzato, Trump non abbia ancora adottato nessuna misura a favore del Giappone.

Chiunque seguirà Trump alla Casa Bianca, che sia nel 2020 o nel 2024, dovrà affrontare una nuova schiera di alleati e avversari dell’America. La sua abilità nel navigare queste nuove rotte diplomatiche determinerà il successo della sua presidenza, da un lato, e dall’altro sottoporrà Trump al giudizio della storia.(Traduzione di Rita Baldassarre)

Trump: "In caso di corruzione ho il dovere di chiedere ad altri Paesi di aiutarci". Il presidente Usa risponde alle polemiche scoppiate dopo che aveva chiesto alla Cina di indagare su Biden. La Repubblica il 04 ottobre 2019. "Come presidente degli Stati Uniti d'America, ho l'assoluto diritto, e forse il dovere, di indagare o far indagare la corruzione e questo include il chiedere o il suggerire ad altri Paesi di aiutarci". Così il presidente americano Donald Trump, via Twitter, dopo che è emerso come abbia chiesto non solo all'Ucraina di aprire un dossier sul democratico Joe Biden, in corsa per la Casa Bianca, ma anche alla Cina.  "Questo non ha a che vedere con la campagna (presidenziale) ma con la corruzione su larga scala", si è difeso Trump, oggetto di un'inchiesta alla Camera dei Rappresentanti, sul suo possibile impeachement per le pressioni fatte su Kiev e denunciate da un talpa dell'intelligence Usa. Trump ai giornalisti che gli chiedevano se avesse parlato con il presidente Xi Jaoping della questione aveva detto di no. "Non l'ho fatto ma è certamente qualcosa cui possiamo cominciare a pensare - aveva detto - sono sicuro che al presidente Xi non piace finire sotto esame per miliardi di dollari portati via al suo Paese da una persona che era stata cacciata dalla Marina", ha risposto riferendosi al congedo militare di Hunter per problemi di droga. "Sapete come la chiamano? Tangente". Il presidente si riferiva ad una notizia riportata dalla Nbc, secondo la quale durante un viaggio dell'allora vicepresidente Biden in Cina nel 2013, Hunter, che lo accompagnava, incontrò il banchiere cinese Jonathan Li, suo partner in un fondo di private equity cinese che stava creando proprio in quel momento. La licenza che autorizzò la nascita del fondo fu rilasciata dalle autorità di Shangai dieci giorni dopo il viaggio, con Hunter Biden come membro del board. Hunter non era un azionista del fondo, ha acquistato le quote solo dopo che suo padre lasciò l'incarico. Passano poche ore e i media americani scrivono che il presidente, in realtà parlò delle prospettive politiche di Joe Biden ed Elizabeth Warren, suoi avversari per la Casa Bianca, nel corso di una telefonata dello di giugno a Xi Jinping. Al leader cinese avrebbe anche promesso di tacere sulle proteste di Hong Kong durante i negoziati sui dazi. Lo riportano alcuni media Usa, citando fonti vicine alla Casa Bianca secondo cui i dati della telefonata furono custoditi nel sistema elettronico utilizzato per le informazioni top secret, lo stesso in cui furono messi i dati della chiamata col presidente ucraino Voldymyr Zelensky. La senatrice democratica Elizabeth Warren, in corsa per la Casa Bianca, reclama la trascrizione della telefonata dello scorso 18 giugno tra il presidente Donald Trump e l'omologo cinese Xi Jinping. "Il pubblico deve vedere la trascrizione della telefonata di Trump con Xi. E abbiamo bisogno di un leader che si batte per i nostri valori"

SERVIZI & SEGRETI. DALL’ACCOUNT TWITTER DI ANNALISA CHIRICO il 3 ottobre 2019. "Conte, abituato a usare i servizi come la sua dependance, non mi ha mai informato della vicenda Barr e degli incontri con i servizi italiani in agosto. Io ero a Castel Volturno: lui non mi fece neanche mezza telefonata", così @matteosalvinimi adesso ad  @agorarai

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della sera” il 3 ottobre 2019. Verifiche su eventuali rapporti tra l'università di Roma Link Campus e i servizi segreti italiani e stranieri, ma anche su «coperture» fornite a Joseph Mifsud, ritenuto dall'amministrazione Trump una pedina importante nel Russiagate: sono stati questi i principali argomenti dei colloqui avvenuti a Roma tra il ministro William Barr e i vertici dell'intelligence  Almeno due riunioni - una a Ferragosto con il capo del Dis Gennaro Vecchione e una il 27 settembre allargata ai direttori delle due Agenzie - precedute però da contatti tra lo stesso Barr e il premier Giuseppe Conte. E proprio lui dovrà renderne conto al Parlamento, chiarire per quale motivo abbia autorizzato un politico ad incontrare i capi dei Servizi. Ma anche se altri esponenti del governo furono informati. Dopo di lui saranno convocati dal Copasir (dove si attende la nomina del nuovo presidente dopo il cambio della maggioranza) lo stesso Vecchione e i generali Luciano Carta (Aise) e Mario Parente (Aisi) proprio per ricostruire il tenore delle riunioni, anche perché sarebbero stati proprio loro a spiegare che in un caso del genere - dunque senza rapporto diretto tra 007 - ogni richiesta deve essere presentata con una rogatoria. «Farò chiarezza nelle sedi opportune», afferma Vecchione. I contatti tra Usa e Italia risultano avviati alcuni mesi fa. Nell' aprile scorso viene reso noto il rapporto Mueller che accusa la Russia di aver interferito nelle presidenziali americane e, pur sottolineando di non poter certificare l' esistenza di un complotto contro la candidata democratica Hillary Clinton, imputa a Trump ben undici tentativi di ostacolare le indagini. Quanto basta perché i collaboratori più stretti del presidente cerchino di screditare questi risultati. Nell' elenco dei Paesi da contattare c'è l'Italia visto che proprio a Roma viveva Mifsud, il professore della Link University che per primo avrebbe parlato di mail «compromettenti» della Clinton in mano ai russi. Il compito di rileggere l' inchiesta viene affidato a Barr che a sua volta incarica il procuratore John Durham. Agli inizi di agosto viene contattato Palazzo Chigi per ottenere il via libera all' incontro con i servizi segreti. E dopo qualche giorno Barr vede Vecchione. Un faccia a faccia durante il quale il ministro presenta evidentemente una lista di richieste. Qualche giorno dopo le istanze statunitensi vengono infatti «girate» all' Aisi e all' Aise, con l' impegno di convocare una nuova riunione. A metà settembre dal Dis parte una lettera per fissare la nuova riunione il 27 nella sede centrale di piazza Dante. A Ferragosto è in carica il governo M5S-Lega. Conte informò i suoi vice e i ministri competenti (Giustizia, Esteri e Difesa) delle richieste americane? Agli inizi di settembre c'è una nuova maggioranza M5S-Pd, ma il premier è lo stesso. Qualcuno nell' esecutivo sapeva che Barr avrebbe incontrato i capi dei Servizi? Sono gli interrogativi che Conte dovrà chiarire di fronte al Parlamento, ma Salvini già lo attacca senza però chiarire se lui sapesse dei contatti con gli Usa. «Conte si è tenuto la delega ai servizi segreti. Evidentemente l' avvocato del popolo ha interesse a controllare i servizi, non so se per motivi solo esterni o anche interni», dichiara il leader della Lega. «Non ha mai interpellato nessuno, ha fatto di testa sua, e credo non abbia fatto il bene del Paese. Tutti quelli che lavorano nel comparto intelligence sono rimasti esterrefatti da alcune nomine», aggiunge pur consapevole che quando i capi dei servizi sono stati scelti lui era vicepremier.

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della sera” il 4 ottobre 2019. La nota diffusa in serata da Palazzo Chigi serve a precisare che «al presidente del Consiglio Giuseppe Conte non risulta alcuna anomalia di comportamento da parte dei vertici dei nostri Servizi» nei contatti con il ministro della giustizia americano William Barr per il Russiagate. In realtà sarà proprio lui a dover chiarire per quale motivo diede il via libera ai due incontri del direttore del Dis Gennaro Vecchione - uno a ferragosto da solo e uno il 27 settembre con i direttori di Aise e Aisi - per mettere a disposizione documenti sul ruolo del professor Joseph Mifsud e sull' università Link campus. «Non c' è alcuna preoccupazione - si specifica nel comunicato - ma ovviamente, il premier, prima di esprimersi pubblicamente su tale vicenda, si riserva di riferire al Copasir per correttezza istituzionale». E dopo di lui dovranno essere ascoltati proprio i capi dell 'intelligence . È stata la Lega a chiedere la convocazione di Conte e ieri Matteo Salvini è andato all' attacco assicurando che lo scorso agosto - lui era vicepremier - «Conte non mi disse nulla. Un presidente del Consiglio degno di questo nome dovrebbe venire a riferire la settimana prossima di quelle cose, sconcertanti, di cui abbiamo letto sui giornali, circa un utilizzo privato e personale dei servizi segreti che sarebbero stati utilizzati per incontrare ministri stranieri su dossier particolarmente importanti. Se non ha niente da nascondere viene in Parlamento, se non viene evidentemente ha la coscienza sporca». Il leader del Carroccio va contro Conte anche per il «conflitto di interessi» nato dai rapporti tra lui e il professor Guido Alpa «su progetti di parcella firmati da entrambi e su carta cointestata riferiti ai patrocini prestati al Garante per la protezione dei dati personali». Una vicenda emersa già quando Salvini era al governo ma sulla quale la Lega non aveva mai avuto nulla da obiettare.

Paolo Bracalini per “il Giornale” il 15 ottobre 2019. Per il New York Times «l’università romana al centro dell’inchiesta su Trump è diventata un vortice di intrighi». L’ateneo in questione è ovviamente la Link Campus University, coinvolta nella misteriosa relazione tra il suo ex docente Joseph Mifsud e lo staff di Trump e nei successivi viaggi degli uomini del presidente Usa a Roma per incontrare gli 007 italiani, vicenda su cui deve rendere conto il premier Giuseppe Conte per fugare il dubbio di «aver usato in modo improprio la rete di intelligence italiana per fare un favore a Trump». E proprio su Conte spunta ora l’ultimo collegamento, o meglio l’ultimo link, che chiude il cerchio dei misteri ancora senza soluzione. Ecco infatti che, come riporta Linkiesta, nell’università degli intrighi (copyright Nyt) fa capolino anche il professor Guido Alpa. Il maestro, in ambito giuridico, dell’avvocato Conte, risulta infatti nel consiglio editoriale di Eurilink, la casa editrice dell’università Link Campus che ha pubblicato tra gli altri anche un libro con la prefazione dell’ineffabile Mifsud insieme al senatore Pd Gianni Pittella. Alpa è anche presidente del comitato scientifico della collana «Studi e dialoghi giuridici — ambito privatistico» della medesima casa editrice. Un semplice dettaglio nel vasto curriculum del professore? Non tanto se si rammenta che, mentre il ruolo della Link Campus nel Russiagate che coinvolge Conte è ancora tutto da chiarire, lo è altrettanto il rapporto professionale tra Alpa e il premier. Alla Camera è infatti depositata una interrogazione parlamentare firmata dalla Lega che chiede conto al presidente del Consiglio proprio di quale fosse la natura della sua collaborazione con il professor Alpa, visto che quest’ultimo è stato uno dei membri della commissione - certamente uno dei più influenti vista la statura accademica di Alpa - che nel 2002 abilitò Conte a professore ordinario all’Università di Caserta. L’interrogazione chiede a Conte se esista una parcella su carta cointestata per una consulenza resa da entrambi al Garante della privacy nel 2001. Una carta del genere, se spuntasse fuori, dimostrerebbe che Alpa e Conte erano di fatto soci, e che quindi il premier fu giudicato in un concorso pubblico da un suo socio professionale, e quindi violerebbe l’articolo 51 del codice di procedura civile che stabilisce l’incompatibilità tra commissario e candidato nei concorsi universitari in caso di collaborazione professionale tra i due. Questa fantomatica parcella cointestata però non è mai stata resa pubblica, né dal Garante né dai due diretti interessati. Ma Salvini, ormai in guerra con il suo ex premier, non intende mollare l’osso e vuole andare fino in fondo sui rapporti tra Conte e Alpa. Il fatto che quest’ultimo spunti anche nel groviglio della Link Campus non fa che aumentare l’alone di mistero. L’ateneo presieduto dall’ex ministro Enzo Scotti sembra infatti il crocevia del governo Conte 1 e del Conte bis. Da lì, in un modo o nell’altro, sono passati ministri M5s (come la Trenta, Difesa), pezzi importanti dell’apparato pentastellato e anche dell’intelligence non solo italiana. Un groviglio che ha attirato l’interesse anche del New York Times, che nell’inchiesta pubblicata ieri («Rome University at heart of Trump inquiry becomes a vortex of intrigue») oltre a riportare il ruolo della Link nella «formazione degli alti gradi delle agenzie di intelligence italiane» e di «incubatrice di esponenti del Movimento 5 Stelle, il maggiore partito di governo italiano», racconta di un’altra figura misteriosa. Ovvero il legale del professor Mifsud, Stephan Roh, «l’avvocato svizzero con legami con oligarchi russi, tra i maggiori sostenitori della teoria che Mifsud fosse manovrato dalle agenzie di intelligence occidentali». Roh nel 2016 ha comprato il 5% della società che gestisce la Link. La moglie di questo Roh, Olga, ex modella russa, voleva aprire una scuola di moda in un ateneo romano. Quale ateneo? La Link ovviamente. Spie, oligarchi russi, oscuri mediatori. Un intrigo in piena regola che sembra ruotare attorno alla Link, dove adesso compare anche il nome di Alpa. Un nome che vuol dire molto per Conte.

Stefano Feltri e Carlo Tecce per il “Fatto quotidiano” il 3 ottobre 2019. La doppia missione in Italia di William Barr, su mandato di Donald Trump per ribaltare la prospettiva del Russiagate, da favorito a vittima, fa parecchio rumore e promette conseguenze più per la forma che per la sostanza. E stavolta la forma è più rivelatrice della sostanza. Il ministro della Giustizia, cioè il procuratore generale, ha ottenuto un trattamento che va oltre la cortese sinergia tra alleati con accesso a informazioni riservate per un' inchiesta che, secondo le aspirazioni di Trump, può incidere sulla campagna elettorale americana per la rielezione nel novembre 2020: è riuscito a incontrare, in agosto in piena crisi di governo, prima Gennaro Vecchione, nominato da Giuseppe Conte al capo del Dis, il dipartimento che coordina le attività di intelligence, e poi in settembre lo stesso Vecchione e i vertici dei servizi segreti esteri e interni, il generale Luciano Carta (Aise) e il prefetto Mario Parente (Aisi). Come se fosse un dettaglio irrilevante anziché un messaggio circostanziato, attraverso le agenzie di stampa, gli 007 hanno precisato che i vertici di Aise e Aisi hanno partecipato alla riunione con il ministro Barr e la delegazione americana dopo una convocazione per iscritto di Vecchione. Così viene confermata, se non fosse abbastanza lampante, la catena di comando che ha portato al ritorno di Barr a Roma una settimana fa, venerdì, epilogo del contatto agostano con il capo del Dis: il governo italiano ha accolto le richieste americane su ordine del premier Conte che, a sua volta, ha allertato Vecchione e da lì, a spiovere, i direttori di Aise e Aisi. Il comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, in sigla Copasir, e i capigruppo leghisti di Camera e Senato, per i succitati motivi, chiedono a Conte di riferire e spiegare: perché tanta solerzia e perché tanta irritualità? E ancora qui il fatto è la forma, non la sostanza. Gli inviati di Trump, puntualizzano ancora gli apparati di intelligence, non hanno ascoltato registrazioni audio/video di Joseph Mifsud, professore maltese che insegnava alla Link University, considerato una figura centrale del Russiagate e irreperibile da tempo. Per i servizi italiani, agli americani è stato suggerita la formula della rogatoria. Altra lettura: al tavolo con Barr e colleghi c'era bisogno, per pratiche simili, semmai del ministro della Giustizia. E fonti vicine all' Aise riferiscono al Fatto che l' intelligence italiana non ha interferito nell' ultima campagna per le Presidenziali americane per danneggiare il repubblicano indipendente Trump contro la democratica Hillary Clinton. Questo ulteriore chiarimento, di per sé banale, serve a scartare l' ipotesi, bizzarra, che Conte avesse risarcito Trump di uno sgarbo ricevuto nel 2016 e anche a derubricare la vicenda a un episodio normale, da prassi, quasi una consuetudine. La caccia alle prove di Barr in Italia era legittima, ma vana per chi conosce l' intelligence. Allora perché esagerare con la "cordialità" verso gli americani? Il leghista Nicola Molteni, malizioso, chiede al premier Conte di svelare "se ha usato i servizi per i suoi interessi". Tra una visita e l' altra di Barr, c'è l' investitura mondiale a "Giuseppe" di Trump con un tweet di poche righe. Conte è riuscito a costruirsi un rapporto di simpatia/empatia personale con il titolare della Casa Bianca. Il premier era l' unico referente dei Cinque Stelle, nel marzo scorso, a sostenere il decreto legge ideato da Giancarlo Giorgetti per arginare l' avanzata del 5G cinese in Italia, proprio nel momento di massima tensione per la firma del memorandum per la nuova Via della seta, suggellato dalla trasferta a Roma di Xi Jinping. Palazzo Chigi fa sapere che Conte non è preoccupato dal caso Barr e che non gli risultano anomalie dal comportamento dei servizi segreti, anche perché - va specificato - gli 007 hanno seguito la linea del premier. Conte è il principale responsabile del pastrocchio diplomatico con gli americani, dall' esordio a Chigi, e poi ancora al ritorno con la maggioranza giallorosa, ha tenuto per sé le deleghe all' intelligence, di solito assegnate a un sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e Vecchione è un uomo di sua assoluta fiducia. Oltre la sostanza, per la forma è l' Italia l' unico Paese che s' è reso disponibile a esaudire un desiderio di Trump da spendere al voto del 2020. Conte dovrà replicare a un' audizione al Copasir e forse in Parlamento, Vecchione pure dovrà parlare e il premier sarà costretto a difendere l' operato di chi guida gli 007 per sopire le voci di una clamorosa sostituzione.

Valerio Valentini per “il Foglio”  il 3 ottobre 2019. In fondo, William Barr non ha fatto altro che quello che Giuseppe Conte consiglia a tutti, quando si ritrova impelagato in una questione delicata. "Parlane con Vecchione", dice infatti, assai spesso, il premier ai suoi interlocutori: e che si tratti di amministratori delegati di grandi aziende o di potenziali partner industriali del nostro paese, il suggerimento è sempre quello. "Parlane con Vecchione". Ed è così che alla fine il ministro della Giustizia americano proprio quello ha fatto: è venuto a Roma e, per ottenere collaborazione nelle sue indagini sulla scomparsa di Joseph Mifsud e sul Russiagate, ha incontrato, appunto, Gennaro Vecchione, il capo supremo del Dis arrivato a dirigere i nostri reparti d' intelligence su precisa volontà dell'"avvocato del popolo". Il quale, dopo aver rivendicato per sé la delega ai servizi segreti, nel novembre scorso scartò candidati che alla vigilia parevano ben più accreditati (su tutti, Franco Gabrielli), per imporre un uomo di sua stretta fiducia, a cui lo legava una consuetudine vecchia di anni. La cena per farli conoscere, a quanto pare, la si deve alle rispettive consorti: perché la ex moglie di Vecchione è amica di lunga data di Olivia Paladino, la fidanzata del premier. Che di quello stimato generale della Guardia di Finanza con tre lauree nel curriculum, romano di Roma, col quale s' era più volte ritrovato a confrontarsi - oltreché sul diritto e la formazione dei giovani ufficiali - anche della comune affezione a Padre Pio, si ricordò al momento della scelta. E ne decretò la promozione al piano nobile di Piazza Dante, ignorando perfino i mugugni neppure troppo sotterranei di chi riteneva irrituale, se non addirittura sconveniente, affidare i vertici di Dis e Aise (l'intelligence e il servizio segreto per gli affari esteri) a due generali con la stessa divisa: quella delle Fiamme gialle. E da lì, con ricorrenza crescente, nacque pure il ritornello ormai diffuso perfino al di là dei confini nazionali: "Parlane con Vecchione". Dal capo del Dis, Conte si fa accompagnare con una frequenza insolita anche in incontri a metà tra il diplomatico e il mondano, nella Roma che conta e non solo, anche quando il tema delle discussioni è solo latamente riconducibile alla sicurezza nazionale. Vecchione diventa, in breve tempo, l' ombrello istituzionale sotto cui il fu professore di Volturara inizia a costruire la sua scalata nel mondo della politica, alimentando un'ansia di affermazione segretamente covata. E Vecchione segue e asseconda le alterne fortune del premier, specie nell' altalenante rapporto con chi poi, di fatto, ne sancirà la piena - per ora - apoteosi: e cioè l' Amministrazione Trump. Le coincidenze, ovviamente, vanno viste con le dovute cautele. E però colpisce che il tweet d' investitura all' amico "Giuseppi", al termine della buriana del Papeete agostana, il presidente americano lo pubblichi il 27 agosto: e cioè, guarda un po', proprio a metà tra le due visite romane di Barr. Entrambe culminate con un incontro segreto, favorito dallo stesso Conte, con Vecchione: entrambe finalizzate a ottenere, più che a chiedere, informazioni e collaborazione nella ricerca (o nella protezione) di Mifsud, l' agente maltese al centro del Russiagate. Un modo, insomma, per ribadire che l' investitura a mezzo social network non era certo gratis (né vale, a riscattarla, il solo aiuto nell' indagine). E così Barr ne ha parlato con Vecchione. Che, del resto, sul mistero di Mifsud dovrebbe saperne, forse, non solo in virtù del suo attuale ruolo di capo delle "barbe finte", ma anche per la comune vicinanza agli ambienti della Link Campus, l' università di Vincenzo Scotti di cui Mifsud era uomo di punta - qui aveva incontrato per la prima volta il consigliere di Trump, George Papadopoulos - e da cui si è visto garantire durante la clandestinità un alloggio nel pieno centro di Roma, a due passi da Villa Borghese. E quando già il Foglio aveva rivelato gli ambigui legami tra l' ateneo di Scotti (fucina di almeno un paio di esponenti di governo grillini) e Mifsud, proprio nell' aula magna della Link Campus, il 15 marzo scorso, Vecchione accettava di tenere una lectio magistralis sulle "Nuove sfide per l' intelligence italiana": omettendo di dire che, una di queste, era proprio trovare, o proteggere, quel professore maltese apparentemente scomparso nel nulla da quasi due anni. Senza contare che poi, come se ci volessero altri indizi per rafforzare i dubbi e i retropensieri sui legami tra i servizi e la Link, a metà settembre, e cioè alla vigilia del secondo incontro ravvicinato con Barr, interessato a fare chiarezza sul ruolo dell' università romana nella vicenda Mifsud, Palazzo Chigi decretava la promozione a vice di Vecchione di Bruno Valensise, uno che i piani alti del Dis li frequenta da anni e che certo definire "uomo della Link" sarebbe riduttivo, ma che pure alla Link è stato docente. Ora va a occupare il ruolo che è stato, fino a pochi giorni fa, di Enrico Savio, che con Vecchione non è mai andato troppo d' accordo e che ora se ne torna alla corte del suo mentore storico, quel Gianni De Gennaro che lo ha voluto di nuovo al suo fianco, in Leonardo, dopo gli anni trascorsi insieme ai vertici dei servizi segreti. Un avvicendamento che ha rinfocolato le voci secondo cui tra gli apparati d' intelligence storicamente filoatlantici, e Vecchione, non sia mai corso buon sangue: anche in virtù delle posizioni ondivaghe tenute dal capo del Dis, e da Conte stesso, sui rapporti con la Cina, sulla collaborazione con Pechino nel settore dell' aerospazio e sulla prevenzione dalla minaccia asiatica nel campo del 5G, che a Palazzo Chigi hanno sempre voluto ridimensionare (prova ne sia la decisione di ammorbidire il decreto sulla "Golden Power" rafforzata in un disegno di legge dalle maglie assai più larghe, per le imprese cinesi) e forse perfino sottovalutare, a giudicare dall' insofferenza che sul tema ha spesso dimostrato l' ambasciatore americano Lewis Eisenberg. La virata, poi, è arrivata in extremis: quando Conte ha capito che la fiducia di Washington nei confronti della Lega di Matteo Salvini era terminata, e allora ha deciso di accreditarsi lui come difensore dell' atlantismo. E forse questo basterà all'"avvocato del popolo" per proseguire la sua esperienza da premier, ma forse non varrà a Vecchione la conferma ai vertici del Dis, che potrebbe dover lasciare a breve, magari per andare a seguire il suo amico Giuseppe a Palazzo Chigi con un ruolo da consigliere del premier.

L'Avvocato delle spie. Come mai il Presidente Conte non ha informato i suoi alleati dei contatti segreti con gli americani in Italia? Avrebbe potuto? Avrebbe dovuto? Il silenzio del Premier è forse l’elemento più inquietante di questa vicenda. Lucia Annunziata, L'Huffington Post Editorial Director, il 3 ottobre 2019. È accaduto tutto così velocemente che ancora non tutto è chiaro. Il passaggio in 20 giorni da una coalizione orientata a destra, a un’altra di un colore opposto, è stato un tale cambio, e talmente improvviso, da non aver ancora sedimentato tutte le risposte sulle sue radici e ragioni – perché si è sgretolato il potere di Salvini proprio al suo culmine? Cosa ha rotto l’unità del governo? Come mai è sopravvissuto alla crisi della sua coalizione Giuseppe Conte, arrivando a guidarne una seconda di segno opposto? Le risposte sono tante e vanno dalle più fantasiose e oscure (doppi e tripli complotti) alle più politologiche, passando per l’inevitabile visita al sofà degli psicanalisti. Le rivelazioni del New York Times e del Washington Post sulle visite e gli incontri segreti avuti nel nostro Paese dagli alti rappresentanti dell’amministrazione Trump con rappresentanti dell’Intelligence italiana aggiungono ora altre domande, molto più inquietanti: come mai il Presidente Conte non ha informato nessuno di questi contatti con gli americani e della loro missione in Italia? Avrebbe potuto? Avrebbe dovuto? O la sua è stata una opaca manovra, che ha in qualche modo interferito sul corso stesso della crisi e della sua composizione? Conte dovrà ora rispondere a queste e ad altre domande davanti al Copasir, il Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica, che lo ha convocato. Dopo questa audizione, il Premier risponderà poi anche pubblicamente, come  lui stesso ha annunciato in queste ore. Ma basta rimettere in fila gli avvenimenti che hanno portato all’avvitarsi di questa crisi per nutrire più di un dubbio, se non un sospetto, sulla segretezza con cui questi contatti fra Palazzo Chigi e gli americani sono stati protetti. Dal calendario, infatti, risulta evidente, come si diceva, che la crisi si avvita in maniera velocissima, in primavera, e che a un certo punto incrocia vari appuntamenti. Prendendo a misura i rapporti di Salvini con la Russia, possiamo risalire al 15/16 luglio del 2018, il viaggio a Mosca per i mondiali di calcio del leader leghista. Il 17/18 ottobre del 2018 va di nuovo in Russia. Son i giorni anche del famoso incontro all’Hotel Metropol di suoi collaboratori con tre russi per un presunto finanziamento di 65 milioni per la Lega. L’incontro del Metropol viene svelato il 24 febbraio del 2019 dal settimanale l’Espresso. Il 17 giugno 2019 Salvini vola in Usa per incontrare Trump, ma vede solo il vicepresidente Pence e il segretario di Stato, ex capo della Cia fino al marzo, Mike Pompeo. Il 4 luglio Putin è a Roma in visita ufficiale. Il 10 luglio il sito Buzzfeed pubblica l’audio dell’incontro al Metropol fra i leghisti e i russi.

Da quel momento assistiamo a una accelerazone. Il 17/18 luglio Salvini va a Helsinki per il vertice dei Ministri dell’Interno Ue e attacca l’alleanza di governo in Italia: “con i 5 Stelle non c’è più fiducia, nemmeno personale” e evoca per la prima volta il voto anticipato. Il 31 luglio la riforma Bonafede viene approvata “salvo intese” da un diviso Cdm. Il 6 Agosto il Decreto Sicurezza Bis è legge. Il giorno dopo, il 7 agosto, al Senato M5s e Salvini sostengono due opposte mozioni sulla Tav. L′8 agosto la crisi si formalizza con una nota in cui il leader della Lega annuncia che non c’è più maggioranza. Entrano in scena nuovi attori. È il 15 agosto, e nella Roma infuocata del Ferragosto arriva una delegazione da Washington. Altissimo livello: il General Attorney, il ministro di Giustizia William Barr. Non sappiamo ancora esattamente cosa cerchino gli uomini di Trump. Sappiamo solo che cercano in Italia le prove che l’inchiesta Mueller sui rapporti di Trump con i russi per orientare le elezioni americane sia stata tutta una invenzione dei democratici Usa. La posizione di Washington in merito non è molto velata: l’idea è che intelligence di alcuni Paesi europei, Inghilterra e Italia nello specifico, abbiano aiutato un attacco alla democrazia in America. Di tutto questo sappiamo davvero poco. Ma sappiamo che, di qualunque cosa si tratti, Conte autorizza gli incontri. Ripetiamo: è il 15 agosto. Esattamente 5 giorni dopo, il 20 agosto, Conte va in Senato e pronuncia il famoso discorso con cui scarica Salvini e consuma la rottura della coalizione. Nel discorso l’attacco all’ex alleato, il rapporto con la Russia del leghista, e la vicenda Metropol hanno un grande rilievo. Il 24 agosto Conte si reca al G7 di Biarritz su Iran, Dazi, e Russia. Trump, appena giunto alla cena di apertura si ferma a parlare per una decina di minuti con il Premier italiano. Un colloquio molto fitto, dicono fonti di Palazzo Chigi, durante il quale il tycoon ha testimoniato molta considerazione e attenzione personale nei confronti del professore, assicurando che “ i rapporti personali vanno al di là degli incarichi”. Il 27 agosto Trump si fa più esplicito: “Spero che Giuseppi Conte resti Premier”. Il 5 settembre giura il nuovo governo M5s Pd, con Premier lo stesso Conte. Venerdì scorso, il 27 settembre, nuova visita della delegazione Usa, stesso scopo. Eccetto che stavolta nella nuova coalizione del governo Conte c’è il Pd. Neanche in questo caso, come il 15 agosto, Conte informa l’alleato. E se si può dire che forse con Salvini la crisi era già consumata a metà agosto, con il Pd si è in piena luna di miele. La prima domanda è dunque: avrebbe dovuto informare i suoi alleati? E, se verificato al Copasir che non l’ha fatto, la sua scelta rivela un elemento di mancata “opportunità” o di opacità bella e buona? Insomma c’è una sorta di colpevole silenzio? L’Avvocato Conte ha sempre voluto, e conservato gelosamente, il suo ruolo di capo dei Servizi. La legge affida infatti al Presidente del Consiglio “l’alta direzione e la responsabilità generale della politica dell’informazione per la sicurezza, nell’interesse e per la difesa della Repubblica e delle sue istituzioni democratiche”. La legge 3 agosto 2007 n. 124 all’art. 3 all’art. 3 prevede che il Presidente del Consiglio possa delegare talune sue prerogative (eccetto quelle sue esclusive) a un ministro senza portafoglio o a un sottosegretario di Stato alla Presidenza. La legge dice che può, ma non che deve. E il gioco del delegare o meno è sempre entrato a far parte della tessitura di tutti i governi come parte del profilo che intende prendere. Alcuni Premier così hanno delegato, gli ultimi due, Gentiloni e Conte, non hanno delegato. Conte si è tenuto la delega nella formazione del governo di coalizione dei giallorossi, soprattutto come bilanciamento a Salvini agli Interni. Conte tuttavia non ha delegato nemmeno dopo, quando è rimasto capo del Governo con la coalizione con il Pd. Tenendosi questa delega il Premier attuale è di fatto il capo di ogni responsabilità attinente l’intelligence. Nulla può muoversi senza la sua decisione. Ma è obbligato a informare i suoi colleghi? O può/deve mantenere il silenzio assoluto? Gli esperti sostengono che eccetto per il segreto di Stato, che riguarda però gravi emergenze, potenziali danni gravi che potrebbero derivare per il Paese, vale per il resto una “opportunità” politica che spinge a informare l’apposito comitato ristretto del Consiglio dei Ministri. In questo caso la “opportunità politica” non era forse tale da spingere/obbligare Conte a informare? La domanda si fa tanto più urgente se, come è il caso, si tratta non di uno ma di ben due esecutivi di natura fra loro completamente diversa, con cui si è scelto il silenzio. Per semplificare: se è possibile che Conte abbia scelto di non informare Salvini sulla visita di Barr il 18 agosto perché ormai in piena rottura, perché non ha informato (o lo ha fatto ?) della visita il 27 settembre in piena luna di miele con il Pd? È, come si diceva, un intreccio di scelte e date che lascia inquieti: il rapporto fra Conte e l’amministrazione americana avviene infatti con tempi tali da sollevare almeno il dubbio che ci sia una forte relazione fra la crisi italiana, la conferma del Premier e il consenso americano. Si intravvede uno scambio, e forse questo scambio c’è o forse no, ma Conte ci deve sicuramente una spiegazione. Il silenzio con cui ha custodito questi contatti è forse, infatti, l’elemento più inquietante di questa vicenda.

L'ITALIA È IL CENTRO DEL RUSSIAGATE E ORA TRUMP VUOLE REGOLARE I CONTI - RIBALTATE LA PROSPETTIVA E LEGGETE LA RICOSTRUZIONE DI ''ATLANTICO QUOTIDIANO'', E CAPIRETE PERCHÉ WILLIAM BARR È VENUTO IN ITALIA. NELL'ESTATE DEL 2016 I SERVIZI ITALIANI AVREBBERO AIUTATO L'INTELLIGENCE USA A SABOTARE LA CAMPAGNA TRUMP, SEMINANDO IL SOSPETTO DI UN PATTO CRIMINALE COI RUSSI CHE POI MUELLER IN DUE ANNI DI INDAGINI NON E' RIUSCITO A DIMOSTRARE. Federico Punzi per Atlanticoquotidiano il 3 ottobre 2019. Italia, Regno Unito, Australia e Ucraina. Da questi Paesi è passato, o addirittura è nato il Russiagate, disseminando tracce e indizi su cui poi l’FBI avrebbe dovuto indagare e i media costruire la narrazione del Manchurian Candidate eletto con l’aiuto di Putin. È anche sul ruolo dei servizi di intelligence, quindi, e dei precedenti governi di questi Paesi alleati degli Stati Uniti (in Italia i governi Renzi e Gentiloni) che si sta concentrando l’indagine del Dipartimento di Giustizia Usa sulle origini del Russiagate, ormai ribattezzato Spygate, e su tutte le attività investigative condotte sulla, o meglio contro la Campagna Trump nel 2016 – dopo che il procuratore speciale Mueller ha concluso la sua inchiesta senza aver trovato la “pistola fumante” della collusione. E i governi attuali di quei Paesi, come abbiamo anticipato nel giugno scorso, stanno cooperando. Già allora infatti il DOJ parlava di “un impegno collaborativo in corso” tra il team guidato dal procuratore Durham e “alcuni attori stranieri” sull’inquietante ipotesi che all’origine del Russiagate ci siano stati contatti – che definire impropri sarebbe un eufemismo – tra l’amministrazione Obama e servizi di Paesi alleati per fabbricare prove di collusione fra Trump e la Russia. Mentre l’ispettore generale Horowitz si sta concentrando sulla condotta degli agenti FBI e dei funzionari del DOJ, il procuratore Durham sta indagando ad ampio raggio proprio sulle attività dei servizi di intelligence americani e stranieri, così come sul ruolo di organizzazioni e singoli non governativi. Era solo questione di tempo. In questi ultimi giorni abbiamo avuto la conferma che i contatti tra l’amministrazione Trump e il governo italiano per chiarire il ruolo del nostro Paese – che abbiamo cercato di ricostruire in questi mesi con il nostro Speciale Italygate – sono arrivati ai più alti livelli politici, come dimostra la visita, non annunciata, dell’Attorney General William Barr in Italia della scorsa settimana. Con chi si è incontrato venerdì scorso a Roma, probabilmente a Palazzo Margherita, dove ha sede l’ambasciata Usa? Barr, accompagnato da Durham, ha incontrato i vertici dei servizi e alti funzionari del governo italiano, ma riteniamo che almeno Durham possa aver preso contatti anche con rappresentanti del Ministero della giustizia e della Procura di Roma, competente sia per quanto riguarda la scomparsa del professor Joseph Mifsud, su cui torneremo, sia per la collaborazione – presente e passata – con FBI e DOJ. Cosa può aver detto Barr ai suoi interlocutori? Il procuratore generale Usa ha presentato Durham alle controparti italiane e chiesto loro la massima collaborazione nella sua indagine. Dov’è Mifsud? Chi e perché ha voluto l’operazione nei confronti di George Papadopoulos, l’ex consigliere della Campagna Trump a cui venne riferito del materiale “dirt” su Hillary Clinton in mani russe, che fece partire almeno ufficialmente l’inchiesta dell’FBI? Non sarebbe la prima volta che Barr arriva riservatamente in Italia. “È stato avvistato il 15 agosto scorso al Marriott Grand Flora Hotel di Roma”, scrive Politico. “Barr, in giacca e cravatta, era accompagnato da diversi collaboratori ed aveva una scorta consistente mentre veniva fatto entrare di gran fretta nell’albergo”. Come confermato dal DOJ, per assicurarsi la collaborazione delle autorità dei Paesi coinvolti, il procuratore generale Barr ha espressamente chiesto l’aiuto del presidente Trump in persona: “Come precedentemente annunciato dal Dipartimento di Giustizia, un team guidato dal procuratore John Durham sta indagando le origini dell’inchiesta di controintelligence sulla Campagna Trump per le presidenziali 2016. Durham sta raccogliendo informazioni da numerose fonti, compresi alcuni Paesi stranieri. Su richiesta dell’Attorney General Barr, il presidente ha contattato altri Paesi per chiedere loro di presentare il procuratore generale e Mr. Durham ai funzionari appropriati”. “Il DOJ ha semplicemente chiesto che il presidente provvedesse alle presentazioni per facilitare l’indagine in corso, e così ha fatto”, conferma la Casa Bianca. Accertate ormai le richieste di collaborazione da parte di Trump al presidente ucraino Zelensky (la telefonata del 25 luglio scorso oggetto della denuncia di un whistleblower e pretesto per l’avvio di una procedura di impeachment) e al premier australiano Scott Morrison, appare a questo punto improbabile, considerata la visita proprio di Barr, che il presidente Usa non abbia avanzato personalmente una simile richiesta anche al presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte. Con il quale, secondo le cronache, ha parlato al telefono il 5 settembre scorso (il giorno del giuramento del nuovo governo al Quirinale) e si è intrattenuto brevemente prima della cena di apertura del G7 di fine agosto a Biarritz. Poche ore dopo la chiusura di quel summit, come ricorderete, il tweet di endorsement all'”amico Giuseppi” da parte di Trump, a reincarico ormai certo. Un premio per la disponibilità dimostrata a collaborare con l’AG Barr? Non sappiamo ancora per certo se l’Italia sia stata “l’epicentro della cospirazione”, come sostiene Papadopoulos, ma ora è certo che Barr e Durham stanno effettivamente collaborando con questi quattro Paesi (Italia, Regno Unito, Australia e Ucraina) sul loro ruolo nelle origini della bufala Russiagate. E questo spiega il nervosismo, anzi il panico a Washington. Le indagini di Barr e Durham stanno arrivando a meta. Dall’esigenza di reagire, in una corsa disperata contro il tempo, nasce il Kievgate – probabilmente di concerto tra i Democratici al Congresso e gli uomini della Cia ancora fedeli all’ex direttore Brennan – per denunciare come il presidente Trump sta usando i suoi poteri e la diplomazia Usa per assicurarsi un indebito vantaggio elettorale. Qualcosa però non torna, il doppio standard è evidente. Finché si indagava sulla presunta collusione Trump-Russia, di cui Mueller non ha trovato prova, si trattava di difendere la democrazia americana dalle interferenze straniere nelle presidenziali 2016. Ora che si tratta di indagare sulla collusione, ancora presunta ma verosimile, tra l’amministrazione Obama, la Campagna Clinton e Paesi alleati, contro un candidato e poi presidente eletto, il rischio di interferenze straniere nel processo democratico non preoccupa più, si tratta di interesse politico personale di Trump che vuole “screditare” l’inchiesta di Mueller e i propri avversari. Come il procuratore generale Usa ha ripetuto in diverse interviste e audizioni, la Campagna Trump, e poi il team del presidente eletto, sono stati spiati. Bisogna chiarire se vi fossero motivi legittimi per farlo, se la raccolta di informazioni fosse “lecita e appropriata”, secondo le leggi e gli standard del DOJ, se i metodi investigativi usati fossero appropriati, o se invece l’inchiesta di controintelligence fosse motivata da un’opposizione politica al candidato e poi presidente Trump. Ma bisogna anche chiarire se FBI e CIA si siano avvalse in qualche modo di “attività di servizi di intelligence stranieri”. Il sospetto è che queste attività siano state condotte su suoi collaboratori anche prima del 31 luglio 2016 – data di apertura formale dell’inchiesta di controintelligence – come il caso Mifsud-Papadopoulos lascia supporre.

MIFSUD – Come abbiamo ricostruito nelle precedenti puntate del nostro speciale, il diplomatico australiano Alexander Downer, amico dei Clinton, nel luglio 2016 fornisce la dritta che porta l’FBI, il 31 luglio, ad aprire formalmente l’inchiesta di controintelligence sulla Campagna Trump. Riferisce che durante un incontro a Londra il 10 maggio, Papadopoulos gli ha raccontato di aver saputo che i russi hanno materiale “dirt” su Hillary Clinton e sono pronti ad usarlo per aiutare Trump. Ma perché solo a luglio? Downer ricollega l’indiscrezione all’hackeraggio da poco denunciato dal DNC, attribuito alla Russia. È il professore maltese Jospeh Mifsud, in un incontro sempre a Londra, il 26 aprile, a riferire a Papadopoulos che i russi hanno materiale “dirt” sulla Clinton in forma di “migliaia” di sue email. Si tratterebbe però non dell’hackeraggio dei server del DNC, avvenuto quasi due mesi dopo, ma delle email che l’ex segretario di stato ha fatto transitare sui suoi server privati. Papadoupolos conosce Mifsud il 14 marzo a Roma, ad una conferenza della Link Campus University, università fondata dall’ex ministro dell’interno italiano Vincenzo Scotti che forma gli agenti di CIA, FBI, MI6 e dei servizi italiani. Conferenza alla quale erano intervenuti anche Gianni Pittella (senatore del Pd, allora capogruppo SD al Parlamento europeo e fervente clintoniano, nonché “caro amico” di Mifsud), il senatore del Copasir Giuseppe Esposito e il direttore della Polizia Postale italiana Roberto Di Legami. Non risulta al procuratore speciale Mueller che Papadopoulos abbia mai gestito email della Clinton o abbia riferito nulla alla Campagna Trump, non è stato accusato di aver complottato con i russi ma si è dichiarato colpevole di aver mentito all’FBI sulle date dei suoi contatti con Mifsud. Nel suo rapporto conclusivo Mueller cita i legami di Mifsud con la Russia e personaggi russi, lasciando intendere che il professore sia un agente russo, e riporta che interrogato dall’FBI nel febbraio 2017 ha negato di aver detto alcunché a Papadopoulos sulle email della Clinton. Nell’arco di oltre due anni, il procuratore ha incriminato molte persone, anche solo per aver mentito all’FBI. Eppure, non ha mai accusato Mifsud. Perché? Una domanda posta direttamente a Mueller anche durante l’audizione al Congresso dal repubblicano Jim Jordan. “I can’t get into it”, non posso rispondere su questo, è stata la risposta del procuratore. Senonché Mifsud è un professore maltese di base a Roma e a Londra, con frequentazioni ai più alti livelli dei circoli diplomatici e di intelligence occidentali – relazioni che guarda caso Mueller omette di menzionare nel suo rapporto. Dunque, se Mifsud era un agente russo, un incredibile numero di personalità e istituzioni accademiche, politiche e di sicurezza occidentali con le quali era in stretti rapporti potrebbero essere state seriamente compromesse, una gigantesca falla nella sicurezza degli Stati Uniti e dei governi alleati. Ma Mifsud in effetti non è mai stato trattato come tale potenziale minaccia, né dall’FBI né da altri servizi occidentali. Per quasi tutto il 2017, durante l’inchiesta Mueller quindi, ha mantenuto i suoi contatti con accademici, diplomatici e politici, ha concesso interviste, scambiato email con agenti FBI. Nel dicembre 2016, quando l’Agenzia era da mesi a conoscenza dei suoi contatti con Papadopoulos e si preparava a interrogarlo, si è recato a Washington per un incontro organizzato da un’associazione sostenuta dal Dipartimento di Stato. Nessuno si è mai preoccupato dei suoi legami con la Russia. Se allora non è un asset dei servizi russi, l’FBI e Mueller hanno però un problema nella loro narrazione. Se fosse un asset di intelligence occidentali, allora questo proverebbe che Papadopoulos è stato adescato e incastrato, già nella primavera del 2016, molto prima dell’apertura dell’inchiesta formale dell’FBI. Di Mifsud non si hanno più tracce dal novembre 2017, ma attraverso il suo avvocato ha lasciato una deposizione audio al procuratore Durham, di cui ha parlato John Solomon su The Hill e di cui abbiamo scritto già nella puntata di luglio. Mifsud, racconta l’avvocato, era “un collaboratore di lunga data dell’intelligence occidentale”, non russa, e gli fu precisamente richiesto dai suoi contatti alla Link University e al London Center of International Law Practice (LCILP), due centri accademici legati ad ambienti diplomatici e di intelligence occidentali, di incontrare Papadopoulos a Roma il 14 marzo 2016. L’idea di presentare il giovane consigliere di Trump ai russi, ha raccontato ancora l’avvocato Roh a The Hill, non arrivò da Papadopoulos o dalla Russia, ma dai contatti dello stesso Mifsud alla Link e al LCILP (da Scotti, o dal “caro amico” Pittella?). Pochi giorni dopo l’incontro di marzo a Roma, Mifsud ha ricevuto istruzioni dai suoi superiori della Link di “mettere in contatto Papadopoulos con i russi”, incluso il direttore di un think tank, Ivan Timofeev, e una donna che gli fu chiesto di presentare a Papadopoulos come nipote di Putin. Mifsud sapeva che la donna non era la nipote del presidente russo, ma una studentessa frequentata sia alla Link che al LCILP, e ha pensato che fosse in corso un tentativo per capire se Papadopoulos fosse un “agente provocatore” alla ricerca di contatti stranieri. È evidente, ha concluso Roh parlando a The Hill, che “non fu solo un’operazione di sorveglianza, ma una più sofisticata operazione di intelligence”, nella quale Mifsud si è trovato coinvolto.

EYEPYRAMID – Ma c’è un altro caso che ci porta a Roma. Il caso Eyepyramid che ha coinvolto i fratelli Giulio e Francesca Maria Occhionero. Condannati in primo grado per accesso abusivo a sistemi informatici, oggi accusano i loro accusatori di aver fabbricato le prove contro di loro. Denunciano un’intensa attività di hacking precedente persino alla notizia di reato, diversi tentativi di accesso ai server americani di Occhionero. Le loro denunce sono sul tavolo dei magistrati di Perugia, che hanno ritenuto di avere elementi tali da chiedere il rinvio a giudizio del pm di Roma Eugenio Albamonte per omissione di atti di ufficio e falso ideologico (un altro ex presidente dell’Anm sotto inchiesta a Perugia, anche se non se ne parla…), del consulente tecnico Federico Ramondino, accusato di accesso abusivo a sistema informatico, e di due agenti del CNAIPIC, Ivano Gabrielli e Federico Pereno, per omessa denuncia e falso. L’udienza davanti al gup è stata già rinviata due volte su richiesta della difesa: inizialmente fissata per il 17 luglio, è slittata prima al 27 settembre e poi a gennaio 2020. Molte in effetti le stranezze nel loro caso: a cominciare da quella domanda che Maurizio Mazzella, amico di Giulio accusato di favoreggiamento, si sente porre dagli agenti del CNAIPIC durante una perquisizione del 9 gennaio 2017 (alla vigilia dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca): “Chi è il vostro contatto della squadra Trump?”. Poi la rogatoria internazionale per i server di Occhionero su suolo americano, che la Procura di Roma non ha mai prodotto in giudizio; il rifiuto del responsabile FBI dell’ambasciata Usa di Roma, Kieran Ramsey, a testimoniare nel processo; la comune frequentazione della Link University da parte di molti attori del caso EyePyramid, dal responsabile sicurezza di Enav Francesco Di Maio, da cui ha origine la notizia di reato, al pm Albamonte, passando per l’ex capo della Polizia Postale Di Legami. Il caso Occhionero viene citato anche in una delle email declassificate di Nellie Ohr al marito Bruce, in cui sottolineava come non fosse una mera coincidenza che il 13 gennaio, il giorno in cui Kommersant riportava delle possibili dimissioni del russo Gerasimov (capo della divisione cyber dell’FSB), fosse “tre giorni dopo l’arresto degli Occhionero in Italia” e la pubblicazione del “dossier pioggia dorata” (il Dossier Steele), da parte di BuzzFeed. Che c’entra la vicenda Occhionero? A sorprendere è che Nellie Ohr non abbia avvertito la necessità di aggiungere alcun dettaglio sugli Occhionero, come se il suo interlocutore, il marito Bruce, ai vertici del DOJ, fosse già perfettamente a conoscenza del caso e della sua pertinenza al Russiagate. Giulio Occhionero sostiene di essere finito in un disegno precostituito il cui scopo era quello di utilizzare i suoi server situati negli Stati Uniti per far rinvenire elementi di collusione fra la Campagna Trump e la Russia, magari piazzandovi le famose email della Clinton. Lo scorso 24 maggio il presidente Trump ha autorizzato la declassificazione di tutti i documenti relativi alla sorveglianza e a ogni altra attività sulla sua campagna utili all’indagine e ordinato che “ogni componente della comunità di intelligence, o dipartimento e agenzia che includa elementi di intelligence, fornisca prontamente l’assistenza e le informazioni che l’Attorney General dovesse richiedere riguardo la revisione”. Sarebbero una decina i gruppi di documenti che potrebbero essere molto presto declassificati e divulgati, secondo quanto riportato da John Solomon su The Hill, e che “potrebbero aiutare a spiegare le recenti dichiarazioni del procuratore generale William Barr”, scrive Solomon. Uno di questi in particolare riguarda il ruolo svolto da governi alleati – Regno Unito, Australia e Italia – cui venne chiesto di assistere l’FBI nei suoi sforzi per trovare connessioni fra Trump e la Russia. Tick tack, tick tack…

Kievgate, la talpa della Cia si consultò con i democratici. Roberto Vivaldelli su it.insideover.com il 4 ottobre 2019. La talpa della Cia, il “whisteblower” che ha presentato la denuncia dopo la conversazione telefonica del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, con il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, dando di fatto avvio alla procedura di impeachment, ha consultato il comitato di intelligence della Camera prima di procedere. Il presidente del comitato è il democratico Adam Schiff, che dunque era a conoscenza della denuncia del “whisteblower” contro il presidente Donald Trump prima che fosse resa pubblica. A renderlo noto è il New York Times. “Come altri whistleblower prima di lui, sia con commissioni a guida democratica e sia a guida repubblicana, la talpa ha contattato la commissione per indicazioni su come riportate possibili abusi nell’ambito della giurisdizione della comunità dell’intelligence”, ha spiegato al Nyt un portavoce di Schiff, Patrick Boland. Non la vede così il presidente Donald Trump, che ieri, in conferenza stampa con il presidente finlandese Sauli Niinistö, ha dato spettacolo. “Non riesco a credere che lo abbia scritto il New York Times – ha spiegato Trump – è una frode”. Trump ha accusato il presidente della commissione Intelligence della Camera di aver “aiutato” la talpa del Kievgate “a scrivere” la denuncia al centro dell’inchiesta sull’impeachment. “Penso sia uno scandalo che sapessero in anticipo – ha tuonato Trump dallo Studio Ovale – e faccio un passo oltre. Penso che probabilmente lui (Schiff) abbia aiutato a scriverla”, ha accusato il presidente.

Smentita la versione di Adam Schiff. La notizia del New York Times ha fornito un assist incredibile al presidente Trump e al suo staff. Ma c’è un un altro dato di fatto da tenere presente: Adam Schiff ha mentito. Intervistato dalla Msnbc il 17 settembre, Schiff disse di “non aver mai parlato” con la talpa della Cia. “Non abbiamo parlato direttamente con l’informatore. Vorremmo. Ma sono sicuro che il whistleblower teme di non essere stato informato, come la legge richiede, dall’ispettore generale o dal direttore dell’intelligence nazionale su come comunicare con il Congresso. Quindi il rischio per l’informatore è la ritorsione. L’informatore sarà protetto ai sensi dello statuto se gli uffici che dovrebbero venire in suo aiuto non sono disposti a farlo. Ma sì, ci piacerebbe parlare direttamente con l’informatore”. “La legge federale afferma esplicitamente che gli informatori della comunità dell’intelligence devono formalmente passare attraverso l’Icig [ispettore generale della comunità dell’intelligence] prima di contattare il Congresso”, ha spiegato Sean Davis, sollevando dubbi sull’operato di Schiff. Il repubblicano Devin Nunes aggiunge che il deputato Schiff “ha nascosto queste informazioni al popolo americano” e persino al comitato di intelligence della Camera. “Alla luce di questa notizia, è difficile vedere l’impeachment come qualcosa di diverso da una farsa orchestrata”. Altre fonti del Gop hanno riferito a Fox News che lo sviluppo è stato inquietante e ha minato l’integrità dell’indagine di impeachment in corso da parte dei democratici.

I dubbi sulla versione di Joe Biden. Secondo il giornalista investigativo John Solomon, sulla vicenda Kievgate a “scricchiolare” è la versione di Joe Biden. Su The Hill Solomon racconta di centinaia di pagine di memo finora mai pubblicati sinora sulla questione Ucraina che sconfesserebbero proprio la versione dell’ex vicepresidente e candidato alle primarie del Partito democratico. Joe Biden ha sempre affermato di aver fatto pressioni per ottenere il licenziamento dell’ex procuratore Generale ucraino, Viktor Shokin, in quanto corrotto e dunque non per l’indagine sulla Burisma Holdings, la società energetica ucraina in cui lavorava suo figlio, Hunter Biden. Come ricostruisce Solomon, i rappresentanti legali americani di Burisma hanno incontrato funzionari ucraini pochi giorni dopo che Biden ha forzato il licenziamento del procuratore capo del Paese e presentato le loro “scuse per la diffusione di informazioni false da parte di rappresentanti e personaggi pubblici statunitensi” sui procuratori ucraini, secondo una nota ufficiale. Inoltre, il team americano di Burisma si è offerto di presentare i pubblici ministeri ucraini ai funzionari dell’amministrazione Obama per fare ammenda, secondo un memo con le e-mail interne del team legale americano. Pertanto, secondo John Solomon, sorgono alcune domande: se il licenziamento del procuratore generale avvenne per corruzione, perché il team legale della Burisma avrebbe definito le accuse come false?

George Papadopoulos: "Renzi usato da Obama contro Trump, lo scandalo 007 gli costerà caro". Uno dei personaggi chiave del Russiagate intervistato da La Verità: "La Link Campus non è un'università normale, Mifsud è ancora in Italia, ma rispetto a Scotti è lo stupido del villaggio". HuffPost il 3 ottobre 2019. George Papadopoulos è un personaggio chiave del Russiagate. Per il suo ruolo dentro il comitato consultivo per la politica estera nella campagna elettorale di Donald Trump alle presidenziali del 2016. Per aver reso all’Fbi dichiarazioni false a fine 2017 divenendo centrale nella maxi-inchiesta portata avanti dal procuratore speciale Robert Mueller contro il presidente americano. Per essere stato il primo condannato del Russiagate, per cui è stato in carcere. In un’intervista alla Verità, il teste chiave dell’inchiesta parla dell’Italia e dei rischi per Matteo Renzi di quanto potrebbe emergere sulla genesi del Russiagate. Papadopoulos racconta che lavorava al London centre of international law practice (Lcilp) quando gli arrivò la chiamata dello staff di Trump, e ricorda che gli venne consigliato un viaggio verso Roma, alla Link Campus University per entrare “in contatto con alcune persone in grado di aiutarmi con Trump e la Russia”. Era metà marzo 2016, ricorda:

“Ho subito capito che la Link non era un’università normale. Quando arrivai, assistetti a un meeting tra alcuni funzionari dell’intelligence italiana, membri dell’opposizione libica e Vincenzo Scotti”. A margine di quell’incontro, ricorda Papadopoulos, l’ex ministro oggi presidente dell’ateneo gli presentò Joseph Mifsud. “La sera stessa, a cena, parlammo di due argomenti: il settore energetico e la campagna elettorale di Trump. Mifsud si vantò di conoscere numerosi leader europei e di essere bene inserito al Dipartimento di Stato, e disse che avremmo dovuto rimanere in contatto”... “Mentre ero a Londra Mifsud mi contattò proponendomi di incontrare la nipote di Vladimir Putin”. Mifsud nel Rapporto Mueller viene individuato come un agente russo. “Ritengo improbabile - afferma Papadopoulos - che le agenzie di intelligence abbiano permesso che un agente russo agisse indisturbato alla Link Campus, notoriamente vicina alla Cia e all’Fbi”. Per lui, invece, “la Cia e l’Fbi hanno usato persone come Mifsud per spiare il mio lavoro sull’energia e sabotare  la campagna presidenziale”. Papadopoulos aggiunge che da sue fonti “Mifsud si trova ancora in Italia” e accentua il ruolo di Vincenzo Scotti: “In confronto a lui, Mifsud è lo stupido del villaggio. Sono convinto - dice - che Barr dovrebbe parlare con lui”. Papadopoulos si schiera a favore della controindagine che Donald Trump e i suoi più fidi collaboratori - da Mike Pompeo a William Barr - stanno portando avanti per smontare il Russiagate. “L’Italia farebbe bene a cooperare” dice alla Verità, e tira direttamente in ballo Matteo Renzi. “Penso che Matteo Renzi sia stato usato da Barack Obama per attuare questo colpo basso nei confronti di Trump e che ora Renzi rimarrà esposto e a causa di questa storia la sua carriera politica verrà distrutta, così come quella di altri esponenti di sinistra in Italia. Ritengo impossibile che un’operazione del genere si potesse svolgere senza che il Governo dell’epoca ne fosse a conoscenza. Renzi stava prendendo ordini da qualcuno ed era ben felice di obbedire”. 

Papadopoulos: "Renzi usato da Obama, sarà travolto". "Penso che Matteo Renzi sia stato usato da Barack Obama per attuare questo colpo basso nei confronti di Trump e che ora Renzi rimarrà esposto e a causa di questa storia", racconta l'ex consigliere di Trump. Roberto Vivaldelli, Venerdì 04/10/2019, su Il Giornale. Non usa mezzi termini George Papadopoulos, ex membro del comitato consultivo per la politica estera nella campagna elettorale di Donald Trump durante le elezioni presidenziali del 2016. L'ex consigliere del Presidente, in un'intervista rilasciata a La Verità, commenta le possibili ripercussioni per il nostro Paese dopo che il Procuratore generale americano William Barr ha costituito un team investigativo guidato dal procuratore John Durham per indagare sulle origini delle indagini dell’Fbi sul Russiagate nel 2016 e determinare se la raccolta di informazioni sulla campagna di Trump fosse "lecita e appropriata". Una spy story che, come testimonia la visita di William Barr e John Durham in Italia la scorsa settimana, coinvolge anche il nostro Paese e i nostri servizi segreti: secondo Papadopoulos l'indagine di Barr e Durham potrebbe "travolgere" l'ex premier Matteo Renzi, a capo del governo italiano di allora. Sulla visita di Barr in Italia, Papadopoulos spiega di "essere conoscenza degli ultimi sviluppi, non fosse altro per il fatto che sono al centro di questo grosso scandalo. La Cia e l'Fbi hanno usato persone come Joseph Mifsud per spiare il mio lavoro sull'energia e tentare di sabotare la campagna presidenziale, danneggiando ogni prospettiva di relazione internazionale tra Russia e Stati Uniti". La stampa americana ha dipinto la mossa come il tentativo di screditare il lavoro di Mueller. "Ritengo che sia il presidente Trump sia il procuratore Barr siano nel giusto. Questa è un'indagine autorizzata sulle origini dell'operazione di spionaggio contro la campagna elettorale a carico di governi stranieri. L'Italia in particolare farebbe bene a cooperare in tal senso". Secondo l'ex consigliere di Trump "Renzi è stato usato da Barack Obama per attuare questo colpo basso nei confronti di Trump", e ora lo stesso ex premier "rimarrà esposto e a causa di questa storia la sua carriera politica verrà distrutta, così come quella di altri esponenti di sinistra in Italia. Ritengo impossibile che un'operazione del genere si potesse svolgere senza che il governo dell'epoca ne fosse a conoscenza. Renzi stava prendendo ordini da qualcuno, ed era ben felice di obbedire". Nel corso dell'intervista, George Papadopoulos racconta del suo primo incontro con il docente maltese della Link di Roma, Joseph Mifsud. "Quando arrivai - osserva Papadopoulos -assistetti a un meeting tra alcuni funzionari dell'intelligente italiana, membri dell'opposizione libica e Vincenzo Scotti (ex ministro degli Esteri e dell'Interno e oggi presidente della Link Campus). La spiegazione che mi diedi fu che ai tempi la situazione della Libia era molto particolare, e che per ragioni storiche e geografiche l'Italia aveva tutto l'interesse a favorire una stabilizzazione della situazione locale". Come ricorda Papadopoulos, fu proprio Vincenzo Scotti a presentargli Mifsud: "L'impressione è che entrambi sapessero perfettamente chi fossi. La sera stessa, a cena, parlammo di due argomenti: il settore energetico e la campagna elettorale di Trump. Mifsud si vantò di conoscere numerosi leader europei e di essere bene inserito nel Dipartimento di Stato, e disse che avremmo dovuto rimanere in contatto". Mentre George Papadopoulos era a Londra, Mifsud lo contattò proponendogli di incontrare la nipote di Vladimir Putin. "Pensai subito che fosse una cosa impossibile, e mi rivolsi a Nagi Idris, il quale si mostrò felice di questo incontro e mi spinse a incontrare la donna. Sul perchè Idris menti e organizzò con Mifsud un falso incontro con questa persona, questo è attualmente oggetto di un'indagine". Lo scorso 11 agosto lo stesso Papadopoulos, in un'intervista rilasciata a Inside Over, spiegava che "il rapporto dell’Italia [con gli Stati Uniti] non progredirà a meno che tutte le informazioni sulle attività di Joseph Mifsud e la Link Campus riguardanti lo spionaggio e il lavoro con le agenzie di intelligence americane contro di me e Trump nel 2016-2017 venga rivelato". L’ex consigliere di Donald Trump spiegò perché è stato, a suo dire, vittima di questa grande cospirazione che coinvolge l’intelligence americana e i servizi segreti occidentali: "Il mio lavoro nel settore dell’energia nel fornire consulenza ai governi e alle compagnie energetiche americane e israeliane è la ragione per cui questa tremenda vicenda di spionaggio mi ha investito". Mercoledì, Il Senatore repubblicano Lindsey Graham, a capo del Comitato giudiziario del Senato degli Stati Uniti e molto vicino al presidente Donald Trump, ha inviato una lettera al presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte, al primo ministro inglese Boris Johnson e a quello australiano Scott Morrison, in cui invita ed esorta i tre Paesi alleati degli Usa a cooperare con il Dipartimento di Giustizia in merito all’inchiesta sulle origini del Russiagate. Una richiesta che arriva a pochi giorni dalla visita di Barr in Italia.

Renzi, basta buonismo, querelo Papadopoulos. (ANSA il 4 ottobre 2019) - "Da qualche settimana viene rilanciata sui social una nuova FakeNews contro di me. Ma stavolta si varcano i confini nazionali: vengo accusato di aver partecipato a un complotto internazionale ordito da Obama contro Trump. Ho scoperto a mie spese che non si deve mai sottovalutare la portata delle bufale. E avendo diverse testate rilanciato questa FakeNews ho deciso di procedere per vie legali: il tempo del buonismo è finito. La prima persona contro la quale agisco in giudizio è il signor George Papadopoulos che si definisce "ex collaboratore del Presidente Trump" che stamattina ha rilasciato dichiarazioni false e gravemente lesive della mia reputazione sul giornale La Verità. Chi sbaglia, paga. Chi diffama, pure. Ci vediamo in tribunale". Lo scrive su Facebook Matteo Renzi. Nell'intervista Papadopulos afferma di ritenere che "che Matteo Renzi sia stato usato da Barack Obama per attuare questo colpo basso nei confronti di Trump", vale a dire la creazione del Russiagate, e che "ora Renzi rimarrà esposto e a causa di questa storia la sua carriera politica verrà distrutta, così come quella di altri esponenti della sinistra in Italia".

Antonio Grizzuti per “la Verità” il 4 ottobre 2019. George Papadopoulos, oggi si trova al centro di una spy story intricata, potenzialmente in grado di influenzare la campagna presidenziale del prossimo anno. Come siamo arrivati a questo punto?

«La cronologia è molto importante per comprendere l' intera storia. Tutto è iniziato nel 2016, quando ero impiegato al London centre of international law practice (Lcilp), un' organizzazione alquanto sospetta nella quale non ho mai ben capito quale fosse esattamente il mio ruolo. Il mio campo era quello relativo al business dell' energia. Un settore molto delicato, anche a seguito della scoperta di nuovi giacimenti di gas e petrolio e nel quale anche l' Italia è molto coinvolta».

Poi è arrivata la chiamata nello staff di Donald Trump.

«Esatto. Quando annunciai il mio nuovo impegno lavorativo ai colleghi del Lcilp, sembravano impazziti. Poi Nagi Idris, il direttore della struttura, mi consigliò di recarmi a Roma alla Link Campus University perché lì sarei entrato in contatto con alcune persone in grado di aiutarmi con Trump e la Russia. Vorrei precisare una cosa: non ho mai chiesto di avere alcun contatto con la Russia, né ne avevo mai avuti prima, perciò ho trovato molto strano che qualcuno mi suggerisse questa strada. Quando sono partito alla volta di Roma, a metà marzo del 2016, non avevo idea di cosa fosse la Link Campus, anzi l' ho presa come una breve vacanza prima di volare a Washington».

Com' era l' atmosfera?

«Ho capito subito che la Link non era un' università normale. Quando arrivai, assistetti a un meeting tra alcuni funzionari dell' intelligence italiana, membri dell' opposizione libica e Vincenzo Scotti (ex ministro degli Esteri e dell' Interno e oggi presidente della Link Campus, ndr). La spiegazione che mi diedi fu che ai tempi la situazione della Libia era molto particolare, e che per ragioni storiche e geografiche l' Italia aveva tutto l' interesse a favorire una stabilizzazione della situazione locale. A margine di quell' incontro, Scotti mi presentò Joseph Mifsud. L' impressione è che entrambi sapessero perfettamente chi fossi. La sera stessa, a cena, parlammo di due argomenti: il settore energetico e la campagna elettorale di Trump. Mifsud si vantò di conoscere numerosi leader europei e di essere bene inserito nel Dipartimento di Stato, e disse che avremmo dovuto rimanere in contatto».

E così fu, in effetti.

«Sinceramente dopo la "vacanza" a Roma, pensavo che non l' avrei mai più rivisto. Nonostante avessi specificato durante il nostro primo incontro che ero totalmente ignaro sulle questioni russe, né tantomeno potevo vantare alcun collegamento con quel Paese, mentre ero a Londra Mifsud mi contattò proponendomi di incontrare la nipote di Vladimir Putin. Pensai subito che fosse una cosa impossibile, e mi rivolsi a Nagi Idris, il quale si mostrò felice di questo incontro e mi spinse a incontrare la donna. Sul perché Idris mentì e organizzò con Mifsud un falso incontro con questa persona, questo è attualmente oggetto di un' indagine».

Che idea si è fatto a posteriori?

«È fondamentale comprendere l' importanza del Lcilp, perché anche Joseph Mifsud lavorava lì, così come Arvinder Sambei, la donna che insieme a Nagi Idris mi spinse a recarmi a Roma per incontrare tutte quelle persone. Più tardi venni a sapere che la Sambei aveva lavorato per tre anni con l' Fbi, oltre a essere strettamente legata all' intelligence britannica. Senza contare che Mifsud, che nel rapporto Mueller viene dipinto come un agente russo, mi è stato presentato da Vincenzo Scotti, insieme a persone connesse con l' Fbi. Quando diversi mesi fa ho parlato di queste cose al Congresso, si è deciso di far partire la nuova indagine di cui ora si sente tanto parlare. Una volta compreso che questi personaggi erano collegati all' intelligence italiana e britannica, allora è nata la necessità di capire quali fossero i soggetti coinvolti in questa operazione contro Donald Trump. Ritengo assai improbabile che le agenzie di intelligence abbiano permesso che un agente russo agisse indisturbato alla Link Campus, notoriamente vicina alla Cia e all' Fbi. Sarebbe una cosa totalmente illogica».

Nelle ultime settimane gli eventi hanno subìto un' accelerazione improvvisa, anche a seguito dell' avvio della procedura di impeachment. Cosa ne pensa della visita del procuratore William Barr in Italia?

«Sono a conoscenza degli ultimi sviluppi, non fosse altro per il fatto che sono al centro di questo grosso scandalo. La Cia e l' Fbi hanno usato persone come Joseph Mifsud per spiare il mio lavoro sull' energia e tentare di sabotare la campagna presidenziale, danneggiando ogni prospettiva di relazione internazionale tra Russia e Stati Uniti».

La stampa americana ha dipinto la mossa come il tentativo di screditare il lavoro di Mueller.

«Ritengo che sia il presidente Trump sia il procuratore Barr siano nel giusto. Questa è un' indagine autorizzata sulle origini dell' operazione di spionaggio contro la campagna elettorale a carico di governi stranieri. L' Italia in particolare farebbe bene a cooperare in tal senso».

Si è detto tanto in questi ultimi mesi sul ruolo del nostro Paese.

«Penso che Matteo Renzi sia stato usato da Barack Obama per attuare questo colpo basso nei confronti di Trump, e che ora Renzi rimarrà esposto e a causa di questa storia la sua carriera politica verrà distrutta, così come quella di altri esponenti di sinistra in Italia. Ritengo impossibile che un' operazione del genere si potesse svolgere senza che il governo dell' epoca ne fosse a conoscenza. Renzi stava prendendo ordini da qualcuno, ed era ben felice di obbedire».

Spesso il suo nome è stato associato a quello di Gianni Pittella.

«Non l' ho mai incontrato, ma so per certo che sapeva moltissime cose su di me ancora prima che ne parlassero i media americani, e ben prima che venissi arrestato. Questa è una cosa che mi ha sempre lasciato perplesso».

È mai più entrato in contatto con qualcuno della Link Campus?

«No. Ma le mie fonti mi dicono che Joseph Mifsud si trova ancora in Italia. Per quanto riguarda Vincenzo Scotti, invece, credo che sia un personaggio importante. In confronto a lui, Mifsud è lo stupido del villaggio. Sono convinto che Barr dovrebbe parlare con lui»

L’ordine della Camera  alla Casa Bianca: consegnate  i documenti sull’Ucraina. Pubblicato sabato, 05 ottobre 2019 da Corriere.it. «La Casa Bianca consegni tutta la documentazione sulla richiesta di Trump all’Ucraina di indagare sulla famiglia di Joe Biden»: la commissione di vigilanza della Camera ha emesso un atto formale per procedere con l’impeachment nei confronti di Donald Trump. Finora la presidenza si era rifiutata di rispettare l’ultimatum, che scadeva appunto oggi.Il Congresso ha inviato l’ordine di consegnare i documenti al capo di gabinetto ad interim della Casa Bianca, Mick Mulvaney. Se il mandato non sarà rispettato, avvertono i deputati Dem, tale atteggiamento «costituirà prova di intralcio all’inchiesta della Camera sull’impeachment e potrà essere usato contro il capo di gabinetto e contro il presidente per interferenza avversa». «Non cambia nulla»: ha replicato in una nota la Casa Bianca. «È solo una ulteriore richiesta di documenti, perdita di tempo e ulteriori soldi dei contribuenti che alla fine mostreranno come il presidente non abbia fatto nulla di sbagliato. I democratici scansafatiche - si legge nel comunicato - possono continuare con il loro processo farsa mentre il presidente e la sua amministrazione continuano a lavorare a nome del popolo americano». I portavoce della Commissione sostengono di essere stati obbligati a prendere questa decisione. «La Casa Bianca - hanno detto Elijah Cummings, Adam Schiff e Eliot Engel - ha rifiutato di collaborare, e anche di rispondere, a molte richieste della Commissione di darci volontariamente la documentazione. Dopo un mese di ostruzionismo, sembra evidente che il presidente ha scelto la via della sfida, di porre ostacoli e della dissimulazione. Siamo profondamente dispiaciuti che il presidente Trump abbia messo, noi e la nazione, in questa posizione, ma la sua azione non ci lasciava altra scelta che emettere un mandato».

Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 5 ottobre 2019. Perché l' Italia è finita al centro del Russiagate e della controindagine del ministro della giustizia americano William Barr grazie alla quale Trump scommette di ribaltare l' inchiesta dell' Fbi sull' operazione russa di interferenza nelle presidenziali del 2016? Perché gli incontri di Barr a Roma con i vertici della nostra intelligence hanno scatenato un caso politico-diplomatico tra Roma e Washington? La risposta ha, tra gli altri, il nome di un' avvocata casertana di 34 anni, per sette anni e fino al 2016 assistente legale nella Commissione giuridica (Juri) all' Europarlamento. Simona Mangiante. È la moglie di George Papadopoulos, l' uomo che fece parte dello staff elettorale di Trump e che ricevette la notizia dell' esistenza di migliaia di mail hackerate dall' account privato di Hillary Clinton con cui screditarne la candidatura. Soprattutto, Simona Mangiante ha lavorato anche per l' enigmatico professore maltese Joseph Mifsud, che soffiò a Papadopoulos la notizia delle mail nel periodo in cui insegnava alla Link University, l' ateneo privato dove si è formato un pezzo della classe dirigente dei 5 Stelle (tra cui l' ex ministra della Difesa Trenta e l' attuale vice-ministra agli Esteri Del Re). Il governo americano lo cerca da quando è scomparso nel maggio del 2018, ed è tornato a chiederne conto all' Italia nei giorni scorsi. Simona Mangiante oggi vive a Los Angeles col marito. Ha dismesso la toga, fa la modella e l' attrice, ha una propria linea di costumi. Un produttore americano sta girando un reality su di lei e su Papadopoulos, che nel frattempo ha scritto un libro ( " Deep State target ") in cui si descrive vittima di un complotto internazionale. Repubblica l' ha contattata, e questo è il suo racconto. Una contro-narrazione dei fatti del Russiagate per come li ha ricostruiti l' Fbi. In cui i buoni diventano i cattivi. E viceversa.

Come ha conosciuto Mifsud?

«Me lo ha presentato nel 2011 il deputato europeo Gianni Pittella, che è un amico di famiglia. Eravamo a un evento della fondazione Euromed. Pittella mi disse che Mifsud era molto vicino al suo gruppo, i Socialisti & Democratici, ed era un' attivista».

Tanto da partecipare alle campagne elettorali?

«Sì. Nel novembre 2016 Pittella era a Filadefia per sostenere la Clinton, e Mifsud era con lui. Mifsud è un donatore della Fondazione Clinton. Non era affatto filo-Putin».

Quando ha lavorato per lui?

«Nel settembre del 2016. Terminato il contratto con l' Europarlamento, Pittella mi suggerì di rivolgermi a Mifsud, che era appena diventato direttore del London Center of international law practice . Mi prese col ruolo di direttrice delle relazioni diplomatiche, in realtà era interessato a dossier confidenziali di cui mi ero occupata a Bruxelles, e che mai gli ho rivelato».

Che cos' era il London Center?

«Non l' ho ancora capito. Quel posto era finto, una copertura».

Come fa a dirlo?

«Nei tre mesi in cui ci sono stata, non ho visto trattare alcun caso legale. Il Centro occupava lo spazio di una stanza in un palazzo di una zona chic di Londra, con un tavolo ovale al centro. C' era un via vai di gente che rimaneva al massimo un giorno: ragazzi del Medio Oriente, americani e un paio di persone legate all' ufficio del ministero francese della Giustizia e a quello iracheno degli Esteri. Nessuno che spiegava di cosa si stesse occupando».

E lei cosa faceva?

«Una volta Mifsud e l' altro direttore del Centro, Nagi Idris, mi chiesero di partecipare a un simposio segreto a Tripoli, in Libia. Pretendevano che andassi lì, senza darmi informazioni utili. "Troverai il presidente della Malesia", mi dissero. Non andai, e questo creò un problema, tant' è che non mi hanno mai dato i 2.500 euro al mese promessi. A dicembre, il giorno prima di dare le mie dimissioni, Misfud mi chiese di organizzare un evento a Londra per l' allora ministra italiana dell' Istruzione».

Stefania Giannini?

«Non ricordo il nome, so che faceva parte del governo Renzi. Mifsud aggiunse che avrei dovuto contattare Stephen Roh, il suo avvocato svizzero, marito della figlia di un oligarca russo».

Perché lo organizzava Misfud?

«Il vero mestiere del Professore era questo: cercare agganci, trovare connessioni con i governi. Era molto legato a quello di Renzi».

Ha elementi concreti per dirlo?

«Lui ripeteva spesso di esserlo, anche se non so se conosceva Renzi. Mifsud viveva tra Roma e Londra, era in contatto con Vincenzo Scotti e Pasquale Russo (presidente e direttore generale della Link University, ndr) e con alcuni esponenti dei 5 Stelle. Dopo lo scoppio del Russiagate ha soggiornato per settimane in un alloggio a Roma pagato dalla Link nonostante pubblicamente Scotti prendesse le distanze da lui. Ora è sparito. Per me ci sono pochi dubbi: era una spia della Cia, appoggiato dai servizi italiani».

Sulla base di quali elementi lo dice, e perché della Cia e non dell' Svr russo visto che Mifsud aveva interlocutori sia a mosca che a Washington? Renzi ha appena dichiarato di voler querelare suo marito perché sostiene che dietro Mifsud ci sia un complotto ordito da Obama contro Trump, con l' aiuto dell' allora governo Renzi.

«Sulla querela non commento. Mifsud in Russia c' è stato solo come visiting professor. Resto convinta che il Russiagate vada letto al contrario: un complotto di Cia e governi social-democratici per impedire l' elezione di Trump».

L' ultima volta che lo ha sentito?

«Il giorno in cui mi sono dimessa dal London Center».

E dove crede che sia?

«Non ho elementi. Se dovessi scommettere, a Roma a mangiare un piatto di spaghetti. O a Londra».

C' è chi sospetta che lei sia una spia russa.

«Solo perché sono bionda, alta e non parlo l'inglese con l'accento italiano. L'Fbi, il Dipartimento immigrazione e il Congresso americano non hanno trovato niente al riguardo».

Ha delle prove su quello che lei chiama complotto?

«Mio marito venne agganciato da Mifsud a Roma, introdotto da Scotti. Non fu mio marito a cercare Mifsud. E in un' occasione sono stata testimone oculare di un secondo tentativo di incastrarlo».

Quando, dove e da parte di chi?

«A Mykonos, nell' estate del 2017. La prima sera George mi spiega che avrebbe dovuto incontrarsi con un amico israeliano lobbysta, tale Charles Towell, per un qualche business. Towell era convinto che fossi lì a spiare George. Me ne andai.

Dopo due giorni George mi chiamò, era disperato perché Towell gli aveva lasciato senza motivo una valigetta con 10.000 dollari. Gli consigliai di lasciarli a casa sua a Salonicco e così fece. Appena atterrò a Washington, fu arrestato dall' Fbi, con l' accusato di aver mentito su Mifsud. Ma la prima cosa che gli chiesero fu: dove sono i soldi? In seguito è venuto fuori che Towell era un agente della Cia».

Gianluca Di Feo per “la Repubblica” il 5 ottobre 2019. Se la retorica del complotto si piega ai desideri della Casa Bianca l' effetto può essere dirompente. Per questo bisogna usare grande cautela nel maneggiare gli ingredienti della contro-inchiesta presidenziale sul Russiagate. L' unico punto fermo è che George Papadopoulos, il protagonista di questa vicenda, due anni fa si è dichiarato colpevole di avere mentito all' Fbi ostacolando così l' indagine sui rapporti tra Trump e Mosca. Dopo avere scontato la condanna, il giovane componente dello staff presidenziale ha cominciato a recitare un altro copione, presentandosi come vittima di una trappola imbastita nel 2016 tra Londra e Roma dai servizi segreti britannici e italiani, ritenuti vicini ai Clinton, utilizzando il misterioso professore maltese Joseph Mifsud come agente provocatore. Una storia perfetta per gli interessi del presidente Usa. I riscontri finora mancano. I vertici della nostra intelligence hanno ribadito di non avere mai avuto rapporti con Mifsud, classificato come un lobbista dai mille intrallazzi. Il problema è che la Link University, l' università romana dove il professore maltese ha agganciato Papadopoulus, era ed è frequentatissima dai nostri 007, che hanno continuato a tenervi corsi pure dopo l' esplosione dell' affaire. Una leggerezza, che agli occhi dei detective americani appare invece come un pesante indizio di colpevolezza: possibile che in un piccolo ateneo guidato da ex ministri e popolato di spie nessuno abbia notato un docente che offriva materiale compromettente per conto di Mosca? Altrettanto discutibile è la scelta del premier Conte di autorizzare i due incontri tra i direttori dei nostri servizi e i procuratori incaricati della contro-inchiesta trumpiana. Sono questioni su cui è necessario fare chiarezza subito, prima che l' onda scatenata dall' altra parte dell' Atlantico si trasformi in uno tsunami sulla credibilità dei nostri apparati.

Daniele Capezzone per “la Verità” il 5 ottobre 2019. Ieri La Verità ha pubblicato un' intervista, a cura di Antonio Grizzuti, che ha terremotato il mondo politico. George Papadopoulos, già nella cerchia dei consiglieri di Donald Trump, ha senza tanti giri di parole chiamato in causa gli uomini del centrosinistra italiano. E quando in Italia erano le 6 di ieri mattina, Papadopoulos ha ritwittato integralmente l' intervista al nostro giornale, aggiungendo una didascalia che non lascia spazio a equivoci sul suo pensiero: «La storia dello spygate italiano costerà la carriera politica a Matteo Renzi». E allora proviamo a chiarire di cosa stiamo parlando, perché la vicenda è intricatissima, e - diciamolo - molti media, dopo aver censurato per mesi tutto questo dossier, ora sembrano divertirsi a complicarlo, a renderlo criptico, quasi per scoraggiare il lettore.

Manine. Tutto nasce dal Russiagate americano, la mega inchiesta contro Trump condotta dal procuratore Robert Mueller. Mesi e mesi di investigazioni, grandi spifferi sulla stampa Usa (e a cascata su quella europea), tifo mediatico scatenato (ogni settimana ci si raccontava che «il cerchio si stringeva intorno a Trump»), ma poi un clamoroso nulla di fatto, con lo stesso procuratore costretto ad ammettere di non aver trovato una prova definitiva della collusione tra la Russia e la campagna elettorale di Trump del 2016. Badate bene: stiamo parlando - dal punto di vista americano - di un tema scottante: puoi essere democratico o repubblicano, ma l' idea di una manina straniera che possa infilarsi nelle elezioni Usa per condizionarle indigna un numero enorme di elettori. La realtà è che, quando la montagna di Mueller ha partorito un topolino, è stato Trump a cantare vittoria. Di più: a questo punto, l' amministrazione in carica ha deciso di aprire una controinchiesta per provare a capire se ci sia stata una collusione tra l' amministrazione Obama, la campagna elettorale di Hillary Clinton, alcune agenzie Usa e apparati stranieri per screditare Trump, fabbricando indizi farlocchi sul suo rapporto con la Russia. Morale: ora è Trump che vuole vederci chiaro, e capire se l' Fbi e altre agenzie americane abbiano agito secondo gli standard corretti o se invece la loro azione sia stata motivata dall' ostilità a Trump, anche con il concorso di influenze straniere. In particolare, l' ipotesi è che diverse «manine» si siano mosse tra Italia, Australia, Uk e Ucraina. E proprio in Italia è accaduto il fattaccio più clamoroso. Con il buon Papadopoulos che, alla Link university (l' università patrocinata dall' ex ministro degli Interni Vincenzo Scotti), avrebbe incontrato un professore maltese, tale Joseph Mifsud, poi rocambolescamente sparito e forse variamente protetto. Il quale Mifsud si sarebbe poi molto agitato (su impulso di chi?) per procurare contatti russi a Papadopoulos: in realtà, a quanto pare, per inguaiare lui e soprattutto Trump. In siciliano, si direbbe per «mascariare» la campagna Trump. In russo, ai tempi della vecchia Urss, si usava l' espressione «kompromat»: fabbricare materiale compromettente per mettere qualcuno in condizione di non nuocere, danneggiandolo in modo irreversibile. E che conclusioni ne trae Papadopoulos? «Penso che Renzi sia stato usato da Barack Obama per attuare questo colpo basso nei confronti di Trump, e che ora Renzi rimarrà esposto, e che a causa di questa storia la sua carriera politica verrà distrutta, così come quella di altri esponenti di sinistra in Italia. Ritengo impossibile che un' operazione del genere si potesse svolgere senza che il governo dell' epoca ne fosse a conoscenza. Renzi stava prendendo ordini da qualcuno». E qui entra in scena Giuseppe Conte. Quando ad agosto è venuto in Italia una prima volta il protagonista della controinchiesta trumpiana, l' attorney general William Barr, Conte avrebbe dato via libera a un incontro di Barr con i vertici dei servizi italiani, invitati a collaborare alle indagini. Alla luce di questa ricostruzione, si può rileggere - secondo molte interpretazioni - il tweet elogiativo di Trump verso «Giuseppi»: comprensibile, dal punto di vista di Trump, elogiare un premier che si stava mostrando collaborativo. Attenzione, però. Perché - a prescindere da come finirà la partita complessiva: e c' è chi giura che la controinchiesta Trump sia ormai matura, e possa portare presto a esiti clamorosi - ci sono almeno tre nodi italiani da sciogliere. Primo: nel 2016 (premier Matteo Renzi, ministro degli Esteri Paolo Gentiloni) alcuni apparati italiani hanno davvero collaborato a fabbricare accuse o carte farlocche contro Trump? E, ammesso che ciò sia accaduto, poteva non sapere il vertice del governo? C' è da pensare che qualcuno abbia voluto fare un favore a Obama e a Hillary contro il loro arcinemico? Capite bene che stiamo parlando di cose roventi: altro che le polemicucce condominiali del nostro abituale dibattito politico. Se venisse fuori che a Roma qualcuno trafficava per mettere fuori combattimento lo sfidante di Hillary (e futuro presidente), saremmo dinanzi a uno scandalo mondiale. Secondo: se Conte un mese e mezzo fa ha deciso (correttamente, nella sostanza) di collaborare al disvelamento della verità, perché non informò nessuno, da quanto emerge dal dibattito politico di queste ore? E, di conseguenza, il terzo nodo: non sarà che Conte può aver provato a barattare questo «aiutino» sottobanco con un sostegno trumpiano alla sua scalata a Palazzo Chigi? Ovviamente sono solo ipotesi, tutte da dimostrare. Ma attenzione: su queste cose in America non si scherza. E c' è perfino chi ipotizza (lo ripetiamo ancora: tutto andrà provato) uno scenario ancora più diabolico: quello di un Conte che da una parte promette agli americani che li aiuterà a fare chiarezza, ma dall' altra lascerebbe intendere a diversi interlocutori italiani (per rassicurare chi teme che possa essere scoperto qualche altarino) che da Roma ci sarà solo una parvenza di collaborazione, senza elementi sostanziali. Il giornalista che con più cura ha seguito tutta questa vicenda, il direttore del magazine online atlanticoquotidiano.it Federico Punzi, che ha dedicato al caso un' inchiesta in otto puntate, ha scritto che Barr, che la scorsa settimana è stato nuovamente in Italia, sarebbe rientrato negli Usa «non del tutto soddisfatto del livello di collaborazione riscontrato». Vicenda assolutamente da seguire.

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 5 ottobre 2019. Fino a ieri Donald Trump era il puzzone, cioè una specie di bandito che, dopo aver occupato con una truffa la Casa Bianca, usava i servizi segreti e le relazioni internazionali per incastrare gli avversari politici. Così ci siamo dovuti sorbire le ricostruzioni di una telefonata al presidente ucraino, a cui il presidente degli Stati Uniti avrebbe chiesto se Joe Biden, la pedina più importante dei democratici nella corsa alle elezioni per il nuovo comandante in capo americano, avesse fatto pressioni per far rimuovere un magistrato colpevole di indagare sul figlio. Un affare dai contorni poco chiari, soprattutto per i liberal, ma che i giornaloni - americani e italiani - hanno trasformato in un intrigo di Trump contro la Democrazia con la D maiuscola. Il puzzone con i capelli arancioni va messo sotto impeachment, hanno tuonato per giorni, perché fa uso di pratiche scorrette. State tranquilli, non è delle beghe americane e dei loro riflessi italiani che vi voglio parlare. Semmai è delle beghe italiane, le quali, quando sfiorano qualche amico caro alla sinistra, improvvisamente diventato argomento tabù di cui sulle pagine dei suddetti giornaloni è meglio non parlare. La storia è la seguente. Il presidente americano non ha solo chiesto all' omologo ucraino di approfondire i pasticci combinati dall' ex vicepresidente di Obama, ma a quanto pare si è anche dato da fare per conoscere chi abbia armato la pistola di Robert Mueller, il procuratore speciale del caso Russiagate. Ricordate? Per mesi i democratici hanno accusato Trump di aver manipolato le elezioni americane, quelle perse da Hillary Clinton, grazie all' aiuto dei troll russi. In realtà, dopo aver speso un anno a indagare, l' ex capo dell' Fbi ha dovuto gettare la spugna. Ma adesso che l' inchiesta è chiusa e si avvicina la nuova campagna elettorale per decidere chi sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca, il puzzone carica le armi e dunque, essendo convinto che il Russiagate sia stato un gran trappolone preparato contro di lui dagli avversari, si sta dando un gran da fare per sbugiardarli. Embé, direte voi, e il nostro Paese che cosa c' entra? C' entra, eccome. Perché uno dei protagonisti della campagna per incastrare Trump sarebbe stato un professore dell' università Link, un tizio che guarda caso soggiornava a Roma e forse aveva rapporti con Mosca. Risultato, nella Capitale il 15 agosto scorso, mentre Matteo Salvini aveva aperto la crisi di governo e chiedeva di tornare alle urne, è atterrato il general attorney americano, vale a dire un collaboratore di Trump, William Barr. Il quale non era in gita turistica dalle parti del Colosseo, ma alla ricerca di prove che dimostrassero come il Russiagate fosse tutta un' invenzione dei democratici americani. Fin qui nulla da dire, anche se un alto funzionario straniero che si metta a indagare in casa d' altri non è proprio il massimo delle corrette relazioni fra Stati sovrani, pur se in ottime relazioni. Ma la faccenda non è finita con l' arrivo di Barr e il giro di piazza di Spagna alla ricerca del professor Joseph Mifsud, perché il general attorney è sbarcato in Italia per chiedere a Giuseppe Conte di mettere a sua disposizione i servizi segreti italiani allo scopo di rintracciare il docente, perché - guarda caso - Mifsud dopo aver cantato è diventato uccel di bosco. E il nostro presidente del Consiglio, mentre traballa sulla poltrona perché Salvini lo vuole mandare a casa, che fa? Chiama gli 007, sui quali ha la delega, e li fa incontrare con Barr, mettendosi al servizio dell' operazione. Come ha scritto Lucia Annunziata sull' Huff post (tra le poche a parlare di questa oscura faccenda), Conte stende il tappeto rosso a Barr e cinque giorni dopo, in Senato, gonfia il petto e scarica Matteo Salvini, rovesciandogli addosso pure la vicenda Metropol e i suoi rapporti con la Russia. E a quattro giorni dall' apertura ufficiale della crisi, a Biarritz, il presidente del Consiglio parla a lungo con Trump, il quale passati tre giorni twitta a sorpresa un endorsement: «Spero che Giuseppi Conte resti premier». Il 5 settembre, in effetti, Giuseppi è di nuovo in sella. Gli incontri tra i capi dei nuovi servizi e l' emissario del presidente americano sarebbero stati almeno due, ma per quel che si sa, Conte avrebbe tenuto rigorosamente nascosto i rendez-vous anche agli alleati. Così, se la telefonata di Trump al premier ucraino è divenuta un caso mondiale, le strane manovre italiane in un intrigo internazionale non sembrano appassionare. Soprattutto non sembra incuriosire il fatto che il premier abbia mosso gli 007 per rendere un servigio di certo anomalo al general attorney. C' è forse stata una qualche contropartita? E se sì, quale? Quando Conte, che è atteso davanti a una commissione parlamentare, deciderà di raccontare i fatti? Anche perché ciò che è accaduto non è così estraneo a ciò che succede in Italia. Ieri il nostro giornale ha raccolto le parole di George Papadopoulus, un signore spesso citato per il Russiagate, il quale nell' intervista ha raccontato che all' intrigo scatenato dai democratici contro Trump non sarebbe stato estraneo Matteo Renzi, il quale sarebbe stato sollecitato da Barack Obama a entrare in partita. Come avrete capito, noi, al contrario di molti nostri colleghi, non facciamo gli schizzinosi di fronte al «puzzone» americano, ma vorremmo capire se gli schizzi di fango delle trame americane sono arrivati fin qui, contribuendo all' ascesa di taluni personaggi. O anche solo al loro bis.

MA CHI È JOSEPH MIFSUD? Giacomo Amadori e Antonio Grizzuti per “la Verità” il 6 Ottobre 2019. E se l' uomo del mistero fosse solo un abile maneggione, uno di quei personaggi di cui è pieno il sottobosco capitolino? Su Internet si possono trovare diverse biografie di Joseph Mifsud, una anche sul sito del Parlamento europeo, ma sono tutte piuttosto generiche. Per esempio, si sa solo che Mifsud è nato nel 1960, senza specificazione del mese e dell' anno. Nel curriculum sostiene di essersi laureato in Scienze della formazione a Malta, in Pedagogia a Padova e di aver conseguito un dottorato in filosofia a Belfast. Un curriculum da insegnante di scuola dell' obbligo. Ma egli, più pomposamente, si presenta come «professore di relazioni internazionali», materia che avrebbe insegnato a Malta, Perugia, Londra e Roma. Ma nella Capitale, per esempio, secondo il fondatore della Link campus, l' ex ministro Vincenzo Scotti, non avrebbe tenuto neppure una lezione, solo qualche seminario. «Quando doveva diventare professore straordinario, è scoppiato il caso Russiagate». Mifsud nel suo cv scrive, però, di aver fatto l' advisor internazionale della Società per la gestione della Link campus. Forse perché l' ateneo nasce come costola dell' università di Malta. Mifsud ha scritto anche di essere stato capo di gabinetto del ministro degli Esteri maltese, il conservatore Michael Frendo, dal 2006 al 2008. Ma anche se ha lavorato al servizio del partito nazionalista, a Repubblica aveva confidato la sua vera inclinazione politica: «Sa qual è l' unica fondazione di cui sono proprio membro? La Clinton Foundation, pensi un po'. Detto tra noi, il mio pensiero è di sinistra». E da grande fan della Clinton avrebbe partecipato insieme con l' amico Gianni Pittella, ex vicepresidente socialista del Parlamento europeo, a un evento della Clinton a Filadelfia. Salvo spacciare nello stesso periodo le mail riservate della candidata per affossarla alle elezioni. Davvero un tipo coerente. Nel dicembre 2008 è stato eletto presidente dell' università euromediterranea su indicazione della Slovenia (presidente di turno del Consiglio europeo), mentre nel 2008 è diventato presidente del consiglio d' amministrazione del Consorzio universitario di Agrigento, su iniziativa del presidente della Provincia, esponente del centro destra. Ma anche in questa impresa non ha lasciato un buon ricordo di sé. La Corte dei conti l' ha condannato contumace (è irreperibile dalla fine del 2017) a risarcire 49.300 euro allo stesso consorzio, cifra che comprende lo stipendio e l' indennità di risultato che aveva assegnato all' ex segretario generale, una cifra notevolmente superiore rispetto alla retribuzione del predecessore. Nell' occasione i giudici contabili hanno evidenziato «la natura gravemente colposa del comportamento del convenuto che ha tralasciato di considerare le fondamentali norme di legge in materia». Durante la sua presidenza al Consorzio è iniziata anche un' inchiesta penale su alcune presunte assunzioni di favore per cui è in corso un processo. Nel corso di questa indagine gli investigatori hanno controllato i suoi precedenti penali e i suoi flussi finanziari. Apprendendo così che risulta «condannato in data 28 ottobre 1997 per reati contro la pubblica amministrazione». Quanto ai guadagni, anche quelli non sembrano da premio Nobel: nel 2008 avrebbe ricevuto 6.345 euro dall' università telematica internazionale Uninettuno e, sempre gli investigatori, annotano che per l' anno d' imposta 2005 risulta aver percepito 490 euro dall' università di Perugia. Nelle carte esaminate dalla Verità sono state passate ai raggi X anche le attività imprenditoriali e immobiliari di diversi parenti di Joseph, compreso tale Philip Mifsud, classe 1955, arrestato e condannato in via definitiva nel 2017 come capo di un' organizzazione internazionale dedita al contrabbando di sigarette, che utilizzava come base per i propri traffici anche i porti libici.

Le bionde sbarcavano poi negli scali italiani, da Gioia Tauro a Genova, dove si è svolto il processo. Mifsud appare come il classico traffichino che cerca di massimizzare i rapporti d' interesse. Per esempio quando era presidente del Consorzio di Agrigento portò in città il suo mentore Frendo e tale Tony Zahra per fargli realizzare l' aeroporto cittadino: «Zahra non è solo un grosso imprenditore del turismo, con agganci e conoscenze in parecchi Stati», argomentò Frendo, «ma anche un manager con precise esperienze nel settore aeroportuale []. Ho subito pensato a lui quando dalla Provincia regionale e dal prof. Mifsud è arrivato l' input per il coinvolgimento del mio Paese». L' aeroporto non è mai stato iniziato. Per scoprire qualcosa in più su Mifsud, La Verità nelle scorse settimane ha contattato Simona Mangiante, la moglie italiana dell' ex collaboratore di Donald Trump, George Papadopoulos, l' uomo a cui Mifsud parlò delle mail compromettenti («dirt») di Hillary Clinton, dando il via al Russiagate. «Ho conosciuto Mifsud qualche anno fa al Parlamento europeo dove ho lavorato come amministratore di commissione parlamentare per sette anni» ci ha detto la Mangiante. «Mifsud era un personaggio eclettico; presentato come accademico era in realtà molto ben introdotto nei circoli politici dei socialdemocratici europei» e «organizzava eventi con il gruppo socialista». Per esempio era in stretti rapporti, come detto, con Pittella, l' uomo che avrebbe presentato Mifsud alla Mangiante, sua amica di famiglia, in occasione della conferenza per la fondazione di Euromed. Poi, quando la Mangiante, nel 2016, conclude la sua esperienza a Bruxelles, raggiunge Mifsud a Londra, dove lavora brevemente per il London center of international law practice, di cui Mifsud era codirettore con Nagi Idris. Ma l' ufficio londinese, dice sempre alla Verità la donna, aveva tutta l' aria di una copertura: «In quella sede ero director of international and diplomatic relations, un titolo impegnativo cui corrispondevano mansioni assolutamente non chiare. È una struttura che mi ha sempre destato molti sospetti, al punto che l' ho abbandonata dopo tre mesi». Quanto alla figura di Mifsud, la consorte di Papadopoulos tiene a precisare: «Parlo esclusivamente in base alla mia esperienza diretta. Le sue relazioni e affiliazioni politiche rendono inverosimile la caratterizzazione di Mifsud come una spia russa al servizio di Putin per agevolare Trump. Quanto al Russiagate, le deduzioni elaborate da mio marito in base alla sua esperienza rendono plausibile la lettura dell' intera vicenda come di una collusione contro Trump».

Vi racconto chi è Joseph Mifsud. Parla a Panorama l'ultima persona ad aver incontrato il professore maltese, protagonista del Russiagate italiano. Luciano Tirinnanzi il 29 novembre 2019 su Panorama. Joe ha un bell’appartamento ai Parioli, l’ho visto là l’ultima volta. Era marzo 2018». Così una fonte - che per parlare ha richiesto l’anonimato - rivela a Panorama nuovi particolari che aggiungono mistero sull’uomo finito al centro del caso «Russiagate» per un incontro avuto con uno dei consiglieri della campagna elettorale di Donald Trump in vista delle presidenziali 2016, George Papadopoulos. Joseph Mifsud lo avrebbe avvisato che i russi erano in possesso di email «scottanti» di Hillary Clinton, che avrebbero potuto comprometterne la campagna elettorale. Secondo quanto riferito da Papadopoulos in un’intervista a La Verità, quell’incontro si è tenuto alla Link Campus University di Roma, dove sarebbe stato il rettore Vincenzo Scotti a presentargli Mifsud. L’intrigo internazionale tocca dunque anche l’Italia e lo stesso premier Giuseppe Conte. Reo, quest’ultimo, di aver fatto incontrare il capo dei servizi segreti italiani Gennaro Vecchione con il segretario alla Giustizia di Trump, William Barr, e con il procuratore federale John Durham, che sta conducendo una contro-inchiesta per chiarire chi abbia confezionato le accuse contro Trump. Un fatto irrituale e compromettente, visto che dirigenti dell’intelligence e politici di un Paese straniero non si dovrebbero mai incontrare. Barr e Durham, invece, hanno visto Vecchione ad agosto e settembre 2019, per capire cosa sa la nostra intelligence su Mifsud. In particolare, gli americani cercavano un nastro che i servizi segreti hanno dichiarato di non avere, ma che è spuntato fuori giorni fa, quando l’avvocato di Mifsud, Stephan Roh, lo ha consegnato all’agenzia Adnkronos, aggiungendo che era già in possesso degli americani. Dagli stralci si evince come il professore sia stato costretto a sparire. Prima nelle Marche, poi chissà. Di certo, dall’ottobre 2017 - dopo che l’Fbi chiese conto a Mifsud della circostanza delle email - l’uomo dei misteri è sparito. Eppure, per tutto il 2018 (come dimostrato anche dai movimenti della carta di credito scoperti da La Verità) si muoveva tranquillamente tra il Centro Italia e la capitale.

Lei quando ha conosciuto per la prima volta Joseph Mifsud?

«Nel 2014 a San Pietroburgo, in un’occasione privata».

Mentre l’ultima volta che lo ha visto?

«A marzo del 2018».

Dove?

«A Roma, ovviamente».

Come ovviamente? Le cronache dicono che è scomparso nell’ottobre 2017. E dove lo avrebbe incontrato?

«Mah, che sia scomparso nel 2017 l’ho letto sui giornali. Io l’ho rivisto l’ultima volta ai Parioli, vicino a Piazza Euclide, dove Joe aveva un bell’appartamento. All’epoca di certo non si nascondeva».

In che contesto vi siete incontrati?

«Una cena a casa sua, durante la quale si è lamentato tutta la sera del fatto che qualcuno gli stava col fiato sul collo e che a breve avrebbe avuto delle grane molto serie. Ho còlto tutta la sua preoccupazione. Ma non sembrava sul punto di scomparire».

Che tipo di rapporto avevate?

«D’amicizia, piuttosto intima».

Perché non vi siete più visti dopo?

«La vita, e poi il caso che è scoppiato, che di certo lo ha alienato da molte altre amicizie, non solo dalla mia».

Lo descriverebbe come una persona seria o un millantatore?

«Per la mia personale esperienza, devo dire che è una persona seria. Ho avuto spesso la controprova che molte delle cose che dichiarava fossero vere. Certo, non posso dire che sia tutto vero ciò che mi ha confessato, anche perché in generale non si fidava molto delle persone e aveva sviluppato un modo di rispondere, per così dire, diplomatico. Spesso le sue risposte a domande ficcanti erano prive di contenuti o direttamente delle balle».

Sembra una contraddizione…

«Diciamo meglio così: è una persona molto cortese, e con me si è sempre comportato in modo cavalleresco. Ma, anche per il ruolo che ricopriva, c’era un lato di lui calcolatore e, in definitiva, finto. Si schermava subito se gli si facevano domande alle quali non intendeva rispondere, e si trovava spessissimo in situazioni in cui a quel punto preferiva inventare una valanga di bugie. Forse, è stato questo suo atteggiamento a provocare il caso internazionale. La mia opinione è che sia stato incastrato proprio perché si comportava così, era cioè una pedina sacrificabile. Magari aveva saputo delle cose e si vantava di poterle gestire».

Era una persona ricca o in cerca di soldi?

«Entrambe. Aveva uno stile di vita elevato, e non disdegnava le occasioni per fare soldi. Si mostrava più ricco di quel che era ma questo, penso, fosse dovuto alla sua posizione. Si faceva rimborsare sempre tutto, vedi il caso dell’Università di Agrigento, cui deve ancora dei soldi. Non so se lecitamente o meno, ma gli piaceva molto usare le carte di credito. Del resto, le sue passioni erano le donne, il buon cibo, i vestiti eleganti e costosi. Era un vanitoso e un appassionato di calcio».

Aveva vizi? Gioco, droga o altro?

«No, niente di tutto ciò. Perlomeno, mai in mia presenza».

Quali persone e quali luoghi frequentava?

«Per lo più esponenti del mondo accademico, ma anche politici e faccendieri. Gente in giacca e cravatta. Per quanto mi riguarda, ha insegnato alla Link Campus di Roma e anche presso la London Academy of Diplomacy. A Londra ha vissuto a lungo, anche se negli ultimi anni aveva diminuito a causa di impegni che lui chiamava «di rappresentanza». E poi era una presenza fissa al Valdai Discussion Club».

Ovvero?

«È una sorta di corrispettivo russo del vertice internazionale di Davos. Frequentava Mosca e molti russi, questo è certo. E, è ovvio, anche Malta».

Era bene inserito a Malta?

«Sicuramente, anche se poi - ma questo lo dico solo per sentito dire - so che ha avuto qualche problema che gli ha fatto perdere certi privilegi. Di certo gli piaceva vantarsi di conoscere tante persone importanti, ma io non l’ho mai visto al fianco di   personaggi rilevanti. Ogni tanto raccontava di aver conosciuto tizio e caio, condendo il tutto sempre con qualche gossip a riguardo. Chi andava a letto con chi, cosa piaceva a questo e quello. Insomma, più che altro aneddoti piccanti».

Che rapporto aveva con George Papadopoulos, il suo grande accusatore?

«Direi normale, come quello che si ha tra due professionisti o tra gente che è insieme per affari, quindi con quella finta confidenzialità che prevedevano il loro ruolo e quel tipo di contesti».

Si frequentavano spesso?

«Per quanto ne sappia io, si sono visti soltanto due volte».

Ha mai espresso opinioni politiche, magari su Hillary Clinton, Barack Obama, Donald Trump o Vladimir Putin?

«Rispettava molto Putin, su Clinton e Obama mai una parola. Però aveva ottime conoscenze tra i politici, del resto era una materia che amava e conosceva profondamente. Almeno, dal mio punto di osservazione era così».

Lei ha mai avuto sentore che intorno a lui si muovessero uomini dei servizi segreti? Ne avete mai parlato?

«Assolutamente no».

Dove ritiene che possa essere oggi?

«Premesso che non ne sono a conoscenza, potrebbe essere ancora a Roma. O in Svizzera. Il suo avvocato e amico di Zurigo è una persona molto facoltosa, si sarà rivolto a lui per avere una mano quando è scoppiato il caos nella sua vita. Non credo abbia avuto problemi a sparire, quando l’aria si è fatta pesante. Lui peraltro ha una figlia, che oggi si dovrebbe trovare in Gran Bretagna, anche se non penso che gli inglesi lo avrebbero accolto a braccia aperte, se avesse deciso di rifugiarsi lì. Di certo, non credo che lo abbiano nascosto i servizi segreti, questo mi parrebbe molto strano»

Carlo Bonini per “la Repubblica” il 6 Ottobre 2019.  Vincenzo Scotti, anni 86, il fu "Tarzan" della Dc un secolo fa e levatore della nuova classe dirigente Cinque stelle, è pimpante come un ragazzino. Lui e la sua Link Campus University sono al centro di un'esposizione planetaria. Che neanche Harvard, Columbia, Stanford o Cambridge, la fabbrica delle spie di sua Maestà la Regina. All' Università nel quartiere Aurelio fondata nel 2011, tra il 2016 e il 2018, in pieno cambio di stagione verso l'ignoto populista-sovranista, spie e aspiranti tali, ministri e aspiranti tali, boiardi e aspiranti tali, professori o presunti tali, parlamentari, facevano a spinte per un convegno, una lectio, un seminario. Tra questi, il professore maltese Joseph Mifsud. Il motore del "Russiagate".

E allora dove si nasconde Mifsud?

«A me lo chiede? Io l' ultima volta che l' ho visto è stata al bar del campus mentre parlava con un giornalista di Repubblica, prima che sparisse. Due anni fa».

Per gli americani lo state coprendo voi e gli uomini della nostra intelligence che lo hanno armato.

«Questa sciocchezza presupporrebbe che Mifsud sia una spia o un agente di influenza».

Non lo è?

«Parlava troppo per essere una spia. E se lo faccia dire da un uomo che ha attraversato un bel pezzo di storia, che ha fatto il ministro dell' Interno, che è stato nelle istituzioni in un certo modo, e che viene da una scuola politica rigorosa come quella Democrazia cristiana».

Allora chi è Mifsud?

«Un professore nato conservatore con amicizie tra i laburisti che, vista anche la sua esperienza come capo di gabinetto di un ministro degli Esteri maltese, esibiva un curriculum di prim' ordine, vantava una impressionante rete di relazioni, a cominciare da un' amicizia personale con Boris Johnson, e che è finito in questa storia per superficialità e credo una certa dose di millanteria».

Insegnava qui però.

«Ha tenuto dei seminari. Non c' è un solo lavoro a sua firma Mifsud nella nostra produzione accademica».

Era scarso?

«Quando ebbi modo di ascoltarlo non mi colpì mai per le sue riflessioni».

Gli pagavate una casa in via Cimarosa.

«In via Cimarosa abbiamo avuto un appartamento che usavamo come foresteria per i professori che arrivavano dall' estero. Lo ha usato anche lui».

Torniamo al ragionamento degli americani. Mifsud è alla Link. I vertici dei nostri Servizi presenziano a eventi della Link. Mifsud veicola all' uomo della campagna elettorale di Trump le informazioni sulle mail hackerate alla Clinton. La Link ha rapporti con i russi. La Link e i Servizi Italiani sono della partita.

Scotti ride.

Perché ride professore?

«E che devo fare? Le ho detto che ne ho viste tante. Capisco che il mondo oggi vada così. Manipolazione delle opinioni pubbliche attraverso disinformazione. In questa università vengono i dirigenti dell' Intelligence italiana a parlare di questioni accademiche. Non vengono gli operativi incaricati di raccogliere informazioni o arruolare agenti. Quanto ai russi, lo abbiamo spiegato noi quattro anni fa agli americani che esisteva una campagna globale di disinformazione russa e cinese. Pensi un po'».

E torna a ridere.

Francesco Grignetti per “la Stampa” il 18 ottobre 2019. Il Russiagate è passato per le sale ovattate dell' università Link Campus di cui è presidente Enzo Scotti, già ministro, riemerso nel 1999 come fondatore di quest' università italo-maltese che diventa italiana nel 2011. Lo scandalo lo investe in pieno, perché il professor Joseph Mifsud, maltese, è accusato dai circoli vicini a Trump di essere stato l' agente provocatore che da Roma, grazie alla Link Campus, ha dato il via a una complessa macchinazione contro l' allora candidato repubblicano.

Scotti, lei quando conosce Mifsud?

«Attorno al 2000. Era il direttore degli Affari internazionali dell' università di Malta. Successivamente è stato capo di gabinetto del ministro degli Esteri di Malta, rettore del consorzio universitario di Agrigento, professore ordinario all' università inglese di Stirling, in Scozia. Ma da noi non ha mai insegnato; non è stato un nostro professore».

Eppure eravate in stretti rapporti, tanto che nel 2013 aveva acquistato il 35% delle azioni della Link Campus International srl. Di che si tratta?

«Spiego subito: l' università si appoggia a una nostra società di gestione, la "Gem", che a sua volta ha diverse srl per i singoli aspetti. Siccome Mifsud si era proposto per reclutare studenti in giro per il mondo, e tutta l' attività internazionale passa per questa srl, pretese il 35% della società».

Era la sua provvigione, insomma. Funzionò?

«Poco. Mifsud aveva tutto l' interesse a dirottare gli studenti internazionali nella sua isola, non a Roma».

Lei ha definito Mifsud un «chiacchierone», certo non un profilo di 007, e nemmeno un gran docente.

«Me ne avevano parlato benissimo sia alla London School of Ecomics, sia alla Queen Mary. Università prestigiose. Nel 2016, in quanto "full professor" della Stirling, lo abbiamo invitato a tenere un corso da noi. Il poverino non ha fatto nemmeno una lezione, però, perché poi è scoppiato lo scandalo ed è sparito».

Lei sa dov' è?

«L' ultima volta che l' ho visto era qui al bar interno che dava un' intervista. Ho aspettato un po' che finisse, poi sono andato nel mio ufficio.

Da allora è scomparso senza un saluto. Più che a noi, di Mifsud dovreste chiedere in Gran Bretagna».

Lo ospitavate in un appartamento vicino ai Parioli.

«Una foresteria a disposizione per i professori stranieri. C' è stato lui come tanti altri. E' prassi di ogni università».

Gli davate forse, come benefit, anche dei telefonini? Lo chiedo perché il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha messo le mani su due suoi blackberry.

«Non lo so».

Il grande accusatore, tal George Papadopoulos, dice che la trappola è scattata qui, alla Link e che Mifsud glielo ha presentato lei.

«Pura invenzione. Questo Papadopoulos, che io non ricordo e non riconoscerei in ascensore, venne qui per un seminario di un giorno nel marzo 2016 con il "London Centre of International Law Practice", un accreditato centro studi. Era nello staff. E Mifsud era il suo capo, in quanto Direttore dell' International Strategic Development e membro del cda. E li avrei presentati io?».

Il tizio racconta che la trovò nel bel mezzo di un meeting con agenti dei nostri servizi e strana gente libica.

«Tutto da ridere. A parte che questo genere di cose qui alla Link Campus non si fanno, perché noi studiamo l' intelligence ma non formiamo gli operativi, ma vi pare verosimile che io apro la porta e faccio entrare uno sconosciuto londinese mentre organizzo trame internazionali?».

Papadopolous dice anche che Mifsud gli stava addosso e gli propose d' incontrare a Londra una presunta nipote di Putin. Sembra tanto la storia della nipote di Mubarak, o no?

Perché nessuno può fare dieci domande a Conte sul caso Mifsud. Salvini si morde la lingua per non attaccare Trump . Il Pd sviene per non attaccare il suo governo. E i giornali intanto ronfano. Ma la storia cresce ancora. Salvatore Merlo il 5 Ottobre 2019 su Il Foglio. “Noi dobbiamo solo restare fermi il più possibile”, arieggia un anonimo ex sottosegretario della Lega, sprofondato su una delle poltroncine del Transatlantico, “questa faccenda di Trump, Conte e i servizi segreti per noi è un cortocircuito”. Eppure Matteo Salvini scalpita, evoca il Copasir, vorrebbe consumare la sua vendetta su Giuseppe Conte, sul premier che avrebbe messo i vertici dei servizi segreti italiani nelle mani dell’Amministrazione americana per fare un favore personale a Donald Trump. Vorrebbe urlare, il capo della Lega, colpire duro, denunciare, ribaltare così la storia di Savoini e dei rubli, tirare un morso all’uomo che lo ha defenestrato dal Viminale. Ma l’unica cosa che in realtà il capo della Lega ha capito di poter mordere è la sua stessa lingua. Tanto che nella foga, tirando mozzichi all’aria, alla fine addenta soltanto la vecchissima storia del curriculum tarocco del premier, le parcelle, gli incarichi Rai e quelli da avvocato: “Ne risponda in Aula”. D’altra parte “cosa possiamo dire alla gente?”, si mette a ridere l’ex sottosegretario leghista. “Critichiamo Conte perché avrebbe aiutato Trump a delegittimare la Clinton? I nostri elettori risponderebbero dicendo che Conte ha fatto bene”. E così intorno a Conte si consuma un gioco paradossale e contraddittorio che è la fortuna di quest’uomo la cui parabola politica sfida la fisica e rimanda piuttosto alla fortuna, perché l’unica persona che avrebbe interesse a demolirlo, in realtà non può demolirlo, ma contemporaneamente anche quelli che avrebbero interesse a difenderlo, non possono difenderlo. Zingaretti, Franceschini, Orlando non possono far altro che turarsi le orecchie e cercare di addormentarsi, per non vedere, non sentire, non parlare… shhh. Ci sono le elezioni americane, le primarie tra gli amici democratici d’oltreoceano, cosa potrebbe mai fare il Pd: aiutare Giuseppe Conte a difendere quel “mostro” di Trump che cercava prove in Ucraina per screditare Joe Biden, cioè l’ex vicepresidente di Barack Obama? Meglio tacere, il più possibile, tra rossori e sollevamenti di sopracciglia, esitazioni e delicati eufemismi, mignoli alzati e gonne tirate giù per non scoprire le ginocchia. Un po’ come fa Repubblica, il giornale Agit-Prop della nuova sinistra grillopiddina, che ieri addirittura non pubblicava nemmeno un rigo su trentasei pagine a proposito delle notizie che nel frattempo riempivano i giornali americani, dal New York Times al Washington Post fino ai grandi siti d’informazione specializzata come Politico e Daily Beast. Fosse stato Silvio Berlusconi, ai bei tempi del conflitto d’interessi, a far incontrare i capi dei servizi segreti con un ministro di Erdogan all’ambasciata turca… altro che dieci domande sul Bunga bunga, altro che campagna giornalistica sul rapimento di Abu Omar (e lì si trattava di sicurezza nazionale, non di un’interferenza negli affari interni di un paese amico). Similmente, facendo violenza alla sua natura spavalda, nemmeno Matteo Salvini cerca di trascinare Conte sotto i riflettori, e d’altra parte cosa mai potrebbe denunciare: che anche Trump faceva parte dell’evanescente complotto ordito da Conte assieme al Pd, Mattarella e gli euroburocrati per far fuori la Lega dal governo? Salvini ha il coraggio e il cinismo della contraddizione, ha pure molta contundente fantasia, ma questo proprio non può farlo. E infatti non si rivolge alle piazze, evita l’argomento nei comizi in questi giorni di campagna elettorale in Umbria, ma chiede invece che il presidente del Consiglio parli al Copasir, al comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, che è un po’ come organizzare una partita di calcio a porte chiuse: niente pubblico, niente telecamere, niente microfoni. Un rito mirabilmente gratuito, una rincorsa che è pura rappresentazione, teatro. Così alla fine tutta questa faccenda stordente, questo universo incapace di esprimersi, afono, tra la museruola che Salvini si sta imponendo a fatica e l’imbarazzo cigolante della sinistra, questa condizione irreale per cui Conte non può essere né attaccato né difeso, appare come la metafora dell’ambivalenza assoluta del governo del Bisconte. Il suo vizio, e la sua forza. Insieme. Dell’incontro clandestino tra il ministro americano William Barr e i capi dei servizi segreti italiani mandati da Conte non resterà altro che confusione. E silenzio.

Salvatore Merlo. Milano 1982, giornalista. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.

Vincenzo Bisbiglia per il “Fatto quotidiano” il 17 ottobre 2019. Affitti arretrati per oltre 400mila euro e lavori di riqualificazione da 16 milioni previsti dal contratto e non ancora eseguiti. Il tutto a comporre un contenzioso milionario aperto su uno dei più importanti complessi edilizi di pregio di Roma. È guerra aperta fra la Sorgente Sgr - attualmente commissariata dalla Banca d' Italia - ramo del Sorgente Group che fa capo all' imprenditore romano Valter Mainetti e la Link Campus University , l'università privata fondata a Malta da Vincenzo Scotti, 86enne storico dirigente della Dc e sottosegretario dell' ultimo governo Berlusconi. Oggetto del contendere, il prestigioso Casale San Pio V, tenuta cinquecentesca del quartiere Gregorio VII , a due passi del Vaticano, passata di mano nei secoli dai Ghisleri ai Chigi per finire in tempi recenti nel patrimonio pubblico. Oggi, l'edificio realizzato dall' architetto fiorentino Nanni di Baccio Bigio è di proprietà dell' Ipab Sant' Alessio , organismo indipendente della Regione Lazio che si occupa di progetti di assistenza sanitaria a ciechi e ipovedenti, attraverso la valorizzazione del patrimonio pubblico di valore storico e culturale. Mission che negli anni ha avuto luci ed ombre, tanto da spingere la Regione Lazio, nel 2017, a "consigliare" il conferimento di gran parte di questi edifici - 528 immobili per un valore di 222 milioni di euro - a un fondo esterno. Questo doveva essere il fondo I3 già aperto dalla Regione presso Invimit, ma l'allora dg dell'Ipab, Antonio Organtini, preferì varare un avviso pubblico in seguito al quale venne incaricata Sorgente Group. Poco prima però, il 23 dicembre 2015 - su manifestazione d' interesse - era stata firmata una convenzione fra la Sant' Alessio e la Link Campus, che aveva permesso a Scotti di trovare una sede romana alla sua università per i successivi 25 anni. In cambio, la Link avrebbe dovuto corrispondere 2,5 milioni totali per i primi tre anni (in rate mensili da 70mila euro) e 1,2 milioni l' anno (100mila al mese) per i successivi. Soprattutto, l' università si era impegnata ad effettuare una "complessiva ristrutturazione dell'intero complesso immobiliare" per poco più di 16,5 milioni di euro. Un rapporto estremamente lineare, che però si è complicato negli anni a venire, a cavallo del passaggio dal bene dalla Ipab al fondo Sorgente Sgr. Nel programmare i lavori, l' ateneo fondato da Scotti ha rilevato delle irregolarità catastali in alcuni dei padiglioni più recenti - costruiti negli anni '50 del '900 - ed ha ottenuto dal fondo la sospensione del 10% del canone. Nel 2019 i rapporti s' inaspriscono. A gennaio la Banca d' Italia scioglie il cda di Sorgente Sgr e la sottopone ad amministrazione controllata, nominando come commissario straordinario l' architetto Elisabetta Spitz (ex ad di Invimit). La nuova gestione dispone verifiche approfondite su tutti i fondi presenti nella Sgr, iniziando una "caccia ai morosi" con contenziosi che spesso finiscono anche in tribunale. Fra le decine di pratiche avviate, c' è quella del fondo Ipab Sant' Alessio, con Link Campus che risulta indietro con i pagamenti del canone per una cifra che si aggira intorno ai 400mila euro; dagli stessi controlli, l' ateneo risulterebbe non aver ancora ottemperato ai lavori di "valorizzazione" per 16,6 milioni previsti nella convenzione. Le accuse hanno scatenato la reazione della Link Campus, che dice a sua volta di valutare lei "se attivare immediatamente il contenzioso col fondo S. Alessio gestito da Sorgente". Link denuncia "irregolarità catastali e urbanistiche tali da non rendere disponibili parti molto rilevanti del complesso immobiliare" che secondo l' ateneo è "stimato ad oggi in un importo superiore ai 6 milioni di euro", per i quali potrebbe addirittura esserci "il recupero dei danni patiti senza attendere la sanatoria". Per quanto riguarda i lavori di riqualificazione, invece, Link rivendica che "è stato già completato il 50% dei lavori previsti nel piano allegato all' atto di concessione" nonostante, recita la nota dell' università "i pregiudizi arrecati dalla presenza delle predette irregolarità". Sorgente Sgr aveva aperto nelle scorse settimane un tavolo di lavoro per la gestione del contenzioso con Link, che con le dichiarazioni arrivate ieri potrebbe però essersi rotto. Nelle ultime settimane, la Link University è già balzata alle cronache per diverse vicende. Innanzitutto, il presunto coinvolgimento nel Russiagate americano di un suo docente maltese, Joseph Mifsud, che nel 2016 avrebbe consegnato informazioni sensibili su Hillary Clinton a George Papadopoulos, all' epoca consigliere della campagna elettorale di Donald Trump; e poi per il presunto debito da 1,2 milioni di euro con Agenzia delle Entrate, mai saldato, che secondo il quotidiano La Verità avrebbe spinto lo stesso Scotti a presentare istanza di concordato preventivo. Nel corso degli ultimi anni l' ateneo privato - che oggi, in Italia, ha sede a Roma e a Napoli - ha ospitato gli studi di specializzazione di alcuni esponenti di primo piano del M5s, fra cui Luigi Di Maio e l' ex ministro della Difesa, Elisabetta Trenta.

Gianluca Di Feo per “la Repubblica” il 17 ottobre 2019. Nella partita a scacchi di spie e veleni del Russiagate giocata tra Washington e Roma c' è una nuova rivelazione destinata a fare clamore. Il Dipartimento di Giustizia americano avrebbe "di recente" messo le mani su due telefonini usati dal misterioso professore maltese Joseph Mifsud. Due Blackberry che potrebbero fare luce su tutte le relazioni pericolose intrecciate dal docente della Link University capitolina. E a guidare il Dipartimento di Giustizia è proprio William Barr, protagonista dei due discussi incontri con i vertici dell' intelligence italiana che saranno oggetto dell' audizione di Giuseppe Conte davanti al Copasir. La controinchiesta della Casa Bianca sembra accelerare, per contrastare l' avanzata dell' impeachment: una sfida decisiva per le sorti della presidenza. Donald Trump vuole dimostrare che le accuse contro di lui nascono da una trappola, preparata da servizi segreti europei con la complicità dell' Fbi e dell' amministrazione democratica. Ieri ha annunciato che Barr concluderà presto le sue indagini «sulla corruzione nelle elezioni del 2016», vagheggiando scenari senza precedenti: «Il complotto potrebbe arrivare fino a Obama». E poi davanti a Sergio Mattarella ha dichiarato: «L' Italia potrebbe essere coinvolta». Joseph Mifsud è sempre più l' uomo chiave dell' operazione imbastita dalla Casa Bianca. E martedì un' istanza processuale ha fatto emergere la vicenda dei due cellulari. L' hanno presentata i legali dell' ex generale Michael Flynn, primo consigliere per la sicurezza di Trump e primo degli uomini del presidente a dimettersi per l' istruttoria dell' Fbi sui rapporti con Mosca. Gli avvocati sostengono che si sia trattato di una macchinazione ordita da «agenti dei servizi segreti occidentali incaricati nel 2014 di trovare legami con russi da utilizzare poi per formulare accuse false».  E sono convinti di avere un asso nella manica, che scagionerà l' ex generale: i due Blackberry, di cui indicano numeri di serie e di scheda, in grado di svelare la rete di contatti del professore maltese. L' avvocato Sydney Powell ha messo nero su bianco che i cellulari sono stati «di recente acquisiti dal Dipartimento di Giustizia». Come abbiano fatto i funzionari di Barr a ottenerli è top secret. Il procuratore generale nominato da Trump negli scorsi mesi ha fatto il giro delle capitali coinvolte nella controinchiesta: Sydney, Londra e Roma. Ma è proprio sull' Italia che si concentra l' attenzione delle indagini presidenziali. Con il sospetto che Mifsud, scomparso da più di un anno, sia stato protetto da parte dei nostri apparati di sicurezza. L' ultimo a vederlo è stato l' avvocato svizzero Stephan Roh, azionista dell' università privata romana: «Mi ha detto che nell' ottobre 2017 il capo dei servizi segreti italiani avrebbe contattato il presidente della Link University Vincenzo Scotti e gli avrebbe raccomandato di far sparire il professore e tenerlo per un po' di tempo in un luogo sicuro». Scotti ha smentito, ma la frase è finita nel dossier di Barr. Adesso la difesa dell' ex generale Flynn ingigantisce la figura di Mifsud, trasformandolo nel pilastro dell' intero Russiagate. Ipotizza che non si sia limitato a offrire al giovane consigliere di Trump George Papadopoulos le mail di Hillary Clinton rubate dai russi, ma abbia anche rivelato all' Fbi la cena moscovita di Flynn alla presenza di Vladimir Putin nel 2015: un elemento decisivo nel provocare le dimissioni dalla Casa Bianca, con la contestazione di avere mentito ai detective federali. Per corroborare questa ricostruzione, i legali hanno domandato al Dipartimento di William Barr l' accesso a tutte le relazioni del Federal Bureau of Investigation, inclusi i brogliacci in cui vengono sintetizzati i colloqui con gli informatori. L' obiettivo è chiaro: provare che Mifsud non stava lavorando per il Cremlino, ma era un agente provocatore che doveva fare finire nei guai i collaboratori di Trump. E che si muoveva agli ordini di 007 europei, avvisando contemporaneamente l' Fbi: una manovra internazionale per stroncare l' ascesa del businessman alla Casa Bianca. Credibile? Di sicuro Trump andrà avanti a ogni costo. Ed è difficile valutare l' impatto della sua determinazione sugli equilibri politici romani. La prossima settimana il premier Conte si presenterà al Copasir guidato dal leghista Raffaele Volpi. Palazzo Chigi sostiene di avere agito correttamente nell' autorizzare gli incontri tra Barr e i capi della nostra intelligence. Summit in cui agli americani non sarebbe stato consegnato nulla. La linea degli apparati di sicurezza è netta: Mifsud era un faccendiere con cui non hanno mai avuto rapporti. Agli investigatori della Casa Bianca però non sono sfuggite le costanti presenze di alti dirigenti dei nostri 007 alla Link University, così come la provenienza dall' ateneo di ministri e sottosegretari pentastellati del primo governo Conte. Ma nel mirino degli americani ci sono soprattutto le frequentazioni di Mifsud con esponenti del Pd, che guidava l' esecutivo quando il professore agganciava gli uomini del futuro presidente. Un labirinto all' italiana, che rischia di venire sconvolto dalla brama di rivalsa dell' uomo più potente del mondo.

Simone Di Meo per “la Verità” il 7 novembre 2019. C' è la Guardia di finanza di Roma a indagare sul bonifico «fantasma» alla Global education management srl (Gem), la cassaforte della Link campus university, rivelato ieri dal nostro giornale. Nove milioni di euro che, secondo l' amministratore della società Vanna Fadini, dovevano arrivare da Malta sotto forma di aumento di capitale della Gem ma che, in realtà, non sono mai stati accreditati sui conti. La mossa della manager di annunciarli al direttore della banca il 5 marzo 2018, il giorno dopo le elezioni politiche in cui hanno trionfato i 5 stelle, ha fatto scattare una segnalazione di operazione sospetta all' unità di informazione finanziaria di Bankitalia che ha trovato il suo più immediato e facile riscontro nell' assenza, nel capitale sociale della Gem, della sigla maltese che avrebbe partecipato all' operazione, la Suite finance scc plc. Compagine che viene citata nei Paradise Papers, l' elenco di investimenti offshore nei paradisi fiscali finiti nel mirino del consorzio internazionale dei giornalisti investigativi, e che si occupa non già di alta formazione universitaria ma di «emissione di titoli garantiti» per «cartolarizzazioni». I soci della Suite finance scc plc sono due italiani, Simone Rossi e Gabriele Carratelli. Il primo è un mediatore creditizio umbro con pregiudizi di conservatoria e fallimenti. Il secondo, invece, è un imprenditore romano attivo in diversi campi dall' immobiliare al food. Nel 2014, una delle sue aziende - la Luxury homes srl - è stata sottoposta ad attività ispettiva dalle Fiamme gialle e segnalata per violazione degli obblighi di contabilità, Irap, Iva dovuta, imposta sui redditi della società e sommerso d' azienda. Dai conti della Gem, che per statuto si occupa di «attività di supporto all' istruzione», sono stati movimentati, tra il 2017 e il 2018, circa 2,5 milioni di euro con diversi bonifici in uscita verso due società in cui la stessa Fadini è consigliere, la Link campus university (attiva nel campo della «istruzione universitaria e post universitaria; accademie e conservatori») e la fondazione Link campus (l' ateneo vero e proprio), e verso un' altra di cui la donna è invece amministratore, la Link international srl («Istruzione post secondaria universitaria e non universitaria»). In quest' ultima, compare tra i soci (con il 35%) proprio Joseph Mifsud, il misterioso docente maltese che avrebbe raccontato all' entourage di Donald Trump delle scorribande degli hacker russi nei server di posta elettronica di Hillary Clinton, prima delle presidenziali del 2016. Di Mifsud si sono perse le tracce ormai da due anni. Secondo una fonte interpellata dalla Verità, ci sarebbe stato il suo zampino anche nel piano di aumento di capitale. «Alla Link erano in attesa di soldi russi in arrivo da Malta», ha spiegato al nostro giornale un ex docente. «Si diceva che forse Mifsud fosse coinvolto anche in questa storia». «Non erano finanziamenti dell' università Lomonosov, con cui c' era una collaborazione accademica, ma denari di qualche gruppo imprenditoriale russo». Una triangolazione su cui starebbe lavorando la stessa guardia di finanza della Capitale, secondo quanto risulta alla Verità. Alle Fiamme gialle, in relazione all' aumento di capitale della Gem da 18 a 27 milioni di euro, non sarebbe sfuggito che le attività imprenditoriali di Gabriele Carratelli non giustificano in alcun modo la disponibilità finanziaria necessaria per un simile investimento tanto più in un settore così lontano dal core business della Suite finance scc plc. Possibile dunque che il soggetto interessato a finanziare la Global education management srl, e suo tramite la Link, fosse un terzo, sospettano gli investigatori. Al nostro giornale, Carratelli ha affidato uno scarno commento sulla transazione definendola «non fattibile» in quanto mancante dei «presupposti», malgrado lui stesso avesse partecipato a un' assemblea dei soci della Gem nell' aprile 2018 per esprimere il proprio «impegno a procedere [] entro breve termine» alla conclusione dell' accordo così come auspicato dalla Fadini. La manager, originaria di Ferrara, insegue l' allargamento della platea dei soci della Gem già dal 2017. Periodo in cui l' Agenzia delle entrate propone istanza di fallimento per la Link campus società consortile a responsabilità limitata per 1,2 milioni di euro. Si tratta della vecchia società poi trasformatasi in fondazione che, a partire dal 2005, aveva accumulato tasse e imposte non pagate e collezionato cartelle esattoriali e atti impositivi. Come rivelato dal nostro giornale, nelle scorse settimane, l' ex ministro Dc Vincenzo Scotti, per conto della fondazione Link campus - università di Malta, ha presentato al tribunale di Roma una richiesta di concordato preventivo finalizzata a neutralizzare la procedura concorsuale e a presentare un piano di ristrutturazione dei debiti da sottoporre ai creditori. Intanto, c' è da registrare l' annuncio della Gem di voler «agire nelle competenti sedi giudiziarie per la tutela dei propri diritti» in relazione all' articolo del nostro giornale di ieri. Peccato che, dopo aver cercato inutilmente di ottenere un colloquio telefonico con la Fadini, avevamo inviato una mail con precise domande a cui non è mai stata data risposta. La formula dei quesiti scritti era stata caldeggiata anche dal rettore della Link, Vincenzo Scotti, che ci aveva evangelicamente suggerito: «Le è stato chiesto: mandi le domande e le sarà risposto». 

Giacomo Amadori e Antonio Grizzuti per ''La Verità'' l'8 novembre 2019. Lo scoop della Verità sul bonifico fantasma da 9 milioni che sarebbe dovuto arrivare sui conti della Global education management (la cassaforte della Link campus university) e su cui indaga la Guardia di finanza, ha attirato l' attenzione di uno dei protagonisti del Russiagate, l'avvocato Stephan Claus Roh. Il legale assiste il controverso professore Joseph Mifsud a cui le autorità statunitensi hanno sequestrato i cellulari. Mifsud è sospettato di aver gestito la polpetta avvelenata delle mail di Hillary Clinton alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2016. Qualcuno dice che abbia usato quell' esca per danneggiare la Clinton, qualcun altro che l' abbia utilizzata, con l' aiuto dei servizi segreti e del governo italiano, per affossare Donald Trump. Dovunque si trovi la verità, l' attenzione dei media internazionali è stata calamitata dalla piccola università privata Link, l' ateneo romano in cui sono di casa 007 ed esperti di intelligence di tutto il mondo. Per diversi anni Mifsud è stato un assiduo frequentatore Link e addirittura è diventato socio con il 35% delle quote della Link international. Nei giorni abbiamo scritto che, secondo un ex docente della Link, dentro all' ateneo girava voce che quei 9 milioni dovessero arrivare dalla Russia. Quel che è certo è che il 5 marzo 2018, dopo le elezioni nazionali in cui hanno trionfato i 5 stelle, l' amministratrice della Gem, Vanna Fadini, aveva annunciato in banca l' arrivo di un bonifico da 9 milioni dalla Suite finance di Malta, società segnalata nei Paradise papers, la lista nera degli investitori offshore redatta dal consorzio internazionale di giornalismo investigativo. L' operazione, mai conclusa, è stata segnalata all' unità di informazione finanziaria della Banca d' Italia e successivamente trasmessa alla Guardia di finanza. La nostra inchiesta ha suscitato anche l' attenzione di Roh, che della Gem è socio al 5% e che compare in un verbale di assemblea dell' agosto 2018 in cui si discusse di aumento di capitale. «Ho controllato con il mio team e con una fonte interna della Link. Non ha senso che l' investimento promesso provenisse dalla Russia. L' accordo con Suite Finance è stato firmato nel 2017, quindi il finanziamento è stato promesso ben prima che 5 stelle salissero al potere nel 2018. Anche l' accusa che entrambi gli eventi siano collegati è una sciocchezza». In realtà noi abbiamo solo rilevato che l' annuncio in banca del bonifico, con relativa segnalazione all' ufficio Antiriciclaggio, secondo le nostre fonti, sarebbe avvenuto il 5 marzo, il giorno dopo il trionfo dei grillini. Ma passiamo alla parte più interessante delle dichiarazioni di Roh: «Scotti (Vincenzo, ex ministro, fondatore e presidente della Link, ndr) disse che i soldi attesi provenivano da fonti ucraine. Lo stesso è stato confermato dalla mia fonte dentro alla Link. Scotti è parte del patto con Suite Finance, conosce perfettamente lo scenario». Roh evidenzia che anche Mifsud, con cui ha ottima familiarità, aveva portato a casa con successo finanziamenti a favore della Link, come quello da parte della famiglia saudita Obaid. «Mifsud è più legato all' Ucraina che alla Russia... la stampa ha riferito che ha una compagna e un bambino in Ucraina e che è andato spesso lì. Mifsud ha negato di avere un bambino, ma ha confermato che stava viaggiando in Ucraina e stava aiutando la Link a trovare finanziamenti, essendo stato direttore internazionale della Link nel 2016-2017». Ovviamente la pista ucraina cambia radicalmente la prospettiva. Ricordiamo che in questo momento negli Usa i democratici hanno chiesto l' impeachment di Trump perché questi avrebbe contattato l' omologo di Kiev, Volodymyr Zelensky, facendo pressioni affinché guidasse un' indagine sul candidato democratico Joe Biden. A scovare la notizia, dando vita al cosiddetto Ucrainagate, sarebbe stato un agente della Cia, Eric Ciaramella. Uno 007 che, come abbiamo scritto nei giorni scorsi, era ospite proprio di Biden al pranzo di gala organizzato in onore di Matteo Renzi nell' ottobre 2016. Ma che cosa c' entra Joe con Kiev? L' ex braccio destro di Barack Obama (sospettato da una delle vulgate di questa spy story di aver armato Mifsud contro Trump) ha un figlio che si chiama Hunter. Nel 2014 il ragazzo, consulente legale, lobbista e manager, entra nel consiglio di amministrazione di Burisma holdings, la più grande compagnia ucraina di gas naturale. A capo di Burisma c' è Mykola Zlochevsky, imprenditore ucraino già ministro dell' Ecologia e delle risorse naturali tra il 2010 e il 2012 ai tempi del presidente filorusso Viktor Yanukovych, deposto nel febbraio 2014 e sostituito dall' obamiano Petro Poroshenko. Mentre il figlio fa affari, Biden è il membro dell' amministrazione Obama più impegnato in Ucraina durante la crisi politica con la Russia. Un' attività diplomatica rinforzata dalla promessa di 1 miliardo di aiuti a stelle e strisce. Anche grazie a questa leva, il governo americano o quanto meno l' ambasciata Usa pone come condizione le dimissioni del procuratore generale dell' Ucraina Viktor Shokin. Per i sostenitori di Biden l' aut aut andrebbe ricondotto alla scarsa dirittura morale del magistrato, troppo morbido con la corruzione (versione corroborata dalle accuse del vice di Shokin, Vitaly Kasko). Shokin avrebbe invece rivelato all' avvocato di Trump, Rudolph Giuliani, di essere stato licenziato proprio perché stava indagando su Burisma. Insomma l' Ucraina nella guerra di spie che sta destabilizzando il governo statunitense non è un Paese secondario. Ma che cosa c' entra con la Link? Abbiamo provato a chiederlo a Scotti, riferendogli quanto affermato da Roh: «Finanziamenti dall' Ucraina? Ma non dica stupidaggini. Ambasciator porta pena. Con voi non parlo di queste cose. Adesso arriverà dalla società (la Gem, ndr) una richiesta di danno notevole». Ma noi facciamo solo delle domande. «E io dico che non rispondo di queste cose.

La Suite finance non ha fatto nessuno accordo con me per l' aumento di capitale, smentisco totalmente questa cosa». Ci hanno detto che uno dei titolari, Simone Rossi, l' avrebbe incontrata durante la trattativa. «Ho conosciuto Rossi, ma che cosa c' entra? La Gem si occupa dei servizi dell' università, è normale che fossi interessato al buon esito dell' operazione». L' avvocato Roh ha detto che lei avrebbe fatto riferimento a fondi ucraini: «Ha detto una cosa totalmente falsa».

Veleni e sospetti, così tra gli 007 torna la tensione per il «caso Mifsud». Pubblicato sabato, 09 novembre 2019 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. Le dichiarazioni dell’avvocato Roh e il timore di nuovi elementi nel rapporto Barr. Ci sono rivelazioni, messaggi più o meno criptati e una serie di avvertimenti nelle dichiarazioni rilasciate dall’avvocato Stephan Roh sul Russiagate. E tanto basta per far fibrillare i servizi segreti italiani. Perché al momento — come sempre accade nelle guerre tra spie — nessuno è in grado di certificare l’attendibilità delle informazioni veicolate dal legale di Joseph Mifsud parlando con l’Adnkronos e con La Verità. Ma il fatto che lui abbia a disposizione numerose mail inviate e ricevute nel corso degli ultimi tre anni sul ruolo nella vicenda dell’università Link Campus e soprattutto la registrazione della deposizione rilasciata dal docente maltese e consegnata al procuratore americano John Durham, fa ben comprendere quali ripercussioni potrà avere nel nostro Paese. Secondo la versione ufficiale, confermata dal presidente Giuseppe Conte al Copasir, il 17 giugno scorso il ministro della Giustizia americano William Barr chiese di poter incontrare i capi dell’intelligence e ottenne il via libera. Barr sta svolgendo un’inchiesta per dimostrare che Donald Trump non ha tramato contro Hillary Clinton durante la campagna elettorale del 2016, ma è invece vittima di un complotto dei democratici e di alcuni servizi segreti europei per dimostrare che era appoggiato da Mosca. E ritiene che Mifsud abbia agito da agente provocatore quando ha offerto le mail della Clinton in mano ai russi. «I nostri servizi sono estranei alla vicenda», ha dichiarato il presidente del Consiglio il 23 ottobre scorso cercando di chiudere il caso. Una partita che l’avvocato Roh sembra invece determinato a riaprire, forse nella speranza di ottenere vantaggi per sé e per il proprio assistito. Il professore scompare il 31 ottobre 2017 dopo un incontro avvenuto alla Link. In realtà le movimentazioni della sua carta di credito — pubblicate una decina di giorni fa dal Foglio — dimostrano che sarebbe rimasto nel nostro Paese fino a ottobre 2018. Roh sostiene adesso che è stato in una casa messa a disposizione da persone della Link a Matelica, nelle Marche, fino alla fine del 2017, e racconta di altri viaggi successivi in Italia: «Usava una carta di identità italiana a nome Joseph Di Gabriele, credo fosse il cognome della madre. Me la mostrò, l’ho vista con i miei occhi». Dopo aver incontrato a Ferragosto il ministro Barr, il direttore del Dis Gennaro Vecchione ha chiesto ai capi delle agenzie di svolgere accertamenti e risulta che siano stati effettuati numerosi controlli proprio sulle auto, sulle carte di credito e su altri movimenti effettuati da Mifsud. Verifiche di cui si è parlato nella successiva riunione «allargata» convocata al Dis il 27 settembre successivo e alla quale partecipò anche Durham. Durante la sua audizione al Copasir del 29 ottobre scorso, Vecchione ha assicurato che nulla è stato trovato. Possibile che Mifsud — inseguito dai servizi segreti di svariati Paesi — si sia mosso in Italia senza lasciare tracce? Oppure le informazioni sono state consegnate a Barr in via riservata? Roh sostiene che «uno dei capi di una agenzia italiana di servizi segreti contattò Vincenzo Scotti nel periodo in cui scoppiò lo scandalo e si raccomando che Mifsud sparisse». Non fa nomi, non aggiunge altri dettagli, ma conferma che numerosi elementi sono nella registrazione della «deposizione» di Mifsud consegnata al procuratore Durham. E «altre cose sono state dette a registratore spento». Per questo le sue parole suonano come un avvertimento rispetto al ruolo del 007 italiani che potrebbe essere noto nelle prossime settimane. Inserito nel rapporto finale di Barr, oppure — ed è questo a rendere ancor più inquietante la vicenda — utilizzato per trattative sottobanco.

Fiorenza Sarzanini per il Corriere della Sera il 10 novembre 2019. Ci sono rivelazioni, messaggi più o meno criptati e una serie di avvertimenti nelle dichiarazioni rilasciate dall' avvocato Stephan Roh sul Russiagate. E tanto basta per far fibrillare i servizi segreti italiani. Perché al momento - come sempre accade nelle guerre tra spie - nessuno è in grado di certificare l'attendibilità delle informazioni veicolate dal legale di Joseph Mifsud parlando con l' Adnkronos e con La Verità . Ma il fatto che lui abbia a disposizione numerose mail inviate e ricevute nel corso degli ultimi tre anni sul ruolo nella vicenda dell' università Link Campus e soprattutto la registrazione della deposizione rilasciata dal docente maltese e consegnata al procuratore americano John Durham, fa ben comprendere quali ripercussioni potrà avere nel nostro Paese. Secondo la versione ufficiale, confermata dal presidente Giuseppe Conte al Copasir, il 17 giugno scorso il ministro della Giustizia americano William Barr chiese di poter incontrare i capi dell' intelligence e ottenne il via libera. Barr sta svolgendo un' inchiesta per dimostrare che Donald Trump non ha tramato contro Hillary Clinton durante la campagna elettorale del 2016, ma è invece vittima di un complotto dei democratici e di alcuni servizi segreti europei per dimostrare che era appoggiato da Mosca. E ritiene che Mifsud abbia agito da agente provocatore quando ha offerto le mail della Clinton in mano ai russi. «I nostri servizi sono estranei alla vicenda», ha dichiarato il presidente del Consiglio il 23 ottobre scorso cercando di chiudere il caso. Una partita che l' avvocato Roh sembra invece determinato a riaprire, forse nella speranza di ottenere vantaggi per sé e per il proprio assistito. Il professore scompare il 31 ottobre 2017 dopo un incontro avvenuto alla Link. In realtà le movimentazioni della sua carta di credito - pubblicate una decina di giorni fa da Il Foglio - dimostrano che sarebbe rimasto nel nostro Paese fino a ottobre 2018. Roh sostiene adesso che è stato in una casa messa a disposizione da persone della Link a Matelica, nelle Marche, fino alla fine del 2017, e racconta di altri viaggi successivi in Italia: «Usava una carta di identità italiana a nome Joseph Di Gabriele, credo fosse il cognome della madre. Me la mostrò, l' ho vista con i miei occhi». Dopo aver incontrato a Ferragosto il ministro Barr, il direttore del Dis Gennaro Vecchione ha chiesto ai capi delle agenzie di svolgere accertamenti e risulta che siano stati effettuati numerosi controlli proprio sulle auto, sulle carte di credito e su altri movimenti effettuati da Mifsud. Verifiche di cui si è parlato nella successiva riunione «allargata» convocata al Dis il 27 settembre successivo e alla quale partecipò anche Durham. Durante la sua audizione al Copasir del 29 ottobre scorso, Vecchione ha assicurato che nulla è stato trovato. Possibile che Mifsud - inseguito dai servizi segreti di svariati Paesi - si sia mosso in Italia senza lasciare tracce? Oppure le informazioni sono state consegnate a Barr in via riservata? Roh sostiene che «uno dei capi di una agenzia italiana di servizi segreti contattò Vincenzo Scotti nel periodo in cui scoppiò lo scandalo e si raccomando che Mifsud sparisse». Non fa nomi, non aggiunge altri dettagli, ma conferma che numerosi elementi sono nella registrazione della «deposizione» di Mifsud consegnata al procuratore Durham. E «altre cose sono state dette a registratore spento». Per questo le sue parole suonano come un avvertimento rispetto al ruolo degli 007 italiani che potrebbe essere noto nelle prossime settimane. Inserito nel rapporto finale di Barr, oppure - ed è questo a rendere ancor più inquietante la vicenda - utilizzato per trattative sottobanco. 

Marco Liconti per adnkronos.com il 9 novembre 2019. "Credo che Mifsud sia ancora vivo, lo era almeno fino alla scorsa primavera. So che si nascondeva perché temeva per la propria vita, so anche che qualcuno l’ha obbligato a nascondersi. Mifsud doveva sparire, perché poteva compromettere tutta l'indagine di Mueller contro Trump…”.

L'INCONTRO CON STEPHAN ROH - A parlare è Stephan Roh, l'avvocato svizzero che dal maggio del 2018 ha ricevuto dal professor Mifsud il "mandato" a rappresentarlo. L'Adnkronos lo ha incontrato nel suo ufficio di Zurigo, a pochi passi dalla centralissima Bahnhofstrasse, la via dello shopping e del cuore bancario nella Paradepltaz. Una lunghissima chiacchierata nella quale l’avvocato Roh ricostruisce la sua verità (e quella del suo assistito Mifsud) sul Russiagate, diventato poi Spygate nella sua accezione italiana. Roh dice le stesse cose riportate oggi dalla Verità, il quotidiano di Maurizio Belpietro.

I VERTICI DELLA LINK - Con l’Adnkronos ne aggiunge di altre e più pesanti, che sono ovviamente tutte da verificare. Per questo abbiamo chiesto direttamente ai vertici della Link – tirata in ballo dal legale elvetico - di chiarire ogni dettaglio delle rivelazioni di Roh, il difensore del protagonista del Russiagate sparito nel nulla. I vertici dell’ateneo ci hanno ricevuto negli uffici dell’università romana e ci hanno messo a disposizione carte ed email. Era presente ovviamente anche l’ex ministro Scotti, presidente della Link. Questa che segue è la storia segretissima del Russiagate, raccontata dai diretti interessati. IL NASTRO E LA TRASCRIZIONE - Ma prima di mettere a confronto le due versioni in possesso dell’Adnkronos, diametralmente opposte e contrastanti, va ricordato che è stato proprio il legale svizzero – a detta dello stesso – a consegnare al procuratore John Durham, (incaricato dall'attorney general William Barr di 'indagare sull'indagine' del Russiagate) il famoso nastro nel quale sarebbe contenuta la "deposizione" di Mifsud e nella quale il professore maltese direbbe “molte cose". Insieme al nastro sarebbe stata consegnata anche una "trascrizione" delle parole registrate da Mifsud proprio in quest’elegante studio legale nel maggio dello scorso anno, nell'arco di tre giorni, durante il weekend della Pentecoste. Una parte di questa trascrizione, consegnata dall’avvocato Roh all’Adnkronos, verrà resa pubblica fra qualche minuto. "E' allora che ho ricevuto il mandato da Mifsud", spiega Roh. Ma oltre a quanto raccontato davanti a un microfono, secondo il legale Mifsud avrebbe rivelato anche altre cose, a registratore spento. "Era devastato, un uomo completamente diverso da quello che avevo conosciuto. Temeva per la sua vita". Mifsud, ci dice ancora Roh, giunse a Zurigo in treno, proveniente dall'Italia. "Poi, lo abbiamo riaccompagnato al treno che lo riportava in Italia". La consegna della registrazione audio al procuratore Durham, afferma Roh, è avvenuta il 26 luglio di quest'anno. A seguire, nastro e trascrizione sarebbero stati consegnati il 30 luglio dall'avvocato svizzero anche al Senato Usa, e il 1 agosto alla Camera dei Rappresentanti, in particolare al deputato repubblicano David Nunes. Oltre che con Durham, Roh riferisce all’Adnkronos di aver parlato anche con diversi "congressmen" Usa.

IL VIAGGIO IN ITALIA - Come è ormai noto, la contro-indagine condotta da Durham su mandato del ministro della giustizia statunitense Barr, e che ha tra i suoi obiettivi anche fare chiarezza sul il ruolo di Mifsud, ha portato l'attorney general e il procuratore del Connecticut in Italia in due occasioni, il 15 agosto e il 27 settembre, come peraltro confermato al Copasir e poi pubblicamente dal premier Giuseppe Conte. Ma qui, sempre a detta dell’avvocato, i fatti sarebbero andati in modo diverso. "Durham ha fatto ascoltare quella registrazione in Italia. La registrazione richiedeva spiegazioni da parte degli italiani", sostiene Roh, anche se la nostra intelligence proprio all’Adnkronos ha negato con decisione questa circostanza. "Gli americani non ci hanno fatto sentire nulla", fu la precisazione stizzita degli 007 italiani.

L'INTERROGATORIO DI ROH - In una vicenda che tra verità ufficiali, mezze verità, smentite e ricostruzioni fantasiose rischia a volte di far deragliare il racconto giornalistico verso la pericolosa strada del depistaggio, va ricordato che al pari di quella di Mifsud, la figura di Roh è stata messa in discussione in varie ricostruzioni giornalistiche. C'è chi collega l'avvocato svizzero a oligarchi e interessi russi. ("le mie connessioni intime con la Russia? solo con mia moglie, che è russa", risponde ridendo”). Quel che è certo è che Roh è stato anche interrogato "per ore" nell'ottobre del 2017, in occasione di un viaggio negli Stati Uniti, dagli investigatori che facevano parte del team del procuratore speciale Robert Mueller, a capo dell'indagine sul Russiagate. "Ma non mi hanno fatto nessuna domanda su Mifsud", ricorda. La circostanza è riferita anche nel libro che Roh ha pubblicato a sue spese per raccontare la sua versione del Russiagate, libro dal titolo è eloquente, "The faking of Russiagate - the Papadopoulos case". Nella quarta di copertina si legge: "Questo libro parla del più grande scandalo politico dei nostri tempi. Questo libro racconta la storia della lotta del presidente Usa Barack Obama e della campagna presidenziale democratica di Hillary Clinton contro Donald Trump. E' la storia di come il governo Usa abbia manipolato il processo elettorale democratico". Insomma, il punto di vista di Roh sul Russiagate è chiaro.

LA "SCALATA" ALLA LINK - Nel libro, l'avvocato svizzero si descrive, tra l'altro, come "a capo di ILS Energy, IILS Publishing, dello Studio legale Roh, di R&B Investment Group". Tra i suoi settori di investimento, c'è anche quello in ambito universitario. Indiscrezioni circostanziate raccolte dall’Adnkronos negli ambienti della Link Campus University, l'università romana alla quale era legato Mifsud, ritengono invece che Roh, che è socio al 5% della Global Education Management srl (Gem), la società di gestione della Link, punti soprattutto a sollevare un polverone sui presunti risvolti italiani del Russiagate, per prendere il controllo dell'ateneo fondato e presieduto da Vincenzo Scotti. L’ingresso di Roh nella Gem, hanno spiegato all’Adnkronos i vertici della Link, avvenne in condizioni particolari, in base a un accordo che scadeva alla fine del 2016, del quale abbiamo preso visione. All’avvocato svizzero venne ceduto il 5% delle quote della Gem al prezzo di favore di 250mila euro, in cambio del suo impegno a trovare investitori internazionali per l’ateneo. Investitori che non si sono mai materializzati. Di qui la richiesta della Gem a Roh di restituire le sue quote al prezzo iniziale. Richiesta che l’avvocato ha finora sempre respinto.

I LEGAMI TRA ROH E MIFSUD - Ma torniamo a Roh e al suo racconto all'Adnkronos nello studio di Zurigo a metà via tra la stazione centrale e il grande lago. "Dalla lunga discussione con Durham al telefono ho avuto l'impressione che non fosse contrariato da quanto aveva raccolto nella sua indagine, anche in Italia". Quanto alla fine che possa aver fatto il suo assistito, Roh dice d’averlo chiesto al procuratore americano. "Gli ho chiesto se lo avesse incontrato, in Italia. Mi ha risposto che anche se lo avesse incontrato, non me lo avrebbe detto. Ma parlando con Durham ho ricavato l'idea che Joseph sia ancora vivo, lo spero davvero. Credo che i suoi movimenti siano ora più ristretti. Non può comunicare come prima. E poi credo che anche lui (Durham, ndr) sia dell'idea che Joseph Mifsud, l’introvabile Mifsud, non sia un agente russo…". Sicuramente, ricostruisce Roh, Mifsud era certamente vivo nella primavera di quest'anno. "Ho avuto contatti indiretti con lui tramite la sua famiglia. Sempre in primavera, una sua amica ha avuto un contatto diretto con lui e mi ha detto che era in Italia, a Roma. Personalmente, l'ultimo contatto diretto che ho avuto con lui è stato alla fine dello scorso anno". Occorre ora aprire una parentesi per spiegare, almeno secondo quanto riferisce Roh all’Adnkronos, la genesi e lo sviluppo dei rapporti tra l'avvocato svizzero e il professore maltese. "Ci hanno descritto come soci, ma non è vero. Ho conosciuto Mifsud la prima volta diversi anni fa, in Bahrein, in occasione di una conferenza. Nel 2006 mi invitò a Roma per partecipare ad un convegno del Senato italiano, ma non andai". Un'altra tappa del rapporto tra Roh e Mifsud, ricorda l’avvocato, è il 2014. "Lo incontrai ad una conferenza alla London Academy of Diplomacy (dove Mifsud insegnava, ndr) e lì incontrai anche diverse personalità dell'intelligence britannica".

LA PRIMA VISITA DI ROH ALLA LINK - Sempre nel 2014, Roh su invito di Mifsud fa la sua prima visita alla Link, nella vecchia sede di via Nomentana. La circostanza è confermata all’Adnkronos anche da Pasquale Russo, direttore generale della Link. Poi, prosegue l’avvocato, ”a fine 2015 Mifsud mi disse di venire alla Link University, dove mi aveva già invitato in precedenza. Mi mostrarono il Casale (l’attuale sede dell’ateneo, in via del Casale di S. Pio V a Roma, ndr)”. Anche questa circostanza è confermata dalla Link. "C’era un grande potenziale di sviluppo -continua Roh - loro avevano bisogno di soldi, ma anche di entrature a Mosca. Volevano stipulare un accordo con l'Università statale Lomonosov di Mosca, pensai che era un'idea brillante". Ne abbiamo chiesto conferma alla Link. "Il professor Mifsud faceva viaggi per conto suo in cui provava a proporci accordi con altre università, perché era nostro interesse portare qui altri studenti stranieri, come è interesse di tutte le università - spiega il direttore generale della Link Russo - in quel periodo lui ci propose l’accordo con la London School of Economics, quello con la Stirling University, dove lui lavorava, e altri accordi, tra cui anche quello con la Lomonosov. Accordi tutti stipulati. Mifsud faceva gli stessi accordi anche per altre università con cui lavorava, perché Mifsud lavorava per tantissime altre università”.

I VIAGGI IN RUSSIA - Ed è così, che "tra il 2016 e il 2017", racconta ancora Roh, "su istruzioni e supervisione di Scotti", l'avvocato svizzero e il professore maltese hanno “effettuato alcuni viaggi in Russia", per lavorare all'accordo di collaborazione con la Lomonosov e "altre istituzioni". A Mosca, osserva Roh, Mifsud "era perso, non aveva alcun vero contatto di alto livello". Che i contatti con l’università Lomonosov di Mosca e altre istituzioni internazionali siano avvenuti "su istruzioni e supervisione di Scotti", l’avvocato si dice certo. E come riscontro all’Adnkronos fornisce diverse email che stampa direttamente dal suo pc. Un carteggio tra lo stesso Scotti, Mifsud, Roh e altri dirigenti della Link che a detta dell’avvocato elvetico non lascerebbero dubbi, rispetto alla totale presa di distanze dal professore maltese, assunta dall'ateneo romano dopo lo scoppio del Russiagate-Spygate. L’avvocato Roh si sofferma in particolare, in una mail datata 20 dicembre 2016 e inviata da Scotti a Mifsud e allo stesso Roh, dove il presidente della Link scrive: "Carissimi, ieri sera ho incontrato a Roma l'ambasciatore italiano a Mosca, Ragaglini, già rappresentante italiano alle Nazioni Unite. Abbiamo parlato dell'accordo tra Link e Lomonosov. Mi ha confermato il suo vivo interesse e quello dell'Italia. Mi ha invitato suo ospite a Mosca e sarebbe interessato a parlare con voi perché vorrebbe, tra l'altro, organizzare un incontro (cena) in ambasciata con i rappresentanti Lomonosov, autorità russe e noi quando voi sarete a Mosca. Ragaglini è persona di grande esperienza, personalità e prestigio. E' anche mio amico e della università. Ha operato, in tutte le sedi, per il dialogo con Mosca. Fatemi sapere cosa ne pensate. Enzo". Anche di questa circostanza l’Adnkronos ha chiesto conto alla Link. “Mifsud in questa sua attività faceva riferimento a più soggetti, ma Roh non è mai stato un nostro ‘ambasciatore - dice ancora Russo - era Mifsud che aveva rapporti accademici, non ci risulta che Roh ne avesse”. Se Mifsud a Mosca era "perso" e non aveva alcun contatto di livello, come sostiene Roh, negli ambienti italiani sarebbe stato invece "molto ben connesso". L'avvocato svizzero racconta un episodio. "Una cena all'ambasciata italiana di Londra, per una presentazione di Finmeccanica, forse fu quando cambiarono il nome in Leonardo".

CHI E' MIFSUD? - Mandando avanti il nastro della vicenda, sorgono inevitabilmente due domande. La prima: chi è veramente Joseph Mifsud? E' un "agente russo", come lo ha definito l'ex direttore dell'Fbi James Comey in un articolo sul Washington Post? Secondo il Rapporto Mueller sul Russiagate, fu proprio Mifsud che dopo averlo 'agganciato' nel marzo del 2016 a Roma alla Link University offrì all'allora consulente della campagna presidenziale di Trump George Papadopoulos il materiale "sporco" su Hillary Clinton, sotto forma di migliaia di email hackerate in possesso dei russi. Mifsud è dunque una 'pedina' di una macchinazione ai danni di Donald Trump (le elezioni del 2016 furono "corrotte" ha detto lo stesso presidente Usa, aggiungendo che la corruzione potrebbe portare "fino a Obama" e che l'Italia "potrebbe" essere coinvolta).

PERCHE' SI NASCONDE? - La seconda domanda è: perché Mifsud si nasconde? Da qui in poi, Roh traccia una ricostruzione e una cronologia dei fatti che è solo in parte è possibile verificare. Partiamo dall'assunto principale dell'avvocato svizzero: Mifsud non è un agente russo, ma è - o è stato - un "serviceman" dei servizi di intelligence occidentali. "Era impegnato in 'missioni'", sostiene Roh. L'avvocato svizzero cita esplicitamente il servizio segrete inglese MI6 al quale Mifsud era direttamente legato, afferma, attraverso il Lcipl, il London Centre of International Law Practice, con il quale lavorava. Questo "Centro", per il quale lavorò anche un altro protagonista del Russiagate, George Papadopoulos, è citato nel Rapporto Mueller. Papadopoulos, nel suo libro 'Deep State Target', sostiene di essere stato vittima di una macchinazione anti-Trump, e riferisce così del "Centro" e della visita a Roma, nella quale incontrò per la prima volta Mifsud: "Il 12 marzo 2016, arrivai alla Link Campus con un gruppo di colleghi della London Centre of International Law Practice, tra cui Donald Lewis, che è membro della Stanford University, Rebecca Peters e Nagi Idris". Per Roh, il "Centro" era "semplicemente una copertura per operazioni di intelligence". Alla Link, come già affermato in altre occasioni, ritengono “poco probabile” che il primo incontro tra Mifsud e Papadopoulos sia proprio quello avvenuto a Roma. Questo perché dal sito della società Lcilp risulta che già da tempo Mifusd era dirigente del board e successivamente (comunque prima dell’incontro a Roma) Papadopolus appariva come direttore delle questionei energetiche della Lcil, società che a detta della compagna di Papadopolus, Simona Mangiante, "occupava lo spazio di una stanza in un in un palazzo di una zona chic di Londra, con un tavolo ovale al centro". Difficile, dunque, non incontrarsi. Quanto alla seconda domanda, ovvero sul perché Mifsud è sparito dalla circolazione, l’avvocato Roh sostiene che il professore maltese, almeno all'inizio del suo coinvolgimento pubblico nel Russiagate, “non si è nascosto di sua iniziativa, ma gli è stato 'imposto' di nascondersi”. Cronologicamente siamo alla fine di ottobre del 2017, quando viene resa pubblica l'ammissione di colpevolezza di Papadopoulos agli investigatori del team del procuratore Mueller che lo avevano arrestato pochi mesi prima, a luglio, all'aeroporto di Chicago. In quell'occasione, gli uomini di Mueller contestano a Papadopoulos di aver mentito all'Fbi in un precedente interrogatorio, il 27 gennaio, sui suoi rapporti con un "professore straniero" e le sue connessioni con la Russia. I "rumours" che provengono da Washington, lasciano trapelare il nome del "professore straniero": Joseph Mifsud. Anche lui, il professore maltese, ricorda Roh, “era stato interrogato negli Usa, nel febbraio del 2017, mentre si trovava a Washington per una conferenza organizzata dal Dipartimento di Stato. In quell'occasione, però, a fargli le domande, erano stati gli agenti dell'Fbi ancora guidata da James Comey”, poi 'licenziato' da Trump pochi mesi dopo, a maggio. Nel suo racconto, Roh sgancia una "bomba".

GENTILONI E MIGLIORE - Pochi giorni dopo l’interrogatorio di Mifsud a Washington, "il 25 febbraio 2017, Paolo Gentiloni (allora premier, ndr) e Gennaro Migliore (allora sottosegretario alla Giustizia, ndr) vanno nella sede della Link per un incontro strategico privato. Russo è testimone. Questo è stato il momento in cui la Link è entrata in gioco e la vita di Mifsud è cambiata". Una ‘bomba’ che Roh ha raccontato anche al quotidiano La Verità. Fonti vicine all’ex premier Gentiloni, ora commissario europeo, hanno smentito categoricamente la circostanza: "Mai stato alla Link il 25 febbraio 2017". Quanto a Migliore, anche lui all’Adnkronos ha smentito di essere stato alla Link in compagnia di Gentiloni. "Io Gentiloni non l’ho mai visto", dice Russo all’Adnkronos, mentre Migliore è un frequentatore dell’ateneo, dove partecipa a conferenze e altri eventi. “Gennaro lo conosco da 15 anni, siamo amici”, dice ancora Russo. Scotti invece afferma sempre all’Adnkronos; "non ho mai incontrato Gentiloni quando era premier, né dentro né fuori la Link".

LA TEMPESTA MEDIATICA - Dopo che il nome di Mifsud diventa di dominio pubblico, e non per meriti accademici, sul docente maltese - e sulla Link University - si abbatte una clamorosa tempesta mediatica. Il 31 ottobre, nella sede della Link, Mifsud rilascia un'intervista a Repubblica, nella quale si dice totalmente estraneo a qualsiasi macchinazione russa ai danni di Hillary Clinton e a favore di Trump. "Lo ha ripetuto anche nel mio ufficio l'anno scorso. Mi ha detto, 'non ho mai parlato di email con Papadopoulos'", afferma ora Roh. Il 31 ottobre, è quindi l'ultimo giorno che Mifsud viene visto alla Link University, secondo quanto riferito anche da Scotti in varie interviste e confermato adesso, nuovamente, all’Adnkronos ora dallo stesso Scotti e dai vertici della Link. Che rivelano un ulteriore dettaglio sull’alloggio, pagato dalla Link in una palazzina a Roma, nel quale viveva Mifsud: "Dopo l’intervista a Repubblica, Roh scompare – ricordano i vertici della Link – per 2 mesi non abbiamo più notizie, non veniva, non si faceva sentire, gli abbiamo inviato mail su mail ai suoi indirizzi di posta elettronica. Dopodiché, nei termini resi obbligatori dal contratto di locazione, abbiamo inviato la lettera di rescissione. Passati 6 mesi abbiamo restituito le chiavi al proprietario".

LA RICOSTRUZIONE DI ROH - Secondo la ricostruzione di Roh all'Adnkronos - e secondo quanto l’avvocato dice che Mifsud avrebbe riferito nella sua "deposizione" registrata ora in mano al procuratore Durham - lo stesso giorno il professore viene quasi prelevato di peso e spedito in un paesino delle Marche, Matelica. A sincerarsi della sua partenza, mentre Mifsud viene fatto salire su un'auto, Roh fa riferimento a quanto gli disse il suo assistito: "c’era il numero due dei servizi segreti italiani". Oggi alla Verità invece parla di uno dei capi dei servizi segreti italiani (“Mifsud mi ha confermato – dice Roh – che uno dei capi di una agenzia italiana di servizi segreti contattò Scotti nel periodo in cui scoppiò lo scandalo e si raccomando che Mifsud Sparisse”. L'affermazione sui servizi segreti e sul nascondiglio di Matelica è grave, un’altra ‘bomba’. E quando l’Adnkronos chiede ulteriori informazioni e riscontri, l'avvocato svizzero sostiene che la circostanza “non è presente sul nastro della deposizione di Mifsud”, ma che il professore gliel'avrebbe riferita “a microfoni spenti, senza fare nomi” e senza specificare a quale settore della nostra intelligence appartenesse questo fantomatico "numero due".

FADINI E RUSSO - A Matelica, prosegue Roh, Mifsud “si è nascosto fino a fine dicembre 2017. Chi ha organizzato questa cosa andrebbe sentito come testimone chiave dell'indagine Durham". L'avvocato tira in ballo altri due nomi, "Vanna Fadini e Pasquale Russo". Si tratta, rispettivamente, della presidente della Global Education Management srl (Gem), la società di gestione della Link, e del direttore generale della Link Campus University. La casa di Matelica nella quale si sarebbe nascosto Mifsud tra novembre e dicembre del 2017, dice Roh, “appartiene a un amico della Fadini, un dentista”. I diretti interessati, chiamati a chiarire la circostanza, smentiscono categoricamente. Specie la Fadini, che all’Adnkronos nega decisamente: “Mai ospitato nessuno a Matelica, non ho nessuna casa a Matelica, nessun amico dentista, nessuno. Se proprio devo pensare a qualcuno di Matelica mi viene in mente un direttore d’orchestra…". Roh ha fornito all'Adnkronos anche alcune email nelle quali chiede conto alla Link, della quale è socio ed era membro del consiglio di amministrazione – ("ma sono stato estromesso", dice) - di fornire una serie di spiegazioni in merito a questioni finanziarie, al presunto coinvolgimento dell'università nel Russiagate e alla vicenda di Mifsud. In particolare, in uno scambio di email tra la fine di luglio e il 1 agosto 2019, Roh informa "Vanna" (Fadini, ndr) e "Pasquale" (Russo, ndr) di avere inviato "dati, registrazioni, eccetera" su Mifsud alle autorità Usa e di avere in programma "un appuntamento per una discussione con gli investigatori Usa". L'avvocato scrive: "Sono dell'opinione che voi possiate essere testimoni chiave e che sia nell'interesse di Joseph che vi facciate avanti per raccontare tutto". "Se fossimo stati testimoni chiave qualcuno sarebbe già venuto a cercarci", replica con ironia Russo all’Adnkronos. La Fadini in una delle mail in possesso dell’Adnkronos, la cui attendibilità è confermata dalla diretta interessata, replica: "Caro Stephan, di ciò che vorrai inoltrare al procuratore speciale Durham sei responsabile in proprio". E ancora, "credo di avere più volte chiarito l'estraneità della Link e di noi come persone ai fatti del cosiddetto Russiagate (che peraltro non conosco) e ritengo che siano Lcu e Gem, semmai, ad aver subito danni reputazionali da queste "chiacchiere" infondate. Occorrerà fare una riflessione su questi danni una volta terminati i vari accertamenti in corso, ma nel frattempo non credo sia utile continuare a discutere di questo argomento". In altre email risalenti ad aprile, mostrate sempre all’Adnkronos, Roh chiedeva invece a "Vanna" e "Pasquale" di rendere conto, oltre che del loro presunto coinvolgimento (e della Link) nel "nascondere" Mifsud, anche di altre questioni finanziarie e amministrative. "Per favore spiegate le attività della 'vecchia-Gem', il gruppo di aziende di intel&security: ad esempio, Link International srl (della quale Joseph è azionista al 35%), Link Consulting srl, SudgestAid, Consortium for Intelligene, eccetera. Secondo alcune fonti, il professor Scotti è il maggiore azionista di questo gruppo, su basi fiduciarie: è corretto?”. Su questo punto, sulle insistenti email di Roh, alla Link sono convinti che si tratti di una "mossa strumentale". L’avvocato, spiegano all’Adnkronos i responsabili dell’ateneo, prima di diventare socio della Gem al 5% aveva fatto condurre una ‘due diligence’ su tutta la struttura societaria. Quindi, “le informazioni che chiedeva erano già in suo possesso. Sapeva già tutto, perché lasciare traccia nelle mail di domenade di cui già sapeva la risposta?”. Quanto al fatto che Scotti sia il “maggiore azionista” di questo gruppo di società, per ragioni di privacy la Link declina di rispondere, ma dopo aver svolto una verifica, all’Adnkronos risulta che il presidente della Link non abbia quote in nessuna società che faccia riferimento all’ateneo.

SUITE FINANCE - Roh chiede ancora ai suoi interlocutori della Link di "dare spiegazioni sulla Suite Finance Malta: voi/altri confermate che un minimo di 3 milioni di euro sono stati ricevuti da parte di Suite Finance Malta, il totale pattuito di 12 milioni è stato ricevuto in pieno? Quanto e quanti fondi sono stati ricevuti da parte di Suite Finance, quale è l'origine dei fondi, chi è il beneficiario, dove sono ora i soldi? Per favore, chiarite se questi finanziamenti sono connessi al ruolo di Joseph nel Russiagate? Noto nelle vostre dichiarazioni che i soldi ricevuti 'non sono stati contabilizzati' cosa significa?". Di alcuni aspetti di questa vicenda, tutta da chiarire, che vede coinvolta la società maltese Suite Finance Scc Plc, sta scrivendo in questi giorni anche il quotidiano La Verità. “Assolutamente no, non abbiamo ricevuto nulla”, dicono Russo e Fadini all’Adnkronos, riguardo ai 3 milioni di euro che secondo Roh sarebbero stati ricevuti da parte della Suite Finance. Effettivamente, l’operazione di aumento di capitale tra Suite Finance e Gem, della quale l’Adnkronos ha visionato il Patto Parasociale, non si è mai concretizzata. I soldi non sono mai arrivati alla Link. C'è infine un altro finanziamento del quale Roh chiede conto alla Fadini e a Russo: "vi chiedo di dare spiegazioni riguardo al finanziamento del Link Center for War and Peace da parte degli Obaid: i fondi hanno origine dallo scandalo 1MDB? Per favore, chiarite se il finanziamento è collegato al ruolo di Joseph nel Russiagate o se è stato usato da Joseph in altro modo?". Il riferimento agli "Obaid" e allo "scandalo 1MDB" riguarda il presunto coinvolgimento della famiglia saudita Obaid nella sparizione di miliardi di dollari dal fondo di investimento governativo malese 1MDB. “Confermiamo che c’è stato un accordo con la Fondazione Link Campus University, che prevedeva un finanziamento di 750mila euro in tre anni, 250mila all’anno, che servivano a pagare sei persone e tutte le spese di questo Centro”, spiega Russo all’Adnkronos. Ma con lo scoppio dello scandalo, l’operazione “è saltata” e alla Link “non ci risultano siano mai arrivati finanziamenti del genere”. Dal tono delle sue mail, dalle pressanti domande inviate ai responsabili della Link e anche nel suo incontro con l'Adnkronos, Roh lascia intendere che i presunti finanziamenti all'università provenienti dalla maltese Suite Finance e dalla famiglia Obaid potrebbero essere in qualche modo connessi al ruolo di Mifsud nel Russiagate e alla sua sparizione. Affermazioni e vicende che non è possibile verificare e di cui l’avvocato si assume ogni responsabilità. Chiosa l'avvocato: "Mifsud doveva sparire, perché poteva compromettere tutta l'indagine di Mueller".

I MOVIMENTI DEL PROFESSORE - Ma torniamo ai "movimenti" del professore maltese, secondo il racconto di Roh all'Adnkronos. Lasciato il paesino delle Marche, Matelica, Mifsud a fine 2017 va a Malta "a trovare i genitori, che avevano problemi di salute". All'inizio del 2018, Mifsud è "di nuovo in Italia, principalmente a Roma". La circostanza che almeno per un certo periodo dello scorso anno il professore sia stato in Italia è riportata in altre ricostruzioni giornalistiche (La Verità, il Foglio, la Repubblica eccetera) - ha alloggiato in un appartamento-foresteria della Link- e confermata anche dagli estratti conto della sua carta di credito, ottenuti dall'Adnkronos. Si tratta di una carta britannica del circuito Mastercard emessa da Debenhams, con la quale Mifsud, tra l'altro, il 24 agosto ha anche ricaricato una sim Tim. In questa fase della sua vita, racconta all’Adnkronos l’avvocato Roh, Mifsud si teneva "fuori dai riflettori", ma girava abbastanza liberamente - e i movimenti della carta di credito lo dimostrerebbero - insiste Roh, anche se "usava una carta di identità italiana a nome Joseph Di Gabriele, credo fosse il cognome della madre. Me la mostrò, l'ho vista con i miei occhi". Il professore Mifsud era convinto di poter tornare presto alla normalità. Confessa Roh:"Mi disse, appena esce il Rapporto Mueller sarò fuori da questa storia" perché "tutti erano convinti che il Rapporto avrebbe portato all'impeachment di Trump".

TRUMP, CLINTON E IL RUOLO DELL'FBI - Invece, il Rapporto, reso pubblico il 18 aprile di quest'anno, anche se con vari omissis, non ha dimostrato con "sufficienti evidenze" che la campagna presidenziale di Donald Trump "si sia coordinata o abbia cospirato con il governo russo nelle attività di interferenza nelle elezioni". Nel Rapporto, il nome di Mifsud compare come quello della persona che offrì a Papadopoulos il materiale "sporco" su Hillary Clinton. La storia più recente cristallizza nel mese di maggio l’apertura di una indagine amministrativa da parte dell'attorney general William Barr, indagine ribattezzata Russiagate che recentemente è diventata “penale” ed è stata affidata al procuratore John Durham. Il ministro della giustizia Barr riferisce di essersi convinto, dopo una serie di conversazioni con funzionari dell'intelligence e di altre agenzie che l'Fbi abbia agito in maniera impropria, se non addirittura contraria alla legge. Lo stesso ha fatto l'ispettore generale del Dipartimento di Giustizia Usa, Michael Horowitz, per verificare se le attività di spionaggio dell'Fbi nei confronti della campagna di Trump fossero legittime. Nella nostra cronologia, che incrociamo con la memoria di Roh, siamo arrivati alla primavera inoltrata, quando Mifsud scompare completamente dai radar. "Se Mifsud parla, ha le prove per dimostrare le cose che ha detto nel nastro e fuori dal nastro. Sarebbe un grosso problema per un sacco di persone negli Stati Uniti", sussurra a mezza bocca l'avvocato svizzero. Per Roh, le cui idee sulla 'fabbricazione' del Russiagate sono rese evidenti nel suo libro, "il reato grave non è stato lo spionaggio su Trump, ma la fabbricazione di prove per giustificare l'inchiesta di Mueller. A Mifsud è stato chiesto di presentare Papadopoulos ai russi, per creare il caso. Mifsud poi è stato nascosto e minacciato per sostenere quell'indagine. Nessuno sparisce così in Europa, se non per una cosa di Stato o di mafia. Secondo me Joseph deve collaborare con l'indagine, lui è una vittima ". E conclude: “Dopo il mio scambio di opinioni con il procuratore Durham, ora gli americani sanno tutto…”. Queste le due verità a confronto. Di qua l’avvocato svizzero di Mifsud, di là i vertici dell’università Link Campus di Roma. La parola fine, decisiva per l’Italia, la dirà il rapporto Barr in arrivo entro fine mese.

Gianluca De Maio per “la Verità” il 20 novembre 2019. Indefessi i componenti del Copasir, il comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, vanno avanti con le audizioni sul caso Russiagate. Dopo aver ascoltato il premier, Giuseppe Conte (23 ottobre), il direttore del Dis, Gennaro Vecchione (il 29), e quello dell' Aisi, Mario Parente (6 novembre), ieri è stato il turno del numero uno dell' Aise, Luciano Carta. L' audizione è durata quasi tre ore e mezza. Sul tavolo tutti i temi che avvolgono le dichiarazioni del premier da Retelit fino al ruolo dei vertici della Link campus e gli incontro con l' intelligence Usa. È probabile quindi che potrebbero esserci in calendario nuove audizioni dopo quella di Carta, che divenne numero due dell' Aise nel gennaio del 2017, durante il governo di Paolo Gentiloni. Al capo dell' Aise sono probabilmente state sottoposte le medesime domande degli altri interrogati. Avrà appoggiato le stesse versioni? Contrariamente a quello che ha sostenuto il ministro di giustizia Usa, William Barr («Il procuratore John Durham ritiene che in Italia ci siano informazioni utili sul caso»), tutti e tre hanno ribadito di fronte alla commissione parlamentare che la nostra intelligence è del tutto estranea al Russiagate. Non solo. Secondo la versione ufficiale infatti, gli incontri di Barr in agosto sia con Vecchione (il 15) sia con Carta e Parente, avrebbero escluso un coinvolgimento del nostro Paese in quello che negli Usa sostengono sia stato un complotto contro il presidente, Donald Trump, durante la campagna elettorale del 2016 contro Hillary Clinton. Mifsud avrebbe partecipato all' operazione e sarebbe stato poi consigliato dai nostri 007 di scomparire. Durante l'ultima audizione, Parente avrebbe anche detto che non ci sarebbero state notizie sul professore maltese legato alla Link university di Roma, anche perché i nostri 007 non lo avrebbero considerato di interesse. Insomma, le indagini vanno avanti anche se ieri il Copasir ha dedicato l' altra metà della giornata a sentire il comitato per la sicurezza del Bundestag. Lo scorso mese era circolata sulla stampa la notizia che il controspionaggio tedesco interrogasse i migranti sul nostro territorio. Il ministro Horst Seehofer non ha negato che agenti della Bfv si siano recati nei centri di accoglienza, al contrario, ha sostenuto che il regolamento di Dublino consente di muoversi liberamente e acquisire informazioni a fini antiterroristici. Per questo motivo ieri il Copasir ha sentito il proprio equivalente tedesco per avere lumi e soprattutto capire se l' attività della Bfv sul nostro territorio stia proseguendo. Secondo la deputata tedesca della Linke, Gokay Akbulut, che ha lanciato la notizia, si tratterebbe di un illecito. Vedremo che posizione prenderà l' Italia. 

Simone Di Meo e Antonio Grizzuti per “la Verità” il 20 novembre 2019. Joseph Mifsud e le donne è forse l'unico capitolo del Russiagate che potrebbe trovar spazio in un' opera di Ian Fleming, malgrado il prof maltese non abbia la presenza scenica di Sean Connery che, in smoking bianco, scandisce «My name is Bond, James Bond». Le presenze femminili sono però fondamentali per tracciarne la psicologia e per ricostruirne i rapporti professionali. L'ex moglie, Janet Mifsud, insegna all' università di Malta ed è specializzata in farmacologia clinica e tossicologica, con un ricco cursus studiorum che l'ha portata a ricoprire importanti incarichi a livello universitario e statale, su cui torneremo in seguito. I social restituiscono di lei l' immagine di una donna di mezza età che ama i viaggi e la famiglia. E nella sua famiglia ci sono soprattutto l' anziana madre e la figlia, Giulia Josephine, che vive invece a Londra. Il profilo Facebook di quest' ultima offre qualche informazione in più sulla sua vita, che è poi quella di una ragazza che trascorre le serate con gli amici e il fidanzato in giro per locali e per il mondo. Colpisce che né la moglie né la figlia abbiano foto con Joseph Mifsud. È come se l' uomo fosse invisibile alla sua stessa famiglia. C' è solo uno scatto, pubblicato anni fa dalla figlia, che ne immortala una parte del volto con indosso occhiali scuri da agente segreto e un accenno di sorriso. Abbiamo provato a sentire entrambe, ma la risposta è stata la medesima: «Non ho intenzione di commentare la questione. Per favore, non contattatemi più. Se ci riproverete, intraprenderò un' azione legale». La giovane Giulia, dopo la laurea e il master in psicologia, ha trovato lavoro nel 2016 come coordinatrice della sezione di Brent della Into university, consorzio che aiuta gli studenti svantaggiati. Anche il papà aveva lavorato lì, anni addietro. E ne aveva cercato di esportare il modello nel nostro Paese con la sfortunata esperienza della Into Italy, una società messa in liquidazione nel 2016, di cui Mifsud era consigliere. Into Italy, fondata nel 2013 con sede a Roma, era amministrata dal socio unico, John Sykes Buchanan. Nel consorzio universitario inglese è stata impiegata in passato una sua ex fidanzata, Nastja Pusic, oggi «senior account manager» di Studyportals, gruppo che si occupa di alta formazione. Nel biennio 2012-2013, la giovane slovena ha studiato presso la Link campus university di Roma, e nel 2015 la ritroviamo nell' ateneo di Stirling con Mifsud direttore dell' Accademia diplomatica di Londra. È probabile che lui l' abbia conosciuta durante la presidenza all' università euromediterranea (Emuni) di Portorose, in Slovenia. Anni di proficue relazioni internazionali e di grandi progetti ma pure di polemiche. Nel 2013, infatti, l' ateneo contestò a Mifsud 39.000 euro di spese extra budget. Secondo un audit interno, in un anno il cellulare di servizio del docente sarebbe costato ben 13.767 euro, a fronte di un plafond stabilito dal contratto di 3.600 euro.

Ma torniamo all' ex moglie. Nel corso della sua attività accademica, Janet Mifsud è stata invitata a collaborare con la Mayo clinic, organizzazione che oltreoceano gestisce 70 ospedali. Curiosamente la Mayo risulta avere un punto in comune con la Link, l' università in cui lavorava il marito Joseph. Nell' elenco dei finanziatori figura infatti la Essam & Dalai Obaid foundation (Edof), fondazione dell' omonima famiglia saudita, che nel 2011 ha donato ben 10 milioni di dollari alla rete di cliniche americane della quale Tarek Obaid (uno dei fondatori) è stato paziente. La stessa Edof, nel 2017, avrebbe elargito 750.000 euro a favore del War and peace center, centro di ricerca in seno all' ateneo privato romano. Secondo quanto riferito da Stephan Roh, l'avvocato di Mifsud, l'accordo con la fondazione sarebbe stato chiuso proprio dal professore maltese, grazie all' amicizia con Nawaf Obaid, fratello di Tarek e ceo della fondazione. Con il sospetto da parte di Roh che si trattasse di soldi sporchi: Petrosaudi, l'azienda fondata da Tarek Obaid, è infatti tuttora coinvolta nel maxi scandalo finanziario legato al tracollo del fondo malese 1Mdb. Tra Mifsud e Nawaf è sempre corso buon sangue: già ai tempi in cui il maltese era direttore alla London academy of diplomacy (2015), il saudita figurava come visiting fellow. E quando nel 2017 la Edof stringe la partnership con la Link, Nawaf Obaid vola a Roma per partecipare a un incontro sul G7 alla presenza, tra gli altri, dell' ex ministro dell' Economia Giovanni Tria e del professor Guido Alpa, mentore del premier, Giuseppe Conte. Coincidenze? Forse, ma quando l' 11 febbraio 2017 scrive una mail all' Fbi per precisare il suo ruolo nel Russiagate e il rapporto con George Papadopoulos, rispuntano i legami con i sauditi. Dalle poltrone della hall di un albergo di Washington, il giorno prima Mifsud aveva risposto alle domande dei federali, negando ogni addebito nella vicenda. «La nostra conversazione (con Papadopoulos, ndr) verteva su tematiche geopolitiche», scrive il professore, «anche sulla regione del Golfo (sono membro del Kfcris)». Acronimo che sta per King Faisal center for research and islamic studies, think tank per il quale Nawaf Obaid ha lavorato dal 2004 al 2007, fondato (e tuttora diretto) dal principe Turki, ex ambasciatore saudita negli Usa e già capo dell' intelligence di Riad. Pur non possedendo alcuna particolare esperienza specifica in materia, il 21 maggio 2017 a Riad Mifsud partecipa in qualità di relatore a una conferenza organizzata dal Kfcris, dal titolo: «Natura dell' estremismo e sul futuro del terrorismo». Presente anche Franco Frattini, ex ministro degli Esteri e docente alla Link. Lo stesso giorno, poco distante, Donald Trump incontra il re saudita Salman e il presidente egiziano Al Sisi. Secondo alcune fonti, la presenza di Mifsud risulterebbe legata alle attività di lobbying contro il Justice against sponsors of terrorism act (Jasta), la legge approvata dal Congresso americano che consente ai familiari delle vittime degli attacchi alle Torri gemelle di fare causa ai membri del governo saudita (nazionalità di 15 dei 19 attentatori). Contro il Jasta si muove anche l' avvocato Majed Garoub, associato per un periodo al London center of international law practice ai tempi in cui Joseph Mifsud era direttore. Una nuova pista, l' ennesima, che catapulta il misterioso professore maltese in una delle pagine più oscure della storia contemporanea. Un enigma che forse solo Sherlock Holmes - di cui è fan su Facebook proprio sua figlia, Giulia Josephine - riuscirebbe a risolvere: «Elementare, Mifsud».

Trump e l’Ucraina, «tutti sapevano». Pubblicato mercoledì, 20 novembre 2019 da Corriere.it. «Volete sapere se ci fu uno scambio, un quid pro quo? Bene, la risposta è sì». Gordon Sondland risolve subito la questione chiave in diretta televisiva, in modo netto e chiaro. Poi aggiunge un altro elemento di importanza capitale: «Tutti erano informati, nessuno era fuori dal giro». Sondland ieri ha spiegato ai deputati della Commissione Intelligence che la campagna di pressioni sull’Ucraina fu gestita sul campo da Rudy Giuliani, avvocato personale di Trump. Ma tutte le figure di primo piano dell’amministrazione sapevano quale fosse l’obiettivo indicato dal presidente: il leader ucraino Volodymyr Zelensky doveva annunciare pubblicamente, meglio se alla Cnn, che la magistratura di Kiev avrebbe indagato «sulle sospette interferenze ucraine nelle elezioni Usa del 2016 e sulla società del gas Burisma». «Tutti sapevano», vale a dire: il vice presidente Mike Pence, il Segretario di Stato Mike Pompeo, il Consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, il capo dello staff a interim della Casa Bianca, Mick Mulvaney, il Segretario all’energia (ora in uscita), Rick Perry. E «tutti sapevano» che la consegna degli aiuti militari per 400 milioni di dollari già promessi a Kiev, sarebbe stata bloccata fino a quando Zelensky non avesse soddisfatto la richiesta di Trump. Questo era lo «scambio», il «quid pro quo». Sono parole dirompenti, documentate da un fitto scambio di mail e di messaggi con altri funzionari e, soprattutto, con lo stesso Pompeo, che ora si trova pericolosamente coinvolto in una trama sgangherata.

Sondland è un uomo d’affari, proprietario di diversi alberghi nel Paese, con una passione per la politica, coltivata prima con qualche consulenza con George W. Bush e poi con Mitt Romney. Nel 2016 appoggia l’ascesa di Trump e nel 2017 versa un milione al comitato organizzativo per l’inaugurazione del suo mandato, il 20 gennaio 2017. Come ricompensa arriva l’incarico diplomatico a Bruxelles. Ai parlamentari Sondland ha raccontato di avere avuto un rapporto diretto con «il boss», come lo chiama in una mail. Chiamate frequenti, anche da cellulari non schermati. Trump, però, ora scarica anche lui: «Non lo conosco bene. È stato tra gli ultimi a sostenermi, prima stava con altri candidati». Il presidente, leggendo da un foglio di appunti, fa riferimento a una telefonata con Sondland, il 26 luglio scorso: «Parlammo brevemente e io dissi che non volevo niente, ma proprio niente da Zelensky. Per quanto mi riguarda questa storia dell’impeachment dovrebbe finire qui». Ma Trump estrapola un frammento da un quadro di informazioni estremamente dettagliato. L’ambasciatore descrive le manovre di Giuliani, la copertura fornita da Pompeo, il silenzioso avallo di Pence, prima e dopo la telefonata del 25 luglio in cui Trump chiese a Zelensky «un favore»: indagare sulla Burisma, la società del gas nel cui consiglio d’amministrazione sedeva Hunter Biden, il figlio dell’ex vicepresidente. C’è solo un punto debole nella versione di Sondland: «In quei mesi non collegai Burisma a Biden. Non mi ricordo quando me ne resi conto, sicuramente a settembre, dopo che fu pubblicata la trascrizione della conversazione tra Trump e Zelensky».

Wistleblower alla Casa Bianca: "Così Trump cercò di insabbiare pressioni su Zelenskij". Biden: "Ha cercato di rubare le elezioni". Diffusa la denuncia del funzionario dell'intelligence che ha lanciato l'allarme facendo scattare il caso di impeachment. Il Tycoon: "È una spia, come tale va trattato". La Repubblica il 26 settembre 2019. La Casa Bianca ha provato a "insabbiare" le registrazioni della chiamata telefonica con Volodimir Zelenskij, in cui Donald Trump ha chiesto al collega di riaprire l'inchiesta sul figlio di Joe Biden, e dunque di interferire nelle elezioni del 2020, che vedono l'ex vicepresidente suo potenziale rivale. È il contenuto esplosivo della 'denuncia' della talpa che ha fatto scattare l'allarme sulla telefonata del 25 luglio tra Trump e Zelenskij e resa pubblica oggi nell'ambito dell'inchiesta per un possibile impeachment del capo della Casa Bianca. Il whistleblower non era presente alla telefonata incriminata, ma ha redatto il rapporto in base a diverse fonti nell'amministrazione. Si tratta, ha rivelato il New York Times confermando le voci già circolate, di un analista della Cia in passato distaccato alla Casa Bianca. Non si conosce l'identità dell'agente, che gode per statuto, come ogni impiegato o collaboratore della Cia, del diritto all'anonimato. Il suo è considerato un documento centrale per la richiesta di impeachment del presidente, l'informativa del whistleblower è stata diffusa dal comitato di intelligence della Camera.

Biden: "Trump ha cercato di rubare le elezioni". Il presidente Trump ha tentato "di rubare le elezioni". È l'affondo dell'ex vice presidente democratico Joe Biden sul quale Trump ha chiesto al presidente ucraino Zelenskij di indagare per intralciare la sua corsa alla Casa Bianca. Durante un evento di raccolta fondi a San Marino, in California, Biden ha sottolineato come Trump abbia cercato aiuto all'estero "per vincere" le presidenziali del 2020.

Trump: "Il presidente Ucraina ha negato pressioni illecite da parte mia". Il presidente dell'Ucraina, Zelenskij, "ha detto di non aver ricevuto pressioni da parte mia a fare qualcosa scorretto. Non si può aver un miglior testimone di questo". Così il presidente Donald Trump via Twitter, dopo l'esplosiva denuncia del whistleblower che ha fatto scattare l'inchiesta sul possibile impeachment del presidente.

Hillary: "Trump tornado umano corrotto, una minaccia". Donald Trump è un "chiaro pericolo", una "minaccia" per gli Stati Uniti". Lo afferma Hillary Clinton in un'intervista a Cbs che andrà in onda domenica e di cui sono stati diffusi degli estratti. L'ex segretario di Stato definisce Trump un "tornado umano corrotto". "Non importa se si è democratici o repubblicani quando un presidente che ha giurato per proteggere la Costituzione usa la sua posizione per cercare di estorcere qualcosa a un governo straniero per i suoi motivi politici", spiega Clinton.

Il documento. E' formato da 9 pagine, redatto dall'informatore il 12 agosto e destinato ai presidenti delle commissioni Intelligence di Camera e Senato, Adam Schiff e Richard Burr. "Nei giorni successivi" alla telefonata del 25 luglio fra Donald Trump e il leader ucraino Volodimir Zelenskij alcuni "funzionari della Casa Bianca sono intervenuti" per bloccare e mettere in sicurezza "le informazioni relative alla chiamata - si legge nella denuncia che fu presentata lo scorso agosto - soprattutto la trascrizione parola per parola. Queste azioni mettono a mio avviso in evidenza che i funzionari della Casa Bianca avevano capito la gravità di quanto emerso durante la conversazione".  "Ho ricevuto informazioni da diversi funzionari Usa secondo cui il presidente degli Stati Uniti sta usando il potere derivante dal suo incarico per sollecitare un'interferenza da parte di un Paese straniero nelle elezioni Usa del 2020", si legge. E ancora. "Sono profondamente preoccupato che ci siano rischi per la sicurezza nazionale e per gli sforzi del governo americano volti a evitare interferenze sulle elezioni. E sono profondamente preoccupato per quello che appare come un serio e fragrante abuso di potere e di violazione della legge da parte del presidente". Stando alla denuncia, la trascrizione della telefonata non fu archiviata nel sistema informatico normalmente usato per questo genere di informazioni, ma in un sistema separato usato per conservare "informazioni classificate di natura particolarmente delicata". La trascrizione della telefonata, in cui Trump chiese all'omologo ucraino di indagare sul rivale democratico Joe Biden, è stata diffusa dalla Casa Bianca ieri. Sul caso i democratici hanno lanciato martedì un'indagine formale di impeachment, ma secondo Trump "non c'è stata alcuna pressione" e si è trattato di un colloquio "amichevole".

Le reazioni. Secondo la Casa Bianca la pubblicazione della denuncia del whistleblower "non cambia nulla". "La denuncia contiene informazioni di terza mano - fanno sapere i funzionari - la talpa ha ammesso di non essere stato testimone diretto di molti degli eventi descritti nella denuncia. Donald Trump, sottolineano, "non ha nulla da nascondere". Ma è lo stesso Trump a intervenire per attaccare davanti allo staff della rappresentanza americana alle Nazioni Unite. "Le talpe sono come le spie e così dovrebbero essere trattate - ha affermato - voglio sapere chi è la persona che ha dato alla talpa l'informazione perché si è comportato come una spia. Sapete come facevamo ai vecchi tempi con spie e traditori? Li trattavamo in maniera leggermente diversa di come facciamo adesso".

La speaker Pelosi: "Trump ha messo in pericolo la sicurezza nazionale". La Speaker della Camera, Nancy Pelosi, ha commentato la denuncia presentata dal whistleblower riguardo la telefonata fra il presidente Usa e il leader ucraino. "I fatti mostrano" che il presidente Donald Trump ha "tradito" il Paese e minato "l'integrità" delle elezioni americane, mettendo in pericolo la sicurezza nazionale. A suo parere la Casa Bianca ha cercato di "insabbiare" il presunto scandalo della telefonata. 

L'avvocato di Trump, Giuliani: "Tutte stupidaggini". L'avvocato personale di Donald Trump, Rudy Giuliani ha affermato di non essere "a conoscenza di nessuna delle stupidaggini" contenute nella denuncia del whistleblower dell'intelligence sulla telefonata del 25 luglio. Parlando alla Cnn, Giuliani ha definito l'accusa una "totale assurdità".

Usa, Biden attacca Trump: "Abusa della presidenza". Spunta secondo whistleblower pronto a testimoniare. L'ex vicepresidente contro l'inquilino della Casa Bianca: "Non distruggerai me e la mia famiglia, nel 2020 intendo suonartele di santa ragione". Una seconda "talpa", che ha informazioni di prima mano su alcune delle accuse a carico del presidente Usa è pronto a testimoniare nell'ambito della procedura di impeachment. La Repubblica il 6 ottobre 2019. Il frontrunner dem per la Casa Bianca Joe Biden ha sferrato un duro attacco a Trump in un editoriale, accusandolo di usare "la carica più alta del Paese per avanzare i suoi interessi politici personali" minando la sicurezza del Paese e di considerare la presidenza un "lasciapassare per fare ciò che vuole, senza doverne rendere minimamente conto". "Sappi che non me ne andrò, non distruggerai me e la mia famiglia, e nel novembre 2020 intendo suonartele di santa ragione", scrive. "Quando è troppo è troppo", scrive Biden, accusando Trump di aver abusato della politica estera Usa "nel tentativo di trarre favori politici da vari Paesi", chiedendo "direttamente a tre governi stranieri di interferire nelle elezioni americane, compresa la Russia, uno dei nostri maggiori avversari, e la Cina, il nostro competitore più vicino". "Ha corrotto le agenzie della sua amministrazione, incluso il Dipartimento di Stato, lo staff del consiglio nazionale per la sicurezza, il Dipartimento di Giustizia e l'ufficio del vicepresidente, per i suoi scopi politici", prosegue. "Sappiamo anche che persone intorno a lui alla Casa Bianca hanno riconosciuto quanto profondamente fosse sbagliato e hanno fatto gli straordinari per coprire gli abusi di Trump", aggiunge. "Per fortuna qualcuno ha avuto il coraggio di denunciare", conclude, riferendosi al whistleblower che denunciando la telefonata del tycoon al presidente ucraino per far indagare i Biden ha fatto scattare l'indagine di impeachment.

Il secondo whistleblower. Intanto spunta un secondo 'whistleblower', che ha preso già contatto con le autorità sulla vicenda del Kiev gate. Lo ha dichiarato all'emittente Abc l'avvocato Mark Zaid, che rappresenta la nuova 'talpa', come già faceva per la prima. Anche il secondo informatore è un funzionario dell'intelligence ma, a differenza del primo, ha notizie di prima mano sulla vicenda. Ne ha già parlato con l'ispettore generale dell'intelligence, ma ancora non è stato interrogato dalle commissioni della Camera che indagano su Trump, ha precisato il legale, ricordando che i suoi due clienti hanno per legge diritto ad essere protetti. Il legale Zaid, di cui l'emittente diffonderà l'intervista integrale in giornata, assicura che entrambi i whistleblower hanno protezione totale da parte della legge, che impedisce il loro licenziamento come ritorsione. Venerdì il New York Times (Nyt), citando fonti anonime, aveva riportato che un secondo funzionario dell'intelligence stava valutando se presentare la sua denuncia e testimoniare al Congresso: Zaid ha detto di non sapere se la seconda talpa che lui rappresenta sia la persona di cui parlava il quotidiano newyorkese. Secondo il primo whistleblower, oltre 6 funzionari Usa hanno informazioni rilevanti per le indagini, il che suggerisce che l'inchiesta potrebbe estendersi. "Confermo che il mio studio legale e la mia squadra rappresentano diversi whistleblower", ha twittato poi l'avvocato Andrew Bakaj, che fa parte dello stesso studio legale.

Paolo Mastrolilli per “la Stampa” il 7 ottobre 2019. C'è almeno un secondo «whistleblower» che accusa il presidente Trump sul caso Ucraina. Lo hanno confermato ieri i suoi avvocati, rivelando che ora rappresentano «multiple talpe», e quindi lasciando aperta la possibilità che i loro assistiti siano più di due. Questo è uno sviluppo pericoloso per il capo della Casa Bianca, per diversi motivi: primo, il nuovo «whistleblower» ha una conoscenza diretta dei fatti, e perciò è più credibile; secondo, proprio per questa ragione potrebbe aggiungere altri dettagli imbarazzanti all' inchiesta sull' impeachment. Il procedimento era stato avviato dopo che il 12 agosto scorso la prima talpa aveva denunciato al Congresso la telefonata del 25 luglio, in cui Trump aveva chiesto al collega di Kiev Zelensky il «favore» di riaprire l' indagine sulla compagnia energetica Burisma, per la quale aveva lavorato il figlio di Joe Biden, Hunter. Secondo il «whistleblower» il presidente aveva violato la legge, perché aveva condizionato gli aiuti militari americani all' Ucraina e una possibile visita alla Casa Bianca al rilancio di un' inchiesta che aveva lo scopo di colpire il suo principale avversario democratico nelle elezioni del 2020. Trump ha risposto che la talpa aveva solo informazioni di seconda mano, e quindi non sapeva cosa diceva, e la sua sollecitazione a riaprire l'indagine su Burisma aveva solo lo scopo di combattere la corruzione, non quello di colpire un rivale politico. Ieri Mark Zaid, avvocato del primo autore della denuncia, ha rivelato alla televisione «Abc» che il suo studio adesso ne difende anche un secondo. Il titolare dello studio, Andrew Bakaj, ha aggiunto via Twitter: «Posso confermare che la mia squadra rappresenta multipli whistleblower». La novità è importante perché secondo Zaid la nuova talpa fa sempre parte della comunità dell' intelligence, ma ha una conoscenza diretta dei fatti, al punto che l' Inspector General l' aveva interrogata proprio per verificare i dettagli della denuncia originaria. Il secondo whistleblower non ha presentato una denuncia aggiuntiva, perché non era necessario, ma ha chiesto la protezione legale per collaborare anonimamente all' inchiesta.

La replica di Biden. Il punto che ha una conoscenza diretta dei fatti, e quindi forse ha assistito alla chiamata, taglia le gambe alla difesa di Trump secondo cui i suoi accusatori non sanno di cosa parlano. Inoltre se era presente potrebbe aggiungere nuovi dettagli non contenuti nella trascrizione della telefonata pubblicata dalla Casa Bianca, capaci di confermare la motivazione del presidente ad offrire un «do ut des» a Zelensky per colpire Biden. Ieri il candidato democratico ha risposto alla tempesta mediatica, che gli sta facendo perdere terreno nei sondaggi e nei finanziamenti elettorali, pubblicando un editoriale sul Washington Post in cui accusa Trump di aver abusato i suoi poteri: «Non ti consentirò di distruggere me e la mia famiglia». Al momento però solo tre senatori repubblicani, Romney, Sasse e Collins, hanno criticato il presidente, confermando che sarà molto difficile arrivare alla maggioranza qualificata di due terzi necessaria a far approvare l' impeachment.

Valeria Robecco per "La Stampa" il 2 novembre 2019. La talpa dell'Ucraina-gate che ha portato all' apertura dell' indagine per il possibile impeachment del presidente americano Donald Trump avrebbe finalmente un volto. Il sito RealClearInvestigations ha riferito come l' informatore, che oltre due mesi fa ha presentato la denuncia sulla telefonata tra il tycoon e il leader ucraino Volodymyr Zelensky, è un agente della Cia di 33 anni, Eric Ciaramella, il cui cognome fa pensare a origini italiane. Analista per l' agenzia di 007 Usa con studi a Yale, secondo quanto riportato da alcuni media conservatori, Ciaramella ha lavorato come direttore dell' Ucraina al National Security Council durante il mandato di Barack Obama, stando a stretto contatto con il vice presidente Joe Biden. È rimasto anche nei primi mesi dell' attuale amministrazione Usa, poi è tornato alla Cia. «È stato accusato di aver lavorato contro Trump e di essere autore di una fuga di notizie contro il Commander in Chief», ha detto a RealClearInvestigiations un ex funzionario del National Security Council. E il sito ha precisato che Ciaramella avrebbe anche ricevuto direttive dallo staff del presidente della Commissione intelligence della Camera, il democratico Adan Schiff. Gli avvocati della talpa hanno rifiutato di confermare o negare l' identità del loro cliente. «È legalmente autorizzato all' anonimato. La divulgazione del nome di qualsiasi persona che potrebbe essere considerata l' informatore mette lui e la sua famiglia in grave pericolo», hanno spiegato Mark Zaid e Andrew Bakaj. «Qualsiasi danno che loro si trovino a sopportare a causa della divulgazione significa che le persone e pubblicazioni che riportano il suo nome sono responsabili - hanno aggiunto - Tale comportamento è all' apice dell' irresponsabilità e intenzionalmente imprudente"» Zaid e Bakaj non hanno minacciato alcuna azione contro il sito che ha pubblicato per primo il nome di Ciaramella come probabile informatore, ma hanno affermato che i media hanno un ruolo nel «proteggere coloro che denunciano i sospettati di illeciti governativi». I detrattori della talpa, invece, sono convinti che solo l'ispettore generale dell' Intelligence Community sia tenuto legalmente a mantenere la sua riservatezza. Intanto, Trump esulta per i nuovi dati sull' occupazione del mese di ottobre, che sono andati al di là di ogni più rosea previsione. L' economia americana ha creato ben 128mila nuovi posti di lavoro, rispetto ai 75-85mila previsti, con un tasso di disoccupazione che sale al 3,6%, ma resta ai livelli più bassi da 50 anni. «La Borsa va forte, godetevela!», ha twittato il presidente, che nel pieno della bufera sull' impeachment sa bene quanto l' andamento dell' economia e dei mercati sia importante in vista delle elezioni del 2020. «Stiamo assistendo ad un boom della middle class», ha commentato da parte sua Larry Kudlow, consigliere economico della Casa Bianca, mentre Wall Street brinda e, superando i timori per le crescenti tensioni commerciali e per il rallentamento dell' economia globale, viaggia a ritmo di record, con il Nasdaq e l'indice SP500 (quello delle aziende col più alto valore di mercato) che toccano i massimi di sempre. Per quanto riguarda l'impeachment, invece, gli Usa sono divisi a metà sul procedimento che potrebbe portare alla messa in stato di accusa del tycoon. Secondo un sondaggio di Washington Post ed Abc News, infatti, il 49% degli americani è a favore e il 47% contrario.

Kiev-gate, diplomatici Usa scrissero una dichiarazione per Zelenskij su Biden. Il comunicato, mai pubblicato, rivela il Nyt, avrebbe impegnato l'Ucraina a portare avanti indagini richieste dal presidente Usa contro il suo rivale democratico e il figlio. Secondo il Wsj il tycoon avrebbe rimosso l’ambasciatrice Usa in Ucraina perché contraria a fare pressioni contro l'avversario. Kiev intanto riapre le indagini su Burisma. La Repubblica il 04 ottobre 2019. Nuovi dettagli sul caso che ha portato i democratici statunitensi verso la procedura di Impeachment contro il presidente Donald Trump. Secondo tre fonti riportate dal New York Times, due diplomatici statunitensi avrebbero lavorato a una dichiarazione per il presidente ucraino Volodimir Zelenskij che avrebbe impegnato Kiev a indagare sui rivali politici di Donald Trump, il democratico Joe Biden e suo figlio Hunter. Il comunicato non è però mai stato diffuso. I fatti risalirebbero ad agosto. Stando a quanto riportato dalle fonti del Nyt, la dichiarazione sarebbe stata messa a punto dall'ambasciatore statunitense presso l'Ue, Gordon D. Sondland, e dall'allora inviato speciale americano per l'Ucraina, Kurt D. Volker, che si è dimesso nei giorni scorsi, con la partecipazione dell'avvocato di Trump Rudy Giuliani. L'importante testata newyorchese spiega che nel comunicato si sarebbe fatto il nome di Burisma, azienda ucraina di petrolio e gas dove nel cda si trovava anche Hunter Biden, figlio del candidato democratico Joe Biden. Inoltre nel comunicato sarebbe stato citato il fatto che l’Ucraina avrebbe interferito in favore della democratica Hillary Clinton nelle elezioni statunitensi del 2016. Un altro retroscena emerge da fonti del Wall Street Journal: Donald Trump ordinò di richiamare dall'Ucraina l'ambasciatore Marie Yovanovitch, accusata dai collaboratori del presidente repubblicano, compreso il suo avvocato personale, Rudy Giuliani, di ostacolare i tentativi di convincere Kiev a indagare l'ex vicepresidente Joe Biden. L'Ucraina ha deciso di riesaminare 15 indagini relative alla società Burisma, dove è implicato il figlio dell'ex vicepresidente americano Joe Biden, Hunter Biden, che ricopriva una posizione nel consiglio di amministrazione della compagnia del gas. A riportare la notizia il procuratore generale ucraino Ruslan Riaboshapka, citato da Interfax, che ha spiegato che si stanno portando avanti verifiche su casi che erano stati chiusi. Il Pentagono intanto ha confermato che nessuno al Dipartimento della Difesa era in ascolto durante la telefonata del 25 luglio fra Donald Trump e Volodimir Zelenskij al centro del Kievgate. Il portavoce Jonathan Hoffman ha spiegato ai giornalisti che "nessuno del Dipartimento della Difesa era (in ascolto) in quella telefonata". 

Carlo Bonini e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 6 ottobre 2019. Tra il 15 agosto e il 27 settembre, precipitata alle nostre latitudini, l' infernale partita del Russiagate, quella da cui dipende il destino politico dell' uomo più potente del mondo, il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, è diventata un "Italian job", "un lavoretto da imbroglioni". Dove, per dirla con Flaiano, la tragedia scolora in farsa. Dove un presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, a capo di una maggioranza politica sovranista implosa e in cerca di una personale legittimazione al suo bis con una maggioranza di segno opposto, promette il Colosseo alla Casa Bianca (informazioni di intelligence che non ha, ma sulla carta in grado di annichilire il rapporto del Procuratore speciale Mueller e dell' Fbi che accusa Trump). Dove il vertice della nostra intelligence, nella persona del direttore del Dis, Gennaro Vecchione, si genuflette fuori da ogni cornice o prassi costituzionale all' autorità politica di un Paese straniero, ancorché alleato - il ministro della Giustizia Usa, l' Attorney general William Barr - mettendogli a disposizione i vertici operativi delle nostre due agenzie di spionaggio e controspionaggio (i direttori di Aise e Aisi) che pure nulla hanno da dire e che, in ogni caso, nulla potrebbero dire, a meno di non voler compromettere la nostra sicurezza nazionale, svelando di aver avuto un ruolo in un complotto internazionale ai danni degli Usa. Dove gli americani comprendono la "truffa" a tempo scaduto e per questo mettono in moto una macchina del rumore - la coppia glamour George Papadopulos- Silvia Mangiante, l'avvocato testimone chiave del Russiagate e la moglie modella ed ex avvocatessa ieri intervistata da Repubblica - per accreditare la contro- narrazione del Russiagate che a Roma non ha trovato la sponda promessa. E che, all' osso, suona così: Trump è vittima di un complotto ordito da inglesi e italiani che doveva avvelenare la campagna repubblicana per le presidenziali del 2016 accusandola di intelligenza con il nemico russo ai danni di Hillary Clinton e che ha utilizzato come agente provocatore un enigmatico professore maltese, Joseph Mifsud, coperto, va da sé, dalla nostra intelligence, armato dal vecchio governo di centro-sinistra (Renzi), e protetto da una università privata, la Link di Roma, fucina della nuova classe dirigente Cinque Stelle, passerella per seminari di alti dirigenti della nostra intelligence e fondata e governata da un grande vecchio della Politica Italiana, Vincenzo Scotti, classe 1933, prodotto di purissima scuola Dc, navigatore secolare di tre ere geologiche della politica italiana e internazionale. Il plot della contro narrazione sta in piedi come un sacco vuoto. Perchè, verrà da sorridere, le cose stanno così.

La visita di Ferragosto. La scena madre è in una Roma deserta del 15 agosto quando Gennaro Vecchione, direttore del Dis, su indicazione di Conte, nell' assoluta inconsapevolezza degli organi di controllo parlamentari (che non sono stati avvisati né formalmente né informalmente) e di un governo che tecnicamente, dopo il pronunciamento del Papeete, non esiste più, varca l' ingresso dell' ambasciata Usa di via Veneto con al seguito funzionari del nostro Servizio. Quel giorno, Vecchione si sta infilando in un pasticcio di cui probabilmente non comprende neppure la portata. Sta infatti andando non a raccogliere, non a scambiare informazioni con dirigenti dell' Intelligence americana, ma a ricevere la lista della spesa che hanno portato con sé a Roma il ministro della Giustizia Barr e il procuratore John Durham, titolare della "controinchiesta sul Russiagate".

Il furetto Vecchione. Vecchione non ha esattamente il physique du role della Grande Spia e con un tipo così gli americani arrivati dalla Casa Bianca giocano facile. È un ex generale di seconda fila della Guardia di Finanza, amico personale di Conte, che si è ritrovato al vertice della nostra Intelligence senza neppure sapere il perché. È un presenzialista, spesso fuori spartito (Dagospia lo ha pescato l' 11 maggio in un fondamentale simposio dell' Università Pontificia Salesiana sulla "Nuova frontiera nelle cure e nella prevenzione delle talassemie ed emoglobinopatie" promosso e organizzato da Maria Stella Giorlandino presidente di Artemisia Onlus). Per giunta, nella comunità dell' Intelligence domestica e internazionale, è inseguito dalla fama di "womanizer" e grande gaffeur. Al Dis, per dire, in meno di un anno si è guadagnato il nomignolo di "furetto", oltre a far venire i capelli bianchi a chi inutilmente gli ha raccomandato attenzione nell' uso e nella qualità degli ospiti cui ha aperto la sua residenza privata: un villino liberty di fronte all' ambasciata giapponese.

Le richieste e le prove Usa. Barr e Durahm spiegano a Vecchione due cose. La prima: vogliono che l' Intelligence italiana gli dica dove si nasconde il professor Mifsud. La seconda: vogliono conferma a quelle che loro dicono essere "le prove" della mano italiana nel complotto contro Trump. E a sostegno citano ritagli di giornale e stampate su fonti aperte scaricate da Internet in cui l' enigmatico professore maltese appare in convegni dove siedono l' ex senatore del Pd Nicola Latorre, e il senatore dem Gianni Pittella e che mettono insieme la Link university di Vincenzo Scotti, dirigenti della nostra intelligence (che lì tengono conferenze) e naturalmente Mifsud, che alla Link ha tenuto alcuni seminari fino a quando non è sparito. Un minestrone, insomma. Latorre cade dal pero: «Mifsud chi?». Pittella confessa: «È vero, come ha scritto Repubblica , ho presentato io Mifsud alla moglie di Papadopoulos. Ma altro che storie di spie: a me del professore interessava solo il suo curriculum, perché così avevo un ospite maltese nei miei panel sul Mediterraneo». Il 15 agosto, dunque, Vecchione dovrebbe soltanto prendere cappello e salutare. Non fosse altro perchè negli archivi dei nostri servizi il professore maltese era noto come poco di più di un millantatore. Al contrario, si mette a disposizione. E fissa per il 27 settembre, nei nuovi uffici dei Servizi a piazza Dante, un nuovo appuntamento. Stavolta con gli ignari direttori di Aise, Luciano Carta, e Aisi, Mario Parente, convocati per iscritto. Il Parlamento, nel frattempo travolto dalla crisi di governo e dalla sua soluzione, continua a non saperne nulla. E nulla continua a saperne il nuovo governo di cui Conte è rimasto premier. L' incontro del 27, di fronte a due trasecolati e preoccupati Carta e Parente, non produce ovviamente nulla. Barr e Durahm tornano a Washington, Conte e Vecchione finiscono in un guaio. Si dice pagherà Vecchione. Lascerà rapidamente il Dis e il presidente del Consiglio dovrebbe portarselo a Palazzo Chigi come consigliere. Forse.

La settimana nera di Trump, che sta andando in pezzi sotto i nostri occhi. John Haltiwanger il 6 ottobre 2019 su it.businessinsider.com. Il Presidente Donald Trump ha avuto una settimana dura, passata a combattere battaglie su tre fronti diversi: uno riguardante lo scandalo ucraino, uno relativo alle sue dichiarazioni fiscali e uno per tenere unita la sua amministrazione. Trump affronta un’inchiesta di impeachment che ha avuto origine dallo scandalo ucraino, che sta rapidamente diventando più serrata e rappresenta una minaccia per la sua stessa presidenza. Nel frattempo, è emersa un’altra denuncia di informatori oltre a quella relativa all’Ucraina ed è legata alle tasse di Trump. La denuncia potrebbe dare ai democratici la possibilità di vedere finalmente pubblicate le dichiarazioni dei redditi di Trump. L’amministrazione Trump sembra fondamentalmente impreparata alla schiera intricata di forze che convergono su di essa. Questa è la battaglia persa che Trump sta combattendo sul fronte interno. Il recente comportamento di Trump ha portato alle critiche da parte di alcuni parlamentari repubblicani e dei commentatori di Fox News. Il presidente Donald Trump sta combattendo una guerra su tre fronti in questo momento – una sullo scandalo ucraino, una sulle sue tasse e una per tenere insieme la sua amministrazione – e questa settimana non gli è andata bene. Trump affronta un’inchiesta di impeachment sullo scandalo ucraino, che si sta rapidamente facendo più serrata e rappresenta una minaccia esistenziale per la sua presidenza. Lo scandalo è collegato a una telefonata del 25 luglio con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky in cui Trump ha esortato la sua controparte ucraina a indagare sull’ex vicepresidente Joe Biden e suo figlio, Hunter Biden. La telefonata è al centro di una denuncia presentata da un funzionario dell’intelligence, che ha spinto la Presidente della Camera Nancy Pelosi a far partire, alla fine, un’indagine formale sull’impeachment dopo aver cercato di frenare sulla questione per mesi. Dopo che il rapporto dell’ex consigliere speciale Robert Mueller sull’interferenza elettorale russa è stato reso pubblico, una significativa coorte di democratici ha esortato Pelosi ad andare avanti con l’impeachment. Sebbene il rapporto Mueller fosse schiacciante e sebbene abbia favorito una serie di inchieste da parte dei parlamentari democratici, Pelosi era riluttante a far formalmente partire l’impeachment per paura che avrebbe potuto ritorcersi contro il suo partito politicamente. Ma lo scandalo ucraino si è dipanato alla velocità della luce ed è più digeribile dell’indagine di lunga data della Russia e del rapporto di Mueller di 448 pagine su di essa, e Pelosi ha aperto le cateratte. Numerosi sondaggi hanno dimostrato che il sostegno pubblico verso almeno alcune azioni di impeachment è aumentato, sebbene modestamente, anche tra gli elettori repubblicani. E oltre la maggioranza della Camera ora sostiene almeno un’inchiesta di impeachment o più, cosa che non è accaduta prima che lo scandalo ucraino prendesse piede a fine settembre.

L’altra denuncia dei whstleblower e la battaglia per le tasse di Trump. Nel frattempo, un’altra denuncia da parte di informatori è emersa. Il presidente del House Ways and Means Committee della Camera (Commissione sulla normativa fiscale), il parlamentare Richard Neal, ha inviato una lettera al segretario al Tesoro Steven Mnuchin l’8 agosto in cui affermava di aver ricevuto una denuncia credibile e “non richiesta” da un dipendente federale. Accusa di “tentativi inappropriati per influenzare” l’ispezione obbligatoria da parte del IRS (Internal Revenue Service- Sistema di riscossione tasse) delle dichiarazioni fiscali di Trump e del vicepresidente Mike Pence, ha dichiarato Neal nella lettera, che è stata ampiamente riportata dai media questa settimana. Negli ultimi mesi Neal ha chiesto una maggiore supervisione del Congresso sull’ispezione obbligatoria da parte dell’IRS sulle dichiarazioni fiscali del presidente. “Il presidente è unico: nessun altro americano ha il potere di firmare le leggi e di dirigere un intero ramo del governo. Quel potere, e la misura in cui l’IRS può controllare e far applicare le leggi fiscali federali contro un presidente attuale o futuro, merita un più attento controllo legislativo “, ha scritto Neal in un articolo di luglio per il Washington Post. La principale preoccupazione di Neal è che i legislatori e il pubblico non sappiano nulla della portata delle ispezioni obbligatorie e “se il presidente possa condizionare indebitamente l’IRS per influire sul suo trattamento fiscale”.

Non esiste una legge che imponga che un presidente renda pubbliche le sue dichiarazioni dei redditi, ma Trump ha interrotto una consuetudine che è valsa per decenni coi precedenti presidenti rifiutando di farlo – ogni presidente dal 1974 a parte Trump ha pubblicato volontariamente dichiarazioni dei redditi o un riassunto fiscale. Il rifiuto di Trump di rendere pubblici i suoi redditi ha sollevato dubbi tra i democratici sul fatto che stia nascondendo qualcosa sui suoi affari finanziari. Trump continua a mantenere la proprietà del suo impero commerciale, rompendo la tradizione dei presidenti che ripongono i loro beni in un fondo “blind trust” per evitare conflitti di interesse. Il presidente ha ripetutamente affermato di non poter svelare le dichiarazioni dei redditi perché sono sotto ispezione, ma non esiste una legge o una regola che dica questo. A luglio, Neal ha citato in giudizio il segretario al Tesoro Steven Mnuchin e il commissario dell’IRS Charles Rettig per ottenere sei anni di dichiarazioni fiscali di Trump. Sebbene venga data molta più attenzione allo scandalo ucraino e pochi dettagli sono noti su questa denuncia degli informatori, esperti legali ed ex pubblici ministeri hanno detto a Insider che questa vicenda potrebbe mettere Trump in acque bollenti legalmente e potenzialmente portare alla pubblicazione delle sue dichiarazioni fiscali – segnando un’importante vittoria per i democratici.

Le ferite autoinflitte di Trump. L’amministrazione Trump sembra essere fondamentalmente impreparata rispetto alla schiera confusa di forze che convergono su di essa. La Casa Bianca è “paralizzata” e “barcolla sull’orlo di una scogliera” in mezzo alla tempesta politica che si è dispiegata sullo scandalo ucraino e sulla relativa denuncia degli informatori, ha recentemente detto un funzionario della Casa Bianca alla giornalista di Insider Sonam Sheth. E Trump sembra andare in pezzi davanti ai nostri occhi – facendo circolare teorie cospirazioniste selvagge, suggerendo che una “una frattura simile a una Guerra civile” potrebbe aprirsi se viene accusato, scagliandosi contro i giornalisti che fanno domande basiche, usando volgarità nei tweet e suggerendo che i suoi avversari politici dovrebbero essere arrestati per tradimento. Oltre a creare ansia all’interno della Casa Bianca, le recenti buffonate di Trump hanno anche portato alle critiche di alcuni compagni repubblicani al Congresso. Il parlamentare Repubblicano Adam Kinzinger dell’Illinois, un veterano dell’Aeronautica Militare che ha prestato servizio in Iraq e in Afghanistan, ha definito il tweet sulla “Guerra civile” di Trump “più che ripugnante”. “Ho visitato nazioni devastate dalla guerra civile. @RealDonaldTrump Non ho mai immaginato che una simile citazione potesse essere ripetuta da un presidente”, ha detto Kinzinger del tweet di Trump, che cita un ospite di Fox News. Le controversie che ruotano attorno a Trump hanno anche creato uno scisma in Fox News tra gli opinionisti ospiti che sostengono Trump e i presentatori dei telegionarli, e il presidente sta affrontando critiche molto più dirette e gravi che mai sulla rete conservatrice. L’analista legale senior di Fox News, il giudice Andrew Napolitano, lunedì, ad esempio, ha fatto a pezzi Trump per la sua condotta con l’Ucraina e ha sostenuto che rappresenta motivo di impeachment. “Il presidente degli Stati Uniti ha utilizzato governi stranieri per influenzare la politica interna – questa era la paura dei legislatori quando hanno inserito quella clausola di impeachment nella Costituzione”, ha detto Napolitano. Mercoledì, in una successiva edizione di FoxNews.com, Napolitano ha dichiarato che il comportamento di Trump è stato “criminale” e “incriminabile”. Ha anche fatto riferimento alla dichiarazione di Trump secondo cui il suo impeachment potrebbe portare a una seconda guerra civile americana definendolo “un fischio di richiamo per squilibrati”.

Trump non sta arretrando, e questo potrebbe continuare a ritorcerglisi contro. Giovedì Trump si è fermato sul prato della Casa Bianca e ha alzato la posta sulla richiesta che per prima lo ha portato in questo pantano politico: ha invitato l’Ucraina a indagare su Biden. Ma questa volta era in diretta TV. Inoltre, Trump ha esortato la Cina a indagare su Biden, presentando un’altra istanza del presidente che chiede a un potere straniero di inseguire un rivale politico. Poco dopo, il presidente dell’Intelligence della Camera Adam Schiff, che era il bersaglio dell’accusa di tradimento di Trump, ha twittato: “Il presidente non può usare il potere del suo ufficio per fare pressione sui leader stranieri per indagare sui suoi oppositori politici. La sua invettiva di questa mattina rafforza l’urgenza del nostro lavoro. L’America è una Repubblica, se riusciamo a mantenerla tale”. Man mano che adotta una retorica e tattiche sempre più estreme per respingere le crisi che avvolgono la sua presidenza, Trump sembra solo scavarsi una fossa sempre più profonda.

Lindsey Graham scrive a Conte: "L'Italia collabori con Barr". La lettera del presidente della commissione giustizia del Senato Usa, fedelissimo di Trump, al premier italiano, a Boris Johnson e al primo ministro australiano Scott Morrison. HuffPost il 7 ottobre 2019. Lindsey Graham, presidente della commissione giustizia del Senato e uno dei più stretti collaboratori di Trump, ha scritto una lettera al premier italiano Giuseppe Conte, a quello britannico Boris Johnson e all’australiano Scott Morrison chiedendo che continuino “a cooperare con l’attorney general William Barr” nell’inchiesta sulle origini del Russiagate. “Uno dei doveri dell’attorney general è supervisionare l’indagine in corso” e i suoi incontri nei tre Paesi sono “ben dentro i confini della sua normale attività”, ha osservato. Una iniziativa che ha preso, spiega Graham, dopo che in un articolo del 30 settembre il New York Times ha accusato Barr di “usare la diplomazia ad alto livello per avanzare gli interessi politici personali del presidente”. Nella missiva il senatore, uno dei più stretti alleati di Trump, ricorda che “Australia, Italia e Regno Unito si scambiano abitualmente tra loro informazioni delle forze dell’ordine per fornire assistenza nel corso delle indagini”. “Sembra che le forze dell’ordine e l’intelligence Usa abbiano confidato su informazioni di intelligence straniera nell’ambito dei loro sforzi per indagare e monitorare le elezioni presidenziali del 2016”, prosegue il capo della commissione giustizia del Senato, elencando tre punti. Il primo è “aver fatto affidamento su un dossier profondamente errato, pieno di pettegolezzi e scritto da un ex agente segreto britannico di parte” (il rapporto Steele sui rapporti fra Trump e i russi, ndr); il secondo “aver ricevuto informazioni di intelligence da un ‘professore’ italiano (Joseph Mifsud, in realtà è maltese, ndr) cui fu ordinato di contattare un consigliere di basso livello della campagna di Trump, George Papadopoulos, per raccogliere informazioni sulla campagna”; terzo, “accettare informazioni da un diplomatico australiano, al quale era stato detto di contattare anche lui Papadopoulos e di passare le informazioni da lui ottenute sulla campagna all’Fbi”. Contatti da cui è scaturito il Russiagate. Ma Trump e i suoi alleati sospettano che il prof. Mifsud sia un agente segreto occidentale che lavorava per la Cia o l’Fbi e che l’intera manovra fosse un complotto del "deep state" Usa per impedire la sua elezione, in contrasto con le conclusioni della poderosa inchiesta del procuratore speciale Robert Mueller. Sentito dall’Agi, Graham ha affermato che Barr “sta solo facendo il suo lavoro”. Il presidente della Commissione Giustizia Usa ha continuato: “Gli incontri che il procuratore generale sta avendo per contribuire all’inchiesta del dipartimento di Giustizia su quello che è accaduto rientra pienamente nel raggio delle sue normali attività”, ha rimarcato Graham all’Agi, mostrando una copia della missiva inviata ai tre leader. Incalzato poi da Agi sulle accuse a Matteo Renzi di aver agito per sabotare Trump lanciate da George Papadopoulos, l’ex advisor del miliardario da marzo a ottobre 2016 (condannato per aver mentito all’Fbi sui suoi contatti con Mosca), Graham ha preferito non commentare mentre l’ex premier italiano ha annunciato querela. Di seguito il testo della lettera: “Cari primi ministri Morrison, Conte e Johnson, dopo la pubblicazione, il 30 settembre del 2019, dell’articolo del New York Times che accusa il procuratore generale Barr di utilizzare diplomazia ad alto livello per portare avanti gli interessi politici personali (del presidente), scrivo per chiedervi di proseguire la cooperazione del vostro Paese con il procuratore generale William Barr, mentre il dipartimento di Giustizia continua a indagare sulle origini e l’entità dell’influenza straniera nelle elezioni presidenziali statunitensi del 2016”, recita l’incipit della lettera, che arriva a pochi giorni dalla seconda visita del Guardasigilli Usa in Italia, lo scorso 30 settembre, dopo quella di metà agosto. E’ prassi “di routine” lo scambio di informazioni di intelligence tra i Paesi per collaborare nelle inchieste, osserva ancora Graham. “Sembra che gli Stati Uniti e la comunità di intelligence si siano basati su informazioni dei servizi stranieri nell’ambito del loro impegno per indagare e monitorare le elezioni presidenziali del 2018”, spiega Graham nella lettera, indicando in particolare tre nodi da sciogliere. Il primo è l’aver fatto affidamento su “un dossier profondamente difettoso e pieno di ‘sentito dire’ scritto da un ex agente di parte del Regno Unito”, ovvero il rapporto di Christopher Steele, una raccolta di 17 dossier su Trump compilata nel 2016 dall’ex spia di Sua Maestà. Il secondo nodo riguarda il professore maltese di nome Joseph Mifsud (che Graham nella lettara definisce “italiano”) di cui non si sa più nulla e che nella Link Campus di Roma incontrò George Papadopoulos. La terza questione indicata da Graham nella lettera riguarda “il fatto di aver accettato informazioni da un diplomatico australiano, al quale era stato detto, anche a lui, di contattare Papadopoulos e di trasmettere le informazioni da lui ottenute sulla campagna all’Fbi”. Per questo, conclude Graham nell’appello i tre leader inviato in copia a Barr, oltre che alla senatrice Dianne Feinstein, la dem numero due della commissione Giustizia, “vi chiedo di continuare a collaborare” per determinare le origini dell’inchiesta sulle interferenze russe nelle presidenziali americane del 2016″. Quello che gli americani vogliono sapere, ha argomentato Graham, ”è perché vada bene cooperare con Mueller (il procuratore titolare del Russiagate) e non vada bene cooperare con Barr per stabile se Trump sia stato vittima di un’operazione dell’intelligence fuori controllo”.

Carlo Bonini per “la Repubblica” il 7 ottobre 2019. Cominciata male, la partita del Russiagate, nella sua declinazione italiana, promette di finire peggio. Di fronte a un oggettivo e inedito vulnus inflitto al delicatissimo equilibrio di cui vivono gli apparati - aver messo a disposizione dell' autorità politica di un Paese straniero, ancorché alleato, gli Stati Uniti, i nostri apparati di intelligence, spionaggio e controspionaggio, perché fornissero notizie non attinenti alla comune sicurezza nazionale, ma agli interessi politici di un' amministrazione (Trump) - il presidente del Consiglio Giuseppe Conte sceglie l' arrocco. Si dichiara vittima di una congiura di quegli stessi apparati - i nostri Aise e Aisi - che aveva messo a disposizione della Casa Bianca e con cui promette di regolare "personalmente" e "internamente" i conti. Si afferra, promettendone una difesa non negoziabile, all' uomo che del pasticcio aveva incaricato di occuparsi, il direttore del Dis Gennaro Vecchione. Non fa l' unica cosa che avrebbe dovuto sin qui fare. Affrontare il merito della questione. Dunque, e più semplicemente, le ragioni dell' impegno assunto con Trump a collaborare sul Russiagate. Per giunta, in assoluta solitudine e nel pieno di una crisi che lo avrebbe visto nell'arco di due settimane restare presidente del Consiglio nell' avvicendamento di due maggioranze di opposto colore. Conte sceglie infatti di rinviare il chiarimento di fronte al Copasir, l' organo parlamentare di controllo sui Servizi che proprio lui decise di non informare, né formalmente, né informalmente, né prima, né dopo i due incontri di Roma tra il ministro Barr e i nostri Servizi il 15 agosto e il 27 settembre. Nella scelta di Conte, è evidente il nervosismo e l' allarme di chi, in ritardo, ha compreso che il Russiagate può trasformarsi in una garrota. Con l' ex alleato (Salvini) che ha ora gioco facile a rimproverargli ciò che lui gli ha rimproverato per "Moscopoli" - la fuga dal Parlamento - un Comitato parlamentare di Controllo sui Servizi (Copasir) che da mercoledì avrà un nuovo Presidente scelto tra le opposizioni, e il mobilissimo Renzi, lesto a sfruttare l' occasione per chiedere (lo ha fatto ieri) che il Premier si spogli del suo potere di indirizzo sui Servizi a beneficio di un' autorità politica delegata in grado di meglio garantire lui e l' intera maggioranza. Accusare la stampa di «false» o «parziali» ricostruzioni degli incontri di Roma, mettendo questa volta nel mazzo anche quotidiani come New York Times e Washington Post (ricostruzioni che, al contrario, fonti diverse e qualificate confermano a Repubblica come esatte) perché imboccata da fonti interessate, segnala che al presidente del Consiglio sfugge il cuore di questa vicenda. Che non ha a che fare con Servizi buoni e cattivi, fedeli o infedeli. Con apparati che si chiede "usi ad obbedir tacendo". Con lo "spirito di servizio". Ma con un' idea del Potere. L' Intelligence, i suoi apparati, i suoi uomini, sono un patrimonio del Paese. La "ragione di Stato", come dice la parola, non appartiene ad una maggioranza politica o alla scelta solitaria di un premier in transizione (come accaduto in questo caso) in cerca di rinnovata legittimazione internazionale. Soprattutto, i Servizi segreti non sono i Moschettieri del Re. E il presidente del Consiglio dovrebbe ricordare che chi, in passato, si è abbandonato a questa irresistibile tentazione - il Sismi di Nicolò Pollari all' acme del ventennio Berlusconiano - non ha avuto fortuna. Dovrebbe ricordare il caso Abu Omar (anche lì qualcuno pensò di fare un favore all' amico di turno alla Casa Bianca facendogli sequestrare a Milano un imam da agenti della Cia con l' appoggio di uomini dei nostri apparati). O, da giurista quale è, dovrebbe ricordare che proprio per proteggere e proteggersi da quella tentazione il Paese si è dato una legge di riforma dei Servizi dove l' accresciuto potere riconosciuto all' Intelligence e ai suoi uomini è bilanciato da un imprescindibile controllo delle loro attività, del loro rapporto con la presidenza del Consiglio. La materia è troppo delicata per improvvisare. E se poi nel gioco, come in questo caso, sono gli americani, la faccenda, se possibile, è ancora più delicata. 

Non solo Mifsud, ora anche il caso Occhionero evidenzia il ruolo dell’Italia nel Russiagate. Federico Punzi il 16 agosto 2019 su atlanticoquotidiano.it. Mentre in Italia in questa settimana di Ferragosto siamo presi con il teatrino, o meglio la telenovela della crisi di governo, in America escono carte che confermano e anzi aggravano il sospetto di un forte coinvolgimento del nostro Paese nel Russiagate, ormai trasformatosi in uno Spygate. Non solo il caso Mifsud, che abbiamo approfondito nelle scorse puntate, porta a ritenere che il ruolo dei governi italiani Renzi e Gentiloni sia stato centrale nelle origini del Russiagate. Ora un documento ottenuto da Judicial Watch via FOIA (Freedom of Information Act), quindi rilasciato dal Dipartimento di Giustizia Usa, ci induce a ritenere che anche la vicenda giudiziaria dei fratelli Occhionero, come sostenuto dallo stesso Giulio Occhionero nei suoi esposti alla Procura di Perugia, abbia a che fare con il Russiagate, cioè con i tentativi di fabbricare elementi di collusione tra la Campagna Trump e la Russia, al fine di impedire l’elezione dell’attuale presidente Usa e, successivamente, delegittimarlo. Tentativi a cui avrebbero attivamente partecipato servizi di intelligence alleati degli Usa – inglesi e italiani. Conosciuto come Eyepyramid, il caso vede coinvolti i fratelli Giulio e Francesca Maria Occhionero. Condannati in primo grado per accesso abusivo a sistemi informatici (account di posta istituzionali e politici), oggi accusano i loro accusatori di aver fabbricato il caso contro di loro. Denunciano un’intensa attività di hacking precedente persino alla notizia di reato, diversi tentativi di accesso ai server americani di Occhionero. Le loro denunce sono sul tavolo dei magistrati di Perugia, che hanno ritenuto di avere elementi tali da chiedere il rinvio a giudizio del pm di Roma Eugenio Albamonte per omissione di atti di ufficio e falso ideologico (un altro ex presidente dell’Anm sotto inchiesta a Perugia, anche se non se ne parla…), del consulente tecnico Federico Ramondino, accusato di accesso abusivo a sistema informatico, e di due agenti del CNAIPIC, Ivano Gabrielli e Federico Pereno, per omessa denuncia e falso. L’udienza davanti al gup, inizialmente fissata per il 17 luglio scorso, è stata rinviata su richiesta della difesa a fine settembre. I documenti declassificati nei giorni scorsi negli Stati Uniti mostrano come Nellie Ohr, che lavorava per la Fusion GPS – la società incaricata dalla Campagna Clinton di trovare materiale compromettente su Trump, la stessa che aveva assunto a questo scopo l’ex agente britannico Christopher Steele, compilatore dell’omonimo dossier-fake contro Trump – condividesse con il marito Bruce Ohr, funzionario del Dipartimento di Giustizia, i risultati delle loro ricerche sul candidato e poi presidente repubblicano. Materiale che poi veniva girato all’FBI. Insomma, questi documenti confermano gli sforzi di DOJ e FBI per usare nell’inchiesta sulla presunta collusione fra Trump e la Russia materiale di provenienza della campagna avversaria, quindi di tutta evidenza politicamente motivato. Il documento che in questa fase ci interessa è una email che Nellie Ohr spedisce al marito Bruce il 25 gennaio 2017, quindi pochi giorni dopo l’insediamento del presidente Trump e l’arresto dei fratelli Occhionero in Italia. Si tratta di una serie di annotazioni su articoli che collegano la rimozione di alcuni funzionari ai vertici della controintelligence russa alla pubblicazione del Dossier Steele. Che il dossier sia un falso o meno, si argomenta in questi articoli, che vi siano menzionate come fonti o contatti figure di spicco del governo e del mondo del business russi, rappresenta comunque uno smacco per la controintelligence di Mosca, da qui la necessità di far saltare alcune teste. In una di queste note, Nellie Ohr sottolinea come non una mera coincidenza che il 13 gennaio, il giorno in cui Kommersant riportava delle possibili dimissioni di Gerasimov (capo della divisione cyber dell’FSB), fosse “tre giorni dopo l’arresto degli Occhionero in Italia” e la pubblicazione del “dossier pioggia dorata” (il Dossier Steele), da parte di BuzzFeed. Che c’entra la vicenda Occhionero? A sorprendere è che Nellie Ohr non abbia avvertito la necessità di aggiungere alcun dettaglio sugli Occhionero, come se il suo interlocutore, il marito Bruce, ai vertici del DOJ, fosse già perfettamente a conoscenza del caso e della sua pertinenza al Russiagate. Si tratta del secondo collegamento esplicito tra la vicenda Occhionero e il Russiagate. Il primo, che abbiamo riportato nella prima puntata del nostro speciale, è la strana domanda che gli ufficiali della Polizia Postale rivolgono a Maurizio Mazzella, amico di Giulio accusato di favoreggiamento, durante una perquisizione effettuata lo stesso giorno dell’arresto dei due fratelli: “Chi è il vostro contatto della squadra Trump?”. Il sospetto di Giulio Occhionero, tra l’altro, è che nella rogatoria per ottenere dall’FBI i suoi server su territorio Usa il pm Albamonte abbia usato l’iscrizione “crimine organizzato”, e non “crimine informatico”, non per errore, ma per farla arrivare sul tavolo proprio di Bruce Ohr, all’epoca numero 3 del Dipartimento di Giustizia e a capo dell'”Organized Crime”, ma come abbiamo visto anche figura di collegamento tra la Fusion GPS e l’FBI per quanto riguarda il Russiagate, nonché in contatto personale con Steele. Tra le molte stranezze del loro caso, anche il rifiuto da parte dell’accusa di produrre in giudizio la rogatoria sui server; il rifiuto del responsabile FBI dell’ambasciata Usa di Roma, Kieran Ramsey, a testimoniare nel processo; la comune frequentazione della Link Campus University (la stessa del primo incontro Mifsud-Papadopoulos) da parte di molti attori del caso EyePyramid, dal responsabile sicurezza di Enav Francesco Di Maio, da cui ha origine la notizia di reato, al pm Albamonte, passando per l’allora capo della Polizia Postale Di Legami (rimosso il giorno dopo l’arresto degli Occhionero). Giulio Occhionero sostiene di essere finito in un disegno precostituito il cui scopo era quello di utilizzare i suoi server situati negli Stati Uniti per far rinvenire elementi di collusione fra la Campagna Trump e la Russia, magari piazzandovi le famose email, come regalo alla Clinton da parte di qualche amico italiano. In ogni caso, le carte declassificate pochi giorni fa dal Dipartimento di Giustizia Usa collocano Eyepyramid, la vicenda Occhionero, a pieno titolo nel Russiagate e, insieme a quello del professor Mifsud, si tratta del secondo caso che chiama in causa il ruolo del nostro Paese, delle autorità governative e giudiziarie italiane, in questa trama ancora oscura.

Federico Punzi per atlanticoquotidiano.it il 7 ottobre 2019. C’è un altro caso che sembra collocare le origini del Russiagate/Spygate in Italia, a Roma, e lo abbiamo trattato più volte nel nostro Speciale. Il caso EyePyramid, che ha coinvolto i fratelli Giulio e Francesca Maria Occhionero, arrestati il 9 gennaio 2017. Nel luglio 2018 sono stati condannati in primo grado per accesso abusivo a sistemi informatici, l’hackeraggio di migliaia di account email istituzionali, tra cui persino quello dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi. Nessuno sviluppo da allora, invece, per quanto riguarda il procedimento parallelo per il più grave reato di procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato. Ma continuano a proclamarsi innocenti e, anzi, oggi accusano i loro accusatori di aver fabbricato le prove contro di loro. Il sospetto di Giulio Occhionero, che lo scorso 20 settembre ha concesso ad Atlantico Quotidiano questa intervista, avanzato e circostanziato nelle sue denunce sia alla Procura di Perugia che al Congresso degli Stati Uniti, è di essere finito in un disegno precostituito il cui scopo era quello di utilizzare i suoi server situati in territorio americano per far rinvenire elementi di collusione fra la Campagna Trump e la Russia, magari piazzandovi le famose email della Clinton. Così ha denunciato i suoi accusatori alla Procura di Perugia. Le indagini preliminari si sono concluse nell’ottobre 2018 con la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti del pm di Roma Eugenio Albamonte per omissione di atti d’ufficio e falso ideologico, del consulente tecnico Federico Ramondino, accusato di accesso abusivo a sistema informatico, e di due agenti del CNAIPIC, Ivano Gabrielli e Federico Pereno, per omessa denuncia e falso. L’udienza davanti al gup è stata già rinviata due volte su richiesta della difesa: inizialmente fissata per il 17 luglio, è slittata prima al 27 settembre e poi a gennaio 2020.

FEDERICO PUNZI: Giulio, il vostro caso esplode, diventa di pubblico dominio, il giorno dell’arresto, il 9 gennaio 2017. Mancavano pochi giorni all’insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Eravamo nel pieno della campagna di leaks riportati dai media americani sul Russiagate. Il 10 gennaio, il giorno dopo il vostro arresto, il sito Buzzfeed pubblicava il famigerato Dossier Steele. Ma il vostro caso iniziava oltre un anno prima e dal giorno dell’arresto hai cercato di capirci qualcosa…

GIULIO OCCHIONERO: Tutto questo caso inizia effettivamente il 26 gennaio 2016 con una email, ascritta a noi dal pubblico ministero, inviata al responsabile sicurezza dell’Enav. Appena liberato, nel gennaio 2018, ho cominciato le mie ricerche da uomo libero per le indagini difensive e ho iniziato a rinvenire numerosi elementi di fabbricazione di questa inchiesta. Riepilogo brevemente: le prove masterizzate dalla Procura della Repubblica sono state masterizzate il 21 gennaio 2016, 5 giorni prima della notizia di reato. Inoltre, il consulente della procura Federico Ramondino, uno di quelli con la richiesta di rinvio a giudizio, addirittura accedeva a questo spazio web che lui definisce essere parte del malware, 2 minuti e 40 secondi dopo l’invio di questa email, quando lui per primo non avrebbe ricevuto l’incarico almeno fino alla sera. E lo stesso Francesco Di Maio, responsabile sicurezza Enav, testimonia in tribunale, come si legge nelle trascrizioni, di non aver letto quell’email fino al pomeriggio. Quindi, c’erano chiarissimi elementi di fabbricazione, che naturalmente abbiamo sottoposto al dott. Albamonte, il quale ha fatto sistematicamente finta di non comprendere. Questa accusa viene collegata a me tramite una licenza di un componente software (ne compaiono altre sei nel procedimento oltre alla mia, comprata nel 2010) e per conoscere il proprietario di questa licenza Ramondino scriveva già nel dicembre 2015 alla società americana AfterLogic, che fornisce componenti software. Quindi, un mese prima lui riusciva a prevedere che si sarebbe commesso questo reato.

FP: Come sei arrivato a sospettare che il vostro caso potesse essere collegato al Russiagate?

GO: Diversi elementi. Prima mi sono mosso indipendentemente con le mie ricerche. Nel fare la rassegna stampa quando sono tornato libero ho immediatamente notato che nella stampa anglosassone, i giornalisti del Guardian che scrivevano del caso Occhionero erano gli stessi che scrivevano del Russiagate. In particolare, Stephanie Kirchgaessner da Roma, che la sera del nostro arresto o il giorno dopo ha intervistato Roberto Di Legami, direttore della Polizia Postale. Fu un elemento che mi mise subito in allarme, perché non ritenevo Di Legami potesse avere un contatto diretto con il Guardian se non a mezzo di un intermediario FBI che avesse collaborato con la nostra indagine. Ma la cosa veramente più grave, più seria, e per la quale ho ritenuto di scrivere alla Procura della Repubblica di Roma, cioè al dottor Pignatone, il quale non mi ha mai risposto, è stata la domanda rivolta al mio amico, perquisito il 9 gennaio 2017 simultaneamente al nostro arresto, Maurizio Mazzella, un funzionario di polizia che si era attivato con me per contattare il Copasir: “Chi è il vostro contatto nella Campagna Trump?”. Quindi avevamo già diversi elementi che facevano pensare a un collegamento tra le due inchieste. Altro elemento cardine anche i personaggi operativi, l’FBI di Roma: l’agente dell’ambasciata Usa a Roma, Michael Gaeta, che ha lavorato sulla Campagna Trump, e la stessa FBI che ha collaborato con Albamonte e con il CNAIPIC nella nostra inchiesta. Poi, la Link Campus University: coloro che figurano nella nostra inchiesta – lo stesso Eugenio Albamonte, Roberto Di Legami, direttore poi rimosso dalla Polizia Postale, Ivano Gabrielli direttore del CNAIPIC, e persino la mia supposta vittima, Francesco Di Maio – frequentavano tutti la Link Campus University, esattamente dove è nata l’inchiesta Russiagate, cioè dove il professor Mifsud e Papadopoulos si sono incontrati. Ultimamente, dalle declassificazioni di documenti negli Stati Uniti, abbiamo trovato che Nellie Ohr, una degli autori del Dossier Steele e moglie di un alto funzionario del Dipartimento di Giustizia, Bruce Ohr, nelle sue email si riferiva al caso Occhionero con tutta confidenza come se fosse un caso di ordinaria discussione (ne abbiamo parlato qui su Atlantico, ndr). E mi aspetto che nelle prossime declassificazioni comparirà ancora il caso Occhionero, sospetto anche che il marito abbia proprio lavorato sulla nostra rogatoria.

FP: Già, perché tu dici la cosa strana è che il pm Albamonte abbia formulato la rogatoria su un’ipotesi di reato di crimine organizzato, non un cyber-crime.

GO: Infatti, questa fu una stranezza che notò subito il mio avvocato Parretta all’epoca. (…) Quando Parretta segnalò la cosa, il pm disse che aveva corretto il titolo della rogatoria. Però io credo che a quel punto fosse già stata assegnata a Washington alla divisione crimine organizzato, dove infatti sarebbe stato a capo proprio Bruce Ohr.

FP: E la moglie, Nellie Ohr, svolge un ruolo fondamentale nell’altro filone del Russiagate, il Dossier Steele.

GO: Certo, ha scritto parte significativa del Dossier Steele (…) e credo che gran parte delle informazioni le venissero fornite e sostanzialmente preparasse un testo, che non siano sue originali. Intorno a Nellie Ohr gravitavano moltissimi personaggi anche del Dipartimento di Stato, come Victoria Nuland, che parla russo, si è sempre occupata di questioni russe e incontrava il nostro primo ministro Gentiloni e la Nato riguardo la questione russa, ed è anche la persona che disse all’FBI di Roma, cioè all’agente Michael Gaeta, di prendere un volo e andare a prendere il Dossier Steele a Londra.

FP: Torniamo alla rogatoria internazionale in cui si chiede, e si ottiene, di acquisire i tuoi server negli Stati Uniti. La notizia di reato è del 26 gennaio 2016, ma voi non siete subito a conoscenza che c’è una procura che indaga e che vi ha collegato a questo reato. Quando vi accorgete che c’è un’attenzione particolare sui vostri server?

GO: Va precisato innanzitutto che il collegamento al componente software è avvenuto perché Ramondino dice di averlo fatto, ma durante il processo non ha mostrato di averlo fatto: ha prodotto l’email che è stata mandata a Di Maio dell’Enav, ma questa email non conteneva il malware con la mia licenza MailBee, ma solamente uno script che avrebbe dovuto scaricare il malware. Ma – e so che vi sembrerà incredibile, eppure non lo era per il pubblico ministero Albamonte – Ramondino non ha prodotto il malware. Tutto il processo è stato fatto in assenza del malware – l’arma del delitto – e il fatto che Ramondino non ce lo voglia produrre è già inquietante. Ramondino dice che questo script avrebbe scaricato il malware. Quindi, c’è un malware che lui ha scaricato e dove lui ha visto la mia licenza MailBee, dalla quale è risalito a noi, però non lo ha fornito. La fabbricazione era evidente, l’avrebbe capita anche uno che non si occupa di procedimenti penali. Riguardo gli attacchi ai nostri server, erano cominciati da molto prima. Certamente noi non pensavamo alla Procura della Repubblica, ma avevamo strumenti di diagnosi sui server che ci informavano almeno dall’estate del 2016, se non prima, di tentativi di accessi abusivi che fallivano per criteri di sicurezza che avevamo adottato negli anni, lavorando con il governo americano, quindi questo fu uno degli elementi che ci mise in allarme.

FP: Ricordiamo che nell’estate 2016 siamo nel pieno della campagna presidenziale in America, che il 31 luglio parte l’indagine di controintelligence dell’FBI sulla Campagna Trump e che il 5 ottobre, a poco più di un mese dal voto, subisci una perquisizione.

GO: In quella circostanza gli agenti del CNAIPIC Cappotto e Pereno tentano di accedere ai miei server in remote desktop. Io, osservando, li diffido dal commettere quello che secondo me è un illecito, ed è la materia per cui li ho denunciati. Da qui si arriva il mio amico Mazzella, a cui venne chiesto “chi è il vostro contatto della Campagna Trump?”. Riferitagli la gravità di questi comportamenti verso lo spazio cyber americano, Mazzella stava organizzando per me un incontro con il Copasir. Su quei server ci sono moltissimi attacchi ed è inquietante che l’FBI, come ho scritto al Congresso, non li abbia notati. Ci si aspetta che abbia agito in buona fede nel fornire assistenza all’autorità giudiziaria italiana, ma che l’FBI e la sua divisione cyber non abbiano notato centinaia di attacchi ed accessi abusivi è imbarazzante, quindi il livello di cooperazione, e il dettaglio della collaborazione tra Polizia Postale ed FBI deve essere approfondito, perché c’è qualcosa che non va.

FP: Nel maggio del 2017 la Procura di Roma entra in possesso dei tuoi server americani. Qual è l’operazione che tu sospetti possa essere avvenuta su quei server?

GO: Credo che qualcosa sia andato storto rispetto a quello che pensavano di fare. Gli agenti del CNAIPIC hanno detto e ribadito durante il processo di essere stati solo spettatori nel procedimento negli Stati Uniti. Eppure, avevano la smart card per entrare in questi server, senza la quale era impossibile l’accesso. Bisogna vedere i verbali di quei giorni e noi ci aspettiamo che prima o poi, dopo tre anni, il pubblico ministero li produca perché è chiarissimo che noi dobbiamo leggerli, anche per ragioni della difesa. Voglio farvi notare che sono proprio i giorni in cui poi venne licenziato l’allora direttore dell’FBI Comey. Noi vorremmo molto leggere la corrispondenza tra la Procura di Roma, la Polizia Postale e l’FBI, perché il 9 maggio 2017 viene acquisito il primo dei nostri server a Seattle, Washington, e il 12 quello in West Virginia. Il 12 è il giorno in cui viene licenziato Comey e, pochi giorni dopo, viene anche allontanato il numero due. Noi – e non solo noi, nella ricostruzione di molti giornalisti americani che hanno collegato questi eventi agli sms tra gli agenti FBI Strzok, Page e altri – crediamo che si fosse creata una grandissima aspettativa di far rinvenire le email della Clinton sui server. Qualcosa è andato storto e in quel momento Comey ha perso il posto, McCabe è stato allontanato e si è andati verso la nomina del procuratore speciale Mueller. Peraltro, c’è una conferenza del dott. Albamonte in cui lui mostra una slide in cui vengono manipolate le ballot box dei voti delle cabine elettorali americane, mi sembra del 17 aprile 2017, un mese prima che venisse incaricato il procuratore speciale. Come il dottore Albamonte, con una sua astrazione personale, potesse fare un’affermazione così in pubblico, in una conferenza pubblica, è sconcertante: la convinzione di Albamonte è che Trump avesse rubato le elezioni.

FP: Quindi i vostri server dovevano servire a dimostrare la connessione tra la campagna Trump e la Russia…

GO: Diciamo che oggi il possesso di quelle email viene visto sotto una luce diversa, perché le email della Clinton sono state trovate ovunque e credo che anche la Polizia Postale italiana ne abbia una copia. Addirittura poche settimane fa in una chiavetta usb alla Casa Bianca è stata trovata un’ulteriore copia. Dopo che sono state prelevate sono state diffuse alle agenzie di intelligence e forse ai ricercatori privati in tutto il mondo, però tre anni fa, in quel momento, il ritrovamento durante la campagna o a caldo post-campagna, avrebbe definito l’autore del furto, anche se ce l’avevano decine di soggetti. Quindi, sarebbe stato importantissimo trovarle in quel momento, in quel modo, e con un evento eclatante che avrebbe portato forse il presidente Trump a essere messo in stato d’accusa.

FP: Ricordiamo che quando subisci la perquisizione, il 5 ottobre del 2016, siamo più o meno a un mese dalle elezioni, nel frattempo l’FBI stava già monitorando uno dei consiglieri della Campagna Trump, Carter Page, sulla base di un mandato FISA basato sul Dossier Steele, che poi si rivelerà completamente inaffidabile, e il 31 luglio era già partita l’indagine di controintelligence avviata sulla base degli incontri Mifsud-Papadopoulos. Quindi ci troviamo proprio nel momento in cui comunque l’FBI stava costruendo il caso Russiagate. Oggi negli Stati Uniti sono in corso diverse indagini, il presidente Trump ha detto di volerci vedere chiaro: c’è un’indagine dell’ispettore generale del Dipartimento di Giustizia Horowitz, sulla condotta dell’FBI e del DOJ, focalizzata sulla richiesta del mandato FISA a sorvegliare Page e quindi la Campagna Trump; e quella del procuratore Durham, che si sta concentrando sul periodo che precede il giorno delle elezioni e sull’operato di tutte le agenzie di intelligence Usa e i loro rapporti con organizzazioni e singoli di Paesi stranieri alleati. C’è il sospetto infatti del coinvolgimento di almeno tre Paesi: Regno Unito, Australia e Italia. Secondo te quali sono le impronte italiane nelle origini del Russiagate? E se qualcuno ha collaborato con l’FBI, dovevano esserne a conoscenza i governi dell’epoca?

GO: Per forza. Noi abbiamo ritrovato un decreto del governo Renzi del novembre 2015, quindi molto prima dell’avvio dell’indagine Crossfire Hurricane, che innalza sensibilmente i livelli di sicurezza di gestione e diffusione delle informazioni coperte dal segreto di Stato, passato molto sotto silenzio. Con tanti giornalisti che si occupano di qualunque cosa, nessuno l’ha notato. Sembrava un decreto fatto apposta per prepararsi a un qualche tipo di attività. Ma tornando al coinvolgimento italiano, l’elemento più vistoso, che non può essere sfuggito alle procure e che comunque ho segnalato alla Procura di Perugia, è Papadopoulos alla Link Campus University: viveva a Londra e lavorava per questa LCILP, viene invitato a venire a Roma perché doveva conoscere il professor Mifsud alla Link. Solo il fatto che il viaggio fosse così importante definisce una rilevanza della territorialità di quello che doveva succedere a Roma. Quello che è successo a Roma non poteva succedere a Londra. (…) Sospetto che l’essere sul territorio italiano permettesse a chi voleva fare l’operazione tipo cyber di avere a disposizione gli operatori telefonici, perché quando qualcuno mette piede sul territorio italiano, quando accende il suo telefono di fatto si affida all’operatore telefonico italiano, per cui forze di polizia, Polizia Postale e intelligence italiane sono molto agevolate se vogliono entrare in un telefono e fare questo tipo di operazioni, rispetto a dover agire dall’estero. Poi ci sono i personaggi che Papadopoulos, come racconta nel suo libro, incontra a Roma – un altro elemento di collegamento con EyePyramid: dice che gli vengono presentati non solo Mifsud, ma anche Roberto Di Legami, all’epoca direttore della Polizia Postale, e Giuseppe Esposito, vicepresidente del Copasir, esattamente colui al quale dovevo parlare per denunciare gli attacchi informatici e con cui aveva parlato Mazzella. Intorno alla Link Campus University hanno gravitato tutti questi individui. FBI vi ha fatto corsi e insegnato, così come la Cia. Crowdstrike, che è la società assunta dal DNC per la questione dell’hackeraggio delle email, ha insegnato e fatto conferenze alla Link. Era un fulcro di personaggi che gravitavano certamente intorno alla sinistra, amici della Clinton, tanto che lo stesso “amico” del professor Mifsud, l’onorevole Pittella, andava alla campagna della Clinton. Gli elementi di collegamento con i Democratici sono dozzine. (…)

FP: Di recente sembra che Mifsud abbia iniziato a parlare e a collaborare con chi, come il procuratore Durham, negli Stati Uniti sta indagando per ricostruire quello che è accaduto, e che avrebbe di nuovo smentito di essere un agente russo…

GO: Lui si definisce western intelligence, ma penso si possa specificare italiano. Sulla volontà di Misfud di collaborare ho sempre avuto dubbi. L’avvocato di Mifsud, Stephan Roh, dice che gli ha lasciato quel nastro registrato, ma sembra sia stato fatto molto tempo prima. Ora è stato fornito al procuratore Durham. Ma sulla volontà dell’intelligence italiana di collaborare ho forti dubbi, mi aspetterei che il governo italiano facesse chiarezza su questo. Siccome il presidente del Consiglio Conte ha la delega per l’intelligence, non può non sapere. Peraltro molti segreti di Stato vengono condivisi con la Presidenza del Consiglio, con la Presidenza della Repubblica, essendo poi il Copasir l’organo che vigila se esista titolo o meno per erigere il segreto di Stato. Ci sono molte persone nei palazzi della politica – Camera, Senato, Governo e Presidente della Repubblica – che secondo me sono perfettamente a conoscenza di quello che è successo.

FP: Secondo quanto riportano organi di informazione americani, Mifsud avrebbe fatto sapere che gli sarebbe stato chiesto di incontrare Papadopoulos dal fondatore e presidente della Link Campus, l’ex ministro dell’interno italiano Vincenzo Scotti, che intrattiene ancora molti rapporti con agenzie di sicurezza italiane ma anche anglosassoni, occupandosi la Link proprio di formare gli agenti di sicurezza e di intelligence dei Paesi alleati…

GO: Una precisazione su Mifsud. Un personaggio particolare nel panorama dell’intelligence italiana, perché un anglosassone. Proveniva da Malta, cresciuto nelle istituzioni anglosassoni, a Londra, quindi la sua spendibilità all’estero nasce proprio da questo. Credo che uno degli errori più grossi fatto da molti ricercatori sul Russiagate sia stato di dipingere il coinvolgimento britannico in maniera molto più attiva di quanto in realtà non sia stato. Una cosa è attivare l’intelligence britannica sulla base di una sollecitazione proveniente da Washington, secondo cui c’è il rischio che un candidato alla presidenza sia stato compromesso dai russi. E ci mancherebbe che l’intelligence britannica non si attivi per dare una mano. Un’altra cosa aver pensato a un piano per sabotare un presidente con un falso predicato. (…) Chi ha agito sulla base di un alert ha agito perché quello è il suo dovere, e se poi l’alert era falso… (…)

FP: Riassumendo. Tutti i principali filoni del Russiagate sembrano partire dall’Italia, o comunque passare per Roma: l’incontro Mifsud-Papadopoulos; il Dossier Steele, che l’agente FBI a Roma, Michael Gaeta, viene incaricato dal Dipartimento di Stato di andare a prendere a Londra, e a cui comunque viene chiesto di avere rapporti con Steele; e poi la vostra vicenda giudiziaria…

GO: Peraltro Steele viene a Roma anche due giorni dopo la nostra perquisizione, il 7 ottobre 2016. Viene in continuazione a Roma. Eppure Steele lavorava per il Dipartimento di Stato dal 2014, quindi aveva un rapporto con Washington. La vera domanda è: se aveva questo rapporto idilliaco con il Dipartimento di Stato, perché qualcuno poi ha deciso di riallocare tutta questa attività sull’FBI di Roma? Perché il 7 ottobre 2016, due giorni dopo la nostra perquisizione, Steele è venuto a Roma? Io credo perché i nostri inquirenti si aspettavano di entrare nei server e di far vedere a Steele evidenze che lui poteva ricollegare ai russi. Poi non è andata così, perché c’è la crittografia e quindi hanno dovuto aspettare fino al maggio del 2017. Però la presenza e il centro gravitazionale Roma è il più forte di tutti, è innegabile.

«QUELLA TRAPPOLA LA CONOSCO, LA DENUNCIAI IN PROCURA». Peppe Rinaldi per ''La Verità'' il 7 ottobre 2019. Da qualche giorno sui media di tutto il mondo si parla dell' ipotesi che il Russiagate e la caccia alla mail di Hillary Clinton fosse in realtà una trappola preparata per Donald Trump. Chi sostiene che le cose siano andate così è l'ingegnere romano Giulio Occhionero. Il suo nome, accanto a quello della sorella Francesca e del poliziotto Maurizio Mazzella, fece il giro del mondo nel gennaio 2017, quando la Procura di Roma ammanettò i due fratelli con l'accusa di aver spiato il gotha politico economico, pezzi di establishment internazionale, di magistratura e così via. Il processo ha visto la condanna in primo grado dei due fratelli per accesso abusivo a sistema informatico e intercettazione illecita di comunicazioni, la posizione di Mazzella invece è stata stralciata. A breve dovrebbe essere fissato l' appello. Oggi Occhionero lavora ad Abu Dhabi per il terzo fondo di investimenti mondiale.

Cosa intende quando dice che il governo italiano si è prestato a manovre nella vicenda Trump-Clinton?

«Il governo dell' epoca ha dato vita a una serie di attività che si sono svolte anche sul territorio italiano, come l' incontro di adescamento di George Papadopoulos all' università Link campus, nel quale lui dice di aver incontrato oltre a Joseph Mifsud anche l' ex direttore della polizia postale Roberto Di Legami e l' ex vice presidente del Copasir Giuseppe Esposito, poi entrambi comparsi anche nella vicenda Eyepyramid che mi ha visto coinvolto».

Lei si rende conto del peso delle sue affermazioni?

«Sì, e per questo ho fatto diversi esposti alla Procura di Perugia. Anche perché oltre a quanto detto sopra vi sono decine di attacchi informatici verso lo spazio cibernetico Usa che sono stati svolti da ufficiali della polizia postale su ordine della Procura di Roma».

Come e quando ha iniziato a farsi questa idea?

«I primi sospetti li ho avuti quando in seguito alla mia liberazione ho notato che le firme della stampa anglosassone sul caso Eyepyramid erano le stesse che avevano lanciato il Russiagate. Quando vidi l' intervista a Roberto Di Legami sul Guardian firmata da Stephanie Kirchgaessner capii che lo scopo dell' inchiesta non erano i fratelli Occhionero, ma qualcosa di molto più grosso».

A chi ha detto queste cose?

«A diversi rappresentanti istituzionali in più Paesi. L' Italia fu il primo con due Pec identiche ai ministri Marco Minniti e Roberta Pinotti successivamente al nostro arresto. Ma in Italia nessuno ha fatto nulla finché non è stato il governo Usa ad aprire le indagini».

Ma perché l' Italia avrebbe dovuto sobbarcarsi una rogna tanto grande?

«Come ho detto a Perugia per i ritorni politici e professionali che molti si aspettavano da un' inchiesta eclatante a favore del candidato vincente alla Casa Bianca. Ed è assolutamente ovvio che per un favore del genere ci si rivolga a un governo politicamente allineato. È anche il motivo per cui sono scettico su un coinvolgimento britannico. Mi aspetto piuttosto che emergerà che qualcuno avesse fatto credere all' intelligence britannica che Trump fosse realmente al servizio dei russi».

Qualcuno potrebbe pensare che lei sia andato troppo in là con la fantasia.

«È libero di farlo. Però la coincidenza temporale tra l' acquisizione dei nostri server negli Usa con il licenziamento dell' ex direttore della Fbi James Comey già la dice lunga: probabilmente qualcuno aveva fatto credere alla polizia federale che sui nostri server fossero depositate le email della Clinton, e chi gli ha creduto ha perso il posto. Inoltre come vede dalle declassificazioni degli email recenti, anche la moglie di Bruce Ohr (il numero due del dipartimento di Giustizia Usa, ndr) parlava del caso dei fratelli Occhionero. Mi domando se qualcuno dall' Italia abbia fatto in modo che la nostra rogatoria finisse proprio sul tavolo di Bruce Ohr. Quando la Procura di Roma ci fornirà la corrispondenza della rogatoria con gli agenti Fbi, capiremo se ho ragione».

Mazzella si era sentito dire durante la perquisizione «chi è il vostro contatto nella squadra di Trump?»

«Fu un' eclatante conferma di quello che sospettavo e, per altro, l' allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone non ha mai risposto alla mia richiesta di chiarimenti».

A Roma risulterebbe ancora aperto un altro fascicolo a suo carico e a carico di Mazzella e addirittura di sua madre: di che si tratta?

«Ci contestano l' acquisizione di informazioni sulla sicurezza nazionale. Io ho il dubbio che la Procura, in particolare il pm Eugenio Albamonte, temesse che io avessi capito cosa stava davvero accadendo».

I silenzi e le omissioni di Mueller, mentre Mifsud inizia a parlare con gli investigatori di Trump.  Federico Punzi il 27 luglio 2019 su atlanticoquotidiano.it. Il procuratore speciale Robert Mueller aveva avvertito che da una sua audizione al Congresso non sarebbe potuto emergere nulla di nuovo rispetto a quanto già scritto nel suo rapporto a conclusione dell’indagine sulla presunta collusione Trump-Russia per vincere le elezioni. Eppure, i Democratici hanno sperato fino all’ultimo in una scintilla che potesse riaccendere il fuoco ormai sopito del Russiagate, se non l’innesco per una proposta di impeachment, almeno nuove munizioni da sparare contro Trump durante la lunga campagna verso le presidenziali del 2020. Potranno continuare ad appigliarsi al fatto, ribadito dal procuratore Mueller, che il rapporto “non esonera” il presidente dall’accusa di ostruzione alla giustizia. Ma lo scopo delle inchieste non è provare l’innocenza, è determinare se esistano elementi sufficienti per una incriminazione. Come ha scritto su Twitter il senatore Rand Paul commentando l’audizione del procuratore, “Mueller needs to go back to law school. In America’s judicial system, no prosecutors ever, ever conclude innocence. They only decide guilt. Americans are presumed innocent if not found guilty!” E come ricorda un editoriale di National Review, non è vero, come spesso viene raccontato, che l’unica cosa che ha impedito a Mueller di incriminare Trump sono le linee guida del DOJ secondo cui un procuratore non può procedere contro un presidente in carica. La realtà è che nemmeno lui, e lo scrive nel rapporto, ha raccolto elementi univoci tali da poter concludere se sia stato commesso o meno reato di ostruzione. Ma è “inappropriato per un procuratore speciale presentarsi e discutere della condotta di qualcuno, in questo caso il presidente degli Stati Uniti, che non è stato incriminato e nemmeno accusato di un crimine”. Ok, tutti si aspettavano un Mueller riluttante. Ma peggio, l’audizione ha restituito al pubblico l’immagine di un uomo affaticato, stordito, confuso, balbettante sia nelle risposte che nelle non risposte, fino al punto da far dubitare del suo vero ruolo nell’indagine. Spesso a bocca aperta, con aria inebetita di fronte alle domande, ha più volte dato l’idea di non sapere gran ché del rapporto che lui stesso ha firmato. Queste alcune delle sue formule di risposta ricorrenti: “Non entrerò nel merito di questo”; “questo è fuori dal mio ambito”; “vi rimando al rapporto”; “mi attengo a ciò che è scritto nel rapporto”; “se è nel rapporto, è corretto”. Interrogato sulla Fusion GPS, la società che incaricò Christopher Steele di trovare materiale compromettente su Trump, Mueller ha risposto di “non intendersene”. “Può affermare con certezza che il dossier Steele non fosse parte di una campagna di disinformazione della Russia?”, gli ha chiesto il deputato Gaetz. “È fuori dal mio ambito”, la risposta. Stiamo parlando del dossier falso su cui l’FBI fondò la sua richiesta di autorizzazione, reiterata ben tre volte, a sorvegliare uno dei consiglieri della campagna. Robert Mueller non ha davvero condotto l’indagine, è la conclusione a cui molti sono giunti assistendo all’audizione. Oppure, fare il finto tonto è stata un’abilissima strategia di dissumulazione per frustrare i tentativi dei congressmen di scoprire fonti, origini e contraddizioni dell’indagine. Se dall’audizione di Mueller non è scoppiato nemmeno un petardo, qualcosa di potenzialmente esplosivo è emerso alla vigilia: il professor Joseph Mifsud, una figura centrale del Russiagate che ha fatto perdere le sue tracce dall’autunno del 2017, è ricomparso e sta collaborando con le indagini dell’amministrazione Trump sulle origini di quello che è stato ribattezzato “Spygate”, ha già parlato con il procuratore Durham e dichiarato di essere un asset dell’intelligence occidentale, non russa, e che gli fu espressamente richiesto di “agganciare” il consigliere della Campagna Trump George Papadopoulos. L’ispettore generale del DOJ Horowitz e il procuratore Durham avrebbero entrambi già interrogato Mifsud (probabilmente in teleconferenza, ndr), ha rivelato a Fox News l’ex procuratore del Distretto di Columbia Joe di Genova. Su The Hill, John Solomon ha riportato che “la squadra di Durham senza clamore quest’estate ha raggiunto un avvocato che rappresenta il professor Mifsud”. Si tratta dell’avvocato Stephan Roh, già raggiunto tempo fa dal Foglio nel tentativo di sapere che fine avesse fatto Mifsud. “Uno degli investigatori – scrive Solomon – ha detto a Roh che il team Durham voleva interrogare Mifsud, o quanto meno esaminare una deposizione registrata che il professore ha fornito nell’estate del 2018” sul suo ruolo nel Russiagate. Il che se non altro ci dice, come confermato a Solomon da una “fonte ufficiale”, che il procuratore Durham è determinato a comprendere se i soggetti privati e governativi che entrarono in contatto con la Campagna Trump nel 2016 “erano coinvolti in una inappropriata operazione di sorveglianza”. Ma perché Mifsud è la figura centrale per capire le origini del Russiagate? Come ricostruito nelle scorse puntate del nostro speciale, è sulla base dei suoi incontri con Papadopoulos che l’FBI afferma di aver aperto, il 31 luglio 2016, la sua indagine formale di controintelligence sulla Campagna Trump denominata “Crossfire Hurricane”. Durante uno di questi incontri, infatti, Mifsud avrebbe informato Papadopoulos di aver appreso che i russi avevano del materiale “dirt”, compromettente, su Hillary Clinton, nella forma di “migliaia di email”. Papadopoulos avrebbe poi raccontato della rivelazione di Mifsud al diplomatico australiano Alexander Downer, il quale solo dopo la notizia dell’hackeraggio dei server del Comitato nazionale dei Democratici, nel luglio 2016, informa il Dipartimento di Stato Usa, che a sua volta allerta l’FBI. È evidente la delicatezza della materia: l’Agenzia, criticata per aver dato credito al dossier Steele, tanto da citarlo a sostegno delle sue istanze dinanzi alla Corte FISA, si è sempre difesa sostenendo che tutto fosse partito proprio dai contatti Mifsud-Papadopoulos. Ma che succede se anche quei contatti si rivelano una fabbricazione? E quale effetto avrebbe sulla credibilità dell’intera indagine del procuratore Mueller? Nel suo rapporto conclusivo Mueller cita i legami di Mifsud con la Russia e personaggi russi, lasciando intendere che il professore sia un agente russo, e riporta che interrogato dall’FBI nel febbraio 2017 ha negato di aver detto alcunché a Papadopoulos sulle email della Clinton. Nell’arco di oltre due anni, il procuratore ha incriminato molte persone, anche solo per aver mentito all’FBI. Eppure, non ha mai accusato Mifsud. Perché? Una domanda posta direttamente a Mueller anche durante l’audizione al Congresso dal repubblicano Jim Jordan: “Why didn’t you charge Joseph Mifsud for lying to the FBI?” “I can’t get into it”, non posso rispondere su questo, è stata la risposta del procuratore. “I’m struggling to understand why you didn’t indict Joseph Mifsud”, ha incalzato un altro deputato repubblicano, Devin Nunes, ottenendo da Mueller questa replica: “You cannot get into classified or law enforcement information without a rationale for doing it and I have said all I’m going to be able to say with regard to Mr Mifsud”. Evidentemente, deve aver ritenuto di non avere motivi per dubitare della sua smentita e per pensare che potesse sapere qualcosa delle famose email. A una lettura attenta del rapporto, infatti, non afferma che il misterioso professore fosse un agente russo, ma vi allude. Più cauto dell’ex direttore dell’FBI Comey, che in un recente editoriale sul Washington Post definisce Mifsud senza mezzi termini “un agente russo”. Senonché Mifsud è un professore maltese di base a Roma e a Londra, con frequentazioni ai più alti livelli dei circoli diplomatici e di intelligence occidentali – relazioni che guarda caso Mueller omette di menzionare nel suo rapporto. È a Roma che conosce Papadopoulos, a un evento della Link Campus University diretta dall’ex ministro dell’interno italiano Vincenzo Scotti, che forma gli agenti di Cia, FBI, MI6 e dei servizi italiani – e da cui tra l’altro proviene l’attuale ministro della difesa Trenta. Dunque, se Mifsud era un agente russo, un incredibile numero di personalità e istituzioni accademiche, politiche e di sicurezza occidentali con le quali era in stretti rapporti potrebbero essere state seriamente compromesse, una gigantesca falla nella sicurezza degli Stati Uniti e dei governi alleati. Ma Mifsud in effetti non è mai stato trattato come tale potenziale minaccia, né dall’FBI né da altri servizi occidentali. Per quasi tutto il 2017, durante l’inchiesta Mueller quindi, ha mantenuto i suoi contatti con accademici, diplomatici e politici, ha concesso interviste, scambiato email con agenti FBI. Nel dicembre 2016, quando l’Agenzia era da mesi a conoscenza dei suoi contatti con Papadopoulos e si preparava a interrogarlo, si è recato a Washington per un incontro organizzato da un’associazione sostenuta dal Dipartimento di Stato. Nessuno si è mai preoccupato dei suoi legami con la Russia. Se allora non è un asset dei servizi russi, l’FBI e Mueller hanno però un problema nella loro narrazione. Perché nel suo rapporto il procuratore speciale suggerisce che lo sia senza in realtà affermarlo direttamente? Se fosse un asset di qualche intelligence occidentale, allora questo proverebbe che Papadopoulos è stato adescato e incastrato, già nella primavera del 2016, molto prima dell’apertura dell’inchiesta formale dell’FBI Crossfire Hurricane. Ed è proprio questo che, attraverso il suo avvocato, Mifsud si prepara ora a raccontare, o ha già raccontato, al team Durham. Mifsud, confida l’avvocato Roh a The Hill, era “un collaboratore di lunga data dell’intelligence occidentale”, non russa, e gli fu precisamente richiesto dai suoi contatti alla Link University e al London Center of International Law Practice (LCILP), due centri accademici legati ad ambienti diplomatici e di intelligence occidentali, di incontrare Papadopoulos a Roma, ad un evento del 14 marzo 2016. Evento a cui erano presenti, come racconterà lo stesso Papadopoulos, anche il renziano e clintoniano Gianni Pittella, il senatore del Copasir Giuseppe Esposito e il direttore della Polizia Postale (la cyber intelligence italiana) Roberto Di Legami. La stessa compagnia (Mifsud, Pittella, Di Legami, Esposito) di una precedente conferenza sulla sicurezza organizzata dalla Link al Senato l’11 settembre 2015. L’idea di presentare il giovane consigliere di Trump ai russi, ha raccontato ancora l’avvocato Roh a The Hill, non arrivò da Papadopoulos o dalla Russia, ma dai contatti dello stesso Mifsud alla Link e al LCILP (da Scotti, o dal “caro amico” Pittella?). Pochi giorni dopo l’incontro di marzo a Roma, Mifsud ha ricevuto istruzioni dai suoi superiori della Link di “mettere in contatto Papadopoulos con i russi”, incluso il direttore di un think tank, Ivan Timofeev, e una donna che gli fu chiesto di presentare a Papadopoulos come nipote di Putin. Mifsud sapeva che la donna non era la nipote del presidente russo, ma una studentessa frequentata sia alla Link che al LCILP, e ha pensato che fosse in corso un tentativo per capire se Papadopoulos fosse un “agente provocatore” alla ricerca di contatti stranieri. È evidente, ha concluso Roh parlando a The Hill, che “non fu solo un’operazione di sorveglianza, ma una più sofisticata operazione di intelligence”, nella quale Mifsud si è trovato coinvolto. Se confermato, sarebbe una vera e propria bomba, perché dimostrerebbe tre cose. Primo, che il contatto Mifsud-Papadopoulos, su cui si basa l’apertura dell’indagine dell’FBI Crossfire Hurricane, è stato fabbricato dall’FBI stessa o da servizi di intelligence alleati, italiani e/o inglesi, quindi che la Campagna Trump era nel mirino già molti mesi prima dell’hackeraggio dei server del Comitato democratico – a cui comunque le email di cui avrebbero parlato i due non potevano riferirsi. Secondo, l’operazione che ha visto coinvolto Mifsud è avvenuta sul territorio di Paesi alleati degli Usa, Italia e Regno Unito. A questo punto, inevitabile chiedersi: i servizi di intelligence, le autorità giudiziarie e i governi di quei Paesi (Procura di Roma e Governo Renzi) ne erano a conoscenza? Che ruolo hanno avuto in questa operazione? Vi hanno preso parte? E come? L’ex presidente della Commissione Intelligence della Camera Nunes ha di recente scritto una lettera al presidente Trump in cui suggerisce una serie di domande da rivolgere alla ormai ex premier britannica May, tra le quali di “descrivere qualsiasi comunicazione o relazione che Joseph Mifsud, potenzialmente noto – scrive Nunes – anche come Joseph di Gabriele (un nome in codice non proprio british, ndr), ha avuto con l’intelligence britannica e ogni informazione in possesso del governo britannico riguardo i legami di Mifsud con qualsiasi altro governo o agenzia di intelligence”. Terzo, l’intera indagine del procuratore Mueller e il suo rapporto finale vanno visti sotto tutt’altra luce. Non si trattava solo delle interferenze russe e della potenziale ostruzione alla giustizia da parte della Casa Bianca, ma anche e soprattutto di nascondere origini e fonti della bufala Russiagate. “There’s a reason why Mueller doesn’t really, after 40 million bucks, he can’t really tell us who Mifsud is, and stops short of calling him a Russian agent”, si è chiesto Nunes in una recente intervista. “Somehow, this Mifsud guy, if he really was a Russian agent, as James Comey has said recently, my God… You have FBI compromised, State Department compromised, Congress compromised. The list goes on and on, and on of the damage Mifsud would have done”. Allora, il lavoro di Mueller andrebbe letto attraverso le sue evidenti omissioni e ombre inquietanti si allungano sulle origini del Russiagate: quando, e sulla base di quali fonti, l’FBI ha iniziato l’indagine sulla Campagna Trump? Nel frattempo, buttando l’occhio in casa nostra, dopo l’arrivo alla direzione del Dis del generale Gennaro Vecchione, nominato dal premier Conte, come riporta Dagospia è fuga dal Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, l’organismo che sovrintende ai servizi segreti e ha sotto di sé Aise (sicurezza esterna) e Aisi (sicurezza interna): se ne vanno altre tre figure di vertice, tra cui il vice direttore Enrico Savio, che raggiunge Gianni De Gennaro, di cui era braccio destro, a Leonardo. Lo stesso De Gennaro ex capo della polizia e dei servizi per decenni punto di riferimento dell’FBI in Italia.

Joseph Mifsud era in Italia fino allo scorso marzo. Roberto Vivaldelli su it.insideover.com l'8 ottobre 2019. Il misterioso docente maltese Joseph Mifsud, al centro dell’indagine internazionale del Procuratore generale William Barr e di John Durham che dovrà stabilire se l’Italia nel 2016 abbia o meno collaborato con i democratici Usa per fabbricare false prove sul Russiagate, era in Italia fino allo scorso marzo. L’avvocato svizzero di Mifsud, Stephan Roh, ha dichiarato all’Epoch Times che il suo cliente ha vissuto fino a poco tempo fa in Italia, ma che il docente ha deciso di nascondersi di nuovo dopo la pubblicazione del rapporto finale sul Russiagate del consigliere speciale Robert Mueller (dunque il 18 aprile 2019). L’avvocato spiega di aver perso i contatti con il suo cliente negli ultimi mesi, ma che un “amico” è stato in contatto con il professore fino a marzo-aprile, “poco prima che venisse pubblicato il rapporto Mueller”. “Joseph Mifsud ha detto a un amico che era in Italia, e che non è in grado di viaggiare. Ha poi spiegato a quella persona che presto le cose sarebbero andate bene”, ha detto Roh all’Epoch Times in una e-mail. “Dopo la pubblicazione del rapporto Mueller Mifsud ha continuano a nascondersi”. La testata americana pubblica la foto del docente nello studio legale di Stephan Roh, a Zurigo, datata 21 maggio 2018, e pubblicata nei giorni scorsi anche da Il Foglio. Secondo la ricostruzione ufficiale, il docente affermò in un incontro dell’aprile 2016 a George Papadopoulos, consigliere della campagna di Trump, di aver appreso che il governo russo era in possesso di “materiale compromettente” (dirt) su Hillary Clinton “in forma di e-mail”. A quel punto l’ex consulente del presidente avrebbe ripetuto tali informazioni all’alto Commissario australiano a Londra, Alexander Downer, che a sua volte riferì tutto alle autorità americane. Da qui, il 31 luglio 2016, partirono le indagini dell’Fbi sui presunti collegamenti fra Trump e la Russia, accuse che in seguito si sono dimostrate inconsistenti.

La deposizione di Joseph Mifsud a Barr e Durham. In un’intervista pubblicata su Repubblica, l’ex ministro Dc Vincenzo Scotti, fondatore della Link di Roma, respinge l’accusa americana secondo cui Mifsud è una spia: “Parlava troppo per essere una spia. E se lo faccia dire da un uomo che ha attraversato un bel pezzo di storia, che ha fatto il ministro dell’Interno, che è stato nelle istituzioni in un certo modo, e che viene da una scuola politica rigorosa come quella Democrazia cristiana”. Eppure la verità su Joseph Mifsud potrebbe essere contenuta nella sua deposizione consegnata in estate all’Attorney General William Barr e a John Durham. E i contenuti, anticipati dal giornalista investigativo John Solomon su Fox News, sembrano smentire Vincenzo Scotti: “Posso assolutamente confermare che gli investigatori di Durham hanno ottenuto una deposizione audio di Joseph Mifsud dove egli descrive il suo lavoro, perché ha preso di mira George Papadopoulos, chi lo ha indirizzato a fare questo, quali istruzioni gli furono date, e perché ha messo in moto l’intero processo di introduzione di Papadopoulos alla Russia nel marzo 2016, che è davvero il punto focale e di partenza di tutta la vicenda della narrative sulla collusione” ha spiegato Solomon incalzato dalle domande di Sean Hannity. “Posso inoltre confermare – ha aggiunto il giornalista – che la Commissione giudiziaria del Senato ha ottenuto la stessa deposizione”.

“Mifsud collaboratore dell’intelligence”. Secondo quanto riferito da Solomon su The Hill, “Mifsud era un collaboratore di vecchia data dei servizi di intelligence occidentali cui venne chiesto di incontrare Papadopoulos a pranzo a Roma a metà marzo 2016”. Solomon ha ottenuto queste informazioni direttamente dall’avvocato del professor Mifsud, Stephan Roh. Secondo questa versione Mifsud era una spia dell’intelligence – italiana? Inglese? – e non un agente russo come fa intendere il Procuratore speciale Robert Mueller nel suo rapporto finale. Anche all’Epoch Times Roh conferma la notizia della deposizione. “Se Mifsud è un agente russo, come ha affermato l’ex direttore dell’Fbi James Comey, i paesi della Nato passeranno anni a stimare i danni. Se non lo è, è la prova che l’Fbi di Comey non stava indagando sulla campagna di Trump – ma stava eseguendo un’operazione di controspionaggio contro di essa”, scrive ancora il New York Post. 

Servizi segreti e Giuseppe Conte: cosa c'è dietro l'appoggio di Donald Trump. Ora si capisce tutto. Alessandro Giorgiutti su Libero Quotidiano l'8 Ottobre 2019. «A very talented man who will hopefully remain Prime Minister!». Un uomo di grande talento, spero che rimanga presidente del Consiglio. Che il tweet col quale Donald Trump, lo scorso 27 agosto, benediceva un «Giuseppi» Conte in procinto di passare dal governo con la Lega al governo col Pd, fosse più di un attestato di stima personale e suggellasse invece un' intesa politica a un livello più profondo, lo si era ipotizzato subito. Perché il presidente americano voltava le spalle così platealmente a Matteo Salvini, un leader che pure aveva preso la sua amministrazione come modello, e dava il suo beneplacito a una nuova maggioranza di centrosinistra? Alcune notizie emerse nei giorni scorsi offrono qualche ipotesi di risposta. Si è appreso infatti che in quell' agosto rovente nel quale è maturata la crisi di governo, nei giorni cruciali tra l' 8 (quando la crisi è formalizzata da Salvini) e l' arringa anti-salviniana del premier in Senato del 20, una delegazione americana guidata dal ministro della Giustizia William Barr programmava con Conte un viaggio a Roma, dove si sarebbe intrattenuta con i vertici dei servizi segreti italiani all' insaputa del mondo politico. Era il giorno di Ferragosto quando gli americani sbarcarono nella Capitale, dove incontrarono il capo dei nostri 007, Gennaro Vecchione. Un colloquio per il quale era stato necessario il via libera da parte di «Giuseppi», titolare della delega ai servizi segreti. 

Ferragosto di fuoco - Secondo i giornali Usa che hanno rivelato questo incontro, gli americani cercano di capire quale ruolo abbiano avuto alcuni elementi del nostro Paese nel cosiddetto Russiagate, le presunte trame contro Hillary Clinton che sarebbero state ordite in vista delle presidenziali americane dal comitato elettorale di Trump in combutta col Cremlino. Ebbene questo Russiagate, questo complotto anti-Clinton, sarebbe in realtà un complotto inventato, una "fake news", secondo Barr, che si è impegnato in una controinchiesta con l' intento di dimostrare che le carte che inguaierebbero Trump (e che sono alla base del Russiagate) sono in realtà farlocche. La vicenda qui si complica perché, secondo alcune accuse (segnatamente, quelle di un ex consigliere di Trump, George Papadopoulos), dietro le notizie messe in circolo per screditare Trump ci sarebbe anche l' ex premier Matteo Renzi, "usato" da Barack Obama (Renzi ha annunciato querele). Dal pasticcio, qui brutalmente sintetizzato, emergono (almeno) quattro chiavi di lettura possibili.

1. L' endorsement di Trump per «Giuseppi» più che sulla stima si fonderebbe sull' interesse personale, sul "tornaConte", dello stesso Trump. Lo dimostrerebbe il fatto che i colloqui tra americani e servizi sono continuati anche dopo il primo appuntamento del 15 agosto. Il 27 settembre, Conte, che nel frattempo ha giurato come premier dell' esecutivo giallo-rosso (5 settembre), autorizza un nuovo incontro tra il ministro Burr, il procuratore John Duhram che si sta occupando in prima persona della contro-inchiesta sul Russiagate, il capo dei servizi Vecchione e i responsabili della sicurezza esterna e interna, Luciano Carta e Mario Parente. Se questa lettura è corretta, la decisione di tenere le deleghe ai servizi e di assicurarsi dunque una quota pesante di potere "reale", stretto com' era tra due vicepremier rappresentati spesso come burattinai che lo facevano muovere a comando, si è rivelata alla fine come l' arma più potente in mano all' avvocato pugliese. Quella che, nel momento più delicato, quando rischiava, alla caduta del suo primo governo, di tornare nell' anonimato, lo ha tenuto a galla e lo ha rilanciato. Ed è per questo, per disinnescarlo, che Renzi oggi gli chiede di rinunciarci.

2. La vicenda avrà un seguito: per Conte sarebbe difficile, perfino imbarazzante, sottrarsi adesso alle richieste di riferire al Copasir (la commissione parlamentare che si occupa dei servizi), dopo che lui stesso chiese insistentemente a Salvini di relazionare in Parlamento sui presunti rubli alla Lega, vicenda nella quale, peraltro, il leader leghista non era direttamente coinvolto.

3. Renzi, accusato come detto di essersi mosso a favore di Obama, alza la voce perché pensa che la sua miglior difesa, in questo momento, sia l' attacco. È il motivo che l' ha spinto a sollecitare Conte ad andare al Copasir per spiegare il suo ruolo, invitandolo pure, «nel suo interesse», a non mantenere le deleghe sugli 007.

4. Pd e M5S invece tacciono. Una reticenza in parte obbligata, visto che la vicenda potrebbe mettere in difficoltà il governo. I democratici, inoltre, non hanno certo interesse ad esporsi su un caso che li vede comunque coinvolti.: al governo c' erano loro, le deleghe sui servizi erano in mano ad ex compagni di provata fede (non a Renzi, che da premier ci aveva rinunciato), all' epoca dei (presunti) fatti. Quanto ai grillini, il possibile motivo di imbarazzo sta nel ruolo chiave che in tutto questo garbuglio pare aver avuto la Link University, l' ateneo fondato da Vincenzo Scotti che ha fatto da levatrice al M5S di governo: lì insegnava Joseph Mifsud, il professore maltese che avrebbe offerto al consulente di Trump Papadopoulos materiale in grado di compromettere la Clinton. Una "polpetta avvelenata", nella tesi di Trump. E se la tesi fosse vera, a chi toccherebbe pagare il conto? Alessandro Giorgiutti

Luca Fazzo per “il Giornale” il 7 ottobre 2019. Favori, favori, favori. Depurata dalle teorie complottarde, la spy story che agita in questi giorni il mondo italiano della politica e dell' intelligence è solo la nuova puntata di una faccenda vecchia come la Repubblica: la subalternità dei nostri servizi segreti nei confronti dell' alleato statunitense, l' esistenza dentro le nostre agenzie di sicurezza di una sorta di partito «amerikano» che trae la sua forza dai rapporti privilegiati con Washington. E che per tutelare questi rapporti è pronto a venire incontro ai desideri a stelle e strisce. Leciti o (come dimostrò il caso Abu Omar) illeciti. La storia che ruota intorno a Joseph Mifsud, professore maltese di casa a Roma e probabile agente della Cia, è a suo modo esemplare: perché racconta bene come gli «amerikani» dei nostri servizi siano a disposizione non di questa o quella fazione Usa, ma semplicemente di chi comanda in quel momento. Una flessibilità tutta italiana, si potrebbe dire. La storia infatti si svolge in due tempi. Il primo è nel 2016: alla Casa Bianca c' è Barack Obama, alla fine del secondo mandato, e i democratici si preparano a sfidare con Hillary Clinton il repubblicano Donald Trump. Per fermare il tycoon dai capelli rossi parte una sorta di trappolone, si costruisce uno scandalo che punta a delegittimarlo: uomini a lui vicini vengono avvicinati con la promessa di carte provenienti dal Cremlino che screditano Hillary. Uno degli uomini di Trump che casca nella trappola è George Papadopoulos, uno dei suoi consiglieri. E ad attirarcelo è stato lui, Mifsud: che all' epoca insegna alla Link Campus, l' università romana amata dalle nostre «barbe finte». Nell' organizzare la trappola all' uomo di Trump, Mifsud si avvale dell' aiuto dei suoi amici nella nostra intelligence? Se questo è accaduto, è accaduto sicuramente con il consenso del presidente del Consiglio dell' epoca, Matteo Renzi, e del suo delegato ai servizi segreti, Marco Minniti. (Così in questi giorni Papadopoulos e Renzi danno vita a un buffo siparietto via Twitter: l' americano accusa l' italiano di avere orchestrato il bidone, Renzi gli ritwitta «lei risponderà di queste accuse in un tribunale italiano», Papadopoulos ribatte che questa storia «costerà a Matteo Renzi la sua carriera politica»). Fine del primo tempo. In America Trump vince le elezioni, viene scagionato dall' accusa di avere tramato con Putin per fregare la Clinton, scarica Papadopoulos e fa partire una controcommissione d' inchiesta per accusare i suoi ex accusatori. E gli uomini del presidente vengono a cercare le tracce del complotto fino a Roma: dove nel frattempo Mifsud è sparito nel nulla. A maggio dello scorso anno, mentre l' Fbi lo cerca invano, alcuni vicini di casa lo incrociano ancora un paio di volte: la casa è in via Cimarosa 3, ed è di proprietà della Link Campus. Dopodiché il professore sparisce definitivamente. Ma Trump e il suo procuratore generale Barr non mollano. Vogliono a tutti i costi (l' anno prossimo in America si vota di nuovo) trovare le tracce del complotto democratico del 2016. E Barr arriva a Roma. A rivelarlo il 28 settembre è il Giornale.it. La prima missione è dell' agosto scorso, quando il ministro americano incontra i capi dei nostri servizi segreti. Pochi giorni dopo, arriva il ringraziamento, il famoso tweet in cui Trump esprime il suo appoggio all' amico «Giuseppi Conte» per la formazione del nuovo governo. Una parte dell'intelligence italiana ha aiutato Obama quando comandava Obama, e una parte dell' intelligence aiuta Trump ora che al potere c' è lui. Ed è probabilmente sempre la stessa parte, fulminea nel rischierarsi appena di là dall' Atlantico cambiano gli equilibri. Ora Renzi chiede a Conte di dare conto al Parlamento di quanto stia combinando in questi giorni nei rapporti con i servizi Usa. Ma forse nemmeno lui ha interesse a sollevare del tutto il velo sui legami sotterranei tra la Cia e i nostri 007. D' altronde fu lui, quando era premier, a dare l' okay alla grazia ai due agenti americani condannati per il sequestro Abu Omar.

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della sera” l'8 ottobre 2019. I servizi segreti italiani hanno svolto indagini sul Russiagate per conto degli Stati Uniti. È stato il direttore del Dis Gennaro Vecchione ad avviare accertamenti, su richiesta del ministro della Giustizia William Barr, e la riunione convocata il 27 settembre scorso è servita proprio a dare conto dell' esito delle verifiche. È il nuovo, inquietante tassello di una vicenda ancora segnata da moltissimi punti oscuri. E adesso sarà il presidente del Consiglio Giuseppe Conte a dover fornire spiegazioni al Copasir su questa procedura, visto che è stato proprio lui a concedere il via libera ai rapporti tra gli 007 e il politico americano. Ricostruendo i rapporti con i fedelissimi di Trump. Secondo fonti di Palazzo Chigi la richiesta di collaborazione arriva lo scorso agosto tramite l'ambasciata americana direttamente al Dis e il direttore informa il premier. In realtà non viene escluso che Conte fosse stato già informato dagli alleati. In ogni caso non esita a concedere l'autorizzazione e a Ferragosto Barr arriva a Roma proprio per incontrare Vecchione. Il colloquio tra i due è riservato, ma circa dieci giorni dopo dal Dis parte una richiesta formale per l'Aise e l'Aisi - le due agenzie di intelligence - per avere «ogni informazione utile sulla presenza in Italia di Joseph Mifsud, e sui suoi contatti diretti oppure mediati attraverso la Link Campus, con apparati o funzionari dei servizi segreti italiani». La richiesta viene ampliata anche alle persone che «fanno parte del suo circuito di riferimento». Mifsud è il professore della Link che per primo, nel marzo 2016, avrebbe svelato al collaboratore di Trump, George Papadopoulos, l'esistenza di mail «compromettenti» per la candidata alle presidenziali Hillary Clinton custodite dai russi. Lo staff del presidente americano ritiene però che abbia agito come «agente provocatore» degli 007 europei proprio per dimostrare che Trump stava tramando contro la Clinton. L'istruttoria viene dunque avviata e circa un mese dopo, il 26 settembre, Vecchione convoca il direttore dell'Aise Luciano Carta e quello dell' Aisi Mario Parente per un riunione che si terrà il giorno successivo nella sede del Dis di piazza Dante. La Link è al centro della discussione, così come la possibilità che Mifsud abbia ottenuto «coperture» e aiuto per far perdere le proprie tracce. Adesso sarà Conte a dover riferire in Parlamento quali informazioni siano state fornite a Barr. Al momento viene escluso che durante l'incontro il ministro americano abbia ottenuto documenti perché sarebbe stata specificata la «necessità, per ottenere atti ufficiali, di procedere per rogatoria», ma bisognerà accertare se possano essergli state comunicate notizie riservate su quanto scoperto nel corso di questi ultimi tre anni sul conto del professore e della sua cerchia. Compresa la possibilità che possa aver deciso di trasferirsi in Russia con Olga Polonskaya, la donna che lo aveva accompagnato agli appuntamenti con Papadopoulos. Dopo Conte di fronte al Copasir dovrà essere sentito Vecchione. Il premier gli ha rinnovato la fiducia appena due giorni fa, specificando invece di voler arrivare «a un chiarimento interno all'intelligence». Dopo la bufera che lo ha travolto per il suo ruolo nel Russiagate, Vecchione avrebbe cercato di difendersi avvalorando la tesi di un complotto ai suoi danni «perché ho preteso correttezza e trasparenza nella gestione dei fondi riservati». Una linea che però non sembra avere al momento supportato con elementi di riscontro e dunque bisognerà vedere se davvero deciderà di ribadirla anche in Parlamento.

Marco Galluzzo per il “Corriere della Sera” l'8 ottobre 2019. Gianni Pittella ha conosciuto bene e frequentato a lungo Joseph Mifsud, la presunta spia di cui gli americani cercano tracce, ma l' ex professore maltese della Link University «per quanto ne so potrebbe essere vivo o morto, di sicuro io ne ho perso le tracce e non ne so più nulla». Il senatore del Partito democratico e capogruppo in commissione Affari europei al Senato si tira fuori dalla vicenda che è al centro delle cronache in questi giorni, che coinvolge l' amministrazione americana e i nostri servizi segreti: «È una storia più grande di me, una storia maiuscola e io sono una nullità, non mi ha sfiorato l' ipotesi che potesse essere una spia».

L' ha cercato anche lei?

«Non ho più notizie di lui e sono esterrefatto che sia scomparso».

Come l' ha conosciuto?

«Quando era presidente del consorzio delle università europee, aveva contatti con centinaia di università e mi invitava a diversi convegni, a delle conferenze, ma mai più di questo».

Ma si sarà fatto un' idea di qualcosa di strano?

«Parlavamo e partecipavamo a iniziative sui temi del Mediterraneo, non ho mai avuto impressione di qualcosa di strano».

Renzi ha querelato George Papadopoulos, ex assistente di Trump, per essere stato accusato della genesi di un complotto contro Trump da parte dell' amministrazione Obama. Lei che ne pensa?

«Non voglio entrare in questa diatriba, ma mi sembra assolutamente fantasioso che una persona come Renzi abbia potuto tramare qualcosa contro l' attuale amministrazione americana».

Insomma lei di questa storia non si è fatto nessuna idea?

«Qualche volta vado a vedere qualche film di spionaggio con mia moglie al cinema, per il resto non ne capisco nulla e preferisco starne fuori. Del presunto Russiagate, tranne quello che leggo sui giornali, non so nulla, non c' entro nulla».

Gianni Pittella è ritratto in diverse foto con Mifsud ed è stato tirato in ballo nella vicenda Russiagate in un'intervista da Simona Mangiante, moglie di George Papadopoulos.

Cosa risponde?

«Sempre la stessa cosa, nulla di più di quello che leggo. Confermo di aver presentato a Mifsud la signora Mangiante, ma come può accadere in tante presentazioni in occasioni conviviali. Sono due anni che dicono sempre le stesse cose.

Che conoscevo Mifsud e che nel corso di una conferenza tenuta a Bruxelles gli ho presentato la signora Mangiante, che lavorava al Parlamento europeo. Dopodiché conoscere Mifsud non mi pare che sia un fatto rilevante, perché conosceva migliaia di persone».

Antonio Grizzuti per “la Verità” il 22 ottobre 2019. Da «caro amico» a semplice conoscente tra «migliaia di persone». Sono bastati solo due anni a Gianni Pittella per scaricare Joseph Mifsud, il misterioso, e ormai irreperibile, professore maltese al centro dello scandalo internazionale Spygate. Un caso diventato ingombrante anche per il governo giallorosso e che costringerà il premier, Giuseppe Conte, a rispondere domani alle domande del Copasir, in particolar e sugli incontri del ministro americano della Giustizia, William Barr, con i vertici degli 007 italiani nell' ambito del cosiddetto Russiagate. Ma restando, per il momento, ai rapporti tra l' ex vicepresidente del Parlamento europeo e Mifsud qualcosa non torna. Solo a novembre 2017, infatti, l' attuale senatore dem raccontava a Repubblica che tra lui e Mifsud era nato un «rapporto di amicizia tale che abbiamo partecipato a diversi eventi insieme». Più avanti Pittella tracciava un ritratto affettuoso dell' accademico maltese, «persona cordiale e intelligente, uno dei più grandi uomini di relazioni pubbliche mai conosciuto, un uomo di alto profilo», grazie al quale aveva potuto partecipare a «incontri molto interessanti sul Mediterraneo». Ma ora che il caso Spygate minaccia di creare sconquassi, i toni si fanno molto più freddi. Un paio di settimane fa, intervistato dal Corriere, Pittella ha dichiarato che sì, conosceva Mifsud, ma stavolta questi viene presentato semplicemente come un personaggio che «aveva contatti con centinaia di università e mi invitava a diversi convegni, ma mai più di questo». Capito bene? «Mai più di questo». Eppure è sufficiente consultare i motori di ricerca per rendersi conto che il rapporto tra i due in realtà va ben oltre. Per prima cosa, come si può facilmente verificare dalla lettura del suo cv, Pittella è stato visiting professor alla London academy of diplomacy (Lad), la scuola di relazioni internazionali affiliata alla university of East Anglia ai tempi in cui era direttore proprio Joseph Mifsud. L' informazione è verificabile anche dalla dichiarazione di interessi finanziari presentata a giugno 2014 da Pittella al Parlamento europeo, nel quale viene riportato l' incarico (senza compenso). Tecnicamente, si può dire che in questa circostanza «the Professor» - come lo chiama il procuratore speciale Robert Mueller, autore del celebre rapporto sulle ingerenze russe nella campagna presidenziale del 2016 - fosse il «capo» di Pittella. Difficile dunque pensare che tra i due non esistesse già all' epoca uno scambio professionale e culturale di una certa rilevanza. Se andiamo più avanti nel tempo, il nome di Pittella figura anche nella brochure della scuola relativa all' anno accademico 2015-16, quando il Lad è passato ormai sotto la gestione dell' università di Stirling. Da segnalare anche i nomi di Claire Smith, diplomatico britannico ed ex membro del Join intellicente committee (organo responsabile della supervisione dei servizi segreti della Corona), e di Stephan Roh, facoltoso avvocato svizzero e legale del professore maltese. Notevoli anche i legami di Pittella con la Link, l'ateneo romano nel quale lo stesso Mifsud incontrò George Papadopoulos, membro dello staff di Donald Trump, millantando contatti con importanti politici russi e la possibilità di fornirgli migliaia di messaggi di posta elettronica compromettenti sul conto di Hillary Clinton. Sempre stando alle dichiarazioni di interessi finanziari , nel 2012 Pittella dichiarava di essere membro (anche stavolta senza compenso) del consiglio di amministrazione della fondazione Link campus university. Proficua poi la produzione letteraria per conto della Eurilink university press, casa editrice della Link. Non si può fare a meno di menzionare la prefazione scritta a quattro mani con il «conoscente» Joseph Mifsud al libro Managing a small business in the contemporary environment, del 2012. Ma in tempi più recenti Pittella scrive altri due testi: uno è Exit. Europa, Mediterraneo, Mezzogiorno, riforme, del 2016, mentre l' altro si intitola La notte dell' Europa. Perché la Grecia deve restare nell' euro, dato alle stampe un anno prima. E proprio quest' ultimo libro è stato oggetto, il 24 ottobre 2015, di una presentazione nella biblioteca della Link di via Nomentana alla presenza di ospiti di tutto rispetto: oltre all' ambasciatore greco, figuravano tra i relatori l' attuale presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, il suo predecessore, Antonio Tajani, e l' immancabile patron dell' ateneo, Vincenzo Scotti. Sempre nel 2015, ma a settembre, Pittella partecipa al convegno «Da Ground Zero al Giubileo: l' evoluzione dell' homeland security in risposta alla minaccia terroristica», che vede tra i relatori Scotti, Marco Mayer (direttore del Master in Intelligence alla Link) e lo stesso Mifsud. Pure Domenico Pittella, figlio di Gianni, finisce per insegnare alla Link, dove nel 2016 è docente di diritto dei consumatori. Nulla di illegale, per carità, certo colpisce che alla fine i destini di famiglia si incrocino proprio all' ombra degli alberi di Casale San Pio. Sarà proprio Gianni Pittella a presentare nel 2011 Joseph Mifsud a Simona Mangiante, moglie di George Papadopoulos, come lei stessa ha da poco raccontato a Repubblica. Più tardi nel 2016, sempre Pittella suggerì alla Mangiante di rivolgersi a Mifsud, appena nominato direttore dell' oscuro London center for international law and practice (Lcilp). «Mi prese col ruolo di direttrice delle relazioni diplomatiche», spiega la moglie di Papadopoulos, «in realtà era interessato a dossier confidenziali di cui mi ero occupata a Bruxelles, e che mai gli ho rivelato». Tutti aspetti sui quali si sta concentrando l' indagine condotta dal procuratore John Duhram, e che secondo indiscrezioni riportate dall' emittente Nbc News potrebbe trasformarsi in un' indagine penale con un conseguente aumento delle risorse impiegate e una decisa accelerazione in termini di tempi.

Russiagate, Conte dettò la linea agli 007 e autorizzò indagini sul prof scomparso. Pubblicato martedì, 08 ottobre 2019 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. Tensione fra gli 007 in vista delle audizioni al Copasir. Dopo l’intervento al Comitato ci sarà il «chiarimento» voluto da Palazzo Chigi. Al centro di tutti i colloqui il ruolo di Mifsud che gli americani volevano trovare. Prima dell’incontro tra il ministro della Giustizia americano e i capi dei servizi segreti italiani ci sono state almeno due riunioni «preparatorie» convocate dal premier Giuseppe Conte. Colloqui a Palazzo Chigi con il direttore del Dis Gennaro Vecchione e i responsabili delle due Agenzie — Luciano Carta per l’Aise e Mario Parente per l’Aisi — nel corso dei quali è stata dettata la linea da tenere sul Russiagate. Uno si è svolto il 26 settembre, alla vigilia della visita di William Barr nella sede del Dis in piazza Dante. E adesso spetterà proprio al presidente del Consiglio svelare al Copasir perché decise di autorizzare Vecchione a effettuare le indagini che venivano richieste dal politico statunitense su Joseph Mifsud, il professore dell’università Link Campus che per primo aveva svelato l’esistenza di mail compromettenti di Hillary Clinton in mano ai russi. E sulle persone che facevano parte del suo «circuito». L’audizione potrebbe svolgersi già la prossima settimana visto che oggi sarà eletto il presidente del Copasir in sostituzione di Lorenzo Guerini, diventato ministro della Difesa nel governo Pd-M5S. La poltrona spetta all’opposizione e nelle trattative interne al centrodestra l’ha spuntata il leghista Raffaele Volpi, che nel governo Lega-M5S era sottosegretario alla Difesa. Da giorni il leader del Carroccio Matteo Salvini chiede chiarimenti, dunque appare scontato che la linea sarà quella di attaccare il premier, anche tenendo conto di quel che sta accadendo all’interno dell’intelligence. Domenica scorsa, al termine dell’ennesima giornata di tensione sul Russiagate e sugli impegni presi da Conte con gli Stati Uniti per il rispetto dei patti relativi agli F-35, fonti di Palazzo Chigi fanno trapelare «l’irritazione del presidente del Consiglio per giochi interni che ci sono sempre stati in passato ma che ora non accetta più». Dopo il sospetto sull’esistenza di «talpe» tra gli 007, l’avvertimento è chiaro: «Dopo che avrà parlato al Copasir, Conte si occuperà personalmente di un chiarimento interno». Questione di giorni e si arriverà alla resa dei conti. Quanto basta per far fibrillare gli apparati, anche perché la fiducia nei confronti di Vecchione — che aveva scelto personalmente — non risulta messa in discussione e questo fa presumere che il messaggio sia diretto ad altri alti funzionari. E che qualche testa possa saltare.

Tommaso Ciriaco per “la Repubblica” l'8 ottobre 2019. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte autorizzò l' incontro tra il capo del Dis Gennaro Vecchione e il ministro della Giustizia dell' amministrazione Trump, William Pelham Barr, per cercare «nell' interesse dell' Italia di chiarire quali fossero le informazioni degli Stati Uniti sull' operato dei nostri Servizi all' epoca dei governi precedenti ». Ecco la versione che a sera fornisce Palazzo Chigi, sollecitata da Repubblica a offrire le risposte che ancora mancano in questa sgangherata succursale del Russiagate con sede a Roma. Una posizione che impegna in modo pesante l' attuale vertice dell' esecutivo, visto che prefigura una sorta di indagine sulla correttezza dei comportamenti dei servizi segreti italiani, dei governi e dei premier nel periodo che va dal 2016 al 2017. Dunque su Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, due leader coinvolti nella nuova era giallo-rossa. Per ribattere agli interrogativi suscitati dal caso Barr, Conte ha già in agenda un doppio intervento. «Per correttezza istituzionale riferirò prima al Copasir - ha assicurato venerdì ad Assisi - e poi in conferenza stampa, davanti all' opinione pubblica ». Non accadrà quindi prima di una decina di giorni,dopo che domani il comitato eleggerà un nuovo presidente. Ma il premier, interpellato, fa fornire nuove risposte sul caso. Il primo punto è fondamentale per comprendere la genesi e l' opportunità del confronto tra Barr e i capi dei servizi italiani: da chi è arrivata la richiesta a Conte di autorizzare gli incontri? Palazzo Chigi spiega che «la richiesta è pervenuta tramite i canali diplomatici e non attraverso contatti diretti del Presidente del Consiglio con l' amministrazione americana». Si sostiene, dunque, che non c' è stato un colloquio diretto tra il premier italiano e Donald Trump. E che neanche Barr è entrato in rapporto diretto con il capo dell' esecutivo italiano. Piuttosto, si accredita la tesi di un passaggio intermedio, attraverso un canale di comunicazione diplomatico. Segreteria di Stato Usa, forse, più probabilmente l' ambasciata americana a Roma. Ma è un secondo quesito a fornire ulteriori elementi sul punto: i canali diplomatici Usa si sono rivolti direttamente al premier? No, assicura Palazzo Chigi. «Conte non ha avuto un contatto diretto». Piuttosto, «la richiesta è stata fatta da Barr tramite la diplomazia. Ed è stata fatta pervenire al responsabile dell' intelligence. E quindi anche Conte è stato informato». Il percorso, spiegano, sarebbe dunque questo: il ministro Usa attiva canali diplomatici statunitensi. Questi entrano in contatto con Vecchione, pare senza una mediazione "diplomatica" italiana. E a quel punto anche il premier viene informato, presumibilmente dallo stesso capo del Dis, e autorizza Vecchione a incontrare Barr. Ma è la risposta al terzo quesito ad aprire scenari nuovi e gravidi di conseguenze. È il cuore del problema e risponde essenzialmente a un interrogativo: per quale ragione politica e istituzionale Conte ha autorizzato gli incontri di Barr con i vertici dei Servizi italiani? «Era nostro interesse - è la spiegazione fornita chiarire quali fossero le informazioni degli Stati Uniti sull' operato dei nostri Servizi all' epoca dei governi precedenti». Si tratta del periodo che va dal 2016 al 2017. A guidare l' esecutivo erano prima Renzi e poi Gentiloni. Di fatto, Conte autorizza colloqui per capire cosa gli Stati Uniti sanno delle mosse dei servizi italiani e della linearità dei comportamenti dei governi a cui rispondevano. Puntando dunque l' obiettivo su Renzi, il principale sponsor del Conte bis. E su Gentiloni, scelto da Conte come commissario agli Affari economici Ue per cementare il patto Pd-5S. Ma non basta. Palazzo Chigi fa sapere anche che Conte non ha colto alcuna sgrammaticatura nel format che ha portato allo stesso tavolo Barr e Vecchione. «Nessuna anomalia, ma anzi massima prudenza ». Fin qui la versione di Conte. Il corollario di questi ragionamenti è nella risposta al terzo interrogativo: alla luce delle parole di Renzi, il premier intende cedere ad altri la delega ai Servizi che detiene? «Il Presidente - questa è la posizione di Palazzo Chigi - è comunque responsabile per legge. Quindi tiene la delega, come pure ha fatto Gentiloni». Quanto fatto trapelare sarà sviluppato da Conte davanti al Copasir. Prima, però, va eletto un nuovo presidente del comitato, dopo le dimissioni di Lorenzo Guerini, passato al ministero della Difesa, L' elezione è in agenda per domani. Matteo Salvini ha chiesto per la Lega quel posto. Due sere fa, di fronte a Silvio Berlusconi, ha discusso animatamente con Giorgia Meloni, che reclama per Adolfo Urso lo stesso incarico. Il leghista chiede un atto di fedeltà a Forza Italia, proponendo due nomi: Nicola Molteni, legatissimo al leader, o Raffaele Volpi, amico di Giancarlo Giorgetti. L' ago della bilancia, però, resta Berlusconi. Se non cede a Salvini, la maggioranza voterà per Urso ed eviterà un leghista alla guida del Copasir dopo il caso Metropol. La richiesta americana è arrivata da canali diplomatici direttamente agli apparati, ma il premier ne è stato subito informato Si infiamma la corsa alla presidenza del Copasir. La Lega punta al ruolo con Volpi, ma Urso (Fdi) ha per ora il sostegno di Fi Il premier e il direttore Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, 55 anni, accanto a Vincenzo Vecchione, classe 1959, dal novembre 2018 direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza.

Carlo Bonini per “la Repubblica” l'8 ottobre 2019. La ricostruzione dell'appendice italiana del Russiagate con cui il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte esce dal suo arrocco introduce un dato dalle conseguenze politiche imprevedibili. Potenzialmente dirompenti. E, per altro, molto spiega dell' insistenza con cui, da tre giorni a questa parte, Matteo Renzi ha afferrato la vicenda. Per ridurla all' osso, infatti, Conte giustifica la sua scelta di autorizzare i due incontri di Roma (15 agosto e 27 settembre) del direttore del Dis Gennaro Vecchione e dei vertici delle nostre due agenzie di spionaggio e controspionaggio - Aise e Aisi con il ministro di giustizia William Barr e il procuratore Durham in forza di un "interesse nazionale" che mirava a verificare l'operato della nostra Intelligence nel biennio 2016-2017. Quando a Palazzo Chigi si avvicendarono Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. E, dunque, la fondatezza o meno del sospetto che, in quella stagione politica, la nostra Intelligence potesse essere stata istruita o comunque coinvolta nel dare un contributo alla costruzione del dossier destinato a screditare il neoeletto presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Quello appunto battezzato "Russiagate". Costruito intorno alle email hackerate sull' account di Hillary Clinton e veicolate alla campagna Repubblicana attraverso l' uomo chiave dell' affaire: l' enigmatico professore maltese Joseph Mifsud, frequentatore dei seminari della Link University di Roma, l' ateneo privato dove per molto tempo i dirigenti di vertice della nostra Intelligence hanno fatto la fila per tenere le loro conferenze. Raccontandola così, Conte accredita dunque la sua decisione non come un atto di genuflessione all' alleato americano o, insieme, di ricerca di legittimazione internazionale, ma come una mossa a specchio. Che, nell' estate appena trascorsa, vede la Casa Bianca di Trump e un premier in fase di transizione da un esecutivo giallo- verde a uno giallo-rosso, avvinti da un comune interesse politico. Per Trump, ribaltare la lettura del "Russiagate" documentata dal rapporto Mueller-Fbi, trasformandosi da carnefice del candidato democratico in vittima di un complotto ordito dagli stessi democratici con la complicità di governi amici (tra questi, l' Italia del centro- sinistra). Per Conte, acquisire informazioni in grado, potenzialmente, di diventare merce di ricatto politico nei confronti dell' uomo - Matteo Renzi - e del Partito - il Pd - che, nel luglio scorso, erano ancora avversari e che, in due settimane, sarebbero diventati alleati. Sappiamo al momento come in questa House of Cards sull' asse Roma- Washington, manchi la pistola fumante. Sappiamo infatti che nelle loro due visite a Roma, gli emissari di Washington non sono stati in grado di produrre alla nostra Intelligence una sola evidenza, un solo straccio di prova - che non sia stato uno scartafaccio di stampate da Internet e ritagli di giornale - in grado di corroborare il sospetto di un appoggio o copertura dei nostri Servizi alle mosse sghembe del professore Joseph Mifsud nel periodo 2016-2017. Quando, appunto, l'Aise era guidata dall'uomo, Alberto Manenti, di cui il governo gialloverde ritenne di doversi sbarazzare per primo, e l' Aisi dal suo attuale direttore, Mario Parente (fu nominato nell' aprile del 2016). Così come sappiamo che, a dire delle nostre due agenzie di Intelligence, Mifsud era sempre stato considerato poco più di un millantatore. Non sono dettagli da poco. Perché una volta svuotato della sua sostanza - l' ipotesi che Trump fosse stato effettivamente vittima di un complotto internazionale cui partecipò l' Intelligence italiana dei governi Renzi-Gentiloni - dell' appendice italiana del Russiagate resta dunque solo lo svelamento del suo obiettivo che - a dire di Conte - era appunto sullo sfondo dei colloqui con gli americani. La verifica a posteriori della fedeltà/infedeltà dei nostri apparati e l' occasione di una resa dei conti con la stagione di Matteo Renzi. E, insieme a lui, di Paolo Gentiloni e dell' uomo che, nel 2016, aveva la delega all' Intelligence, il futuro ministro dell' Interno Marco Minniti. Non è necessario un indovino per immaginare che messa così, la storia avrà effetti politici forse ancor più imprevedibili. Quantomeno nel già complicatissimo rapporto tra il presidente del Consiglio e Renzi. Ma è altrettanto evidente che questa ricostruzione non esaurisce le domande cui Conte ha promesso di rispondere di fronte al Copasir, il Comitato parlamentare di controllo sui Servizi, non appena avrà trovato un accordo sul suo nuovo Presidente. Non si comprende infatti, pur volendo stare alla sua ricostruzione, come mai il premier abbia autorizzato il direttore del Dis a un incontro al buio con gli americani senza comprendere l' anomalia di un vis a vis tra l' autorità politica di un Paese estero e un alto dirigente della nostra Intelligence. Né si comprende come mai, se è vero, come Conte ora sostiene, che la visita di Barr e Durham venne chiesta attraverso canali diplomatici dal Dipartimento di Stato direttamente a Vecchione (cui lui poi diede semaforo verde), fonti diplomatiche americane, ancora due giorni fa, raccontavano al New York Times esattamente il contrario. Vale a dire che la diplomazia americana venne tenuta all' oscuro dei motivi delle visite in Italia. Ci sarebbe anche un'ultima circostanza. Che la ricostruzione di Conte non smentisce, ma anzi accredita. Che nella partita del "Russiagate", Palazzo Chigi e Casa Bianca, nell' estate appena trascorsa, abbiano usato i Servizi per vicende che nulla avevano a che fare con la sicurezza nazionale.

Laris Gaiser per ''la Verità'' il 9 ottobre 2019. Il mio primo di una lunga serie di incontri con Jospeh Mifsud è datato febbraio 2012 ed ebbe luogo a Barcellona. Quel giorno un governo europeo mi nominò quale membro del consiglio d' amministrazione dell' Università Euromerditerranea - Emuni, un progetto accademico internazionale sostenuto finanziariamente dall' Ue. La mia nomina era legata direttamente al fatto che Joseph Mifsud, allora presidente dell' ateneo, pareva non essere all' altezza del ruolo e la situazione economica risultava ai membri fondatori poco chiara. La prima impressione che ebbi del personaggio doveva essere confermata nei mesi a venire: un affabulatore, scaltro, ingegnoso ma poco avveduto. Collaborando con i membri del cda dovevo scoprire che fine avessero fatto alcuni milioni di euro di denaro pubblico, ma soprattutto risanare e rilanciare l' istituto che sotto la gestione di Mifsud, tranne sperperare soldi, non aveva ottenuto risultati degni di nota. In quattro anni non era stato iscritto nemmeno uno studente, non vi era nemmeno un corso accreditato ma nonostante ciò il presidente era riuscito ad omaggiare l' allora membro del Parlamento europeo Rodi Kratsa con un dottorato honoris causa per aver aiutato l' Emuni a muovere i primi passi. Nell' emiciclo di Bruxelles venne infatti istituito un gruppo di lavoro specifico successivamente presieduto dal dem Gianni Pittella. Fu a quest' ultimo che mi rivolsi nella primavera del 2012 per informarlo ufficialmente delle difficoltà esistenti sotto la guida di Mifsud ed ottenere successivamente l' appoggio del Parlamento e della Commissione nella fase di ristrutturazione che portai avanti fino alla fine del 2013. Sulla base delle prove di mala gestione da me accumulate nei primi mesi di mandato, ebbi modo di accordarmi con Mifsud sulle sue dimissioni durante una cena a base di pesce sul lungomare di una pittoresca cittadina marinara istriana. Avendo compreso la ragione dell' incontro reagì nella maniera ad egli più consona ovvero quella che, avrei scoperto pochi mesi più tardi, faceva parte del suo personaggio orientato alla sopravvivenza e al riciclaggio della propria persona per il potente di turno. Mifsud disse che da tempo sentiva compiuta la sua missione e di essere pronto ad aiutarmi in tutti i modi a prendere la guida dell' università. Da galantuomini ci accordammo sulla sua permanenza per altri tre mesi. Io avrei assunto inizialmente il ruolo di vice presidente in modo da poter contare sulla sua conoscenza unica degli eventi passati, nonché poter chiedere lumi quando necessario. Mifsud però non rispettò gli accordi. Sparì immediatamente dalla scena appropriandosi indebitamente anche di alcuni mesi di stipendio. Si riciclò grazie ad un suo collega presso un istituto di diplomazia poco credibile in Inghilterra e continuò a vantarsi d' avere magnifici contatti con le più alte sfere politiche della terra. In verità tutti i suoi contatti derivavano dal fatto che come dirigente dell' Emuni aveva sperperato ingenti somme di denaro solamente per viaggiare e sottoscrivere centinaia di accordi di collaborazioni con le università europee, mediorientali, africane e russe. Il suo unico scopo era quello d' avere un buon stipendio e viaggiare in modo da autoconvincersi d' essere importante. Questa fu la mia impressione di Mifsud. Essa però viene oggi indirettamente confermata nel momento in cui egli si trova invischiato in una spy story assolutamente più grande di lui. Quando lo scorso anno, subito dopo la pubblicazione delle accuse del procuratore Robert Mueller, mi chiamarono numerose emittenti americane alla ricerca dello scoop che incriminasse Donald Trump risposi a tutti che se Mifsud era il massimo che gli accusatori di Trump avevano in mano, allora non avevano assolutamente nulla. Nessun' emittente Usa si fece più sentire. Non era la risposta che cercavano. Ma oggi i fatti mi danno ragione. Mifsud era un pessimo amministratore, era una persona smaliziata alla ricerca di sempre nuove opportunità per sopravvivere ma certamente non aveva alcun contatto con Vladimir Putin. I suoi contatti con le autorità russe erano uguali ai miei, dato che me li aveva passati insieme agli archivi dell' università e nel mondo della diplomazia il suo nome era bruciato dopo che aveva provato illegalmente ad avviare un corso di dottorato con un' accademia diplomatica albanese risultata alla fine essere una società privata a scopo di lucro. Tuttavia, fu un agente maltese, che mi affiancò mentre passeggiavo alla sera per una strada secondaria di Barcellona nella primavera del 2013, a chiarirmi la chiave del perverso successo di Mifsud. Vistosamente imbarazzato, volendosi scusare ufficiosamente a nome del governo maltese, mi disse che Mifsud aveva in passato gestito in maniera finanziariamente disastrosa dei progetti all' Università di Malta. Essendo denaro pubblico il rettore per evitare scandali preferì allontanarlo senza drammi giudiziari suggerendolo per un posto di lavoro al governo. Nella nuova funzione convinse il ministro degli Esteri, senza la minima possibilità reale, che poteva farlo divenire segretario generale del Commonwealth. Viaggi esotici ed incontri internazionali fruttarono solo un' umiliante sconfitta. Il ministro, per non scatenare l' ira dei cittadini per aver sperperato inutilmente milioni di euro, insabbiò il tutto e allontanò Mifsud sostenendolo nella candidatura a presidente dell' allora neonata Emuni. L' Emuni decise, contrariamente al mio consiglio, di fare la stessa cosa. È il destino di Jospeh Mifsud quello di provocare guai troppo seri per essere resi pubblici.

Daniele Capezzone per ''La Verità'' il 9 ottobre 2019. Nei romanzi umoristici del grande P.G. Wodehouse, l' imperturbabile maggiordomo Jeeves consigliava al suo giovin signore, contro i rischi di smemoratezza, abbondanti dosi di pesce, per recuperare fosforo. La Link University da una parte e l' Europarlamento dall' altro sono ben lontani dalla verde campagna inglese e dalle atmosfere rilassanti di Wodehouse: eppure il consiglio potrebbe essere ugualmente assai utile. Al dem Gianni Pittella, per esempio, di cui il direttore di Atlantico Quotidiano Federico Punzi ha scoperto un curioso calo di memoria. Ieri, sentito dal Corriere su Joseph Mifsud, il misterioso professore maltese che gravitava intorno alla Link (poi misteriosamente sparito e variamente protetto), Pittella è sembrato prendere abbastanza precipitosamente le distanze. Ecco qua: «Conoscere Mifsud non mi pare che sia un fatto rilevante, perché conosceva migliaia di persone». E ancora: «Aveva contatti con centinaia di università e mi invitava a diversi convegni, a delle conferenze, mai più di questo». Pittella dice di aver perso i contatti: «Per quanto ne so potrebbe essere vivo o morto, di sicuro io ne ho perso le tracce e non ne so più nulla». Deliziose le parti dell' intervista, curata da Marco Galluzzo, in cui l' europeputato tende a presentarsi come una specie di Cappuccetto Rosso: «È una storia più grande di me, una storia maiuscola e io sono una nullità». E più avanti: «Qualche volta vado a vedere film di spionaggio con mia moglie, per il resto non ne capisco nulla e preferisco starne fuori». Eppure, un paio di anni fa, il primo novembre del 2017, intervistato da Alberto d' Argenio per Repubblica, Pittella si esprimeva in modo piuttosto diverso, parlando di Mifsud come dell'«amico Joseph». Pittella diceva di non riuscire a credere che potesse essere coinvolto nel Russiagate: «È nato un rapporto di amicizia tale che abbiamo partecipato a diversi eventi insieme. Ho anche conosciuto sua moglie, e lui la mia e i miei figli». Un amicone, insomma. E un fior di interlocutore: «È una persona affabile, cordiale e intelligente, uno dei più grandi uomini di relazioni pubbliche che abbia mai conosciuto, un uomo di alto profilo». Secondo Il Foglio, c' è un forte rischio di amnesie anche dalle parti della Link, visto che Vincenzo Scotti tende a ridimensionare il ruolo di Mifsud nel suo ateneo, dicendo di «aver fatto con lui solo dei seminari». Luciano Capone, ieri, ha smentito questa versione, ricordando come il professore maltese sia stato «il fautore e il promotore dell' accordo tra la Link e la LomonosovMoscow State University. Secondo Il Foglio, «a firmare l' accordo con il preside Ilya Ilyin e il rettore Viktor Sadovnichy c' erano per la Link Scotti, Franco Frattini e Mifsud». E il professore maltese sarebbe stato protagonista in quegli stessi giorni di altri incontri ufficiali insieme con Scotti. Di più: nella ricostruzione di Capone, che chiama in causa una dichiarazione dell' ex ministra della Difesa e docente alla Link Elisabetta Trenta, Mifsud avrebbe anche «progettato un master della Link in cui figuravano diversi docenti russi putiniani come Ivan Timofeev, l' uomo vicino al Cremlino messo da Mifsud in contatto con Papadopoulos».

Grazia Longo per ''La Stampa'' il 9 ottobre 2019. «Mifsud una spia? Guardi, non ne ha proprio l' aspetto. È un uomo anonimo che non si fa notare». Franco Frattini l' 8 ottobre 2016 era a Mosca insieme a Joseph Mifsud, la presunta spia maltese sparita da due anni, chiave di volta del Russiagate per aver veicolato alla campagna repubblicana le e-mail hackerate sull' account di Hillary Clinton. L' occasione, come ha riportato ieri «Il Foglio», era la sigla dell' accordo tra la Link Campus e la Lomonosov Moscow State University (la più importante università statale russa). Insieme a Frattini e Mifsud, entrambi docenti della Link Campus, c' era anche il suo fondatore Vincenzo Scotti. Due volte ministro degli Esteri nei governi Berlusconi e ora presidente della Sioi, l' ente che forma i futuri diplomatici, Frattini è anche docente onorario all' Accademia diplomatica del ministero degli Esteri della Federazione Russa. «Venni invitato a Mosca proprio per questo mio doppio ruolo di docente. Ero quindi ospite gradito dei russi».

Anche Mifsud era lì per qualche connessione con i russi?

«Questo sinceramente non lo so. Non so neppure se fosse lì per conto della Link Campus. In ogni caso non si trattava di una riunione operativa, ma solo della ratifica dell' intesa che consisteva in uno scambio di studenti tra Roma e Mosca. Gli appuntamenti decisionali si erano svolti in precedenza».

Ricorda un intervento da parte di Mifsud?

«Non aprì bocca. I protagonisti, gli attori dell' incontro eravamo Scotti e io».

Lei lo ha poi incrociato successivamente?

«No, non l' ho mai più visto».

Neppure alla Link Campus?

«No, mai. Io mi occupo di politiche geostrategiche, lui non so proprio di cosa si occupasse».

Ma a Mosca Mifsud era stato invitato dal presidente della Link Campus Vincenzo Scotti?

«Non so chi l' avesse invitato. Quello che rammento è che Mifsud aveva interesse a creare un accordo tra la Link Campus e la London School of Economics, ma poi non se ne fece nulla. L' ipotesi di collaborazione saltò e il discorso finì lì».

Eppure la connessione tra la Link Campus e Mifsud va ben oltre una semplice collaborazione.

«Non ho idea del ruolo di Mifsud. Io alla Link non l' ho mai visto».

“CONTE COME CRAXI A SIGONELLA? MA MI FACCIA IL PIACERE...”Da radiocusanocampus.it il 9 ottobre 2019. Stefania Craxi, senatrice di Forza Italia, è intervenuta ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Sulle parole di Conte in merito al Russiagate ("Non sono servo di nessuno. Sono più duro del Craxi di Sigonella"). “Diciamo che è un paragone che mi provoca ilarità e mi verrebbe voglia di rispondere con una famosa battuta di Totò "Ma mi faccia il piacere". Il paragone non regge per vari motivi. Craxi non era duro, ma autorevole. A Sigonella fece valere la forza della ragione, il rispetto delle leggi nazionali e internazionali e soprattutto le sue azioni rispondevano ad una strategia ben precisa di politica internazionale. Qualcuno saprebbe dire qual è la strategia di questo governo? L’autorevolezza di Craxi portava a risultati, la durezza di Conte ci porta nel baratro. Basti vedere la questione dei dazi americani. Noi non facciamo parte del consorzio Airbus, ma subiamo comunque le sanzioni, perché non siamo affidabili agli occhi dell’alleato americano. Ma poi cosa c’entra Sigonella con un affare di spionaggio e di asservimento come questo? Io credo che ci sia materia per riferire in Parlamento e presentarsi di fronte al Copasir. Io dietro questa situazione ci vedo vicende non chiare. Cosa ci faceva questo Misfud in Italia? Da chi era protetto? Mi pare legittimo che ci spieghino cosa è successo e in questa torbida vicenda qual è il ruolo dell’Italia. Il via libera a questo incontro tra gli americani e il capo dei nostri servizi segreti è stato forse un via libera da parte di Giuseppi guarda caso avvenuto dopo un endorsement di Trump? I servizi segreti dovrebbero rispondere all’interesse nazionale, non all’interesse di altri nazioni. Queste vicende non possono essere trattate sottobanco senza che il Parlamento ne sia a conoscenza. Perché Salvini deve riferire e Conte no? Nel caso di Salvini di fatti in cui direttamente è coinvolto non ce ne sono, in questo caso i fatti ci sono. Dato che mio padre è stato condannato perché non poteva non sapere, non vorrei che Salvini facesse la stessa fine. Salvini su cosa dovrebbe riferire?”.

Marco Conti per Il Messaggero il 9 ottobre 2019. Nel prezzo da pagare per risalire la china dei rapporti con Washington dopo le porte aperte ai cinesi con la Via della Seta, ci sono le informazioni chieste dal ministro della giustizia William Barr su una possibile partecipazione italiana al Russiagate, il rapido completamento del Tap, il via libera definitivo all'acquisto degli F35 e la chiusura delle porte al 5G di Huawei in modo da partecipare, come scriveva ieri il Financial Times, alla costituzione di un colosso europeo tra Nokia e Ericsson in grado di competere con i cinesi. Malgrado la fine del governo gialloverde, Oltreoceano resta forte la diffidenza sulla fedeltà atlantica dell'attuale governo. Giuseppe Conte la ribadisce in ogni occasione, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella tra pochi giorni sarà a Washington per incontrare il presidente Trump anche per parlare di dazi, ma su molti dossier gli americani attendono ancora risposte. Per i più esperti evocare, e paragonarsi, al Bettino Craxi di Sigonella, come ha fatto Conte ieri l'altro sul Corriere, non è detto che sia di buon augurio. Ieri il presidente del Consiglio, partecipando alla cerimonia per il giuramento dei neoassunti nella sede del Dis di piazza Dante, ha difeso il proprio operato e quello dei vertici dell'intelligence definiti «presidio della democrazia», dopo aver promesso una sorta di repulisti interno per le presunte fughe di notizie. Dopo giorni di polemiche, a palazzo Chigi si cerca di gettare acqua sul fuoco sulla faccenda e si tira un sospiro di sollievo per l'arrivo di un presidente «responsabile ed equilibrato» alla guida del Copasir. La tensione è però ancora forte nella maggioranza e Conte si difende tirando in ballo il Quirinale che sarebbe stato informato da palazzo Chigi delle richieste americane. Il lungo tira e molla interno al centrodestra si è concluso ieri sera dopo un vertice tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni. FdI ha fatto un passo indietro su Adolfo Urso, in cambio - forse - di un passo indietro in Emilia Romagna della Lega. Oggi l'opposizione indicherà per la presidenza il leghista Raffaele Volpi che dovrà subito decidere quando convocare il presidente del Consiglio e il capo del Dis Gennaro Vecchione che dovranno spiegare come sono andate e chi ha autorizzato la partecipazione dei vertici dei servizi italiani all'incontro con il ministro della giustizia americano Barr. Conte continua a sostenere che non occorre nominare un sottosegretario con delega ai Servizi perché tanto «la responsabilità è in capo al presidente del Consiglio». La legge non lo obbliga, ma aver mandato degli alti funzionari dell'intelligence italiana a parlare con un politico americano, fa storcere il naso a molti. Questa è però stata una scelta che Conte difende sostenendo, come ha fatto ieri che «non è concepibile che l'intelligence si muova al di fuori del controllo parlamentare e dei compiti che il governo le assegna». Non solo, per rispondere alle punzecchiature di Matteo Renzi, che lo invita a dotarsi di un'autorità delegata - come fece l'ex premier nominando Marco Minniti - a palazzo Chigi tira in ballo - come già detto - il Quirinale informato, probabilmente, a cose fatte. Il caos comunicativo che sulla questione affligge palazzo Chigi, con smentite notturne e continue rincorse, è la conferma del nervosismo del premier per essersi infilato in un tritacarne che lo costringe ad un complicato equilibrio tra le sempre più pressanti richieste di Trump - rinnovate ieri per lettera da Lindsey Graham, presidente della commissione giustizia del Senato e uno dei più stretti alleati del presidente Usa - e la lunga consuetudine di rapporti con gli Stati Uniti che distingue tra intelligence, politica e diplomazia. Seguire il consiglio di Renzi, è per Conte complicato perché significa dover ammettere l'errore, ma non sarà facile restare nel tritacarne, senza ferirsi, in attesa che prenda quota una versione del Russiagate diversa da quella del procuratore Usa Roberto Mueller e che tirerebbe in ballo i governi del Pd di Renzi e Gentiloni. 

Simone Di Meo per “la Verità”il 9 ottobre 2019. Nella galleria delle spie di John Le Carré, maestro insuperato del genere, non c' è personaggio a cui possa essere paragonato Gennaro Vecchione, il direttore del nostro Dis (Dipartimento delle informazioni per la sicurezza). Non l' inafferrabile e occhiuto Control, il gran capo del Circus. Né il malinconico e geniale George Smiley o il fedifrago e doppiogiochista Bill Haydon. E non che sia un male perché la storia di Vecchione è la rassicurante dimostrazione che si può ambire ai massimi ruoli dell' ingranaggio dello Stato grazie a una tranquilla carriera e senza memorabilia. Almeno fino a un attimo prima di finire nell' ingorgo dell' appendice italiana del Russiagate, accettando di incontrare il ministro della Giustizia Usa, William Barr, a caccia di dossier riservati per difendere il presidente Donald Trump dall' accusa di aver brigato con Mosca per vincere le presidenziali. Nella Guardia di finanza, il generale di divisione Vecchione è stato comandante delle unità speciali e della Legione allievi, a metà degli anni Duemila, per poi passare alla guida della scuola di perfezionamento delle forze di polizia. Negli archivi dei quotidiani si trova poco o nulla su di lui tranne alcune pensose interviste sull' evasione fiscale in Italia. Ancor meno sono le inchieste che portano il suo timbro. Nel 2011 collabora col pm di Torino Raffaele Guariniello in una indagine su un presunto raggiro al Servizio sanitario nazionale ad opera di società farmaceutiche che falsificavano i rapporti scientifici per screditare le medicine generiche. Qualche mese dopo lo troviamo sulle tracce dei venditori di merce contraffatta su Facebook e dei «pirati» del Web che rivendono, per pochi euro, le anteprime cinematografiche del momento. Nel 2015, mette agli arresti una ventina di funzionari delle Asl e dei Municipi di Roma per un giro di bustarelle. In un curriculum vitae, ancora oggi consultabile online, scrive di sé: «È autore di articoli su giornali nazionali e sulle maggiori riviste della Guardia di finanza [] ha partecipato a numerose trasmissioni televisive estere, nazionali e regionali e rilasciato interviste a telegiornali nazionali e sui più importanti quotidiani italiani». L' intervista come riconoscimento di valore. Ben più corposo è invece quel che si tramanda nel Corpo. Pare, infatti, che diede per iscritto l' ordine ai reparti speciali della Gdf di individuare il titolare dell' impronta di una scarpa che faceva bella mostra sulla porta dell' ascensore della caserma, e che lui mal sopportava. Disconoscesi l' esito dell' attività investigativa «pedestre». Così come non si è più saputo nulla degli accertamenti sulla ditta che tagliava (male, secondo lui) l' erba del prato e che, pertanto, poteva ben nascondere qualche inconfessabile mistero. Vecchione provò inoltre a far luce pure sulla regolarità delle licenze dei «bangladini», i minimarket gestiti da stranieri che restano aperti fino a tardi, sospettando giri di corruzione internazionali. Anche in quel caso la fortuna degli audaci non gli arrise. Malgrado la devozione per San Matteo, protettore delle Fiamme gialle, è al santo laico di Volturara Appula, Giuseppe Conte, che deve però il gran salto al Dis. È stato il premier a volerlo al vertice dell' ufficio di coordinamento delle «barbe finte» vincendo le resistenze degli alleati che gli avrebbero preferito candidati dal profilo più robusto e di chi, ora, chiede un cambio dei vertici dopo il Russiagate. Con Conte, il capo degli 007 ha condiviso non solo la vicinanza al mondo di San Pio da Pietrelcina ma anche un pezzo di storia familiare essendo la sua ex moglie molto amica della fidanzata del presidente del Consiglio, Olivia Paladino. E, in questo, forse Vecchione un omologo nella letteratura spionistica ce l' ha: come James Bond è un elegante e assiduo frequentatore dei salotti chic della capitale (e non solo) dove le dame se lo contendono a suon di inviti. E lui, fedele alla filosofia che i Servizi debbano sì essere segreti ma non timidi, li accetta di buon grado senza preoccuparsi troppo dell' attinenza con il suo incarico. Si spiega così la presenza, captata dai radar di Dagospia, nel maggio scorso al simposio dell' Università Pontificia Salesiana di Roma sulla «Nuova frontiera nelle cure e nella prevenzione delle talassemie ed emoglobinopatie» promosso e organizzato dalla cara amica Maria Stella Giorlandino, presidente di Artemisia onlus. E successivamente alla festa del giornale Formiche.net mentre, con microfonino e auricolare modello Ambra Angiolini, spiegava le nuove frontiere dell' intelligence. Da capo del Dis, ha avuto qualche impaccio quando si è avventurato, nel corso della presentazione dell' annuale relazione dei servizi segreti, nel marzo scorso, in una scivolosissima intemerata sul rischio razzismo in Italia che ha sorpreso gli ascoltatori. E tuttora deve destreggiarsi tra i malumori di chi gli rimprovera una eccessiva vicinanza ai militari che, come lui, hanno frequentato la scuola Nunziatella a Napoli. Sotto la sua gestione, tre alti dirigenti (Enrico Savio, Massimo Tedeschi ed Evelino Ferraro) hanno lasciato l' ufficio per passare con Gianni De Gennaro alla Leonardo-Finmeccanica. Ha gestito con successo il trasferimento degli organici dell' Aisi e dell' Aise nel maxi-edificio di Piazza Dante. Una specie di Quantico, il quartier generale Fbi in Virginia, che Vecchione intende guidare con mano sicura oltre le perigliose secche del Russiagate. Se possibile con una manovra migliore di quella con cui, il suo autista, ha quasi sfasciato l' auto di servizio proprio a pochi metri dal portone d' ingresso della casa delle spie.

 Luciano Capone per ''Il Foglio'' il 9 ottobre 2019. L' opinione pubblica non è pienamente consapevole di ciò che è accaduto nella controindagine congiunta tra l' Amministrazione americana e i servizi segreti italiani sul Russiagate. Sembra un pasticcio, ma dal punto di vista istituzionale è qualcosa di molto più grave. Secondo quanto riportato dal Corriere della sera, che cita fonti di Palazzo Chigi, l' intelligence italiana ha svolto delle indagini sul Russiagate - l' inchiesta sulle interferenze russe nella campagna elettorale che ha visto vincere Donald Trump - per conto dell' Amministrazione americana. Ovvero, Trump ha chiesto al governo italiano di aiutarlo a ribaltare un' inchiesta fatta dalle autorità americane, in modo da avere un' arma per la prossima campagna elettorale. E il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha autorizzato i nostri servizi, nella persona del direttore del Dis Gennaro Vecchione, a svolgere questo lavoro di controintelligence e a riferire direttamente al ministro della Giustizia William Barr venuto appositamente (due volte) in Italia per conoscerne l' esito. Già così, siamo di fronte a qualcosa di irrituale, visto che si tratta di un meccanismo che interviene direttamente nella dinamica politica interna di una nazione alleata e in uno scontro istituzionale che vede Trump accusare il deep state (la Cia e l' Fbi) di aver tramato contro di lui. Ma non basta. Trump è convinto che al complotto abbiano partecipato anche altri servizi occidentali, e così Vecchione acconsente alle richieste di Barr e chiede formalmente all' Aise e all' Aisi, le due agenzie italiane di intelligence, di dare "ogni informazione utile sulla presenza in Italia di Joseph Mifsud, e sui suoi contatti diretti oppure mediati attraverso la Link Campus, con apparati o funzionari dei servizi segreti italiani". In pratica, il capo del Dis, su richiesta dell' Amministrazione americana, chiede ai servizi italiani di verificare se i servizi italiani hanno interferito, o partecipato a un complotto, al tempo delle elezioni presidenziali americane. Oltre a indagare sui colleghi americani, l' intelligence italiana avrebbe quindi indagato anche su se stessa pur di assecondare le richieste e le teorie dell' Amministrazione Trump. Ma c' è dell' altro. Sempre secondo quanto riportato dal Corriere, i punti centrali dell' indagine e della discussione con Barr sarebbero stati il ruolo della Link Campus e le possibili coperture che avrebbe ottenuto Joseph Mifsud, il professore protagonista del Russigate scomparso nel nulla ormai da due anni. E' indubbio - e qui lo scriviamo da tempo - che ci sono molti aspetti da chiarire in questa vicenda, ma probabilmente i servizi avrebbero dovuto farlo da tempo e autonomamente. Sembra paradossale che il generale Vecchione chieda, su ordine di Trump, ai nostri servizi di indagare sulla Link Campus quando solo pochi mesi fa, il 15 marzo 2019, ha tenuto una lectio magistralis sulla "sicurezza nazionale" proprio alla Link Campus. Il capo della nostra intelligence non aveva idea di cosa era successo e non sapeva dove andava a parlare? E se invece ne aveva piena contezza, perché ha chiesto all' Aise e all' Aisi di fare un approfondimento?

Caso Italia-Russiagate; tutto quello che bisogna sapere. In che contesto si sta sviluppando la vicenda che rischia di inguaiare il premier Giuseppe Conte, fra minacce effettive e presunti complotti. Redazione di Panorama il 9 ottobre 2019. Mentre in Italia infuria la polemica sul ruolo del premier Giuseppe Conte nella contro-inchiesta sul Russiagate che ha coinvolto i nostri servizi segreti per smascherare il presunto complotto ordito ai danni di Donald Trump, negli Stati Uniti arriva una dura picconata alle teorie cospirative del presidente. La Commissione intelligence del Senato ha diffuso la seconda parte del suo rapporto sulle interferenze moscovite nelle presidenziali del 2016. Il documento si concentra sulla campagna di disinformazione della russa Internet Research Agency. E non usa mezzi termini: la cosiddetta fabbrica dei troll di San Pietroburgo ha «cercato di influenzare le elezioni presidenziali del 2016, danneggiando le possibilità di successo di Hillary Clinton e sostenendo Donald Trump, sotto la direzione del Cremlino». Un duro colpo per Trump. E non solo perché arriva nel momento in cui i democratici stanno per formalizzare le accuse per il suo impeachment, ma anche perché la Commissione intelligence è guidata dai repubblicani, cioè dal suo stesso partito. Fa invece parte dell'amministrazione Trump il procuratore generale William Barr, il ministro della Giustizia Usa che sta conducendo la contro-indagine sull'inchiesta giudiziaria di Robert Mueller relativa alle ingerenze russe nella campagna del 2016. Come ha dichiarato lo stesso Mueller, il suo rapporto finale «non conclude che il presidente abbia commesso un crimine, ma neanche lo esonera». In sintesi, l'inchiesta non ha scagionato Trump. Anzi. Dopo la conclusione delle indagini, il 24 luglio Mueller in audizione alla Camera ha denunciato: «La nostra indagine ha evidenziato che il governo russo ha interferito nelle nostre elezioni in maniera ampia e sistematica». E ha aggiunto: «Nel corso della mia carriera, ho visto diversi attacchi alla nostra democrazia. Lo sforzo del governo russo per interferire nelle nostre elezioni è tra i più gravi». In tale frangente, il presidente della Commissione Giustizia della Camera Jerry Nadler gli ha chiesto: «Secondo la policy del Dipartimento di Giustizia, il presidente potrebbe essere perseguito per reati di ostruzione alla giustizia dopo aver lasciato l'incarico, è corretto?». Replica di Mueller: «Vero». A quel punto, per screditare l'inchiesta sul Russiagate, Trump ha rilanciato una campagna già avviata nel 2018, quando sosteneva che la sua campagna elettorale del 2016 era stata infiltrata da una spia dell'Fbi, al fine di comprometterla. Di qui il cosiddetto Spygate, l'indagine di William Barr per verificare l'operato dell’Fbi e capire se la raccolta di informazioni sulla campagna di Trump nell'ambito del Russiagate era stata «lecita e appropriata». Come scrive il sito Politico, la contro-inchiesta, condotta da una squadra investigativa guidata dal procuratore federale John Durham, «ipotizza che l'indagine di Mueller possa essere stata motivata politicamente, piuttosto che un sincero tentativo di affrontare un'effettiva minaccia». Barr parte da una teoria complottista a lungo coltivata dal presidente. Secondo Trump, i governi e i servizi segreti di alcuni Paesi fra i più stretti alleati dell'America avrebbero cospirato con i suoi nemici del «Deep State». Lo Stato profondo, costituito dall'establishment tecnocratico, avrebbe in altre parole organizzato un complotto per metterlo fuori gioco, inventando un inesistente collegamento con Mosca che gli sarebbe costato la presidenza. Fra gli alleati di questo Stato nello Stato ci sarebbe anche l'Italia e in particolare Matteo Renzi.  Il grande accusatore dell'ex premier è George Papadopoulos, un consulente politico greco che è stato membro del comitato consultivo per la politica estera nella campagna di Trump durante le presidenziali del 2016. «Penso che Matteo Renzi sia stato usato da Barack Obama per attuare questo colpo basso nei confronti di Trump e che ora Renzi rimarrà esposto e a causa di questa storia la sua carriera politica verrà distrutta, così come quella di altri esponenti di sinistra in Italia» ha dichiarato in un'intervista esclusiva a La Verità l'ex consigliere di Trump, che ha scritto un libro guarda caso intitolato Deep State target.

Nancy Pelosi attacca Trump: "I tentativi di nascondere la verità sono ostruzioni". La Speaker della Camera incalza il presidente: "Non è al di sopra della legge". Un sondaggio rivela: americani favorevoli a indagine su impeachment. La Repubblica il 09 ottobre 2019. Donald Trump "non è al di sopra della legge: la Casa Bianca dovrebbe sapere che i continui tentativi di nascondere la verità sull'abuso di potere da parte del presidente sarà considerato come un'ulteriore prova di ostruzione di giustizia". Lo afferma la speaker della Camera, Nancy Pelosi, dopo che Trump ha annunciato che non collaborerà con l'indagine per un possibile impeachment. La Speaker della Camera definisce "un illegale tentativo di nascondere i fatti" quello della Casa Bianca che si rifiuta di collaborare con l'inchiesta sul possibile impeachment del presidente Donald Trump per l'Ucraina-gate."Questa lettera - attacca la Pelosi dopo la missiva della Casa Bianca sull'indisponibilità a cooperare - è palesemente sbagliata ed è semplicemente un altro tentativo di nascondere i fatti da parte dell'amministrazione Trump sullo sfacciato tentativo di spingere potenze straniere ad intervenire nelle presidenziali del 2020", tuona Pelosi in un comunicato. La maggioranza degli americani è favorevole all'indagine per un possibile impeachment di Donald Trump. Secondo un sondaggio di Nbc-Wall Street Journal, il 55% sostiene l'indagine per la messa in stato d'accusa: di questi il 24% è convinto che si dovrebbe procedere con l'impeachment e la rimozione del presidente Usa, mentre il 31% si limita a sostenere l'indagine. Solo il 39% degli americani ritiene che il Congresso dovrebbe consentire a Trump di terminare il suo mandato, in netto calo rispetto al 50% di luglio.

Maria Giovanna Maglie per Dagospia l'8 ottobre 2019. Quindi il grande scandalo sarebbero quattro stracciaculi, con rispetto parlando, che nell'hotel più chiacchierato e spiato di Mosca parlavano di petrolio libico e di Eni, come Totò e Nino Taranto vendevano la Fontana di Trevi?  Viene da ridere pensando al vero scandalo internazionale che ora non si riesce più a nascondere. E come mai ora Giuseppi si mette addirittura a citare Sigonella e la difesa della sovranità nazionale? A parte il paragone, per me blasfemo, con un grande statista come Bettino Craxi, chi è in questo caso il ricercato che Conte si rifiuterebbe, tardivamente, di consegnare agli americani, ammettendo così implicitamente che il personaggio è ancora qui su suolo italiano? Stiamo parlando del professore maltese Mifsud? Nel 2015 e 2016 c'è stato il vero complotto ordito da Washington con il contributo probabile anche se ancora da dimostrare pienamente del governo italiano di allora, il governo Renzi, e che ora sta venendo prepotentemente fuori perché Trump è uno che non guarda in faccia nessuno e intende percorrere da vincitore con ignominia dell'avversario la campagna del 2020, aveva certamente come scopo principale quello di far eleggere trionfalmente Hillary Clinton, e nel corso della campagna di sventare il pericolo crescente costituito da una outsider come Donald Trump. Ma aveva anche lo scopo di coprire strepitose malefatte internazionali, al centro delle quali c'era la Libia e la disgraziata campagna che ha portato all'eliminazione di un dittatore ormai pensionato e ridotto ad alleato come Muammar Gheddafi, ma anche al ridimensionamento del ruolo italiano nel Mediterraneo e nell'Unione europea. Doveva coprire lo scandalo disgustoso dell'assassinio dell'ambasciatore Stevens e delle sue guardie del corpo, deciso praticamente a tavolino dalla Clinton perché a metà settembre 2012, a ridosso del voto di secondo mandato per Barack Obama, niente doveva rovinare l'immagine perfetta della vittoria in Libia, figurarsi l'appello disperato, trecento messaggi, di un ambasciatore lasciato solo e circondato da bande di terroristi islamici assassini, dagli Stati Uniti stessi sguinzagliati per agire contro Gheddafi, e divenuti incontrollabili. Di qui il crocevia di spie, le verità inquinate, le prove montate ad arte, i docenti che fanno un altro mestiere e attirano nella trappola un ingenuo consulente della controparte ansioso di guadagnare gradi, rifilano documenti palesemente falsi, un castello di carte che non è riuscito a bloccare l'avanzata di Donald Trump, ma che, sempre con la complicità del Deep State e delle agenzie governative, ne ha inficiato l'autorevolezza o provato a farlo per i primi quattro anni di mandato. L'inchiesta denominata Russiagate su una infiltrazione e complicità del governo e dello spionaggio russo per far vincere le elezioni a Trump è stata pensata tra Washington e  Roma. Se oggi si parla impunemente di impeachment e i democratici americani straparlano di questo strumento, pur sapendo che è inutilizzabile e impossibile, se il clima politico americano è avvelenato nonostante una stagione di prosperità economica senza precedenti, se il partito Democratico è ridotto a una retroguardia dell'internazionale socialista, isolati i moderati che sono sempre stati gli unici capaci di far vincere le elezioni a quel partito, se avanzano un  politically correct e metoo francamente intollerabili per qualunque civiltà, perfino se comandano le gretine del mondo, una parte preponderante di responsabilità va attribuita alle presidenza Obama e alla pretesa di continuare a governare senza ostacoli, quindi alle vicende del 2015 e 2016. L'Italia di Renzi e Gentiloni ha giocato un ruolo di sicuro di sponda, il professore maltese, che ha fatto da postino e in qualche modo da organizzatore dall'università romana Link Campus di Enzo Scotti, è ancora qua a Roma, o era qua fino alla primavera ultima scorsa, protetto. C'è poco da minacciare querele, ricordarsi invece il viaggio di Matteo Renzi a Washington con folta corte. Oggi lo stesso ruolo di servitù, è solo cambiato il committente, lo ha con grande furbizia esercitato Giuseppi Conte in una fase delicata della sua ardita carriera politica. Quando il giorno 15 di agosto, a crisi aperta da una settimana del primo governo Conte a trazione Di Maio Salvini, è arrivato a Roma in visita riservatissima attorney general William Barr ovvero finalmente un uomo di Trump in quel posto delicato e quindi quello in grado di indagare sul serio sul complotto internazionale, mettendoci dentro anche l'Ucraina, Giuseppi si è messo comodo e ha fatto tutte le promesse del caso, ottenendo in cambio non solo il silenzio assenso del pragmatico Trump alla sua doppia capriola verso il secondo governo, ma anche un tweet di sostegno. Solo che poi dall'uomo dei servizi, messo a disposizione con grande disinvoltura rispetto alla sovranità nazionale da Conte in due viaggi di Barr è uscito pochissimo, gli americani si sono risentiti, la notizia è stata fatta trapelare. Il resto è tutto da vedere. Che poi se apri qualche mail a caso della quantità sterminata di posta di Hillary Clinton, Segretario di Stato nell'era Obama e fino al momento di candidarsi a sicuro presidente degli Stati Uniti nel 2016, non fosse arrivato quel matto di Trump, ci trovi tutto quello che serve per spiegare gli avvenimenti internazionali degli ultimi 10 anni. Figuratevi quelle che e' riuscita veramente a fare sparire dopo averle sottratte all'indirizzo sicuro del Dipartimento di Stato e averle sparse in giro tra il suo computer e il suo indirizzo mail e quello di fedeli collaboratori intimi come Huma Abedin. Puoi giurare che ci trovi morti ammazzati, colpi di stato, stragi legate all'uranio, al petrolio, dittature foraggiate e vendite viziate, tutto il mondo della contemporanea lady Macbeth. Che però ha avuto, tanto da Segretario di Stato quanto da candidato fallito alla presidenza, molti entusiasti e pasciuti collaboratori nel cosiddetto Deep State, la tecno burocrazia di Washington che ancora non ha rinunciato a far fuori Donald Trump, e naturalmente il presidente che ha preceduto Trump, quel Barack Obama santificato appena eletto, che pure di porcherie ne ha coperte senza fine. Obama ha consentito per esempio che Hillary Clinton pagasse i debiti da lui lasciati del Comitato Nazionale Democratico all'inizio di quella campagna del 2016, e di fatto si appropriasse della candidatura unica e del controllo totale sulla gestione della campagna. Obama ha fatto finta di non sapere nulla delle mail scomparse ma di fatto ha manovrato perché Hillary, nonostante le denunce di Wikileaks, venisse giudicata al massimo distratta e non colpevole. Peccato che all'interno di quelle mail scomparse e poi apparse a pezzi e bocconi ci sia per esempio tutto l'orrore di Bengasi e della campagna di Libia. La campagna  fu fatta per fare un favore agli interessi americani e francesi e far fuori l'Italia che ci aveva investito e che si meritava di avere finalmente i proventi della pacificazione di Gheddafi. Una mascalzonata che paghiamo ancora adesso, non solo perché siamo completamente fuori dalla gestione di quella crisi e dallo sfruttamento futuro delle risorse petrolifere libiche, ma anche perché sono saltati gli accordi sull'immigrazione che ci tenevano lontani gli sbarchi indesiderati. Una tragedia per l'Italia, e certo in quel lontano 2011 di complotto, orchestrato anche dal Colle di Napolitano, i complici sono stati tra Berlino e Bruxelles, i sorrisini della Merkel e di Sarkozy, gli accordi con la Clinton, la debolezza infine di Silvio Berlusconi, che ha ceduto sotto il peso del golpe dello spread e ha tradito di fatto un alleato. La paghiamo carissima anche oggi, e l'ultima puttanata di questo governo è quella di rinunciare al cordone sanitario in Libia smettendo di finanziarlo, così alla Francia resterà lo sfruttamento delle risorse petrolifere, a noi i clandestini. Complimenti a Giuseppi e a Giggino. Come andrà a finire e chi è quanto pagherà per una complicità che di fatto anche un tradimento della nostra sovranità, resta da vedere. Molto dipenderà anche da chi va al Copasir, se a guardia del pollaio ci metti una volpe o no. Qualche regolamento di conti, e sostituzioni di massa, me lo aspetto anche dalle parti di via Veneto, in quella ambasciata Americana nella quale il capo missione non è riuscito in alcun modo a contenere l'iniziativa filo clintoniana e anti Tump di staff e funzionari. Trump va avanti ed è molto difficile per gli avversari politici e per il deep state, per le agenzie governative, accusarlo di voler paralizzare l'attività di governo e la campagna con indagini di carattere persecutorio su presunti complotti contro di lui, visto che a loro volta su di lui hanno indagato per anni senza riuscire a trovare niente. Un'ultima domanda, certo non la meno importante. Dov'è iI misterioso docente maltese Joseph Mifsud, al centro dell’indagine del Procuratore generale William Barr, che intende stabilire se l’Italia nel 2016 abbia collaborato con i democratici Usa per fabbricare false prove sul Russiagate? Mifsud era in Italia fino ad aprile, altro che scomparso. Il suo. avvocato svizzero, Stephan Roh, ha dichiarato che il suo cliente avrebbe deciso di nascondersi dopo la pubblicazione del rapporto finale sul Russiagate del consigliere speciale Robert Mueller, ovvero fino a quando non è stato scritto nero su bianco che prove contro Trump non ce n'erano, e che la prova principale, da Mifsud fornita, era senza dubbio farlocca. Ma anche, incredibilmente, che Mueller lo continua a ritenere una spia russa e non dell'occidente. Lo fa per sostenere fino in fondo la tesi dell' FBI e James Comey, ex direttore cacciato da Trump, secondo la quale l'inchiesta era giustificata perché era sull'intromissione Russa e non per danneggiare Trump e la sua campagna. Tutto parte dal professore della Link campus, che il fondatore Vincenzo Scotti ora sostiene che era  uno troppo chiacchierone per essere una spia. Era stato Mifsud infatti ad affermare durante un incontro nell' aprile 2016 con George Papadopoulos, consigliere della campagna di Trump, di aver appreso che il governo russo era in possesso di “materiale compromettente”  su Hillary Clinton, ovvero pezzi delle solite mail. Da qui, nel luglio 2016, partirono le indagini dell’Fbi sui presunti collegamenti fra Trump e la Russia, accuse che in seguito Mueller ha dovuto riconoscere inconsistenti. Mifsud ha consegnato l'estate scorsa una deposizione all’Attorney General William Barr  nella quale racconta chi e', perché ha individuato George Papadopoulos, chi lo ha spinto a farlo, con quali istruzioni. La commissione Giustizia del Senato ha copia della deposizione. PS last but not least, puntate su tutto quello che sta venendo fuori in questi giorni lo trovate dal 2015 in avanti su Dagospia. Avevamo la palla di vetro?

Massimo Gaggi per il ''Corriere della Sera'' il 7 ottobre 2019. Richard Jewell, la guardia giurata che nel 1996 sventò un attentato durante le Olimpiadi di Atlanta, venne trasformato in poche ore da eroe in presunto terrorista per i sospetti dell’Fbi. Una reputazione distrutta dal megafono della stampa per 88 lunghi giorni. Poi arrivò il proscioglimento totale. Ma anche dopo le scuse dei federali e gli indennizzi ricevuti dalle tv, Richard, ormai mentalmente condannato dall’opinione pubblica, non recuperò mai la sua immagine eroica e nemmeno la sua dignità. Come tanti altri film, Richard Jewell, la pellicola di Clint Eastwood che uscirà negli Usa il 12 dicembre, racconta una storia vera che fa riflettere su angoli poco illuminati della realtà sociale americana. Ma questo del grande regista e attore americano, una delle poche figure di Hollywood schierate sul fronte conservatore, politicamente attivo fino al punto di calcare il palco delle convention del partito repubblicano, è anche un film dal sapore politico che, a meno di un anno dalle elezioni presidenziali, prende di mira le due bestie nere di Donald Trump: la stampa e i poliziotti federali che indagano su di lui. In quella che, almeno dal trailer, sembra la scena-madre del film, Jewell (interpretato da Paul Walter) viene messo con le spalle al muro con un perentorio «hai contro le forze più potenti, i media e il governo americano». Richard è sospettato anche perchè — poliziotto fallito che diventa vigilante privato, obeso, solitario — può essere facilmente dipinto nei panni dell’asociale rancoroso, in cerca di vendetta. Quella di Eastwood è una denuncia, ma anche la trasposizione sullo schermo di un «cambio di stagione» nel rapporto di fiducia col pubblico che giornali e televisioni già vivono da tempo. «È la stampa bellezza, e tu non ci puoi fare niente»: da L’ultima minaccia, il film del 1952 nel quale Humhpery Bogart fa ascoltare all’uomo più potente della città l’avvio della stampa del giornale che denuncia i suoi crimini, a Tutti gli uomini del presidente, la trasposizione cinematografica dell’inchiesta del Washington Post che costrinse il presidente Nixon alle dimissioni, il ruolo di indagine e critica dei media, essenziale in democrazia, ha fatto a lungo parte della cultura popolare americana. Un rispetto conquistato per l’efficacia del ruolo istituzionale svolto da giornali e tv, ma anche grazie alle storie hollywoodiane di giornalisti trasformati in eroi. Negli ultimi anni però, con la perdita d fiducia nelle istituzioni — accelerata da alcuni aspetti della cultura digitale — che ha travolto non solo parlamenti e accademie, ma anche l’informazione, la fiducia nella stampa ha subito duri colpi. Accentuati dalla difficoltà di fornire informazioni equilibrate in un clima politico sempre più polarizzato. Ne ha approfittato Donald Trump che, criticato fin dal suo insediamento per le esternazioni brutali, le affermazioni false e gli attacchi ai meccanismi di bilanciamento della democrazia americana, ha reagito con veemenza attaccando i giornalisti. E quando l’Fbi ha indagato sui suoi comportamenti sospetti, anche i «federali» sono diventati nei tweet del presidente pericolosi nemici dell’America. La riflessione critica di Eastwood ha qualche precedente: anche vecchi film come Quarto potere di Orson Welles o Diritto di cronaca, con la giornalista (Sally Field) che da cacciatrice sulle orme dei presunti misfatti del figlio di un criminale (Paul Newman), ci hanno fatto riflettere su eccessi e abusi a volte commessi anche dalla stampa. Ma, in questo momento di scontri esasperati, sarà usato anche come arma politica.

Andrea Palladino per “la Repubblica” il 10 ottobre 2019. Era prima di tutto un uomo di rapporti Joseph Mifsud, il professore maltese della Link Campus sparito nel nulla da più di un anno. È il personaggio chiave del rapporto Mueller sulle interferenze russe nelle ultime elezioni Usa. «Un gran chiacchierone», lo descrivono oggi gli ex colleghi all' interno dell' antico casale sull' Aurelia antica, sede dell' ateneo. «Uno specialista dei contatti», il trait-d' union con le università dell' area mediterranea e dei Paesi dell' Est. All' interno del campus aveva uno strumento di lavoro dedicato ai rapporti con gli atenei stranieri, la Link international srl. Lì c' è il cuore transnazionale dell' università fondata e diretta da Vincenzo Scotti, dove si è formata una parte importante della nuova classe dirigente politica. Un' azienda che, ancora oggi, vede tra i soci principali Mifsud. Con alcuni punti oscuri, diversi dipendenti e nessun bilancio presentato in Camera di commercio dalla fondazione ad oggi. La società viene creata nel 2012, come racconta a La Repubblica uno dei soci fondatori, Roberto Lippi, oggi funzionario delle Nazioni unite: «Nasce come una piccola azienda di servizi per facilitare l' arrivo di studenti dall' estero, nel quadro di un processo di internazionalizzazione che stavo seguendo come consulente ». Oltre a Lippi, con il 10% delle quote, nell' atto costitutivo appare Vanna Fadini, per conto della LHI srl, gruppo che a sua volta controlla le aziende di servizio della Link campus. Lippi, dopo poco l' avvio dell' attività, lascia l' ateneo per assumere l' incarico di coordinatore del programma Onu Habitat nell' area andina dell' America latina. Da quel momento non ha più contatti con il campus romano. Sei mesi dopo la sua partenza la LHI cede il 35% delle quote a Joseph Mifsud. E se nel 2018 la società pagava l' affitto della casa del professore maltese, capire quale sia la sua attuale attività non è semplice. Per l' avvocato di Mifsud Stephan Roh - che ieri ha rilasciato un' intervista all' Adnkronos - si tratta «di un gruppo separato che si occupa di intelligence, consulenza e difesa». Accuse che, informalmente, l' ateneo respinge con forza. Nessun bilancio, però, è stato mai presentato in Camera di commercio, rendendo difficile capire quale attività svolga la società. Non solo. Lippi, ancora oggi socio di minoranza, assicura che nessuna comunicazione è mai arrivata dalla Link international: «Agli inizi del 2013 decisi di candidarmi per una posizione alle Nazioni Unite in Colombia e mi sono trasferito a Bogotà, dove tutt' ora risiedo. Quando me ne andai dall' Italia, la società non aveva effettuato nessuna azione, per cui ben presto me ne sono dimenticato. Non ho più avuto notizie, nulla di nulla». E quando, nel settembre del 2013, Mifsud acquista le azioni nessuno lo avvisa: «La Link poteva ovviamente cedere le sue quote a chicchessia, ma come socio di minoranza avrei dovuto essere informato, non fosse altro per diritto di prelazione». Per quanto riguarda i bilanci Lippi assicura di «non aver mai ricevuto convocazione alcuna per la presentazione annuale, tanto che solo con l' uscita di un articolo qualche mese fa sono venuto a sapere che la società era attiva, con molti dipendenti, e che ero diventato socio di Mifsud a mia insaputa. Un personaggio a me di fatto sconosciuto ». La Link Campus, contattata più volte per avere una spiegazione sulla mancanza dei bilanci in Camera di commercio, ha deciso di non rispondere.

Marco Lillo per il “Fatto quotidiano” il 10 ottobre 2019. C'è un avvocato centrale nella spy-story che potremmo chiamare 'Russia-Gate2, la Vendetta'. Si tratta del legale di Joseph Mifsud, 59 anni, il professore maltese al centro del girone di ritorno di questo duro campionato tra democratici e repubblicani americani per stabilire quale sia la vera storia dello scandalo delle precedenti elezioni. Per orientarsi in questo fuoco incrociato di informazioni pilotate è determinante capire se il professor Mifsud abbia giocato nel 2016 per i servizi russi contro gli Stati Uniti o per i servizi occidentali contro Trump. Per sciogliere l' enigma del professore maltese è molto utile approfondire la figura del suo avvocato: Stephan Claus Roh, 51 anni, nato in Germania e residente a Monaco, con studi a Zurigo, Londra Hong Kong e Berlino esperto fiscalista. In queste storie di spie piene di polpette avvelenate è buona norma partire dai dati non modificabili come quelli delle camere di commercio. Un dato noto, dichiarato dallo stesso Roh più volte nei mesi scorsi, è che il legale svizzero-tedesco ha comprato il 5 per cento della società che gestisce la Link University. Il Fatto ha cercato di capire meglio questa operazione. L' Università presieduta dall' ex ministro Dc Vincenzo Scotti è in realtà gestita da una società, la Global Education Management Srl, creata nell' ottobre 2012 e di proprietà di Vanna Fadini, 64 anni, amministratrice unica della Srl, per una quota del 77 per cento. Il resto era interamente nelle mani di Achille Patrizi, dirigente della Link che si occupa con impegno anche delle attività sportive. Nell' agosto del 2016 Patrizi, 69 anni, cede all' avvocato Roh il 5 per cento, restando titolare del 18, con una scrittura privata firmata da Achille Patrizi stesso e dall' avvocato Stephan Roh in rappresentanza della società Global Drake Ltd, della quale l' avvocato detiene il 100 per cento. Questo acquisto, secondo quanto dichiarato da Roh, gli sarebbe stato consigliato dal suo cliente e amico Mifsud. Proprio in quel periodo il professore maltese era diventato molto importante - grazie alle sue relazioni - alla Link University. Per esempio il primo dicembre 2016, poche settimane dopo la vittoria di Trump, proprio alla Link si tenne un convegno al quale parteciparono e furono fotografati insieme Joseph Mifsud, Stephan Roh e Alexey Klishin, Direttore del Centro di sociologia del diritto presso l' Istituto di ricerca socio-politica all' Università di Mosca. L'acquisto delle quote fu fatto quattro mesi prima di quell'incontro e sei mesi prima che il professore fosse sentito dal direttore del Fbi, Robert Mueller, per l' inchiesta sul Russia-Gate. Il prezzo di acquisto indicato nella scrittura privata Patrizi-Roh è pari a 250 mila euro. Molto più basso rispetto al valore di libro pari a 900 mila euro. Un prezzo che appare ancora più basso se lo si confronta con altri atti depositati alla camera di commercio. Nell' agosto del 2017 la Global Education Management Srl decide di aumentare il capitale sociale da 18 milioni a 27 milioni e 652 mila euro con un sovrapprezzo di 2 milioni e 348 mila euro. Ciò vuol dire che all' avvocato Roh è stato permesso di comprare il 5 per cento a 250 mila euro, come se la G.E.M. Srl valesse 5 milioni. Mentre un anno dopo a chi entra con l' aumento di capitale si chiede di pagare 12 milioni, come se la società valesse sette volte di più, in tutto circa 35 milioni di euro. L' aumento deliberato nel 2017 non va in porto ma la socia-amministratrice Vanna Fadini non demorde. Nel 2018, il 9 febbraio, c' è una nuova assemblea dei soci nella quale si conferma la scelta e "il presidente informa l' assemblea di avere individuato nella società di diritto maltese Suite Finance SCC PLC il profilo idoneo () e che detta società ha già espresso il proprio impegno a procedere in tal senso in breve termine". Nel verbale si dice sostanzialmente che la Suite Finance era disponibile a mettere i 12 milioni di euro per avere un terzo della società che gestisce l' Università Link. A oggi l'aumento non è stato sottoscritto. Abbiamo chiesto ad Achille Patrizi perché avesse ceduto a un prezzo così basso il suo 5 per cento a Roh, ci ha risposto "Io non ne so nulla" e ha attaccato il telefono. A quel punto abbiamo chiesto all' ufficio stampa di Link Campus che ci ha fornito invece una risposta articolata a tutti i quesiti. La premessa è che "la Link Campus University è un' Università non statale dal 2011 e non ha alcun finanziamento pubblico. GEM ha circa 100 dipendenti, tramite i quali fornisce servizi a Link Campus University e nel contratto di servizio libera l' Università dai rischi di impresa". Poi alla domanda specifica sul silenzio del socio Patrizi, la replica è " GEM è società di diritto privato e Patrizi ha tutto il diritto ad essere esposto solo in termini di legge. Comunque dalle visure camerali tutti i passaggi risultano". Ma allora perché vende a così poco? "L' avvocato Stephan Roh, finanziere e investitore - è la risposta della Link Campus - sottoscrive un contratto per vendere il 44 per cento della GEM al valore da lui stimato, dopo due diligence, di 20 milioni. Per questo ottiene una quota del 5 per cento della GEM a prezzo di favore di 250 mila euro in cambio dell' impegno a reperire gli investimenti di cui sopra entro giugno 2017. Non avendo trovato i nuovi soci abbiamo chiesto a Roh di liberare le sue quote dietro riacquisto". Quindi Roh, quando nel dicembre 2016 partecipava al convegno alla Link con Mifsud e l' ex funzionario pubblico, ora docente dell' università di Mosca, il russo Alexey Klishin, stava per trovare chi avrebbe pagato 20 milioni di euro per una quota notevole ma pur sempre di minoranza della Link. Poi, spiega la Link, "l' aumento non è stato concluso e per le stesse ragioni abbiamo richiesto a Roh il rientro delle quote e lo abbiamo diffidato. Non sappiamo se l' acquisto del 5 per cento gli sia stato consigliato da Mifsud. In ogni caso non c'è nessuna relazione tra un finanziamento non andato a buon fine e l' affidamento di un insegnamento mai partito per Mifsud". La Link tiene a precisare infine che la società Suite Finance SCC PLC non c' entra nulla con Roh, come effettivamente risulta anche consultando internet. La società fa riferimento a investitori toscani e ha come amministratore Gabriele Carratelli.

Peppe Rinaldi per “la Verità” il 10 ottobre 2019. Inquisitori da una parte, inquisiti dall' altra: e qualche volta anche docenti altamente specializzati. È uno degli elementi che colpiscono di più osservando l' evoluzione della vicenda EyePyramid (dal nome dell' inchiesta della Procura di Roma che nel gennaio 2017 portò all' arresto di Giulio e Francesca Occhionero, accusati di spiare mezzo mondo politico, industriale, accademico e giudiziario) fino alle articolazioni finali che in qualche modo la collegano al Russiagate targato Roma. Prendiamo il caso di un pezzo da 90 delle nostre forze di sicurezza, il vicecapo della polizia postale Ivano Gabrielli: in quella indagine, il cui esito fece il giro dei media internazionali per vastità e pesantezza delle accuse, svolse un ruolo importante in qualità di vice questore aggiunto del Cnaipic (struttura specializzata della Ps). Oggi, però, pende sul suo capo una richiesta di rinvio a giudizio formulata dalla Procura di Perugia per ipotesi di reato connesse proprio alla gestione del caso EyePyramid: è indagato per aver omesso di denunciare un reato del quale è venuto a conoscenza nell' esercizio delle sue funzioni e di aver prodotto atti ideologicamente falsi. In parole povere, non avrebbe denunciato il consulente informatico della Procura di Roma (Federico Ramondino della Mentat Solutions srl) pur sapendo che il rapporto da questi depositato agli inquirenti e in base al quale sono finiti in carcere gli Occhionero fosse frutto esso stesso di un reato e, pertanto, gli atti e le informative successivamente redatti fossero a loro volta fasulli. Un corto circuito, insomma, che graverà su tutta la vicenda EyePyramid e che ancora oggi è lungi dall' esser definita. Ma non è solo Gabrielli a trovarsi, almeno formalmente, all' interno di questa schizofrenia di sistema: rischiano infatti il processo per analoghe ragioni anche il pm titolare dell' inchiesta, l' ex presidente dell' Anm Eugenio Albamonte (omissione di atti d' ufficio e falso ideologico con le aggravanti di legge), un altro poliziotto del Cnaipic, Federico Pereno e Ramondino, che invece dovrà rispondere pure di accesso abusivo a sistema informatico e detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso (in pratica, oltre a forzare illegalmente alcuni server, avrebbe riversato vecchio materiale acquisito durante una precedente consulenza a Eni nel corpo dell' inchiesta EyePyramid). Indagatori, indagati e docenti si diceva. Gabrielli infatti il prossimo 14 dicembre sarà tra gli specialisti di un master in «Intelligence e sicurezza» (costo 10.000 euro) che si terrà nella solita Link Campus University, uno dei presunti crocevia dell' ambaradan Russiagate. Si tratta di un corso di «formazione di professionisti esperti nel settore, pronti all' analisi e alla gestione dei rischi in materia di sicurezza e attività di intelligence ed è rivolto sia a chi già opera nel settore sia a chi desidera formarsi come analista ed esperto in materia, in linea con gli standard internazionali», come si legge nella presentazione. Dunque tra Malta e Roma pare ci siano, o ci siano stati, tutti i protagonisti dei due «scandali»: oltre a Gabrielli, che pure in passato ha partecipato ad altri corsi, c' era Roberto Di Legami, ex numero 1 della Polizia Postale «misteriosamente» defenestrato dall' incarico il giorno dopo l' arresto degli Occhionero, c' era Pereno, c' era lo stesso magistrato inquirente Albamonte e perfino Francesco Di Maio, già operativo nei servizi segreti italiani e responsabile della sicurezza dell' Enav, l' ente oggetto dell' attacco informatico attribuito ai fratelli romani. Giulio Occhionero da due anni sostiene che EyePyramid fosse un pretesto per avallare l' operazione congiunta Usa-governo italiano al fine di favorire la Clinton contro Trump. Aveva informato numerosi enti ufficiali, italiani e stranieri, ma quando stava per andare al Copasir per esibire le prove venne arrestato.

Quei legami fra Joseph Mifsud e l’intelligence inglese. Roberto Vivaldelli il 10 ottobre 2019 su it.insideover.com. Secondo l’ex ministro Vincenzo Scotti, presidente e fondatore della Link Campus University, il docente maltese Joseph Mifsud scomparso nel nulla al centro del Russiagate e delle attenzioni dei Procuratori americani William Barr e John Durham “parlava troppo per essere una spia”, mentre secondo Franco Frattini Mifsud della spia “non ne ha proprio l’aspetto”. Eppure il professore, già Presidente della London Academy of Diplomacy e dell’Università Emuni, finito al centro di un intrigo internazionale, non solo poteva vantare, come ha sottolineato Scotti, di “un curriculum di prim’ordine e di un’impressionante rete di relazioni”, a cominciare “da un’amicizia personale con Boris Johnson” ma anche di contatti ben radicati con alti funzionari dell’intelligence britannica. Come nota il giornalista americano del New Yorker Lee Smith: “Sebbene Mifsud abbia viaggiato molte volte in Russia e abbia contatti con accademici russi, i suoi legami pubblici più stretti sono con i governi, i politici e le istituzioni occidentali, compresi i servizi di intelligence della Ci, Fbi e britannici. Uno dei lavori di Mifsud è stato quello di formare diplomatici, offerte di polizia e ufficiali dei servizi segreti nelle scuole di Londra e Roma, dove ha vissuto e lavorato negli ultimi dodici anni”. Il libro Spygate: The Attempted Sabotage of Donald J. Trump di Dan Bongino, D.C. McAllister, Matt Palumbo, uscito negli Stati Uniti, si concentra, in particolare, su un episodio datato 2012 alla Link University di Roma: l’incontro fra Joseph Mifsud e Claire Smith, ufficiale dell’intelligence britannica.

I rapporti stretti fra Joseph Mifsud e l’intelligence occidentale. Come riporta il libro di Dan Bongino, giornalista di Fox News, nel 2012 Joseph Mifsud ha collaborato con Claire Smith, membro del Joint Intelligence Committee del Regno Unito, a un programma di formazione per forze armate e forze dell’ordine italiane presso l’Università Link Campus di Roma, dove Mifsud, sostiene Bongino, “era a capo del dipartimento relazioni internazionali“. Il programma fu gestito dalla London Academy of Diplomacy, di cui Mifsud era il direttore. Secondo il profilo di Linkedin di Smith, i due hanno lavorato insieme in Italia mentre lei era un membro dell’Uk Security Vetting Appaels Panel. La foto è interessante perché Smith non è un personaggio qualunque: ha il potere di supervisionare le agenzie di intelligence britanniche. Il comitato governativo di cui fa parte risponde direttamente al Primo ministro britannico, il che mette Smith in una posizione di altissimo livello nella gerarchia dell’intelligence britannica. Come poteva Mifsud essere dunque una spia al servizio dei russi con contatti di questo tipo, come fa intendere Robert Mueller nel suo rapporto finale?

Chris Blackburn, analista politico ed esperto di intelligence, ci espone il suo punto di vista: “Mifsud ha iniziato a collaborare ufficialmente con Link Campus nel 2008. È stato nominato direttore dello sviluppo internazionale. Ha usato quel titolo al Parlamento europeo e con il Dipartimento di Stato americano” osserva. Blackburn sottolinea: “Il Dipartimento di Stato sa quali sono i rapporti”. Secondo Vincenzo Scotti, invece, il docente maltese non era un professore ordinario dell’università e alla Link teneva solamente dei seminari, senza ricoprire alcuna carica. Che Mifsud fosse un “millantatore”? Un aspetto che andrebbe chiarito, perché è lo stesso Mifsud a indicare il ruolo alla Link in un curriculum datato 2010. Mifsud, spiega Blackburn raccontando un altro aneddoto interessante, “era presumibilmente al centro dell’intera cospirazione Trump-Russia. Fu invitato a un evento organizzato da Global Ties nel febbraio 2017. Successivamente venne intervistato dagli agenti dell’Fbi. Mueller ha ripetutamente affermato che Joseph Mifsud aveva lasciato gli Usa in fuga da ulteriori controlli e indagini. Poi, a maggio 2017, qualche mese dopo, il Professore si presentò a Riad con gli ex capi dell’intelligence dell’Arabia Saudita, del regno Unito e della CIA. Anche Ash Carter era a Riad con lui. Carter era nella Task-Force di John Brennan sul Russiagate. C’è qualcosa che non torna, no?

Mifsud, il “Clintoniano” amico dei servizi segreti. Stephan Roh, avvocato del docente maltese, lo scorso anno ha pubblicato insieme a Thierry Pastor un libro praticamente introvabile, “The Faking of Russia-Gate. The Papadopoulos Case“, nel quale si raccontano dettagli interessanti sulla vita di Joseph Mifsud. “Il professore – si legge – è sempre stato un clintoniano. Era legato a molte istituzioni vicine ai Clinton e democratiche, nonché a sostenitori e seguaci del Partito democratico e della campagna presidenziale 2016 di Hillary Clinton. È stato coinvolto da think-tank e numerose organizzazioni internazionali liberali, come membro e collaboratore. Era anche profondamente legato all’intelligence occidentale, non solo per le sue attività legate all’Accademia di Londra, ma anche a causa delle sue relazioni nel mondo accademico”. Come spiega Roh, Mifsud “era un docente di fiducia per gli agenti dell’intelligence occidentale e dei loro alleati”. Secondo le sue stesse parole, il docente si descriveva non come “un agente segreto” ma come un “costruttore di ponti” tra mondi diversi. “Un’agenzia di intelligence – prosegue Roh – potrebbe considerarlo come una risorsa e non come un membro del team – questo potrebbe essere la ragione dei suoi problemi oggi”.

Il gioco di spie che inguaia Conte. Andrea Indini il 10 ottobre 2019 su Il Giornale. “È chiaro che la vicenda del Russiagate si intreccia con il voto sulla presidenza del Copasir”. Ancor prima della fumata bianca, Giuseppe Conte guardava con impazienza sul possibile presidente nominato a cui sarebbe toccato indire la convocazione di un ufficio di presidenza per discutere sulla convocazione del premier che, prima o poi, dovrà spiegare perché ha favorito i contatti tra l’amministrazione Trump e i servizi segreti italiani. Per questo non voleva assolutamente che quella poltrona andasse al Carroccio. Ora che alla guida degli 007 c’è il leghista Raffaele Volpi, la preoccupazione di Palazzo Chigi è che l’audizione possa essere l’occasione per scoprire quanto accaduto l’estate scorsa: non solo sul misterioso scambio di favori tra Roma e Washington, ma anche (e soprattutto) sulle pressioni che hanno spinto Matteo Salvini a rompere l’alleanza gialloverde. Che qualcosa abbia contribuito a far cadere il primo governo Conte, era fuor di dubbio sin dall’inizio. Il punto, ora, sta nel mettere insieme le tessere del puzzle. La vicenda dello “spygate” ha molti punti d’ombra e probabilmente non se ne verrà mai a capo. Qualcosa, però, inizia a emergere. Si consuma tutto nel giro di poche settimane e si concentra nei colloqui tra l’intelligence nostrana e una piccola delegazione d’Oltreoceano formata (pare) dal procuratore generale degli Stati Uniti, William Barr, e dal procuratore generale per il distretto del Connecticut, John Durham. Quest’ultimo sta portando avanti la contro inchiesta sul Russiagate, quella cioè che indaga sul possibile complotto internazionale ordito ai danni di Donald Trump e l’Italia può dare il proprio contributo alla causa. Qual è, dunque, lo scambio? I nostri, come ricostruisce ilGiornale, mettono sul tavolo le veline che il precedente governo piddì avrebbe passato a Hillary Clinton, mentre gli americani rendono il favore con l’audio che inguaia Gianluca Savoini e la Lega. Un sodalizio che termina con il tweet del tycoon a sostegno di Conte (“Un uomo molto talentuoso che spero resti primo ministro”) e dell’asse giallorosso. In questo gioco di spie hanno tutti molto da perdere. Il Pd, in primis, che con Paolo Gentiloni premier e Marco Minniti delegato dei servizi segreti avrebbe appunto tramato coi progressisti americani per provare a dare la spallata a Trump. Chi, però, ne esce maggiormente indebolito è Conte che prima o poi dovrà spiegare che uso ha fatto dei nostri servizi la scorsa estate. E lo dovrà fare davanti a un Copasir presieduto da un leghista doc. Che, subito dopo la nomina, ha messo in chiaro: “Non è il presidente del Consiglio a decidere le priorità. Nel momento in cui il comitato avrà fatto un suo ordine del giorno, insieme ai rappresentanti di tutti i gruppi, sicuramente contatteremo la segreteria del presidente Conte e concorderemo con lui i tempi dovuti per questi incontri che sono così spesso sollecitati”. Difficilmente da questa audizione potrà uscire la verità su quanto accaduto. Probabilmente, usciranno brandelli di verità. Ma non credo si verrà a capo delle trame che ad agosto hanno spinto Salvini a fare un passo indietro tanto brusco e a incartarsi in uno strappo che lo ha relegato all’opposizione. Oltre all’audio pubblicato da Buzzfeed che cosa è stato messo nelle mani dei servizi segreti italiani? E cosa è stato dato in cambio agli americani? E poi tutti i dubbi su Conte: perché ha venduto l’alleato agli americani ? E cosa dovrà garantire in futuro all’amministrazione statunitense in cambio del sostegno di Trump?

Carlo Bonini e Tommaso Ciriaco per “la Repubblica” il 10 ottobre 2019. Nella partita tutt' altro che chiusa del Russiagate, il presidente del Consiglio gioca il suo "all-in" scommettendo sull' anello più debole della catena: il direttore del Dis Gennaro Vecchione. Il Carneade della Finanza issato nel novembre del 2018 al vertice della piramide del nostro sistema di sicurezza nazionale. Il corresponsabile del pasticcio consumato sull' asse Roma-Washington tra il 15 agosto e il 27 settembre, quando le informazioni delle nostre due agenzie di spionaggio e controspionaggio, Aise e Aisi, sul ruolo del professore maltese Joseph Mifsud, sulla Link University e i suoi rapporti con la nostra Intelligence, vennero messe a disposizione del ministro di Giustizia Usa William Barr e del procuratore John Durham. Questo, in cambio di notizie che gli stessi americani sostenevano di avere su un asserito ruolo politico svolto nel 2016 dall' allora premier Matteo Renzi e dalla nostra Intelligence nell' agevolare la diffusione del dossier che doveva colpire Donald Trump alle Presidenziali.

«Vecchione è blindato». «Non si tocca», va ripetendo Conte, assicurandosi che si sappia. Di più. Il direttore del Dis è talmente al centro della considerazione del premier che è a lui che promette di affidare quella che racconta come una futura riforma dell' organizzazione dei Servizi «in chiave olistica » (aggettivo non a caso speso due giorni fa in occasione del giuramento dei nuovi assunti nei nostri Servizi). Ispirata a fare tabula rasa di «personalismi». Come intenda farlo, si vedrà. Un' ipotesi è portare Gennaro Vecchione a Palazzo Chigi come consigliere militare. L' altra, di nominarlo sottosegretario con delega ai Servizi. Una mossa che, politicamente, Conte immagina come risposta di "rottura", al limite della provocazione, a Renzi e ad alcune isolate voci del Pd (che gli avevano chiesto di spogliarsi del controllo diretto dei Servizi). Ma che gli consentirebbe di avere con sé a Palazzo Chigi un uomo - Vecchione - che vive come una sua personale appendice in un mondo di specchi e ombre, quello degli apparati, che il premier non conosce, di cui diffida e che per certi aspetti teme. Va da sé che la mossa di portare Vecchione a Palazzo Chigi, se mai Conte dovesse risolversi a farla, avrà bisogno di qualche tempo. Necessario a far uscire il Russiagate - così spera il premier - dall' agenda politica. Soprattutto, necessario a consumare la promessa purga negli apparati. Dell' ostilità con Luciano Carta, direttore dell' Aise, Repubblica ha scritto ieri. Ma nella lista degli epurandi di Vecchione c' è un altro nome cerchiato in rosso. È Carmine Masiello, esemplare generale dell' esercito con un passato di comando in teatri internazionali (Kurdistan, Somalia, Bosnia, Libano, Afghanistan), colpevole di essere stato nominato vicedirettore del Dis nel dicembre 2017 da Paolo Gentiloni, dopo essere stato consigliere militare di Renzi a Palazzo Chigi. Ora individuato da Vecchione come una delle "talpe" che avrebbero messo tempestivamente sul chi vive Renzi e il Pd sul doppiofondo del Russiagate, contribuendo a farlo diventare caso politico. Masiello, del resto, come anche l' altro vicedirettore del Dis, Roberto Baldoni, già a maggio - quando Conte era 1 e non ancora bis - si era visto intimare proprio da Vecchione e su indicazione di Conte un invito a presentare le dimissioni. Non era ritenuto politicamente affidabile allora. A maggior ragione, oggi.

Un' aria irrespirabile. Di cui, per dire, fa fede la singolare notizia - diffusa ieri via agenzie di stampa - di «un incontro a Roma tra i vertici dei nostri servizi e il capo della Cia». Ma solo per spiegare che era stata «fissata due mesi e mezzo fa e non per discutere di Russiagate». Un' aria che racconta certamente la fibrillazione degli apparati, ma anche quella di Palazzo Chigi. Che ha cominciato a vivere una paura nuova. Da quando ha compreso che aver giocato con l' informalità apparentemente bonaria dei messi da Washington è stata una pessima idea. L' ossessione con cui infatti Palazzo Chigi continua ufficiosamente a provare a mettere una pezza a colori sul contenuto dei colloqui del 15 agosto e del 27 settembre o a far dire, sempre attraverso fonti ufficiose, che «le ricostruzioni di stampa rasentano il ridicolo e servono solo a gettare discredito sulle istituzioni», nasconde la disperata fuga da una domanda. Semplice. Decisiva.

Che Repubblica pone da giorni: quali le informazioni ricevute e scambiate con gli americani? Di che natura? Sul conto di chi? L' afasia di Palazzo Chigi su questo punto tradisce il timore blu di non sapere cosa William Barr abbia messo per iscritto dei suoi colloqui a Roma con Dis, Aise e Aisi. Perché, a quel punto, si porrebbe una domanda diversa e questa sì dagli effetti potenzialmente dirompenti. Per giunta, di fronte a un Copasir ora a presidenza leghista. Vale a dire, se Conte abbia rispettato o meno quanto previsto dalla legge di riforma dei Servizi circa i limiti posti al compito delle nostre agenzie di Intelligence. Che il ministro di Giustizia Barr abbia redatto un appunto sui suoi colloqui italiani è circostanza che viene riferita a Repubblica come pacifica da diverse fonti qualificate. Così come che quell' appunto sia confluito nei documenti difensivi prodotti dalla Casa Bianca su cui il Congresso sta istruendo la procedura di impeachement di Trump. Prima o poi, dunque, se ne conoscerà il contenuto. Prima o poi si saprà cosa gli americani hanno consegnato a Roma.

E cosa Roma agli americani. Prima o poi si saprà se, e in questo caso fin dove e in che misura, la collaborazione della nostra Intelligence offerta da Conte sia effettivamente servita a sostenere la contro narrazione secondo cui il Russiagate fu un complotto ordito ai danni di Trump nel 2016 con la collaborazione del governo Renzi e degli uomini dell' Intelligence di allora. Una tesi accreditata da un uomo chiave del "Russiagate", l' avvocato George Papadopulos, colui attraverso il quale venne veicolato il dossier con la mail hackerate alla Clinton, già arrestato nell' indagine di Mueller e dell' Fbi e ora testimone chiave della contro-inchiesta di Barr e Durham. Un avvocato che, querelato per questo da Renzi per 1 milione di dollari, ha reagito spensierato con un tweet in cui si dà appuntamento in Tribunale. Come se qualche carta dovesse riservare sorprese. Il gioco di specchi continua. E Palazzo Chigi è avvisato.

Gabriele Carrer per Diplomaticamente.it il 10 ottobre 2019. Ieri Gina Haspel ha incontrato i vertici dei servizi segreti italiani. E no, non possono aver parlato della visita di Mattarella negli Usa (come è stato fatto trapelare), visto che su queste cose la Cia non ha competenza. Davvero qualcuno si beve la storia che il vertice definito «di cortesia» di ieri mattina, 9 ottobre, tra gli 007 italiani e quelli americani fosse organizzato da oltre due mesi per preparare la visita della prossima settimana negli Stati Uniti del presidente della Repubblica Sergio Mattarella? Qui, a Diplomaticamente.it, no.

Partiamo dai fatti. Il direttore della Cia, Gina Haspel, è stata ieri alla sede dell’intelligence in piazza Dante, a Roma, dove ha incontrato i direttori di Dis, Aisi e Siae, cioè Gennaro Vecchione, Mario Parente e Luciano Carta. Ieri l’Adnkronos scriveva: «”Non si è toccato il tema del Russiagate ma altre questioni programmate da tempo”, fanno sapere fonti bene informate, compresa la prossima visita negli Stati Uniti del presidente della Repubblica». Non si è parlato di Russiagate ma di svariati temi tra cui il viaggio di Mattarella? Uhm, noi non ci crediamo molto. Sarebbe strano, infatti, che fosse la Cia a occuparsi di quel dossier. Quella con sede a Langley, in Virginia, è infatti l’agenzia di servizi segreti per l’estero. Compiti come l’organizzazione delle visite di capi di Stato e di governo stranieri sono propri dell’Fbi, al massimo del Secret Service.

Ma diffidiamo anche per un’altra ragione. Gina Haspel, prima donna a capo della Cia, si muove nell’ombra del segretario di Stato Mike Pompeo, da poco passato per lo Stivale desideroso di far chiarezza sullo Spygate e sull’eventuale ruolo dell’Italia nel presunto complotto ai danni di Donald Trump del 2016. Il segretario di Stato, che ha lasciato Roma piuttosto deluso e con ben poco materiale su quanto accadde durante le elezioni presidenziali di tre anni fa, è secondo The Intercept «lo zar dell’intelligence trumpiana». Il portale di Glenn Greenwald scriveva poche settimane fa: «Il direttore della Cia, Gina Haspel, sembra aver accettato il fatto che Pompeo continui a contribuire a definire l’agenda dell’intelligence nell’amministrazione Trump dal dipartimento di Stato, affermano alcuni funzionari». Prima William Barr, poi Pompeo, infine Haspel. In un mese e mezzo sono passati da Roma il numero uno della Giustizia, quello degli Esteri e quello della Cia. Sarà un caso? Che cosa abbiano ottenuto dalla nostra intelligence non lo sappiamo ma da Washington trapela insoddisfazione e insofferenza. Il governo italiano non dà risposte sul professore maltese Joseph Mifsud, quello che secondo George Papadopoulos era «un operativo italiano gestito dalla Cia». La Cia vuole sapere dove sia, ma nessuno lo sa. Neppure Stephan Roh, l’avvocato del professore: «Non so dove sia, l’ultima volta che ho avuto sue notizie fu la scorsa primavera, attraverso una terza persona», ha spiegato all’Adnkronos.

Mattarella atteso a Washington. Ma le recenti visite in Italia di uomini di punta dell’amministrazione Trump si intrecciano con l’imminente partenza di Mattarella per gli Stati Uniti. I fronti aperti tra Roma e Washington sono quelli che conosciamo tutti: il 5G e l’apertura italiana alla Nuova via della seta, le questioni giudiziarie sullo Spygate sbarcate nella capitale la scorsa settimana assieme a Pompeo e il dossier iraniano. Il tutto si può racchiudere in una domanda: quanto è atlantista il governo giallorosso? Che lo sia di più o di meno del precedente esecutivo importa poco perché, come spiega una fonte diplomatica statunitense a Diplomaticamente.it, «negli ultimi mesi gli Stati Uniti hanno perso ogni certezza sull’Italia». L’endorsement del presidente Donald Trump a «Giuseppi» è servito solo a facilitare le comunicazioni tra il procuratore generale a stelle e strisce William Barr e i servizi segreti italiani. La Casa Bianca, ben sapendo di esercitare un certo fascino sul premier Giuseppe Conte, aveva cercato di riportare l’Italia su binari più atlantisti dopo il difficile passaggio negli Stati Uniti dell’allora vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini. Una visita che non aveva soddisfatto il segretario Pompeo, deluso dall’Italia gialloverde soprattutto nelle questioni Iran e Cina. Ma neppure il governo di «Giuseppi» ha convinto Washington. Dopo aver avvertito il Vaticano (gran sostenitore del governo giallorosso e delle apertura alla Cina – leggasi segretario di Stato Pietro Parolin), l’ex capo della Cia ha lasciato Roma preoccupato. Le nostre fonti ce lo restituiscono scettico sulle rassicurazioni in materia di 5G e innervosito dalle sbandate del premier e della sua maggioranza sull’acquisto degli F35. 

La maggioranza inaffidabile. Il Movimento 5 stelle litiga, il Partito democratico (quello che accusava Salvini di russofilia e si strappava le vesti per il perduto atlantismo ai tempi del Conte I) si tiene alla larga da tutti questi dossier. Vuoi perché ancorato all’ex amministrazione statunitense, quella di Barack Obama. O forse perché dopo aver aperto la Nuova via della seta ora sarebbe piuttosto ipocrita (a meno che non ti chiami Ivan Scalfarotto) battersi il petto contro le politiche di Pechino. O, ancora, perché è meglio non esporsi su materie che vedono il partito spaccato al suo interno non tanto diversamente dagli alleati di governo. Se a ciò aggiungiamo le vicende russe della Lega ancora da chiarire e le difficoltà di Forza Italia, agli Stati Uniti non sembrano rimanere interlocutori a Roma. L’amministrazione Trump si è spesso affidata all’ex ambasciatore italiano a Washington, Giovanni Castellaneta. Ma ora non basta più l’intermediazione tra i due Paesi, servono risposte. E Trump le vuole tra una settimana, alla Casa Bianca, dove riceverà il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, reduce da un incontro con Pompeo definito «positivo» dalla nostra fonte. 

La cena alla Casa Bianca. Alla cena in onore di Mattarella parteciperanno uomini d’affari e dirigenti attivi tra Italia e Stati Uniti, in prima linea i manager dell’aerospazio presenti al banchetto di Villa Taverna con il segretario Pompeo. L’amministrazione Trump vuole rassicurazioni sul 5G e sugli F35. Ma il presidente Mattarella, raccontano fonti quirinalizie, è più preoccupato dal rischio di perdere posti di lavoro nello stabilimento di Leonardo a Cameri nel Novarese che dal ruolo cinese nelle infrastrutture del futuro. Nell’ultima settimana il Quirinale ha tuonato contro i dazi (pur evocando uno spirito «euroatlantico» sinonimo di una certa apertura agli Usa) ma non contro l’operato di Conte sugli 007 e gli Usa nonostante abbia più volte invitato il premier a indicare un sottosegretario a cui assegnare le deleghe ai servizi segreti. Nonostante questo però, il Quirinale è ancora un interlocutore per Washington. Lo è in particolare grazie all’ambasciatore italiano negli Usa, Armando Varricchio (che sta organizzando una cena a Villa Firenze in onore del presidente il giorno dopo il banchetto alla Casa Bianca). L’ex consigliere diplomatico di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, che fu aspramente criticato dalla Lega e poco digerito da una fetta importante dell’amministrazione Trump, chiuderà il suo mandato il prossimo anno e punta a rientrare a Roma, forte della tradizione che vede i diplomatici fare un mandato all’estero e uno in Farnesina. Il suo obiettivo è proprio il Quirinale anche se prima serve trovare un posto all’attuale consigliere diplomatico di Mattarella, Emanuela D’Alessandro. In prima linea sul dossier F35 c’è Simone Guerrini, ex dirigente Finmeccanica già al fianco di Mattarella quando questi fu vicepremier e ministro della Difesa, oggi consigliere del presidente e direttore dell’ufficio di segreteria del Quirinale. 

Conte, solitario y final? A furia di promettere tutto a tutti, il premier Conte è finito nell’isolamento. Si fida solo più di Rocco Casalino e, forse, anche del capo dei servizi segreti Gennaro Vecchione, amico di famiglia. O forse lo sta semplicemente difendendo da tutti gli attacchi per poi renderne più «caro» il sacrificio e garantire a sé stesso una via d’uscita. Trump ragiona con il do ut des e per questo è rimasto piuttosto deluso da Palazzo Chigi. Com’è rimasto deluso Mattarella, a cui tocca ricucire con gli Stati Uniti e con il presidente, uno che, come dimostrano le telefonate con i leader mondiali, va molto diretto con le domande.

RUSSIA-GATE VISTO DA MOSCA. Igor Pellicciari, Università di Urbino, Università MGIMO Mosca per Dagospia il 10 ottobre 2019. Il RussiaGate è oramai pietra filosofale delle cronache internazionali in Occidente. Quando la situazione diventa inspiegabile perché le narrazioni si incrociano e contraddicono – ecco che viene evocato il RG-factor come un postulato ermeneutico finale. Una sorta di scia chimica delle relazioni internazionali che chiude la discussione e pazienza che a furia di ripeterlo è passato in secondo piano se le premesse che lo hanno generato siano se non vere – almeno credibili. Siccome nel provincialismo italiano i trend internazionali (a parte quelli della moda e della cultura, dove vi è un innegabile primato) vengono importati con un certo ritardo – ecco che adesso tocca a Roma districarsi in una trama intitolata alla Russia ma i cui Attori principali sono tutti (ma proprio tutti) Occidentali. Ad oggi si è convinti che il Russiagate sia stata una azione di interferenza Russa nelle ultime elezioni presidenziali americane con lo scopo di facilitare una vittoria di Trump, preferito a Mosca rispetto alla Clinton. Per chi segue le dinamiche interne al Cremlino, già questa premessa è poco credibile. Da alcuni anni a  Mosca al centro dell’azione di governo vi è l’èlite diplomatica, vera punta di diamante della funzione pubblica. Passati attraverso una lunga e rigorosa formazione interna, i Diplomatici russi lasciano poco spazio all’improvvisazione e seguono quasi meccanicamente alcune regole di base – tra cui quella di preferire il “Devil-you-know” (il Diavolo che conosci) all’”Un-guided-missile” (il missile imprevedibile). Data ovunque all’epoca per scontata la vittoria della Clinton – la Diplomazia Russa ha iniziato a prepararsi minuziosamente all’ipotesi di una Presidenza di Hillary, di cui (probabilmente anche con un uso dell’intelligence – iniziato però da molto prima, da Bill Clinton) conosceva molto bene i punti deboli, raccogliendo sembra un dossier consistente sui suoi punti oscuri e conflitti di interesse. Per la Russia sarebbe stata auspicabile una Presidenza Clinton in modalità lame duck (anatra-zoppa) minata da numerosi scandali (politici, professionali, familiari) a rilascio progressivo, indebolita  dal sospetto di una vittoria scippata a Sanders prima e a Trump poi. Questa prospettiva lasciava intendere una Clinton condizionabile, con un rapporto con la Russia duro di facciata ma con ampissimi spazi di negoziazione dietro le quinte e potenziali concessioni al Cremlino in Siria ed Ucraina. Di Trump piacevano ovviamente le prese di distanza dalla Russofobia ai limiti dell’isteria Occidentale (anche se questa alla fine fa il gioco facile del mainstream russo nel compattare la propria opinione pubblica interna) – ma per il resto il tycoon americano e soprattutto il suo team di politica estera erano considerati come delle variabili imprevedibili, totalmente sconosciute e quindi rischiose. Se azione di intelligence vi è stata, questa non è stata per favorire una vittoria di Trump ma per indebolire e rendere condizionabile una Clinton la cui vittoria era data per scontata e, tutto sommato, gestibile da parte russa. Non si spiegherebbe altrimenti perché dopo lo shock del risultato presidenziale il Ministero degli Affari Esteri Russo, preso in contropiede, cercò precipitosamente nell’accademia Russa analisti esperti di Trump, di cui era totalmente sprovvisto al proprio interno, a fronte di decine di esperti di Hillary – oramai inutili. L’altro aspetto poco credibile di questo copione che spesso sconfina in veri e propri spy movies non è tanto la trama – quanto i suoi Attori. Da Savoini a Mifsud emergono in questi mesi con maggiore frequenza alle cronache una serie di personaggi che più che Agenti professionali dei servizi, sembrano dei lobbisti freelance animati da un ingenuo quanto sorprendente protagonismo, cui ad un certo punto (per dirla alla Dagospia) scappa la frizione e che cadono (o peggio - vengono catapultati) in un gioco più grande di loro, da cui vorrebbero uscire ma non sanno come, perché non ne hanno l’esperienza necessaria. Senza volere rischiare di azzardare previsioni oggi che lo scoop di domani potrebbe smentire – ci limitiamo a dire che è altamente improbabile che sia reclutato come Agente del Cremlino chi non parla nemmeno una parola di Russo – a maggior ragione se ha anche un passaporto britannico e dirige a Londra una (simil) accademia di Studi diplomatici. Di certo Mifsud a Mosca è stato ospite del Valdai, prestigioso think thank filo-governativo ma con una totale vocazione di apertura verso ospiti internazionali. Più di frequente si è recato a visitare o tenere seminari presso la Facoltà di Processi Globali della Università Statale di Mosca sotto l’egida del grande Yuri Sayamov, che per inciso è anche la principale controparte in Russia della Link University. Si tratta di rispettabilissime istituzioni universitarie russe ma troppo visibili, accessibili da studenti non russi e quindi – tradizionalmente - tutt’altro che luogo di contatto discreto\sicuro di intelligence internazionale via canali accademici. Soprattutto per un sistema di intelligence Russo che ancora fa della ritualità istituzionale e della invisibilità nell’azione - un tradizionale marchio di fabbrica. Ne’ deve stupire la facilità con cui questi ed altri interlocutori occidentali moderati (leggasi, non russofobici) vengono di questi tempi ripetutamente invitati come merce rara a Mosca in conferenze internazionali che altrimenti verrebbero disertate dall’Occidente in periodo di sanzioni economiche, ma con dolorose ricadute culturali. Da questo a dire che costoro – per quanto spesso si rechino a Mosca - siano degli Agenti della Russia, ce ne passa. Nel caso di Mifsud, sembra più probabile che si tratti di un lobbista freelance in una prima fase lusingato dal prestigio di essere al centro di incontri e “rivelazioni” - e poi usato come utile ed ignaro capro espiatorio di un complesso gioco degli specchi di un azione di spionaggio o – meglio- di controspionaggio. Al massimo, dunque, si tratta dell’ennesima Spia senza (preparazione di) intelligence.

Usa, collaboratori Giuliani in Ucraina arrestati per finanziamenti illeciti. (LaPresse/AFP il 10 ottobre 2019) - Due uomini d'affari americani nati nell'ex Unione Sovietica che avrebbero aiutato l'avvocato del presidente americano Ruby Giuliani a investigare sul candidato democratico alle presidenziali 2020 Joe Biden sono sati arrestati con l'accusa di finanziamenti illeciti alla campana elettorale e sono comparsi in Tribunale in Virginia. Lo ha scritto il Wall Street Journal in un lungo articolo pubblicato sul sito del quotidiano finanziario. Lev Parnas e Igor Fruman, questi sono i nomi dei due businessmen di origine sovietica che da anni lavorano in Florida, sono comparsi davanti in aula questa mattina. I due hanno fatto ingenti donazioni a un comitato di raccolta fondi pro-Trump e adesso stanno affrontando il processo penale. Giuliani ha identificato Parnas e Fruman come suoi clienti che sono stati coinvolti nei suoi sforzi per ottenere informazioni su Biden e suo figlio Hunter, che ha prestato servizio nel consiglio di amministrazione di una compagnia di gas ucraina. Trump sta affrontando un'indagine di impeachment alla Camera dei rappresentanti guidata dai democratici dopo aver chiesto al nuovo presidente ucraino di indagare sui Biden. Il Parlamento americano il mese scorso ha inviato lettere a Parnas e Fruman chiedendo loro di spiegare il perchè del loro coinvolgimento per aiutare Giuliani nelle indagini sui Biden.

Usa, Zelensky: Mai ricattato da Trump. (LaPresse/AFP il 10 ottobre 2019) - Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha negato di essere stato ricattato dall'omologo americano Donald Trump, sospettato negli Stati Uniti di aver minacciato di sospendere gli aiuti militari a Kiev se non avesse avviato indagini sul figlio di un rivale politico Joe Biden. "Non c'è stato alcun ricatto" di questo tipo, ha assicurato Zelensky in una conferenza stampa.

Federico Rampini per “la Repubblica” il 10 ottobre 2019. Arrestati due collaboratori (nonché clienti) di Rudolph Giuliani: poi toccherà a lui? L' ex procuratore anti-mafia, l' ex sindaco- sceriffo di New York, è di nuovo nell' occhio del ciclone per il suo ruolo nei vari scandali che circondano la presidenza di Donald Trump. Senza incarichi governativi ufficiali, oggi Giuliani è un avvocato "privato" di Trump. Questo gli dà più libertà di manovra, che ha usato per esempio per cercare notizie compromettenti sull' ex vicepresidente di Barack Obama, Joe Biden, e gli affari del figlio in Ucraina. È la vicenda che ha fatto scattare l' impeachment. Al tempo stesso la funzione privata di Giuliani lo rende più vulnerabile perché non ha i privilegi e le protezioni di un membro dell' esecutivo. Nelle procedure d' impeachment avviate dalla Camera, lui verrà certamente raggiunto da un mandato di comparizione per essere interrogato sotto giuramento. L' ultima puntata ha avuto come teatro l' aeroporto internazionale di Washington-Dulles: è lì che nella tarda serata di mercoledì sono stati arrestati Lev Parnas e Igor Fruman. Oggi ambedue hanno passaporto americano, risiedono in Florida e si qualificano come imprenditori; nacquero entrambe nell' allora Unione sovietica. Il loro arresto non è collegato all' impeachment. Il mandato di cattura è stato spiccato da un magistrato della Virginia (Stato confinante con Washington District of Columbia) per numerosi reati collegati con la violazione delle leggi sui finanziamenti elettorali. Due i particolari che rinviano però al Kiev-gate: gli arrestati stavano cercando di lasciare la capitale, mentre uno di loro era atteso proprio a Washington l' indomani per testimoniare alla Camera dei deputati; e i due avevano pranzato con Giuliani poche ore prima dell' arresto al Trump International Hotel di Washington, secondo i dettagli ricostruiti dal Wall Street Journal. Giuliani è stato fra i primi a reagire, ha definito l' arresto come «estremamente sospetto». I due risultano essere suoi assistiti, cioè clienti dell' avvocato Giuliani. Ma al tempo stesso sono loro ad avere assistito lui, aiutandolo con la loro rete di contatti in Ucraina: è il paese dove Giuliani stava facendo il segugio su mandato di Trump, per scovare notizie compromettenti sul business di Hunter Biden, figlio del candidato democratico alla nomination. Il mandato di cattura contro Parnas e Fruman li accusa di avere raccolto fondi illegali - in quanto provenienti dall' Ucraina - per finanziare la campagna per la rielezione di Trump. I vari reati che gli vengono addebitati non hanno un legame diretto con la materia dell' impeachment. Però la loro posizione potrebbe indurli a patteggiare sconti di pena in cambio di rivelazioni potenzialmente dannose per Giuliani e lo stesso Trump. Non è un mistero che Giuliani sia uno degli anelli deboli nell' entourage presidenziale, per il fatto di avere un ruolo-chiave senza lo scudo di un incarico governativo. Questo ispira scenari e congetture di ogni genere. Visto che la Casa Bianca sta facendo quadrato e si rifiuta di "collaborare" con la Camera nelle indagini sull' impeachment, negando ogni documento o deposizione richiesti, come può la maggioranza democratica alla Camera aggirare l' ostacolo? Il giurista Josh Chafetz in un intervento sul New York Times affaccia un' ipotesi suggestiva. Se il Dipartimento di Giustizia governato da un fedelissimo di Trump fa sabotaggio a oltranza, la Camera può usare il proprio corpo di polizia ("Sergeant- at-arms") per procedere ad arrestare imputati che rifiutano di comparire. È un caso rarissimo però accadde un paio di volte nel 1916 e nel 1935. E in cima alla lista degli arresti Chafetz mette proprio Rudy Giuliani.

Glauco Maggi per “Libero quotidiano” il 10 ottobre 2019. «Biden cade come un sasso», ha sintetizzato alla sua delicata maniera Donald Trump il «momento no» dell' ex vice di Obama: Elizabeth Warren l' ha affiancato nella media dei sondaggi e su Joe ora pesa addirittura l' accusa d' aver preso bustarelle per quasi un milione di dollari dall' Ucraina. Questa ultima tegola su Biden è venuta dal Pubblico Ministero ucraino Andriy Derkach che ha prodotto documenti devastanti per Joe durante una conferenza stampa all' agenzia Interfax-Ukraine. «Essi descrivono il meccanismo con cui Biden padre otteneva i soldi», ha spiegato. «Era attraverso il transfer di fondi del Burisma Group per attività lobbistiche, come credono gli investigatori, personalmente destinati a Joe Biden attraverso una società di lobbismo. Fondi dell' ammontare di 900mila dollari sono stati trasferiti alla compagnia basata negli Usa Rosemont Seneca Partners, che, secondo fonti pubbliche, in particolare il New York Times, è affiliata con Biden. Il riferimento al versamento è il pagamento di servizi di consulenza», ha detto Derkach, le cui esplosive dichiarazioni sono state rilanciate anche da Rudy Giuliani su Fox News. Il pm ucraino ha reso pubbliche somme che erano state trasferite a rappresentanti del Burisma Group, in particolare ad Hunter Biden, il figlio dell' ex vicepresidente che sedeva in consiglio di amministrazione con un contratto di 5 anni a 50mila dollari al mese. «Secondo i documenti, Burisma ha pagato non meno di 16,5 milioni di dollari a Aleksandr Kwasnievski (ex presidente polacco diventato amministratore indipendente nel board di Burisma Holdings nel 2014), ad Alan Apter (chairman del board degli amministratori indipendenti di Burisma), a Devon Archer e Hunter Biden (che divennero amministratori nel board di Burisma nel 2014)», ha continuato il magistrato. «Usando leve politiche ed economiche per influenzare le autorità ucraine e manipolare la questione della fornitura di aiuti finanziari alla Ucraina, Joe Biden attivamente diede assistenza alla chiusura di casi criminali all' interno delle attività dell' ex ministro ucraino della Ecologia Mykola Zlochevsky, che è il fondatore e proprietario del Burisma Group». ha detto Derkach. «La quinta visita di Biden a Kiev il 7-8 dicembre 2015 fu dedicata a prendere una decisione sulle dimissioni dell' allora procuratore generale ucraino Viktor Shokin a proposito del caso di Zlochevsky e Burisma» ha raccontato Derkach. «Un prestito garantito del valore di un miliardo di dollari che gli Stati Uniti erano sul punto di dare all' Ucraina fu il perno della pressione. Biden stesso ha ammesso di aver esercitato tale pressione nel suo discorso al Consiglio sulle Relazioni Estere nel gennaio del 2018, chiamando Shokin "figlio di buona donna che fu licenziato"». Mentre Biden è sempre più intrappolato nei traffici ucraini suoi e del figlio Hunter, dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky sono arrivate dichiarazioni che smontano definitivamente l' accusa di un "quid pro quo" di Trump nella famosa telefonata del luglio scorso. «Non c' è stato alcun ricatto», ha detto Zelensky ai giornalisti a Kiev, respingendo la tesi dei DEM americani secondo i quali Trump avrebbe minacciato di non far arrivare i soldi stanziati dal Congresso Usa a favore dell' Ucraina se il governo locale non avesse investigato sulle operazioni elettorali di Hillary nel 2016, che avevano al centro un caso di hackeraggio in Ucraina, e sugli affari sporchi dei Biden. «Non è stato un soggetto del nostro colloquio», ha ripetuto Zelensky, negando non solo il quid pro quo ma aggiungendo di credere alla accuratezza della trascrizione dello scambio, in cui, appunto, non appare alcuna pressione ricattatoria. Nuove rivelazioni sono intanto uscite sulla identità del whistlerblower. Si sapeva che era un agente della Cia di stanza alla Casa Bianca e che era un registrato Democratico. Ora varie fonti hanno riportato che, durante la deposizione a porte chiuse in Congresso, l' Ispettore Generale dei Servizi Michael Atkinson ha detto che «aveva avuto un rapporto professionale» con un politico DEM che è tra i candidati per la nomination. L' agente misterioso ha fatto passare 16 giorni dalla telefonata alla querela, spesi a lavorare con lo staff di Adam Schiff, il DEM accusatore di Trump alla Camera, ovviamente per coordinare la mossa.

Usa, Trump insulta Biden in un comizio: "Bravo solo a leccare il culo". Il presidente senza freni in Minnesota. E definisce i democratici "gente malata e folle". La Repubblica l'11 ottobre 2019.  Donald Trump senza freni durante un comizio elettorale nel Minnesota attacca ferocemente il rivale democratico Joe Biden visto con favore "solo perchè ha capito come leccare il ... a Barack Obama". Per Trump, Biden "non è mai stato considerato intelligente, non è mai stato considerato un buon senatore". Il presidente è poi passato al contrattacco sull'Ucraina-gate, prendendo di mira il figlio di Biden, Hunter, sul quale ha chiesto al presidente ucraino Volodymyr Zelensky di indagare per intralciare la corsa alla Casa Bianca dell'ex vice presidente. La folla ha rilanciato lo slogan "in galera" rivolto a Biden, lo stesso utilizzato contro Hillary Clinton, la dem rivale di Trump alle presidenziali del 2016. Trump ha accusato Biden di aver tentato di far rimuovere un procuratore ucraino nel 2016, quando era ancora in carica come vice presidente, perchè stava indagando sulla società Burisma, dove Hunter ha lavorato come membro del board. Le pressioni di Trump su Kiev affinchè aprisse un dossier sui Biden sono al centro dell'inchiesta sul impeachment del presidente avviata della Camera dei Rappresentanti Usa. "I democratici sono gente malata e folle - ha proseguito Trump - che indaga sul presidente per azzerare il vostro voto del 2016 come se non fosse mai e esistito. Vogliono cancellare la vostra voce e il vostro futuro". Tornando all'ex vicepresidente candidato alla Casa Bianca per i democratici, Trump ha sostenuto come "i Biden sono diventati ricchi mentre l'America veniva derubata. Sleepy Joe e i suo amici hanno svenduto l'America, e da un nuovo report viene fuori che Biden quando era vicepresidente ha lavorato con la talpa del caso Ucraina. Questa non è altro che una caccia alle streghe, un sabotaggio".

Michelle e Barack: la sfida di coppia. Che cosa fanno gli Obama dopo la Casa Bianca. Pubblicato giovedì, 10 ottobre 2019 su Corriere.it da Marilisa Palumbo. Alla Casa Bianca Barack Obama, ottimo giocatore ai tempi del liceo, aveva messo insieme un piccolo torneo di basket. Non erano innocenti partitelle tra amici: un giorno un avversario ci ha dato dentro e in un contrasto l’ha mandato a stendere; labbro spaccato, 12 punti. E la ramanzina di Michelle: «Una roba da imbecilli». Il problema, parola dello stesso Barack, è che il 44esimo presidente degli Stati Uniti è “super competitivo”. Che si tratti di partite di biliardo, di carte, o di golf, lui non gioca mai per partecipare, nemmeno per arrivare secondo. Neanche in famiglia: «Quando hai dei bambini, è importante farli vincere. Ma solo finché hanno un anno». Facile capire quindi quanto Barack sia sulle spine ora che sua moglie Michelle ha polverizzato ogni record con Becoming (oltre 10 milioni di copie dall’uscita nel novembre scorso, probabilmente l’autobiografia più venduta di sempre, un tour mondiale con biglietti dai prezzi astronomici) e lui non ha ancora consegnato il suo libro. Insieme avevano siglato il contratto da 65 milioni di dollari di anticipo subito dopo aver lasciato la Casa Bianca, ma adesso, per stessa ammissione di Barack, sembrano un po’ come Beyoncé e Jay-Z. Dove lui però fino a poco tempo fa era abituato a essere Beyoncé. E lei, che lo conosce come nessun altro, non ha perso occasione per pizzicarlo. «Avete mai litigato su chi doveva appropriarsi di questo o quell’aneddoto?», le ha chiesto mesi fa Jimmy Kimmel ospitandola nel suo show serale. «Sai — risposta serafica di lei — siccome il mio libro è uscito prima, ha perso». E se Oprah, amica della coppia e grande sponsor del libro dell’ex first lady, non dovesse metterlo nel suo book club, la lista in grado di lanciare in orbita ogni titolo? «Potrebbe ferire i suoi sentimenti, ma gli passerà». D’altronde Michelle è sempre stata l’unica in grado di riportare il suo Barack con i piedi per terra, come quando durante la prima, messianica campagna elettorale, raccontava che lasciava in giro per casa i calzini sporchi e al mattino presto aveva l’alito pesante. Anche Becoming è limpido e senza veli sul matrimonio più invidiato del globo: la terapia di coppia, le difficoltà a concepire, la scelta della fecondazione in vitro. Il memoir dell’ex presidente sarebbe dovuto arrivare in libreria nel 2019, ma è stato rimandato. Katie Hill, direttrice della comunicazione del presidente, spiega a 7 che «non uscirà quest’anno, potrebbe uscire il prossimo o anche più tardi. Obama ci sta ancora lavorando, ci si è dedicato anche quest’estate». Secondo The Atlantic, per giustificarsi della lentezza, Obama va ripetendo che Michelle aveva un ghostwriter, mentre lui il libro se lo sta scrivendo da solo. E in effetti Barack è stato uno scrittore ancora prima di diventare un politico: Dreams from my father, una autobiografia-romanzo di formazione sulla ricerca dell’identità, uscì nel ‘95 quando il futuro presidente aveva 34 anni. «Ricordo di essere stato colpito dal suo talento prima ancora di aver finito la prima pagina del manoscritto» racconta a Henry A. Ferris Jr, suo editor ai tempi. «Era uno che accoglieva i suggerimenti, una qualità molto rara in un autore». Se anche Michelle vendesse più di lui non sarebbe una novità: le autobiografie di Lady Bird Johnson, Rosalynn Carter, Betty Ford, Nancy Reagan e Barbara Bush hanno tutte fatto meglio di quelle dei consorti. Nel 1977 la signora Ford regalò a Gerald una t-shirt con la scritta: «Scommetto che il mio libro venderà più del tuo». «Mi chiedo spesso come mai tanti presidenti abbiano prodotto scritti mediocri», dice a 7 Craig Fehrman, il cui Author in Chief, sui “comandanti in capo” e i loro libri, uscirà a febbraio negli Usa. «Credo sia soprattutto perché troppo preoccupati della loro eredità storica, e di rispondere ai critici del presente. Le first lady invece sono molto più brave a parlare in modo personale anche di politica». «Detto questo», prosegue Fehrman, «se Becoming è diventato un tale fenomeno è anche per la scala globale dell’industria libraria. Sarei sorpreso se l’ex presidente, che è ancora più famoso della moglie, facesse peggio di lei». Semmai la domanda è che libro scriverà, Obama. Saprà essere onesto come in Dreams from my father? Tra le fila democratiche c’è soprattutto ansia di capire se uscirà nel 2020, planando sulle primarie democratiche e sulla campagna presidenziale, e rubando un po’ la scena ai candidati. Nonostante da quando ha lasciato la Casa Bianca l’asse del partito si sia un po’ spostato a sinistra, se si guardano i sondaggi Barack è ancora più popolare di Gesù tra i dem. L’ex presidente ha parlato al telefono e incontrato molti candidati, ma, riferisce una fonte a lui vicina, «non si esprimerà prima che le primarie abbiano fatto il loro corso: ritiene importante che tutti facciano da soli il loro appello agli elettori». A guardarli, c’è un po’ di lui in ognuno dei pretendenti alla nomination: nell’improbabilità della corsa di Pete Buttigieg, in Kamala Harris che arriva danzando alla fiera dell’Iowa come fecero Barack e Michelle, persino in Elizabeth Warren. Cory Booker scherza: «Mi manca Obama, e mi manca anche suo marito». Ma è soprattutto il suo vicepresidente per otto anni, Joe Biden, a fare campagna elettorale come se stesse correndo per un terzo mandato di Obama, e non si capisce bene fino a che punto questo faccia piacere a Barack. «La loro è stata un’amicizia genuina, che ha coinvolto anche le rispettive famiglie, e un matrimonio politico» spiega a 7 Steven Levingston, critico del Washington Post e autore di Barack and Joe: The Making of an Extraordinary Partnership, in uscita l’8 ottobre «come non si è mai visto tra un presidente e un vicepresidente. Ma già dal voto del 2016 le loro idee su dove dovesse andare l’America hanno cominciato a divergere. Obama voleva passare il testimone a Hillary: la prima donna presidente dopo il primo afroamericano avrebbe consolidato l’idea che Barack avesse rotto per sempre un vecchio modello politico, mentre Biden sarebbe stato un ritorno al passato, un altro anziano uomo bianco». L’ex senatore alla fine non si candidò, anche perché ancora troppo scosso dalla perdita del figlio Beau. Eppure, sono in tanti a dirsi sicuri che il vecchio Joe sarebbe riuscito dove Hillary ha fallito. «Anche a questo giro», dice Levingston, «ho l’impressione che Obama voglia un candidato più progressista, però è anche vero che al momento Biden appare come quello che ha più possibilità di far brillare ancora la sua eredità». In realtà tutte le rilevazioni indicano che un nome in grado di rilanciare quell’eredità c’è, ed è quello di Michelle, ma l’ex first lady ha fatto capire in ogni modo di non voler tornare in un agone, quello politico, che non ha mai veramente amato. Questo non vuol dire che sia meno impegnata nelle cause che le stanno a cuore, a maggior ragione adesso che anche la seconda figlia, Sasha, ha lasciato il nido per l’università del Michigan (Malia è ad Harvard, sulle orme di mamma e papà). Michelle non ha mai smesso per esempio di portare avanti i suoi progetti sull’istruzione femminile, e con Barack sta lavorando alla costruzione della biblioteca presidenziale in quel South Side di Chicago che ha visto lei nascere e lui muovere i suoi primi passi da community organizer, e dove il 28 e il 29 ottobre è previsto il terzo summit della Obama Foundation. «Quello che stiamo cercando di fare» racconta a 7 Laura Lucas Magnuson, direttrice della comunicazione dell’organizzazione «è costruire una rete globale di giovani agenti del cambiamento». Un’altra priorità di Barack è la battaglia contro il gerrymandering, la pratica di ridisegnare i confini dei collegi in modo da favorire i candidati di un partito, come conferma Katie Hill: «Sente che se hai un sistema dove i politici si scelgono gli elettori, ti ritrovi con un Congresso che non ne riflette la volontà e non affronta temi molto sentiti come il cambiamento climatico, la sanità e le armi». Quanto al confronto con Donald Trump, colui che inventò il birtherism, il movimento che voleva Obama nato in Kenya e quindi presidente illegittimo, Michelle si è esposta più del marito: proprio in Becoming confessa che non potrà mai perdonarlo per aver messo in pericolo la sua famiglia aizzando contro di loro l’odio dei fanatici. Ma anche Barack contravviene spesso alla regola di non parlare del presidente in carica, come quando ad agosto, dopo le stragi di Dayton e di El Paso, ha invitato a rifiutare «il linguaggio di leader che alimentano un clima di paura e odio». Da parte sua Trump sembra ancora ossessionato da Michelle e Barack: in una delle sue tirate via Twitter ha scritto che invece di indagare su di lui il Congresso dovrebbe concentrarsi sui contratti milionari firmati dal suo predecessore e dalla moglie. Contratti che se sul fronte letterario li vedono separati, li riuniscono nella veste di produttori. Gli Obama hanno fondato la Higher Ground e stretto un ricco accordo con Netflix e Spotify. Le serie e i film non saranno prodotti apertamente politici, ma nessuno come loro sa che non c’è niente di più politico e potente di una storia ben raccontata. «Lo storytelling», dice lei in un breve video che lancia il primo documentario, American factory, «è quello che facciamo, essenzialmente da vent’anni, da quando abbiamo lasciato la professione legale: usare il potere delle storie nello svelare quello che ci unisce». «Quello che vogliamo», le fa eco lui, «è che la gente esca dal proprio recinto per vedere le vite degli altri; dobbiamo provare ad elevarci al di sopra dei nostri interessi e delle nostre paure per capire che siamo parte di qualcosa di più grande».

I problemi del premier Conte nelle trame dei servizi segreti fra Italia e Usa. Il Corriere del Giorno il 10 Ottobre 2019. Un sistema di “Stato sotterraneo”dopo le visite in Italia del ministro della Giustizia Usa William Barr a caccia di informazioni sulla vicenda delle email di Hillary Clinton, ha messo solto pressione sotto scacco il premier Conte. Probabilmente c’è qualcosa che non conosciamo,  e chissà, forse un giorno verrà alla luce . L’audizione convocata per la prossima settimana, davanti al Copasir,  forse attenuerà le polemiche. Questa volta non è Matteo Salvini a far stare il premier Giuseppe Conte sotto pressione, ma bensì un vero e proprio “sistema” di poteri forti”, di cui non su conosce la faccia e neanche il nome. Possiamo denominarlo “Deep State“, cioè lo Stato sotterraneo, l’insieme di persone ed apparati che si muovono dietro le quinte o su “pressione” delle classi dirigenti, per lanciare messaggi per soli addetti ai lavori, mandare avvertimenti in codice. Il “Russiagate” sta lentamente mettendo in crisi  il presidente del Consiglio Conte,  costringendolo a renderne conto presentandosi davanti al Copasir. Tutto questo ha origine  da un gioco di minacce velate e rivelazioni incrociate, che servono a tenere costantemente sotto scacco il governo e chi lo guida. L’hashtag è il solito: #Giuseppistaisereno. Ma stavolta il mittente non è solo Matteo Renzi. Un quadro d’insieme, per ricostruire la vicenda. I “Russiagate” in realtà sono almeno quattro. Due negli Stati Uniti, due in Italia. Negli Stati Uniti il primo “Russiagate“ ufficiale lo apre il procuratore federale Müller che vuole appurare se dietro l’hackeraggio delle mail riservate di Hillary Clinton da parte dei russi, alla vigilia delle presidenziali del 2016, ci sia stato o meno  lo zampino di Donald Trump, intenzionato a sabotare la candidata democratica. Il secondo “Russiagate“ lo ha aperto lo stesso Trump che  a sua volta vuole istruire una contro-inchiesta, per dimostrare che in realtà quel sabotaggio informatico russo nasconde una congiura contro di lui, ordita proprio dai democratici, intenzionati a sabotare la sua elezione alla Casa Bianca. La ragione per la quale Trump ha inviato in Europa il suo ministro della Giustizia William Barr è molto semplice e chiara: raccogliere informazioni “riservate” di primo mano dai governi amici. Si arriva così ai due “Russiagate made in Italy“. Il  primo Russiagate tricolore, viene aperto da Conte: nell’agosto durante la crisi del governo gialloverde, senza darne conto a nessuno, il premier ha autorizzato i vertici dei nostri servizi di “Intelligence” (il Generale delle Fiamme Gialle Gennaro Vecchione, attualmente al vertice del Dis, il capo dell’Aise Luciano Carta e quello dell’Aisi Mario Parente) a incontrare per ben due volte Barr ed il procuratore americano John Durham, ed a cedere loro tutte le informazioni di cui hanno bisogno. Resta il fatto che Barr è un esponente politico dell’amministrazione statunitense e quindi bisognerà accertare come mai Conte abbia ritenuto opportuno di assecondare tale richiesta a dir poco anomala. Sul piano giuridico è un atto legittimo in quanto il premier Conte ha mantenuto per se la delega ai servizi segreti, ma molto discutibile e criticabile sul terreno politico. E non a caso la politica gliene chiede conto e giustificazioni. Passiamo quindi al secondo Russiagate italiano: ad aprirlo è stato Matteo Salvini, che su questa mancanza di trasparenza del premier Conte lo assedia ed incalza. Quanto sinora accaduto induce ad alcune domande conseguenziali ed importanti  La prima è: perché Conte, che è anche un avvocato,  compie questa imperdonabile leggerezza? Una risposta probabilmente si trova nel tweet cinguettato al mondo da Donald Trump “Giuseppi Conte è un grande, merita di essere confermato alla presidenza del Consiglio” con il quale a fine agosto, all’apice della crisi di governo, il presidente degli USA lo ricompensa della sua obbedienza. L’ altra domanda è: chi ha fatto filtrare la notizia degli incontri segreti dei nostri 007, con Barr tra agosto e settembre, gestiti ed autorizzati da Conte, e sopratutto perchè è stata fatta trapelare ? La risposta ci riporta come il gioco del Monopoli al punto di partenza: qualcuno del “Deep State”, che non sappiamo e non sapremo mai chi sia, ha voluto lanciare un segnale forte e chiaro a “Giuseppi“, della serie: non ti montare la testa, stai attento a come ti muovi, sei sotto osservazione. Probabilmente c’è qualcosa che non conosciamo,  e chissà, forse un giorno verrà alla luce . L’audizione convocata per la prossima settimana, davanti al Copasir,  forse attenuerà le polemiche. Ma forse per Conte ed il suo governo tutto ciò è solo una navigazione notturna nel buio e silenzio del mare, dove a volta si può incontrare qualche scoglio sconosciuto alle mappe. E la barca può colare a picco.

Claudio Tito per “la Repubblica” il 10 ottobre 2019. Il capitolo italiano del Russiagate si sta lentamente ma progressivamente trasformando in un boomerang. Da arma a sorpresa per Palazzo Chigi è andata via via mutando in una trappola. E quello che doveva essere il primo alleato - ossia Donald Trump - in un "amico" piuttosto irritato. La vicenda che sta coinvolgendo il governo del nostro Paese presenta infatti, giorno dopo giorno, degli elementi nuovi. Dei piccoli fari che illuminano tessere ulteriori di un puzzle che ancora si deve completare. Come già scritto da questo giornale il cuore della vicenda si svolge a Roma lo scorso Ferragosto. Con un incontro "irrituale" tra una autorità politica statunitense, il ministro della Giustizia Barr, e non un omologo italiano, ma i vertici dei nostri servizi segreti. La mossa americana, però, non era la prima in ordine di tempo. L' Amministrazione Usa aveva già contatto altri due "alleati", entrambi di lingua inglese. Per provare a coinvolgerli nel dossier che più di tutti preoccupa la Casa Bianca: il tentativo di capovolgere il senso e il significato del rapporto Mueller e il filo che lega il presidente americano a Mosca nello scontro di tre anni fa con Hillary Clinton.

Nel terzo tentativo, gli emissari di Trump trovano una sponda più disponibile. Il contesto politico di quei giorni, del resto, rende di fatto più "reattivo" l' esecutivo di Roma. Perché? Il 15 agosto la crisi di governo era già aperta. Salvini aveva sfiduciato Conte. Il premier si trovava improvvisamente in una situazione imprevista. A Ferragosto la strada che conduceva alla formazione del Conte 2 era ancora piuttosto nebulosa. Anzi, remota. L' ipotesi più concreta erano le elezioni anticipate. Il nemico rimaneva quindi il centrosinistra, il Pd e gli ex presidenti del consiglio Renzi e Gentiloni. Per il Conte 1 non sarebbe stato un problema aprire una ulteriore breccia con quelli che in Usa vengono definiti "premier socialisti". E allora se l'"alleato" di Washington avesse chiesto un aiuto per capire se ci fosse stato davvero un complotto contro Trump, nessun ostacolo politico avrebbe impedito di rispondere positivamente alla verifica. Anche perché esiste un principio che normalmente viene rispettato: quando un paese alleato chiede collaborazione, la risposta non può che essere accolta. Ed è esattamente l' argomento utilizzato dalle autorità italiane. Ovviamente a meno che l'istanza invocata non coinvolga il Paese stesso o non produca illeciti che dovrebbero essere denunciati all' autorità giudiziaria. Il faccia a faccia del 15 agosto tra Barr e il direttore del Dis Vecchione si è dunque svolto lungo queste direttrici. E soprattutto con una sensibilità senza vincoli "politici" da parte italiana. Del resto, soprattutto in caso di voto anticipato, poter contare sull' endorsement della Casa Bianca, da noi è sempre stato utile. Il meccanismo, però, si inceppa due settimane dopo. L' imprevedibile, infatti, stava diventando realtà. L' alleanza tra M5S e Pd era in procinto di dar vita al Conte 2. I Democratici non erano più i nemici, ma gli amici. Correre anche solo il rischio di compromettere il rapporto con Renzi, Gentiloni, Minniti e Zingaretti equivaleva a minare le fondamenta del nascente esecutivo giallo-rosso. A quel punto la disponibilità diventa un ritroso imbarazzo. Le richieste avanzate a ferragosto si rivelano delle pietre di inciampo. Le promesse delle mezze promesse. La Casa Bianca sembra non gradire. Conte ne riceve un primo segnale a fine settembre, nel corso dell' Assemblea generale dell' Onu. Il premier si aspettava un faccia a faccia con Trump, ma ottiene solo una fuggevole stretta di mano. Il nervosismo allora inizia a crescere a Palazzo Chigi. Il capo del governo vuole chiudere la vicenda il più rapidamente possibile. Si dichiara pronto a riferire in tempi brevi al Copasir - il comitato parlamentare che vigilia sugli 007 e che da mercoledì è presieduto da un esponente della Lega che con Salvini non è certo tenera su questi avvenimenti - proprio per gettare acqua su un caso che assomiglia sempre più a una graticola. Non è un caso che ieri lo stesso Conte abbiamo telefonato a Gentiloni. Una chiamata che sa di "chiarimento". Sia i vertici governativi, sia quelli della nostra Intelligence, infatti, continuano a spiegare che non ci sono "atti" formali di risposta alle richieste americane. Aisi e Aise hanno ricevuto, con note ufficiali, l' indicazione del sovraordinato Dis di verificare. Ma il passo successivo non ci sarebbe stato. Sulla testa della presidenza del Consiglio, però, aleggiano i possibili documenti stesi da Barr. Da giorni il timore principale si concentra sulla eventualità che due importanti giornali americani, Washington Post e New York Times, pubblichino nell' ambito del feroce scontro sul possibile impeachment di Trump, proprio il report del ministro della Giustizia. Una "carta" che non si trova sotto il controllo delle autorità italiane e nella quale potrebbero essere sintetizzati i contenuti degli incontri romani dello scorso agosto. In quel caso l' aspetto più interessante sarebbero le risposte italiane - se date - più che le domande statunitensi. Così come l' atteggiamento tenuto dal Direttore Dis, in quel caso una sorta di autorità delegata dalla presidenza del Consiglio. Nel recinto nostrano, Palazzo Chigi ha dunque il problema di rassicurare il Pd e quello di non tirare per la giacca il Quirinale. Il Colle infatti l' altro ieri non ha nascosto il suo fastidio per il tentativo di coinvolgere il capo dello Stato veicolando l' idea che sarebbe stato informato della vicenda. Soprattutto alla viglia del viaggio in Usa di Mattarella. Durante il quale non intende discutere questo caso trattandosi di materia di stretta pertinenza governativa. E quando le ceneri si saranno posate difficilmente sarà evitabile una valutazione sugli attuali assetti dei Servizi e sulla delega che al momento Conte si è tenuto.

«Passava notizie sulle nostre aziende ai cinesi»: le accuse  a Morabito. Pubblicato venerdì, 08 novembre 2019 da Corriere.it. È stato ambasciatore nel principato di Monaco e quando è rientrato alla Farnesina si è occupato della Promozione del Sistema Paese. Ma a leggere gli atti dell’inchiesta dove è accusato di corruzione sembra fosse più interessato a promuovere gli interessi della Cina. Per questo Antonio Morabito, 64 anni, diplomatico in servizio al ministero degli Esteri, rischia adesso il processo. L’indagine è chiusa, lunghissimo l’elenco di regali, soldi, favori che avrebbe ottenuto per «soffiare» notizie riservate su società italiane di livello internazionale a intermediari che curavano per alcuni investitori cinesi il loro «shopping aziendale». Grazie al proprio incarico e ai rapporti privilegiati che aveva costruito anche all’interno del ministero per lo Sviluppo economico era in grado di conoscere in anticipo le mosse dei vertici di moltissime aziende. E ai cinesi avrebbe svelato informazioni su marchi del lusso come Versace e Ferrari, società sportive come il Reggina calcio, ma anche centri clinici, complessi alberghieri, industrie tessili, imprese specializzate nella gestione delle linee ferroviarie. Ma pure indiscrezioni per «i cinesi interessati ad acquistare tecnologia italiana nel settore delle telecomunicazioni per conto della Huawei», il colosso mondiale finito nel mirino di Donald Trump. In particolare avrebbe consegnato loro le «conoscenze acquisite anche in ragione della partecipazione, quale rappresentante italiano, al “Forum on Global Production Capacity” svolto in Cina a giugno 2016 e interessandosi «per far arrivare le delegazioni in Italia». Uno dei mediatori gli avrebbe elargito «mazzette» in contanti da 5mila euro, elargizioni mensili fino a 7mila euro, biglietti aerei, carte prepagate. Da un altro aveva invece preteso l’acquisto di 200 copie del suo libro «Valigia diplomatica» e ordini per altre 200 copie «così ti faccio fare record di vendite», ma che in realtà non risulta poi aver avuto grande successo. Morabito era comunque a disposizione e nel 2016, quando era ancora nel Principato, riuscì «a far assumere un ruolo di rilievo agli investitori cinesi per la sponsorizzazione della settimana della moda di Montecarlo» e vantandosi di essere riuscito a far ottenere loro «il primo posto nelle sponsorizzazioni». Sono le intercettazioni dei suoi colloqui con mediatori e investitori a rivelare quali promesse facesse e soprattutto che tipo di informazioni era in grado di veicolare: «Mi impegno su infrastrutture e opere importanti tipo centrali elettriche gasdotti autostrade in Italia, Francia, Spagna» con un obiettivo dichiarato: «Dismissioni Enel». Morabito tesseva la propria rete di relazioni e garantiva il risultato. Nel settembre 2017 uno dei mediatori gli chiede «un buon contatto in Ferrari» e lui non si tira indietro. Anzi risponde sicuro: «Noi abbiamo il principale azionista che... insomma è del governo, poi quando ci vediamo ti dico». In cambio l’interlocutore risulta avergli pagato l’affitto di una casa, ma anche il «deposito cauzionale per la residenza universitaria di Carlo Morabito», il figlio che l’ambasciatore andava poi a trovare a Manchester. Oltre ai viaggi e ad alcune somme versate come «cifra fissa».

Valentina Errante per “il Messaggero” l'11 novembre 2019. «Attendo suo riscontro sullo shopping aziendale cinese». Così a maggio 2017 Angelo Di Corrado, il commercialista indagato per corruzione insieme all'ambasciatore Antonio Morabito, scriveva al diplomatico. Dagli atti dell'inchiesta della procura di Roma emergono dettagli su affari riusciti e non, per i quali Morabito, con oltre 45mila euro in contanti versati sul suo conto tra il 2016 e il 2017, carte prepagate, ricaricate da presunti mediatori, e diversi bonifici in suo favore, si sarebbe speso, utilizzando il suo ruolo privilegiato per poi incassare quelli che nelle conversazioni intercettate chiama «supporti», biglietti aerei e quelli dei treni, fino agli accrediti per migliaia di euro. L'inchiesta è nata da un'altra indagine per associazione mafiosa nella quale è stato coinvolto Di Corrado. A maggio 2016 Morabito inviava un messaggio a Di Corrado: «Oggi hanno chiuso mandando a casa ad (amministratore delegato ndr) e stanno per nominare il nuovo, Donatella Versace comprerà totale azione del fratello e altri. Quindi operazione chiusa. Ma ho un'altra importante informazione a breve». Di Corrado replica: «Confermato pranzo per venerdì? Il gruppo è già pronto. Hanno già stanziato 6 miliardi di euro per lo shopping. Poi aggiunge: «Non è possibile nessun avvicinamento famiglia Versace?». Nelle conversazioni intercettate il diplomatico chiede spesso «contributi» e bonifici ai mediatori. Anche per cifre esigue, come accade con il commercialista Marco Giannaneschi, al quale, per gli inquirenti, avrebbe venduto la sua funzione. A settembre 2017 l'ambasciatore gli dice: «Sta carta l'abbiamo messa a dura prova, perché fra cose e spese, c'è un'ultima cosa, però, poi non ti chiedo altro. Abbiamo dovuto fare lì in loco, che non accettavano la carta, erano 600 euro come deposito per la casa». Il riferimento è alla residenza universitaria del figlio di Morabito. Il giorno successivo parte il bonifico dal conto del commercialista. Nel tentativo di fare altri affari di ogni tipo, il diplomatico contatta anche un premio Oscar. «Dalle e-mail rinvenute risulta che Morabito nel settembre 2016 - annota la Finanza in un'informativa - contatta il regista Giuseppe Tornatore inviandogli un'e-mail dall'account del Ministero, presentandosi quale interlocutore di alcune organizzazioni governative cinesi («che hanno un contatto con me»), per la realizzazione di una produzione cinematografica tra i due Paesi». Spiegano i militari: «Morabito interviene a favore di alcuni finanziatori della Repubblica Popolare Cinese, tramite HU Yunlai quale rappresentante in Italia di tale Wang (poi identificato in alcune chat come Jianlin Wang, magnate cinese titolare del Gruppo Wanda) e di tale Zhang (sarebbe Zhang Xiaojing, titolare della società New Media Aco Llc-Nma) per avviare la realizzazione del film dal titolo Leningrad, da tempo nei progetti del regista». L'affare da 67 milioni non andrà in porto. Morabito furioso, dice in chat ai suoi interlocutori: «Ho avviato con l'ambasciata cinese a Roma una caso politico per esaminare questa questione che ha una gravità enorme, avendo promesso da parte cinese una serie di cose non mantenute e avendo una completa adesione da parte italiana sulla buona fede»

ROMA CAPITALE DELLE SPIE. Giovanni Bianconi per il “Corriere della sera” l'11 ottobre 2019. L' hanno arrestato durante la visita di Mike Pompeo in Italia. E forse non è un caso, giacché il suo nome è stato inserito nella lista dei ricercati internazionali il 1° ottobre, giorno in cui il segretario di Stato americano è sbarcato a Roma. L' indomani, mentre il capo della diplomazia Usa incontrava il ministro degli Esteri Lugi Di Maio, alla porta dell' ingegnere Maurizio Paolo Bianchi - cinquantanovenne di origini abruzzesi come Pompeo - hanno bussato i carabinieri per portarlo in carcere. Su richiesta del tribunale federale dell' Ohio che lo accusa di «cospirazione per furto di segreti commerciali commesso negli Stati Uniti e in Italia dal 2013 al 2019». Un intrigo internazionale che si sovrappone alle tensioni sul Russiagate : attraversa l' Atlantico e giunge fino Mosca, dov' è nato e risiede Alexander Yuryevich Korshunov, l' ingegnere ex diplomatico arrestato (sempre su richiesta degli Usa) con le stesse accuse di spionaggio industriale, il 30 agosto scorso a Napoli. Da allora, nonostante le pubbliche rimostranze di Vladimir Putin in persona, Korshunov è rinchiuso a Poggioreale. Dopo due istanze di scarcerazione respinte dalla corte d' appello e in attesa che la Cassazione esamini il ricorso dei suoi avvocati italiani. Poi toccherà ancora ai giudici partenopei decidere se concedere l' estradizione negli Stati Uniti. A Bianchi, per adesso, è andata meglio che al presunto complice russo. Perché in cella è rimasto solo una notte, il giorno dopo la Corte d' Appello di Roma l' ha messo ai domiciliari: difficile contestare il pericolo di fuga a un cittadino italiano che, pur essendo residente in Portogallo, il 10 settembre, non appena saputo della cattura di Korshunov e di un probabile procedimento anche a suo carico, è rientrato dopo aver avvisato il ministero della Giustizia, l' ambasciata a Lisbona e la Procura generale di Roma. Comunicando l' indirizzo dove sarebbe andato. Lì ha aspettato che qualcuno lo venisse a prendere, ma per 20 giorni non s' è presentato nessuno. Un' anomalia, o una dimenticanza, della quale è stato il primo a stupirsi. Durata fino all' arrivo di Pompeo a Roma, e dei carabinieri nell' abitazione da lui stesso indicata. Da come s'è mosso, assistito dall' avvocato Andrea Saccucci, sembra che Bianchi intenda chiarire la propria posizione e sfilarsi quanto prima dall' intrigo Usa-Russia nel quale si ritrova schiacciato insieme al governo italiano. Che avrà comunque l' ultima parola, se mai i giudici concedessero le estradizioni, costretto a scegliere tra Washington e Mosca. I giudici americani e l' Fbi sostengono che a partire dal 2013 e fino all' inizio di quest' anno, Bianchi e Korshunov hanno «cospirato e tentato di rubare segreti commerciali riguardanti progetti, procedure e disegni aeronautici» di proprietà della General electric aviation (che ha sede nell' Ohio) e della sua filiale italiana: la Avio Spa, con sede a Torino, della quale Bianchi è stato business manager in Russia e Asia. I dettagli utili alla realizzazione di un particolare tipo di riduttore a ingranaggi per motori a reazione sarebbero stati acquisiti dal colosso russo Odk (controllato dallo Stato, di cui Korshunov era dirigente) attraverso la filiale Aviadvigatel, grazie a un contratto con la nuova società di Bianchi: la Aernova di Forlì. Un intreccio complicato, nel quale l'ingegnere italiano avrebbe mediato tra il russo e i dipendenti o ex dipendenti di General electric e Avio, detentori dei segreti. L' Fbi ha ricostruito tutto attraverso i racconti dei tecnici Usa (indicati in forma anonima: Impiegato 1, Impiegato 2, ecc.), che hanno messo a disposizione 6 anni di carteggio via mail con Bianchi e Korshunov. Ma per il loro ex collega italiano non ci sono né spionaggio né segreti ceduti illegalmente, solo regolari rapporti di lavoro. Come sostiene il russo, spalleggiato da Putin che dopo il suo arresto spiegò: «C' è un contratto firmato con una società italiana per delle consulenze, è una pratica naturale in tutto il mondo». Tuttavia, prima ancora che nel merito delle accuse, l' intrigo internazionale si dovrà dipanare sul piano giudiziario, che presenta molti interrogativi: come si fa a estradare un cittadino italiano (ma anche il russo) per un reato commesso in Italia (perché qui, oltre che una volta in Francia, sono avvenuti contatti e incontri) ai danni di una società Usa che ha la filiale (Avio) in Italia? «Il nostro Paese può rinunciare alla sua giurisdizione per aderire a una richiesta per la quale mancano i presupposti?», chiedono gli avvocati Nicola di Mario e Natale Perri, difensori di Korshunov nei loro atti di opposizione. La risposta deve arrivare da due diverse Corti d' Appello; e non è detto che la pensino allo stesso modo, il che complicherebbe ancor più le cose.

Il manager russo accusato di spionaggio e il dilemma italiano: consegnarlo agli Usa o a Mosca? Pubblicato domenica, 01 dicembre 2019 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. Un tribunale in Ohio chiede l’estradizione di Korshunov, ma Putin in persona spinge per un processo in patria. Dopo tre mesi trascorsi a Poggioreale il manager russo Alexander Yurievich Korshunov, accusato di spionaggio industriale da un tribunale dello Stato americano dell’Ohio, può lasciare il carcere. La Corte d’appello di Napoli gli ha concesso gli arresti domiciliari, con divieto d’espatrio e obbligo del braccialetto elettronico; non nella suite del Relais di piazza Plebiscito inizialmente proposta, bensì in una casa dove siano più agevoli i controlli di sicurezza. Lì attenderà l’esito della «guerra fredda» tra Stati Uniti e Federazione russa che, intorno al suo nome, si sta combattendo in Italia a colpi di domande di estradizione. Già, perché a chiedere la consegna di Korshunov non sono solo i giudici dell’Ohio, ma anche quelli del suo Paese. Un mandato d’arresto emesso dal tribunale del quartiere Basmannyj di Mosca è stato infatti notificato alle autorità italiane. Un provvedimento che seppure possa essere considerato un atto a protezione del cinquantasettenne ex funzionario diplomatico ai tempi dell’Unione Sovietica, in favore del quale s’è speso il presidente Vladimir Putin in persona, l’ha trasformato in un imputato conteso tra le due Potenze mondiali. Con arbitri tutti italiani: prima i magistrati partenopei e poi il governo di Roma. Le due procedure giudiziarie sono entrambe in corso, ma con una differenza non irrilevante: all’estradizione in Russia, dove dovrebbe essere processato per l’appropriazione indebita di 150 mila euro, Korshunov ha accordato il proprio consenso, pur proclamandosi innocente; e i giudici non hanno potuto che prenderne atto, trasmettendo il fascicolo al ministero della Giustizia, dove il ministro Alfonso Bonafede potrebbe già firmare il provvedimento. Alla richiesta statunitense invece il manager s’è opposto, e il suo avvocato italiano Gian Domenico Caiazza tornerà a farlo nell’udienza fissata per venerdì 6 dicembre, dopo aver contestato la competenza americana su un presunto reato commesso da un cittadino straniero in territorio italiano (Torino, Forlì o Roma). Ma la Procura generale di Napoli ha già sollecitato l’estradizione, e se la corte dovesse concederla toccherà al governo decidere a chi restituire l’ingombrante detenuto. Varrà il principio cronologico di chi l’ha reclamato prima (gli Usa), quello che favorisce il Paese di appartenenza (la Russia) o quale altro criterio per sciogliere l’imbarazzante enigma politico-giudiziario-diplomatico? Tutto ruota intorno all’accusa mossa a Korshunov e al suo presunto complice italiano Maurizio Paolo Bianchi, di avere ««cospirato e tentato di rubare segreti commerciali riguardanti progetti, procedure e disegni aeronautici» di proprietà della General electric aviation (che ha sede nell’Ohio) e della sua filiale italiana: la Avio Spa, con sede a Torino, dove lavorava Bianchi. Il quale avrebbe arruolato alcuni dipendenti o ex dipendenti di Ge e di Avio, attraverso la società forlivese Aernova, per acquisire elementi utili al completamento del programma russo Pd-14 per lo sviluppo di un motore a reazione per nuovi aerei. Da riversare poi al colosso moscovita Odk, controllato dallo Stato, di cui Korshunov era dirigente. Per gli americani è il passaggio di una sfida commerciale a livello mondiale, che i russi avrebbero truccato grazie ai segreti di Ge rubati da Bianchi e i suoi «ragazzi»; alcuni dei quali hanno confessato le presunte malefatte raccontando all’Fbi i contatti e gli incontri con Bianchi e Korshunov. Attraverso la società Aviadvigatel, una filiale della Odk di cui Korshunov è stato direttore del marketing. Ma il manager russo racconta tutt’altra storia, che ripeterà venerdì ai giudici napoletani: lui, con Aviadvigatel, aveva stipulato un contratto di consulenza con la Aernova di Bianchi, e non è a conoscenza di quello che l’italiano può aver fatto con gli impiegati di Ge e Avio (peraltro indicati anonimamente, nelle note dell’Fbi che li ha chiamati Dipendente 1, Dipendente 2, ecc.). È ciò che aveva sostenuto Putin quando, all’indomani dell’arresto di Korshunov all’aeroporto di Capodichino, protestò per «l’atto ostile» nei confronti della Russia: «Abbiamo firmato un contratto con una società italiana per delle consulenze; è una pratica naturale in tutto il mondo, non abbiamo bisogno di rubare nulla». I 150 mila euro inizialmente pattuiti tra Aviadvigatel e Aernova sono ora il valore dell’appropriazione indebita contestata a Korshunov in patria, ma quel mandato d’arresto ha tutto l’aspetto di una ciambella di salvataggio lanciata per riportarlo a casa senza danni. Di cui probabilmente tornerà a parlare con il governo italiano il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, atteso in visita a Roma giovedì 5 dicembre. Due mesi fa, quando in Italia sbarcò il segretario di Stato Mike Pompeo, fu chiesto e ottenuto nel giro di poche ore l’arresto di Maurizio Bianchi (rilasciato in breve tempo, giacché s’era praticamente consegnato), che pure gli Usa vorrebbero estradare e processare; se ne dovrà occupare la corte d’appello di Roma. Un segnale di quanto possano pesare le pressioni statunitensi, che però mirano a Korshunov. Ora trattenuto da un braccialetto elettronico.

Manuela Gatti per ilgiornale.it il 6 dicembre 2019. Le Alpi tra Francia, Svizzera e Italia come «base logistica» delle operazioni clandestine condotte dagli 007 russi in Europa. Dai borghi dell'Alta Savoia sarebbero passati gli agenti del Gru, i servizi segreti militari di Mosca, responsabili dell'attacco al gas nervino contro Sergey Skripal a Salisbury, nel Regno Unito, ma anche gli autori di blitz nei Balcani e nell'ex Urss. Lo scoop è del quotidiano francese Le Monde, che attraverso fonti dei servizi di intelligence francesi, britannici e svizzeri ha ricostruito gli spostamenti di un gruppo di quindici spie russe che tra il 2014 e il 2018 - l'ultimo passaggio è registrato nel settembre di quell'anno - si sono recate a più riprese nel dipartimento francese al confine con la Valle d'Aosta e la Svizzera, facendo delle Alpi un «campo base» da cui operare nel Vecchio continente. Gli uomini del controspionaggio di Londra, Parigi e Berna, coadiuvati dai partner statunitensi, si sarebbero messi sulle tracce della cellula proprio dopo l'attacco a Skripal (a sua volta ex agente segreto russo) del 4 marzo 2018, il primo caso di utilizzo di armi chimiche in Europa dai tempi della Guerra fredda. La sostanza contaminante, a cui Skripal riuscì a sopravvivere, fece una vittima collaterale, la 44enne Dawn Sturgess, «colpevole» di aver raccolto la boccetta in cui era contenuto l'agente nervino. Per l'attacco di Salisbury sono stati individuati come presunti responsabili tre russi, Alexander Mishkin (alias Alexander Petrov), Anatoly Chepiga (noto come Rouslan Bachirov), e Denis Sergeev (sui documenti Sergei Fedotov). Almeno uno di loro farebbe parte della cellula «alpina» individuata dal controspionaggio europeo. Secondo Le Monde, i membri del gruppo - appartenenti tutti alla stessa unità del Gru, la 29155 - si sarebbero recati regolarmente sulle Alpi francesi nel corso dei quattro anni presi in esame. Tra i comuni in cui risiedevano ci sarebbero Annemasse, Evian e Chamonix, a cui le spie arrivavano in auto dopo essere atterrati a Parigi o a Lione (una volta anche a Nizza). Talvolta capitava che si fermassero lungo il tragitto, trascorrendo la notte in strutture a Cannes o Ginevra. La loro scelta sarebbe ricaduta sull'Alta Savoia in quanto zona frontaliera, di facile accesso e adatta per passare inosservati data l'alta presenza di russi. Per non lasciare tracce, secondo quanto ricostruito da Le Monde, la cellula non avrebbe condotto alcuna operazione in Francia, né si sarebbe mai messa in contatto da lì con altre unità del Gru o con diplomatici del Cremlino, così come non sono state trovate armi sul posto. La base sarebbe servita invece per pianificare e condurre altri attacchi in Europa, non solo quello di Salisbury: al vaglio delle intelligence di Francia, Regno Unito e Svizzera c'è anche un altro tentativo di avvelenamento in Bulgaria nel 2015 e alcune azioni di destabilizzazione eseguite in Moldavia e in Montenegro. Il tema della presenza dei servizi segreti russi in Europa è tornato alla ribalta due giorni fa, dopo che la Germania ha annunciato l'espulsione dal Paese di due diplomatici di Mosca in relazione al caso dell'omicidio di un ex comandante ribelle ceceno, Zelimkhan Khangoshvili, ucciso in pieno giorno in un parco di Berlino il 23 agosto scorso. Secondo gli inquirenti tedeschi dietro la sua morte ci sarebbe il governo russo, colpevole agli occhi di Berlino anche di non aver collaborato alle indagini sul caso. Mercoledì la Germania ha dichiarato i due diplomatici «persone indesiderate con effetto immediato».

LA CIA IN ITALIA FA QUELLO CHE GLI PARE. MA DA SEMPRE. DAGONEWS l'11 ottobre 2019. La squadra della Cia che nel 2003 ha rapito l'imam egiziano Abu Omar a Milano non era alla sua prima azione in Italia. Alcuni degli agenti segreti americani in servizio quel giorno appartenevano a una rete clandestina che operava nel nostro Paese e in Europa già dalla fine della Guerra fredda e ha continuato a operare: la stessa squadra ha partecipato a depistaggi e omicidi (come l'assassinio del progettista canadese del Super Cannone di Saddam Hussein, Gerald Bull, eseguito a Bruxelles in supporto al Mossad), ha spiato governi e indagini in Italia, tra le quali Mani pulite, e non ha impedito i successivi attentati della mafia. Lo rivela in esclusiva il libro “Educazione americana” scritto dal giornalista d'inchiesta Fabrizio Gatti e pubblicato da “La nave di Teseo”. Il lungo racconto, nelle librerie da giovedì 10 ottobre, ricostruisce trent'anni di delitti, grazie alla confessione di uno dei rapitori di Abu Omar, un ex agente italoamericano che oggi vive negli Stati Uniti e che da infiltrato ha partecipato ad altre attività coperte. Hassan Mustafa Osama Nasr, il vero nome di Abu Omar, venne rapito dalla Cia il 17 febbraio 2003 in via Guerzoni a Milano vicino alla famosa moschea di viale Jenner, e consegnato dagli americani all'Egitto, dove l'imam è stato arrestato e torturato prima di essere rilasciato nel 2004. Per l'operazione di “extraordinary rendition”, decisa dagli Stati Uniti contro gli attivisti sospettati di sostenere la rete terroristica di Al Qaeda, sono stati processati anche alcuni ufficiali del Sismi, così si chiamava il servizio segreto militare, tra i quali il direttore Nicolò Pollari: al termine di un lungo procedimento, gli 007 italiani vennero tutti prosciolti per l'opposizione del segreto di Stato decisa dal nostro governo. I loro colleghi americani della Cia, almeno quelli che la magistratura riteneva di aver identificato, furono invece condannati in contumacia a varie pene, poi estinte o ridotte per l'intervento della grazia. Abu Omar, quando venne rapito, non era mai stato formalmente accusato né processato per reati relativi alla rete terroristica di Osama Bin Laden.

C'eravamo tanto spiati. L'Italia vista dalla Cia. Da Mani pulite ad Abu Omar: un agente vuota il sacco con Fabrizio Gatti. Realtà o finzione? Alessandro Gnocchi, Domenica 20/10/2019, su Il Giornale. I n questo mondo onesto e solidale, almeno a parole, qualcuno deve assumersi la responsabilità di essere cattivo. Senza cattivi, i buoni sarebbero in catene. Se possiamo crogiolarci nei buoni sentimenti è solo perché qualcuno è disposto a compiere cattive azioni. Fingiamo di ignorare la verità per sentirci persone migliori. In questa società commovente, nessuno vuole interpretare il cattivo, è una parte scomoda. Eppure... Cosa accade se i cattivi decidono di infischiarsene della bontà e il fine non giustifica i mezzi? Tra l'altro, chi è in grado di valutare quale sia la parte giusta in vicende che iniziano e finiscono nella più totale ambiguità? Simone, il protagonista di Educazione americana (La nave di Teseo) di Fabrizio Gatti, è un cattivo. Un carabiniere reclutato dalla Cia. Un testimone diretto, a volte un protagonista, di molti casi al centro della cronaca politica e giudiziaria. Educazione americana è un romanzo. Fino a che punto sia di fantasia, giudichi il lettore: Fabrizio Gatti è uno dei più noti giornalisti d'inchiesta, tra le altre cose ha trascorso quattro anni da infiltrato lungo le rotte del Sahara percorse da migranti e nuovi negrieri; le note finali lasciano supporre che Gatti abbia trasformato in fiction i racconti di uno o più agenti italiani della Cia; a nessuno fa piacere ricevere la visita dei servizi o una tazza di tè al polonio, per cui meglio essere prudenti. La storia del Novecento è anche fatta di spionaggio e controspionaggio. Americani contro sovietici, Nato contro Patto di Varsavia, Cia contro Kgb. In mezzo, l'Italia, appartenente al blocco occidentale con riserva, dovuta alla presenza del Partito comunista più importante e più fedele a Mosca dell'intero Occidente. Simone entra nei ranghi della Cia e si trova a gestire operazioni sempre più complesse. Tutto è al limite, nella sua vita: l'attesa sfibrante di una missione; la missione; le ripercussioni, anche morali, della missione. Simone contatta un giornalista per raccontare il suo passato. Vuole prenderne le distanze, svelare almeno qualche retroscena inquietante dell'Educazione americana, vale a dire delle modalità attraverso le quali gli Stati Uniti hanno assicurato la permanenza dell'Italia tra i Paesi liberi. Con invasioni di campo poco rassicuranti e perfino con brutalità all'occorrenza: rapimenti, torture, corruzione, traffico di documenti riservati, depistaggi, alleanze con la criminalità, omicidi mirati. Naturalmente ci sono anche i sovietici occupati in faccende uguali e contrarie. Lo spionaggio, inoltre, non va in pensione con la caduta del Muro. Non è tanto la caduta del comunismo a cambiare le carte in tavola. È piuttosto la tecnologia: la sorveglianza, attraverso le telecomunicazioni digitali, Rete e telefoni cellulari, diventa più capillare. Le azioni sono più semplici, rapide e preventive. Gli agenti non devono più rincorrere i fatti: possono orientarli a piacimento. Cosa sono stati dunque gli ultimi quarant'anni della nostra Repubblica, visti attraverso gli occhi di Simone? Proviamo a riassumere, ammesso e non concesso che Simone sia sincero: non potrebbe aver depistato l'autore, sempre in cerca di conferme al racconto dello spione? Simone non potrebbe aver frainteso, essendo ai piani bassi dell'organizzazione, dai quali si gode di un panorama limitato? Comunque sia, i fatti sarebbero i seguenti. Dopo il 1989, la Cia raccoglie informazioni sui partiti al potere, in particolare i socialisti di Bettino Craxi. Quando scoppia Mani pulite, Simone è costretto a farsi qualche domanda: il cambio di regime, per motivi imperscrutabili, è stato voluto o almeno agevolato dagli americani? E perché? Il 1993 e il 1994 sono anni rivoluzionari non solo per le inchieste giudiziarie della procura di Milano. Totò Riina, boss della mafia corleonese, finisce in carcere. Segue la stagione delle bombe a Roma, Milano, Firenze. Alle elezioni, Silvio Berlusconi taglia la strada ai post comunisti e va al governo. Anche intorno a Berlusconi, all'inizio forse sgradito alla Cia, iniziano a muoversi gli agenti in cerca di informazioni. Due anni di confusione, che lo stesso Simone non riesce a capire fino in fondo. Forse dentro la Cia c'è stata una spaccatura, forse qualcuno, a Langley, sede dell'Agenzia, pensava a un colpo di Stato o a una guerra civile magari lanciata dal Nord secessionista. Perché gli Usa avrebbero avuto interesse nel destabilizzare l'Italia? L'interrogativo resta aperto. Dopo l'11 settembre 2001 cambia tutto. Inizia un periodo di collaborazione più stretta tra i servizi segreti occidentali ma anche una discutibile sospensione delle regole, aggravata dal caos. Esempio principale: il sequestro di Abu Omar a Milano. L'imam sospettato di terrorismo viene prelevato da una squadra di dieci agenti. A detta di Simone, ne facevano parte agenti della Cia (italiani inclusi) e agenti dei servizi italiani. L'imam transitò dalla base militare di Aviano e fu trasportato in Egitto. In Italia scoppiò un lunghissimo procedimento giudiziario a carico dei vertici dei servizi (condannati). E oggi? Beh, l'argomento è più che mai attuale. Russiagate e vicende correlate, tra cui la più grave è l'accusa al premier Conte di essersi servito in modo improprio dei servizi per garantirsi l'appoggio di Trump, ci dicono che tuttora vediamo solo una parte di ciò che accade. Come accada e se è giusto che accada, va valutato forse di caso in caso. Educazione americana srotola davanti agli occhi dei lettori l'intero campionario: al lettore decidere se i cattivi siano necessari, come si diceva all'inizio, o se talvolta siano da punire.

Roberto Vivaldelli per ilgiornale.it il 19 ottobre 2019. Sono ampiamente noti i legami fra la Link University fondata da Vincenzo Scotti, al centro del Russiagate e della vicenda Mifsud, definita dal New York Times "un vortice di intrighi", e la classe dirigente del Movimento Cinque Stelle. È qui che, il 6 febbraio 2018, il leader dei pentastellati Luigi di Maio presenta il programma della politica estera del movimento ed è proprio dalla Link che viene l'ex ministro della Difesa Elisabetta Trenta, docente nel master di Cooperazione internazionale e sui Fondi Strutturali nonché responsabile dei progetti speciali. Ma se parliamo di connessioni fra l'università di via del Casale di San Pio e il mondo politico, il Partito democratico non è certo da meno. Ex ministri ed esponenti di spicco dei dem, infatti, hanno frequentato - per anni - l'università capitolina fondata nel 1999 come filiazione italiana dell'Università di Malta. Come scrive Antonio Grizzuti su La Verità, tra questi troviamo l'ex ministro dell'Interno Marco Minniti, ex titolare della delega ai servizi segreti da maggio 2013 fino al suo arrivo al Viminale (dicembre 2016). Il rapporto fra Minniti e la Link è saldo e radicato. "La fondazione Icsa - scrive La Verità - da lui istituita nel 2009 insieme all'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, risulta tra i finanziatori del Criss, il consorzio della Link nel settore dell'alta tecnologia, dell'intelligence e della sicurezza". Tant'è che nel 2011 fu proprio Minniti a inaugurare il master in intelligence dell'ateneo romano. C'è poi il senatore Pd e capogruppo in commissione Affari europei di palazzo Madama, Gianni Pittella, che tirato in ballo nella vicenda Russiagate in una intervista a Repubblica da Simona Mangiante, moglie di George Papadopoulos, conferma di aver conosciuto Joseph Mifsud e di avergli presentato la Mangiante. Pittella e Joseph Mifsud partecipano a numerose conferenze e seminari insieme, anche alla Link University. Sul Corriere della Sera, il senatore del Partito democratico e capogruppo in commissione Affari europei al Senato si tira fuori dalla vicenda che è al centro delle cronache in questi giorni, che coinvolge l'amministrazione americana e i nostri servizi segreti: "È una storia più grande di me, una storia maiuscola e io sono una nullità, non mi ha sfiorato l'ipotesi che potesse essere una spia". Come nota Il Messaggero, è tuttavia noto che Joseph Mifsud arriva in Italia, e poi alla Link Campus university, proprio grazie ai contatti con il senatore dem, in passato visiting professor della London Academy of Diplomacy (un'organizzazione di Mifsud ora chiusa). C'è poi un altro rappresentante della sinistra, questa volta renziano, che ha frequentato la Link e ha conosciuto il docente maltese scomparso nel nulla e al centro dell'intrigo internazionale: Gennaro Migliore. Per cinque anni pieni - da maggio 2008 a febbraio 2013 - che corrispondono esattamente con la XVI legislatura del Parlamento, Migliore è stato collaboratore nel settore insegnamento post universitario dell'università capitolina. L'ex sottosegretario alla Giustizia dei governi Renzi e Gentiloni ha mantenuto nel corso del tempo i rapporti con la Link. Nel novembre 2017 è lui a chiudere i lavori del "Mafie, globalizzazione e stati" organizzato dall'ateneo a Pozzuoli. Presente all'evento anche il patron Vincenzo Scotti. E soltanto qualche giorno fa l'ex esponente della sinistra radicale passato alla corte di Matteo Renzi era alla Link per presenziare al workshop sul decreto legge sulla cybersecurity. Sempre alla Link Migliore incontra e si fa fotografare - insieme a Vincenzo Scotti - con un misterioso professore nato a Malta: Joseph Mifsud. È il 23 ottobre 2017, la data dell'inaugurazione dell'anno accademico della Link. Da lì a poco il docente maltese sparirà nel nulla. Tuttavia, i legami fra la Link, il docente maltese e la galassia della sinistra nostrana non possono essere cancellati né nascosti.

Gianluca Roselli per “il Fatto quotidiano” il 19 ottobre 2019. Prove tecniche di alleanza tra Pd e 5 Stelle anche in Regione Lazio, con la benedizione di Vincenzo Scotti, ex ministro Dc ora patron della Link Campus University, dove ieri è andato in scena un confronto tra due ex nemici: Roberta Lombardi, capogruppo M5S alla Pisana, e Massimiliano Smeriglio, neo eurodeputato del Pd fino a ieri braccio destro di Nicola Zingaretti in Regione. Molto ruota attorno alla mozione di sfiducia che la Lega ha presentato contro Zingaretti e che M5S sosterrà. “Confermo che, se la mozione arriverà in Aula, voteremo a favore. Siamo all’opposizione e continueremo a comportarci come tali”, ha assicurato Lombardi. Che però sa benissimo che la sfiducia a Zingaretti non vedrà mai la luce: non solo perché il governatore ha la maggioranza in consiglio, anche se solo per un voto, ma pure perché lo stesso gruppo pentastellato alla Pisana si è spaccato e tra di loro c’è chi non la sosterrà mai. Per il resto, “chi l’avrebbe mai detto un anno fa che saremmo stati al governo del Paese…?”, si chiede Lombardi. Che promuove le cose finora fatte dal governo Conte.“In un mese e mezzo abbiamo tagliato i parlamentari, messo in campo la manovra di bilancio e riportato la lotta all’evasione in testa all’agenda …”. Un po’ meno entusiasta, ma pur sempre soddisfatto, Smeriglio: “Quando io per primo parlai di una possibilità di alleanza Pd-5 Stelle venni spernacchiato da molti a sinistra, quegli stessi che oggi sono ministri…”.

Il "governo della Link". Quel filo che collega l'università ai grillini. I legami tra l'ateneo e il sottosegretario Tofalo, l'ex ministro Trenta e il capo Di Maio. Domenico Di Sanzo, Sabato 12/10/2019, su Il Giornale. I l legame tra l'Università Link Campus e il M5s, su cui molto si è discusso e ipotizzato da più di un anno a questa parte, viene spiegato molto semplicemente dagli stessi dirigenti del piccolo ateneo romano. Quasi a smontare ogni pettegolezzo, con dichiarazioni all'insegna del ridimensionamento dei rapporti: «Semplicemente siamo stati i primi a intercettare certi temi e a discuterne, dall'antipolitica al reddito di cittadinanza - ha detto martedì a Fanpage il membro del Cda della fondazione dell'università Massimo Micucci - per questo motivo poi durante la scorsa legislatura diversi parlamentari del Movimento sono venuti a frequentare da noi dei corsi di perfezionamento, il legame nasce così». Uno di questi frequentatori dei corsi della Link è stato l'attuale sottosegretario alla Difesa Angelo Tofalo, già presente nella squadra gialloverde e riconfermato nel Conte-bis. Nella scorsa legislatura Tofalo era membro del Copasir. A parlarne, in un'intervista al sito Lettera43 pubblicata il 27 marzo dell'anno scorso, è il fondatore dell'ateneo, Vincenzo Scotti, ex dirigente della Dc e ministro con tre diversi presidenti del Consiglio: Giovanni Spadolini, Giulio Andreotti e Giuliano Amato. Soprannominato «Tarzan» per la sua abilità nel districarsi tra le correnti della Balena Bianca, ha spiegato così la genesi delle relazioni con i grillini: «Il primo contatto è stato con il deputato Tofalo del Copasir che alcuni anni fa si è iscritto a un nostro master in intelligence. Non ha mancato a una lezione, ha avuto ottimi voti». Dalla vicedirezione del master della Link in Intelligence e Security proviene Elisabetta Trenta, ministro della Difesa uscente in quota 5 Stelle. Attualmente la Trenta non figura nell'elenco dei docenti, ma ha avuto diverse esperienze nell'università, a partire dal maggio 2015. Ha ideato e coordinato un corso di euro-progettazione, è stata docente in più di un master e responsabile dei progetti speciali. Trenta, poco prima delle ultime elezioni politiche, era stata inserita dal capo politico M5s Luigi Di Maio nella lista dei 17 ministri di un ipotetico monocolore pentastellato. Insieme a lei c'erano Emanuela Del Re, confermata nel nuovo governo come viceministro degli Esteri e Paola Giannetakis, che era stata indicata a marzo 2018 come ministro dell'Interno. Del Re di recente ha precisato di non far parte del corpo docente dell'Università Link, e nella versione sintetica del curriculum pubblicata sul sito della Farnesina non c'è traccia dell'ateneo fondato da Scotti. In un cv dettagliato reperibile sul sito dell'Università La Sapienza di Roma, dove ha insegnato per molto tempo, c'è scritto che nel 2015 è stata docente di «Decision Making» nel master «Innovation and Technology. Innovation and Finance», presso la Link Campus University. Molto più stretti sono i rapporti tra la Link e Giannetakis, che è stata anche candidata dal M5s alle politiche del 2018 alla Camera in un collegio uninominale a Perugia, senza essere eletta. Di professione criminologa, nell'ateneo è professore straordinario in Diritto Penale e direttore del Dipartimento per la Ricerca. Il 4 marzo di un anno fa non è stato eletto un altro ex collaboratore della Link, l'avvocato romano Daniele Piva, candidato all'uninominale alla Camera, docente nel 2016 e 2017 al master in business administration. Nicola Ferrigni, professore associato di sociologia generale alla Link, è anche lui una seconda fila del grillismo. Era stato scelto, sempre nel marzo 2018, dalla candidata governatore del Lazio Roberta Lombardi come futuro assessore alla Sicurezza, con deleghe allo sport e alle politiche giovanili, in una ipotetica giunta monocolore stellata. Poi una curiosità: Il 6 febbraio 2018 Luigi Di Maio è stato ospite dell'università a parlare di politica estera, in una sorta di antipasto di quello che ora è il suo ruolo di capo della Farnesina. E oltre al grillismo, c'è il trasversalismo. Nell'elenco dei docenti ci sono personalità di diversa estrazione politica, da Giulio Tremonti e Franco Frattini fino a Massimo D'Alema.

Dago News l'11 ottobre 2019. LA RETTIFICA DELLA LINK CAMPUS. Riceviamo e pubblichiamo: Gentili Signori, l’Università degli Studi “Link Campus University”, in persona del Direttore Generale p.t., Ing. Pasquale Russo, mio tramite, rappresenta quanto segue: “L'intervista del Sig. Roberto D'Agostino pubblicata in data 7 ottobre 2019 sul sito internet m.dagospia.com a firma del giornalista Alessandro Rico per “la Verità” dal titolo: ''L'ITALIA? UNO STATO VASSALLO. SOLO DA NOI MINISTRI STRANIERI ARRIVANO E DISPONGONO DEI SERVIZI SEGRETI'' - INTERVISTA A DAGO SU RUSSIAGATE E GIALLO-ROSSI: ''TRUMP VUOLE VENDICARSI DELL'INCHIESTA, RENZI ERA UN FAN DI HILLARY. LINK UNIVERSITY? NON CONOSCO STUDENTI, SOLO SPIE'' - ''SALVINI È INUTILE CHE SI STUPISCA DEL PIANO PER FARLO FUORI. L'8 AGOSTO SI È SALVATO LA PELLE'', tutt’ora online, riporta delle affermazioni e dei punti interrogativi in ordine all'attività svolta dalla Link Campus University, agli studenti eventualmente iscritti, alla conoscenza da parte del Sig. D'Agostino di sole spie della predetta Università, nonché alle modalità di sostentamento economico della medesima, che sono gravemente lesive dell'immagine dell'Ateneo, in quanto alludono a screditarne ingiustamente la reputazione. La Link Campus University è una Università non statale legalmente riconosciuta dall'ordinamento giuridico italiano con Decreto del M.I.U.R. a far data dal settembre 2011 a cui risultano circa 2.000 studenti iscritti ai vari corsi di laurea e laurea magistrale (ben 10), nonché circa 500 studenti iscritti ai vari Master e Corsi Postgraduate (ben 42). L'elevato livello di ricerca e di formazione universitaria è assicurato dalla presenza di circa 132 docenti, tra incardinati ed a contratto, nonché di 45 ricercatori a tempo determinato, con partecipazione a numerosi progetti di ricerca, di cui 8 progetti "Horizon 2020". L'Ateneo, infatti, si sostiene prioritariamente grazie alle rette universitarie versate dai propri studenti. Distinti saluti.  Ing. Pasquale Russo”. Si diffida, pertanto, a procedere alla rimozione immediata della suddetta intervista e al contempo alla rettifica della stessa, ai sensi dell'art. 8 L. n. 47/1948, entro e non oltre due giorni dalla ricezione della presente, mediante la pubblicazione in testa di pagina e collocata nella stessa pagina del giornale/sito internet del solo testo virgolettato; informando, sin da ora, che diversamente saranno adite le competenti sedi giudiziarie. Si informa, infine, che La Verità ha provveduto in data 9 ottobre u.s. alla rettifica della suddetta intervista.

Raffaele Volpi a Pietro Senaldi: "Che cosa chiederò a Giuseppe Conte su Servizi segreti e governo". Libero Quotidiano il 15 Ottobre 2019. Il leghista che farà l’esame di fedeltà alla Repubblica al premier Conte è un pacato studioso di geopolitica, pavese di nascita, veneto di formazione e bresciano d’adozione. È in Parlamento dal 2008, anche se fino alla settimana scorsa non era noto ai più. «Sono della scuola di Giorgetti, al quale sonomoltolegato» si schernisce. «Lavoro fuori dai riflettori, mi occupo di quelle cose che non interessano a nessuno e che i giornali snobbano». È nella Lega da trent’anni, quasi dagli albori bossiani, proveniente dalla Democrazia Cristiana, ed è tra i pochissimi ex rampolli dello Scudo Crociato che scelse l’approdo padano anziché disperdersi in Forza Italia o nel Partito Popolare e quindi nell’Ulivo-Margherita-Pd. «Di sinistra non sono mai stato, neppure quando ero nella Dc, amo la politica tra la gente e sul territorio, quindi i berlusconiani non facevano per me. La Lega, per chi ha la nostra passione, anche in quegli anni era l’unico partito che ti consentiva di vivere e operare a contatto con i cittadini». Raffaele Volpi è uno di quei soldati dilungo corso che improvvisamente Salvini decide di promuovere capitani, per premiarne fedeltà ed esperienza. «La vita è così» spiega l’interessato, «lunga calma piatta e poi all’improvviso succede tutto. D’altronde la pazienza è una virtù assoluta per me e, come diceva John Belushi nella mitica scena di Animal House, “è quando il gioco si fa duro che i duri iniziano a giocare”. Io ho una dozzina d’anni più di Matteo, ma sono grato a quel ragazzo, perché mi ha restituito entusiasmo per la politica, fin da quando mi spedì al Sud per organizzare il partito. Tendenzialmente sarei un pigro, propenso a perdersi tra letture e tranquillità, Salvini mi ha ridato vigore e voglia di combattere». Ma a combattere, per averlo presidente del Copasir, il Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica, da sempre guidato da un membro dell’opposizione, è stato «il ragazzo», che si è imposto sulla Meloni, che gli avrebbe preferito Urso, ed è riuscito afarlo votare da tutto il centrodestra più il Pd e Italia Viva. Sono mancati i voti grillini, ma si sa che l’investigatore Volpi non era molto gradito dall’uomo sulla graticola, Conte, che ha accusato pubblicamente Salvini di non aver riferito sul Russiagate leghista e ora è costretto a rispondere davanti alla nazione su come sono stati impiegati i nostri Servizi Segreti nella sfida di insulti e spiate in corso da tre anni tra Trump e tutto il Partito Democratico statunitense.

Presidente, quando Conte passerà sotto le sue grinfie?

«Penso entro una decina di giorni. Domani calendarizzeremo gli impegni del Copasir. Ma l’espressione “grinfie” non è corretta. Presiedo un organo di garanzia istituzionale: dobbiamo semplicemente appurare cosa è successo tra i nostri servizi segreti e quelli americani nei giorni di agosto in cui il ministro della Giustizia Usa, William Barr, autorizzato da Conte, ha incontrato i nostri 007».

Lei che idea si è fatto?

«Io non posso esprimere giudizi prima di aver svolto le verifiche. Penso che non sia improprio che i nostri Servizi parlino con quelli di Paesi alleati, perché l’attività di intelligence è relazione. Quello che cercheremo di verificare è se è stato varcato il discrimine tra livello tecnico e politico, perché gli 007 non possono essere usati per svolgere compiti politici».

Il sospetto è che Conte, per ottenere un appoggio dall’America al suo nuovo governo, sia stato particolarmente ospitale con Barr e attento ad assecondarne le esigenze?

«Io non sono un complottista, anche perché i nostri Servizi, che vantano professionisti serissimi e di alto livello, sono sempre stati capaci di mantenersi al di fuori del gioco politico. Del caso Barr si sta  facendo un gran polverone perché la sua visita è avvenuta in concomitanza con i giorni caldi della crisi di governo, il cui evolversi ha avuto chiare anomalie politiche, ma non mi immagino chissà che cosa. Il guaio è che in Italia tutto diventa centrale e riconducibile a tensioni politiche».

Questo è il guaio. E il punto qual è?

«Negli Usa il rapporto tra intelligence e politica è tradizionalmente promiscuo, da noi no, tant’è che la commissione sulla sicurezza della Repubblica è presieduta dall’opposizione. Il punto non è il contenuto delle relazioni tra 007 americani e italiani ma il livello dell’interlocuzione e la reciprocità delle relazioni: chi ha parlato con chi e perché».

Certo che quel «bravo Giuseppi» detto da Trump nei giorni della formazione del nuovo governo aveva proprio il sapore di un ringraziamento…

«Io non ho la minima idea del perché il presidente Usa abbia fatto quell’endorsement. Trump è un politico insolito, credo che a volte abbia delle uscite spontanee e dica semplicemente quel che gli passa per la testa. È anche possibile che, più che un appoggio a Conte, quellafrasefosse una testimonianza della vicinanza degli Stati Uniti all’Italia in questo momento, a prescindere da chi sia al governo».

Non mi ero accorto che i rapporti tra Italia e Usa fossero così buoni…

«Si vede che è distratto. Fatta eccezione perla Gran Bretagna, l’Italia in questo momento è il Paese europeo al quale gli Usa sono più vicini. Non dipende dal governo, ma dal nostro ruolo nel Mediterraneo e in Europa, dai cattivi rapporti di Trump con la Germania e dalle ambizioni di Macron di mettersi  alla guida di un nuovo esercito europeo».

Lei non è stato tenero con il premier nei giorni della crisi: come giudica quanto successo?

«Io sono un parlamentare leghista, ho mazzulato Conte per come è saltato dalla Lega al Pd ma l’ho sempre fatto con eleganza, sottolineando come non potesse passare da una parte all’altraimperturbabile, come se la cosa non lo riguardasse e non gli fosse successo niente».

Crede che il premier abbia gradito?

«In politica non bisognerebbe mai prendersi troppo sul serio, altrimenti si sbaglia. Guardi Macron, che si è preso una batosta dall’Europa sulla commissaria francese proprio quando pensava di avere l’Unione in pugno. Bisogna essere consapevoli del proprio ruolo e l’autoironia può servire allo scopo. Ho solo insinuato al premier il dubbio che forse non stesse comandando solo lui e che sulla scena ci fossero attori più importanti».

Sta dicendo che questo governo l’ha voluto l’Europa più che Conte?

«Ma no, questo governo l’ha voluto il Parlamento, per le ragioni che tutti sappiamo. Conte nell’esperienza gialloverde doveva essere un punto di mediazione ma a un certo momento ha cercato di realizzare una propria idea di leadership, che ha spiazzato i Cinquestelle e ora cozza inevitabilmente con il Pd e con i progetti di Italia Viva di Renzi».

Salvini ha sbagliato a far cadere il governo?

«Ma guardi che Matteo è stato l’ultimo a mollare i grillini, tutta la Lega glielo chiedeva in ginocchio da mesi. Lo ha fatto solo quando non c’era proprio più alternativa perché non si riusciva a fare nulla».

Come reagirà alla botta?

«Reagirà da Salvini, non fermandosi mai e continuando le sue battaglie. Sta già reagendo in realtà».

Lei crede che, dopo Conte, toccherà a Salvini passare sotto la lente del Copasir, per dare spiegazione sulla vicenda dell’hotel Metropol a Mosca e sulle intercettazioni di Savoini?

«Da presidente, me lo sono domandato. Se qualcuno me lo chiederà, farò valutare la cosa. Se devo esprimere un parere personale, non ritengo che il tema sia di competenza del Copasir. C’è un’indagine della magistratura in corso e Salvini non è coinvolto; in più non c’è in ballo la sicurezza del Paese ma solo gente che ha millantato».

Con Conte però ci sono in ballo gli Usa, nel Metropol ci sono i russi…

«Le buone relazioni con la Russia non hanno mai danneggiato l’Italia nei suoi rapporti con gli Usa, fin dai tempi di Berlusconi. L’Italia poi ha sempre avuto la missione ufficiosa di essere un ponte tra le varie situazioni della geopolitica continentale e non possiamo permetterci che Mosca sviluppi un asse con la Cina: l’Europa deve capire che l’Occidente non finisce al confine con la Russia. Peraltro attualmente i rapporti tra Washington e Mosca non presentano particolari criticità. I problemi sono altrove, nel Medio Oriente, per esempio. Sono stato a lungo nella delegazione parlamentare presso la Nato, so di cosa parlo».

Lei è stato anche sottosegretario alla Difesa della Trenta, uno dei ministri grillini più discussi: come si è trovato?

«Io ora sono presidente del Copasir,ilmio ex collega grillino Tofalo è stato confermato sottosegretario,laministra è sparita:forse significa che era lei che non funzionava».

Dove non funzionava?

«Era avulsa dal contesto. Non è mai stata in Parlamento, il che significa che non aveva esperienza. Il suo era un ruolo complesso che non ha saputo interpretare: devi essere consapevole che la Difesa è il ministero più istituzionale che c’è e che le Forze Armate, di cui sei a capo per conto del presidente della Repubblica, sono al servizio del Paese e non della politica».

Come giudica l’alleanza giallorossa?

«Il governoM5S-Pd ha una natura completamente diversa da quello M5S-Lega. Il nostro era un contratto, un’intesa finalizzata a diversi obiettivi. Questa è un’alleanza politica, con i Cinquestelle che sono diventati un partito come gli altri. Da questo punto di vista, èfisiologico che la maggioranza si divida e discuta tutti i giorni, basandosi su un accordo politico e non tecnico. C’è una differenza però: gli elettori del Pd e di Renzi sono consapevoli di quanto è accaduto, quelli grillini mi sembrano non aver ancora realizzatola trasformazione del Movimento». Pietro Senaldi 

Luca Fazzo per ''il Giornale'' l'11 ottobre 2019. In attesa che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte vada in Parlamento a riferire sul ruolo dei nostri servizi segreti nel Russiagate (in parte si difenderà; e in parte attaccherà i suoi predecessori), a dare segnali di nervosismo è uno dei soggetti coinvolti nella vicenda: la Link Campus, l' università privata romana resa celebre un anno fa dallo sbarco nel governo gialloverde di una serie di suoi ex allievi, tutti con casacca grillina (a partire dalla titolare della Difesa, Elisabetta Trenta). E oggi tornata al centro dell' attenzione per il ruolo che nello scandalo Russiagate svolge l' enigmatico professore maltese Joseph Mfsud, a lungo docente nell' ateneo presieduto dall' ex ministro Vincenzo Scotti. Con un comunicato, la Link fa sapere che «diffida e querela, senza se e senza ma, chiunque la infami», e polemizza con «tutte le affermazioni scorrette, le falsità, le insinuazioni e le notizie diffamatorie» circolate sui media in questi giorni. «Il nostro ufficio legale sta approntando le querele e richieste di danni del caso. Il nostro dovere è salvaguardare in tutti i modi possibili l' onore, il prestigio, ed il lavoro di centinaia di persone che studiano, si formano ed insegnano in questa Università», conclude il comunicato. A mandare l' università romana su tutte le furie sono state le ricostruzioni che in questi giorni l' hanno indicata come un ganglio vitale della rete di relazioni impiantata da Mifsud: una rete oggettivamente imponente, ma da cui oggi l' ateneo si dichiara estraneo. Anche se l' attivismo sfrenato di Mifsud e i suoi contatti tanto in Russia che in Italia stanno venendo alla luce così nettamente da rendere difficile credere che siano sfuggiti all'università. E d' altronde uno degli esponenti di punta della Link, l' ex ministro Franco Frattini, si portava appresso Mifsud dappertutto. Altra cosa, ovviamente, è sostenere che la Link fosse al corrente delle attività oscure che oggi vengono attribuite a Mifsud, cioè di avere agito come agente provocatore al soldo dell' intelligence americana nel 2016 per favorire Barack Obama, invischiando Donald Trump nella storia dei dossier russi contro Hilary Clinton. A parlarne esplicitamente è George Papadopoulos, all' epoca consigliere di Trump: che accusa il governo italiano dell' epoca di avere fattivamente collaborato all' operazione. E qui c' è ieri da registrare, quasi in contemporanea con il comunicato della Link, un' altra dichiarazione minacciosa: viene da Matteo Renzi, che del governo dell' epoca era premier, e in questa veste si sente ovviamente chiamato in causa per i favori che i servizi avrebbero fatto ai loro colleghi americani. Intervistato dal Washingont Post, Renzi dice che «la serietà e il rigore di Barack Obama per quanto mi riguarda non sono in discussione», che «qualsiasi cosa pensino il procuratore generale, Giuliani o altri (che sospettano l' Italia di avere fiancheggiato la Cia, ndr) non mi preoccupa e non mi interessa». E conclude annunciando di avere chiesto un milione di dollari a George Papadopoulos, che in questo momento è il principale teste d' accusa contro i responsabili del complotto: «Non mi sembra una spy story, quanto un film comico di terza categoria - dice Renzi nell'intervista - e quando ti trovi di fronte a un film comico di terza categoria che non fa nemmeno ridire, bisogna reagire». Grande nervosismo sotto il cielo, insomma. Dove l' unico tranquillo sembra Conte, forse perché sa di avere dalla sua parta sia i servizi che Washington.

Russiagate: la pista italiana. Lo Spygate, il complotto che secondo Trump sarebbe stato ordito ai suoi danni, mette in difficoltà Conte. Non per la vicenda in sé, ma per il comportamento tenuto dal premier. Panorama il 14 ottobre 2019. Dopo la nomina del leghista Raffaele Volpi a presidente del Copasir, il mondo politico romano è in trepida attesa che giornali Usa pubblichino sullo scambio di informazioni con i servizi italiani sul presunto complotto ordito contro Donald Trump. O che, come ha detto una fonte di intelligence alla Reuters, il ministro della Giustizia William Barr e il procuratore federale John Durham possano tornare a Roma per «svolgere ulteriori indagini». Fra minacce reali e complotti ipotetici, l'Italia è come una tappa-chiave della contro-inchiesta voluta da Donald Trump sulle origini del Russiagate, il cosidetto Spygate. Ma è anche, come ha scritto il New York Times, «la centrale dell'intrigo sull'impeachment per i funzionari di Trump». Non a caso, a cavallo fra settembre e ottobre, nel giro di tre giorni a Roma sono arrivati a Roma tre altissimi funzionari statunitensi: il Segretario di Stato Mike Pompeo, il ministro William Barr e il procuratore Durham, incaricato dell'inchiesta sulle origini del Russiagate. Ma se la visita di Pompeo era in calendario da settimane, quella di Barr e Durham (che era stata preceduta da un incontro analogo a Ferragosto) è stata preparata, secondo il New York Times, «aggirando i protocolli» e senza che diplomatici e funzionari dell'intelligence presso l'ambasciata Usa a Roma fossero a conoscenza delle ragioni del viaggio. La doppia trasferta romana della coppia Barr-Durham, ha scritto il quotidiano statunitense, aveva l'obiettivo di «incontrare funzionari italiani di intelligence nell'ambito degli sforzi del presidente Trump per screditare l'investigazione sulle ingerenze russe nell'elezione del 2016 negli Stati Uniti». In un successivo articolo, il New York Times ha dettagliato la missione dei due funzionari: «cercare prove che potessero sostenere la tesi a lungo coltivata da Trump: che alcuni dei più stretti alleati dell'America avevano cospirato con i suoi nemici dello “Stato Profondo” per impedirgli di vincere la presidenza». In Italia, dunque, sarebbero custodite le prove del presunto complotto anti-Trump. Massimo depositario di tali prove sarebbe l'enigmatico Joseph Mifsud, il professore maltese che aveva stretti rapporti di collaborazione con la Link University di Roma, di cui si sono perse le tracce da oltre un anno: l'ultimo avvistamento (fotografico) risale al 21 maggio 2018. Nel «Rapporto sull'investigazione nell'interferenza russa nell'elezione presidenziale del 2016», curato da Robert Mueller per conto del Dipartimento di giustizia, Mifsud è citato 90 volte. Ma la citazione-chiave si trova a pagina 5, dove si parla anche di un altro personaggio chiave: George Papadopoulos, un consulente politico greco che in quel momento è membro del comitato consultivo per la politica estera nella campagna di Trump durante le presidenziali del 2016 (e che successivamente accuserà Matteo Renzi di una collusione con l'amministrazione Obama). Citando un viaggio fatto dal professore maltese a Mosca nell'aprile del 2016, il rapporto riferisce che al rientro «Mifsud disse a Papadopoulos che il governo russo aveva “materiale scottante” su Hillary Clinton sottoforma di migliaia di email». Questa citazione rende Mitfud la fonte principale di una delle principali accuse mosse contro la campagna di Trump dall'inchiesta di Mueller. In un incontro con l'ambasciatore australiano a Londra Alexander Downer, il 6 maggio, Papadopoulos gli riferisce che i russi potrebbero aiutare la campagna elettorale di Trump rilasciando informazioni che danneggerebbero la Clinton. Quando a fine luglio Wikileaks pubblica le mail della Clinton, l'ambasciatore comunica all'Fbi ciò che Papadopoulos gli aveva riferito un mese e mezzo prima. Sulla base di questa informazione, il Federal Bureau of Investigation apre l'inchiesta che mette Trump nei guai fino al collo. Questa la versione dei fatti, sintetizzata in un documento di 448 pagine, così come è stata appurata da Mueller, che ha indagato dal maggio 2017 al marzo 2019,  portando alla incriminazione di 34 persone e tre società, alla condanna di otto persone, fra cui lo stesso Papadopoulos, finito in carcere per aver mentito all'Fbi. Di tutt'altro tenore la versione dei fatti sostenuta da Donald Trump, nota come Spygate. Anzitutto, la tesi: secondo il presidente Usa, non sarebbe stata l'intelligence russa a penetrare nei server del partito democratico per rubare le mail della Clinton e diffonderle su Internet. A commettere l'infrazione sarebbe stato lo stesso partito democratico, che temendo la vittoria di Trump avrebbe messo in atto una strategia preventiva. In sostanza, i democratici avrebbero volutamente diffuso le mail della Clinton per potere, in caso di vittoria di Trump, accusarlo di essere il responsabile della violazione dei propri server, in combutta con i servizi russi, e aprire una procedura di impeachment. Una tesi macchinosa, di cui però mancano le prove. E sono proprio le prove di questo presunto complotto che il ministro della Giustizia Barr è venuto (e, forse, tornerà) a cercare in Italia. In realtà Trump sostiene che esistono, che si troverebbero su un server del partito democratico, che però sarebbe stato messo al sicuro in Ucraina, dagli odiatissimi nemici di Mosca. Ma se le cose stanno davvero così, perché l'Fbi non ha indagato? Non lo ha fatto perché, prosegue l'ardita tesi di Trump, sarebbe colluso con il partito democratico. Il Federal Bureau of Investigation farebbe parte integrante dello Stato profondo, cioè quella struttura nascosta costituita dall'establishment tecnocratico che si oppone a Trump ed è in combutta con i democratici. Complotto vero o ipotetico, quello che è certo è che lo Spygate mette in difficoltà Giuseppe Conte. Non per la vicenda in sé, ma il comportamento tenuto nei confronti degli altissimi funzionari sguinzagliati da Trump alla ricerca di prove sul presunto complotto ordito ai suoi danni. Il primo ministro deve spiegare «l'irritualità» degli incontri avvenuti durante la doppia trasferta romana del ministro Barr e del procuratore Durham, il 15 agosto e il 27 settembre. Come ammesso dallo stesso Conte, fu lui ad autorizzare i meeting con il capo del Dis Gennaro Vecchione per cercare «nell' interesse dell' Italia di chiarire quali fossero le informazioni degli Stati Uniti sull' operato dei nostri Servizi all' epoca dei governi precedenti», vale a dire Renzi e Gentiloni. Al momento non si conosce il genere di informazioni che Gennaro Vecchione chiese di raccogliere alle nostre due agenzie di spionaggio e controspionaggio (Aise e Aisi) affinché poi venissero condivise con Barr e Durham. Il sospetto più accreditato, però, è che possano riguardare la primula rossa Mifsud. Che fino al maggio 2018 viveva nascosto in un appartamento intestato a una società collegata con la Link Campus university, fondata dall'ex ministro democristiano Vincenzo Scotti.

Luca Fazzo per “il Giornale” l'11 ottobre 2019. Se c'è una strada per dipanare il groviglio del Russiagate e del ruolo italiano nelle manovre anti Trump (2016) e pro Trump (2019), questa passa sicuramente dalla comprensione del ruolo della Link Campus, l'università romana dove insegnava il professore maltese Joseph Mifsud, uomo-chiave della vicenda. Ieri la Link ha annunciato un' ondata di querele verso i giornali che l' hanno chiamata in causa. Forse sarebbe più semplice rispondere a cinque domande.

PERCHÉ IL LEGALE DI MIFSUD È UN AZIONISTA? A chi appartiene la Link? A questa domanda le dichiarazioni diramate dall' università partire dall' anno scorso non hanno permesso di dare finora una risposta precisa. L'università risulta appartenere ad una società chiamata Gem (Global education management), amministrata da una signora di nome Vanna Fadini, che ne possiede il 77 per cento delle azioni. Si tratta di una proprietà effettiva o detenuta a titolo fiduciario? Quali sono i rapporti tra la Link e la Lhi, ovvero la Link International, la società di cui la Fadini sarebbe espressione? Una parte delle quote della Lhi, secondo un articolo di Repubblica, sarebbe stata ceduta direttamente a Joseph Mifsud, il docente maltese al centro dello scandalo Russiagate, di cui oggi si sono perse le tracce, mentre una quota della Gem sarebbe finita invece secondo le visure camerali all' avvocato svizzero di Mifsud, Stephan Claus Roh. Come si conciliano questi passaggi di quote con il ruolo di semplice docente che nei suoi comunicati ufficiali la Link attribuisce a Mifsud? A che titolo Roh era presente al convegno alla Link nel 2016 col docente russo Alexey Klishin?

QUALI RAPPORTI ESISTONO CON IL SIULP? Interrogato dalla Procura di Roma il 4 ottobre 2018 sui rapporti tra la Link Campus e il sindacato di polizia Siulp e la relativa fondazione «Sicurezza e Libertà», il direttore generale dell'università Pasquale Russo dichiarava «nessun rapporto economico né alcun finanziamento c'è mai stato tra la Link e la fondazione. La Link non era a conoscenza di un conto bancario aperto a San Marino, nessuna retta dovuta alla Link è mai stata incassata su tale conto». Ma tredici giorni dopo il segretario del Siulp, Felice Romano, spiegava ai pm che il conto era di tale società Hero che gestisce il sito della fondazione e le piattaforme e-learning «sulle quali vengono forniti i materiali didattici universitari forniti dalla Link peri corsi universitari». La Link può spiegare se e quali rapporti ha con la Hero, la società con il conto a San Marino? Può spiegare il ruolo della professoressa Veronica Fortuzzi, docente di inglese alla Link, indagata dalla Procura di Firenze per avere «aiutato» i poliziotti iscritti al Siulp a passare gli esami? Può escludere che gli «aiutini» agli iscritti al Siulp siano collegabili ai versamenti effettuati alla società Hero?

SOLO DOCENZA O ANCHE DIFESA E INTELLIGENCE? Secondo una dichiarazione dell' avvocato Roh all' agenzia di stampa Adnkronos, «Mifsud ha avuto molti legami e a lungo con la Link. È stato il fondatore della Link Campus University di Malta. Detiene il 35% delle quote della Link International srl di Roma, che è una gruppo separato che si occupa di intelligence, consulenza e difesa, gestita da altri azionisti della Link». Esiste dunque una Link «parallela», una struttura non accademica ma direttamente operativa nel campo della sicurezza? Oltre che a formare ministri, agenti segreti e poliziotti, la Link è coinvolta in attività sul campo? Inoltre: quali sono i rapporti tra la Link e il London centre of international practice, dove Mifsud avrebbe incontrato per la prima volta George Papadopoulos, il consigliere di Trump che poi avrebbe irretito nel Russiagate? Difficile per la Link dire di non avere contatti diretti con il Lcip, visto che il fondatore del centro londinese, il britannico di origine sudanese Nagi Idris, a capo della En (Education group), anch' essa di stanza nel Regno Unito, nelle sue note biografiche scrive di aver lavorato come «visting professor» proprio alla Link.

CHE RELAZIONI INTERCORRONO CON GLI STATES? Sul sito della Link Campus viene oggi propagandata con grande risalto una iniziativa realizzata congiuntamente dall' ambasciata americana a Roma con il «Centro studi americani» teso a formare sessanta studenti con un corso annuale sul «sistema politico istituzionale statunitense in vista delle elezioni presidenziali del 3 novembre 2020». Il Centro studi americani è presieduto da Gianni De Gennaro, ex capo della polizia e ex direttore del Dis, la struttura di coordinamento dei servizi segreti, oggi a capo di Leonardo; nel board del Centro studi siedono esponenti di spicco del partito «amerikano» a Roma tra cui l' ex ambasciatore Ronald Spogli e il rettore della John Cabot University. Sarebbe interessante che la Link spiegasse la natura dei suoi rapporti con il Centro studi americani, con l' ambasciata americana di Roma e con il centro occulto della Cia nella Capitale. Sarebbe interessante sapere se è grazie ai buoni rapporti con gli americani che la Link ha potuto allacciare relazioni preferenziali con il mondo della sicurezza e dell' intelligence del nostro Paese, i cui maggiori esponenti sono stati spesso ospiti delle sue iniziative.

PERCHÉ FRATTINI HA RINNEGATO L'AMICO PROF? C'è una domanda, infine, che si fanno da un anno gli investigatori della Fbi che stanno cercando di ricostruire genesi e protagonisti del presunto complotto ai danni di Donald Trump durante le elezioni presidenziali del 2016: che fine ha fatto Joseph Mifsud? Per il Bureau, in questo momento Mifsud è introvabile, e persino il suo avvocato Roh non esclude che sia morto. Ma quando Mifsud per la Fbi era già introvabile in realtà continuava ad abitare nella casa di via Cimarosa 3, a Roma, di proprietà proprio della Link, da cui venne visto entrare e uscire varie volte anche dopo che era emerso il suo coinvolgimento nel Russiagate. L' università chiese conto a Mifsud, prima che sparisse nel nulla, dei suoi contatti con George Papadopoulos, l' ex consigliere di Trump? E cosa sa dei rapporti internazionali di Mifsud l' ex ministro degli Esteri Franco Frattini, che ha quasi negato di conoscere il maltese ma che - come documenta una foto pubblicata ieri sul Foglio.it - lo ebbe al suo fianco in missioni in Qatar e a Mosca, dove si strinsero accordi importanti, e in numerose occasioni analoghe in Italia e in Inghilterra?

Simone Di Meo per la Verità il 12 ottobre 2019. Non si chiama Donald Trump né Vladimir Putin il tormento che agita le austere stanze del Casale di San Pio V, a Roma. Là dove ha sede la Link Campus University, la filiale italiana dell' Università di Malta finita al centro di una trama di spionaggio internazionale per le mail rubate dagli hacker russi alla candidata democratica Hillary Clinton e offerte all' entourage del presidente Usa dal professor Joseph Mifsud, da tempo ormai scomparso dai radar. L' angoscia è dovuta al fatto che l' Agenzia delle entrate pretende 1.207.641,67 euro di tasse mai versate all' erario. E poiché l' Università di Roma non ha onorato il maxi debito, la stessa Agenzia delle entrate ne ha chiesto il fallimento trascinandola davanti alla sezione specializzata del tribunale della capitale. A occuparsi del procedimento numero 2612/17 è il giudice delegato Daniela Cavaliere. Al quale, nei giorni scorsi, secondo quanto La Verità ha potuto verificare, il presidente dell' Ateneo romano Vincenzo Scotti, ex plenipotenziario democristiano, ha inoltrato istanza di concordato preventivo. Un modo per attivare la sospensione dell' iter e presentare un piano di ristrutturazione dei debiti da sottoporre ai creditori al fine di evitare la procedura concorsuale e trovare un accordo che impedisca il default. Facoltà riconosciuta dal 6° comma dell' articolo 161 della legge fallimentare che prevede che «l' imprenditore può depositare il ricorso contenente la domanda di concordato unitamente ai bilanci relativi agli ultimi tre esercizi e all' elenco nominativo dei creditori con l' indicazione dei rispettivi crediti, riservandosi di presentare la proposta, il piano e la documentazione [] entro un termine fissato dal giudice compreso fra 60 e 120 giorni e prorogabile, in presenza di giustificati motivi, di non oltre sessanta giorni». Com' è stato possibile però arrivare a questo punto? L' ateneo, per ammissione del suo stesso presidente, versa in condizioni di gravissima crisi dovuta ai costi fissi di mantenimento della struttura e acuita dai ritardi nel pagamento delle rette da parte degli studenti. In più la Link Campus ha ricevuto, dal 2005 in poi, atti impositivi per tasse e contributi non versati da parte di Inps e altri agenti della riscossione che ne hanno indebolito la tenuta finanziaria. Il tutto, spiega l' ateneo, per colpa di un equivoco o meglio di un errore che risale a circa 13 anni fa, quando la società consortile a responsabilità limitata che gestiva l' organizzazione dell' Università venne trasformata nell' attuale Fondazione Link Campus University. Un passaggio che non solo avvenne senza la contestuale iscrizione della Fondazione alla sezione specifica dedicata agli enti ma, cosa ancor più grave, in mancanza della cancellazione della vecchia società consortile a responsabilità limitata dal Registro delle imprese. Una disattenzione che, di fatto, secondo l' università, ha comportato l'accumulo di milioni di euro di debiti con le varie amministrazioni dello Stato ormai non più sostenibili. La storia della Link Campus inizia poco prima degli anni Duemila quando un decreto del ministero della Ricerca scientifica le riconosce lo status di «filiazione» in Italia dell' università della piccola isola del Mediterraneo. È il 27 novembre del 1999. Passano pochi mesi e il 16 giugno 2000 l' università di Malta e la Società per la gestione della Link Campus Università of Malta Spa costituiscono, davanti a un notaio della capitale, la Link Campus società consortile a responsabilità limitata con un capitale sociale di 10.000 euro, diviso per il 90 per cento all' università di Malta e per il restante 10 per cento alla Spa. Superata la fase di start up, nel 2006, la società consortile si trasforma in Fondazione con una dotazione finanziaria di 100.000 euro messa a disposizione dalla Link Campus Università of Malta Spa. Da allora, l' ateneo ha allargato la sua offerta formativa puntando su corsi di laurea legati al mondo della pubblica amministrazione e alle scienze della sicurezza. Negli ultimi tempi, la Link ha offerto al M5s numerosi quadri dirigenti. L' ex ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, è stata ad esempio vicedirettrice del master in intelligence dell' ateneo. E proprio della Trenta è stata assistente al ministero, per la «gestione degli aspetti linguistici», la giovane docente Veronica Fortuzzi, indagata dalla Procura di Firenze nell' ambito di un filone su presunti esami facili al campus. Il fascicolo per falso raccoglie oltre una quarantina di posizioni tra studenti-poliziotti, professori, tutor e sindacalisti delle forze di polizia. L' ipotesi della pm Christine von Borries è che gli agenti, iscritti al corso di laurea triennale in Scienza della politica e dei rapporti internazionali, nel quadriennio 2016-2019 abbiano sostenuto esami senza la presenza dei professori e con la possibilità di copiare. Le indagini sono ancora in fase istruttoria, e quando saranno chiuse di sicuro il tribunale fallimentare avrà già deciso sulla richiesta di Scotti di evitare la bancarotta di una piccola università finita in un gioco mortale di spie e ricatti.

Alessandro Da Rold per “la Verità” il 18 ottobre 2019. Inflessibili con i non vedenti in ritardo di poche migliaia di euro sull' affitto, ma più che mai disponibili nei confronti della Link Campus University di Vincenzo Scotti, che ha un debito di 700.000 euro per il canone del 2017 del prestigioso Casale Pio V. È il doppio registro dell' Ipab - Centro regionale Sant' Alessio - storica istituzione controllata dalla Regione Lazio di Nicola Zingaretti, che in teoria «dovrebbe realizzare attività volte all' inclusione sociale dei ciechi e degli ipovedenti». Certo, negli anni le finalità dello storico istituto dei ciechi sono cambiate, ma dal 2015 a oggi hanno avuto una vera e propria sterzata di tipo politico. Non si spiegherebbe altrimenti il trattamento di favore per quella che è stata soprannominata l' Università delle spie, dopo lo scandalo che ha coinvolto il professor Joseph Mifsud e l' ex consigliere di Donald Trump, George Papadopoulos. A distanza di quasi tre anni l' affitto non è ancora stato versato e, soprattutto, in Regione nessuno si è preso la briga di adire le vie giudiziarie. Come già scritto dalla Verità, la situazione delle casse della Link è più che mai preoccupante. Il presidente Scotti, vecchio leone della Dc, ha depositato da poco in tribunale una richiesta di concordato preventivo: nel 2017 l' Agenzia delle entrate ha contestato all' ateneo mancati pagamenti per un totale di 1.200.000 euro. Ma quei soldi per il canone del 2017 spettano di diritto all' Ipab Sant' Alessio, anche perché l' immobile occupato vanta una superficie di 9.000 metri quadri in un' area di 35.000. Non poteva essere sfruttato per un ospedale magari dedicato a curare i malati? La Verità ha visionato le richieste di recupero crediti fatte dal Sant' Alessio quest' anno ai morosi. Il 5 aprile del 2019 in una lettera inviata alla Link dal titolo «Oggetto: trasmissione fatture e diffida a pagare», il direttore generale Antonio Organtini chiede il pagamento del canone ma anche delle bollette Enel per 7.000 euro. La missiva si conclude con un «distinti saluti». Di diverso registro la raccomandata arrivata a ottobre a F.C., non vedente residente in un' altra struttura Ipab. Gli si contestano poche migliaia di euro di ritardo sulle quote e si minaccia l' avvio «di procedure esecutive per il recupero forzoso del credito». Il finale è «cordiali saluti». Che da parte di Regione Lazio e del presidente di Ipab, Amedeo Piva (nominato da Zingaretti), non ci sia un accanimento sulla Link appare quasi scontato, anche perché dem e grillini sono insieme al governo. Del resto di quanto la Link sia un punto di riferimento per il governo di Giuseppe Conte si è scritto molto negli ultimi mesi. C' è un mondo, secondo Papadopoulos, di spie e spioni, che circola per i chiostri del Casale Pio V. Quel mondo è molto legato sia all' attuale premier sia ai parlamentari grillini, in particolare quelli che hanno posizioni nel comparto sicurezza. Dal professore Guido Alpa fino al sottosegretario alla Difesa, Angelo Tofalo, in tanti frequentano l' ateneo di Scotti, senza dimenticare l' ex ministro Elisabetta Trenta. Persino l' ultima nomina di Bruno Valensise, nuovo vice del Dis (Dipartimento informazioni sicurezza), porta la firma della Link: anche lui ha tenuto corsi all' università come del resto ha fatto Gennaro Vecchione con una lectio magistralis il 16 marzo scorso. Intelligence e apparati di sicurezza a parte, il tema affitti e pagamenti del canone in casa Link Campus è spinoso e di sicuro non semplice da decifrare. L'università ha vinto un regolare appalto per avere in gestione il prestigioso immobile nel 2015. Nel 2017, però, l'Ipab ha passato la mano a Sorgente Sgr di Valter Mainetti (editore del quotidiano Il Foglio). Nel marzo di quell'anno, infatti la società di gestione del risparmio si è aggiudicata la gara per la gestione «di un Fondo d'investimento alternativo immobiliare per la riqualificazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare». Stiamo parlando di un valore immenso: comprende anche i palazzi storici di Roma, tra cui il celebre civico di Via Margutta, valutato in 222 milioni di euro, anche se c' è chi sostiene valga almeno un miliardo. Il Casale Pio V passa quindi sotto la gestione di Sorgente Sgr (in amministrazione straordinaria dal 2019). Nel business plan del 2018 della Sgr sul Sant'Alessio si può leggere che la Link Campus University ha una concessione della «durata di 25 anni al canone annuo pari a euro 800.000 a decorrere dal primo gennaio 2017 per i primi tre anni e pari a 1,2 milioni per gli anni successivi». Si spiegano anche le finalità dell'università. A pagina 25 iniziano i problemi. «Alla data odierna» si legge «il progetto è stato realizzato in parte []. Sono stati effettuati interventi [] per un importo comunicato dal Link Campus pari a 5 milioni in fase di verifica da parte della Sgr». Ma in futuro l'affitto potrebbe aumentare. Il fondo prevede «una rimodulazione della concessione» con un nuovo «contratto di locazione della durata di 18 + 9 anni, con lavori di ristrutturazione e recupero funzionale a carico dello stesso e conseguente adeguamento del canone di locazione, fino a 2,1 milioni di euro». La Verità ha contattato la Link che ha risposto in serata con una lunga nota ufficiale dove si parla di un contenzioso e si minaccia di adire le vie legali per false ricostruzioni. Nel frattempo gli affitti non sono stati ancora pagati. 

Quel russo scelto da Prodi che controlla i segreti d'Italia. L'ingegnere russo Oleg Nikolaevic Tsapko, 65 anni, è lo specialista dei sistemi informatici di Palazzo Chigi, nonchè uno dei pochissimi autorizzati a ficcare il naso tra documenti e cables riservati ai più. Roberto Vivaldelli, Domenica 13/10/2019, su Il Giornale. Altro che Russiagate. Mentre in tutto l'Occidente i russi sono diventati l'ossessione dei progressisti - che continuano a chiedere commissioni sulle fantomatiche inteferenze russe nei nostri processi elettorali - a Palazzo Chigi l'ingegnere russo Oleg Nikolaevic Tsapko è lo specialista esperto di sistemi informatici: un ruolo importantissimo, fondamentale, quanto delicato. Come riporta La Verità, infatti, Oleg è uno dei pochissimi autorizzati a ficcare il naso tra documento e cables riservati ai più, che non riguardano soltanto Palazzo Chigi ma l'interno governo. Questo professionista, molto riservato, di 65 anni, si legge da Google, fa parte dell'Ufficio informatica e telematica del dipartimento Servizi strumentali di Palazzo Chigi ed è addetto al servizio di monitoraggio delle attività informatica e programmazione applicativi. È nato a Penza, città di 500mila abitanti situata sul fiume Sura, a circa 700 chilometri da Mosca, quando la Federazione russa si chiamava Unione Sovietica e il mondo faceva i conti con la Guerra Fredda. Appassionato di fotografia, Oleg vanta un curriculum di tutto rispetto. Ha studiato all'Università tecnica di Mosca, dove si è laureato in ingegneria, per poi specializzarsi in Italia con un master alla Sapienza. Oltre alla lingua madre, parla perfettamente inglese e italiano. L'ingegnere russo svolge un lavoro preziosissimo, a protezione dei dati più sensibili di Palazzo Chigi e non solo. Davvero singolare in un Paese in cui non si fa altro che parlare di Russiagate, dell'Hotel Metropol di Mosca e altre vicende che non tratteggiano certo i citadini in russi in modo lusinghiero. Ma Oleg il suo lavoro lo fa talmente bene che il 27 dicembre 2012 è stato nominato dall allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, Cavaliere dell'Ordine al merito della Repubblica italiana. Come riporta La Verità, la proposta per il conferimento della prestigiosa onorificenza ad Oleg era arrivata direttamente dalla presidenza del Consiglio dei ministri. Come riporta inoltre la sezione Trasparenza del sito della presidenza del Consiglio dei ministri, Oleg ha ricoperto il ruolo di responsabile di procedimento unico (Rup) in alcuni bandi. Quello del 2016 per il servizio di manutenzione di software applicativi con affidamento diretto per una somma pari a 3.400 euro. E quello di un anno dopo, che vede la partecipazione di undici società informatiche per la presentazione di un' offerta per l' acquisto di 50 licenze Acrobat Standard 2017 del valore di 15mila euro. Un piccolo tassello di un'attività molto ampia, in cui l'ingegnere deve occuparsi della cura e della gestione dell'infrastruttura informatica di Palazzo Chigi e del nostro governo. Per il resto, poco si sa di questo professionista russo che annovera fra i suoi interessi - secondo la community Xing - musica, la lettura, il cinema, i viaggi e la pesca. Chissà che idea si è fatto Oleg dell'assurda "Guerra fredda 2.0" che buona parte dei progressisti europei ha mosso nei confronti del suo Paese natio. A Bruxelles, il Partito democratico aveva proposto addirittura una "commissione speciale per far luce sulle presunte "ingerenze elettorali straniere e sulla disinformazione": la risoluzione - poi bocciata dall'aula - considerava la "propaganda russa" come la "fonte principale di disinformazione in Europa". Logicamente senza uno straccio di prova. Ironico che Oleg sia responsabile della sicurezza informatica della sede di governo in un Paese che ha sposato una narrativa piuttosto russofoba.

S.Dim. per La Verità il 12 ottobre 2019. Sulle piattaforme di condivisione foto - come Flickr e Sprea - il suo nickname è gelogelo. Per di più è russo e viene dal freddo ma non è una spia, come nel romanzo. Semplicemente gelo è il suo nome di battesimo scritto al contrario, Oleg. O meglio, per essere più precisi, Oleg Nikolaevic Tsapko. Di professione ingegnere in servizio presso la presidenza del Consiglio dei ministri con un incarico di grande delicatezza e responsabilità: quello di specialista esperto di sistemi informatici. ruolo chiaveIn pratica, uno dei pochissimi autorizzato a mettere il naso (e le mani) nelle fibre ottiche lungo cui viaggiano tutti i documenti e i cablogrammi che riguardano le attività non solo di Palazzo Chigi ma dell' intero governo e di tutte le amministrazioni dello Stato. Una miniera d' oro che al posto delle più classiche pepite custodisce terabyte di informazioni ad alto voltaggio. Nel Paese in cui in questi mesi si è scatenata una parossistica caccia al russo (vuoi per le imprese del Metropol di Mosca e l' inchiesta sulle presunte mazzette alla Lega, vuoi per le implicazioni italiane del Russiagate con un ministro Usa che incontra i direttori dei servizi di intelligence italiani mentre è alla ricerca di un professore universitario con l' allure da agente provocatore), c' è un distinto signore di 65 anni, nato nelle lande dell' ex Cortina di Ferro che, ogni mattina, di buon' ora, striscia il badge all' ingresso dell' edificio di via della Mercede 96 e si accomoda nel suo ufficio al primo piano, a Roma. Tranquillo e riservato, a tal punto che pure il Grande fratello di Mountain View svela poco di lui. Eccezion fatta per le raccolte di foto naturalistiche fatte in giro per l' Italia che ritraggono, per lo più, ambienti marini e uccelli. Su Google scopriamo che Oleg Nikolaevic Tsapko è incardinato nei ranghi dell' Ufficio informatica e telematica del dipartimento Servizi strumentali di Palazzo Chigi e addetto al servizio di monitoraggio delle attività informatica e programmazione applicativi. È nato a Penza, città di 500.000 abitanti situata sul fiume Sura, a circa 700 chilometri dalla capitale russa, nel 1953, pochi mesi prima della dipartita del compagno Iosif Vissarionovi Dzugasvili altrimenti noto come Iosif Stalin.

il curriculum. Ha studiato all' Università tecnica di Mosca, dove si è laureato in ingegneria, ma si è specializzato in Italia con un master alla Sapienza. Oltre alla lingua madre, parla correntemente inglese e italiano. Su un profilo a suo nome sul portale Xing, una sorta di community per professionisti che incrocia domande e offerte di lavoro, c' è scritto che i suoi interessi sono la musica, la lettura, il cinema, i viaggi e la pesca. Passioni, queste ultime due, che emergono chiaramente dalle foto pubblicate nei raccoglitori presenti sul web. A Xing Tsapko risulta iscritto dall' agosto 2007 con 945 accessi al profilo. Non pochi (circa sette al mese) tenuto conto che stiamo parlando di uno sconosciuto funzionario del mastodontico ingranaggio della burocrazia capitolina. Qualche informazione in più la ricaviamo invece dalla sezione Trasparenza del sito della presidenza del Consiglio dei ministri dove ci sono ancora alcuni dei bandi di gara in cui Oleg Nikolaevic ha ricoperto il ruolo di responsabile unico del procedimento (Rup). Quello del 2016 per il servizio di manutenzione di software applicativi con affidamento diretto per una somma pari a 3.400 euro. E quello di un anno dopo, che vede la partecipazione di undici società informatiche per la presentazione di un' offerta per l' acquisto di 50 licenze Acrobat Standard 2017 del valore di 15.000 euro. Solo due snodi di una ben più complessa attività professionale che riguarda non solo le gare e gli appalti ma anche la gestione e la cura delle «infrastrutture» informatiche e telematiche del palazzo più protetto e monitorato della nostra Nazione. Per il suo lavoro, il 27 dicembre 2012, Oleg Nikolaevic Tsapko è stato nominato dall' allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, cavaliere dell' Ordine al merito della Repubblica italiana. La proposta per il conferimento della prestigiosa onorificenza era arrivata direttamente dalla presidenza del Consiglio dei ministri, dov' era arrivato anni prima Romano Prodi regnante. La gratificazione non gli ha fatto perdere, però, il piacere della riservatezza tant' è che, ancora oggi, la sua immagine profilo sulle piattaforme di condivisione foto è la sua ombra proiettata sull' asfalto.

Francesco Bechis per formiche.net il 12 ottobre 2019. Non so se è il caso, non sono di grande aiuto”. Un fremito di esitazione spezza la voce di Yuri Sayamov. Il professore ottantenne della prestigiosa Università Statale di Mosca Lomonosov è uno stimato accademico di relazioni internazionali, ha diretto per anni il Dipartimento Unesco per gli studi sui problemi globali. Ma è anche, suo malgrado, un nome ricorrente nelle inchieste giornalistiche sul ramo italiano del “Russiagate”. Perché? Ha conosciuto e collaborato in diverse occasioni con Joseph Mifsud, il professore maltese che ha lavorato per la London Academy of Diplomacy e la Link Campus University di Roma e oggi è considerato l’uomo chiave che si cela dietro lo scandalo russo delle presidenziali americane. Da due anni è scomparso nel nulla. Lo cerca il Dipartimento di Giustizia americano, che tramite il procuratore generale William Barr ha chiesto ben due volte ad agosto ai vertici dei Servizi italiani dove si trovi “il professore”. “Temo per la sua sicurezza” confida Sayamov, che sul maltese spende ottime parole e non crede allo scandalo che lo vede coinvolto. Questa conversazione con Formiche.net è la prima intervista che concede da quando il suo nome è stato accostato al docente-fantasma svanito nel nulla. Ecco la sua versione dei fatti.

Professore, lei ha conosciuto in più occasioni Joseph Mifsud. Cosa pensa delle accuse sul suo conto?

«Sono sorpreso dalle versioni che vedo circolare sulle sue attività. L’ho conosciuto per la prima volta nella veste di direttore della London Academy of Diplomacy, un istituto ben inserito nella diplomazia inglese. Sono stato invitato a parlare a un convegno, abbiamo discusso di relazioni internazionali, di diplomazia contemporanea, di protocollo. Ero assieme a una delegazione dell’Università statale di Mosca».

Quale fu la sua prima impressione?

«Quella di un classico docente di relazioni internazionali. Mente aperta e sempre piena di nuove idee. Non mi ha mai dato l’impressione di poter essere coinvolto in uno scandalo internazionale».

L’ex direttore dell’Fbi James Comey lo ha definito un “agente russo”. Nel rapporto di Robert Mueller viene indicato come una spia.

«Improbabile. Certo, nessuno si può giudicare dalle apparenze. Ma ho conosciuto dozzine di professori e deputati vicini al mondo della sicurezza nella mia carriera, Mifsud non aveva proprio l’aspetto della spia. Aveva invece quello di un rispettato accademico, invitato a parlare a panel di altissimo livello».

Secondo George Papadopoulos, ex consigliere della campagna elettorale di Trump, Mifsud vantava di avere contatti con ufficiali del governo russo di alto livello.

«Mifsud aveva scarse possibilità di mettersi in contatto con membri dell’establishment politico russo, credere che potesse fare da tramite con il Cremlino è davvero irrealistico. A Mosca credo sia stato un paio di volte, veniva invitato in tanti Paesi. Ha partecipato due volte al Valdai, il grande forum economico globale ospitato dalla Russia».

Ottobre 2016, Mosca. Una delegazione della Link Campus firma un’intesa con la sua università. Al tavolo ci sono Scotti, Frattini e Mifsud. Giusto?

«Sì, è venuto a Mosca assieme a Vincenzo Scotti e Franco Frattini. Volevamo da tempo siglare un accordo fra Lomonosov e Link Campus per risolvere la questione del doppio diploma e permettere ai rispettivi studenti di laurearsi in entrambe le università. L’accordo ha dato i suoi frutti, credo che anche gli studenti della Link siano aumentati da allora».

Lo ha più rivisto da allora?

«Sì, l’ho rivisto l’ultima volta nel 2017 alla Link Campus. Ero stato invitato a tenere un corso di quattordici ore per un master. Un tour de force sabato e domenica, ho scambiato due parole con Mifsud per cinque minuti. Poi non l’ho più visto né sentito».

Da allora è scomparso. C’è solo una foto pubblicata da Il Foglio che lo ritrae a Zurigo, il 21 maggio 2018. Poi più nulla.

«Temo per lui. Comprendo perfettamente perché voglia nascondersi».

Ovvero?

«Le accuse sul suo conto sono molto gravi, ci potrebbe essere qualcuno là fuori che vuole fargli del male. Spesso le persone vengono accusate anche se non hanno fatto nulla di male, e credo questo sia il suo caso. Gli auguro il meglio e spero non gli succeda nulla».

Perché se è innocente lo cercano i servizi di mezzo Occidente?

«Mifsud ha incontrato centinaia di diplomatici e accademici per motivi professionali, partecipato ad altrettanti convegni in giro per il mondo. La mia impressione è che questo l’abbia esposto a dei rischi».

Durante le vostre conversazioni Mifsud ha mai detto la sua sulle elezioni presidenziali del 2016?

«Questo dibattito è surreale. Abbiamo parlato spesso di politica estera, non ricordo lui abbia mai assunto una netta presa di posizione. Ci sono migliaia di americani che non sanno minimamente di essere repubblicani o democratici e vivono felici uguale».

Resta un fatto: il nome di Mifsud è finito più volte fra le carte dell’inchiesta sul Russiagate. Lei crede sia solo un complotto come sostiene Trump o le interferenze russe sono vere?

«Io sono convinto che si tratti di una battaglia tutta interna fra repubblicani e democratici. Per coprirla ancora una volta gli americani hanno giocato la “carta russa”».

Ancora una volta?

«È una strategia molto vecchia. In un trattato poco conosciuto al grande pubblico, “Rivelazioni sulla storia diplomatica del XVIII secolo”, Karl Marx spiegava che una grande Russia avrebbe fatto paura all’Occidente e che l’establishment occidentale in risposta avrebbe giocato la “carta russa”».

Il rapporto Mueller fa nomi e cognomi degli agenti russi coinvolti. Non è abbastanza?

«Come ho detto, tutto nasce da problemi interni ai due partiti. Gli americani giocano la “carta russa”, quella della corruzione, della disinformazione per scaricare sugli altri le loro responsabilità. Che sia democratico o repubblicano, la Russia sa che un presidente degli Stati Uniti viene eletto dal suo popolo e vuole collaborarci, non certo interferire nelle elezioni».

Papadopoulos ha un’altra versione che sembra convincere l’amministrazione Usa. Secondo lui sono stati i servizi occidentali a innescare lo scandalo del Russiagate per mettere in difficoltà Trump.

«So poco e niente su questo personaggio, prima dell’inchiesta non avevo mai sentito il suo nome e preferisco non sbilanciarmi. Diciamo che ci sono persone brave a presentare in modo onesto la loro professione e altre meno».

Un millantatore?

«Ripeto, non conosco bene il caso. Conosco però l’ex avvocato di Mifsud, Stephan Roh, che sulla vicenda ha scritto un libro con Thierry Pastor (The Faking of Russia-gate. The Papadoupulos case, Ils publishing, ndr). Lì spiega le tante contraddizioni di questa versione».

Roberto Vivaldelli per Il Giornale.it il 14 ottobre 2019. Il docente maltese Joseph Mifsud e l’ex direttore dell’Fbi James Comey erano in Australia l’8 e il 9 marzo 2016, una settimana prima che l’ex advisor della campagna di Donald Trump, George Papadopoulos, incontrasse il professore e presidente dell’Emuni a Roma, alla Link University. Una banalissima coincidenza? Secondo Papadopoulos assolutamente no. “Ora abbiamo le prove che Comey e Mifsud stavano incontrando gli stessi funzionari in Australia pochi giorni prima che fossi “spronato” a incontrare Mifsud a Roma”, ha scritto su Twitter. L’ex consulente del presidente Trump ha poi aggiunto in un altro tweet l’altro “tassello” mancante: “Mark Ryan, ex direttore dell’Australian Intelligence Agency ed ex capo dello staff di Alexander Downer, si è incontrato con Joseph Mifsud un paio di settimane prima che mi parlasse delle “informazioni” (su Hillary Clinton, ndr)! Cattive notizie per l’Australia!”. Per Papadopoulos è la “prova” che i servizi di intelligence – di Regno Unito, Australia e forse anche Italia – hanno cospirato contro Trump. Il cerchio che si chiude, in attesa di capire qual è stato il ruolo dell’Italia. Ma perché è così importante l’Australia? Secondo la ricostruzione ufficiale, il docente maltese affermò in un incontro dell’aprile 2016 a Papadopoulos, consigliere della campagna di Trump, di aver appreso che il governo russo possedeva “materiale compromettente” (dirt) su Hillary Clinton “in forma di e-mail”. A quel punto l’ex consulente del presidente avrebbe ripetuto tali informazioni all’alto Commissario australiano a Londra, Alexander Downer, che a sua volte riferì tutto alle autorità americane. Da qui, il 31 luglio 2016, partirono le indagini dell’Fbi sui presunti collegamenti fra Trump e la Russia, accuse che in seguito si sono dimostrate inconsistenti. E ora Trump vuole la sua vendetta.

L’intervista di Dan Bongino a George Papadopoulos. Papadopoulos ha “ricostruito” il suo incontro con Mifsud in un’intervista rilasciata al giornalista americano di Fox News Dan Bongino. “Lavoravo presso questa organizzazione a Londra – il London Centre for International Law Practice (Lcilp) – che all’epoca non sapevo essere un gruppo formato da ex diplomatici occidentali e personalità legate all’intelligence. Arvinder Sambei, consulente legale dell’Fbi nel Regno Unito, era consulente di questa organizzazione alla quale dissi che stavo per unirmi alla campagna di Trump e che me ne sarei andato negli Stati Uniti. All’improvviso – spiega Papadopoulos – mi dissero che prima di partire per Washington sarei dovuto andare a Roma con loro. C’erano alcune persone che volevano presentarmi. Accettai e andai a Roma per tre giorni”. È il marzo 2016 quando Papadopoulos incontra il professor Mifsud: “Mi presentarono Mifsud in questa università di Roma chiamata Link Campus. Non avevo idea di cosa fosse quel posto. Ma, a quanto pare, è una sorta di campo di addestramento per agenti dell’intelligence occidentale. La Cia ha tenuto dei corsi lì e David Ignatius del Washington Post ne ha ampiamente parlato. Mi dissero che era molto importante che incontrassi Joseph Mifsud“.

Dov’è Mifsud? Nessuno lo sa. Nel frattempo, più passano i giorni, e più emergono nuovi retroscena e dettagli rispetto ai due incontri romani fra il Procuratore generale degli Stati Uniti, William Barr, l’avvocato John Durham, e i vertici dei nostri servizi segreti, i direttori di Dis, Aisi e Aise, Gennaro Vecchione, Mario Parente e Luciano Carta, datati 15 agosto e 27 settembre (al primo, va sottolineato, partecipò solo Vecchione dopo il via libera del presidente del Consiglio Giuseppe Conte). Barr e Durham, come abbiamo spiegato già in questo articolo, non sono usciti soddisfatti dall’incontro del 27 settembre scorso: avevano chiesto alle autorità italiane delle informazioni precise su Joseph Mifsud, il docente maltese al centro dell’intrigo internazionale, che non sono arrivate. Come riporta Il Fatto Quotidiano, dopo le promesse fatte il 15 agosto, il 27 settembre i capi dei servizi segreti italiani avrebbero risposto ai Procuratori americani che indagano sulle origini del Russiagate di non sapere dove si trovi Joseph Mifsud e di non essere a conoscenza delle sue relazioni relazioni con gli agenti dell’intelligence italiana. Da qui la forte delusione di Barr e Durham. Tuttavia, secondo Il Fatto, alcune cose rilevanti sarebbero state dette nel vertice. “Se lo state cercando, le ultime tracce che noi abbiamo trovato portano alla Russia. E a qualche contatto con l’ Ucraina. Non all’Italia”, questo avrebbero detto i nostri agli americani. Barr e Durham, tuttavia, avrebbero chiesto riscontri su eventuali collegamenti fra Mifsud e agenti dell’intelligence occidentale. Sempre stando a quanto ricostruito dal Fatto, la nostra risposta sarebbe stata quella di una piena disponibilità a cooperare, però lungo le vie ufficiali. Come abbiamo raccontato su questa testata, gli americani sanno perfettamente che Joseph Mifsud era nascosto in Italia fino alla scorsa primavera, poco prima della pubblicazione del rapporto Mueller. L’avvocato svizzero di Mifsud, Stephan Roh, ha dichiarato all’Epoch Times che il suo cliente ha vissuto fino a poco tempo fa in Italia, ma che il docente ha deciso di nascondersi di nuovo dopo la pubblicazione del rapporto finale sul Russiagate del consigliere speciale Robert Mueller (dunque il 18 aprile 2019). 

Marco Lillo per il Fatto Quotidiano il 14 Ottobre 2019. Joseph Mifsud non sappiamo dove sia e non abbiamo nessuna evidenza di sue relazioni con agenti della nostra intelligence. Questa è stata la risposta dei capi dei servizi segreti italiani alle domande incalzanti della delegazione guidata dal ministro della giustizia americano William Barr durante lo strano incontro del 27 settembre scorso a Roma con i capi dei servizi segreti italiani. Di qui la delusione di parte americana spifferata ai media amici oltre oceano. Però, a quel che risulta al Fatto, alcune cose rilevanti sarebbero state dette nel vertice tra l' uomo di Trump e le nostre "super-spie". "Se lo state cercando, le ultime tracce che noi abbiamo trovato portano alla Russia. E a qualche contatto con l' Ucraina. Non all' Italia", questo avrebbero detto i nostri agli americani, secondo le fonti consultate dal Fatto. In mancanza di trascrizioni della conversazione italo-americana, bisogna arrangiarsi con le versioni non ufficiali. Quelle raccolte dal Fatto danno conto di una richiesta, molto sfumata, sempre da parte americana agli italiani, di fare riscontri su eventuali notizie di agenti occidentali che avessero avuto contatti con il professor Joseph Mifsud durante le fasi calde del Russia-Gate. Sempre stando a quanto ricostruito dal Fatto, la nostra risposta sarebbe stata quella di una piena disponibilità a cooperare, però lungo le vie ufficiali. Se gli Stati Uniti vogliono riscontri a piste investigative complottistiche, in sostanza, devono chiedere le indagini opportune con rogatoria alle autorità competenti o tramite la comune cooperazione tra le rispettive agenzie. Il terzo punto affrontato è stata una richiesta di senso inverso. Trattandosi di un incontro chiesto e ottenuto dagli americani sotto la categoria dello scambio di informazioni per utilità reciproca e non unidirezionale, i funzionari italiani avrebbero richiesto agli americani presenti: "Voi avete qualche elemento che vada nel senso di contatti o collusioni di agenti italiani con le manovre del professor Mifsud?". La risposta è stato un secco no. Dopo l' incontro interlocutorio tra gli italiani c' è stato chi si è posto una domanda banale: perché non procedere con la cooperazione internazionale per vie ufficiali e soprattutto segrete, oltre che più redditizie? Perché Trump si è mosso come un elefante in una cristalleria, chiamando Conte e poi inviando l' attorney general William Barr a un incontro diretto con i servizi italiani? Anche perché tutte le fonti confermano l' assenza di una richiesta ufficiale da parte delle autorità americane sul most wanted professor. Finora Mifsud non lo cerca né l' FBI , né la Cia, né per via di rogatoria né attraverso altri canali di polizia. Se è vero che nessuno sa dove sia il professore maltese al centro del girone di ritorno della spy-story che potremmo chiamare "Russia-Gate 2 la vendetta", è vero anche che gli Stati Uniti non hanno fatto un passo formale per interrogarlo né tanto meno arrestarlo. L' unica forma di interesse nei confronti di questo professore di 59 anni sparito nel nulla dal maggio 2018 sembra avere natura politico-mediatica. Le visite di Barr in Italia assumono senso solo nell' ambito di una campagna mediatica più vasta, che non somiglia lontanamente a un' inchiesta internazionale sulle origini del Russia-Gate. Se si guarda con questi occhiali la vicenda è interessante vedere come e dove sia uscita la notizia. La notizia degli incontri con i vertici dei nostri servizi segreti esce il 30 settembre sul Washington Post e sul New York Times. La storia viene rilanciata e ampliata con alcuni dettagli imprecisi e uno spin più complottista sul sito Dailybeast, fondato dall' ex editor di New Yorker e Vanity Fair, Tina Brown, sempre negli Stati Uniti. Il Dipartimento di Giustizia non fa molto per nascondere la visita e anzi la conferma. In Italia un sito aveva anticipato l' indiscrezione sul senso "investigativo" del viaggio di Barr: era stato il 28 settembre InsiderOver, edito dalla società Il Giornale online dei Berlusconi. La notizia poi esplode quando il Corriere della Sera ci sale sopra con conferme, dettagli ulteriori e corredo di polemiche politiche anti-Conte. Però è in America che la missione di Barr ha assunto senso. Mediatico. Il ministro della giustizia, attorney general William Pelham Barr, con procuratore John Durham al seguito, ha fatto, come si dice in gergo a Roma, non a New York, una bella "giornalata". In questa chiave probabilmente assume senso la cronologia dei fatti noti: la telefonata di Trump a Conte, la prima visita a Roma del 15 agosto nella quale Barr chiede al capo del Dis Gennaro Vecchione l'introduzione ai vertici dei servizi. La richiesta 'segreta' (con il timer attivato e pronta a esplodere sui giornali) di trovare in Italia tracce di Mifsud e provare il mega-complotto dei democratici occidentali ai danni del povero Trump nel 2016. La sensazione è che Barr non fosse a caccia di elementi per provare il teorema che da molti mesi opinionisti e politici repubblicani cercano di spingere in tutti i modi. La sensazione è che le missioni di Barr in Australia, Regno Unito e Italia, assumano senso solo se lette insieme allo spin impresso alle fughe di notizie negli Stati Uniti. Tutto il resto (le polemiche politiche sull' ingenuità del Capo del Dis Gennaro Vecchione, le richieste di Matteo Renzi a Conte di lasciare la delega sui servizi, le insinuazioni su una collusione, poco sensata alla luce dei fatti noti, tra la nostra intelligence nel 2016 ai tempi di Renzi con il misterioso professore maltese amato in Russia e introdotto in occidente) sono solo dettagli, visti da Washington i nostri travagli sono solo trascurabili danni collaterali.

Carlo Bonini e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 18 ottobre 2019. C' è un solo luogo in Occidente dove Joseph Mifsud, l' uomo chiave del Russiagate cui è appeso il destino di Donald Trump, e, in misura minore, quello di Giuseppe Conte, non è chiamato Professore: l' isola di Malta. Casa sua, dove è nato nel 1960. «Il professor Joseph Mifsud? - chiedono con sorriso sarcastico al rettorato dell' università di Malta - Qui non c' è mai stato un professore Joseph Mifsud. Conosciamo e abbiamo avuto un Joseph Mifsud, certo, ma professore non lo è mai stato né ha mai provato a diventarlo. Deve essere una delle sue storie da zatat . Nell' isola lo sanno tutti che è un tipo così». Zatat, in lingua maltese, potrebbe essere tradotto come fanfarone, millantatore. Ma in verità, nel termine, c' è una punta di più greve e sincero disprezzo. Perché quando se ne chiede la traduzione in lingua inglese, ne esce un «professional bullshitter». Un cazzaro professionista. Diciamo pure che non è un buon inizio per l' uomo che si vuole, alternativamente: a) agente di Mosca, accreditato alla corte di Trump, con il compito di consegnare nel 2016 il kompromat raccolto nelle mail rubate alla candidata democratica Hillary Clinton; b) agente provocatore a libro paga dei governi inglese e italiano per far deragliare la campagna repubblicana delle presidenziali Usa 2016 avvelenandola con materiale raccolto da Mosca. E, tuttavia, è un inizio fecondo e non necessariamente contraddittorio con il profilo di uomo nella manica di qualche Intelligence. Perché è qui, a Malta, che Joseph Mifsud ha cominciato a lavorare alla sua maschera, a indossarla con sempre maggior disinvoltura fin quasi a convincersi di essere davvero quello che non era mai stato. Se si fa qualche altra domanda al Rettorato sul conto dello zatat , ne esce fuori la fotografia di un' alba gonfia di speranze. Metà degli anni '90, il primo Rinascimento di Malta. Una generazione di giovani isolani che torna a casa per scrivere un futuro diverso da quello dei loro padri. Joseph Mifsud rientra da Belfast, dove è arrivato dopo un periodo all' università di Padova. In Irlanda del Nord, ha ottenuto alla Queens University, che i pettegoli dicono ateneo in odore di massoneria internazionale, un Phd in "Managing Educational Reforms". Il ragazzo - ricordano - allora poco più che trentenne è un "eloquent speaker", "forward looking", un affabulatore capace di intuire il futuro. Trova così un posto da "senior lecturer", qualcosa di meno di un ricercatore, all'università di Malta dove comincia a occuparsi di relazioni internazionali. È il primo equivoco. Perché, quella definizione, non indica alcuna competenza o mansione geopolitica o in affari diplomatici (l' uomo, del resto, ha studiato formazione). Al contrario, un banale ruolo di ambasciatore dell' università presso altri atenei dell' Occidente. Il Professore, che tale non è, conosce in questo periodo anche la donna che oggi porta in silenzio, e con grande compostezza, la mortificazione di un cognome - Mifsud - che ha avuto da sposata e ora alla berlina internazionale. Si chiama Janet. E lei sì, è davvero un' accademica. Insegna all' università di Malta biochimica e con Joseph mette al mondo una figlia, Giulia, oggi maggiorenne. I due - sono i primi anni 2000 - trasmettono l' immagine di una giovane coppia di accademici dalla vita modesta, come i loro salari. Vivono a Swieqi, borgo incastrato tra Saint Julian e il promontorio di Penbroke, in una piccola "terrace house", un condominio. In cui il Professore non metterà più piede quando annuserà la high life dei salotti londinesi, della Roma monumentale, della Mosca di Putin. E dove Janet continuerà a vivere da sola, come un' appendice non più utile alla causa. Oggi, la Professoressa, lei sì, fa sapere di non avere la più pallida idea di che fine abbia fatto l' uomo da cui è separata da tempo. E di cui, con tutta evidenza, da tempo non vuole più sapere nulla. Quantomeno da quando cominciò a farsi vedere con una giovane fidanzata ucraina di 26anni, Anna. Ma anche lei, come chiunque altro sull' isola, esclude che Joseph possa anche solo immaginare di nascondersi da qualche parte sull' isola. Troppo piccola per passare inosservato. Troppo affollata di spie occidentali e agenti della Cia che qui hanno il loro più importante occhio e orecchio nel Mediterraneo. Ma torniamo a quei primi anni 2000. Lo zatat cova ambizioni in silenzio, protetto dal lassismo che in quel tempo regna sovrano all' università di Malta. Non è mai al dipartimento. Non si sa che diavolo faccia. A che titolo, dunque, prenda i quattro soldi che pure intasca a fine mese. Deve arrivare un nuovo rettore, Juanito Camilleri, professore di informatica dall' intelligenza vivacissima, per dare un taglio a quella storia. Camilleri scopre, grazie anche al lavoro di revisione contabile di PricewaterhouseCoopers, che, nelle pieghe dell' autonomia finanziaria riconosciuta all' ufficio di Relazioni internazionali dell' Università, Mifsud si è ritagliato un fondo che usa come fosse un conto spese personale. Per carità, non più di diecimila euro. E, tuttavia, è il battesimo di un format che replicherà nei 10 anni a seguire. L' università avvia la procedura di licenziamento, composta da Mifsud con una lettera di dimissioni irrevocabili dalla sua mansione di "senior lecturer" dell' università. Del resto, ha già trovato dove andare. Perché il caso, o forse no, gli ha portato in dote nuove amicizie. L' università di Malta ha siglato un accordo con la Link University di Roma, dell' ex ministro Vincenzo Scotti. È un ateneo ancora poco noto che, nelle intenzioni della partnership deve funzionare come succursale a Roma dell' università di Malta. I progetti della Link, in realtà, come quelli di Mifsud, che di questa unione è il facilitatore, sono tuttavia altri. La Link apre in Italia corsi che l' università di Malta non tiene - di intelligence e security, per dire - in materie e con professori su cui non è possibile esercitare alcun controllo di qualità. E infatti il matrimonio si scioglie presto. Amichevolmente, ma presto. Nel 2008, quando ritroviamo il nostro Joseph nel gabinetto dell' allora ministro degli Esteri del partito nazionalista, Michael Frendo. Frendo, che di mestiere è avvocato, è uomo colto e mite. Mifsud riesce a farlo fesso per qualche mese. Nel gabinetto del ministro, dove è planato grazie alla assidua frequentazione delle cene che Frendo ha organizzato nella sua campagna elettorale, gli viene affidato l' incarico di sovrintendere agli impiegati delle segreterie. Si è venduto la storiella di essersi occupato a Malta di gestione dei fondi europei, cosa che non ha mai fatto. E, appena messo piede al ministero, comincia a fregiarsi di un titolo, "capo di gabinetto", che non ha nulla a che vedere con ciò che fa. Perché il vero capo di gabinetto si chiama Cecilia Attard Pirotta, oggi ambasciatrice maltese in Israele. È lei che nel giro di poco tempo scopre di che grana è fatto quel tipo. «He did not deliver. He cannot deliver», dice a Frendo. «Non è grado di portare a termine nulla di ciò che gli viene affidato». In compenso, squaglia il cellulare di servizio con bollette che convincono il ministro ad allontanarlo. Ma lui ha ottenuto ciò di cui aveva bisogno. Un' altra riga, tutto sommato non troppo farlocca, nel suo curriculum, che gli apre le porte dell' università di Agrigento, in Sicilia. Dove in poco tempo, prima che lo caccino, riesce a distrarre fondi dell' Ateneo per poco meno di 50mila euro, per i quali la Corte dei conti italiana ancora lo insegue. Il capolavoro del professore che professore non è, è del resto a un passo. Per ragioni di cui ancora oggi nessuno all' università di Malta si capacita, e che nessuno nei Balcani è in grado di spiegare, diventa presidente della nuova "University of the Eastern Mediterranean", la Emuni, la punta di diamante di un nuovo progetto di alta istruzione che i paesi dell' Unione si sono contesi. E che è stato, alla fine, assegnato alla piccola Slovenia, nella città costiera di Piran. È il 2008-2009, nessuno sa o è in grado di spiegare per quale diavolo di motivo, tra tanti premi Nobel e accademici di vaglia in giro per l' Europa, venga scelto questo carneade maltese. Forse, azzarda qualcuno, perché in quella metà degli anni 2000 Mifsud si è agganciato a un uomo che pesa molto nei paesi dell' ex Jugoslavia. Miomir Zuzul, già ambasciatore croato negli Stati Uniti dal '96 al 2000 (vive tuttora a George Town), cattolico praticante. Ma, soprattutto, cavaliere dell' Ordine di Malta. È un fatto che a Piran Mifsud cominci a farsi chiamare da tutti Professore. Professore di un' università, la Emuni, che nelle intenzioni dovrebbe raccogliere studenti provenienti dai paesi del Nord Africa e del Levante ma che, in quegli anni, non ha né studenti né una sola facoltà, se si eccettua una summer school frequentata da venti tunisini. Anche qui il gioco dura finché i pazienti ma disciplinati sloveni non scoprono che lo zatat si è fumato 39mila 332 euro in pranzi, cene e bollette telefoniche. È il 2013, il Professore si dà nuovamente alla macchia per riapparire d' incanto a Londra dove lo attende qualche buon amico e una nuova vita. La terza, verrebbe da dire. In realtà, come la storia dimostra, la prima, la più importante. Quella che lo porta dritto a Mosca.

Carlo Bonini e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 19 ottobre 2019. Si è detto che Joseph Mifsud - il professore che professore non è - sia scomparso nell'autunno 2017 senza lasciare alle sue spalle alcuna traccia. Ebbene, anche questa, come il suo titolo accademico, appare un'inesattezza. Al civico 8 di Walworth Road, nel quartiere londinese di Elephant & Castle, è infatti una torre in vetro e acciaio dove ancora il 13 dicembre dello scorso anno il maltese risultava regolarmente domiciliato nel Regno Unito. Quel giorno, infatti, su indicazioni dell' anagrafe inglese, un ufficiale giudiziario notifica a questo indirizzo la sentenza della nostra Corte dei conti che condanna Mifsud a un risarcimento di poco meno di 50mila euro, equivalenti al denaro pubblico sperperato in quel del Consorzio universitario di Agrigento anni prima. L'appartamento - all' interno 3211 - dove si suppone che Mifsud abbia vissuto o lavorato fino a dieci mesi fa, oggi non lo ospita più. Il nostro, come spiegano cortesemente alla reception dell' edificio dopo un controllo negli schedari, «non si fa vedere da un bel po'». «Riteniamo - aggiungono - che abbia cambiato domicilio». Non è un caso che sia a Londra l'ultima traccia dello Zatat , del «cazzaro professionista» per dirla alla maltese, che ha in pugno il destino di Donald Trump. Perché è a Londra, nel 2013, quando in Slovenia, alla University of Eastern Mediterranean (Emuni), l' aria si fa pesante, che non solo trova riparo, ma costruisce i presupposti e indossa la maschera della sua seconda vita. A ben vedere, quella che ha sempre sognato. La più ambigua. Quella che gli apre le porte delle cancellerie dei Grandi del Mondo. A Londra, infatti, Mifsud ha un vecchio amico che conta. Si chiama Nabil Ayad. È un uomo legato all' Organizzazione per la liberazione della Palestina ed è il direttore della "London Academy of Diplomacy", che ha fondato nel 1978 e che per anni ha funzionato da cinghia di trasmissione degli studenti della University of Westminster in predicato di entrare nel circuito della cosiddetta deep diplomacy , la diplomazia parallela. Ayad, nel 2009, ha chiuso una joint venture tra la sua London Academy of Diplomacy e la University of East Anglia. Cui, cinque anni dopo, subentra l' università scozzese di Stirling. È qui, in Scozia, nel settembre del 2014, che lo Zatat maltese appare con il titolo di "Professore" in una tre giorni di seminari aperti a un gruppo di diplomatici africani e dei paesi caraibici. È un evento accompagnato da un qualche sfarzo: una cena di gala innaffiata da fiumi di champagne. È un evento, soprattutto, dove fa capolino un altro personaggio chiave della seconda vita di Joseph Mifsud e del Russiagate, sia nella sua declinazione americana che in quella italiana: il dottor Stephan Roh. Roh è un ricco avvocato svizzero, tedesco di nascita, e con una moglie russa, Olga, con cui ha comprato un castello in Scozia che è valso a entrambi il titolo di barone e baronessa di Inchdrewer. È l' uomo da cui Mifsud non si separerà più. Il suo studio legale, "RoH Attorneys at law" - con sedi a Zurigo, Berlino, Londra, Hong Kong - è specializzato in due diligence e antiriciclaggio. E con la diplomazia ha poco a che vedere. Ma il legame tra i due è saldo come l' acciaio. Roh è l' ombra di Mifsud quando ancora non ha motivo di darsi alla macchia e suo socio nell' avventura alla Link University di Roma (acquisiscono quote della società di gestione). Roh è la voce di Mifsud quando diventa un fantasma. Perché è nello studio di Zurigo dell'avvocato svizzero-tedesco che viene scattata l' ultima foto del maltese svanito nel nulla. Roh, soprattutto, è l' autore dell' ormai introvabile pamphlet, del 2018, The faking of Russiagate, contronarrazione di un complotto che vorrebbe la Russia di Putin e gli Usa di Trump vittime delle intelligence occidentali. Osservare le mosse londinesi della coppia Mifsud-Roh è di una qualche utilità. Perché quelle mosse portano a Mosca. Per dire: nell' aprile del 2014, Mifsud partecipa al "Global university summit" a Mosca e, nel maggio di quello stesso anno, incontra a Londra l' ambasciatore russo Alexander Yakovenko. Sempre in quel 2014, a luglio, il consigliere dell' Ambasciata russa a Londra Ernest Chernukhin visita la London Academy of Diplomacy, frequentata in quell' anno anche da Roh, con una delegazione dell' università statale di Mosca Lomonosov, universalmente nota come la fabbrica delle spie russe. Un' università, peraltro, dove, con sorpresa, l' ex rettore dell' università di Malta, Juanito Camilleri, si ritroverà di fronte proprio lo Zatat che aveva allontanato anni prima dall' ateneo dell' isola. Del resto, anche Roh si dà da fare con Mosca. Acquista una piccola società inglese di consulenza nucleare, la Severnvale Nuclear services ltd (specializzata negli effetti delle radiazioni nei reattori nucleari), per avviare una cooperazione scientifica con Mosca. Un business quantomeno singolare rispetto al mestiere di Roh. E, a quanto pare, fortunato. Perché, dopo l' acquisizione di questa piccola società, e il licenziamento del suo fondatore, John Harbottle, i ricavi passano da 42mila sterline l' anno a 43 milioni di dollari. Mosca porta fortuna evidentemente. Anche alla moglie di Roh, Olga, che in quei magnifici anni londinesi ha una boutique a Mayfair, dove si veste anche Theresa May. Il 12 maggio del 2017, Mifsud e Roh appaiono insieme al Russian international affairs council a Mosca per un rapporto sulle fonti energetiche. In quello stesso anno l' università di Stirling nomina senza alcun concorso il nostro professore che professore non è full time professorial teaching fellow, una sorta di assistente didattico. Mifsud è ormai una celebrità a Londra. Frequenta cene e pranzi nelle ambasciate. Si fa fotografare nei circoli tories abbracciato a Boris Johnson. Dirige il London center of international law practice, un nome altisonante che nasconde una scrivania e un telefono che non squilla mai. Una scatola vuota, come ha raccontato a Repubblica Simona Mangiante, che in quell' ufficio ha lavorato. E che conosce questa storia perché moglie dell' avvocato George Papadopoulos, che il London center frequentava, membro della campagna repubblicana di Donald Trump e uomo cui Mifsud avrebbe veicolato le mail hackerate a Hillary Clinton, il kompromat del Russiagate. A Mosca porta anche un'ultima preziosa informazione che si raccoglie a Malta da una fonte qualificata degli apparati di sicurezza dell' isola. Si scopre infatti che, nonostante i suoi trascorsi con il partito naziona-lista, Mifsud trovi ascolto, a partire dal 2014, dal governo laburista di Joseph Muscat. E il motivo non ha nulla a che vedere con la diplomazia. Ma con lo schema di vendita dei passaporti maltesi a cittadini extra Ue. Indovinate quali? «I russi». Del resto, è sempre quando si incrocia Mosca che questa storia suona. L' avvocato Stephan Roh bussa infatti alla porta di Repubblica. «Vi scrivo con urgenza - si legge in una mail - dopo aver letto la prima puntata della vostra inchiesta per segnalarvi che Mifsud è stato ufficialmente indicato dalla Link di Roma come professore, ha insegnato alla Link nell' estate del 2016, è stato direttore della Internationl strategic development della Link. Aveva una segretaria personale alla Link di nome Claudia Staffieri». Link, Link, Link. C' è nell' insistenza ossessiva di Roh un interesse evidente a tenere stretto il faro su Roma. Perché? E perché ora? Vincenzo Scotti, fondatore della Link, ha perso la voglia di sorridere. E a Repubblica consegna le prove documentali che smentiscono le tre affermazioni di Roh. Non era un professore (anche se tale veniva definito. «Ma che diavolo potevamo saperne noi visto che si portava quel titolo dietro dalla Stirling University?», dice Scotti); non tenne nessuna Summer school nel 2016 («Erano cicli di conferenze cui parteciparono decine di speaker», ancora Scotti); non aveva nessuna segretaria personale. È un fatto che Joseph Mifsud abbia intossicato qualunque cosa ha toccato nelle sue due vite. Ed è un fatto che nessuno, ma proprio nessuno, tra quanti hanno avuto a che fare con lui tra Washington, Londra, Roma, Agrigento, la Slovenia, Malta, si sia mai posto il problema di chi diavolo fosse davvero e, soprattutto, se lavorasse per conto proprio o per conto terzi. Non se lo sono posto nemmeno gli italiani. Né prima, né durante, nè dopo. Anche di questo la prossima settimana il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, i direttori delle due agenzie di intelligence (Aise e Aisi), dovranno dare conto al Comitato parlamentare di controllo sui Servizi.

Antonio Grizzuti per “la Verità” il 16 ottobre 2019. Fino alla formazione del governo giallorosso c'erano molte questioni sulle quali Pd e M5s sembravano distanti anni luce. Mentre i primi non perdevano occasione per accusare i secondi di incompetenza e cialtronaggine, dal canto loro i pentastellati giuravano solennemente che mai e poi mai si sarebbero accoppiati con il «partito di Bibbiano». Ma come recita il vecchio adagio, se non riesci a sconfiggere il tuo peggior nemico, meglio fartelo amico. Pochi lo sanno, ma una delle divergenze che ha segnato la prima parte della legislatura (quella cioè durante la quale la Lega di Matteo Salvini faceva parte della maggioranza) riguarda per l' appunto il coinvolgimento del governo italiano nel cosiddetto Spygate. Stiamo parlando del filone parallelo al Russiagate, l' inchiesta condotta dall' ex capo dell' Fbi e procuratore speciale Robert Mueller sulle presunte ingerenze russe nel corso della campagna elettorale del 2016 per la presidenza Usa. Tramontata di fatto l' accusa di collusione del presidente Donald Trump con i vertici del Cremlino, l'attenzione si è quindi spostata sul ruolo giocato dall' intelligence occidentale a sfavore dello stesso Trump. Nel corso delle ultime settimane, i lettori della Verità hanno avuto modo a più riprese di leggere in anteprima gli aggiornamenti sulla storia di spionaggio che sta tenendo le due sponde dell' Atlantico (e non solo, se pensiamo che c' è di mezzo anche l' Australia) con il fiato sospeso. Dall' intervista a George Papadopoulos, fino ai collegamenti con la Link campus university, passando per il caso Eyepyramid che ha visto coinvolti i fratelli Giulio e Francesca Maria Occhionero. La reazione nervosa di Matteo Renzi a seguito delle affermazioni rilasciate al nostro quotidiano da Papadopoulos («a causa di questa storia la sua carriera politica verrà distrutta») la dice lunga sul fatto che lo Spygate rappresenta oggi l' elefante nella stanza della politica italiana. Tuttavia, c' è stato un momento nel quale il Pd ha chiesto insistentemente conto al governo del suo ruolo in questa vicenda. Ovviamente parliamo ancora dei tempi del Conte uno, quando ancora cioè gli ex duellanti se le davano di santa ragione. Pochi mesi fa, a maggio di quest'anno, i deputati dem Andrea Romano, Alessia Morani e Anna Ascani (quest' ultima attuale viceministro all'Istruzione) depositarono un' interrogazione scritta rivolta al premier Conte, all' allora ministro dell' Interno, Matteo Salvini, a quello degli Affari esteri, Enzo Moavero Milanesi, e al titolare del Miur, Marco Bussetti. Citando l'inchiesta condotta da Luciano Capone sul Foglio, i tre facevano innanzitutto notare che «anche l' Italia risulterebbe coinvolta nel cosiddetto Russiagate», e tiravano in ballo il «professore maltese Joseph Mifsud», definito un «personaggio chiave» di tutta la vicenda. Questi, prosegue l'interrogazione, avrebbe «incontrato per la prima volta presso l'università Link campus di Roma il consigliere di Trump, George Papadopoulos, lo stesso a cui avrebbe poi riferito che i servizi segreti russi erano in possesso di «migliaia di email imbarazzanti su Hillary Clinton». Più avanti, Romano e i suoi compagni di partito tornavano su Joseph Mifsud, il quale «sarebbe stato nascosto in un appartamento a Roma pagato da una società della Link, della quale lo stesso Mifsud risulta socio al 35%». Ma non finisce qui: i tre tirano in ballo anche Stephan Roh, l' avvocato di Mifsud, azionista della società di gestione della Link, il quale a sua volta ha dichiarato al Foglio che sarebbe stato Vincenzo Scotti (presidente dell' ateneo) a suggerirgli di presentare Papadopoulos ai suoi contatti russi. Tutti aspetti sui quali i parlamentari del Pd, attraverso questa interrogazione scritta hanno chiesto chiarimenti all' esecutivo. Senza tuttavia, almeno secondo quanto ha potuto verificare La Verità, ricevere alcuna risposta. La sostanza però è un' altra: una manciata di settimane prima che il governo gialloblù finisse la sua corsa, il Pd era pronto a incalzare Conte, Di Maio e Salvini sul presunto ruolo avuto dall' Italia nel filone europeo del Russiagate. Dall'interrogazione appare evidente che la vicenda rappresentava per gli autori, e dunque anche per l' intero partito, un punto decisivo sul quale il premier e i suoi più stretti collaboratori venivano chiamati a chiarire. E oggi che i dem sono al governo con i pentastellati? Possibile che abbiano mollato la presa solo perché l' obiettivo di scalzare la Lega è stato raggiunto e oggi a Palazzo Chigi insieme ai 5 stelle siedono loro? Per qualcuno come Graziano Delrio che invita alla prudenza, ci sono altri come Luigi Zanda secondo i quali «sul Russiagate molte cose non tornano» ed è necessario che «Conte le chiarisca subito». Non è esagerato dire che oggi, in particolare sul ruolo di quello che Lucia Annunziata ha definito «avvocato delle spie», la tenuta dell' asse Pd-M5s rischia di cedere. Difficile pensare che tutti questi aspetti non finiscano al centro della visita del presidente Sergio Mattarella in corso in questi giorni a Washington. Oggi l'agenda prevede un colloquio tra il capo dello Stato e Donald Trump nello Studio ovale. Niente di strano che, a porte chiuse, l'inquilino della Casa Bianca chieda rassicurazioni al Quirinale sull'atteggiamento collaborativo dell'Italia ai fini di un' inchiesta considerata strategica per la sua rielezione. Un altro tema che potrebbe finire in agenda riguarda l' avvio della tecnologia 5G, in particolare dopo che Reuters ha rivelato che la Germania starebbe mettendo a punto regole per non escludere le tecnologie Huawei, e dopo la pubblicazione di uno studio Ernst & Young nel quale si quantificano in 4-5 miliardi gli extra costi (con ricadute anche sui consumatori) per gli operatori in caso di bando per il gruppo. Una ricerca che preoccupa gli americani perché potrebbe essere usata dalla componente grillina del governo per giustificare l' asse con il colosso cinese.

Antonio Grizzuti per “la Verità” il 18 ottobre 2019. Le strade dello Spygate, l' inchiesta figlia del Russiagate che punta a chiarire il ruolo dell' intelligence occidentale durante la campagna presidenziale Usa del 2016, non portano solo a Roma. «Sarebbe bene indagare anche negli altri Paesi su quello che è accaduto», ha affermato mercoledì Donald Trump a margine della visita del presidente Sergio Mattarella. Sebbene l' attenzione in questo momento sia rivolta tutta sull' Italia, è palese che Trump non intenda fermarsi ai soli rapporti intrattenuti nel corso delle «vacanze romane» dal suo ex advisor George Papadopoulos e il misterioso professore maltese Joseph Mifsud. C' è una pista altrettanto importante e meritevole di approfondimento almeno tanto quanto quella che vede Roma al centro della spy story del terzo millennio, quella cioè che riguarda i fatti accaduti nel Regno Unito. Non fosse altro perché la genesi di molti dei personaggi oggi al centro di questa vicenda ha avuto luogo proprio in territorio britannico. Questo filone, finora rimasto in un cantuccio, rischia di tornare in auge dopo che Il Fatto Quotidiano ha ricordato come il facoltoso avvocato svizzero Stephan Roh, legale di Mifsud, sia attualmente azionista della Gem srl, società di gestione della Link campus university. Secondo quanto si evince dalla visura camerale dell' azienda, Roh detiene il 5% delle quote della Gem tramite la Drake global limited, iscritta al registro delle imprese della corona. La maggioranza del capitale è in mano a Vanna Fadini (77%, pari a 13.860.000 euro), mentre il restante 18% è di proprietà di Achille Patrizi. Ed è stato proprio quest' ultimo a vendere nel 2016 all' avvocato svizzero la quota che ancora oggi gli spetta, ma a un costo quasi quattro volte inferiore (250.000 anziché 900.000 euro) rispetto al valore effettivo. Prezzo di favore, spiegano dalla Link al Fatto, legato al reperimento da parte di Roh di un acquirente del 44% del capitale dell' ateneo privato romano per la bella cifra di 20 milioni di euro. Nelle intenzioni della proprietà, l' ingresso della Drake nella compagine societaria doveva essere funzionale all' arrivo di nuovi investitori internazionali e il relativo ampliamento del campus universitario. «Per il futuro puntiamo anche alla quotazione in borsa», questo il commento di Roh nell' ottobre del 2016, «Roma sarà il primo passo, ma l' intento è quello di aprire con la Link campus university altre sedi nel mondo, a partire da Hong Kong». Ma sia l' affare relativo alla vendita delle quote che la quotazione sui mercati, in realtà, non andarono mai in porto. Quella di Roh è una figura chiave nella pista inglese dello spygate. Fu proprio lui, infatti, ad assumere Mifsud come consulente nel 2015, un anno prima cioè che «the Professor» (come lo chiama Robert Mueller nel suo celebre rapporto) incontrasse Papadopoulos. Nel corso di un' intervista al sito realclearinvestigations.com, Roh ebbe modo di sostenere che il suo assistito era tutto meno che una spia russa. Semmai, come scrisse nel suo libro a quattro mani con l' analista politico francese Thierry Pastor, Mifsud «aveva un solo pallino: quello della politica, della diplomazia e dell' intelligence occidentale, l' unica sua vera casa dalla quale egli è ancora strettamente dipendente». Più tardi, a gennaio del 2018, Mifsud contattò telefonicamente Roh spiegandogli di essere stato incastrato e di non avere nulla a che fare con i contatti tra Russia e Usa. L' impressione avuta da Roh era che Mifsud «temesse per la propria vita». Per risalire alle origini dei rapporti tra l' avvocato svizzero e il professore maltese, in realtà, bisogna fare un altro passo indietro. Lo stesso Roh rivela alla Verità di aver conosciuto Mifsud nel 2006, quando questi lo invitò a visitare la Link. Più tardi, nel 2012 il professore diventò direttore della London academy of diplomacy (Lad), un' istituzione affiliata alla Stirling University. Proprio alla Lad, della quale nel 2014 divenne visiting lecturer, Roh ci riferisce di avere incontrato una volta «alti funzionari del MI6 (l' agenzia di spionaggio per l' estero del Regno Unito, ndr) e membri dell' intelligence occidentale e araba». Una volta entrato nel giro di Mifsud, Roh ne condivide in parte anche gli ambienti. Nel 2016 partecipa a un convegno a Istanbul con lo stesso professore maltese e Nagi Idris, direttore del London center for international law and practice (Lcilp). Ma, come spiega Roh al nostro quotidiano, Idris non gli fece una buona impressione: «Una persona al centro di affari poco chiari, immerso in un contesto poco trasparente, assolutamente da evitare». Sudanese trapiantato a Londra, Idris rappresenta forse il deus ex machina del versante britannico dello Spygate. Qualche mese prima fu proprio lui, infatti, a spingere Papadopoulos a incontrare Mifsud nella sede della Link a Roma. Nel suo entourage Arvinder Sambei, vicinissima agli ambienti dell' intelligence britannica e americana (qualcuno sostiene che abbia collaborato con Mueller al rapporto dell' 11 settembre), e l' americana Rebecca Peters, ex codirettrice del Lcilp e oggi dirigente presso la Veterans in global leadership, una Ong vicina alla Cia. Più che un campo di addestramento per spie russe, una bocciofila dell' intelligence occidentale.

Marco Lillo per il “Fatto quotidiano” il 18 ottobre 2019. Tra due settimane sapremo se i dati contenuti nei cellulari di Mifsud, compresi eventuali contatti con i servizi segreti italiani, saranno divulgati o no. Per ora sappiamo solo che gli apparecchi del personaggio chiave del caso Russia-Gate sono nelle mani del Dipartimento di Giustizia americano. Sappiamo anche che sono due Blackberry (un vecchio Bold 9900 e un più recente SQC 100-1) attivati con schede sim inglesi Vodafone. Il 7 novembre la District Court di Washington D.C. potrebbe consegnare i dati e i metadati (tabulati, messaggi whatsapp, signal, mail, registrazioni, video ecc..) ai legali del generale Michael T. Flynn che ne hanno fatto richiesta. Notizia non indifferente per il Governo e le nostre Agenzie se si considera che:

1) Flynn ha interesse a dimostrare la teoria del complotto dei servizi occidentali, anche italiani, contro Trump nel 2016;

2) il ministro della giustizia William Barr sta cercando di dimostrare quel complotto e ha già acquisito i dati dei due cellulari;

3) il professor Mifsud gravitava in un ambiente in cui personaggi legati o inseriti nelle agenzie di sicurezza italiane non mancano;

4) Mifsud ha dichiarato agli autori di un libro (The faking of Russia-Gate, scritto dal suo legale tedesco, Stephan Roh e dal consulente francese Thierry Pastor) che: nell' ottobre 2017 "Il capo dei servizi segreti italiani ha contattato il presidente della Link Campus University, Vincenzo Scotti (ex ministro dell' Interno), e ha raccomandato che il Professore dovesse sparire e stare in qualche località sicura". Scotti nega. I servizi italiani (ufficiosamente) anche;

5) Barr presto depositerà il suo rapporto e Giuseppe Conte sarà audito la prossima settimana dal Copasir.

Ci sono tutti gli ingredienti per creare attesa sui dati dei cellulari del misterioso professore maltese sparito dalla circolazione da un anno e mezzo. Joseph Mifsud, 59 anni, in ottimi rapporti con il presidente della Link Campus University di Roma, Vincenzo Scotti, è diventato famoso perché - secondo la testimonianza dell' ex collaboratore della campagna elettorale di Donald Trump, George Papadopoulos - avrebbe svelato nel 2016 allo stesso Papadopoulos l'esistenza di mail imbarazzanti per Hillary Clinton in possesso dei russi. Mifsud ha sempre negato e ora è diventato popolare dalle parti di Trump. Soprattutto dopo che il suo avvocato ha spedito al Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti una registrazione nella quale il professore rivelerebbe la vera storia dei suoi rapporti con soggetti occidentali legati ai servizi segreti. Ecco perché Mifsud è e sarà sempre più il fulcro del "Russia-Gate 2 la vendetta". Trump e i media a lui vicini contrabbandano l' attività di inchiesta condotta dal team guidato dall' attorney General William Barr su Mifsud come un'operazione verità, il disvelamento di un' operazione di 'corruzione' della precedente campagna elettorale come ha scandito davanti a un attonito Sergio Mattarella a Washington, lo stesso Trump tirando in ballo pure Barack Obama. Ogni giorno su siti, quotidiani e tv americani circolano nuovi colpi di scena veicolati sempre con uno spin, cioé una "stortura a effetto", in danno dei nostri servizi segreti. La registrazione di Mifsud? Era stata consegnata ai segugi guidati da Barr durante l' incontro con il ministro americano e il procuratore Duhram, dai nostri 007. Bullshit, come dicono a Washington. La registrazione è stata spedita dall'avvocato Roh. Stesso schema per i telefonini. Consegnati - scrivevano ieri anche in Italia - dagli investigatori italiani alla delegazione di Barr. Doppia bullshit che ha costretti i nostri servizi a fare una smentita ufficiosa all' Adn Kronos. I telefonini non vengono stavolta dall' avvocato Roh ma probabilmente da persone vicine a Mifsud. Come stanno i fatti? Il 15 ottobre scorso il collegio difensivo del generale Flynn ha presentato la mozione alla Corte per vedere i dati dei due telefonini, svelando che esistono e che sarebbero in possesso del Department of Justice. Flynn vuole usarli per dimostrare che un complotto lo ha costretto alle dimissioni. Flynn è a processo non tanto per il suo colloquio con l' ambasciatore russo a Washington, Sergey Kislyak, il 29 dicembre 2015, ma perché l' ex consigliere per la Sicurezza nazionale di Trump (come Papadopoulos per la questione Mifsud) avrebbe mentito all' FBI . Il Fatto ha contattato nel suo ufficio in Florida uno dei tre legali di Flynn, l' avvocato William Hodes per chiedergli chi avesse consegnato i telefoni di Mifsud al Dipartimento di Giustizia e come facessero i legali a sapere dell' esistenza dei Blackberry. "Non abbiamo inserito nel ricorso questi dati e non possiamo rivelarli. Noi crediamo che il Governo - spiega Hodes - abbia questi due apparecchi e l' avvocatessa texana Sidney Powell che guida il collegio di difesa ha deciso di fare ricorso perché siamo interessati alle informazioni contenute in questi apparecchi". Nel ricorso i legali scrivono "è materiale a discarico attinente alla difesa di Mr. Flynn". I legali vogliono svelare "gli agenti dell' intelligence occidentale" che avrebbero "probabilmente già dal 2014 organizzato - a insaputa sua - 'connessioni' con alcuni russi che avrebbero poi usato contro Flynn". Come finirà? "Il 7 novembre - spiega Hodes - nella pubblica udienza davanti alla District Court di Washington D.C spiegheremo le nostre ragioni e il giudice Emmet Sullivan dovrebbe decidere il giorno stesso".

GLI 007 ITALIANI "NON C'ENTRIAMO CON I SUOI CELLULARI". Da "la Repubblica" il 18 ottobre 2019. I due cellulari di Joseph Mifsud ottenuti "di recente" dal Dipartimento di Giustizia guidato da William Barr riaccendono il dibattito in vista dell' audizione del premier al Copasir. Ieri l' avvocato svizzero Stephan Roh, amico del maltese e azionista della Link University, ha confermato che i due cellulari sono stati presi dai detective statunitensi: «So che Mifsud li ha usati per chiamare almeno una persona negli Usa. Mi hanno detto che dagli apparecchi si possono ricavare molte informazioni». Secondo media americani citati dall' Ansa i due Blackberry sono stati recuperati in Italia. Ma fonti della nostra intelligence hanno negato che siano stati consegnati a Barr durante i due incontri romani, ribadendo che non è stato fornito alcun materiale. L' esistenza dei telefonini è stata rivelata dagli avvocati di Michael Flynn, ex generale ed ex consigliere per la sicurezza di Trump costretto a dimettersi per l' indagine dell' Fbi sui rapporti con Mosca. I legali sostengono che l' esame dei Blackberry dimostrerà come Flynn sia stato vittima di un complotto, ordito da servizi segreti occidentali. La stessa tesi su cui Trump punta per fermare l' impeachment.

(ANSA il 18 ottobre 2019) - L'intelligence italiana non avrebbe consegnato alle autorità americane alcun cellulare del professor Josef Mifsud, l'uomo al centro della controinchiesta del ministro della giustizia statunitense William Barr sul Russiagate. E' quanto sottolineano qualificate fonti dei nostri servizi segreti ribadendo che nei due incontri con Barr - quello di Ferragosto con il direttore del Dis Gennaro Vecchione e quello del 27 settembre al quale parteciparono anche i direttori di Aise e Aisi Luciano Carta e Mario Parente - agli americani fu detto che le autorità italiane nulla sapevano di Mifsud, che il professore maltese non era un "soggetto d'interesse", che non aveva mai chiesto protezione ai nostri 007 e che in ogni caso sarebbe stato opportuno avanzare qualsiasi richiesta attraverso i canali ufficiali, ossia tramite rogatoria internazionale.  A scrivere che l'Italia ha consegnato due cellulari di Mifsud al Dipartimento di Giustizia Usa sono stati alcuni media americani dopo che i legali di Micheal Flynn, ex consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca implicato nell'inchiesta del Russiagate, hanno chiesto al Dipartimento di giustizia americano i dati dei due BlackBerry di Josef Mifsud. Già ad inizio di ottobre l'intelligence aveva smentito un'altra notizia riportata dai media americani: il DailyBeast scrisse infatti che nel corso dell'incontro con Barr gli 007 fecero ascoltare un nastro di Mifsud. In ogni caso, sulla vicenda dei due incontri tra gli 007 e il ministro statunitense con al centro la figura del professore maltese - docente con un contratto con la Link Campus University di Vincenzo Scotti che gli ha fornito anche una casa a Roma per alcuni mesi e che dal 2018 sembra sparito nel nulla, riferirà al Copasir nei prossimi giorni - probabilmente già tra mercoledì e giovedì - il presidente del Consiglio. Conte ha già detto in più occasioni di aver agito in maniera corretta: "i vertici dei servizi non hanno mai commesso alcuna anomalia, nessuna scorrettezza. E' stato fatto tutto in trasparenza, secondo ordinarie e consolidate prassi". Ai commissari il premier dovrà però spiegare quantomeno l'"irritualità" di quei due colloqui, in quanto avvenuti tra un'autorità politica, che avrebbe dovuto semmai rapportarsi con il suo omologo Alfonso Bonafede, e i servizi d'intelligence.

Russiagate, Conte al Copasir: "Cosa facevano Salvini e Savoini con gli 007 russi?". Leader Lega: "A Mosca per difendere le aziende italiane". Il premier: "Contenuti dell'audizione coperti da segreto, ma ho il dovere di riferire ai cittadini". "Richiesta americana arrivata a giugno, dal ministro Barr e attraverso canali diplomatici". Quattro domande a Salvini sul 'blog delle stelle': "Prima i russi o prima gli italiani?" Alberto Custodero il 23 ottobre 2019 su La Repubblica. "Siamo al di là di un'opinione o di una sensibilità istituzionale - dichiara il presidente del Consiglio Giuseppe Conte in conferenza stampa dopo l'audizione al Copasir - forse Matteo Salvini dovrebbe chiarire che ci faceva con Gianluca Savoini, con le massime autorità russe, il ministro dell'Interno, il responsabile dell'intelligence russa. Dovrebbe chiarirlo a noi e agli elettori leghisti. Dovrebbe chiarire se idoneo o no a governare un Paese". "Rimango sorpreso - ha attaccato Conte - che Salvini pontifichi quotidianamente sulla questione Barr, sollecitandomi a chiarirla perché non gli tornava". "La verità che Salvini mi ha chiesto - ha sottolineato - l'ho riferita. Io ho chiarito, quello che mi sorprende è che come Salvini, che ha una grande responsabilità, perché non solo era ministro dell'Interno, ma e si è anche candidato a guidare il Paese, a voler fare il presidente del Consiglio chiedendo pieni poteri, come lui non avverta la responsabilità di chiarire questa vicenda". "Io ho detto la mia verità - ha chiosato Conte - Salvini tace su Moscopoli".

Salvini: "A Mosca per difesa aziende italiane". Missioni in Russia di Salvini? "Alla luce del sole. Se qualcuno ha fatto cose poco serie sarà dimostrato. Io vado a Mosca o a Washingotn per difendere le aziende dell'Italia". Così Matteo Salvini, leader della Lega, a Zapping su Rai Radio1, sul Russiagate, risponde all'intervistatore.

Fiano (Pd), al leader Lega: "Chi vuole prendere in giro?". “Alla luce del sole? Ma chi vuole prendere in giro Salvini?", replica il deputato dem Emanuele Fiano. "Salvini - aggiunge - faccia una cosa semplice, venga in Parlamento a dirci di cosa esattamente ha parlato il suo consulente e collega di partito Savoini in quell’incontro al Metropol. Venga a spiegarci come mai, se era completamente all’oscuro di quella trattativa, un suo consulente trattava affari legati al petrolio citando il futuro della Lega. Venga a chiarire di quali argomenti hanno parlato con Malofeev, persona dichiarata indesiderata dalla Ue, grande amico di Salvini". "Insomma - conclude Fiano - invece di continuare a menare il can per l’aia, prenda quel microfono da cui in agosto ha decretato la fine del suo governo, e dica agli italiani la verità, con una dichiarazione spontanea. Che paura ha? La verità è la verità non dovrebbe far paura e a un leader politico, senza contare che dovrebbe venir prima della verità giudiziaria".

Conte sul caso Barr: "Nostri 007 estranei". Conte spiega così la sua audizione al Comitato di controllo sui servizi segreti. "Sono intervenuto al Copasir ai sensi dell'art. 33 della legge 124, che prevede che il responsabile dell'autorità del controllo dell'intelligence debba riferire semestralmente. Quindi non sono stato convocato sul caso Barr, ma io stesso, non appena ho saputo della nomina del nuovo presidente ho scritto che si svolgesse quest'incontro ordinario e con l'occasione non mi sono affatto sottratto". Sulla vicenda Barr, ha spiegato Conte, "c'è stata una serie di ricostruzioni fantasiose che rischiano di gettare ombre sul nostro impianto istituzionale". "È stato detto che la richiesta americana di uno scambio di informazioni è stata fatta in agosto durante la crisi di governo. Falso, la richiesta risale a giugno". Questa richiesta non è pervenuta dal presidente Trump ma dal ministro Barr di verificare l'operato dell'intelligence americana" che è anche il capo dell'Fbi, ha detto Conte. La richiesta è "arrivata non a me ma da canali diplomatici". "Confermo - ha precisato Conte - che ci sono stati due incontri. Il primo il 15 agosto, ma non si è svolto in un bar. Si è svolto nella sede di piazza Dante del Dis, la sede più istituzionale e trasparente possibile. Il secondo incontro si è svolto il 27 settembre ed è stato chiarito che alla luce delle verifiche fatte la nostra intelligence è estranea in questa vicenda. Abbiamo rassicurato gli interlocutori Usa su questa estraneità e ci è stata riconosciuta. Non hanno elemento di segno contrario". "Il presidente del Consiglio ha l'alta direzione e la responsabilità della politica dell'informazione sulla sicurezza e non la può condividere con con alcun ministro per il bene della Repubblica. E non la può, e non la deve condividere con alcun leader politico". "Se ci fossimo rifiutati" di ascoltare le richieste americane "avremmo arrecato" dei danni alla nostra intelligence e sarebbe stato "un atto di scortesia" nei confronti di un alleato storico. Oltre che al Copasir, "ho il dovere anche di fronte ai cittadini e all'opinione pubblica di riferire alcuni elementi di questa vicenda anche perché ha suscitato un tale clamore mediatico che ne sono nate una serie di ricostruzioni fantasiose che rischiano di gettare ombra anche su nostro operato istituzionale e non possiamo permettercelo".

Sul Blog delle Stelle, quattro domande a Salvini. In seguito all'inchiesta di Report, il M5S sul 'blog delle stelle' pone "quattro semplici domande al capo della Lega". Eccole: "La prima riguarda proprio il rapporto tra Salvini e Savoini: perché Salvini aveva fatto credere quasi di non conoscere Savoini nonostante fosse il suo ex portavoce, avesse partecipato a moltissimi convegni della Lega, ci fossero numerose foto e video che li ritraggono insieme e che fossero amici da 30 anni? Prima i russi o prima gli italiani?". Il post si conclude con l'hastag #salvinirispondi.

Ilario Lombardo per “la Stampa” il 24 ottobre 2019. Per Matteo Salvini i suoi viaggi in Russia non nascondono nulla, perché «tutto è stato fatto alla luce del sole» e «sono andato a Mosca nell' interesse delle aziende italiane». Ormai c'è poco di politico nel duello tra il leghista e Giuseppe Conte che ieri, all' uscita dal Copasir, ha tirato in ballo l'altro Russiagate, quello casalingo, quello che coinvolge Gianluca Savoini, uno degli uomini più vicini a Salvini. Sul famoso incontro del Metropol, sui presunti finanziamenti russi e su tutta la coda di domande che sono rimaste senza risposta, il leader della Lega continua a non voler riferire davanti alla commissione di controllo sui servizi segreti, che ieri ha ascoltato il premier sui colloqui tra gli 007 italiani e il ministro della Giustizia americano William Barr. Nella sua contromossa Conte sostiene che dovrebbe essere Salvini a chiarire perché, quando era ministro dell' Interno, negli incontri istituzionali con le massime autorità russe e l'intelligence moscovita, si portasse sempre dietro Savoini, collaboratore di casa a Mosca ma senza alcun titolo per stare lì. Per Salvini la durezza dei toni usati in conferenza stampa tradirebbero «un nervosismo» intravisto in Conte solo nei giorni fatali per la Lega della crisi di governo, ad agosto. «Forse perché sanno che il M5s e la sua maggioranza stanno per perdere di brutto l'Umbria?» si chiede il leghista. Ma il capo del Carroccio, come ha confidato ai suoi, a questo punto è soprattutto «curioso di sapere cosa dirà la prossima settimana al Copasir Gennaro Vecchione, (il capo del Dis, che coordina i servizi segreti italiani, ndr). Magari ci saranno delle contraddizioni tra le versioni fornite, magari ha qualcosa da nascondere». Era stato Vecchione, su richiesta di Conte, che mantiene la delega all'intelligence, a incontrare Barr per due volte, a metà agosto e a fine settembre. E' lui dunque il protagonista diretto che può testimoniare cosa si siano detti con gli americani e quali informazioni si siano scambiati. Ma in questa sfida tra i due ex alleati, sempre più apertamente antagonisti, non mancano altre sorprese. La Lega infatti è intenzionata a tornare su un altro filone che coinvolge il presidente del Consiglio. «Perché invece di diffondere tutti questi sospetti Conte non risponde sulla storia della fattura firmata con Alpa?». La domanda se la pone Salvini ed è la stessa al centro dell' interrogazione parlamentare depositata il 3 ottobre dalla senatrice Lucia Borgonzoni. Rispunta fuori ora, non solo come arma per la controffensiva su Conte. Nella Lega da giorni si parla insistentemente di documenti, pronti a essere pubblicati in un libro, che proverebbero che il capo del governo avrebbe mentito alle telecamere delle Iene, andate a chiedergli conto di una fattura cofirmata con Guido Alpa. La storia, si ricorderà, riguarda un presunto conflitto di interessi tra Conte e il famoso avvocato. Nel 2002 Alpa è membro della commissione giudicatrice del concorso per la cattedra di professore ordinario all' Università L. Vanvitelli dal quale Conte esce idoneo. Nello stesso anno entrambi i professori ricevono diversi incarichi di patrocinio. Ma c'è un caso che finisce nel mirino delle inchieste giornalistiche e poi dell'interrogazione del Carroccio: è un incarico per il patrocinio del Garante della Privacy contro la Rai, sessanta giorni prima del concorso. Conte ha smentito che già allora ci fossero rapporti commerciali con Alpa e ha riferito che ai quei tempi condividevano semplicemente l'indirizzo professionale e una segreteria. La prova, secondo la Lega, che starebbe nascondendo la verità è in diversi progetti di parcella (che più volgarmente sarebbero le fatture proforma) firmati da entrambi e su carta cointestata, riferiti proprio ai patrocini prestati al Garante. «Può escludere che esistano? Perché Conte che parla tanto di trasparenza non risponde» si chiede Salvini. Nel frattempo anche le Iene hanno provato a scovare la fatture ma si sono viste respingere prima la richiesta di accesso agli atti al Garante, poi il ricorso presentato di fronte al Tar.

(LaPresse il 23 ottobre 2019) - "Oggi, poco fa, ho terminato di riferire al Copasir. Sono intervenuto ai sensi della legge 124 che prevede che l'autorità politica responsabile del controllo dell'intelligence debba riferire semestralmente. Non sono stato convocato sul caso Barr, ci tengo a chiarirlo. Ma nella discussione non mi sono sottratto a nessuna domanda, riferendo anche sulla vicenda Barr". Sulla vicenda Barr "c'è stata una serie di ricostruzioni fantasiose che rischiano di gettare ombre sul nostro impianto istituzionale". "Il presidente Trump non mi ha mai parlato di questa vicenda, di questa inchiesta". "William Barr ha fatto pervenire attraverso canali ordinati diplomatici la richiesta, che risale a giugno 2019, di verificare l'operato dell'intelligence americana". "Non ho mai interloquito con Barr, né per telefono. Né per iscritto". "E' stata acclarata l'estraneità della nostra intelligence". "Confermo che ci sono stati due incontri. Il primo il 15 agosto, ma non si è svolto in un bar. Si è svolto nella sede di piazza Dante del Dis, la sede più istituzionale e trasparente possibile. Il secondo incontro si è svolto il 27 settembre ed è stato chiarito che alla luce delle verifiche fatte la nostra intelligence è estranea in questa vicenda. Abbiamo rassicurato gli interlocutori Usa su questa estraneità e ci è stata riconosciuta. Non hanno elemento di segno contrario.". "Il presidente del Consiglio ha l'alta direzione e la responsabilità della politica dell'informazione sulla sicurezza e non la può condividere con con alcun ministro per il bene della Repubblica. E non la può, e non la deve condividere con alcun leader politico ." "Io sono stato quasi costretto a riferire su questa vicenda. Come avevo detto dopo aver riferito al  Copasir ho spiegato agli italiani". "Ho cercato di operare e ho agito sempre nel rispetto della legge". "La richiesta era in riferimento ad agenti dell'intelligence americana di stanza a Roma. Ci poteva essere l'eventualità che avessero lavorato insieme ai nostri servizi". "Non posso declinare tutti i dettagli della vicenda, le attività afferivano soprattutto alla primavera estate 2016 e riguardavano anche informazioni sul professore maltese Mifsud. È stato chiarito che non avevamo informazioni". Dopo l'inchiesta di Report "sono venuti fuori ulteriori elementi su questa vicenda. Non è mia abitudine attaccare gli avversari possibili, ma mi trovo sorpreso che Salvini pontifichi sulla questione Barre mi ha invitato a chiarire, in modo legittimo. Io ho ritardato perché non c'era il presidente del Copasir. La verità che Salvini mi ha chiesto l'ho riferita. Io ho chiarito, mi sorprende come Matteo Salvini, che ha una grande responsabilità - perché era ministro dell'Interno e si è candidato a guidare il paese chiedendo pieni poteri - come lui non avverta la responsabilità di fare altrettanto". Così il presidente del Consiglio Giuseppe Conte nel corso di una conferenza stampa a palazzo Chigi in merito al caso Moscopoli. "Dovrebbe chiarire con Savoini a Mosca in incontri riservati da ministro dell'Interno".

Conte al Copasir; mai mischiare politica ed intelligence. Al netto della sue deposizione, secretata, il premier ha comunque commesso un errore politico e strategico. Luciano Tirinnanzi il 23 ottobre 2019 su Panorama. Già il fatto che il Copasir - il Comitato parlamentare di controllo sulla sicurezza della Repubblica - lo abbia audito sul caso «Russiagate», non è una buona notizia per il premier Giuseppe Conte. Che poi il presidente del Consiglio possa aver confessato di aver autorizzato i servizi segreti italiani a riferire notizie al ministro della giustizia americano William Barr a proposito dei contenuti delle mail di Hillary Clinton trafugate dai russi, è ancora peggio. Questo perché in Italia, da prassi consolidata, i dirigenti dell’intelligence possono parlare soltanto con gli omologhi funzionari dei servizi segreti stranieri; peraltro, solo se di pari grado, se autorizzati dal presidente del Consiglio (cui spetta la delega sui servizi) e in forza di accordi multilaterali tra Paesi alleati, o comunque per ragioni di servizio. Conte, invece, autorizzando il comandante del DIS Gennaro Vecchione (che sovrintende ai servizi segreti interni ed esteri) a «spifferare» informazioni agli uomini di Trump, ha rotto un protocollo consolidato nonché una regola aurea internazionalmente riconosciuta. C’è un motivo preciso se l’intelligence di un Paese democratico non può e non deve riferire alcunché a un rappresentante politico di un altro Stato: si chiama sicurezza nazionale. Infatti, i politici hanno per loro natura esigenze e scopi del tutto divergenti dall’intelligence, tra i quali non di rado ci può essere anche quello di destabilizzare un altro Paese. Al contrario, compito dei servizi segreti è per legge tutelare la nazione che hanno giurato di difendere da qualsiasi ingerenza, sia essa interna o esterna. Evitare di trascinare il proprio presidente del Consiglio in una scivolosa querelle internazionale, ad esempio, rientra tra i loro compiti. Perché, dunque, Vecchione ha acconsentito all’inopportuna richiesta del premier? Vecchione avrebbe potuto tranquillamente confrontarsi con CIA ed FBI, così come Giuseppe Conte avrebbe potuto parlarne direttamente con Donald Trump. Eppure, nulla di tutto ciò è stato fatto. Con tutta probabilità, Giuseppe Conte ha peccato d’inesperienza, agendo in questo modo non per malafede, ma soltanto per compiacere una richiesta espressa di Donald Trump. Il quale ha inviato più volte Barr e il procuratore federale John Durham in Italia, a raccogliere prove di quella che a tutti gli effetti è una contro-inchiesta sul caso «Russiagate», tesa a dimostrare che Clinton e Obama avevano complottato contro l’allora candidato americano affinché non vincesse le elezioni. Il che, tuttavia, non scagiona affatto il premier, considerato che Conte si è volontariamente intestato l’intera gestione della sicurezza nazionale: dalla delega sui servizi segreti alla nomina di un tecnico al ministero dell’Interno, che di conseguenza dipende da lui. Tutto ciò è ovviamente lecito nel nostro ordinamento, ma sconveniente per chiunque. Specie per chi non ha mai masticato questioni di sicurezza nazionale. Quale sia la verità dietro questa intricata spy-story non è dato sapere. Sia perché l’audizione al Copasir è stata secretata sia perché il testimone chiave dell’intera vicenda, il docente maltese della Link University di Roma Joseph Mifsud, è sparito nel nulla da ben due anni. Mifsud è colui il quale avrebbe rivelato per la prima volta l’esistenza di una serie di e-mail compromettenti su Hillary Clinton, comportandone la sconfitta alle presidenziali del 2016. E, secondo indiscrezioni rese alla testata americana Daily Beast, i servizi segreti italiani avrebbero fatto ascoltare a Barr e Durham proprio dei nastri contenenti intercettazioni telefoniche di Mifsud. Inoltre, anche se secretata, la versione che Conte ha reso al Copasir dovrà collimare con quella di Barr, a sua volta finito sotto l’indagine che l’FBI ha istruito per valutare un possibile impeachment nei confronti del presidente Trump. Se così non dovesse essere, allora i problemi per la presidenza del Consiglio potrebbero non essere finiti qui. In conclusione, il filone italiano del «Russiagate» ha dimostrato tanto la debolezza delle nostre istituzioni di fronte alle pressioni del potente alleato, quanto l’impreparazione o lo sprezzo delle regole da parte di alti dirigenti della sicurezza nazionale. Che, di conseguenza, hanno prestato il fianco a ennesime strumentalizzazioni politiche.

Dagospia il 24 ottobre 2019. Dall’account twitter di Jacopo Iacoboni. È ovvio che non possiamo valutare la vicenda Barr-Vecchione, e l’audizione di Conte al Copasir, sulla base di una conferenza stampa di Conte organizzata da Casalino, siamo tutti d’accordo, vero? Ok. Lavoreremo per capire. Peraltro, l’oggetto dell’audizione è secretato, e Conte in tutto questo che fa, appena uscito? Una conferenza stampa. Il premier aveva evidentemente urgenza di costruire una narrazione per il Popolo. Per ora, quello che dice Conte non torna assolutamente, dal pdv logico. Conte dice che la richiesta arriva a giugno, e non il 15 agosto. Insomma, il 15 agosto Barr viene in Italia ma si è fatto già precedere, DUE MESI PRIMA, da una richiesta. Che avrà delineato la materia, no? E invece no: evidentemente, nonostante la richiesta fosse arrivata due mesi prima, l’Italia non è ancora in grado di dare una risposta - quale che sia - a Barr. Perciò Barr deve dare un altro mese e mezzo di tempo, e ripresentarsi il 27 settembre. Stavolta pure con Durham. Insomma: dagli Usa chiedono informazioni a giugno, a la risposta gli arriva il 27 settembre?!? Peraltro, informazioni su una materia su cui i nostri servizi avevano già, com’è ovvio, un significativo dossier aperto a galleggiare? Signor premier, grazie ma non torna. Conte dice: “Abbiamo rassicurato gli interlocutori Usa sulla nostra estraneità e ci è stata riconosciuta. Non hanno elemento di segno contrario". Eee?!? Da quando Barr è tornato da Roma, i media più inclini alla narrativa di Trump sostengono totalmente il contrario. Ecco Fox News. (Non che io creda a Fox News più che a Conte, ma sentendo Fox News sono ragionevolmente certo di avvicinarmi a quello che sta sostenendo in giro Barr). Peraltro è abbastanza ovvio - quasi infantile, come tecnica comunicativa - che Conte si scopra fustigatore di Salvini sulla Russia. Attacca Salvini con i classici strumenti della propaganda: attacca cioè con lo scopo di "divert", distogliere l'attenzione dal caso Barr-Vecchione. Se non c'è niente di cui parlare, perché Barr è tornato due volte a Roma? Conte non l'ha spiegato. E perché mai, subito dopo la seconda visita di Barr, è calata a Roma la direttrice della Cia? Forse perché voleva vederci chiaro anche l'agenzia? Insomma, sostanzialmente Conte l'ha buttata in caciara, con tante cose che non quadrano neanche stando alla sua ricostruzione, e l'unica cosa significativa che ha fatto è stato far leva sui problemi di Salvini sulla Russia. Sperando che n questo modo la Lega non si impaurisca.

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della sera” il 24 ottobre 2019. Ci sono ancora alcuni punti oscuri rispetto ai rapporti tra i servizi segreti italiani e il ministro della giustizia statunitense William Barr. Ombre che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte non è riuscito a dissipare durante le dichiarazioni pubbliche, ma neppure nel corso della sua audizione di fronte al Copasir. E tutte riportano all' interrogativo chiave rimasto senza risposta: perché il capo del governo ha autorizzato quei contatti diretti anziché gestirli personalmente? Barr è un politico dell' amministrazione Trump. E dunque Conte avrebbe potuto e dovuto partecipare agli incontri invece di «mettere a disposizione» di un altro Paese, anche se «alleato», i vertici degli apparati di intelligence. Così non è andata e adesso dovranno essere proprio il direttore del Dis Gennaro Vecchione, quello dell' Aise Luciano Carta e dell' Aisi Mario Parente a dover rispondere alle domande dei parlamentari del Comitato di controllo. Anche perché è stato lo stesso Conte ad ammettere che «dopo la richiesta arrivata a giugno per via diplomatica» sono state «effettuate ricerche in archivio, reperiti documenti, svolti accertamenti». Dunque è stata compiuta una vera e propria indagine. L'obiettivo degli Stati Uniti, come ha confermato Conte, era scoprire che fine avesse fatto Joseph Mifsud, il professore della Link University di Roma che nel Russiagate ha un ruolo chiave. Nel 2016 è proprio lui a rivelare allo staff di Trump che i russi hanno numerose mail compromettenti contro la candidata dei democratici Hillary Clinton. Incontra più volte l'emissario George Papadopoulos ma un anno dopo sparisce all'improvviso. E Trump si convince che in realtà Midsuf sia un «agente provocatore» di alcuni servizi segreti europei con un obiettivo preciso: dimostrare che il presidente americano aveva cercato di incastrare la Clinton. Ecco perché Barr vuole rintracciarlo o comunque scoprire che fine abbia fatto. Si torna dunque a giugno scorso. La lettera di Barr arriva per canali diplomatici, Conte dice che parla genericamente dell'attività degli agenti americani che si trovano in Italia. Lui però decide di concedere subito il via libera alla collaborazione. E ne parla con Vecchione. Vengono attivati i controlli, ma il premier non chiarisce che tipo di accertamenti siano stati effettuati. Nel 2016 il governo non era guidato da Conte e c'erano altri capi dei servizi segreti. Le verifiche svolte quest' estate hanno dunque riguardato l' attività dei predecessori? È una delle domande alle quali dovrà adesso rispondere il Copasir attraverso le audizioni dei capi dei servizi che saranno convocati nelle prossime settimane. Ma non è l'unica. Tra le altre questioni aperte ci sono le informazioni consegnate a Barr. Ufficialmente Conte ha ribadito che non è stata trovata alcuna notizia utile e dunque nulla è stato rivelato al ministro della Giustizia americano. Ma allora perché sono stati organizzati due incontri? Se a Ferragosto era già chiaro che l'Italia non aveva dati utili, perché un mese e mezzo dopo è stata convocata una riunione allargata ai direttori delle due Agenzie? Entro qualche settimana Trump renderà noto il «rapporto Barr» che contiene tutte le informazioni raccolte dal politico durante il suo giro in Europa. E dunque anche quanto scoperto nel nostro Paese. Dettagli che potrebbero mettere in imbarazzo sia il presidente del Consiglio, sia le strutture dell'intelligence perché, come è stato sottolineato al Copasir, sono state assecondate istanze in maniera riservata, mentre si sarebbe dovuta seguire una procedura trasparente che passasse attraverso Palazzo Chigi e il ministero della Giustizia. Entrambi gli incontri si sono invece svolti nella sede del Dis in piazza Dante a Roma e nel secondo colloquio tra i presenti c'era anche il procuratore John Durham. Ieri Conte ha specificato che «si trattava di un'indagine preliminare, altrimenti avremmo dovuto procedere per rogatoria». In realtà, come viene specificato da alcuni componenti del Copasir, la presenza del procuratore e del ministro accreditano la tesi che fosse in realtà un' inchiesta già incardinata. E dunque l' Italia avrebbe dovuto essere rappresentata dall' autorità politica delegata e dal Guardasigilli.

Russiagate, Conte al Copasir nega tutto e fa la vittima: «Sono state dette tante falsità». Il Secolo d'Italia mercoledì 23 ottobre 2019. Riflettori accesi sull’intervento di Conte al Copasir sul Russiagate. Alla fine esce fuori solo la “sua” verità, nient’altro che la “sua” verità. Con tanto di numeri e codici, «Sono intervenuto al Copasir ai sensi dell’art. 33 della legge 124», afferma in conferenza stampa. «Si prevede che il responsabile dell’autorità del controllo dell’intelligence debba riferire semestralmente. Quindi non sono stato convocato sul caso Barr, ma io stesso – non appena ho saputo della nomina del nuovo presidente – ho scritto che si svolgesse quest’incontro ordinario e con l’occasione non mi sono affatto sottratto».

Conte al Copasir si veste da vittima. Tutte falsità, secondo Conte. Falsità sui tweet con Trump («mai parlato con lui dell’inchiesta»). Falsità pure sulla vicenda Barr: «C’è stata una serie di ricostruzioni fantasiose che rischiano di gettare ombre sul nostro impianto istituzionale.  È stato detto che la richiesta americana di uno scambio di informazioni è stata fatta in agosto durante la crisi di governo. Falso, la richiesta risale a giugno». La richiesta è «arrivata non a me ma da canali diplomatici». Confermo – ha precisato Conte al Copasir- «che ci sono stati due incontri. Il primo il 15 agosto, ma non si è svolto in un bar. Si è svolto nella sede di piazza Dante del Dis, la sede più istituzionale e trasparente possibile. Il secondo incontro si è svolto il 27 settembre. Ed è stato chiarito che alla luce delle verifiche fatte la nostra intelligence è estranea in questa vicenda. Abbiamo rassicurato gli interlocutori Usa su questa estraneità e ci è stata riconosciuta. Non hanno elemento di segno contrario». «Il presidente del Consiglio ha l’alta direzione e la responsabilità della politica dell’informazione sulla sicurezza. E non la può condividere con con alcun ministro per il bene della Repubblica. E non la può, e non la deve condividere con alcun leader politico». «Se ci fossimo rifiutati» di ascoltare le richieste americane «avremmo arrecato» dei danni alla nostra intelligence e sarebbe stato «un atto di scortesia» nei confronti di un alleato storico. Poi la stoccata (tanto per non cambiare) a Salvini: «Io ho detto la mia verità, lui tace su Moscopoli». Sì, Conte ha detto la “sua” verità. Che non è detto debba corrispondere alla verità.

Giuseppe Conte al Copasir, i due punti decisivi che il premier non ha chiarito. Libero Quotidiano il 24 Ottobre 2019. No, non basta signor Giuseppe Conte. Mentre tutta Italia, quantomeno gran parte di televisione e stampa, si concentra soltanto sul servizio di Report contro Matteo Salvini e i suoi presunti intrecci in Russia, c'è chi si ostina a insistere con il premier. Il punto è che all'audizione al Copasir sul Russiagate, semplicemente, non ha dato spiegazioni su alcuni punti decisivi della vicenda. Accusa che muove al presidente del Consiglio anche il Corriere della Sera, che nota come "ci sono ancora alcuni punti oscuri rispetto ai rapporti tra i servizi segreti italiani e il ministro della giustizia statunitense William Barr". Molte ombre, insomma, che Conte non ha voluto dissipare né nella conferenza stampa né al Copaisr. Ci si chiede: perché il premier ha autorizzato quei contatti diretti piuttosto che gestirli personalmente? Dato che Barr è un uomo di Donald Trump, Conte avrebbe dovuto partecipare ai vertici, invece di "mettere a disposizione", parole sue, di un altro Paese, i vertici degli apparati della nostra intelligence. Circostanza, quest'ultima, che è una totale rinuncia alla nostra sovranità nazionale. Ma non è tutto. Ancora non è chiaro quali informazioni siano state consegnate al ministro della Giustizia a stelle e strisce. Ufficialmente, Conte ha ribadito che non è stato trovato nulla di utile per gli americani, e che insomma agli americani stessi non è stato rivelato niente di niente. Versione che convince davvero poco: perché, allora, sono stati organizzati altri due incontri (sono infatti tre i summit finiti sotto alla lente?). Se insomma il 15 di agosto era chiaro che l'Italia non aveva informazioni per aiutare gli alleati, per quale ragione, un mese e mezzo dopo, è stata convocata una riunione allargata e alla quale hanno preso parte le due agenzie? Domande alle quale, nel silenzio generale, Giuseppe Conte continua a non rispondere.

Spygate, quello che Conte non dice. Roberto Vivaldelli su it.insideover.com il 24 ottobre 2019. Molti dubbi e pochissime certezze. La conferenza stampa del presidente del Consiglio Giuseppe Conte dopo l’attesissima audizione al Copasir ci racconta davvero poco di quello che potrebbero dirci le conclusioni sull’inchiesta sulle origini del Russiagate condotta dal ministro della giustizia Usa William Barr e dal procuratore John Durham. In attesa che quell’indagine si concluda, il premier ha ribadito che quella di ieri è stata un’audizione “ai sensi della legge 124” che prevede che il presidente riferisca semestralmente al Comitato parlamentare. In realtà, sappiamo benissimo che nell’audizione il presidente del Consiglio doveva chiarire il possibile coinvolgimento dell’Italia, i motivi degli incontri avvenuti a metà agosto a Roma tra il ministro americano Barr e Durham con i vertici dei servizi segreti italiani e cosa ha chiesto Washington al nostro Paese.

Cosa ha detto Giuseppe Conte. Come da previsioni, Conte ha provato a chiarire i punti che potevano metterlo più in difficoltà sotto il profilo politico, sottolineando che “il presidente Trump non mi ha parlato di questa inchiesta” e che la “richiesta” di informazioni “non è pervenuta dal presidente Trump ma dal ministro Barr” che è anche il capo dell’Fbi. La richiesta, inoltre, è “arrivata non a me ma da canali diplomatici”. Secondo Conte, dunque, Barr “attraverso canali ordinari diplomatici ha fatto pervenire una richiesta di informazioni alla nostra intelligence. Lo scopo era verificare l’operato di agenti americani. Non era messo in discussione l’operato dell’intelligence italiana”, ha ribadito. “Io non ho mai interloquito con Barr, né per telefono né per iscritto”. Una richiesta che di collaborazione che non sarebbe arrivata ad agosto, e non quindi durante la crisi di governo, “ma lo scorso giugno” quando c’era ancora il governo giallo-verde. “Confermo – ha poi aggiunto Conte – che ci sono stati due incontri. Il primo il 15 agosto, ma non si è svolto in un bar. Si è svolto nella sede di piazza Dante del Dis, la sede più istituzionale e trasparente possibile. Il secondo incontro si è svolto il 27 settembre ed è stato chiarito che alla luce delle verifiche fatte la nostra intelligence è estranea in questa vicenda. Abbiamo rassicurato gli interlocutori Usa su questa estraneità e ci è stata riconosciuta. Non hanno elemento di segno contrario”.

Quello che Conte non dice sullo Spygate. In buona sostanza, l’obiettivo di Conte era quello di chiarire la tempistica e dimostrare di non aver fatto alcun favore personale al Presidente degli Stati Uniti Donald Trump autorizzando i nostri servizi segreti ad incontrare Barr. Secondo aspetto, sottolineare che il tutto si è svolto secondo i canali diplomatici ufficiali. Terzo e ultimo elemento, non far innervosire gli alleati di governo del Pd affermando che l’inchiesta di Barr e Durham riguarda solamente l’operato degli agenti americani e non i nostri servizi segreti. Quindi escludendo – di fatto – una possibile implicazione nell’inchiesta dei governi Renzi e Gentiloni. Per il resto, Conte ha ribadito che le sue “dichiarazioni al Copasir sul caso Barr come su qualsiasi altro tema sono coperte dal segreto quindi non riferisco delle cose dette ai componenti del Copasir”. In realtà, sono più le cose non dette da parte di Conte, che non quelle che ha provato a chiarire – e non tanto sulla natura della collaborazione fra Italia e Stati Uniti. Non si può ignorare, infatti, l’elemento di centralità che il nostro Paese ha in questa vicenda e che Conte ha provato a minimizzare, come abbiamo più volte rimarcato anche su questa testata – e come hanno peraltro affermato lo stesso presidente Donald Trump e il suo avvocato Rudy Giuliani. Per non parlare delle accuse circostanziate dell’ex advisor del presidente degli Stati Uniti, George Papadopoulos, secondo il quale “Roma è l’epicentro della cospirazione”. Come non si può non considerare il fatto che al centro delle attenzioni degli investigatori americani ci sia il misterioso Joseph Mifsud, il docente maltese della Link Campus scomparso nel nulla che secondo gli uomini più vicini al presidente Usa rappresenta la chiave di tutta la vicenda. Elementi che non possono essere certo trascurati a cuor leggero e che sicuramente sono stati “sviscerati” durante l’audizione del premier al Copasir. A tal proposito Conte ha detto: “Non posso declinare tutti i dettagli della vicenda, le attività afferivano soprattutto alla primavera-estate 2016 e riguardavano anche informazioni su Mifsud. E’ stato chiarito che non avevamo informazioni”, ha sottolineato Conte. Ciò fa intendere che le autorità italiane non sanno dove sia Joseph Mifsud. Eppure, come abbiamo raccontato su questa testata, gli americani sanno perfettamente che Mifsud era nascosto in Italia fino alla scorsa primavera, poco prima della pubblicazione del rapporto Mueller. L’avvocato svizzero di Mifsud, Stephan Roh, ha dichiarato all’Epoch Times che il suo cliente ha vissuto fino a poco tempo fa in Italia, ma che il docente ha deciso di nascondersi di nuovo dopo la pubblicazione del rapporto finale sul Russiagate del consigliere speciale Robert Mueller (dunque il 18 aprile 2019).

Tutte le strade portano a Roma. Un altro elemento oggettivo e noto di cui non si è parlato durante la conferenza stampa del premier Conte: secondo i media americani, Barr e Durham non sono tornati a casa a mani vuote dopo i due incontri con i vertici dei servizi segreti italiani. Come riporta Fox News, l’indagine del procuratore John Durham “si è estesa” sulla base “di nuove prove raccolte durante un recente viaggio a Roma con il procuratore generale William Barr”. A Roma, dunque, gli americani avrebbero appreso qualcosa di estremamente importante. Che cosa? Le prove raccolte da Barr e Durham a Roma sono talmente rilevanti che, appena tornato a Washington, John Durham ha deciso di estendere le indagini sulle origini del Russiagate. Come ha riportato InsideOver il 9 ottobre scorso,  l’indagine condotta dal team investigativo guidato da Duhram e dall’Attorney general William Barr sull’operato delle agenzie federali alle origini del Russiagate si estende e ora copre una linea temporale più ampia di quanto precedentemente noto, secondo diversi funzionari dell’amministrazione Trump: il periodo preso in esame va dal 2016 – prima delle elezioni presidenziali di novembre – fino alla primavera del 2017, quando Mueller viene nominato procuratore speciale per il Russiagate.

Alessandro Da Rold per “la Verità” il 23 ottobre 2019.  C' è un capitolo ancora tutto da scrivere sui rapporti tra l' Università Link Campus di Roma e i nostri servizi segreti. È solo una parte dello spygate su Donald Trump - ovvero il presunto tentativo che ci fu nel 2016 di danneggiare la campagna elettorale dell' allora candidato repubblicano - ancora da capire e su cui il Copasir ora presieduto dal leghista Raffaele Volpi dovrà fare chiarezza. A palazzo San Macuto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte avrà il compito di spiegare gli incontri di questa estate tra il numero uno del Dis Gennaro Vecchione e ministro della Giustizia Usa William Barr. Ma allo stesso tempo dovrà sciogliere i dubbi che circondano l' ateneo di Vincenzo Scotti, quell' università dei misteri dove diversi dirigenti della nostra intelligence, come ex ministri o sottosegretari, tengono corsi e lezioni. Per di più dove il corpo docente è soprattutto espressione della classe dirigente di centrosinistra, quella che proprio negli ultimi dieci anni ha istituzionalizzato i rapporti tra la Link e il nostro comparto sicurezza. In questa chiave è ancora tutta da approfondire la figura del professore maltese Joseph MIfsud, personaggio enigmatico, uomo dai rapporti trasversali, per alcuni un millantatore, ma ritenuto dall' Fbi una spia russa, mentre secondo altri sarebbe invece legato alla Cia o al Mi6 inglese. Scomparso nel nulla nell' autunno del 2017, Mifsud aveva un legame forte sia con Scotti, sia con la stessa Link, dal momento che detiene il 35% delle azioni della Link International. Come è da approfondire anche il ruolo di Armando Varricchio, l' artefice della visita di Barr in Italia, ma anche l' ex consigliere diplomatico di palazzo Chigi ai tempi del governo di Matteo Renzi, nominato ambasciatore a Washington proprio a inizio 2016, quando sarebbe cominciato lo spygate. Ma come nasce la relazione tra questo ateneo e i nostri servizi segreti? Ha tutto inizio nel 2007, durante il secondo governo Prodi, quando la legge di riforma dei servizi ha istituzionalizzato i rapporti con le università. All' epoca il viceministro agli Interni con delega alla pubblica sicurezza era Marco Minniti. Non che di legami non ce ne fossero prima, ma in quell' anno, quando viene istituito il Dis (Dipartimento informazioni sicurezza), la nostra intelligence viene legittimata a intrattenere collaborazioni sempre più profonde con i centri di ricerca universitari. È una scelta che riceve anche critiche. Può essere controproducente, perché potrebbe anche succedere che enti esterni e esteri possano influenzare le policy del nostro comparto sicurezza, con think tank capaci di incidere su dossier delicati come la cybersicurezza o le nuove tecnologia, come il 5G. Sono però da ricercare nel 2011- 2012 i primi accordi tra Link e i nostri apparati, quando l' università di Malta (dopo la registrazione alla Corte dei conti e decreto ministeriale) diventa a tutti gli effetti un ateneo in grado di rilasciare titoli accademici. A coordinare i lavori per i primi master e corsi in Intelligence sono l' ammiraglio Sergio Biraghi ma anche Roberto Baldoni, attuale vicedirettore del Dis e responsabile del Nucleo per sicurezza cibernetica (Nsc), con il coordinamento della fondazione Icsa, (Intelligence culture and strategic analysis). Quest' ultima è una realtà nata nel 2009 con la supervisione dell' ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, lo stesso Minniti e l' attuale presidente, il generale Leonardo Tricarico. La Icsa ha sede di fronte al Nazareno, sede del Pd, negli anni ha avuto un solo neo, quando l' indagine del capitano Ultimo su Cpl Concordia la sfiorò durante un' operazione su delle presunte tangenti in basi dell' aeronautica militare. In sostanza la Link -in quegli anni in cui va insediandosi il governo di Mario Monti mentre al Dis ci sono l' attuale presidente di Leonardo Giovanni De Gennaro e poi nel 2012 l' attuale presidente di Fincantieri Giampiero Massolo - diventa un ateneo che ha l' obiettivo di formare ingegneri informatici capaci di affrontare le sfide del futuro, in particolare quelle del cyberspazio. Il governo ha deciso di dotare il nostro Paese di nuovi centri di ricerca sulla information security, per assistere sia il ministero dell' Economia sia le nostre aziende strategiche, come la vecchia Finmeccanica, l' attuale Leonardo. E qui che fanno capolino per la prima volta professori provenienti dalle nostre agenzie di sicurezza, come Aisi e Aise, con tavoli di lavoro e gruppi, sempre coordinati da Link e Icsa, per poter formare una nuova classe dirigente capace di affrontare le nuove sfide del futuro, in particolare in ambito digitale dove l' Italia non è ancora al passo con i tempi. A partecipare a questi incontri sono i massimi esperti nel campo, come il prefetto Adriano Soi, lo stesso ammiraglio Biraghi, l' ammiraglio Bruno Branciforte, già direttore del Sismi o ancora il generale di corpo d' armata Paolo Gerometta o ancora Bruno Valensise, da poco nominato vicedirettore del Dis. Conte, quindi, investito da Trump con il tweet «Giuseppi» prima di ridiventare presidente del Consiglio, si ritrova a sbrigliare una difficile matassa, che appare sempre più intricata nelle ultime settimane. Oltre allo spygate la nostra intelligence è alle prese in questi mesi con l' inchiesta sull' ex paladino antimafia Antonello Montante, dove sono coinvolti i vertici dell' Aisi, Mario Parente e Valerio Blengini, quelli che secondo il gup di Caltanissetta, Graziella Luparello «mentono sapendo di mentire».

Marco Lillo per il “Fatto quotidiano” il 23 ottobre 2019. Nel "Russiagate 2 la Vendetta" (come abbiamo battezzato il polpettone di professori e spie che un giorno sembrano filo-russi e l' altro filo-americani comunque sempre accompagnati da belle donne che fanno le stiliste) non aiutano tanto i rapporti dell' FBI o le veline dei nostri servizi. Il giornale che ha offerto una chiave sensata per interpretare il ciclone mediatico che a breve si abbatterà sulla politica italiana con l' audizione davanti al Copasir di Giuseppe Conte è il The Spectator. Il settimanale conservatore britannico in un pezzo dedicato alla coppia George Papadopoulos-Simona Mangiante ha scritto: "Dimentica i Kardashian, il prossimo grande nome in TV saranno i Papadopouloses, George e Simona". Effettivamente la coppia formata dal 32enne collaboratore della prima campagna elettorale di Donald Trump (condannato per aver mentito all' ex direttore del FBI Robert Mueller sui suoi rapporti con il professore maltese Joseph Mifsud durante le investigazioni sul Russia-Gate nel 2016) e dalla sua compagna di 39 anni, sembra scritta da uno sceneggiatore molto bravo. Nell'articolo il settimanale britannico sostiene che è in arrivo un reality sulla coppia e racconta anche che Simona Mangiante, avvocatessa di Caserta, iscritta all' albo di Napoli dal 2010, avrebbe già ottenuto in passato una parte in un film "Affairs on Capri". Un trailer della pellicola, alla cui lavorazione avrebbero prestato il loro volto anche alcuni familiari della ex collaboratrice del Parlamento Europeo, gira sul web. L' amica di famiglia dell' ex presidente del gruppo socialista all' europarlamento Gianni Pittella interpreta qui la parte di Brigitte Bardot. Il film è diretto da Paul Wiffen, già a a capo del partito filo-Brexit UKIP a Londra. Nel 2010 Wiffen era candidato e fu costretto ad auto-sospendersi per un post razzista su rom, neri e islamici. Sul punto The Spectator sorvola ma annota con un pizzico di humour inglese che la sua bio ("collaboratore di Russia Today, feroce oppositore di George Soros, una volta aveva partecipato a una festa con Anna Chapman, l' ex agente dell' intelligence russa che divenne famosa sui media") non aiuterà a smorzare le teorie complottistiche che vorrebbero la coppia Papadopoulos-Mangiante legata al Cremlino. A prescindere dai legami filo-russi o filo-americani, quello che è interessante del "Russia-Gate 2" è la sua natura di scandalo "mediaticamente perfetto" almeno per il pubblico della destra, americana e non solo. Mentre i grandi quotidiani mainstream - New York Times e Washington Post - ignorano bellamente le puntate del caso, le testate minori come il Washington Examiner o il Washington Times rilanciano sul web ogni aggiornamento sul tentativo del presidente di far passare l' investigazione dell' ex direttore del FBI Mueller come una campagna voluta da Obama e realizzata con lo zampino delle intelligence occidentali. Come resistere d' altronde al fascino di una storia simile. Se davvero, come dice The Spectator, un produttore avesse già finito di girare le scene di un reality sulla coppia Papadopoulos-Mangiante, a Los Angeles, sarebbe un peccato. Basta scorrere il profilo Twitter dei due coniugi per immaginare altre puntate possibili. Tre giorni fa i nostri erano a un party musicale a Bel Air e lei postava felice: "Grazie a Pascal Vicedomini per l' invito a un evento esclusivo con Snoop Dogg che canta" e giù il video con il rapper e la sua musica e a seguire un tweet che lancia il festival Capri Hollywood dell' amico Pascal. Il 14 ottobre George e Simona erano all' American Priority Conference, un festival sovranista che celebrava la ricandidatura di Trump nell' hotel di Trump con la presenza di Donald Trump Jr e Sarah Sanders. La coppia si dava da fare postando insieme foto dell' orsacchiotto "Make America Great Again". Poi George postava il suo endorsement a Trump davanti a '2.500 patrioti' mentre lei, più prosaica, coglieva l' occasione per lanciare "alcune delle mie creazioni sulla passerella del Trump Doral Miami - puoi acquistare sul sito (link) grazie per il supporto #Trumpdoral #Miami #AMPFest2019". Prima delle foto dei costumi l'avvocatessa casertana lanciava però due tweet politici. Il primo era "Presidente to president" con il video della conferenza alla Casabianca nella quale Trump sosteneva davanti a Mattarella che bisogna investigare sulla possibile corruzione delle precedenti elezioni perché lui pensa che c'entri Obama e forse pure qualche 007 italiano. L' altro post rilanciava lo speciale "Italygate" di Atlanticoquotidiano, sito che in Italia fa eco ai megafoni americani della tesi del 'complotto anti-Trump'. Tra un tweet con la foto della copertina del libro sulle fake news altrui di George (2 mila e 300 prenotazioni per la presentazione in Florida) e un post con l'intervista di lei alla Verità, c'è spazio per qualche tweet sui servizi occidentali che avrebbero da temere quando la verità sarà davvero svelata. Guardare il 'Russia-Gate 2 La vendetta' come un film non è un modo di sminuirlo. In realtà spiega la particolarità di questo caso di spionaggio internazionale 2.0. E forse aiuta a comprendere meglio le sue finalità e la sua fine più probabile. Se fosse davvero stato scritto da uno sceneggiatore filo-Trump, la sua fine potrebbe essere l' uscita pubblica di un rapporto governativo che rappresenta una contro-verità ufficiale pronta da essere rilanciata da tv e social. Magari sarà una trama poco convincente per i lettori del Nyt e del Washington Post ma quelli tanto votano a sinistra. Il pubblico delle tv e del web invece potrebbe essere conquistato da questa narrazione pop. I protagonisti perfetti del film ci sono già.

Francesco Bei per ''la Stampa'' il 25 ottobre 2019. Una prima cosa va subito detta: la volpe non è finita in pellicceria. Giuseppe Conte ha affrontato un appuntamento molto complicato come la deposizione al Copasir sul Russiagate giocando bene in difesa. Soprattutto trasformando la conferenza stampa successiva in un contrattacco che ha investito in pieno Matteo Salvini sui suoi viaggi a Mosca. Chi di Servizi ferisce, verrebbe da dire Ma restando alla questione principale, l' apologia del presidente del Consiglio ha certamente messo dei punti fermi utili alla ricostruzione della storia. A differenza della vicenda ucraina, che sta imbarazzando l' amministrazione americana per via della telefonata tra Trump e il presidente Zelensky, in questo caso la richiesta di informazioni da Washington è arrivata attraverso normali canali diplomatici. Ovvero è stato l' ambasciatore italiano in Usa, Armando Varricchio, a trasmetterla a Roma. Tutto protocollato, insomma. Per di più, ha aggiunto Conte, il contatto risale a giugno. Una precisazione importante, perché retrodata di due mesi l' istanza di informazioni e la slega temporalmente dalla successiva crisi di governo italiana, le cui avvisaglie sono dei primi di agosto. L' attenzione alle date è importante, perché una delle accuse a Conte era quella di essersi mosso in una logica di scambio politico con Trump. Brutalmente, il premier italiano - nel bel mezzo della crisi di governo - avrebbe messo Aisi e Aise al servizio degli americani in cambio dell' appoggio politico alla sua riconferma a palazzo Chigi (il famoso tweet di Trump su «Giuseppi»). Ma se la richiesta risale a giugno, il teorema del do ut des crolla. Quanto al merito, stando a Conte i capi dei servizi segreti italiani avrebbero dichiarato a Barr l' estraneità dell' Italia alla vicenda Russiagate. Compreso il ruolo del soi-disant professor Mifsud, il misterioso maltese che sembra evaporato nelle nebbie di Mosca. Se il presidente del Consiglio si è esposto in maniera così netta davanti al Copasir c'è da pensare che sia sicuro del fatto suo, anche perché si sa che in America uscirà tra non molto un dettagliato rapporto dello stesso ministro di Giustizia William Barr. Ed è chiaro che se da quelle carte dovesse uscire una verità diversa, per Conte le cose si metterebbero male. L'unico punto su cui il presidente del Consiglio è apparso meno convincente è invece proprio riguardo al ruolo di Barr, considerato che un' altra delle accuse mosse all' inquilino di palazzo Chigi è stata quella di aver costretto i Servizi italiani a fare da caudatari di un politico straniero. Nient' affatto, ribatte Conte, perché Barr è venuto a Roma come Attorney general, che non è la stessa cosa che Guardasigilli avendo egli anche la responsabilità delle attività dell' Fbi, «una delle 16 agenzie di Intelligence» d' Oltreoceano. Insomma, Conte suggerisce che il ministro della Giustizia non era da noi come membro dell' amministrazione e braccio destro di Trump, ma come capo del controspionaggio a incontrare i suoi colleghi 007. Tesi quanto meno ardita, dato che l' Fbi ha una sua testa operativa, Christopher Wray, che è quella titolata a dialogare con i suoi omologhi esteri. Un anello debole nella ricostruzione di Conte dunque c' è, ma non tale da compromettere l' intera catena di eventi. Sta di fatto che 'a nuttata sembra passata, la Lega ha provato a sparare contro Conte il missile Copasir (utilizzando anche la presidenza Volpi) ma il bersaglio è stato mancato. E sembra ora difficile per l' opposizione tenere ancora sulla graticola il premier su questa vicenda. In cambio Salvini e la storia mai chiarita del Metropol sono tornati di nuovo sotto i riflettori.

(ANSA il 24 ottobre 2019) - "A Conte ho finito di rispondere. Faccia il presidente del Consiglio se è in grado di farlo": lo ha detto Matteo Salvini dopo gli ultimi sviluppi del Russiagate. Salvini è a Valfabbrica per un'iniziativa per le regionali. "E' strano che uno interrogato sui suoi atti risponda insultando il prossimo" ha aggiunto il segretario della Lega. "Credo che in generale sia giusto continuare con il progetto di commissione d'inchiesta dei fondi dati alle forze politiche in tutti questi anni e sono sono d'accordo con il presidente Conte che l'unico Russiagate che esista è quello che riguarda la Lega e Matteo Salvini": lo ha detto Luigi Di Maio a Terni. "Giuseppe Conte, ieri al Copasir - ha detto ancora Di Maio -, ovviamente conosciamo quanto detto dopo in conferenza stampa, ha raccontato nei minimi particolari di come ci sia stata una interlocuzione a livello istituzionale come è normale che sia tra due Paesi alleati. Quindi come M5s siamo pienamente soddisfatti delle spiegazioni date dal presidente del Consiglio. Mi sembra un pò assurdo che chi non ha mai avuto il coraggio di presentarsi in Parlamento per spiegare il Russiagate ma non ha nemmeno mai avuto il coraggio di venire in commissione antimafia, come Matteo Salvini che è stato convocato come ministro dell'Interno per circa un anno, adesso chieda trasparenza a chi ha sempre garantito la trasparenza. Anche per lui. ricorderete che il presidente del Consiglio è andato in Senato a dare spiegazioni su Savoini al posto del suo ministro dell'Interno che non ebbe il coraggio di farlo. Nemmeno di dare quelle informazioni che Conte aveva richiesto per riferire in Senato. Questa è la situazione - ha concluso Di Maio - abbastanza surreale". "Al netto del fatto che i "pieni poteri" non sono contemplati dal nostro attuale sistema democratico, ci chiediamo come sia possibile che Salvini chieda agli italiani - e agli umbri, in questi giorni - la possibilità di governare, e poi non faccia chiarezza su questioni estremamente delicate come "Moscopoli". Si parla di presunti finanziamenti alla Lega: Salvini deve chiarire con senso di responsabilità e serietà istituzionale, e non attaccare i giornalisti di Report che hanno fatto il loro lavoro". Così in una nota il deputato questore alla Camera del MoVimento 5 Stelle Francesco D'Uva. "Credo che Salvini abbia già detto di non aver ricevuto nessuno sostegno finanziario dalla Russia e a me questo lo ha confermato personalmente Putin". Lo afferma Silvio Berlusconi in un'intervista a Rainwes nel corso della campagna elettorale in Umbria a chi gli chiede se Salvini debba chiarire la vicenda dei finanziamenti russi alla Lega. È davvero singolare che la Lega attacchi Report per l'inchiesta andata in onda; che attacchi la libertà di informazione mentre, dall'altra parte, Salvini continua a contraddirsi e a non rispondere alle domande sul presunto 'tangentone' da 65 milioni di dollari che, secondo gli inquirenti, sarebbe stato concordato all'Hotel Metropol di Mosca tra Gianluca Savoini (in nome e per conto della Lega), amico da 30 anni e uomo di fiducia del capo del Carroccio, e tre russi. Cosa c'è che non va giù alla Lega? Per caso il servizio di Report è scomodo, apre a nuovi scenari e fa rumore? Salvini piuttosto risponda alle domande ed eviti di prendersela con chi fa il proprio mestiere. Cosa nasconde allora? Perché è naturale chiedersi a questo punto cosa stia nascondendo". Così M5s incalza sul blog il leader della Lega, facendogli 4 domande. "Uno dei punti chiave dell'inchiesta di Report riguarda la cena tra Salvini e Savoini. Già lo scorso luglio Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera - si legge sul blog - scriveva di quell'incontro avvenuto proprio la sera precedente la riunione all'hotel Metropol di Mosca, il 17 ottobre 2018. Lo staff leghista ha smentito, Salvini come al solito ha detto di non saperne nulla ma Fabrizio Candoni, fondatore di Confindustria Russia, ha però raccontato 'di essere stato invitato all'hotel Metropol e di aver sconsigliato a Salvini, invitato anche lui, di andare'. Pare proprio che tutti sapessero che ci sarebbe stata quella riunione, compreso Salvini. E allora perché negarlo pubblicamente?". Salvini, aggiunge M5S, "ha fatto credere di non conoscere Gianluca Savoini per mesi e poi si scopre che è suo amico da 30 anni e lasciato intendere di non saperne nulla di Savoini in Russia e poi si scopre che ci è andato a cena la sera prima della presunta trattativa al Metropol. Quindi avrebbe già mentito!".

Ilario Lombardo per ''la Stampa'' il 24 ottobre 2019. (…) Per Salvini la durezza dei toni usati in conferenza stampa tradirebbero «un nervosismo» intravisto in Conte solo nei giorni fatali per la Lega della crisi di governo, ad agosto. «Forse perché sanno che il M5s e la sua maggioranza stanno per perdere di brutto l' Umbria?» si chiede il leghista. Ma il capo del Carroccio, come ha confidato ai suoi, a questo punto è soprattutto «curioso di sapere cosa dirà la prossima settimana al Copasir Gennaro Vecchione, (il capo del Dis, che coordina i servizi segreti italiani, ndr). Magari ci saranno delle contraddizioni tra le versioni fornite, magari ha qualcosa da nascondere». Era stato Vecchione, su richiesta di Conte, che mantiene la delega all' intelligence, a incontrare Barr per due volte, a metà agosto e a fine settembre. E' lui dunque il protagonista diretto che può testimoniare cosa si siano detti con gli americani e quali informazioni si siano scambiati. Ma in questa sfida tra i due ex alleati, sempre più apertamente antagonisti, non mancano altre sorprese. La Lega infatti è intenzionata a tornare su un altro filone che coinvolge il presidente del Consiglio. «Perché invece di diffondere tutti questi sospetti Conte non risponde sulla storia della fattura firmata con Alpa?». La domanda se la pone Salvini ed è la stessa al centro dell' interrogazione parlamentare depositata il 3 ottobre dalla senatrice Lucia Borgonzoni. Rispunta fuori ora, non solo come arma per la controffensiva su Conte. Nella Lega da giorni si parla insistentemente di documenti, pronti a essere pubblicati in un libro, che proverebbero che il capo del governo avrebbe mentito alle telecamere delle Iene, andate a chiedergli conto di una fattura cofirmata con Guido Alpa. La storia, si ricorderà, riguarda un presunto conflitto di interessi tra Conte e il famoso avvocato. Nel 2002 Alpa è membro della commissione giudicatrice del concorso per la cattedra di professore ordinario all' Università L. Vanvitelli dal quale Conte esce idoneo. Nello stesso anno entrambi i professori ricevono diversi incarichi di patrocinio. Ma c' è un caso che finisce nel mirino delle inchieste giornalistiche e poi dell'interrogazione del Carroccio: è un incarico per il patrocinio del Garante della Privacy contro la Rai, sessanta giorni prima del concorso. Conte ha smentito che già allora ci fossero rapporti commerciali con Alpa e ha riferito che ai quei tempi condividevano semplicemente l' indirizzo professionale e una segreteria. La prova, secondo la Lega, che starebbe nascondendo la verità è in diversi progetti di parcella (che più volgarmente sarebbero le fatture proforma) firmati da entrambi e su carta cointestata, riferiti proprio ai patrocini prestati al Garante. «Può escludere che esistano? Perché Conte che parla tanto di trasparenza non risponde» si chiede Salvini. Nel frattempo anche le Iene hanno provato a scovare la fatture ma si sono viste respingere prima la richiesta di accesso agli atti al Garante, poi il ricorso presentato di fronte al Tar.

Russiagate, ecco  la lettera: Barr chiese  al premier Conte verifiche sugli agenti Fbi. Pubblicato giovedì, 24 ottobre 2019 da Corriere.it. «Verificare il ruolo svolto da personale Usa in servizio in Italia senza voler mettere in discussione l’operato delle autorità italiane e l’eccellente collaborazione»: eccola la richiesta presentata nel giugno scorso dal ministro della Giustizia William Barr a palazzo Chigi sul Russiagate. La lettera, datata 17 giugno, è stata inoltrata al presidente del Consiglio Giuseppe Conte dall’ambasciatore a Washington Armando Varricchio. Non c’è stato alcun passaggio attraverso la Farnesina, il canale è stato diretto e il premier ha autorizzato ai colloqui il capo del Dis Gennaro Vecchione. «Non abbiamo fornito alcuna informazione riservata», ha ribadito Conte di fronte al Copasir. Ma dagli Stati Uniti arriva una diversa versione. Ad accreditarla è Fox News, televisione ritenuta vicina al presidente Donald Trump: «Durante una delle due visite effettuate a Roma, il 15 agosto e il 27 settembre, per incontrare i vertici dell’intelligence italiana, Barr e il procuratore John Durham hanno raccolto nuove prove per la loro contro-inchiesta sul Russiagate. Poi hanno deciso di ampliare il raggio della loro inchiesta sulle origini dell’indagine Fbi del 2016 sulle collusioni con la Russia». Quanto basta per comprendere come la vicenda non sia affatto conclusa e che il rapporto finale di Barr — che potrebbe essere pubblicato entro qualche settimana — potrebbe riservare nuove e clamorose sorprese. Al centro dell’attenzione degli Stati Uniti c’era in particolar modo un agente dell’Fbi che nel 2016 lavorava nella capitale. Durante i colloqui Barr avrebbe chiesto di conoscere i suoi contatti con l’intelligence italiana ma anche verifiche su eventuali rapporti con Joseph Mifsud, il professore che rivelò per primo allo staff di Trump l’esistenza di mail compromettenti di Hillary Clinton in possesso dei russi. Fu proprio l’Fbi a indagare sui contatti tra Trump e i russi durante la campagna per le presidenziali del 2016. E dunque Mifsud — questo è il sospetto di Barr - potrebbe essere stato la loro «talpa» per screditare Trump. «Abbiamo svolto verifiche ma non abbiamo trovato nulla», ha sostenuto Conte. Barr dice il contrario e ora si dovrà accertare che cosa sia accaduto tra il 17 giugno e il 27 settembre. Anche tenendo conto che il canale tra Varricchio e il premier è stato di «massima riservatezza» che coinvolge subito anche Vecchione. E sarà lui, adesso a dover riferire al Copasir che tipo di verifiche abbia svolto, a chi le abbia affidate e con quale risultato. Il suo primo incontro con Barr avviene a ferragosto.Un faccia a faccia che però non esaurisce i contatti. Subito dopo Vecchione chiede ulteriori verifiche alle due agenzie di intelligence: l’Aise diretta da Luciano Carta e l’Aisi guidata da Mario Parente. In almeno due occasioni i tre direttori affrontano l’argomento con Conte. Poi, tutti insieme, ricevono Barr e Dhuram nella sede del Dis. È il 27 settembre scorso. Adesso dovranno riferire al Copasir quali informazioni abbiano consegnato agli Stati Uniti. Consapevoli che la loro versione sarà poi confrontata con quella del «rapporto Barr».

Russiagate, l'indagine di Barr diventa un'inchiesta giudiziaria. Secondo Fox News l'inchiesta si è allargata grazie alle prove ottenute dopo gli incontri a Roma con gli 007 italiani. La Repubblica il 25 ottobre 2019. L'indagine guidata dal ministro della Giustizia statunitense William Barr sulle origini del Russiagate è diventata un'inchiesta giudiziaria. Lo riportano i principali media statunitensi. L'inchiesta sulle origini del Russiagate, per determinare da dove sia partita l'indagine dell'Fbi sulle presunte collusioni tra Donald Trump e il Cremlino durante le presidenziali del 2016, è stata affidata da Barr al procuratore John Durham che ora ha il potere di emettere ordini di comparizione, rinviare a giudizio e convocare un gran giurì. Il dossier, che a detta del presidente Donald Trump "potrebbe coinvolgere anche l'Italia", è stato aperto lo scorso maggio come indagine preliminare. Il New York Times, che per primo ha dato la notizia dell'avvenuta metamorfosi dell'inchiesta, non ha precisato la tempistica. Durham sta passando al setaccio le testimonianze di funzionari ed ex funzionari dell'intelligence coinvolti nell'inchiesta di Mueller. I fari sono stati puntati anche sugli analisti che denunciarono il coinvolgimento di Mosca negli hackeraggi ai danni dei democratici nel 2016. Durham ha rinforzato la sua squadra ed esteso l'arco temporale dell'investigazione, abbracciando pure il periodo successivo all'arrivo di Trump alla Casa Bianca nel gennaio del 2017, stando ad anticipazioni di stampa che parlano di un braccio di ferro tra la Cia e il dipartimento di Giustizia americano sui documenti classificati che Barr vuole vagliare. L'indagine dell'Fbi sulle interferenze di Mosca era scattata nel luglio del 2016 e l'improvviso licenziamento dell'allora capo del Bureau, James Comey, portò alla nomina dello speciale procuratore Robert Mueller nel maggio del 2017. Mueller non ha stabilito che vi sia stata collusione tra la campagna presidenziale di Trump e il Cremlino ma ha evidenziato una serie di "contatti inappropriati" tra advisor del tycoon e i russi. "Il nostro Paese sta indagando sulla corruzione delle elezioni del 2016", ha spiegato Trump che sospetta un complotto ai suoi danni orchestrato dall'amministrazione di Barack Obama , anche "andando in altri Paesi per cercare di nascondere quello che stavano facendo". Il premier italiano, Giuseppe Conte, dopo aver riferito al Copasir, ha confermato gli incontri di Barr a Roma con i vertici dei servizi il 15 agosto e 27 settembre scorsi ma ha escluso "qualsiasi coinvolgimento" dell'Italia nel Russiagate. Anche se secondo Fox News l'indagine dell'attorney John Durham sulle origini dell'inchiesta dell'Fbi sul Russiagate "si è allargata sulla base di nuove prove scoperte durante il suo recente viaggio a Roma con il ministro della giustizia William Barr". Durante il viaggio  i due hanno incontrato i dirigenti dei servizi di intelligence italiani. Le stesse fonti riferiscono che ora Durham è "molto interessato" a sentire James Clapper e John Brennan, direttori rispettivamente della National Intelligence e della Cia quando il controverso dossier dell'ex spia britannica Christopher Steele, pagato dalla campagna di Hillary Clinton e dal partito democratico, fu usato per intercettare l'ex consigliere di Trump Carter Page.

Giuseppe Conte, Fox News lo smentisce sui servizi segreti: "Fornite informazioni agli Stati Uniti". Libero Quotidiano il 25 Ottobre 2019. Per Giuseppe Conte la posizione si complica. La vicenda è quella dei servizi segreti e delle ingerenze Usa. Ora, infatti, spunta la lettera datata 17 giugno, di cui dà conto il Corriere della Sera, inoltrata al premier Conte dall'ambasciatore a Washington Armando Varricchio, senza alcun passaggio per la Farnesina. La missiva riportava la seguente richiesta: "Verificare il ruolo svolto da personale Usa in servizio in Italia senza voler mettere in discussione l'operato delle autorità italiane e l'eccellente collaborazione". Ma la posizione di Conte si complica per altro, per quanto viene rilanciato da Fox News, una televisione ritenuta vicina a Donald Trump (anche se, nel caso, non sembra esserlo). Il punto è che il premier, al Copasir, ha assicurato: "Non abbiamo fornito alcuna informazione riservata" agli Stati Uniti. Ma Fox News, appunto, dà conto di una verità differente: "Durante una delle due visite effettuate a Roma, il 15 agosto e il 27 settembre, per incontrare i vertici dell'intelligence italiana, Barr e il procuratore John Durham hanno raccolto nuove prove per le loro contro-inchiesta sul Russiagate - fa sapere l'emittente -. Poi hanno deciso di ampliare il raggio della loro inchiesta sulle origini dell'indagine Fbi del 2016 sulle collusioni con la Russia". Insomma, la vicenda è tutt'altro che conclusa. E Giuseppe Conte, ora, suda freddo. Fox News lascia chiaramente intendere che il rapporto finale di William Barr, il ministro della Giustizia, potrebbe riservare nuove e clamorose sorprese, dalle quali il presidente del Consiglio potrebbe essere travolto. Il rapporto finale, per inciso, dovrebbe essere pubblicato entro qualche settimana.

 “Vi racconto il complotto contro Trump”. Roberto Vivaldelli il 25 ottobre 2019 su it.insideover.com. Lee Smith è un giornalista investigativo americano di grande esperienza, fellow senior dell’Hudson Institute e già collaboratore di testate come Real Clear Investigations, the Federalist, e New York Post che tra pochi giorni pubblicherà negli Stati Uniti un libro destinato a lasciare il segno: si chiama The Plot Against the President: The True Story of How Congressman Devin Nunes Uncovered the Biggest Political Scandal in U.S. History ovvero Il complotto contro il Presidente: la vera storia di come il deputato Devin Nunes ha scoperto il più grande scandalo politico nella storia degli Stati Uniti. Un libro che fa luce, attraverso documenti inediti, sull’origine delle indagini sul Russiagate del 2016, esattamente ciò su cui stanno indagando il ministro della giustizia William Barr e il Procuratore John Durham – e che potrebbe coinvolgere anche l’Italia. L’indagine di Barr, infatti, ha lo scopo di accertare se funzionari di alto rango in varie agenzie governative americane hanno abusato del loro potere al fine di condurre una raccolta di informazioni illecita su una campagna presidenziale a fini politici, nonché di chiarire il ruolo dei servizi segreti dei Paesi alleati degli Stati Uniti sopra citati. Lee Smith ha collaborato nella stesura di questo libro che uscirà a fine mese con il parlamentare Devin Nunes, che non è un deputato qualunque ma è a capo della minoranza repubblicana del Comitato di Intelligence della Camera degli Stati Uniti. Smith ha concesso un’intervista esclusiva a Inside Over nella quale ci anticipa i contenuti del suo lavoro, con alcune rivelazioni esplosive, confermandoci l’esistenza di una cospirazione ai danni del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump. “Come racconto nel mio libro – racconta Smith – c’è stata un’operazione contro la campagna di Trump che è iniziata tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016. Ha coinvolto collaboratori della campagna di Clinton, funzionari dell’amministrazione Obama e della stampa. Lo scopo dell’operazione era di diffamare Trump e i suoi consiglieri della Campagna – Michael Flynn, Paul Manafort, Carter Page, George Papadopoulos, ecc. – e dipingerli come agenti russi. E spiare la Campagna”. Dopo che Trump ha vinto le elezioni, sottolinea, “questa operazione si è trasformata in un colpo di stato: vari funzionari dell’intelligence statunitense hanno tentato di destituire il presidente degli Stati Uniti”.

“Vi spiego il complotto contro Donald Trump”. Partiamo di un dato di fatto incontestabile. Donald Trump è stato “spiato” dalle agenzie federali. “Sappiamo per certo che l’Fbi ha spiato Trump – spiega Smith – Hanno ottenuto un mandato nell’ottobre 2016 per spiare il consulente di Trump Carter Page, e questo ha permesso loro di accedere alle comunicazioni della campagna. Il mandato è durato fino a settembre 2017”. Inoltre, il Bureau ha usato un’altra fonte per spiare la campagna di The Donald, il controverso Stefan Halper, che secondo il libro di Lee Smith, “ha un ruolo centrale nell’operazione anti-Trump”. Operazione alla quale hanno partecipato anche agenti o agenzie straniere di intelligence? “Vi sono certamente funzionari stranieri che hanno partecipato all’operazione, come il diplomatico australiano Alexander Downer e vari funzionari ucraini. C’erano anche ex funzionari dell’intelligence occidentale coinvolti, come l’ex spia dell’MI6 Christopher Steele”. Tuttavia, al momento non ci sono ancora prove del fatto che i servizi di intelligence occidentali, oltre alle agenzie di intelligence statunitensi, “abbiano avuto un ruolo nel complotto anti-Trump”. E a proposito del già citato Christopher Steele: il giornalista ci racconta un’anticipazione clamorosa contenuta nel suo lavoro. “Ci sono molte importanti rivelazioni contenute nel mio libro, in particolare riguardo alle indagini condotte dal deputato Devin Nunes e dal suo staff. Ci sono anche diverse questioni che ho scoperto con le mie indagini. Tra tutte, sembra chiaro che l’ex ufficiale dell’intelligence britannica Christopher Steele non sia l’autore del dossier che porta il suo nome”.

“Ecco la verità su Mifsud e William Barr. L’Italia sa più di quello che dice”. Al centro dell’indagine di William Barr e John Durham, come abbiamo più volte sottolineato, c’è il docente maltese Joseph Mifsud e la sua rete di relazioni. A tal proposito, osserva Lee Smith, è chiaro che “gli italiani sanno molto di Mifsud”. Era amico, sottolinea, “di personaggi politici italiani molto noti”, come Gianni Pitella o “Vincenzo Scotti, presidente della Link. Tra i suoi colleghi della Link c’erano altre importanti figure italiane, come Elisabetta Trenta, l’ex ministro della Difesa. Quindi, sospetto che gli italiani siano tanto ansiosi quanto l’amministrazione Trump di scoprire cosa sia successo esattamente”. Secondo il giornalista americano, “il governo italiano è stato molto collaborativo” e ha interagito “attraverso i canali appropriati”. Sui viaggi dell’Attorney general Barr a Roma e gli incontri con i nostri servizi, Smith osserva: “Il procuratore generale sembra intenzionato a scoprire cosa è successo. I suoi viaggi all’estero e le conversazioni con funzionari stranieri, compresi quelli italiani, dimostrano che le sue indagini sono molto serie e che è coinvolto personalmente. Il procuratore generale degli Stati Uniti non viaggia all’estero per motivi frivoli. Se è venuto in Italia, era perché stava cercando qualcosa di vitale per l’indagine”. E come abbiamo riportato su questa testata, pare sia proprio così…

Impeachment, perché l’inchiesta Barr coinvolge anche l’Italia. Pubblicato venerdì, 25 ottobre 2019 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. E’ un’offensiva a tutto campo quella messa in campo dalla Casa Bianca per contrastare l’impeachment contro Donald Trump e presentare la «messa in stato d’accusa del presidente» come un complotto politico per scongiurare la sua rielezione nel 2020. L’amministrazione Usa gioca in difesa, certo, intimando per esempio ai suoi funzionari di non testimoniare al Congresso nell’inchiesta di impeachment : il New York Times pubblica oggi la lettera ricevuta da una dirigente del Pentagono, Laura Cooper, in cui il dipartimento della Difesa la esortava a non testimoniare. Per sabotare le indagini ieri alcuni deputati repubblicani hanno bloccato i lavori delle commissioni della Camera che stavano svolgendo le audizioni. Soprattutto però la Casa Bianca va al contrattacco e affila le armi per rompere l’accerchiamento messo in atto dai due «gate» che minano la sopravvivenza politica di Trump: il Russiagate e il Kievgate. Anche se l’indagine dell’Fbi sulle interferenze di Mosca per favorire la vittoria di Trump nel 2016 si è conclusa senza poter approdare alla richiesta formale di impeachment, il suo esito ha gettato un’ombra pesante su The Donald: l’inchiesta del procuratore speciale Robert Mueller non ha infatti raccolto «prove sufficienti» per dimostrare la collusione tra Trump e i russi, ma non ha nemmeno escluso che il presidente abbia ostacolato il corso della giustizia, evidenziando anzi una serie di «contatti inappropriati» tra consiglieri del tycoon e i russi. Le rivelazioni sulla telefonata di Trump al presidente ucraino Zelensky hanno poi aperto il fronte di Kiev, e offerto la base che prima mancava per chiedere l’impeachment: una prova delle presunte pressioni esercitate da Trump su governi stranieri per danneggiare i principali avversari politici e ottenere tornaconti personali. La procedura di messa in stato d’accusa del presidente è stata avviata un mese fa dai democratici alla Camera: Trump è accusato di aver chiesto all’Ucraina di indagare sul figlio di Joe Biden per screditare il rivale, suo probabile sfidante alle elezioni del 2020. Una richiesta avanzata sotto ricatto: l’amministrazione Trump potrebbe aver bloccato non solo gli aiuti militari all’Ucraina ma anche i privilegi commerciali, si apprende oggi dai media Usa. L’ultimo, importante, atto della controffensiva della Casa Bianca in vista del verdetto sull’impeachment, riguarda la svolta sullo status dell’indagine sulle origini del Russiagate: la contro inchiesta guidata dal ministro di Giustizia statunitense William Barr è diventata penale. Le indagini per determinare da dove sia partita l’indagine dell’Fbi sulle presunte collusioni tra Trump e il Cremlino durante le presidenziali del 2016 sono state affidate da Barr al procuratore John Durham che ora ha il potere di emettere ordini di comparizione, rinviare a giudizio e convocare gran giurì. Un deterrente per qualsiasi testimone. Anche l’Italia ora risulta coinvolta. A Roma secondo la Casa Bianca sarebbero custodite le prove del presunto complotto anti-Trump.Roma, come dimostra la lettera di Barr al premier Conte pubblicata oggi dal Corriere, è una tappa-chiave della contro-inchiesta voluta dal presidente Usa sulle origini del Russiagate. Non a caso, tra settembre e ottobre, a Roma sono arrivati a Roma tre altissimi funzionari Usa: il Segretario di Stato Mike Pompeo, William Barr e lo stesso Durham. Il New York Times ha spiegato così la missione degli ultimi due: «Cercare prove che potessero sostenere la tesi a lungo coltivata da Trump: che alcuni dei più stretti alleati dell’America avevano cospirato con i nemici dello “Stato Profondo” per impedirgli di vincere la presidenza». Un complotto ai suoi danni orchestrato, a suo dire, dall’amministrazione di Barack Obama.

Antonio Grizzuti per “la Verità” il 25 ottobre 2019. Solo una manciata di chilometri separano la basilica di San Pietro dalla sede della Link campus university, l' ateneo privato romano assurto agli onori delle cronache internazionali per i legami con il misterioso professore maltese Joseph Mifsud, personaggio chiave della presunta cospirazione internazionale ai danni di Donald Trump. Ma la vicinanza tra questi due mondi, solo in apparenza assai diversi, non è solo fisica. A partire dalla struttura stessa che ospita l' ateneo, la cui costruzione fu commissionata dal cardinale Antonio Ghislieri, eletto pontefice nel 1566 con il nome di Pio V. Venendo ai giorni nostri, l' affinità tra i due dirimpettai dell' Oltretevere non si limita al campo dell' architettura. A suggellare questo sodalizio, la presenza nell' organigramma del campus di uno dei protagonisti di spicco della «movida» geopolitica del Vaticano. Stiamo parlando di monsignor Vincenzo Paglia, già vescovo di Terni-Narni-Amelia e presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia, dal 2016 presidente della Pontificia Accademia per la vita. Degno di nota, nel 2015, il suo coinvolgimento nell' indagine, finita poi con un nulla di fatto, relativa alla compravendita (illegittima secondo l' accusa) del castello di San Girolamo a Narni. Vicino alla Comunità di Sant' Egidio, pochi mesi fa Paglia è finito al centro delle polemiche per le «purghe» che hanno colpito molti docenti di lungo corso all' Istituto Giovanni Paolo II. Scorrendo la visura camerale aggiornata della fondazione Link campus university, il suo nome figura nell' elenco dei membri del consiglio di amministrazione. La fondazione è tutt' altro che un orpello culturale dell' ateneo vero e proprio. Come si legge sul sito ufficiale, infatti, nel passato questa ha «promosso la trasformazione in "Università degli Studi", non statale, legalmente riconosciuta». Oltretutto, i componenti del cda della fondazione siedono di diritto nel consiglio di amministrazione della Link, presieduto dal patron Vincenzo Scotti. L' atto di nomina di Paglia risale, a quanto si apprende dal camerale, al 14 gennaio 2019, mentre la scadenza dell' incarico è stabilita all' approvazione del bilancio (stimata al 31 dicembre 2020).

Ma cosa ci fa un alto prelato nell' organo di gestione dell' ateneo più discusso d' Italia?

Una domanda che la Verità ha rivolto al diretto interessato. Per il tramite del suo segretario, monsignor Paglia ha fatto sapere che l' ingresso nel cda della fondazione è avvenuto «per via delle sue conoscenze nell' ambito internazionale, dietro invito del dottor Scotti», con il quale «si conosceva da tempo». Dalla segreteria del presule, comunque, ci tengono a far sapere che per motivi di tempo Paglia non ha mai partecipato alle riunioni del consiglio e pertanto, di comune accordo con Scotti, una decina di giorni fa ha deciso di rinunciare all' incarico. Tempismo perfetto, non c' è che dire. Non possiamo che fidarci delle dichiarazioni del monsignore, dal momento che dagli atti ufficiali le dimissioni ancora non risultano. Senza dubbio, Paglia e Scotti hanno avuto occasione di incontrarsi svariate volte nell' ambito di contesti istituzionali. Nel 2008, ad esempio, in occasione della Giornata mondiale della pace a Mazara del Vallo, e alla conferenza «Interethnic city» svoltasi a giugno del 2011 in Campidoglio a Roma, presente anche l' allora segretario dell' Onu Ban Ki Moon. Particolare curioso: nel 2009 Paglia partecipò a un incontro organizzato dal ministero degli Esteri in collaborazione con la Link, al quale presenziò, oltre a Vincenzo Scotti, anche Joseph Mifsud.

Qualcuno potrebbe pensare che la presenza di monsignor Paglia sia solo un caso. Non c' è solo la sua figura però a corroborare la tesi secondo la quale i rapporti tra la Link e il Vaticano, almeno negli ultimi tempi, siano diventati sempre più stretti. Dal 2017 l' ateneo ha attivato il corso di Geopolitica vaticana, tenuto da Piero Schiavazzi. Vaticanista per Huffington Post e Limes, Schiavazzi può vantare una brillante carriera nell' organizzazione di eventi che hanno visto coinvolte molte alte sfere ecclesiastiche. Tanto per fare qualche nome: monsignor Stefano Russo, segretario generale della Cei; padre Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica; monsignor Nunzio Galantino, predecessore di Russo e attuale gestore del patrimonio della Santa Sede; monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione; e infine il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato di papa Francesco. Un lungo elenco dal quale, ovviamente, non poteva mancare monsignor Vincenzo Paglia.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 6 novembre 2019. C'era molta fibrillazione, agli inizi del marzo 2018, nei corridoi della Link campus university. In quei giorni Luigi Di Maio aveva appena presentato la sua «proposta di governo» M5s con ministri in pectore provenienti dal corpo docente del piccolo ateneo romano (Elisabetta Trenta andrà effettivamente alla Difesa nel Conte 1, mentre nel Conte 2 diventerà sottosegretario Angelo Tofalo, studente del master di Intelligence). Le elezioni del 4 marzo segnano la vittoria travolgente dei grillini e il tracollo del Pd. Si fa festa. E il giorno dopo, lunedì 5 marzo, Vanna Fadini, a capo della Global education management srl (Gem), la cassaforte della Link, corre in banca per comunicare l'imminente arrivo di un maxi-bonifico di 9 milioni di euro da Malta. Un accreditamento fantasma visto che non sarà mai registrato. Questi soldi aleggiano sul Casale San Pio V, sede dell' ateneo nei giorni in cui sulla stampa italiana divampa il Russiagate e iniziano a girare sui media i nomi del misterioso avvocato Stephan Claus Roh e dell' introvabile «professore» maltese Joseph Mifsud, assurto agli onori delle cronache già nell' autunno 2017 per il presunto ruolo di complottardo contro Hillary Clinton e, successivamente, come cospiratore anti Donald Trump. Sia Roh che Mifsud erano legati alla Link campus university e adesso li ritroviamo nella nostra storia. Torniamo a quel lunedì post elezioni. Superati i metal detector all' ingresso, la Fadini, amministratore e titolare del 77% della Gem (la signora detiene anche il 60% della Link consulting srl), si dirige con passo sicuro verso l' ufficio del direttore della banca. Con sé ha due delibere assembleari per giustificare la transazione dall' estero. «È l' aumento di capitale della società», spiega la donna al direttore dell' istituto. E annuncia che una sigla maltese, la Suite Finance Scc Plc, è stata cooptata come socio nella compagine che si occupa di gestire i servizi dell' università. Come detto, però, quel denaro non passerà mai sui conti della società. Perché?

Per saperne di più abbiamo provato a contattare la Fadini. Ma la signora ha la stessa reperibilità di uno spettro. Nel tempo ha cambiato più volte il numero del telefono e non accetta di ricevere domande dalla viva voce dei cronisti. Solo quesiti scritti, filtrati dal cordone di sicurezza che protegge la sua privacy. Ma la Fadini non è un comune soggetto privato, bensì l' ad di una società che gestisce i servizi e fa da cassaforte di un' università che riceve diversi milioni di contributi pubblici per i suoi master. Purtroppo la trasparenza non è di casa alla Link e così ci dobbiamo accontentare dei verbali di assemblea della Gem, per fortuna pubblici. Il 19 aprile 2018, un mese e due settimane più tardi dal suo passaggio in banca, l' imprenditrice annuncia ai soci di «aver individuato nella società di diritto maltese Suite Finance Scc Plc, con sede in Malta, il profilo idoneo cui proporre la sottoscrizione». In che modo e tramite chi abbia scelto proprio questa ditta, la donna non lo rivela. Almeno ufficialmente. Nel corso della medesima riunione, specifica solo «che detta società (la Suite, ndr) ha già espresso, come oggi conferma, il proprio impegno a procedere in tal senso entro breve termine». E infatti, nell' ufficio romano di via Cesare Beccaria dove si sta svolgendo l' assemblea, entra un uomo. La manager lo presenta: si chiama Gabriele Carratelli ed è lì «nella dichiarata qualità di amministratore e legale rappresentante» della società maltese. Dunque, in quel momento, tra la Gem e la Suite finance, esiste solo una dichiarazione d' intenti. Che però non verrà mai formalizzata, come spiega lo stesso Carratelli al nostro giornale: «L' operazione finanziaria non è andata in porto perché non era fattibile, non c' erano i presupposti». E la sua presenza all' assemblea dei soci a Roma, allora? «Per me, era un incontro preliminare. Poi l' iniziativa non si è conclusa ed è decaduta». E sul bonifico annunciato dalla Fadini, l' uomo d' affari specifica: «Può aver detto quello che ha detto, la realtà è che non abbiamo concluso alcun accordo. Non c' era un contratto firmato, mi sembra». Insomma l' aumento di capitale che il 5 marzo la Fadini dava per fatto, per Carratelli, pur presente in assemblea, non era «finanziabile». È possibile una tale fraintendimento su un' operazione di questo calibro? «Alla Link erano in attesa di soldi russi che dovevano arrivare da Malta», rammenta un ex docente della Link per anni molto addentro alle segrete cose. «Si vociferava che lo stesso Mifsud fosse coinvolto in questa storia. Non erano finanziamenti dell' Università Lomonosov, con cui c' era una collaborazione accademica, ma denari di qualche gruppo imprenditoriale russo» continua la nostra gola profonda.

Lo snodo per l' operazione avrebbe dovuto essere Malta. È utile, a questo punto, ritornare sulla figura di Carratelli. È un immobiliarista toscano che si è fatto le ossa tra Siena e Roma. A Malta è socio nella Suite finance insieme con tal Simone Rossi, un mediatore creditizio umbro. La loro società maltese compare nei Paradise papers, l'elenco di investimenti offshore effettuati in paradisi fiscali e attenzionati da un consorzio internazionale di giornalisti investigativi. L'azienda fa parte del Suite capital group, holding che «fornisce servizi finanziari alle imprese e una gestione degli investimenti su misura» con uffici nella Repubblica Ceca, in Svizzera e in Inghilterra, in pratica tutti Paesi a fiscalità agevolata. Da che cosa potesse nascere il loro interesse per la formazione universitaria in Italia non è dato sapere. Carratelli, con La Verità, si è limitato a ribadire che si è trattato di «operazione finanziaria non possibile».

Il socio Rossi - da quanto risulta al nostro giornale - ha pregiudizi di conservatoria e fallimenti a proprio carico. Strascichi giudiziari che lo accomunano proprio a colei che, dalla società maltese, attendeva con ansia i 9 milioni di euro di aumento di capitale per la Gem subito dopo l' exploit dei grillini alle Politiche. Una storia interessante, quella di Vanna Fadini.

La lady di ferro Originaria di Ferrara, 64 anni, inizia la scalata con una pellicceria di lusso a Roma. Poi passa al settore della comunicazione e diventa esperta di promozione territoriale. Il passaggio agli ambienti della politica è naturale. Un contestato incarico a Ragusa da 70 milioni di lire, ratificato nel 1996 dal ministero della Funzione pubblica, all' epoca guidato da Franco Frattini, le costa un' aspra citazione in una interrogazione parlamentare; nel 2008 i giornali la segnalano nei viaggi ufficiali della Farnesina insieme al sottosegretario Scotti. Anni dopo, Frattini diventerà membro del Cda e professore straordinario della Link, e lei la manager che ha in pugno i destini finanziari dell' Ateneo di cui Scotti è rettore.

Nel 2015, la Fadini finisce indagata in una inchiesta della Procura di Roma, con relativo sequestro preventivo, per omesso versamento delle ritenute alla fonte dal 2007 al 2009 per circa 839.000 euro sulla base dell' art. 10bis del d.lgs 74/2000. Ma ritorniamo ai verbali delle assemblee, gli unici documenti «certi» - nel senso che non spariscono come ha fatto Mifsud - di questa vicenda. L' aumento di capitale della Gem è un pensiero fisso della donna che già nella seduta del 4 agosto 2017 ne aveva parlato illustrando ai soci presenti il suo piano: passare da 18 milioni a 27 milioni e 652.000 euro, un allargamento da proporre «a terzi». Ad ascoltarla, quel giorno, c' è uno dei protagonisti del Russiagate, di cui la stampa italiana inizierà a occuparsi proprio nel marzo 2018: l' avvocato Roh. Attualmente è il legale di Mifsud (ha recentemente consegnato memoria e telefoni cellulari alle autorità Usa del suo assistito), ma in precedenza è stato ben altro. Natali tedeschi e residenza a Montecarlo con studi a Zurigo, Londra, Hong Kong e Berlino, fino al 2017 è stato consigliere della Link di cui è anche socio attraverso la londinese Drake global Ltd.

Nel 2016 l' avvocato tedesco, che si occupa prevalentemente di relazioni petrolifere con Mosca e che viene citato anche nei Panama papers, acquista il 5% della Gem da un dirigente della Link, Achille Patrizi, che ne deteneva il 23% (il restante 77 è saldamente nelle mani della Fadini) per 250.000 euro appena; un prezzo di almeno un terzo inferiore al valore nominale (900.000 euro). In cambio dello sconto - hanno spiegato dalla Link al Fatto quotidiano - il professionista avrebbe dovuto impegnarsi a trovare nuovi investitori interessati a rilevare il 44% della società per 20 milioni di euro. Alla Link, Roh porta in dote le sue relazioni internazionali: promuove l' accordo tra l' ateneo romano con la prestigiosa università Lomonosov di Mosca, dove ha studiato Vladimir Putin, e predispone un ambizioso master di moda in collaborazione con la moglie, ex modella russa proprietaria di una catena di boutique.

Esattamente dodici mesi dopo la riunione a cui partecipa Roh (agosto 2017), i tentativi infruttuosi di trovare all' esterno nuovi soci e il naufragio del patto con la Suite finance costringono la Gem a trovare un' altra soluzione per l' aumento del capitale da 18 milioni a 27. Incremento che, da visura camerale attuale, sembrerebbe andato a buon fine. Ma nella realtà è così. Come conferma l' ultimo bilancio societario, dove il capitale sociale è ancora fermo a 18 milioni, visto che l' aumento è sì stato deliberato, ma non è stato sottoscritto, né versato. «Devono ancora trovare i soldi», conferma con La Verità Scotti. E, riferendosi alla trattativa tra la Gem e la società maltese, anche lui ribadisce che «non si sono messi d' accordo sulle condizioni». Quindi aggiunge: «Ma non chieda a me, la società è privata e non deve spiegare nulla». Grazie a tanta trasparenza, il mistero del bonifico post elettorale resta, per ora, irrisolto.

Contro-inchiesta di Trump  «Com’è nato  il Russiagate?». Pubblicato venerdì, 25 ottobre 2019 su Corriere.it da Giuseppe Sarcina, da Washington. Il ministro della Giustizia Usa apre un’indagine penale contrapposta a quella dell’impeachment che riguarda il presidente americano. Il sistema giudiziario americano rischia il corto circuito. Il ministro della Giustizia, William Barr, ha aperto un’indagine penale per stabilire come e perché sia nato il Russiagate, l’inchiesta sui rapporti tra Donald Trump e Vladimir Putin. L’ipotesi è che spezzoni della Cia, dell’Fbi, dell’amministrazione Obama abbiano fabbricato una falsa accusa contro l’allora candidato repubblicano, sospettandolo di aver cospirato con i russi pur di danneggiare la candidatura di Hillary Clinton nel 2016. Nel complotto anti-Trump, pensano a Washington, potrebbero essere entrati anche i governi di Australia, Regno Unito e Italia. Per ora non c’è neanche il minimo indizio. Tuttavia Barr ha incaricato John Durham, esperto procuratore del Connecticut, di trasformare quella che era una «revisione amministrativa» in una procedura con pieni poteri investigativi. È una mossa clamorosa, senza precedenti. Durham e il suo team potranno montare un contro processo, una vera «azione parallela» all’impeachment di Trump. Sono in arrivo settimane di scontro politico e mediatico durissimo. Da una parte le commissioni della Camera, controllate dai democratici, cercheranno di dimostrare che Trump bloccò gli aiuti militari promessi a Kiev per ottenere dal nuovo leader Zelensky la riapertura del processo per corruzione a carico di Hunter Biden, figlio dell’ex vice presidente. Sull’altro fronte Durham, con la supervisione di Barr, potrà indagare, interrogare figure come gli ex capi dell’ Fbi, James Comey, della Cia, John Brennan, della National Security Agency, James Clapper. Facile immaginare che l’obiettivo finale sia Robert Mueller, il Super procuratore che ha scritto nel suo rapporto di non aver trovato «prove sufficienti» per dimostrare la collusione tra Trump e i russi, senza però «escludere» che il presidente avesse ostacolato il corso della giustizia. Il rimbalzo da uno schieramento all’altro è già iniziato. Dal Congresso si viene a sapere che l’ex consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, starebbe concordando i termini di una testimonianza per fare luce sulle manovre in Ucraina di Rudy Giuliani, l’avvocato personale di Trump. «Rudy è una bomba che ci può far saltare tutti per aria», avrebbe confidato Bolton alla consigliera della Casa Bianca Fiona Hill. Nello stesso tempo cresce l’attesa per il rapporto preannunciato da Barr. Nel documento ci dovrebbero essere anche «le prove» che il ministro della Giustizia avrebbe raccolto a Roma. Anche se il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha assicurato la totale estraneità dei servizi segreti nel Russiagate. Barr e Durham vogliono rintracciare Joseph Mifsud, il professore maltese che collaborava anche con la Link Campus University, nella capitale italiana. Mifsud confidò a George Papadopoulos, all’epoca un consigliere di Trump, che i russi possedevano materiale compromettente su Hillary Clinton. I due si incontrarono a Londra il 24 marzo del 2016. Mifsud era in compagnia di una giovane russa, Olga Polonskaya, che presentò come una persona vicina a Putin. Papadopoulos ne parlò con un suo conoscente, l’ambasciatore australiano nel Regno Unito e poi con i collaboratori di Trump. Alla fine il governo australiano avvisò l’Fbi a Washington. Il Federal Bureau iniziò a indagare nel luglio del 2016 e in autunno concluse che erano stati i servizi segreti militari russi a saccheggiare i server del Partito democratico. Il ruolo di Mifsud risultò del tutto marginale e non emerse assolutamente nulla a carico di altri Paesi.

L’ex assistente di Trump conferma: “Mifsud era una spia”. Roberto Vivaldelli su it.insideover.com il 4 novembre 2019. Altro che teoria del complotto: l’indagine penale del Procuratore John Durham sulle origini del Russiagate è reale e accerterà il complotto del 2016 contro la Campagna di Donald Trump. Al centro della cospirazione il docente maltese Joseph Mifsud, il quale affermò in un incontro dell’aprile 2016 a George Papadopoulos, consigliere della campagna di Trump, di aver appreso che il governo russo possedeva “materiale compromettente” (dirt) su Hillary Clinton “in forma di e-mail”. Una cospirazione internazionale di cui abbiamo parlato con Sebastian Gorka, dal gennaio all’agosto 2017 assistente nell’Ufficio esecutivo del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump nell’ambito della sicurezza nazionale. Da quando ha lasciato la Casa Bianca, ha collaborato con Fox News e ora conduce – visibile anche su Youtube – il programma America First. A portare Sebastian Gorka al servizio di The Donald fu Steve Bannon, ex chief strategist del presidente ed ex direttore di Breitbart. Il terrorismo di matrice islamica è stato il suo ambito di competenza nell’amministrazione Trump. Dopo il dottorato conseguito presso la Corvinus University di Budapest, Sebastian Gorka è entrato nel cuore dell’apparato di sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Alla Casa Bianca, Gorka – che è nato in Gran Bretagna ed è diventato cittadino americano nel 2012 – è stato vice-assistente del presidente.

Gorka: “Mifsud usato da Obama contro Trump”. Gli abbiamo chiesto se Mifsud fosse un collaboratore dei servizi segreti occidentali. “Non è solo una teoria – spiega Sebastian Gorka – è chiaro che Joseph Mifsud non fosse semplicemente legato ai servizi di intelligente europei, ma che l’Fbi di Barack Obama lo ha usato per incastrare i membri della Campagna di Donald Trump”. Questo, spiega, è “il motivo per cui l’Attorney General William Barr ha viaggiato in Italia e ha recuperato i telefoni di Mifsud”. Secondo quanto era emerso fino ad oggi, Durham avrebbe recuperato gli smartphone Blackberry del professore prima gli incontri con i nostri servizi segreti datati 15 agosto e 27 settembre: Gorka afferma viceversa che Durham ne è entrato in possesso in occasione dei viaggi nella capitale. Si tratterebbe – qualora fosse vero – di un risvolto clamoroso. Per l’ex assistente di Trump, le trasferte di William Barr in Italia sono risulteranno fondamentali e non hanno precedenti nella storia degli Stati Uniti. “Viaggi cruciali – spiega -. Nella storia americana, l’Attorney General non ha mai viaggiato all’estero per indagare sulla corruzione di un’amministrazione precedente”. Secondo l’ex assistente del presidente Usa il ruolo dell’Italia in questa vicenda “al momento non è chiaro” ma ciò che è certo è che le agenzie governative – Fbi e Cia in primo luogo – hanno spiato la Campagna di Donald Trump. “La Cia e l’Fbi sotto Obama hanno avviato l’operazione Crossfire Hurricante. Sappiamo che il Government Communications Headquarters britannico è stato illegalmente coinvolto da John Brennan nello spiare cittadini statunitensi e anche il governo australiano ne è stato complice”. “Non abbiamo fornito alcuna informazione riservata” su Joseph Mifsud e “abbiamo svolto verifiche ma non abbiamo trovato nulla”: questo è ciò che aveva detto il premier Giuseppe Conte in occasione della (inusuale) conferenza stampa dopo l’audizione al Copasir. Eppure Barr e Durham non sono tornati a casa a mani vuote dal viaggio in Italia: d’altro canto William Barr non è uno che si muove da Washington Dc per questioni futili o irrilevanti. Sarebbe alquanto ingenuo crederlo o farlo credere. E ce lo confermano anche le parole di Sebastian Gorka.

Presto novità sull’indagine di Durham e Barr? L’Attorney general William Barr, recentemente intervistato da Fox News, ha chiarito la natura degli incontri con i vertici dei servizi segreti italiani datati 15 agosto e 27 settembre, confermando che il nostro Paese può essere molto utile all’indagine del Procuratore John Durham sulle origini del Russiagate. “Alcuni dei Paesi che John Durham riteneva potessero avere alcune informazioni utili volevano discutere preliminarmente con me della portata dell’indagine, della sua natura, di come intendessi gestire informazioni confidenziali e via dicendo”, ha spiegato il ministro della giustizia Usa. “Inizialmente ho discusso queste questioni con quei Paesi e ho stabilito un canale attraverso il quale il Procuratore Durham potesse ottenere assistenza da loro”. John Durham, dunque, è convinto che l’Italia abbia delle informazioni utili ai fini dell’indagine, in particolare sul ruolo del professor Joseph Mifsud. Barr ha aiutato Durham a stabilire contatti con l’Italia che, a quanto si apprende, sta dunque collaborando con le indagini del Dipartimento di Giustizia che, come abbiamo già spiegato, si sono “evolute” in un’indagine penale a tutti gli effetti. Questo significa che i dirigenti e gli ex funzionari dell’Fbi e del Dipartimento di Giustizia eventualmente coinvolti rischiano un’incriminazione e permette a Durham di raccogliere testimonianze, accedere ad ulteriori documenti e di formulare delle accuse precise. Significa anche che l’indagine preliminare condotta in questi mesi ha portato alla raccolta di prove significative. Come spiega George Papadopoulos, ex assistente della Campagna di Trump, “il capo della Cia ha visitato Roma il 9 ottobre. Un paio di settimane dopo che Durham e Barr fossero lì. Sembra che Mifsud fosse solo un’altra risorsa usa e getta per la Cia. Che scandalo. I risultati delle indagini di Durham cambieranno la storia del mondo”.

DAGONOTA il 25 ottobre 2019. Donald Trump esce allo scoperto e accusa Barack Obama di tradimento: ha spiato la mia campagna del 2016. La rivelazione è contenuta nel libro di Doug Wead “inside trump’s white house”. “Quello che hanno fatto è tradimento, ok? La cosa interessante è che lo abbiamo beccato a spiare sull’elezione. Non l’ho mai detto, ma sono stati beccati a spiarci. Ci hanno spiato”, ha detto Trump. Nei prossimi giorni il ministro della giustizia Usa William Barr farà uscire il suo rapporto sul Russiagate (e martedì Vecchione sarà in audizione al Copasir). Intano Fox News smentisce “Giuseppi” Conte, che al Comitato per la sicurezza ha detto che i servizi italiani non avevano informazioni. Secondo l'emittente americana il ministro della Giustizia e John Durham sono tornati da Roma con informazioni interessanti, che li hanno spinti a sentire anche l’ex direttore della Cia John Brennan e l'ex capo della National Intelligence James Clapper, che pure sarebbero stati coinvolti nella creazione di false prove per incastrare il puzzone.

Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 23 ottobre 2019. Il problema non è stabilire se davvero il tweet di endorsement a Giuseppi sia collegato alla brutta storia del Russiagate in modo immediato e diretto, ovvero uno scambio non detto di favore. Questa è sembrata pochi minuti fa la preoccupazione principale del premier Conte, nel riferire della audizione al Copasir. Ma non è così, il comitato di controllo sui servizi, dopo l'audizione, deve non solo stabilire se sia stato legale da parte del premier concedere materiale e incontri con dirigenti dei nostri servizi a esponenti politici stranieri, e certo non è opportuno. Il comitato deve decidere se vuole saperne di più dell'intero affare e del ruolo che numerosi governi italiani, sicuramente Renzi e Gentiloni, hanno svolto nella costruzione o almeno nell'osservare la costruzione di un complotto del Partito Democratico americano e di Hillary Clinton, con la complicità di pezzi importanti dell'amministrazione Obama, per danneggiare il candidato Donald Trump  nel 2016 e impedirgli di diventare presidente. E poi non essendo riuscito questo, abbiano cercato di ottenerne l'impeachment accusandolo di collusione con la Russia, quindi di tradimento della nazione. Quando poi Conte dice che Trump di tutto ciò non ne sa niente, dice una cosa sicuramente inesatta, perché Trump lo sa, eccome, c'è lui è solo lui dietro l'inchiesta del dipartimento di Giustizia finalmente fedele al presidente. Forse tra le ragioni per le quali qua un governo e' gia'  ripiegato nella sua mestizia e nelle sue bugie, e di là dall'oceano Donald Trump si apparecchia la rielezione, nonostante i compagni americani di quelli del governo italiano strepitino di possibile impeachment, sta tutta nel fatto che la disoccupazione sia la più bassa degli ultimi 50 anni, e sull'economia non si scherza, tanto più visti i guadagni del mercato azionario. Ma io a sostegno di quanto scrive Moody's sulla vittoria probabile e schiacciante nel 2020 del presidente americano al secondo mandato, aggiungerei anche che la vicenda faticosa con la Turchia sulla Siria e i curdi l'ha risolta brillantemente in pochi giorni, riconducendo tutti a buon senso, ed è tanto più interessante dopo il profumo di critiche contro l'americano cattivo che molla tutti. E anche, che su una storia come quella del Russiate, che ha dovuto subire per anni, ora vuole fare chiarezza, e se possibile vendetta. Qui casca l'asino italiano del governo, anzi di più di uno, perché prima viene la teoria secondo la quale per ben due volte dei politici americani hanno avuto accesso ai servizi segreti italiani per alzare le quotazioni di Giuseppe Conte agli occhi degli Stati Uniti e dell'  Amministrazione, con un Conte reo di aver dato ordine al capo del Dis di incontrare il ministro della giustizia Usa William Barr e il procuratore Duhram. Non solo: Conte non poteva assolutamente dare ordine ai servizi italiani di collaborare con politici di altri paesi. Ma non meno grave è l'ipotesi sulla quale principalmente gli americani  stanno lavorando, che  ritiene i governi precedenti complici in qualche modo di un complotto costruito dai democratici americani contro il candidato Trump e poi contro il neo eletto Trump, e che proprio a Roma nel 2016-17 avrebbe avuto un centro, con una presunta spia, il professore maltese John Mifsud, ora scomparso ma probabilmente qui in giro in mezzo a noi, frettolosamente etichettato come spia russa, e una università con qualche velo di mistero, la Link di Enzo Scotti. Alla fine Giuseppi potrebbe ritrovarsi ad aver commesso un suicidio perfetto. L'abbiamo scritto tante volte da averne la nausea su Dagospia, quando proprio non lo scriveva nessuno, anzi ci prendevano neanche tanto garbatamente in giro prima per aver preso sul serio Il palazzinaro newyorkese dal ciuffo tinto, poi per ritenerlo innocente di collusione con la Russia e  in qualche modo vittima della buro-tecnocrazia di Washington scatenata contro di lui. Già allora avevamo capito che qualcosa di marcio era passato per Roma. Il complotto prevedeva che il colpevole di inciuciare con la Russia fosse il repubblicano, ma non era vero niente, come ampiamente dimostrato dalla lunga e costosa indagine del procuratore speciale Robert Mueller. Scandalo e ipotesi di inchi estona sono stati resi possibili non solo dalla complicità di un gran pezzo di Deep State, FBI in testa, ma anche da alcuni governi amici, vedi Renzi e Gentiloni, dimostrata la prima, da provare la seconda. Ma una cosa è certa, Trump e i suoi non mollano, e anche l'Italia non può fingere che non sia accaduto nulla e l'incontro di oggi al Copasir, il comitato parlamentare di controllo sui servizi, con audizione di Giusepp, lo dimostra. Andiamo per ordine, che' la roba è tantissima. Tre diverse simulazioni economiche di Moody’s Analytics, dicono che la vittoria del collegio elettorale dell’inquilino della Casa Bianca sui democratici sarà più schiacciante rispetto a quella del 2016 contro Hillary Clinton (tre anni fa  il punteggio  fu di 304 a 227). I tre modelli messi a punto dall’agenzia Usa si basano sulla percezione dei consumatori, dei guadagni ottenuti dal mercato azionario durante il mandato di Trump e sulla disoccupazione, scesa ai minimi storici di 50 anni. Aggiungete che il presidente incumbent, quello che si presenta per il secondo mandato, è favorito, date per possibile che l’economia tra un anno sarà la stessa di oggi, e le probabilità elettorali di Trump sono molto buone, in particolare se i democratici non saranno entusiasti del candidato scelto e quindi non si presenteranno in massa a votare. Questa l'analisi nelle dichiarazioni di Mark Zandi, capo economista di Moody’s Analytics, e anche noi, che non siamo Moody's, la pensiamo da tempo in questo modo. Tanto più che le risse tra i democratici continuano, nessun candidato importante emerge, l'impeachment continua a essere considerato l'unico pretesto possibile per addobbare Trump, e nella storia del paese gli impeachment non hanno funzionato mai, né quelli minacciati né quelli messi in pratica, come l'ultimo contro il presidente Democratico Bill Clinton nel 1998. Veniamo all'inchiesta sul Russiagate. L'Attorney General William Barr far sapere a Fox news che sono pronti a espandere l'indagine sul ruolo dell' FBI proprio basandosi su nuove prove venute fuori durante la recente visita a Roma assieme a Durham. Tra i testimoni reticenti, anzi ostili, che intendono interrogare c'è l'ex direttore della National intelligence, James Clapper, e l'ex direttore della CIA John Brennan. Che poi sarebbero quelli che hanno preso per buono il famoso dossier scritto dall'ex spia britannica Christopher Steele e pagato proprio dalla campagna di Hillary Clinton e dal Comitato nazionale Democratico, lo stesso dossier che serviva per cominciare a sorvegliare il consigliere di Trump, Carter Page, e di lì è partito tutto. Che cosa hanno ascoltato al sicuro dalle pareti dell'ambasciata americana a Roma i due alti funzionari americani? Che cosa diceva il professore Mifsud chiedendo protezione all'Italia? Come era cominciata la costruzione del complotto coinvolgendo il l'altro giovane consigliere di Trump, Papadopoulos? E perché è stato interessato a suo tempo anche il governo australiano? Il quale governo oggi dice che non solo non ha ricevuto alcuna pressione del presidente americano ma che ha offerto volontariamente sostegno all'indagine di Barr. Che ha anche ottenuto due telefoni BlackBerry (con scheda Sim inglese) “dati in uso a Mifsud”, di cui ora l’avvocato dell’ex generale Flynn, Sidney Powell, chiede i dati. Flynn fu accusato di collusione con la Russia e fatto fuori in pochi giorni dopo la sua nomina. Ultima nota delle tante che si potrebbero sottolineare in queste ore e che tra poco l'ispettore generale del dipartimento di giustizia Michael Horowitz dovrebbe rendere noto un rapporto su l'intero comportamento scorretto da parte dell'Fbi e di altre componenti del dipartimento di Giustizia.L'affare non solo non si ferma, sì ingrossa.

Giuseppe Conte, il Russiagate si complica: l'inchiesta voluta da Donald Trump diventa penale, lo scenario. Glauco Maggi su Libero Quotidiano il 27 Ottobre 2019. I nodi vengono al pettine sulle azioni dell' Fbi e del Dipartimento della Giustizia nel 2016, e fino alla primavera del 2017, quando cioè le due massime agenzie della sicurezza interna e dell' ordine pubblico erano ancora controllate da fedelissimi obamiani, anti Trump e pro Clinton. L' inchiesta affidata qualche mese fa dall' attuale Attorney General Bill al procuratore federale John Durham sulle potenziali irregolarità commesse dall' Fbi e dal ministero della Giustizia si è trasformata in una indagine criminale, secondo quanto un paio di fonti hanno riferito a Fox News nella notte di giovedì. Un'altra fonte ha aggiunto che l' Ispettore Generale del Ministero della Giustizia, Michael Horowitz, sta per completare il suo atteso rapporto relativo agli abusi commessi dall' Fbi nell' ottenere il via libera ad indagare su membri vicini alla campagna di Donald Trump dallo speciale tribunale para-segreto chiamato Fisa. Il Foreign Intelligence Surveillance è stato creato nel 1978 con la legge Foreign Intelligence Surveillance Act per valutare le richieste dell' Fbi e della Nsi (National Security Intelligence) di indagare su cittadini americani sospettati di essere spie di Paese stranieri.

CRIMINE FEDERALE. La manipolazione nella fornitura di dati ai giudizi del Fisa per ottenere il permesso è ovviamente un crimine federale. È probabile che sarà il rapporto Horowitz, di imminente pubblicazione, a far capire perché il procuratore federale Durham ha deciso di trasformare la sua indagine preliminare in una formale investigazione criminale. Il nuovo status dell' inchiesta significa, in pratica, che ora Durham ha il potere di emettere avvisi di comparizione per i testimoni, di depositare accuse di incriminazione, e di istituire "grand jury" per il controllo dei fatti. Fox News ha riportato che l' inchiesta di Durham si è allargata significativamente sulla base di nuove prove emerse durante il suo recente viaggio a Roma con il General Attorney Barr. Queste rivelazioni hanno complicato la posizione del premier italiano Giuseppe Conte, che aveva dichiarato «non abbiamo fornito alcuna informazione riservata» agli Stati Uniti.

Ma Fox News, appunto, dà conto di una verità differente: «Durante una delle due visite effettuate a Roma, il 15 agosto e il 27 settembre, per incontrare i vertici dell' intelligence italiana, Barr e il procuratore John Durham hanno raccolto nuove prove per la loro contro-inchiesta sul Russiagate - ha fatto sapere l' emittente -. Poi hanno deciso di ampliare il raggio della loro inchiesta sulle origini dell' indagine Fbi del 2016 sulle collusioni con la Russia». Barr, è stato riportato dai media, aveva detto ai funzionari dell' ambasciata Usa in Italia che «aveva bisogno di una conference room per incontrare agenti di sicurezza italiani di alto livello dove poteva essere sicuro che nessuno stesse ascoltando». Una fonte del ministero italiano della Giustizia aveva detto a inizio mese al Daily Beast che Barr e Durham avevano ascoltato una deposizione registrata fatta da Joseph Mifsud, il professore che avrebbe riferito all' ex aiutante di Trump George Papadopoulos che i russi avevano «cose sporche» sulla Clinton. Mifsud stava spiegando agli investigatori perché c' era gente che voleva fargli del male, e perché aveva bisogno della protezione della polizia.

CIALTRONI VARI. Papadopoulos dal canto suo ha spiegato successivamente che la sua connessione con Mifsud era parte di un complotto orchestrato da agenzie di intelligence. Varie fonti hanno detto a Fox News che Durham è «molto interessato» a interrogare l' ex direttore della Intelligence nazionale James Clapper e l' ex direttore della Cia John Brennan, entrambi nemici dichiarati di Trump. Secondo il New York Times, diversi agenti di alto livello della Cia si sono già rivolti ad avvocati penali per prepararsi alle interviste. Brennan e Clapper erano ai vertici non soltanto quando Misfud parlò con Papadopoulos, ma anche quando il famigerato dossier della ex-spia inglese Christopher Steele, pagato dalla campagna di Hillary e poi totalmente screditato, era stato utilizzato per aiutare gli agenti obamiani a ottenere dal Fisa la sorveglianza delle mosse di Carter Page, consigliere di Trump. Nella richiesta al Fisa, l' Fbi aveva tenuto all' oscuro il fatto che a pagare il dossier erano stati i Dem e la Clinton. di Glauco Maggi

Così Conte ha “sottovalutato” l’indagine di Trump. Roberto Vivaldelli su it.insideover.com il 28 ottobre 2019. “Non abbiamo fornito alcuna informazione riservata” su Joseph Mifsud e “Abbiamo svolto verifiche ma non abbiamo trovato nulla”. Affermazioni di qualche giorno fa del premier Giuseppe Conte durante (l’inusuale) conferenza stampa dopo l’audizione al Copasir sul caso Spygate e sulle visite a Roma del 15 agosto e del 27 settembre dell’Attorney General William Barr e del Procuratore John Durham, che più avanti potremmo ricordare e che potrebbero ritorcersi contro il premier. Innanzitutto perché, come abbiamo già spiegato, questa versione del Presidente del Consiglio è stata smentita da ciò che arriva dagli Stati Uniti. A differenza di ciò che sostiene Conte, e secondo i media americani, Barr e Durham non sarebbero tornati a casa a mani vuote dopo i due incontri con i vertici dei servizi segreti italiani. Come riporta Fox News, l’indagine del procuratore John Durham “si è estesa” sulla base “di nuove prove raccolte durante un recente viaggio a Roma con il procuratore generale William Barr”. L’ulteriore conferma è arrivata dal fatto che l’indagine preliminare del Dipartimento di Giustizia guidata dall’Attorney general William Barr e condotta dal Procuratore John Durham si è “evoluta” in un’indagine penale a tutti gli effetti, come riporta il New York Times. Questo significa che i dirigenti e gli ex funzionari dell’Fbi e del Dipartimento di Giustizia eventualmente coinvolti rischiano un’incriminazione e permette a Durham di raccogliere testimonianze, accedere ad ulteriori documenti e di formulare delle accuse precise. Significa anche che l’indagine preliminare condotta in questi mesi ha portato alla raccolta di prove significative.

Così Conte ha sottovalutato l’indagine Trump. E ora rischia. Lo cronologia degli eventi lascia spazio a pochi dubbi su quanto l’amministrazione Usa punti su quest’inchiesta. Nel giro di poche settimane arrivano a Roma il ministro della Giustizia Usa William Barr e John Durham – per ben due volte – la direttrice della Cia Gina Haspel e il Segretario di Stato Mike Pompeo. Fatta eccezione per quest’ultimo, la cui visita era programmata da tempo e che quindi non consideriamo, possiamo comunque affermare con certezza che gli altri tre non si scomodano da Washington Dc per questioni futili. Come se non bastasse, Barr e Durham tornano a Washington e in poche settimane un’indagine preliminare diventa un’indagine penale a tutti gli effetti, con tutte le conseguenze del caso. Davvero si tratta di una pura coincidenza? La versione di Conte lascia spazio a troppe domande. “Che cosa consegnano agli emissari del presidente a caccia di riconferma? – scrive Maurizio Belpietro su La Verità – Niente, dice Conte al Copasir. Ma Barr e Durham, venuti apposta da Washington in due occasioni, a quanto pare dicono il contrario e raccontano di aver raccolto in Italia elementi importanti. Quali? Hanno a che fare con il nostro governo? Quello attuale o quelli passati?” La faccenda insomma rischia di complicarsi, sottolinea, “non solo per le risposte evasive di Giuseppi, ma perché negli Usa hanno aperto un’inchiesta penale e Trump intende cavalcarla. Dunque usciranno prove e testimonianze e qualcuno potrà essere interrogato dagli uomini del procuratore americano. Una grana grossa, che sommata a quelle che in Italia Conte ha con la sua maggioranza, rischia di rendere molto accidentato il percorso del presidente del Consiglio”. Le notizie degli ultimi giorni danno sempre più credito alla versione del Daily Beast, secondo il quale Barr e Durham si sono precipitati a Roma per essere messi a conoscenza di ciò che i servizi segreti italiani sapevano sul conto di Joseph Mifsud. I registri pubblici del ministero della Giustizia italiano mostrano che Mifsud aveva fatto domanda di protezione in Italia dopo essere scomparso dalla Link University: nel farlo avrebbe inviato una registrazione alla polizia per spiegare chi voleva fargli del male e perché. Una fonte del ministero della Giustizia italiano, parlando a condizione di anonimato, ha riferito al The Daily Beast che Barr e Durham hanno ascoltato il nastro. Una seconda fonte all’interno del governo italiano ha anche confermato alla testata americana che Barr e Durham hanno visionato altre prove che gli italiani avevano su Mifsud.

Joseph Mifsud scorrazzava liberamente in Italia. Secondo la ricostruzione ufficiale, Mifsud affermò in un incontro dell’aprile 2016 a George Papadopoulos, consigliere della campagna di Trump, di aver appreso che il governo russo possedeva “materiale compromettente” (dirt) su Hillary Clinton “in forma di e-mail”. A quel punto l’ex consulente del presidente avrebbe ripetuto tali informazioni all’alto Commissario australiano a Londra, Alexander Downer, che a sua volte riferì tutto alle autorità americane. Da qui, il 31 luglio 2016, partirono le indagini dell’Fbi sui presunti collegamenti fra Trump e la Russia, accuse che in seguito si sono dimostrate inconsistenti. Come abbiamo raccontato su questa testata, il misterioso docente maltese al centro dell’indagine internazionale del Procuratore generale William Barr e di John Durham che dovrà stabilire se l’Italia nel 2016 abbia o meno collaborato con i democratici Usa per fabbricare false prove sul Russiagate, era in Italia fino alla scorsa primavera. L’avvocato svizzero di Mifsud, Stephan Roh, ha dichiarato all’Epoch Times che il suo cliente ha vissuto fino a poco tempo fa in Italia, ma che il docente ha deciso di nascondersi di nuovo dopo la pubblicazione del rapporto finale sul Russiagate del consigliere speciale Robert Mueller (dunque il 18 aprile 2019). Ora, una nuova indagine del Foglio, ha rivelato che Mifsud si sarebbe nascosto ai Parioli, in un appartamento in via Cimarosa. Nel periodo luglio-ottobre 2018 il professore maltese ha girato per l’Italia come se nulla fosse facendo base a Roma: Ostia, Orbetello, lago di Bracciano, San Gimignano e anche il parco dei mostri di Bomarzo sono i luoghi visitati dall’uomo chiave del Russiagate in quel lasso di tempo. Possibile che i nostri servizi non sapessero qualcosa di più? Dove si trova ora il professore? Quali altri prove hanno consegnato i nostri servizi a Barr e Durham? Ora, con l’indagine penale, non si scherza più. E qualcuno prima o poi dovrà dare delle risposte.

Maurizio Molinari per ''la Stampa'' il 27 ottobre 2019. Il rapporto politico fra Donald Trump e Giuseppe Conte è al centro di un intreccio fra diplomazia, intelligence e campagna elettorale Usa che riflette le diverse anime dell' amministrazione americana come anche la dura battaglia politica in corso a Washington sullo scenario dell' impeachment. Sul fronte della diplomazia la Casa Bianca ha assistito con sollievo alla nascita del Conte bis per la simultanea uscita dal governo di Matteo Salvini, leader della Lega, considerato troppo vicino alla Russia "rivale strategico". Inoltre Conte, passato dalla casacca gialloverde a quella giallorossa, si è affrettato a recapitare a Washington molteplici rassicurazioni: dal numero degli F35 che entreranno in servizio al mantenimento delle truppe in Afghanistan, dal sostegno alle sanzioni alla Russia contro l'annessione della Crimea all'approvazione del "golden power" sul cyber per proteggere la rete delle telecomunicazioni strategiche - incluso il 5G - dal rischio di commesse, e interferenze, della Cina "rivale globale". Ciò significa che per Dipartimento di Stato e Pentagono l' Italia del Conte bis, con il Pd al posto della Lega, ha riacquistato credibilità e stabilità, pur nella presenza di questioni pendenti - come i voli della compagnia aerea dei pasdaran iraniani Mahan Air su Roma e Milano - e di perduranti posizioni pro cinesi dentro i Cinquestestelle, il partito che esprime il ministro degli Esteri Di Maio. Ma Trump non è solo il capo dell' amministrazione che esprime Dipartimento di Stato e Pentagono: è anche il presidente che punta alla rielezione nel novembre 2020 ed è in questo momento minacciato da una possibile richiesta di impeachment da parte dell'opposizione democratica al Congresso di Washington per la sua richiesta di "favori politici" al nuovo leader ucraino Volodymir Zelensky. A poco più di dodici mesi dall'"Election Day", Trump punta a respingere questo assalto con una strategia che verte sulla delegittimazione della leadership democratica. Da qui il valore politico dell' inchiesta che il procuratore John Henry Durham sta svolgendo, da maggio, su incarico del ministro della Giustizia William Barr per appurare se l' indagine sul "Russiagate" in precedenza svolta dall'ex capo dell'Fbi Robert Mueller sia stata "legale e corretta". Ovvero, se Mueller ha indagato su presunte interferenze russe a favore di Trump nella campagna presidenziale del 2016 ora Durham sta indagando su presunte interferenze democratiche nel 2016 sull' operato dell' intelligence Usa per accusare Trump di legami illeciti con Mosca. Fra le tracce che Durham sta seguendo ci sono le ipotesi di coinvolgimenti di Italia e Gran Bretagna attraverso agenti Usa nel 2016 - quando alla Casa Bianca c' era Barack Obama - e per questo Barr ha chiesto di vedere a metà agosto a Roma i vertici della nostra intelligence, tornando poi il mese seguente con Durham per appurare in particolare cosa avevano trovato a carico di Joseph Mifsud, il professore maltese all'origine delle prime notizie sul "Russiagate" ovvero i blitz degli hacker russi contro le email di Hillary Clinton. Poiché Mifsud è scomparso in Italia Durham ha chiesto ai nostri 007 - e agli inglesi - di trovarlo perché vuole interrogarlo: è il teste a cui tiene di più. La recente trasformazione del lavoro di Durham in "indagine criminale" significa che avrà più poteri per ottenere la collaborazione di cittadini americani e dunque, la caccia a Mifsud diventerà più incisiva al fine di consentire a Trump di avere maggiori munizioni nella dura battaglia contro i democratici di Nancy Pelosi. Da qui il doppio approccio di Trump a Conte: se il presidente-Trump lo considera un alleato ritrovato in Europa nella sfida strategica a Russia e Cina, per il candidato-Trump è soprattutto il leader straniero che può consegnargli Mifsud e dunque - forse - le prove per inchiodare i democratici e spianargli la strada verso la rielezione. È un binario parallelo che si origina dalla Casa Bianca ma in direzioni diverse: da un lato ci sono gli interessi nazionali degli Stati Uniti e dall' altro quelli di un presidente che vuole vincere nel novembre 2020. Ma entrambi i binari passano per Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio italiano, creando una situazione senza precedenti nei rapporti di solida alleanza con gli Stati Uniti.

Maurizio Belpietro per ''la Verità'' il 27 ottobre 2019. Guai grossi in arrivo per Giuseppi. La saponetta di Palazzo Chigi nei prossimi giorni dovrà fronteggiare non solo il risultato elettorale dell' Umbria, che a dar retta alle voci che arrivano da Perugia rischia di trasformarsi in un pesante macigno sulla strada del governo, ma anche l' inchiesta penale aperta negli Stati Uniti per le ingerenze straniere nel caso Russiagate. Ne abbiamo scritto anche nei giorni scorsi, raccontando gli sviluppi di una faccenda dai risvolti oscuri. In pratica, ai tempi della presidenza di Barack Obama, qualcuno all' interno dell' amministrazione americana si sarebbe dato da fare per inquinare i pozzi e far perdere Donald Trump. Pezzi dell' intelligence Usa, pur di scongiurare la vittoria del puzzone repubblicano, avrebbero fatto carte false a favore di Hillary Clinton, la favorita dell' establishment. Fin qui la questione potrebbe anche non riguardarci ed essere di esclusiva competenza degli Stati Uniti. Peccato che la storia si intersechi con i fatti di casa nostra, in quanto le operazioni di inquinamento della campagna elettorale americana sarebbero avvenute nel 2016 e avrebbero avuto per teatro anche il nostro Paese. Agenti doppiogiochisti si sarebbero cioè dati da fare per rifilare all' entourage di Trump qualche polpetta avvelenata, così da poter sostenere che il candidato repubblicano fosse in combutta con i russi. Anzi, che la sua campagna elettorale fosse sostenuta da Mosca. Il risultato dell' operazione sono stati quasi tre anni di indagini a carico di Trump il quale, prima ancora di mettere piede alla Casa Bianca, è stato dipinto come un burattino nelle mani di Vladimir Putin. La strategia della confusione puntava ovviamente a un finale clamoroso, ovvero a una messa in stato d' accusa dello stesso Trump, costretto a dimettersi prima della scadenza del mandato. Le cose però non sono andate come qualcuno si augurava e dunque, passati tre anni a tramare per ottenere l' impeachment, i democratici si sono dovuti rassegnare all' evidenza di un' indagine che non aveva carte per sostenere l' accusa. Qualsiasi altro a questo punto avrebbe gettato la spugna, ma non la sinistra americana, che detesta il presidente. Infatti, da qualche settimana, avendo fallito su un fronte i democratici ne hanno aperto un altro, chiedendo di incriminare The Donald per le pressioni esercitate sull' Ucraina al fine di scoprire i segreti dell' ex vicepresidente di Obama. A quanto pare, Trump questa volta non ha deciso di stare con le mani in mano di fronte all' ennesimo tentativo di farlo fuori, ma ha reagito, avviando una macchina che rischia di travolgere anche qualche passante italiano, come appunto Giuseppi. Ci spieghiamo. Un pezzo dell' operazione contro il presidente degli Stati Uniti sarebbe passato da Roma, perché la capitale è un posto che da sempre è frequentato da spioni e faccendieri internazionali. Dunque, all' ombra di una università privata, la Link campus, si sarebbe mosso un certo Joseph Mifsud, professore maltese dall' incerta specializzazione, ma dalla certa copertura esterovestita. Sarebbe lui l' uomo chiave della parte italiana della trappola anti Trump. E ora gli americani vogliono trovarlo e ne vogliono scoprire i legami. E qui veniamo a noi e a Conte. Quando Trump decide di passare all' attacco, spedisce i suoi uomini a Roma, pretendendo la più ampia collaborazione dei servizi segreti italiani per scovare Mifsud, i suoi contatti e gli eventuali aiuti ricevuti dalle istituzioni del nostro Paese. In quei giorni però la poltrona di Giuseppi traballa, perché Salvini s' è stancato di reggere il moccolo a una maggioranza che non decide. Dunque, Conte rischia di tornare a fare quel che faceva prima, ovvero il semplice docente universitario. Il nostro presidente, che dice di non essere un uomo per tutte le stagioni, ma invece è molto più stagionale di quel che sembrerebbe, nelle settimane il cui il suo posto vacilla s' inchina alla richiesta Usa e mette i nostri 007 al servizio del ministro della giustizia americana. Una mossa inusuale che Giuseppi, forte della sua delega sui servizi segreti, decide da solo, senza parlarne con nessuno. Che cosa si dicono i nostri 007 e gli uomini di Trump? Che cosa consegnano agli emissari del presidente a caccia di riconferma? Niente, dice Conte al Copasir. Ma Barr e Durham, venuti apposta da Washington in due occasioni, a quanto pare dicono il contrario e raccontano di aver raccolto in Italia elementi importanti. Quali? Hanno a che fare con il nostro governo? Quello attuale o quelli passati? La faccenda insomma rischia di complicarsi, non solo per le risposte evasive di Giuseppi, ma perché negli Usa hanno aperto un' inchiesta penale e Trump intende cavalcarla. Dunque usciranno prove e testimonianze e qualcuno potrà essere interrogato dagli uomini del procuratore americano. Una grana grossa, che sommata a quelle che in Italia Conte ha con la sua maggioranza, rischia di rendere molto accidentato il percorso del presidente del Consiglio. L' avvocato del popolo potrebbe presto trovarsi a fare l' avvocato di sé stesso.

Russiagate, dagli Usa avvertimento  a Conte. Il Copasir apre nuovo fronte. Pubblicato martedì, 29 ottobre 2019 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. Barr: informazioni utili da parte degli 007 italiani. Caso Fiber, fascicolo sul ruolo del premierIl Russiagate: all’italiana: Mifsud, Barr e gli altri volti. Il secondo “avvertimento” dagli Stati Uniti sul Russiagate arriva mentre il direttore del Dis Gennaro Vecchione, risponde alle domande dei parlamentari del Copasir, il comitato di controllo sui servizi segreti. E smentisce ancora una volta la versione già fornita dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte sul ruolo del nostro Paese sul Russiagate. Non è l’unica grana per il premier. Ieri lo stesso Comitato ha aperto formalmente anche il fascicolo sul possibile conflitto di interessi per il «caso Fiber». In entrambi i casi il modo da sciogliere è lo stesso: sono state compiute attività che mettano a rischio la sicurezza nazionale? Sul Russiagate la linea di Vecchione ricalca punto per punto quella del premier. La vicenda è nota: fu lui a incontrare per due volte il ministro Barr — con il via libera di Conte — che chiedeva notizie sull’attività degli agenti Fbi in Italia e su eventuali contatti con il professor Joseph Mifsud. L’amministrazione Trump è convinta che nel 2016 ci sia stato un complotto di alcuni servizi segreti europei per dimostrare che il futuro presidente americano tramava con i russi contro la rivale Hillary Clinton e per questo ha avviato un’indagine. Di fronte al Copasir Vecchione non può smentire di aver disposto verifiche su quanto chiesto dal politico statunitense, ma assicura che nulla è stato consegnato agli Stati Uniti. Ricostruisce le riunioni come «normali incontri con gli alleati perché non potevamo rifiutare». E li definisce «semplici scambi informativi», cambiando comunque la iniziale versione ufficiale che negava qualsiasi tipo di elementi consegnati. Il tentativo di ridurre al minimo la portata dei contatti si scontra con quanto dichiarato in un’intervista alla Fox News, emittente vicina a Donald Trump, dal ministro della Giustizia William Barr, secondo il quale il procuratore John Durham, titolare della nuova inchiesta sui rapporti con la Russia durante la campagna elettorale del 2016, «è convinto che in Italia possano esserci informazioni utili all’indagine». Quanto basta per mettere in imbarazzo il premier e i vertici dei Servizi visto che proprio Durham ha partecipato all’incontro che si è svolto il 27 settembre nella sede del Dis — il dipartimento delle informazioni per la sicurezza —- insieme allo stesso Barr e ai direttori delle due agenzie di intelligence Luciano Carta e Mario Parente. Dichiara ancora Barr: «Alcuni dei Paesi che Durham riteneva potessero avere alcune informazioni utili volevano discutere preliminarmente con me della portata dell’indagine, della sua natura, di come intendessi gestire informazioni confidenziali e via dicendo. Ho discusso queste questioni con quei Paesi e ho stabilito un canale attraverso il quale Durham potesse ottenere assistenza da loro». Il 17 giugno fu Barr a chiedere la collaborazione italiana con una lettera inviata a Conte attraverso l’ambasciatore negli Stati Uniti Armando Varricchio. Il fatto che adesso parli di «canale aperto» e di «assistenza» fa comprendere che alcuni elementi sono già stati raccolti, nonostante Conte e Vecchione lo neghino. E dunque sembra chiaro che gli Stati Uniti vogliamo inviare un messaggio a Conte affinché non interrompa la collaborazione. Del resto entro qualche settimana il «rapporto Barr» con le prime conclusioni dell’indagine sarà reso pubblico e si verificherà che cosa abbiano davvero ottenuto. A Vecchione è stato anche chiesto in base a quali criteri si esercita la «golden power». È il primo passo per verificare il ruolo di Conte sul «caso Fiber» per cui la Lega vuole che il capo dell’esecutivo riferisca il Parlamento. Quando era avvocato Conte stilò un parere pro veritate per la società Fiber 4.0 che voleva ottenere il controllo di Retelit ma non riuscì nell’intento perché gli azionisti preferirono due investitori stranieri. Il governo esercitò però la «golden power» per impedire il cambio di governance della Retelit e ora si chiede a Conte — che comunque decise di non partecipare alla riunione del consiglio dei ministri — di chiarire il proprio ruolo.

Dagospia il 29 ottobre 2019: jacopo iacoboni tweet. Il ministro della giustizia Usa William Barr, in un'intervista a Fox, ha detto cose che NON quadrano con la versione di Conte sugli incontri tra Barr, Vecchione e i capi dei servizi italiani. Barr ha detto che "stiamo facendo progressi". Barr dice a Fox News (DOPO l'audizione di Conte al Copasir) che il procuratore Usa John Duhram è convinto che in Italia "possano esserci informazioni utili all'indagine". Conte ha detto il contrario, e ha anche detto che dagli americani non c'era disaccordo su questo. Ripetiamolo: Barr non è più fede degno di Conte, assolutamente. Ma mi limito a osservare che i due - Usa e Italia - stanno dicendo cose che non collimano. La storia non torna. Stasera, nel frattempo, il capo dei Dis, uomo di Conte, Vecchione, è stato tenuto tre ore in audizione davanti al Copasir. Tanto tempo. Non è assolutamente una durata che fa pensare a una vicenda ormai chiarita, come pretendeva Conte. Non so cosa abbia detto Conte al Copasir. Né è impossibile che, nella conferenza stampa gestita da Casalino, abbia fornito una versione alquanto diversa da quella data al Copasir. Di certo, quanto ha detto alla stampa NON collima, logicamente e temporalmente, con le frasi di Barr. Ribaltata dunque anche la dinamica di come sarebbe avvenuto il contatto tra Usa e Italia, diciamo così le regole d'ingaggio. Barr dice poi che "alcuni dei Paesi che John Durham riteneva potessero avere alcune informazioni utili all'indagine, volevano discutere preliminarmente con me della portata dell'indagine, della sua natura e di come io intendessi gestire informazioni confidenziali".

DAGOREPORT il 29 ottobre 2019. Alle 15.30 il coordinatore dei Servizi Segreti, il vispo Gennaro Vecchione, voluto fortissimamente da Conte, ha fatto il suo ingresso nel locali del Copasir per rispondere sulle visite romane del ministro della Giustizia degli Stati Uniti William Barr. Rispetto al premier Conte, che ha potuto limitare il suo intervento a 90 minuti, Gennarino non ha questa facoltà, quindi il presidente del Copasir, il leghista Raffaele Volpi, sospinto anche dalla vittoria umbra, avrà da divertirsi nel trafiggere la Pochette dal volto umano attraverso le domande a Gennarino. Quest’ultimo è seduto su un bilama perché non sa nulla di ciò che sarà pubblicato prossimamente da Barr, quindi solo dicendo la verità potrà eventualmente respingere le deduzione del ministro di Trump. Di sicuro Vecchione ha commesso il grande errore di vedere uno che non poteva vedere. E tale cazzata è stata fatta presente al presidente (per mancanza di prove) del consiglio? Secondo: cosa ha consegnato di documenti e di telefonini l’intelligence italica agli americani? Anche i generali Carta (Aise) e Parente (Aisi) hanno la loro parte di colpe per non aver fatto presente a Vecchione che il suo ruolo è quello di coordinatore dei Servizi, non è un loro superiore; ergo, potevano benissimo rifiutare l’incontro con Barr e il procuratore Durham senza andare incontro alla legge marziale. Ci dobbiamo quindi aspettare nei prossimi giorni alcuni contraccolpi di natura politica: o Conte scarica il suo Vecchione o si assume delle responsabilità che saranno care, molto care. Chiaramente rimane un grosso interrogativo di fondo: come mai i nostri Servizi non hanno mai attenzionato la Link University di Tarzanetto Scotti, quando era sotto gli occhi tutti il via via dei vari Mifsud e compagnia spiando? C’è una negligenza delle nostre Barbefinte che è acclarata.

POST SCRPTUM. E’ vero che Conte ha avvertito il Quirinale della visita del ministro Barr. Ma si è dimenticato di aggiungere che Barr avrebbe incontrato Vecchione, Carta e Parente…

Caso Barr: contraddetti, ancora una volta, dagli americani. Nell'audizione davanti al Copasir, il capo del Dis Vecchione fa il vago e ripete la linea difensiva di Conte. Mentre invece Barr racconta i dettagli delle sue visite italiane. Ci sono ancora due versioni non concordanti. Giuseppe Alberto Falci su huffingtonpost.it il 29 ottobre 2019. Ci risiamo. Gli americani, per bocca di William Barr, incrinano la linea difensiva del presidente del Consiglio e dell’intelligence italiana. E dicono a chiare lettere due cose di non poco conto: che da un lato hanno aperto un canale apposito con i servizi segreti italiani, e dall’altro che il procuratore Durham ritiene che in Italia potrebbero esserci “informazioni utili” alla controinchiesta sul Russiagate. Quindi, non sono proprio “i normali scambi informativi” fra paesi alleati di cui parlava la scorsa settimana il premier Conte e che ha ribadito oggi il capo del Dis, Gennaro Vecchione, che peraltro ha anche tenuto a precisare come non siano stati dati (finora) elementi rilevanti agli americani. E allora le contraddizioni rimangano e le versioni divergono.  Non sono bastate certo le oltre tre ore di audizione del numero uno degli 007 italiani a diradare le nubi che ancora sono lì, immobili e impensieriscono Conte. Palazzo San Macuto, sede del Copasir, ore 15 e 20. È in quell’istante che Vecchione, che siede li dal dicembre del 2018, per volere del premier Conte, varca l’ingresso della stanza del Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti. Si accomoda, guarda negli occhi tutti i componenti del Copasir, a partire dal presidente Raffaele Volpi, e comincia a rispondere. Prima ora e mezzo dedicata alla relazione annuale dei servizi segreti. Poi quando scoccano le cinque del pomeriggio si entra nel vivo dell’audizione. E i membri del Copasir iniziano a porre le domande sugli incontri tra i servizi italiani e il Guardasigilli americano. Perché il Capo del governo ha autorizzato quei contatto anziché gestirli personalmente? Si torna al giugno scorso. A quando la lettera di Barr arriva attraverso canali diplomatici. Vecchione ricostruisce i passaggi successivi.  Stando alla versione rivelata da una fonte qualificata all’Huffington Post, il capo del Dis, Gennaro Vecchione, consegna una versione dei fatti uguale a quella dell’inquilino di Palazzo Chigi, ribadendo che dagli 007 italiani non sono state forniti elementi rilevanti al ministro della Giustizia. E allora per quale motivo sono stati organizzati due incontri, uno ad agosto, e l’altro a settembre? E perché Barr fa sapere in un’intervista a Fox che possono esserci “informazioni utili”? Vecchione tira dritto e conferma sulla stessa scia di Conte, la solita versione: non si poteva di dire no a un paese amico. Gli incontri si sono svolti a piazza Dante, sede del Dis, e nel secondo colloquio era presente anche il procuratore Durham. D’altro canto, come sussurra una fonte anonima, “può mai un capo dei servizi, nominato da un premier, fornire una versione dei fatti diversa?”. Solo una settimana fa Conte aveva sottolineato che “si trattava di un’indagine preliminare, altrimenti avremmo dovuto procedere per rogatoria”. In questo quadro resta ancora poco chiaro anche un’altra questione: la modalità con cui Vecchione ha coinvolto i vertici di Aise e Aisi, Luciano Carta e Mario Parente. Sia come sia nelle tre ore di colloquio trova spazio un’altra domanda che viene posta al numero degli 007 italiani, ovvero sull’ultimo articolo del Finantial Times e quindi sul presunto conflitto di interessi del premier Conte sul caso Retelit-Vaticano-Mincione. In sintesi, il presidente del Consiglio, poche settimane prima di diventare il capo del governo, avrebbe dato un parere legale a favore di Fiber 4.0, un gruppo impegnato a scalare Retelit. Raccontano che Vecchione ha spiegato per filo e per segno ogni singolo aspetto della questione, ma i contenuti della risposta sono rimasti top secret.  Eppure dagli Stati Uniti arrivano notizie che sconquassano la difesa del duo Conte-Vecchione. Il ministro della Giustizia William Barr, che è stato per ben due volte in Italia per fare a pezzi l’inchiesta del procuratore Mueller su Donald Trump, in un’intervista al canale Fox, afferma che John Durham, il procuratore americano che sta conducendo la controinchiesta sul Russiagate,  ritiene che “potrebbero esserci informazioni utili all’indagine”. Ma non finisce qui. Secondo il membro del governo di Trump, “alcuni dei Paesi che Durham riteneva potessero avere alcune informazioni utili volevano discutere preliminarmente con me della portata dell’indagine, della sua natura, di come intendessi gestire informazioni confidenziali e via dicendo” “Inizialmente ho discusso queste questioni con quei Paesi e ho stabilito un canale attraverso il quale Durham potesse ottenere assistenza da loro”. Insomma, più che caso chiuso, canale aperto. Negli Stati Uniti l’inchiesta è già diventata penale. E allora vien da dire che sul Russiagate ci sarà ancora tanto da scrivere. 

Da huffingtonpost.it il 29 ottobre 2019. John Durham, il procuratore americano che sta conducendo la controinchiesta sul Russiagate, è convinto che in Italia “possano esserci informazioni utili all’indagine”. Ad affermarlo in un’intervista a Fox News è l’attorney general William Barr, parlando delle visite che entrambi hanno fatto in Italia il 15 agosto e il 27 settembre scorsi per colloqui con i Servizi italiani. “Alcuni dei Paesi che Durham riteneva potessero avere alcune informazioni utili volevano discutere preliminarmente con me della portata dell’indagine, della sua natura, di come intendessi gestire informazioni confidenziali e via dicendo”, ha spiegato. “Inizialmente ho discusso queste questioni con quei Paesi e ho stabilito un canale attraverso il quale Durham potesse ottenere assistenza da loro”. Sulle visite romane di Barr e Durham nei giorni scorsi ha riferito al Copasir il premier Giuseppe Conte, sottolineando la correttezza del suo operato in quanto autorità politica responsabile dei Servizi segreti e l’assoluta estraneità dell’intelligence italiana rispetto alla genesi del Russiagate, che secondo Donald Trump è stata orchestrata dai democratici per danneggiarlo alle elezioni presidenziali del 2020. Nella recente conferenza stampa alla Casa Bianca insieme al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Donald Trump ha confermato che anche l’Italia “potrebbe” essere coinvolta nella vicenda. Oggi è in programma, sempre davanti al Copasir, l’audizione del direttore del Dis, Gennaro Vecchione. “Vediamo come andrà a finire” si limita a rispondere Barr in merito alla direzione che prenderanno le indagini. Trump nelle scorse settimane ha annunciato la pubblicazione di Rapporto Barr sulla controinchiesta, che recentemente è passata dall’essere una semplice indagine amministrativa a una vera e propria inchiesta penale. Durham “sta facendo progressi” ha aggiunto. Progressi resi possibili dalla nuova gestione dell’Fbi, visto che all’interno del bureau c’è stato “un fallimento della leadership nel 2016 e in parte del 2017”. Fin troppo evidente il riferimento all’ex direttore James Comey, poi licenziato da Trump. Nell’intervista a Fox News, Barr ha anche respinto al mittente le accuse che gli sono state lanciate dai democratici, di voler usare l’indagine condotta da Durham come strumento per una “vendetta politica” della Casa Bianca. ”È completamente sbagliato e non ci sono basi per questo, io agisco per conto degli Stati Uniti”, ha assicurato l’attorney general. ”È Durham a capo dell’indagine, non sono io a condurla”, ha aggiunto il ministro, ritagliando per sé un ruolo di semplice assistenza al procuratore, soprattutto nelle relazioni con i Paesi stranieri, come l’Italia, toccati dall’indagine.

Dagospia il 28 ottobre 2019. L’eurodeputato maltese David Casa ha scritto al commissario europeo per la Giustizia, Vera Jourova, chiedendo la sospensione della vendita dei passaporti. L'invito è arrivato dopo un dibattito parlamentare dello scorso 24 ottobre, durante il quale sono emerse ulteriori informazioni sulla mancanza di “due diligence” del sistema, ovvero della mancanza di attività di indagine finalizzata alla raccolta e alla verifica di tutte le informazioni necessarie per avere in mano una chiara valutazione. Nei giorni scorsi il parlamentare maltese Karol Aquilina ha affermato che ci sono cinque persone, conosciute per aver acquistato la cittadinanza maltese, che sono accusate di frode, riciclaggio e altre azioni criminali. «Questo è il talento che abbiamo portato a Malta» ha detto ai parlamentari. La questione è stata portata in Europa da Casa, che, in una lettera a Jourova, ha affermato che sono state sollevate nuove e legittime preoccupazioni nei processi di “due diligence” condotti durante lo screening dei cittadini stranieri che acquistano la cittadinanza attraverso l'IIP (Individual Investor Programme). Nella lettera, Casa ha affermato che "a seguito di numerose storie riguardanti l’irregolarità nella vendita della cittadinanza maltese nelle ultime settimane, che hanno persino portato alla sospensione di uno dei principali studi legali di vendita della cittadinanza a causa di alcuni filmati che mostrerebbero una presunta collusione con alti funzionari governativi, è emerso che una quinta persona che ha acquistato la cittadinanza maltese negli ultimi dodici mesi è stata accusata di reati». Il caso più recente, ha affermato Casa, coinvolge il cittadino israeliano Anatolu Hurgin, che ha utilizzato questo schema di acquisto nel 2016 ed è sotto accusa per frode sia in Israele sia negli Stati Uniti. Citando i media, l'eurodeputato ha affermato che Hurgin deve affrontare accuse relative a reati di frode, contrabbando e riciclaggio di denaro "su vasta scala" in Israele. Negli Stati Uniti sono state sollevate accuse in relazione alla violazione della legislazione federale sulle frodi. «Nel periodo in cui era in attesa di ricevere la cittadinanza maltese nel 2016 contro Hurgin c’era  una class action; contro di lui c’era un’azione legale in relazione alla violazione del Securities Act degli Stati Uniti. Nonostante quanto sopra, l'agenzia maltese che gestisce e approva le vendite della cittadinanza maltese non è riuscita a individuare queste questioni e ha conferito a Hurgin la piena cittadinanza nel 2016». Casa ha affermato che la questione solleva nuove e legittime preoccupazioni nei processi di “due diligence” nello screening dei cittadini stranieri che desiderano acquistare la cittadinanza europea attraverso questo schema sempre più controverso.  «Di volta in volta abbiamo visto innumerevoli esempi dello schema andare storto. Le conseguenze di ciò sono serie. Con questo schema e simili in altri Stati membri, l'Europa sta aprendo le porte a persone che intendono utilizzare la loro cittadinanza appena acquisita per promuovere le loro azioni criminali, invitando apertamente a un aumento del riciclaggio di denaro e alla criminalità organizzata - ha continuato - Le molte promesse fatte dal governo maltese in relazione a questo schema sono state inutili. Non solo lo schema non è stato reso più rigoroso, ma la situazione sembra peggiorare giorno dopo giorno. Credo di parlare a nome della maggior parte dei cittadini interessati, di Malta e di altri Stati membri, quando chiedo la sospensione di questi sistema di vendita di passaporti e di mettere in campo per mitigare le conseguenze di quello che è successo».

Carlo Bonini per “la Repubblica” il 31 ottobre 2019. Tre ore di audizione segreta di fronte al Copasir, il Comitato Parlamentare di controllo sull' Intelligence, di Gennaro Vecchione, direttore del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza, non aiutano Palazzo Chigi a liberarsi del fantasma del Russiagate. Perché, per quanto è possibile ricostruire, non chiariscono definitivamente né la natura esatta, né la rilevanza delle informazioni che il 15 agosto e il 27 settembre la nostra Intelligence ha offerto all' Attorney General americano William Barr e al Procuratore John Durham. Né quelle che dagli americani avrebbe ricevuto in cambio. Vecchione, come era prevedibile, si muove infatti pedissequamente nel solco della testimonianza resa una settimana fa, sempre al Copasir, dal premier, attestandosi sull' ultima delle ricostruzioni proposte da Conte. La più innocua, politicamente parlando. Ma significativamente diversa da quella, probabilmente più sincera, ufficiosamente lasciata filtrare nei primi giorni della tempesta dalla stessa Presidenza del Consiglio. Non dunque uno «scambio di informazioni» utile sia alla Casa Bianca (accreditare la contro narrazione del Russiagate che vorrebbe Trump vittima, nel 2016, di un complotto architettato dai governi di Londra e Roma e accreditato dal Fbi della presidenza Obama) che a Roma («verificare eventuali complicità dei Servizi italiani e del governo Renzi nella costruzione del complotto »). Al contrario, un "atto di cortesia" verso l'alleato americano per «definire un perimetro preliminare di indagine relativo al lavoro svolto nel 2016 da agenti del Fbi a Roma». Per giunta, senza esiti apprezzabili. Dal momento che - questo ha sostenuto Conte e questo ha ripetuto ieri Vecchione - l' Intelligence del nostro Paese - Aise e Aisi - di informazioni utili non ne avrebbe avute. E dunque non avrebbe potuto consegnarne. Gennaro Vecchione rivoga insomma e di nuovo la storiella della scampagnata estiva in cui, per ragioni incomprensibili, il ministro della Giustizia statunitense si sarebbe imbarcato. Nonostante faccia a pugni con la logica. Per quale motivo, infatti, se il nostro Paese non aveva informazioni utili da offrire sul conto del Russiagate, sul suo uomo chiave, il professore maltese che professore non è, lo "zatat" Joseph Mifsud, Vecchione avrebbe fatto tornare a Roma Barr e Durham 42 giorni dopo il primo incontro? Ci volevano forse 42 giorni per dare un' occhiata ad archivi che si sapevano vuoti? O invece quei 42 giorni sono stati necessari perché la nostra Intelligence, fuori da ogni prassi e da ogni cornice legislativa, è stata messa a disposizione di un' indagine della Casa Bianca? Soprattutto, è una storiella che fa oggettivamente a pugni con quanto è tornato a dire "in chiaro" lo stesso ministro americano Barr proprio ieri in un' intervista a Fox news, la cable tv cinghia di trasmissione della Casa Bianca di Trump. «Il Procuratore John Durham che sta conducendo la contro-inchiesta sul Russiagate - ha detto Barr - è convinto che in Italia ci siano informazioni utili alla sua indagine». Di più. Facendo riferimento ai suoi colloqui con i governi australiano e italiano, Barr ha aggiunto: «Alcuni dei Paesi che Durham riteneva potessero avere informazioni utili all' indagine, volevano discutere preliminarmente con me della portata dell' indagine, della sua natura e di come io intendessi gestire informazioni confidenziali. Quindi, ho presentato Durham a questi Paesi e stabilito un canale attraverso cui può ottenere assistenza. In ogni caso, è Durham a capo dell' indagine, non io». Altro che innocuo viaggio di cortesia, insomma. Barr e Durham hanno stabilito «un canale di assistenza» e si sono convinti nelle due passeggiate romane che l' Italia sia lo snodo in grado di portare l' indagine penale dritto dritto al cuore dell' amministrazione Obama e di quello che ne fu uno degli uomini, l' ex direttore del Fbi James Comey (una delle prime vittime di Trump all'indomani del suo insediamento). Basterebbe questo a spiegare in che pasticcio si siano infilati Conte, Vecchione e, obtorto collo, i direttori delle due agenzie della nostra Intelligence, Aise e Aisi. E, a questo punto, delle due l'una. O l'amministrazione Trump sta bluffando, attribuendo agli incontri di Roma e alle informazioni che avrebbe ricevuto un' importanza che non hanno, pur di provare a inceppare la macchina dell' impeachment avviata dai democratici. O, al contrario, Washington non bluffa e, per superficialità, insipienza, piccolo calcolo di bottega, Palazzo Chigi si è infilato in un gioco infernale dove si sarebbe prestato a fornire prove di accusa contro i vertici di uno degli apparati della sicurezza statunitense, l'Fbi, e dunque una formidabile arma di scontro politico-istituzionale a un Trump che lotta per la sua sopravvivenza. Non stupisce, dunque, che il Copasir, ora guidato dall' opposizione leghista, ascolti e confidi, nella sua componente di centro-destra, che le audizioni di Conte e Vecchione oggi e dei direttori di Aise e Aisi domani potrebbero diventare a loro volta un' arma politica micidiale a fini interni qualora, in un tempo non lontano, l' indagine di Barr e Durham avesse una sua prima discovery e dovesse mettere in discussione la versione di Roma. Ecco perché il Russiagate è un fantasma che non passa.

Marco Liconti per adnkronos.com il 30 ottobre 2019. L'Italia ha avuto un ruolo di primo piano nel fabbricare il Russiagate ai danni di Donald Trump e ora qualcuno sta cercando di coprire il complotto ai danni di colui che, nel frattempo, è diventato il presidente degli Stati Uniti. Ne è convinto Giulio Occhionero, personaggio discusso e temuto, i cui tweet quotidiani mandano in fibrillazione gli addetti ai lavori, arrestato il 9 gennaio del 2017 insieme alla sorella, e nel luglio dell'anno successivo condannato per accesso abusivo a sistemi informatici. Secondo l'accusa, fratello e sorella avevano hackerato migliaia di account email istituzionali, compreso quello dell'ex premier Matteo Renzi. Intorno al nome di Occhionero e alle sue presunte attività illecite si è detto e scritto di tutto per una spy-story complicatissima i cui contorni, al di là del giudizio di primo grado, sono ancora tutti da definire. I fratelli Occhionero si sono sempre proclamati innocenti, puntando il dito sui loro accusatori circa la fabbricazione di prove in loro danno. L'Adnkronos ha rintracciato Giulio Occhionero ad Abu Dhabi e gli ha fatto alcune domande, partendo proprio dalla sua vicenda giudiziaria - il caso EyePyramid - nella quale è coinvolto insieme alla sorella Francesca Maria e dai presunti legami con l'altrettanto presunto tentativo di 'incastrare' Trump durante la campagna presidenziale del 2016. Le risposte, in quanto persona sotto processo, vanno prese con cautela. Ma ricoprono un profilo di interesse giornalistico proprio per i collegamenti sul Russiagate e sulle visite a Roma di Barr e Durham, a caccia del professore maltese Mifsud considerato figura chiave dell'intreccio internazionale, di cui ha recentemente riferito davanti al Copasir - e poi in una conferenza stampa - il premier Giuseppe Conte. "Una ricostruzione che non mi ha convinto neanche un po' e, anche se lo dico ormai da due anni, la gravità dei fatti non sembra smentirlo: qualcuno – dice Occhionero - sta mettendo a rischio la posizione internazionale dell'Italia per coprire gravissimi delitti che ha commesso verso il nostro principale alleato; delitti che sono anche gravissimi secondo il codice penale italiano. Tutti quelli che partecipano a questa copertura si macchiano di una enorme responsabilità verso il Paese". Va ricordato che sull'ipotesi del complotto anti-Trump si basa parte della difesa dei fratelli Occhionero, nel procedimento giudiziario nel quale sono coinvolti a Roma. Nella sua ricostruzione difensiva – che non ha trovato riscontri nella sentenza di condanna a 5 anni - Giulio Occhionero ritiene di essere rimasto vittima di un'operazione che aveva lo scopo di usare i suoi server, situati in territorio Usa, per far rinvenire all'Fbi elementi di collusione tra la campagna di Trump e Mosca. "Siamo stati condannati in primo grado e siamo in attesa di appello. Nelle memorie prodotte in giudizio abbiamo dimostrato che vi è stata una chiara fabbricazione della notizia di reato". E' per questo che Occhionero non crede alla narrativa ufficiale dell'origine del Russiagate, quella contenuta nel Rapporto del procuratore speciale Robert Mueller: il professore maltese Joseph Mifsud 'agganciò' a Roma il consulente della Campagna Trump, George Papadopoulos, offrendogli materiale "sporco" su Hillary Clinton, in possesso del governo russo. "Direi che indipendentemente dal mio giudizio, quello che era stato battezzato Russiagate, fino ad oggi, ha visto una sola persona coinvolta che doveva ricondurre al governo russo ed è la nipote fittizia di Putin, alias Olga Vinogradova, in realtà Polonskaya, barista di Trastevere, apparentemente compagna di viaggio del professor Mifsud ed agente provocatore di George Papadopoulos". Secondo Giulio Occhionero l'Italia ha avuto un qualche ruolo nella costruzione del Russiagate. A dimostrarlo, a suo dire, anche documenti in suo possesso. "Il prolungato silenzio riscontrato tra le diverse autorità dello Stato italiano credo si possa assumere come prova logica del coinvolgimento italiano. Nessuno si è attivato per fare luce e anzi tutti si trincerano dietro una imbarazzante logica della 'bocca cucita'". Del presunto ruolo italiano nella costruzione del Russiagate – ripetutamente smentito dal premier Conte e dall'intelligence tricolore - è convinto anche George Papadopoulos, che nell'ambito dell'inchiesta Mueller ha ricevuto una lieve condanna per aver mentito all'Fbi. In una recente intervista, l'ex consulente della campagna di Trump, che sostiene di essere stato vittima dell''agente provocatore' Mifsud manovrato dai governi amici dell'Amministrazione Obama, ha puntato il dito direttamente contro il premier dell'epoca, Matteo Renzi, ricevendone in cambio una querela. Lo stesso Occhionero, ipotizzando un ruolo dei servizi italiani, non esclude una regia governativa. "Senza una deliberazione politica di sostegno, che sembra per altro dedursi dalle finalità del Decreto sui Segreti di Stato del Governo Renzi del Novembre 2015, funzionari dell'intelligence sarebbero andati incontro a reati gravi che vanno dal 244 del codice penale fino all'Alto Tradimento, sempre secondo il codice penale italiano". Quanto alla Link University, citata nel Rapporto Mueller e più volte chiamata in causa nelle recenti ricostruzioni giornalistiche quale base romana dell'enigmatico Mifsud, Occhionero osserva come molti protagonisti del caso Russiagate e del procedimento EyePyramid che lo riguarda, "erano assidue presenze in quell'ateneo". Da osservatore esterno, seppur interessato, Occhionero ha qualcosa da dire su questo Mifsud: agente russo, agente provocatore manovrato dai servizi occidentali anti-Trump o semplice ciarlatano, come alcuni cercano di descriverlo? "Mifsud è russo così come io potrei essere nato su un pianeta extraterrestre. Comunque faccio notare che la storia dell'intelligence occidentale è anche tristemente costellata di ciarlatani. Non saprei dire, però, se questa deduzione su Mifsud ci permetta di affermare che l'intelligence italiana goda di ottima salute". Ma in tutto questo, allora, che fine ha fatto il professore maltese? Qui Occhionero azzarda l'impensabile. "Secondo me Mifsud è tutt'ora in gestione di una qualche autorità italiana". Prove? Nessuna. E il Russiagate si complica sempre di più.

Da adnkronos.com l'1 novembre 2019. Nei due BlackBerry "utilizzati da Joseph Mifsud" non sono presenti dati "favorevoli" o "rilevanti" per il procedimento penale a carico di Michael Flynn. E' quanto si legge nelle risposta che il Dipartimento di Giustizia Usa ha inviato a Sidney Powell, legale dell'ex consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca. Nella richiesta presentata alla Corte distrettuale del District of Columbia il 15 ottobre, l'avvocato Powell aveva chiesto al Dipartimento di Giustizia di produrre come prove a discarico di Flynn i due BlackBerry "in uso" al professore maltese, al centro delle presunte diramazioni italiane del Russiagate, convinta che tra i dati dei due dispositivi vi fossero elementi favorevoli al suo assistito. "Mifsud - si legge nel documento di replica depositato in tribunale il 29 ottobre - non ha alcun collegamento con le comunicazioni dell'imputato con l'ambasciatore russo nel dicembre del 2016" o con altre vicende connesse a Flynn, in relazione al suo caso giudiziario. Mifsud, si legge ancora nel documento, è invece "connesso all'attività criminale di George Papadopoulos, che il 7 ottobre del 2017 ha ammesso di aver mentito all'Fbi sulla natura e la tempistica delle sue interazioni con Mifsud". Un passaggio che richiama la ricostruzione contenuta nel rapporto Mueller. Va ricordato che quella di Flynn è stata la prima testa eccellente dell'Amministrazione Trump a cadere per l'affaire Russiagate. A dicembre del 2017 ammise di aver mentito all'Fbi durante un interrogatorio del gennaio dello stesso anno sui suoi rapporti col governo russo. Flynn, sulla scia della controinchiesta dell'attorney general William Barr e del procuratore John Durham sull'origine dell'indagine dell'Fbi sulla Campagna di Trump, e seguendo le orme dello stesso Papadopoulos, altra figura chiave del Russiagate e delle sue presunte diramazioni italiane, ora sostiene di essere stato incastrato. La notizia che il Dipartimento di Giustizia era in possesso di due BlackBerry con sim britannica, appartenuti a Mifsud, era emersa nelle scorse settimane. A divulgarla, producendo documenti ufficiali, era stata per l'appunto il legale di Flynn, Sidney Powell, senza spiegare come ne fosse venuta a conoscenza. Alcuni media Usa avevano associato l'acquisizione dei due BlackBerry da parte del Dipartimento di Giustizia alle visite effettuate a Roma ad agosto e a settembre da Barr e Durham. La notizia era stata smentita seccamente dall'intelligence italiana.

Caso Mifsud; perché nessuna Procura muove un dito? Un audio misterioso è l'ultima puntata della spy story sul Russiagate che coinvolge Joseph Mifsud. Malgrado i dubbi però la giustizia non se ne occupa. Maurizio Belpietro il 14 novembre 2019 su Panorama. La magistratura, vi prego, ficchi il naso nella storia che riguarda Joseph Mifsud. Da giorni, in solitaria, stiamo percorrendo chilometri alla ricerca di questo strano professore maltese che fino a poco tempo fa insegnava alla Link, l'università romana fondata dall'ex ministro dell'Interno Vincenzo Scotti. All'improvviso il docente, che gli americani sospettano di saperla lunga sul Russiagate, l'affaire che doveva incastrare Donald Trump e costringerlo alle dimissioni, è scomparso. Guarda caso la sparizione coincide con il suo coinvolgimento nel gran complotto contro il presidente americano. Cioè, visto che i funzionari del governo degli Stati Uniti gli davano la caccia, per farsi raccontare che cosa sapesse il professore avrebbe fatto perdere le proprie tracce. Nessuno è in grado di dire se Mifsud abbia preso il volo volontariamente o no. Secondo il suo avvocato, che pare aver consegnato agli uomini di Trump un mucchio di carte, qualcuno dei servizi segreti italiani ha consigliato i vertici della Link di farlo sparire, e uno 007 si sarebbe incaricato di persona di accompagnarlo in un luogo segreto. I nostri cronisti hanno rintracciato l'ultimo nascondiglio del misterioso personaggio: un paesino disperso sui monti delle Marche; e in zona si ricordano di lui, di averlo visto per lo meno fino a pochi mesi fa da quelle parti. Detto ciò, noi della Verità ci diamo da fare per chiarire il mistero, per conoscere cioè che fine abbia fatto il professore, se sia davvero l'uomo del complottone transoceanico o semplicemente un millantatore, oppure anche una vittima di qualcuno che ha montato ad arte questa storia. Ecco, mentre noi facciamo tutto pubblicando documenti e testimonianze inedite, all'improvviso spunta un messaggio registrato da un signore che dice di essere Mifsud e che viene recapitato a un paio di redazioni, ossia all'Adnkronos e al Corriere della Sera.

Simone Di Meo per “la Verità” il 14 Novembre 2019. Il getto d' acqua è già caldo, quando squilla il cellulare. «Io non ho notizie da darle su Joseph Mifsud. Guardi, sto per fare la doccia in questo momento, e non ho proprio il tempo». Alessandro Zampini è il compagno di Vanna Fadini, supermanager della cassaforte della Link campus university. Ma è soprattutto l' uomo che, nella sua palazzina a Esanatoglia, nelle Marche, a fine 2017, ha offerto ospitalità a Joseph Mifsud, il testimone chiave del Russiagate. Zampini risponde controvoglia e non fa nulla per nascondere la premura di interrompere quanto prima la comunicazione. Facciamo però in tempo a chiedergli perché ha aperto le porte di casa a uno degli uomini più ricercati al mondo. Lui sbuffa, e prima di chiudersi nel box doccia si chiude in un silenzio stampa. «Non glielo dirò mai, ma la cosa è così stranamente banale che non ha neanche idea. Quindi lasci perdere». Un motivo in più per raccontarla, obiettiamo. La doccia è sempre lì ad attendere, e ormai il vapore sta saturando la stanza da bagno. «Non voglio essere coinvolto in questo giro mediatico... non mi coinvolga, non mi ci sporchi dentro, mi lasci fuori perché non ho nessuna intenzione...». E alla fine respinge pure l' ultima richiesta di chiarimento. «È un mio fatto personale. Le ho risposto. Arrivederci». Come ha rivelato La Verità, nella proprietà di questo medico chirurgo specializzato in odontostomatologia, che assomiglia un po' a Franco Nero, ha trascorso il Natale 2017 l' ex docente dell' ateneo romano che avrebbe agganciato l' entourage di Donald Trump per offrire informazioni riservate sulle mail rubate dagli hacker russi a Hillary Clinton. Joseph Mifsud diceva in giro di essere lì per scrivere un libro, e ha passato qualche serata anche al Bar centrale del paese, ma il proprietario, Christian Marani pare non rammentarlo. «La sera di Natale qui è praticamente un delirio, comunque dal viso non riesco proprio a ricordarmelo», dice al nostro giornale. «Comunque se Rosy (una delle testimoni citate dal nostro giornale, ndr) dice che è stato qui sicuramente è vero. Lei conosce tante persone ed è seria». Non c' è proprio speranza di un flashback?, insistiamo. «Se avessi potuto vedere le telecamere, le avrei visionate ma a distanza di due anni si cancellano automaticamente. Sarei curioso anche io di vederlo questo signore». Secondo l' avvocato di Mifsud, Stephan Claus Roh, il docente maltese sarebbe stato costretto dai servizi segreti italiani a lasciare in fretta e furia l' abitazione di Roma e a fare rotta verso Esanatoglia dopo un' intervista a un quotidiano che l' avrebbe esposto eccessivamente. Così in fretta da non poter prendere nemmeno gli effetti personali da casa. «Era un prigioniero libero», ha spiegato il legale alla Verità. «A Matelica (in realtà in un paesino vicino, ndr), la signora Vanna Fadini e Pasquale Russo (direttore generale dell' ateneo, ndr) in un secondo momento gli portarono vestiti e cibo». Quindi, per qualche settimana, Mifsud è stato effettivamente ospite della famiglia di un alto dirigente dell' università, e dunque Roh ha detto la verità. Zampini è una piccola celebrità in paese, dove è nato nel luglio 1954 e dove tuttora torna per far visita all' anziana mamma, Luciana. In provincia di Macerata (dove curiosamente ieri il premier, Giuseppe Conte, già ascoltato dal Copasir sulla collaborazione offerta dai servizi segreti italiani alle autorità Usa nel Russiagate, ha partecipato all' inaugurazione dell' anno accademico dell' università di Camerino) il medico chirurgo possiede un bel po' di proprietà: al catasto risultano 11 fabbricati e sei ettari di terreno a Esanatoglia. Altri due immobili sono a Viterbo e a Sassari, tre a Chieti e cinque a Roma, suo luogo di residenza. Il professionista è anche consigliere della Fondazione Link campus university (nominato il 2 ottobre 2015) e del cda della Link campus, ma stranamente da qualche settimana il sito dell' ateneo non riporta più il suo nome che è invece ancora rintracciabile in rete. Chissà come mai. Dal compagno di Vanna Fadini, vera donna di fiducia dell' ex ministro dc Vincenzo Scotti e amministratore della Global education management srl, passiamo ora però al figlio di lei. Si chiama Federico Pier Maria Citi, nato e residente a Roma. Trentasei anni e una molteplicità di poltrone in ambito universitario. È amministratore della Link consulting srl (nomina dell' agosto 2018), e consigliere della Link campus university (nomina del 14 gennaio 2019), e della Fondazione Link campus university (nominato sempre il 14 gennaio scorso), proprio come il «patrigno». Il sito dell' ateneo lo inserisce addirittura tra i soci fondatori della Fondazione, costituita il 16 giugno 2000. Un record di precocità imprenditoriale per questo giovane rampante considerato che all' epoca aveva 17 anni e tre mesi. Citi è stato inoltre amministratore unico e socio unico della E&Ac srls, oggi inattiva. Mentre non ricopre più incarichi nella Factory 3.0 srl, in liquidazione; e dal 2011 nella Perfect job srl, che tuttora si occupa di autonoleggio di vetture e veicoli leggeri senza conducente. È inoltre proprietario in regime di separazione dei beni di un immobile di 7,5 vani zona Parioli. Sul suo profilo Facebook esibisce, oltre ad appassionati messaggi d' amore per la consorte, uno stile di vita che colpisce. Ci sono decine di foto di viaggi in giro per il mondo e immagini che lo ritraggono mentre riposa a bordo piscina o in località esotiche. Il suo papà è l'imprenditore Massimo Citi, fondatore e amministratore unico dell' omonima società di distribuzione. Un' azienda tra le più importanti del settore, in Italia, con cinque sedi (Milano, Bologna, Firenze, Roma e Napoli) che si occupa di spedizioni in tutto il Paese. Suoi settori di competenza - informa un articolo a pagamento su un quotidiano postato sul profilo Fb da Citi jr - sono l' editoria, l'elettronica, la cancelleria e l' abbigliamento. La società conta una flotta di 160 furgoni e 30 mezzi pesanti e movimenta 5.000 pacchi al giorno. Moglie di Federico Citi è invece Alessia Di Risio che, come lui, condivide la passione per una vita interamente social. Sul suo Facebook è possibile imbattersi in decine di immagini glamour e scatti di tranquilla (e lussuosa) vita familiare nella splendida villa con piscina del suocero. Alessia Di Risio - che ovviamente nulla c' entra con il Russiagate e con i misteri della Link campus university - è la sorella di Luca Di Risio, cantautore che nel 2004 raggiunse il successo con un tormentone che, in questa guerra di spie tra Roma, Mosca e Washington, appare quasi come un invito: «Ci vuole calma e sangue freddo».

Ecco chi ha fatto incontrare Mifsud e Papadopoulos alla Link. Roberto Vivaldelli su it.insideover.com il 13 Novembre 2019. La storia è nota: secondo la ricostruzione ufficiale, Joseph Mifsud affermò in un incontro dell’aprile 2016 a George Papadopoulos, consigliere della campagna di Trump, di aver appreso che il governo russo possedeva “materiale compromettente” (dirt) su Hillary Clinton “in forma di e-mail”. A quel punto l’ex consulente del presidente avrebbe ripetuto tali informazioni all’alto Commissario australiano a Londra, Alexander Downer, che a sua volte riferì tutto alle autorità americane. Da qui, il 31 luglio 2016, partirono le indagini dell’Fbi sui presunti collegamenti fra Donald Trump e la Russia, accuse che in seguito si sono dimostrate inconsistenti. Mifsud e Papadopoulos si incontrano a Roma la prima volta, alla Link Campus University, nel marzo 2016. Un incontro casuale? Assolutamente no. È Nagi Idris, direttore della London Centre of International Law Practice (Lcilp), a presentare George Papadopoulos a Mifsud. “George, dice Nagi. Questo è il professor Joseph Mifsud e dovresti parlarci”, scrive Papadopoulos nel suo libro Deep State Target. Mifsud, sottolinea l’ex advisor di Donald Trump, “è l’uomo che Nagi aveva pianificato di incontrare, l’uomo che Nagi aveva chiesto ad Arvinder Sambei di contattare, e l’uomo che Nagi aveva descritto come un personaggio importante, un docente con grande esperienza diplomatica e ampi contatti. Un uomo, in altre parole, che può cambiarti la vita”.

La strana società londinese in cui lavoravano Mifsud e Papadopoulos. Lcilp è uno studio legale curioso, più vicino a un think-tank. Un ex dipendente ha spiegato a Quartz in un’inchiesta di qualche tempo che “c’è molta segretezza su ciò che fanno”. La stessa fonte ha descritto l’organizzazione, che è stata fondata nel 2014, costantemente alla ricerca di grandi contratti. Il ruolo di Mifsud in Lcilp era quello di attirare potenziali clienti, idealmente i governi a cui la società poteva fornire consulenza in materia di diritto internazionale, ha affermato l’ex dipendente. Papadopoulos ha trascorso tre mesi a servizio della società londinese, prima di unirsi alla campagna di Trump del 2016, anche se i due si incontreranno soltanto a Roma, alla Link. Il co-direttore insieme a Peter Dovey è Nagi Idris, già direttore di 18 società diverse dal 2001 al 2016, secondo la documentazione di Companies House. Lcilp ha pagato l’affitto in una serie di sedi di grande prestigio nel distretto legale di Londra, nonostante abbia chiuso il 2016 con debiti di che ammontano 329mila sterline, una somma considerevole per un’azienda con una manciata di dipendenti (soltanto quattro). In questa pagina d’archivio compare anche il nome di Joseph Mifsud, in qualità di direttore dello sviluppo strategico internazionale. Nel team di Lcilp compaiono anche i nomi di Martin Polaine, esperto di diritto internazionale dei diritti umani e giustizia penale e Arvinder Sambei. L’esperto di intelligence Chris Blackburn ci spiega che Polaine e Sambei “hanno lavorato con il Dipartimento di Stato americano” e Lcilp ha tenuto “uno dei primi seminari sull’antiterrorismo presso la London Academy of Diplomacy” di Mifsud. Sambei, spiega Blackburn, “è stata consulente del Global Center nel 2014 e contemporaneamente è diventata direttrice della Lcilp con Martin Polaine”. Sambei ha lavorato e tenuto seminari con Mike Smith, già capo di Stato Maggiore del già citato ex ministro degli Esteri australiano, Alexander Downer.  Idrisi, Polaine, e Sambei sono i rappresentanti della Lcilp che avrebbero spinto Papadopoulos, secondo il suo racconto, a recarsi a Roma e a incontrare Mifsud. Come riferisce Blackburn, curiosamente, Polaine ha lavorato con il Dipartimento di Stato Usa sulla corruzione in Ucraina. “È stato uno di quelli che mi ha spinto ad incontrare Mifsud”, incalza su Twitter Papadopoulos. “Non so se Polaine sia stato alla Link Campus – sottolinea Blackburn – tuttavia Polaine e Sambei avevano un contratto con il Dipartimento di Stato Usa in materia di intelligence e antiterrorismo”.

“Così mi chiesero di incontrare Mifsud alla Link”. Furono i suoi colleghi alla Lcilp a spingere Papadopoulos a incontrare Mifsud alla Link Campus di Roma. Lo racconta lui stesso nel libro Deep State Target: “Nel settembre 2015 sono stato contattato da un uomo chiamato Nagi Khalid Idris che mi offrì una posizione alla London Centre of International Law practice. Idris è una figura interessante. Cittadino britannico nato in Sudan, è il fondatore dell’En – Education Group Limited e del London Centre of International Law Practice. Mi offrì una posizione che sembrava molto interessante: direttore del Centre’s International Energy and Natural Resources Division. Nonostante il nome dell’organizzazione, non c’è molta pratica legale da fare qui. È essenzialmente un think-tank che offre consulenze nell’ambito del diritto internazionale”. Il piccolo ufficio dell’organizzazione, “situato a Bayswater, un quartiere con un importante minoranza araba, genera molto traffico internazionale”. Contatti, relazioni, e molto altro. Assoldato dalla Campagna di Trump, Papadopoulos torna a Londra all’inizio di marco 2016 da Nagi Idris, per comunicare ai colleghi la sua decisione di lasciare Londra e dedicarsi all’imminente campagna elettorale. “Cambiò atteggiamento, e cominciò a dirmi che dovevo incontrare qualcuno di molto importante e che sarebbe stato molto importante per il lavoro con Trump. Ricordo che Nagi mi disse che questa persona conosceva molta gente e insistette a farmi partecipare a una conferenza alla Link Campus University di Roma”. È il 12 marzo 2016 quando Papadopoulos arriva a Roma, alla Link Campus. Un momento cruciale per comprendere le origini del Russiagate e la successiva inchiesta condotta dal procuratore generale William Barr e da John Durham che dovrà stabilire chi e per quale motivo ha fabbricato false prove al fine di incastrare Trump e alimentare la tesi della collusione con il Cremlino. È proprio a Roma che Papadopoulos incontra il docente maltese Joseph Mifsud, l’uomo scomparso nel nulla che, secondo le autorità americane, rappresenta la chiave di tutta questa incredibile spy story che sta travolgendo anche l’Italia.

Marco Liconti per adnkronos.com il 13 novembre 2019. Questa notte alle ore 1.53 l'Adnkronos ha ricevuto sulla sua casella di posta elettronica una mail con il seguente messaggio: "Spero che farete conoscere le mie parole, per favore ascoltate i file allegati". Il messaggio, inviato con un sistema di mail anonimo e criptato che ha sede in Svizzera, è firmato JoMif, acronimo che sta, o dovrebbe stare, per Joseph Mifsud, il protagonista dell'affaire internazionale Russiagate, scomparso nel nulla due anni fa. Nei file audio allegati alla mail c’è la voce di una persona che si qualifica come Joseph Mifsud e che in data 11 novembre 2019 rilascia alcune dichiarazioni registrate. Non conoscendo la voce di Mifusd per un riscontro abbiamo fatto ascoltare un piccolo estratto della registrazione sia ai vertici della Link (che con lui hanno avuto a che fare nell'università finita nella bufera) sia all'avvocato svizzero Stephan Roh (che dal maggio 2018 ha avuto dal professore maltese la delega a seguirlo nella complessa spy story internazionale che coinvolge Italia, Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna e Australia). I vertici della Link confermano all'Adnkronos che la voce impressa nei file audio è effettivamente quella di Joseph Mifsud, "al 100 per cento è lui" dicono. Lo conferma Pasquale Russo, direttore generale della Link Campus e lo conferma anche il presidente Vincenzo Scotti oltre che la signora Vanna Fadini, amministratrice della Gem società di gestione della Link. Secondo l’avvocato di Mifsud, invece, non si tratta della voce del suo assistito ma di una voce italiana contraffatta. “E’ assolutamente falsa, al 100 per cento”. Dice Roh: “Voce troppo alta, non il suo accento, non la tonalità, sembra un vero italiano”. Abbiamo contattato altre persone che conoscono Mifsud, nessuno ci mette la mano sul fuoco anche per la qualità dell’audio ma osservano la “straordinaria somiglianza” con la voce del vero Mifsud. Qual è la verità? Perché due versioni contrapposte sulla stessa persona? E’ la voce del vero Mifsud che chiede aiuto in questo nastro affidato all’Adnkronos, oppure è qualcuno che vuole spacciarsi per Mifsud e depistare? Quel che è certo è che l’imminente pubblicazione del rapporto del procuratore americano John Durham insieme alle continue rivelazioni giornalistiche italiane sulla spy story (l’ultima oggi con il quotidiano la Verità che ha scovato vicino Matelica il luogo dove Mifsud si sarebbe nascosto per qualche tempo dopo la sua scomparsa) stanno mettendo in fibrillazione il mondo dell’intelligence e della politica italiana e internazionale. L’Adnkronos metterà a breve a disposizione di tutti, sul suo sito adnkronos.com, il “vocale” arrivato questa notte. Questo sia per dare a chiunque la possibilità di farsi un’idea sull’audio ma soprattutto per permettere a chi ha gli strumenti adeguati di fare le opportune comparazioni e sovrapposizioni vocali per capire se la voce è di Mifsud (“al 100 per cento è la sua” come dicono alla Link) oppure no (“Al 100 per cento non è la sua” come giura il suo avvocato Stephan Roh). Il contenuto dell’audio lo troverete trascritto a breve, di seguito, sulla rete dell’agenzia e sul sito di Adnkronos. L’appello lanciato nell’audio è una richiesta d’aiuto e un messaggio indirizzato a chissà chi: “è estremamente importante che qualcuno, da qualche parte, decida di farmi respirare di nuovo”. "Oggi è l'11 novembre 2019, io sono Joseph Mifsud, questa è la mia voce". Inizia così l'audio in inglese fatto pervenire per e-mail stanotte all'Adnkronos, in due diversi file, nella quale una voce che sostiene essere quella di Joseph Mifsud, il professore al centro del Russiagate, rilascia una serie di dichiarazioni. "Vorrei prima di tutto dire che non ho assolutamente nessun contatto con amici e famigliari e che non ho avuto contatti con amici e famigliari per diversi mesi. Sono quasi due anni ormai che l'intera questione è esplosa ed è stata presentata ai media mondiali e sul palcoscenico mondiale come se avessi qualcosa a che fare con questioni riguardanti Paesi o avessi tentato di infiltrami, è assolutamente assurdo, in programmi, contatti o qualsiasi altra istituzione del mondo", afferma la voce. "Sono stato per tutta la vita un uomo di relazioni e questo è quello che so fare bene. Provo a mettere in contatto un gruppo con un altro (ma, ndr.) no e sottolineo no, nessuno in qualsiasi servizio, servizio segreto o di intelligence o nessuno di questo tipo. Se ho avuto contatti con questi non sapevo che quella persona o questa persona aveva legami con qualsiasi istituzione. E questo è estremamente importante", dice la voce nell'audio. La voce che sostiene essere quella di Joseph Mifsud prosegue: "Ho categoricamente smentito e smentisco, come ho fatto negli unici due interventi che ho fatto, uno su La Repubblica e l'altro quando venni chiamato nei giorni iniziali, credo fosse il primo giorno quando questa cosa è uscita, dal Daily Telegraph di Londra. Non ho mai avuto niente a che fare (con questa vicenda, ndr). Non ho fatto altro che, come ho sempre fatto, mettere A in contatto con B e B in contatto con C per scopi direi puramente accademici". "L'idea è quella di avere reti (di contatti, ndr). Sono sempre stato coinvolto nei think tank, questi think tank sono fatti per far parlare un gruppo con un altro su un determinato argomento. Questo è tutto. Non è mio intento, mai lo è stato, ottenere informazioni da passare da una parte all'altra. Non ho mai fatto così, perché non sono mai stato in possesso di informazioni utili a qualcuno o qualcun altro". "Tutto quello che conoscevo erano persone che venivano da think tank. In termini di istituzioni che ho rappresentato nel passato, posso assicurarvi sia nel Regno Unito, in Italia e altrove ho sempre tentato di garantire che i giovani avessero l'opportunità di interagire gli uni con gli altri e questo è tutto". "Recentemente - prosegue la voce nell'audio - sono stato informato in maniera affidabile che Link Campus è stata accusata di mettere in atto questioni o essere coinvolta con servizi (di intelligence, ndr). Categoricamente smentisco e mi rifiuto di accettare qualsiasi cosa di questo tipo. Non c'è mai stato nulla di questo tipo". "Naturalmente -continua la voce nell'audio- ho amici e conoscenze dall'università, ma è importante dire che questi rappresentano i loro interessi. Quindi non ero io che tentavo di metterli in contatto con qualcun altro. Non me lo hanno mai chiesto e assolutamente mai e poi mai tentato di farlo". "Ogni volta che ho incontrato qualcuno, e questo è stato dimostrato più volte, ho tentato di tenere quella persona o quell'istituzione in mente, se c'era un progetto o un evento in cui quell'istituzione poteva effettivamente giocare una parte. Questo è quello che ho tentato di essere. Mi sono sempre considerato, anche per la mia fede cattolica, un costruttore di ponti, un ponte tra l'uno e l'altro. Naturalmente ho le mi idee su certe cose e quindi se qualcuno mi chiede come le cose saranno, cosa penso accadrà, ovviamente ho un'opinione come ogni altro essere umano al mondo", sostiene la voce nell'audio.

Giacomo Amadori e Antonio Grizzuti per “la Verità” l'11 novembre 2019. Quest'estate, mentre il procuratore statunitense John Durham era impegnato a trovare prove su un presunto complotto contro Donald Trump (il cosiddetto Russiagate), il personaggio chiave dell' inchiesta, il «professore» Joseph Mifsud, era un fantasma. Sembra persino per il suo avvocato. La Verità ha letto il drammatico scambio di mail, avvenuto tra giugno e agosto 2019, tra il legale tedesco, Stephan Claus Roh, e i dirigenti della Link campus university (Lcu), con cui Mifsud aveva collaborato prima di sparire. In quei messaggi, il difensore, titolare del 5 per cento delle quote della Global education management (Gem, la cassaforte dell' ateneo), consigliava agli uomini della Link di collaborare con Durham, invitandoli a svelare se tenessero il prof ancora nascosto. Sospetti rispediti al mittente dai soci di Roh. Nelle carte, comunque, l' avvocato, che nel maggio del 2018 ha raccolto una testimonianza audio di Mifsud (consegnata a Durham), mette nero su bianco accuse davvero pesanti. Per lui Mifsud è stato fatto sparire «su indicazione italiana e britannica». Il doppio riferimento a Roma e Londra non sarebbe casuale. Infatti secondo Stephan Roh, il professore sarebbe o almeno sarebbe stato un «serviceman» delle agenzie di intelligence occidentali. «Era impegnato in "missioni"», ha dichiarato il legale all' Adnkronos, citando esplicitamente il servizio segreto inglese MI6 al quale Mifsud sarebbe stato direttamente legato attraverso il London centre of international law practice, per il quale lavorava. E proprio il Regno unito è un tassello importante per ricostruire il periodo di «latitanza» del fuggitivo. Inizialmente il professore 007 sarebbe rimasto nascosto per due mesi, dal 31 ottobre 2017 sino alla fine di dicembre, a Matelica, in provincia di Macerata. Il suo nascondiglio sarebbe stato la casa di un dentista amico di una dirigente della Link. Una «vacanza» forzata in cui sarebbe stato sostenuto dagli «amici e colleghi» della Link. Ma da gennaio succede qualcosa: Mifsud sposta dei soldi da Oltremanica. Grazie a una comunicazione del servizio clienti della Santander consumer bank apprendiamo che il 15 gennaio 2018 il maltese fa partire un bonifico di 20.000 euro (circa 18.000 sterline) indirizzato su un conto corrente di Intesa Sanpaolo acceso presso la filiale di Raffadali, in provincia di Agrigento. Entrambi i conti sono intestati a Mifsud, che nel documento in possesso della Verità risulta domiciliato presso lo studio di un professionista londinese. Ma perché i soldi sono stati spediti su un conto siciliano? Forse si trattava di un vecchio rapporto bancario che il «professore» aveva aperto dopo che, nel 2008, era diventato presidente del consiglio d' amministrazione del Consorzio universitario di Agrigento. Dal gennaio del 2018 Mifsud potrebbe essersi mantenuto con quel denaro. Ma il maltese durante la sua vita randagia avrebbe utilizzato anche una carta di credito intestata a Debenhams, una catena della grande distribuzione, con un plafond di sole 1.000 sterline, con cui ha anche ritirato contanti. Per ora sono stati apparsi sui media solo gli estratti conto relativi ai mesi di luglio, agosto, settembre e ottobre 2018, tutti recapitati al solito indirizzo di Londra. Ma dall' ottobre dell' anno scorso che fine ha fatto Mifsud? Roh sostiene d' averlo domandato anche al procuratore americano. «Gli ho chiesto se lo avesse incontrato, in Italia. Mi ha risposto che anche se lo avesse incontrato, non me lo avrebbe detto. Ma parlando con Durham ho ricavato l' idea che Joseph sia ancora vivo, lo spero davvero. Credo che i suoi movimenti siano ora più ristretti. Non può comunicare come prima. E poi credo che anche lui (Durham, ndr) sia dell' idea che Joseph Mifsud, l' introvabile Mifsud, non sia un agente russo». Per Roh, il suo cliente era certamente vivo nella primavera di quest' anno: «Ho avuto contatti indiretti con lui tramite la sua famiglia. Sempre in primavera, una sua amica ha comunicato con lui e mi ha detto che era in Italia, a Roma. Personalmente, l' ultimo contatto diretto che ho avuto con lui è stato alla fine dello scorso anno». Roh il 25 luglio scorso ha scritto a Vanna Fadini, amministratore della Gem (la società di gestione della Link), e al direttore generale della Lcu, Pasquale Russo, invitandoli a collaborare con le autorità Usa: «Ritengo che sia necessario che tu, Vanna, Pasquale e Scotti, in riferimento alle questioni sollevate e alle accuse di Joseph, rilasciate dichiarazioni e informazioni e che sia necessario che collaboriate con il nuovo procuratore speciale degli Stati Uniti. Sono disponibile a discuterne con voi e posso fare da tramite. Sarebbe utile se voi poteste aiutare a trovare Joseph e metterlo in contatto con il procuratore speciale». Le contestazioni dell' avvocato sono abrasive: «Sono dell' opinione che Joseph sia vittima della macchinazione contro Trump, e che sia stato costretto e minacciato affinché si nascondesse e rimanesse in silenzio fino alla conclusione del processo politico negli Usa». In un altro passaggio del carteggio si legge: «Durante la sua visita a Zurigo, Joseph ha spiegato molti fatti e ha sollevato accuse sostanziali contro di voi. Ha spiegato e abbiamo registrato che "i suoi amici e colleghi a Roma" (cioè voi, anche su indicazione italiana e britannica) lo stavano tenendo nascosto, facendo pressione su di lui perché stesse in silenzio». Il 6 giugno Roh aveva già scritto: «È un dato di fatto che "alcune persone che appartengono alla Link" abbiano nascosto Joseph Mifsud. Secondo Mifsud lui era nascosto anche a Matelica, in una casa precisa». Quasi due mesi dopo, il 25 luglio, il professionista tedesco chiede alla Fadini e a Russo di smentire le parole del suo assistito: «Voi e Scotti stavate nascondendo Joseph Mifsud, come lui stesso sostiene, a Matelica e nell' appartamento romano (ancora oggi?) tra il 2017e il 2018». Insomma il legale fa capire di sospettare che Mifsud sia ancora sotto la «protezione» dell' ateneo romano. Ovviamente dalla Link respingono ogni accusa e annunciano querele contro l'avvocato-socio.

Giacono Amadori e Antonio Grizzuti per “la Verità” 13 novembre 2019. Il fantomatico professore Joseph Mifsud è stato davvero nei dintorni di Matelica (Macerata), nell' autunno di due anni fa. La Verità ha parlato con chi l' ha incontrato. Ma di fronte a questa clamorosa novità, sorge spontanea una riflessione: se è vera questa parte del racconto che Mifsud ha fatto al suo avvocato Stephan Claus Roh, potrebbe essere altrettanto credibile anche il resto del suo memoire. Sia il capitolo sulla sua sparizione organizzata da parte dei vertici dei nostri servizi che quello riguardante il meeting strategico dentro alla Link campus university a cui avrebbero partecipato, il 25 febbraio 2015, dopo l' esplosione del cosiddetto Russiagate sui media internazionali, il premier Paolo Gentiloni e il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore. L' avvocato Roh, nei giorni scorsi ci ha raccontato che il suo assistito, il giorno di Halloween del 2017 era stato fatto sparire e spedito in una casa di Matelica, dimora che «appartiene a un amico della Fadini, un dentista». Vanna Fadini è l' amministratore della Global education management, la società di gestione della Link campus university, l' ateneo con cui Mifsud collaborava prima di sparire. La signora, sollecitata dalla Adnkronos, aveva replicato così alle insinuazioni: «Mai ospitato nessuno a Matelica, non ho nessuna casa a Matelica, nessun amico dentista, nessuno. Se proprio devo pensare a qualcuno di Matelica mi viene in mente un direttore d' orchestra». E in fondo aveva ragione. Infatti il medico chirurgo specializzato in odontostomatologia, Alessandro Zampini, non è un suo amico, ma il suo compagno, e ha casa a 6 chilometri da Matelica, a Esanatoglia, paesino di 1.900 anime, dove è nato nel luglio del 1954. Qui Zampini, che risiede a Roma, si reca spesso, anche perché nel paesino delle Marche vive sua madre Luciana. E nel borgo si reca insieme con la compagna, la Fadini appunto (con la quale condivide anche un seggio nel consiglio d' amministrazione della Link campus university). Due anni fa qualcuno ha avvistato nella casa della coppia anche un professore che da queste parti non avevano mai visto. Il sindaco Luigi Nazzareno Bartocci (ex di Forza Italia, guida una lista civica orientata verso il centro destra) è sorpreso: «Dalle nostre parti, in questi giorni, si parla molto di questa storia. Però io Mifsud non l' ho mai visto, né conosciuto. Non pensavo c' entrasse il nostro paese». Che è nel circuito dei borghi più belli d' Italia e ha la spiga verde per l' ambiente, ci tiene a precisare il primo cittadino. Ma Bartocci ha altre cose a cui pensare: prima di tutto alla ricostruzione post sisma (Esanatoglia è stato colpito dalle scosse del 26 e del 30 ottobre 2016) «che sta lentamente partendo». Ci sono ancora un centinaio di persone fuori dalle loro case, comprese quattro o cinque famiglie della «Pieve», la zona dove pare abbia soggiornato Mifsud. L' area, vicina alla piazza del Municipio, è la più alta del paese (siamo a circa 450 metri sul livello del mare) e le sue abitazioni, tutte risalenti al Medioevo, erano contenute dalla prima cinta muraria. La palazzina di Zampini si trova in via Contessa Pongelli, una delle ultime strade del paese, sulla via che porta alle sorgenti del fiume Esino. L' unica porzione agibile è proprio quella del dottore, ha una forma a elle e occupa circa un terzo del fabbricato. Il portone è imponente e in legno massiccio. Il caseggiato, color crema, è alto tre piani e pieno di finestrelle che danno l' idea della fortezza. Due famiglie che risiedevano in un' altra ala dell' edificio sono state sfollate. È, invece, agibile oltre all' appartamento del medico, anche quello a fianco, di proprietà della signora Rosangela Calisti, che insieme con il marito Alberto Amboni, durante l' anno vive in Lombardia e scende nelle Marche in estate, nei week end e nelle feste comandate. Ma ieri non era a Esanatoglia. Nell' autunno del 2017 il paesino era uno dei borghi più tranquilli e discreti d' Italia. Ideale per chi fosse stato alla ricerca di riservatezza. Praticamente un abitato fantasma. Roh ci ha detto che un capo dei servizi segreti si era raccomandato che Mifsud sparisse dopo che aveva rilasciato un' intervista a un quotidiano e un po' troppi riflettori si stavano accendendo sulla sua persona. E così sarebbe stato «spedito con una macchina direttamente a Matelica». Per la precisione a Esanatoglia. Proviamo a chiedere notizie su Mifsud a un vicino che abita in largo Panicale, con vista sul bel palazzo di Zampini. È il signor Bruno Bolognesi, perito elettrotecnico in pensione ed ex capogruppo dell' opposizione di centro sinistra in Comune. La prima risposta non promette niente di buono: «No, non ho mai incontrato un signore maltese». Era un conoscente del dottor Zampini, aggiungiamo. A Bolognesi si accende una lampadina: «Era un professore?». Risposta esatta. «Allora sì. Io non l' ho mai visto, ma mia moglie mi ha detto che per un periodo ha soggiornato qui un amico di Zampini, dell' Università di Camerino, Macerata o qualcosa del genere». Poi ci passa la moglie Danila, un' ex operaia da un anno in pensione: «Una volta ero sul mio balcone e ho visto passare una macchina con un signore dentro, aveva un capello, mi sembra, e non era del paese e allora una mia vicina mi ha detto che era un professore che stava da Zampini e che faceva qualcosa, non so se all' università di Camerino o di Macerata. Era due anni fa, sotto Natale. Ma perché lei non fa queste domande al padrone di casa? Guardi, qui siamo persone semplici e oneste e non abbiamo niente da nascondere, ma non vogliamo essere messi in mezzo. Le ripeto, l' ho visto passare una volta in auto, ma mai a piedi». E la Fadini? «Di vista la conosco, è venuta qualche volta in paese con il compagno». La vicina della signora Danila si chiama Nadia Buldrini, è un' operaia quarantenne, ma ha ricordi labili e sembra piuttosto diffidente: «Ricordo che qui c' è stato un amico del signor Zampini che non avevamo mai visto. Ma non so dirle altro». Visto che non stiamo riuscendo a trovare la conferma definitiva, decidiamo di contattare telefonicamente la signora Rosangela e il marito Alberto, i vicini «lombardi» di Zampini. E facciamo bingo. «Joseph Mifsud? Sì l' abbiamo conosciuto. Per quale motivo me lo chiede?» domanda la donna. Spieghiamo velocemente ciò di cui ci stiamo occupando e la Calisti si mette a ridere: «L' ho visto un paio di sere. È amico di un amico che conosco da tanti anni». Sta parlando di Zampini? «Sì». Che tipo è il professore maltese? «Una persona simpaticissima. Ci siamo incontrati in un bar. Io l' ho conosciuto come John. Passava davanti a casa mia e sentiva i profumi. Una sera si è fermato a parlare e poi siamo usciti a bere qualcosa insieme. C' era anche Zampini». Il locale è il bar Centrale. «Credo che lui abbia bevuto del whisky, parecchio anche. Parlava in inglese, abbiamo interagito così, abbiamo discusso un po' di tutto: di musica, mi ha detto che stava componendo delle poesie, che era lì per scrivere un libro». Ha affermato che si trovava lì per quel motivo? «Sì, questo è quello che ho saputo io». Quanto tempo siete rimasti insieme? «Da dopo cena sino a tarda notte, saranno state le due. Il tasso alcolico era abbastanza alto. Se ritrovate questo signore salutatemelo tanto, era molto simpatico». Ma c' era anche la Fadini quella sera? «Vanna? No». Interviene il marito Alberto e ricorda il giorno dell' incontro: «Mi è venuto in mente: era la sera della vigilia di Natale. Non so quanti giorni sia rimasto, durante le feste lì siamo tutti a zucca calda». Alla fine della nostra inchiesta abbiamo contattato Zampini per informarlo dell' avvistamento di Mifsud da parte dei suoi vicini e per chiedere ulteriori notizie. Il dottore non è parso gradire la nostra chiamata: «Parli con i miei vicini allora». Gradiremmo confrontarci anche con lei «Clic». Allora gli abbiamo scritto un messaggio su Whatsapp: «Vorremmo solo sapere perché Mifsud abbia vissuto a casa sua e l' avvocato Roh dica che era stato costretto. Se butta giù il telefono viene il sospetto che lei abbia qualcosa da nascondere. Se vuole ci può ricontattare a questo numero». La spunta blu ci informa che il dottore ha letto il messaggio. Ma non veniamo più richiamati.

Russiagate, il giallo dell'audio del sedicente Mifsud: "Fatemi tornare a vivere". Un uomo che dice di essere il "professore" invischiato nelle trame tra Roma e Mosca invia una registrazione a Repubblica con la sua verità. Mistero sull'autenticità del file. Carlo Bonini su La Repubblica il 13 novembre 2019. Nella notte scorsa, spedito da un account anonimo (IAM_JOMI) agganciato al server protonmail.com, servizio di posta elettronica crittografata on line fondato nel 2013 in Svizzera presso il Cern, sono stati inviati a Repubblica (alla casella di posta nominativa di chi scrive), al Corriere della Sera e all'agenzia di stampa AdnKronos, due file audio MP4, della rispettiva durata di 6 minuti e di 50 secondi, in cui un uomo, che parla in lingua inglese con un marcato accento maltese, sostiene di essere Joseph Mifsud, il professore che professore non è, lo "Zatat" di Valletta al centro dell'affaire Russiagate, ufficialmente scomparso dal novembre del 2017, dopo un'ultima intervista proprio a Repubblica (e a cui nell'audio si fa riferimento). Nell'audio, la cui data di registrazione viene indicata da chi parla nel 11 novembre scorso, il sedicente Mifsud si dice "separato ormai da mesi dalla famiglia e dagli amici" e nega di aver mai lavorato per Paesi o Intelligence estere. Si definisce un semplice "networker", un uomo di relazioni, "di fede cattolica e costruttore di ponti", il cui mestiere è tendere e favorire reti "per pure ragioni accademiche" e a "esclusivo beneficio dei giovani studenti" delle istituzioni accademiche presso cui ha collaborato nel Regno Unito e in Italia (la Link University di Roma nrd.). Concede che se mai, nel tempo, dovesse essere entrato in contatto con uomini di Servizi esteri questo è accaduto nella sua "completa inconsapevolezza". Aggiunge di "essere stato recentemente informato delle accuse mosse alla Link di aver svolto un ruolo" nel Russiagate e lo "nega categoricamente". Diffondendosi quindi in una sentita difesa dell'università il cui fondatore, Vincenzo Scotti, è tornato anche recentemente a definirlo un ciarlatano. Infine, una passaggio sulla sua scomparsa. "I miei amici, che continuo a considerare tali - dice l'uomo che si qualifica come Mifsud - mi hanno consigliato, quando la vicenda è esplosa, di tenere un profilo basso e riflettere sugli eventi. Ed è quello che ho fatto, cercando di mantenermi mentalmente vivo". Poi il congedo: "È estremamente importante che mi venga data la possibilità di tornare a vivere. È estremamente importante che qualcuno, da qualche parte mi consenta di tornare a respirare". Interpellati dall'Adn Kronos, la Link Univeristy ha riconosciuto la voce dell'uomo nell'audio come quella di Mifsud ("E' lui al 100 per cento", hanno sostenuto il fondatore dell'ateneo Scotti, il suo direttore generale Pasquale Russo e la signora Vanna Fadini, amministratrice della Gem, società di gestione della Link). Al contrario, l'avvocato svizzero tedesco Stephan Roh, legale e sodale di Mifsud, nonché principale motore e fonte della campagna di contro narrazione del Russiagate alla base della nuova inchiesta americana condotta dall'Attorney General William Barr e dal procuratore John Durham, ha definito la registrazione "un evidente falso". Per il tono della voce ("troppo alto"), l'accento ("italiano"), il contenuto ("Mi aspettavo un'indicazione per i suoi legali o che venisse di nuovo in vista nel nostro ufficio. Finora, quello che ci leggo non è niente di preciso, tranne quanto 'brava' sia la Link"). È un fatto che nella mail ricevuta da Repubblica alle 21.45 di ieri sera dall'account protetto "IAM_JOMI" (identico l'orario di ricezione al Corriere della Sera) vi sia un curioso errore nell'indicazione dell'oggetto ("Form Joseph Mifsud", anziché "from Joseph Mifsud") e che, anche a volerlo attribuire alla fretta o a un banale errore di battitura (un "pesce", come si dice nel gergo tipografico), si colgano nell'ascolto dell'audio delle incertezze nell'uso e nella pronuncia dell'inglese quantomeno singolari per un uomo che si è portato in giro le università di mezza Europa per quindici anni. È altrettanto certo che il contenuto assolutamente neutro dell'audio (il maltese si chiama fuori da tutto e si accredita come un uomo travolto da un insolito destino di cui è vittima inconsapevole e naif), la scelta di inviarlo a più destinatari a orari diversi (l'Adn Kronos lo ha ricevuto all'1 e 53 del mattino di oggi, quattro ore dopo Repubblica e Corriere della Sera) nel tentativo, riuscito (l'Adn Kronos ha diffuso l'audio e la sua trascrizione nel pomeriggio di oggi), di forzare o almeno moltiplicare le possibilità di una sua diffusione senza alcuna verifica certa della sua originalità e attendibilità, segnalino la fretta del mittente. Chiunque esso sia, anche fosse Mifsud. E questo allo scopo di increspare e confondere ulteriormente acque già assai torbide. Dove molti sono gli attori - sicuramente le Intelligence Russa e Statunitense - molte le allusioni, e altissima la posta in gioco, come del resto "Repubblica" ha documentato in queste settimane. Anche in casa nostra, dove i nostri Servizi continuano ad essere inseguiti dalla accusa, smentita più volte e periodicamente riaccreditata dall'avvocato di Mifsud, non solo di essere stati complici con le intelligence Inglese e Russa di un complotto ai danni della campagna elettorale di Donald Trump nel 2016, ma di aver protetto e continuare a proteggere il maltese nella sua fuga. Per queste ragioni, per l'impossibilità di verificare tecnicamente e professionalmente, in poche ore e con ragionevole certezza, non solo l'originalità dell'audio, ma anche l'assenza di manipolazioni - su tutte quella ormai diffusa del deepfake, tecnica di intelligenza articiale che consente di costruire ex novo un audio o un video contraffatto utilizzando immagini e suoni originali - per non dire dell'identità del suo mittente (coperta dal sistema di crittografia protonmail), Repubblica, nella notte di ieri, e nella giornata di oggi ha deciso di non pubblicare l'audio in questione. Il lavoro dei prossimi giorni ci aiuterà a comprenderne meglio non solo l'autenticità o meno, ma anche e soprattutto a definirne con maggiore esattezza il contesto. E dunque chi, perché e a che scopo stia manovrando in queste ore, magari scommettendo sul fatto che le redazioni dei giornali siano delle buche delle lettere o dei bollettini di avvisi ai naviganti.

Giacomo Amadori e Simone Di Meo per “la Verità” il 15 novembre 2019. Di questi tempi, alla Link campus university, non sfigurerebbe un corso di laurea su come non dire la verità (e vivere felici). Docenti d' eccezione i vertici dell' Ateneo che, sull' assistenza fornita al fuggiasco Joseph Mifsud, continuano a cambiare versione con svizzera puntualità. L' ultima giravolta è di ieri, e riguarda la circostanza - rivelata dal nostro giornale - che il docente maltese è stato ospite, nel piccolo paesino di Esanatoglia (Macerata), del compagno di Vanna Fadini, supermanager dell' università. Il presidente della Link, Vincenzo Scotti, interpellato dall' Adnkronos, con abilità tutta democristiana ha diramato un comunicato che, sostanzialmente, non comunica nulla. «Come presidente del Cda della Link campus university ho ricevuto una breve lettera rivolta ai membri del Cda dal dr Alessandro Zampini nella quale vengono spiegate le ragioni personali della breve ospitalità da lui offerta a Joseph Mifsud e quelle per cui ha ritenuto di volerne mettere al corrente il Cda solo in questo momento. Provvederò a sottoporre ai componenti del Cda il contenuto della missiva». Consiglio di amministrazione che, come ricorderanno i lettori, vede tra i suoi membri - oltre allo stesso Zampini - proprio la Fadini e il figlio di lei, Federico Citi. Tutti certamente ansiosi di conoscere per via ufficiale, nella solennità della riunione, quel che avrebbero potuto sapere facendosi un giro di telefonate. In ogni caso, nel dispaccio, Scotti non si sofferma sulle «ragioni personali» addotte da Zampini che, alla Verità, aveva parlato di un motivo «stranamente banale», rifiutandosi però di rivelarlo. Peccato che, appena 24 ore prima, il direttore generale della Link, Pasquale Russo, al Fatto avesse dato questa testimonianza. «Vanna Fadini non era stata informata dal compagno. Da quel che ho capito, Mifsud e Zampini erano appassionati di scacchi e trascorrevano giornate insieme. Sono rapporti personali, e Link non è stata informata dal nostro consigliere Zampini. Vanna Fadini lo ha saputo ieri sera». Dunque, l' arrocco della Link per difendere il re in realtà si è trasformato in una mossa che mette a rischio la regina. Se la ragione della vacanza marchigiana sono gli scacchi, perché Scotti ha censurato la lettera? La realtà è che questa storia è ricca di depistaggi. Come quello che la Fadini aveva messo in atto quando, per seguire le tracce di Mifsud, avevamo imboccato la strada dei borghi di Macerata concentrandoci su Matelica. «Mai ospitato nessuno a Matelica, non ho nessuna casa a Matelica, nessun amico dentista, nessuno», aveva risposto con baldanza la signora. A Matelica no, ma nella vicina (6 chilometri) Esanatoglia, sì. E nel piccolo paesino di 1.900 anime siamo tornati, e abbiamo scoperto che, quasi certamente, un dentista lei lo conosce. Siamo andati a trovarlo. Si chiama Gianluca Micucci e riceve in uno studio in cui il compagno della donna, Alessandro Zampini, visita - è chirurgo specializzato in odontostomatologia - due giorni al mese. «Ma quando c' è lui non ci siamo noi», ci spiega mentre chiude la porta a vetri su cui campeggia il fumetto di un molare con capelli e mustacchi corvini con orari e cellulare di reperibilità. «Chi cercate? Mifsud? Mai sentito, mai visto. Qui ognuno lavora coi suoi pazienti». In paese non dovrebbe passare inosservato, è un distinto signore che parla inglese. «Ho letto qualcosina sui giornali, ma non so che cosa dire. Speriamo che la sua presenza abbia aiutato a far conoscere un po' di più Esanatoglia». Chi potrebbe averlo incrociato, allora? «Non abbiamo nemmeno più i barbieri in paese. L' ultimo è morto qualche mese fa». Nel paesino, comunque, non c' è bar o locale pubblico dove non si parli del caso sollevato dal nostro giornale. La signora Graziella, moglie dell' ex medico condotto Enrico Sammarco (oggi consigliere comunale in una lista civica di centrodestra) ci dice: «Abbiamo letto il giornale. Guardi su Whatsapp, mi hanno girato anche l' articolo, con la foto di questo signore, ma qui non l' abbiamo visto». La mamma della signora vive a un centinaio di metri dalla casa dove il professore maltese è rimasto nascosto per un paio di mesi. Ma anche l' anziana donna non ricorda quel volto. Il nuovo dottore, Franco Fabiani, purtroppo ieri non era in ambulatorio e al cellulare non rispondeva. In fondo Mifsud aveva dichiarato che a Esanatoglia si era ritirato anche per limitare lo stress e far star tranquillo il cuore. Eppure non rammenta di averlo visto neanche la farmacista del paese, Anna Maria Giordani. Nessuno a Esanatoglia ricorda la faccia di Mifsud. E la giustificazione per quasi tutti è che in quel periodo avevano le teste occupate in altri pensieri, «nella ricostruzione» post terremoto, visto che il paese era stato colpito da due scosse nell' ottobre del 2016. Nella zona della Pieve dove si trova la bella casa del dottor Zampini, con elegante cortile e cappella privata, molte case hanno ancora le impalcature davanti alle facciate. I vicini che hanno già parlato con noi nei giorni scorsi, non vogliono più farlo. La signora Nadia con modi un po' spicci ci fa sapere dalla finestra, dove è affacciata a fumare, di non aver gradito la citazione sul giornale. «Tutto quello che sapevo ve l' ho già detto», bofonchia al citofono la vicina Danila, che neanche si affaccia. In largo Panicale gli unici che non hanno perso il sorriso sono sempre i componenti della famiglia Amboni, gli unici ad aver avvistato Mifsud ufficialmente. Una delle figlie conferma il racconto che ci aveva già fatto la madre Rosangela: «Mi ha detto che quel signore passava spesso davanti a casa nostra, anche in bicicletta». Ci spostiamo verso la chiesa, dove speriamo che qualcuno abbia notato Mifsud, che nel recente messaggio audio diffuso via mail si è professato un fervente cattolico. Dentro alla chiesetta di Sant' Anatolia (la patrona del paese dal cui deriva il nome del borgo) incontriamo la signora Sestilia che si offre di farci da cicerone. Ci mostra un' iscrizione d' epoca romana che testimonia come la chiesa prima fosse un tempio di Giove e poi indica la facciata e una grossa nicchia vuota: «Vede quel quadrato? Lì c' era una meridiana prima del terremoto del 1997 e ora non c' è più. Sono passati tanti anni e non si sa che fine ha fatto. Come tante cose che non si sa che fine hanno fatto in Italia». Impossibile non pensare a Mifsud. Nel negozio di ferramenta di piazza Giacomo Leopardi, i titolari Ferdinando e la moglie Renata ci dicono: «Abbiamo visto la foto, ma proprio non l' abbiamo notato». Nella gioielleria Gemme la titolare, Paola, elegante signora dai cappelli brizzolati, è intrigata dalla storia di cui parlano tutti: «Qui in paese vediamo spesso il dottor Zampini e la moglie Vanna. Ma questo Mifsud mai». Entriamo nel bar fuori dalla Porta nuova: «Cerca un albanese?» sorride Oltjon. No, un maltese. «Io sono da vent' anni in questo paese e se questo Milfsud avesse girato per strada qualcuno se lo ricorderebbe». E invece no, è un fantasma. Maurizio insiste per offrirci un aperitivo. Crodino «surround», con ingrediente segreto. A Esanatoglia tutti provano ad aiutarci, ma nessuno ricorda il maltese. Né alla pizzeria Provenza («Eppure Zampini è un nostro cliente»), né nella rosticceria di fianco («Abbiamo letto tutto su Facebook, ma quella faccia non ci dice niente», dicono all' unisono le tre rosticciere). Nella panetteria La spiga, la commessa azzarda: «Uhm Zampini venne a comprare con quello che credo fosse un collega una crescia sfogliata (dolce tipico, ndr). Fecero a gara per chi pagava». Era Natale? «No, credo fosse estate». Chiudiamo il tour al bar Centrale, il locale dove Mifsud tracannò whisky abbondante insieme con Zampini e altri due amici, la vigilia di Natale del 2017. Christian, il titolare, prova a cercare sul cellulare un video di quei giorni di festa, ma purtroppo non trova nulla.

Mifsud è passato da Esanatoglia. Ma probabilmente già indossava l' anello dell' invisibilità di tolkieniana memoria.

Antonio Grizzuti per ''La Verità'' il 15 novembre 2019. «Sembra che il vecchio burattinaio abbia iniziato a far danzare Pinocchio». È questo il commento sibillino rilasciato alla Verità da Stephan Roh, l' avvocato di Joseph Mifsud. Un messaggio neanche tanto in codice: se l' uomo che ha registrato e inviato l' audio nella notte tra martedì e mercoledì alle redazioni di Adnkronos, Repubblica e Corriere della Sera è davvero il maltese, dietro a questa operazione non può non esserci una regia occulta. Che si tratti o meno di lui, le inchieste pubblicate in questi giorni dalla Verità sul conto di Joseph Mifsud hanno avuto il grande merito di riportare a galla una storia che nelle ultime settimane sembrava nuovamente caduta nel dimenticatoio. Spingendo nel primo caso il professore a uscire allo scoperto dopo più di un anno di silenzio, oppure - seconda ipotesi - i suoi nemici a fabbricare prove per depistare le indagini. Vero o falso? La traccia contenente la voce del presunto Mifsud fa discutere e scervellare letteralmente mezzo mondo. Nell' audio la voce di chi parla non è ferma e calda, quasi baritonale, come quella che si può ascoltare nei filmati sparsi in Rete. E così su entrambe le sponde dell' Atlantico è partita la gara, tra quelli che l' hanno conosciuto e frequentato, per capire se l' accento e l' inflessione udibili nel vocale corrispondano effettivamente alla sua persona. Tra i più accesi sostenitori dell' autenticità dell' audio, i dirigenti della Link campus university, l' ateneo privato romano con il quale Mifsud ha collaborato e a sua volta coinvolto nella spy story. «È lui al 100%», dice all' Adnkronos il direttore generale dell' università, Pasquale Russo. Non poteva essere altrimenti: la versione del maltese, infatti, scagiona completamente la Link. Non ha dubbi Anna, l' ex fidanzata ucraina con la quale il maltese avrebbe anche avuto una figlia. La donna, interpellata da Buzzfeed, si dice infatti «certa» della provenienza del nastro. Nello stesso articolo si fa menzione di una «analisi preliminare» che confermerebbe l' autenticità dell' audio. Un rappresentante del team del sito di giornalismo investigativo Bellingcat, che si sta occupando di esaminare la registrazione, ha confermato al nostro quotidiano che «proprio in questo momento professionisti forensi sono al lavoro per dare la conferma definitiva», e i «risultati sono attesi entro le prossime 24 ore». Più combattuta la famiglia Papadopoulos. Contattati dalla Verità, i coniugi non concordano sulla reale natura del nastro. George, al quale il maltese ha promesso «migliaia di email compromettenti» sul conto di Hillary Clinton, si dice quasi sicuro che si tratti del professore. La moglie, Simona Mangiante, che conosce Mifsud dal lontano 2011 e con lui ha lavorato al London center of international law practice all' inizio è sicura («a me non sembra per niente la sua voce»), poi però ci ripensa: «Sembra contraffatta, ma forse era solo stressato». Da subito Stephan Roh ha sostenuto con forza che si trattasse di un falso. Lui che è stato l' ultimo a poter documentare un incontro con il professore, a maggio del 2018, quando cioè il maltese si recò a Zurigo per rilasciare al proprio legale una deposizione spontanea. «Ci sono mezzi tecnici per scoprire se l' audio è vero», riferisce al nostro quotidiano. E noi della Verità siamo al corrente del fatto che, oltre alla perizia di Bellingcat, molti esperti si stanno muovendo in queste ore per sciogliere il nodo sull' autenticità del nastro. Sono analisi lunghe e molto complesse, ma che nelle prossime ore potrebbero regalare soprese inaspettate.

Mifsud, il procuratore Durham sta esaminando l’audio misterioso. Roberto Vivaldelli su it.insideover.com il 15 Novembre 2019. Il procuratore americano John Durham, incaricato dall’Attorney General William Barr di indagare sulle origini del Russiagate, e già a colloquio con i vertici dei nostri servizi segreti a Roma lo scorso 15 agosto e il 27 settembre, sta esaminando i misteriosi file audio inviati l’altra notte alle redazioni dell’Adnkronos e del Corriere della Sera nei quali l’autore si identifica come Joseph Mifsud, il docente maltese scomparso nel nulla. Lo riporta l’agenzia stampa l’Adnkronos che ha ottenuto quest’informazione dall’avvocato Stephan Roh, legale di Mifsud, che avrebbe parlato direttamente con il procuratore Durham, interessato a capire che fine abbia fatto uno dei protagonisti del Russiagate e anche di chi sia la voce femminile che per un breve istante si può ascoltare alla fine del secondo file audio. Un particolare, quello della voce femminile presente nel file, che InsideOver ha rilevato quest’oggi dopo essersi consultato con un esperto in discipline forensi, uno dei più importanti in Italia in questo ambito, che il nostro giornale ha contattato tramite Cristina Sartori, grafologo giudiziario presso il Tribunale di Trento. L’esperto ha confrontato la voce del file audio pubblicato dall’Adnkronos con alcuni video in cui il docente maltese interviene a delle conferenze pubbliche, diffuse su Youtube.

Durham esamina il messaggio del presunto Mifsud. Il sedicente Mifsud conclude le sue dichiarazioni lanciando un appello: “E’ estremamente importante che qualcuno, da qualche parte, decida di farmi respirare di nuovo”. Come ha spiegato l’esperto in discipline forensi interpellato da InsideOver, il messaggio inviato all’Adnkronos e al Corriere, “è stato registrato con un microfono attaccato al colletto della camicia, in un ambiente molto ampio, collegato direttamente computer, c’è molto eco”. Inoltre, “nel file audio inviato ai giornali italiani – osserva – si sente anche la voce di una donna, verso la fine, che dice 22”. La persona del messaggio audio, prosegue, “non ha la stessa cadenza del vero Mifsud dei video, che trascinava le vocali per via del suo respiro. Questa cosa nel file audio non c’è mai e sono abbastanza convinto che sia un falso”. La persona che si qualifica come Joseph Mifsud, autore dell’appello audio, “ha presumibilmente una ventina di anni in meno rispetto al professore (che ne ha quasi 60, ndr) e sta leggendo qualcosa di scritto, si sente che l’ha ripetuto molte volte prima di registrarlo. Inoltre si capisce perfettamente che il file è stato ‘lavorato’ successivamente con qualche programma, a cui è stata aggiunta della compressione”. La persona che ha registrato il messaggio vocale, afferma l’esperto in discipline forensi, “non è assolutamente un madrelingua inglese” e quando parla “ha i difetti tipici degli italiani che parlano inglese”.

Durham ha interrogato il diplomatico australiano al centro del Russiagate. Nel frattempo, uno dei protagonisti del Russiagate è stato interrogato il mese scorso a Londra dal procuratore Usa John Durham. Si tratta del diplomatico Alexander Downer. Secondo la ricostruzione ufficiale, Mifsud affermò in un incontro dell’aprile 2016 a George Papadopoulos, consigliere della campagna di Trump, di aver appreso che il governo russo possedeva “materiale compromettente” (dirt) su Hillary Clinton “in forma di e-mail”. A quel punto l’ex consulente del presidente avrebbe ripetuto tali informazioni all’Alto commissario australiano a Londra, Alexander Downer, che a sua volte riferì tutto alle autorità americane. Da qui, il 31 luglio 2016, partirono le indagini dell’Fbi sui presunti collegamenti fra Trump e la Russia, accuse che in seguito si sono dimostrate inconsistenti. Secondo quanto riportato dal Washington Examiner, Downer avrebbe negato di aver preso parte a un complotto internazionale contro Donald Trump. Secondo George Papadopoulos, “i principali attori coinvolti nello spionaggio nei miei confronti per conto dei governi stranieri: Alexander Downer e Joseph Mifsud, hanno iniziato a parlare del loro coinvolgimento con gli investigatori statunitensi nelle ultime 72 ore”. Sarà davvero così? Lo scopriremo presto.

DAGONEWS il 18 novembre 2019. Che si dice del Russiagate de' noantri dopo l'uscita dell'audio di Mifsud? La registrazione sarebbe fasulla e serviva solo a scagionare la Link University, i cui esponenti si sono scapicollati a giurare che ''è al 100% lui'' solo perché diceva di non aver mai visto una spia in vita sua e di essere solo un uomo di relazioni (chissà se per questo gli avevano dato un appartamento, pure lui come la Trenta doveva ricevere tanti ospiti). La buona notizia (temporanea) per i protagonisti italiani della contro-inchiesta firmata Trump-Barr-Durham è che il puzzone arancione per il momento ha altre gatte da pelare. Le audizioni parlamentari in vista del possibile impeachment stanno tenendo occupato l'esecutivo, con Trump che se la prende addirittura con Mike Pompeo, suo adoratissimo Segretario di Stato, accusato di non aver tenuto a bada i diplomatici che stanno testimoniando contro il presidente. In ogni caso, se la frana Trump non diventa valanga, i repubblicani continueranno a sostenere Trump. Tra i democratici, Bloomberg ha fatto fare dei sondaggi riservati che lo darebbero due punti sopra Biden nel gradimento generale. I suoi supporter sono convinti che se davvero partisse con la candidatura, riuscirebbe a prendere il posto del vicepresidente azzoppato nei cuori dei dem moderati. A sostegno del miliardario newyorkese sarebbero scattate anche le sacerdotesse del #metoo: dopo i primi report che raccontavano episodi sessisti, è partita la mordacchia. ''L'obiettivo primo è abbattere Trump'', basta menare sui nostri. Non a caso anche a Biden alla fine ha superato indenne le polemiche, è stata l'Ucraina e non i suoi abbracci invadenti a indebolirlo. Persino Obama avrebbe mollato Biden in queste settimane: uno dei segnali è la discesa in campo di Deval Patrick, ex governatore del Massachusetts e già nell'amministrazione di Barack, considerato un suo avatar. Se arriva lui, vuol dire che l'ex presidente non crede più nelle chances del suo vice. Ma in chi crede? Non lo dice, anche se a un incontro con importanti e ricchi donatori democratici ha sconfessato i candidati più radicali (Warren e Sanders) ricordando a tutti che gli elettori ''non vogliono la rivoluzione ma un miglioramento delle condizioni di vita''. C'è chi immagina un ticket Bloomberg/Buttigieg: i due sindaci, la metropoli e la provincia, il vecchio e il giovane, il miliardario illuminato e l'ex soldato di convinta fede cristiana. Ma c'è anche chi ha paura di spin meno idilliaci: due maschi bianchi (malvisti da donne/minoranze), e anche il gay inesperto e l'ebreo di New York che vuole proibire i fucili e tassare il junk food (kryptonite per gli swing states)

Antonio Grizzuti per “la Verità” il 18 novembre 2019. Ora dopo ora, il cerchio intorno ai protagonisti del Russiagate si stringe sempre di più. E sull' altra sponda dell' Atlantico, negli uffici federali che si stanno occupando delle indagini sulle presunte ingerenze russe nella campagna presidenziale del 2016, la temperatura sale vertiginosamente. Da ieri i file inviati nella notte tra martedì e mercoledì alle redazioni di Adnkronos e Corriere della Sera e contenenti un audio di un uomo che sostiene di essere Joseph Mifsud (il misterioso professore maltese al centro della presunta cospirazione ai danni di Donald Trump) sono nelle mani di John Durham. A consegnare il vocale nelle mani del procuratore statunitense incaricato di svolgere le indagini è stato Stephan Roh, l' avvocato di Joseph Mifsud. Contattato dalla Verità, il legale del maltese ha confermato di aver discusso «direttamente con Durham del contenuto del nastro», aggiungendo che «l' interesse si concentra sulla voce di donna che si sente al termine del secondo file». In effetti, sul finire della registrazione, si percepisce una voce femminile pronunciare «2» (o «22», secondo altre interpretazioni). Chi è la misteriosa signora del nastro? E perché parla italiano? Senza dubbio, al dipartimento di Giustizia americano possiedono tutte le competenze e gli strumenti informatici necessari a rispondere a queste e a molte altre domande. Ma soprattutto, dalla scorsa estate, John Durham e William Barr (capo del dipartimento) sono in possesso della deposizione spontanea rilasciata a maggio del 2018 da Mifsud nello studio di Roh. Elemento che permetterà ai due non solo di mettere a paragone l' audio dei vocali registrati nelle due differenti occasioni, ma anche confrontarne i contenuti. L' avvocato, infatti, sostiene che nel corso della testimonianza resa a Zurigo, Mifsud ha ribadito di essere stato «costretto» a recarsi a Esanatoglia, dove avrebbe trascorso due mesi (da ottobre a dicembre 2017) da «prigioniero libero». «Gli inquirenti Usa mi hanno chiesto copia di queste registrazioni, e poiché è nell' interesse di Mifsud collaborare con gli Usa, gliele ho fornite quest' estate», ha spiegato Roh al nostro quotidiano, «informando preventivamente anche la Link, dal momento che è un atto d' accusa contro alcuni dirigenti». Parole che cozzano con le affermazioni del presunto Mifsud del nastro: «Sono stato informato in maniera affidabile che Link campus è stata accusata di mettere in atto questioni o essere coinvolta con servizi (di intelligence, ndr). Categoricamente smentisco e mi rifiuto di accettare qualsiasi cosa di questo tipo». Nuova versione che, dunque, assolverebbe da ogni colpa il trio della Link tirato in ballo da Roh e composto da Vincenzo Scotti (presidente), Vanna Fadini (amministratore unico della società di gestione della Link) e Pasquale Russo (direttore generale). E proprio lo stesso Russo, nell' intervista rilasciata giovedì al Fatto Quotidiano, ha tentato di ridimensionare la permanenza di Mifsud a Esanatoglia, presso l' abitazione di Alessandro Zampini, compagno della Fadini: «Erano appassionati di scacchi e trascorrevano giornate insieme. Vanna Fadini non era stata informata». Una bella gatta da pelare per Barr e Durham, che ora si trovano a dover far fronte a questo nuovo rompicapo. Nonostante tutto, l' indagine sulla genesi del Russiagate prosegue spedita. Una delle due inchieste volte a verificare l' effettiva esistenza dell' ingerenza di Mosca, quella condotta dall' inspector general, Michael Horowitz, dovrebbe produrre i suoi frutti a brevissimo, forse già a fine mese. «È stato scritto, ed è anche la mia convinzione, che l' uscita del rapporto finale sia imminente», ha affermato Barr mercoledì a Memphis (Tennessee), «a un certo numero di persone che sono state menzionate nel rapporto è stata data la possibilità di commentare i passi nei quali vengono citati. Una volta che tutti questi passaggi saranno conclusi, il rapporto verrà pubblicato». Nello specifico, l' indagine condotta da Horowitz si concentra sul possibile abuso, da parte dell' amministrazione Obama, della norma che regola la sorveglianza fisica e la raccolta di informazioni di intelligence straniera (Fisa). Tra le risposte che ci si attendono da questo documento: chi ha autorizzato le intercettazioni a carico di Carter Page, membro della campagna di Trump nel 2016 e nel 2017, ma anche chi e perché ha ritenuto credibile il dossier Steele, il testo che descrive i rapporti dei consiglieri dello staff del futuro presidente e intermediari del Cremlino. Anche se sulla carta l' ambito del rapporto è il primissimo periodo del Russiagate, non è escluso che dalla relazione di Horowitz si possano apprendere elementi decisivi sul rapporto tra Joseph Mifsud e George Papadopoulos, e dunque anche sul ruolo dell' Italia nella vicenda. A tal riguardo, in questi giorni ha ripreso a circolare con insistenza un leak, cioè un documento trafugato, che riguarda una mail inviata dal maltese l' 11 febbraio 2017, vale a dire il giorno dopo aver avuto un colloquio a Washington con gli agenti dell' Fbi. «Posso confermare che l' unico funzionario russo che ho presentato a Papadopoulos», scrive il professore, «è Ivan Timofeev (direttore di un think tank a Mosca con numerosi legami con gli Usa, ndr)». Le cose sono due: o Mifsud ha mentito all' Fbi, e allora dovrebbe essere incriminato, oppure ha detto la verità, e con i russi non c' entra nulla. Meglio preparare i popcorn, il bello deve ancora venire.

Giacomo Amadori e Simone Di Meo per “la Verità” il 18 novembre 2019. La stanza del sindaco del municipio di Esanatoglia ha luminosissime finestre ad arco che si aprono sulla vallata. Fuori l' estate indiana delle colline maceratesi, con i suoi incredibili colori. In questo ufficio sono entrati due giorni fa i carabinieri della compagnia di Camerino (il vicecomandante Paolo Rinaldi con l' autista) e il comandante della stazione di Matelica (il maresciallo Fabrizio Cataluffi). Erano in borghese e avevano letto La Verità. Probabilmente anche l' editoriale del direttore Maurizio Belpietro che invitava le autorità competenti ad aprire un' inchiesta sulla scomparsa di Joseph Mifsud. In Comune la loro presenza non è passata inosservata e, in pochi minuti, tra gli impiegati si sussurrava l' argomento della visita dei militari: erano lì per chiedere se il primo cittadino fosse a conoscenza di fatti d' interesse, per dirla con il linguaggio dell' Arma, riguardanti il misterioso professore. Purtroppo per loro il sindaco, Luigi Nazzareno Bartocci, gli ha spiegato di aver appreso della presenza di Mifsud a Esanatoglia dal nostro giornale. Quindi la visita in Piazza Giacomo Leopardi, almeno quella di giovedì, non ha prodotto frutti. Quel che è certo è che nell' Arma qualcuno si sta interessando alla vicenda o sta sviluppando un' attività conoscitiva. Abbiamo provato a chiedere conferma nella stazione di Matelica. Un breve, ma sorprendente viaggio. Infatti la vecchia stazione è ancora inagibile e così ci siamo recati oltre le alte mura del monastero di Santa Maria Maddalena con le sue suore clarisse. Il tassista ci ha scaricati davanti a una coppia di container bianchi protetti da un recinto. Gli abbiamo chiesto se si fosse sbagliato. Poi abbiamo notato il simbolo e i colori della Benemerita. Dall' ultimo terremoto la compagnia di Camerino e tutte le stazioni dei carabinieri del cratere (Visso, Ustica Fiastra, Valfornace, Pieve Torina) sono ospitate in prefabbricati. Una situazione di estrema precarietà con cui i militari devono fare i conti tutti i giorni. Anche i sei carabinieri di Matelica. Qui il maresciallo, dopo aver confermato un primo interessamento al caso da parte della compagnia di Camerino e della sua stazione, ci ha consigliato di rivolgerci al reparto operativo del comando provinciale, guidato dal tenente colonnello Walter Fava. «Rientra nei nostri compiti istituzionali verificare eventuali situazioni di interesse operativo nel territorio di competenza», ha detto il graduato. «Per ora non abbiamo ricevuto alcuna delega dall' autorità giudiziaria». La nostra inchiesta prosegue. Il tassista, Angelo Morici, è un fuoco d' artificio. Ti racconta di suo nonno socialista che era stato «purgato» da Enrico Mattei, prima fascista e poi partigiano e infine fondatore dell' Eni; ti racconta la sua militanza missina, l' incontro con Giorgio Almirante dopo il rogo di Primavalle e adesso il suo interesse per il caso Mifsud. Ci accompagna in giro per Esanatoglia sotto la pioggia. Le luci della palazzina del dottor Alessandro Zampini (consigliere di amministrazione della Link campus university e compagno di Vanna Fadini, manager dell' ateneo), dove il professore è rimasto rintanato per circa due mesi sono spente come sono spente, nel quartiere La Rocca, anche le luci della casa della mamma di lui, la signora Luciana, che nei giorni scorsi ha festeggiato con tutta la famiglia i suoi novant' anni. John, come si faceva chiamare da queste parti, dove i pochi che lo ricordano lo consideravano uno «scrittore», abitava al secondo piano della palazzina di Zampini (ma in origine apparteneva alla contessa Pongelli), la parte ristrutturata. Il primo appartiene invece alla sorella di Alessandro, Anna, che fa la funzionaria della regione Abruzzo a Vasto. Il marito è l' avvocato Filippo Di Risio: «Ho appreso di questa storia dai giornali. Io non ne sapevo nulla e in quell' appartamento non vado mai. Io mio cognato non lo vedo mai e di questa vicenda non mi ha mai parlato», ha detto lui. La consorte è meno loquace, invece: «Non ho nulla da spiegare, arrivederci». A Esanatoglia ieri pioveva. In giro c' era pochissima gente. Al ristorante La Cantinella, tra un piatto di cappellacci con funghi e tartufi e un bicchiere di verdicchio di Matelica raccontano che tra i loro clienti ci sono anche Zampini e la compagna, Vanna, ma non hanno mai visto Mifsud. Ieri a pranzo, al tavolo con i proprietari, era seduto anche don Francesco. Ne approfittiamo per chiedere se abbia mai visto quel signore maltese a una delle sue messe, visto che il professore si professa fervente cattolico. Ma il sacerdote, dopo aver guardato e riguardato sul cellulare la foto di Mifsud, nega di averlo mai notato in chiesa. Torniamo in corso Vittorio Emanuele II, dove nella bacheca della parrocchia dei Santi Anatolia e Martino c' è ancora il programma del Natale 2017, proprio quello che il professore ha passato a Matelica. Nel bar Centrale di Piazza Giuseppe Garibaldi trascorse la sera della vigilia di Natale a bere con Zampini, la sua amica Rosangela e qualche altro avventore. Mentre ci aggiriamo per il paese ci ferma un abitante della Pieve, il quartiere dove era rintanato Mifsud. E ci dice: «Ieri non le ho parlato perché c' era troppa gente. Ma io qualcosa ho visto. Lassù, nella piazzetta dove risiedeva Mifsud, girava un Suv nero della Mercedes con i vetri oscurati. E dentro c' erano persone distinte che io qui non avevo mai visto. In paese se ne parla, ma con voi fanno finta di non avere visto nulla». Chi erano quegli uomini? Mifsud? Agenti dei servizi? In realtà, nei gruppi cittadini aperti su Facebook, i nostri scoop hanno acceso animate discussioni tra i residenti del piccolo comune. Soprattutto sul file audio, inviato da una mail criptata nei giorni scorsi a Corriere della Sera, Repubblica e Adnkronos, del sedicente Mifsud. Un audio che, da giorni, insinua dubbi e incertezze in chi conosce il docente maltese. La Verità ha chiesto a un esperto di analizzare la traccia audio raffrontandola con un intervento di Mifsud pubblicato su Youtube risalente a qualche tempo prima. Il responso di Domingo Colasurdo, ingegnere elettronico specializzato in ingegneria del suono e abilitato all' albo nazionale dei tecnici competenti per l' acustica ambientale, è che c' è «un' altissima probabilità che la voce del messaggio registrato sia effettivamente quella del signor Mifsud». Le differenze con l' altro audio noto, aggiunge l' ingegner Colasurdo, sono dovute alla «contaminazione dell' ambiente», ma il «timbro della voce è lo stesso». Al medesimo risultato, peraltro, sono giunti anche gli esperti di riconoscimento vocale a cui si sono rivolti i cronisti dell' associazione Bellingcat, un network di giornalisti investigativi con sede nel Regno Unito secondo i quali il tono e la pronuncia dell' ultima registrazione corrispondevano a quelle già note e sicuramente attribuibili all' uomo che avrebbe fatto da gancio tra l' entourage di Donald Trump e gli ambienti russi responsabili delle incursioni informatiche nel server di posta privato di Hillary. Chiarito il mistero dell' identità, resta però un' altra zona oscura da illuminare. La parte finale dell' audio da 50 secondi (ce n' è anche uno di sei minuti) cattura una voce femminile che pare dica «ventidue» o «due» in italiano. Una presenza che contraddice quello che proprio il professore maltese aveva sostenuto fino a pochi istanti prima, e cioè di aver «vissuto una vita molto solitaria, con nessuna interazione sociale», negli ultimi due anni, e di «voler respirare di nuovo». Se è vera questa forma di «segregazione», per cui Mifsud non può disporre autonomamente della libertà di movimento, chi è la donna insieme a lui? La sua «carceriera»? Lo stesso procuratore John Durham, che sta conducendo una controinchiesta sul Russiagate, vuole scoprirlo e ne ha parlato con l' avvocato Stephan Claus Roh al quale ha confidato che «l' interesse si concentra sulla voce di donna che si sente al termine del secondo file». Onde sonore che si propagano nel mistero.

Francesca Sforza per “la Stampa” il 19 novembre 2019. Un milione di euro in neanche 24 ore, è la risposta russa all'appello lanciato dall'Ambasciata italiana a Mosca per sostenere il restauro del patrimonio culturale danneggiato dall' acqua alta a Venezia. «Non ho fatto in tempo a lanciare la campagna che già abbiamo raccolto l'adesione del maestro Valery Gergiev, il più grande direttore d'orchestra vivente russo, attualmente a capo del Teatro Mariinsky di San Pietroburgo, per un concerto straordinario dedicato all' iniziativa», ha detto il nostro ambasciatore a Mosca Pasquale Terracciano. Sull'onda del concerto, l'appello verrà esteso nei prossimi giorni a tutto il territorio della Federazione Russa, e con tutta probabilità la raccolta fondi continuerà ad aumentare. Una così grande mobilitazione si spiega senza dubbio con «il grandissimo amore che la Russia ha per l' Italia e in particolare per Venezia, che suscita emozioni particolari nell' immaginario collettivo», come ha osservato Terracciano, ma anche con gli interessi che legano Mosca alla laguna. Tra i primi a mobilitarsi ci sono stati infatti i grandi collezionisti e gli oligarchi legati al mondo dell' arte, già autori di diverse iniziative a Venezia. La Victoria Foundation, di proprietà della società di idrocarburi Novatech - uno dei più grandi gruppi russi nel settore dell' energia, guidato dall' oligarca Leonid Mikhelson - è stata protagonista alla Biennale di Venezia 2019 con un padiglione che ha suscitato grande interesse da parte della critica. Così come è ormai collaudata la collaborazione tra il Museo Pushkin di Mosca e le istituzioni museali veneziane, con scambi di mostre e collezioni. Ci sono anche Roman Abramovich e Andrey Melnichenko tra i miliardari che negli anni hanno frequentato Venezia a bordo dei loro yacht, con feste memorabili all' insegna del lusso. E se i nomi dei donatori sono coperti dal più assoluto riserbo, tutto fa pensare che siano in molti, a Mosca, a voler aiutare Venezia.

Mario Ajello per “il Messaggero” l'1 novembre 2019. Conte pronto a riferire martedì alla Camera sul caso Fiber. Mentre con l'altro filone, il Russiagate, non c'entra e Palazzo Chigi si chiama fuori. Lo fa sulla base dei documenti che dopo tre giorni è riuscito ad avere e a tradurre. Si tratta del testo stenografico dell'intervista, in inglese e nella sua versione in italiano, che il 28 ottobre ha rilasciato, a Fox News, William Barr. E' gravissimo, dicono a Palazzo Chigi, che sul nulla si sia parlato del coinvolgimento di Conte in una vicenda così delicata e che attiene alla sicurezza nazionale. E sulla quale Conte ha dovuto riferire al Copasir. «In riferimento alle dichiarazioni di Barr - sottolineano a Palazzo Chigi - si fa presente che, contrariamente a quanto rilanciato da alcune agenzie di stampa italiane all'indomani dell'intervista, l'Attorney General degli Stati Uniti non ha mai fatto esplicito riferimento all'Italia. Questo si evince chiaramente nel testo». Basterà questo per smontare la parte italiana della trama, molto in voga nel centrodestra, del complottone? Sarebbe quello ordito dall'amministrazione Obama e dal comitato elettorale di Hillary Clinton con la complicità dei servizi stranieri e forse dei governi, incluso quello del nostro Paese, per tentare di screditare il candidato Trump prima e il presidente eletto Trump dopo? «Alcuni dei Paesi che il procuratore generale John Durham pensava potessero avere alcune informazioni utili all'indagine (del Russiagate, ndr) volevano preliminarmente parlare con me - spiega Barr - della portata dell'indagine, della natura dell'indagine e di come intendevo gestire le informazioni riservate, e così via». «Quindi», incalza l'esponente dell'amministrazione americana, «ho inizialmente discusso di queste questioni con quei Paesi e li ho presentati a Durham, e ho creato un canale attraverso il quale il signor Durham può ottenere assistenza da quei Paesi». Chiosa di Palazzo Chigi: «Dunque, a differenza di quanto riportato da alcune agenzie italiane, e a seguire da alcuni quotidiani e tiggì, l'Italia non è mai stata espressamente citata dal ministro Barr». Intanto Conte è atteso in Parlamento, per riferire sul presunto conflitto d'interessi nell'affaire riguardante il gruppo Fiber 4.0. E il premier - in una lettera al Financial Times, il quotidiano che ha tirato fuori la storia del coinvolgimento professionale dell'avvocato Conte - si dice pronto a farsi sentire dalle Camere. «Le mie azioni», spiega Conte al giornale finanziario, «sono state giudicate totalmente appropriate e alla luce del sole dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato, responsabile per le indagini sui conflitti di interesse in Italia». Concetti, questi, che Conte ribadirà martedì alle 19 nell'informativa alla Camera, sulla quale FdI, nelle ultime ore, ha innalzato una vera e propria trincea. Ma da Palazzo Chigi assicurano che il premier è «tranquillo».

“Lo Spygate avrà ripercussioni globali”. Roberto Vivaldelli su it.insideover.com il 22 novembre 2019. I vertici dei servizi segreti italiani ribadiscono, ancora una volta, l’estraneità dell’Italia sul caso Mifsud, il docente maltese della Link al centro del Russiagate e dell’indagine penale condotta dal procuratore del Connecticut John Durham. Martedì è stato il turno del numero uno dell’Aise (Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna) Luciano Carta, ascoltato per tre ore al Copasir, il comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica presieduto da Raffaele Volpi. L’obiettivo è fare luce sulla natura degli incontri a Roma fra i vertici della nostra intelligence con l’attorney general William Barr e il procuratore Durham del 15 agosto e del 27 settembre scorso (incontro che Inside Over aveva annunciato in esclusiva). L’audizione di Luciano Carta al Copasir segue quelle con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte (23 ottobre), il direttore del Dis, Gennaro Vecchione (il 29), e quello dell’Aisi, Mario Parente (6 novembre). Carta avrebbe ribadito l’estraneità dei nostri servizi nel caso Mifsud, contrariamente a quanto sostenuto nelle scorse settimane dal ministro della giustizia Usa, Barr, quando confermò che “il procuratore John Durham ritiene che in Italia ci siano informazioni utili sul caso”. Secondo Fox News, infatti, l’indagine di Durham “si è estesa” nelle scorse settimane sulla base “di nuove prove raccolte durante un recente viaggio a Roma con il procuratore generale William Barr”.

I servizi italiani smentiscono il coinvolgimento dell’Italia. Secondo quanto riferito da La Verità, durante l’audizione si è parlato di tutti i temi che avvolgono le dichiarazioni del premier, da Retelit passando per il ruolo del misterioso Mifsud alle accuse mosse dagli americani, convinti che il docente sia un “agente sabotatore”, noto all’intelligence occidentale, che ha agito per sabotare la Campagna di Donald Trump. Chissà se la nostra intelligence sta esaminando – o l’ha già fatto – il nastro misterioso dell’uomo che dichiara di essere Mifsud e che, a detta del perito che abbiamo contattato, risulta essere un falso clamoroso. Tornando al Copasir, lo scorso 6 novembre era stato il turno di Mario Parente, direttore dell’Aisi, l’Agenzia informazioni e sicurezza interna. Oltre che di temi generali, attinenti la sicurezza nazionale, Parente avrebbe parlato anche della missione italiana del ministro della Giustizia Usa, Barr: al secondo incontro, quello del 27 settembre, con Barr e Vecchione, parteciparono anche Parente, il direttore dell’Aise Luciano Carta e il procuratore statunitense Duhram. Come noto, dopo la sua audizione, era stato lo stesso Conte a sostenere l’estraneità dei nostri Servizi al caso: da parte italiana non sarebbero state fornite prove o informazioni utilizzabili nella controinchiesta americana sul Russiagate ma si sarebbe solo parlato dell’operato di agenti statunitensi di stanza a Roma. È davvero così o ci sono delle cose che, al momento, non si possono dire? Negli Usa hanno un’idea un po’ diversa rispetto alla narrativa ufficiale del nostro governo.

George Papadopoulos: “Cospirazione che avrà ripercussioni a livello globale”. Nel frattempo, negli Usa cresce l’attesa per le conclusioni contenute nelle indagini di Durham. Su Twitter, l’ex consulente della Campagna di Trump, George Papadopoulos, annuncia: “L’inchiesta falsa è finita. Quella vera, che cambierà la storia del mondo, guidata da Durham, mentre parliamo, si sta espandendo in termini di portata e di risorse. È globale”. Tradotto: l’inchiesta di Durham, secondo Papadopoulos, avrà ripercussioni anche sui Paesi coinvolti nell’inchiesta Spygate: Italia, Regno Unito e Australia. In un’intervista esclusiva a Inside Over, il giornalista investigativo Lee Smith ha sottolineato che “gli italiani sanno molto di Mifsud”. Era amico, sottolinea, “di personaggi politici italiani molto noti”, come Gianni Pitella o “Vincenzo Scotti, presidente della Link. Tra i suoi colleghi della Link c’erano altre importanti figure italiane, come Elisabetta Trenta, l’ex ministro della Difesa. Quindi, sospetto che gli italiani siano tanto ansiosi quanto l’amministrazione Trump di scoprire cosa sia successo esattamente”. Secondo il giornalista americano, “il governo italiano è stato molto collaborativo” e ha interagito “attraverso i canali appropriati”. Sui viaggi dell’Attorney general Barr a Roma e gli incontri con i nostri servizi, Smith osserva: “Il procuratore generale sembra intenzionato a scoprire cosa è successo. I suoi viaggi all’estero e le conversazioni con funzionari stranieri, compresi quelli italiani, dimostrano che le sue indagini sono molto serie e che è coinvolto personalmente. Il procuratore generale degli Stati Uniti non viaggia all’estero per motivi frivoli. Se è venuto in Italia, era perché stava cercando qualcosa di vitale per l’indagine”.

“Sono l’ultima persona ad aver visto Mifsud”. Roberto Vivaldelli su it.insideover.com il 24 novembre 2019. Joseph Mifsud, il docente maltese al centro dello Spygate e della contro-inchiesta del procuratore americano John Durham, era in Italia fino a marzo 2018, a Roma, in un bell’appartamento ai Parioli. Lo rivela in un’intervista concessa al settimanale Panorama una fonte anonima che sostiene di essere un amico intimo del professore scomparso. “Joe ha un bell’appartamento ai Parioli, l’ho visto là l’ultima volta. Era marzo 2018”, spiega la fonte. “Che [Joseph Mifsud] sia scomparso nel 2017 l’ho letto sui giornali. Io l’ho rivisto l’ultima volta ai Parioli, vicino a Piazza Euclide, dove Joe aveva un bell’appartamento. All’epoca di certo non si nascondeva”. Questa versione conferma l’inchiesta del Foglio dello scorso 26 ottobre, che spiegava come il docente si fosse nascosto proprio ai Parioli (anche se in via Cimarosa e non vicino a Piazza Euclide). L’amico dell’enigmatico docente racconta di averlo incontrato “a una cena a casa sua, durante la quale si è lamentato tutta la sera del fatto che qualcuno gli stava col fiato sul collo e che a breve avrebbe avuto delle grane molto serie. Ho colto tutta la sua preoccupazione. Ma non sembrava sul punto di scomparire”. La stessa fonte spiega a Panorama che Joseph Mifsud “potrebbe essere ancora a Roma” o in “Svizzera. Il suo avvocato e amico di Zurigo è una persona molto facoltosa, si sarà rivolto a lui per avere una mano quando è scoppiato il caos nella sua vita. Non credo abbia avuto problemi a sparire, quando l’aria si è fatta pesante. Lui peraltro ha una figlia, che oggi si dovrebbe trovare in Gran Bretagna, anche se non penso che gli inglesi lo avrebbero accolto a braccia aperte, se avesse deciso di rifugiarsi lì”. Di certo, osserva, “non credo che lo abbiano nascosto i servizi segreti, questo mi parrebbe molto strano”.

“Preferiva inventare una valanga di bugie”. La stessa fonte fornisce alcuni dettagli sulla vita privata di Mifsud. “Aveva uno stile elevato, e non disdegnava le occasioni per fare soldi. Si mostrava più ricco di quel che era ma questo, penso, fosse dovuto alla sua posizione. Si faceva rimborsare sempre tutto”. Le sue passioni? “Le donne, il buon cibo, i vestiti eleganti e costosi. Era un vanitoso e un appassionato di calcio”. L’amico del professore confessa inoltre che Mifsud “si schermava subito se gli si facevano domande alle quali non intendeva rispondere, e si trovava spessissimo in situazioni in cui a quel punto preferiva inventare una valanga di bugie”. Forse, spiega, “è stato questo suo atteggiamento a provocare il caso internazionale. La mia opinione è che sia stato incastrato proprio perché si comportava così”. Secondo la ricostruzione ufficiale, il docente affermò in un incontro dell’aprile 2016 a George Papadopoulos, consigliere della campagna di Trump, di aver appreso che il governo russo era in possesso di “materiale compromettente” (dirt) su Hillary Clinton “in forma di e-mail”. A quel punto l’ex consulente del presidente avrebbe ripetuto tali informazioni all’alto Commissario australiano a Londra, Alexander Downer, che a sua volte riferì tutto alle autorità americane. Da qui, il 31 luglio 2016, partirono le indagini dell’Fbi sui presunti collegamenti fra Trump e la Russia, accuse che in seguito si sono dimostrate inconsistenti.

Tra Roma e le Marche, le tappe di Mifsud. La versione dell’avvocato svizzero Stephan Roh sulla sparizione di Joseph Mifsud, il docente maltese al centro del Russiagate e dell’intrigro internazionale ai danni della Campagna di Donald Trump che coinvolge anche l’Italia, ha trovato conferme. “I miei amici e colleghi a Roma hanno deciso di suggerirmi di lasciare immediatamente Roma e trovare un posto, hanno offerto un luogo fuori mano dove potessi stare” riportava la trascrizione della deposizione del professore consegnata al procuratore John Durham che indaga sulle origini del Russiagate e riportata dall’Adnkronos. Il posto “fuori mano” di cui parla Mifsud nel nastro, sostiene Roh, sarebbe una casa in un paese delle Marche, Matelica, nella quale il professore maltese si nascose o “venne fatto nascondere” a partire dal 31 ottobre del 2017. La Verità è andata a fondo dell’intrigo e ha scoperto che il docente maltese è stato ospite nella dimora di Alessandro Zampini, medico chirurgo specializzato in odontostomatatologia, che si trova a 6 chilometri da Matelica, a Esanatoglia, paesino di appena 1945 in provincia di Macerata, uno dei borghi più belli d’Italia. Zampini non sarebbe, secondo quanto ricostruito dalla Verità, un “amico” di Vanna Fadini ma il suo compagno. Il dentista abita a Roma ma torna spesso nella piccola borgata marchigiana, dove vive sua madre Luciana. Il nome di Alessandro Zampini, fino a qualche tempo fa, figurava peraltro anche tra i membri del cda della Link Campus. Dopo essere stato ospite nelle Marche, il professore avrebbe girovagato per tutto il centro Italia. Da cosa scappa il docente maltese e perché continua a nascondersi? Forse lo scopriremo presto.

Le spese “pazze” di Mifsud: 200.000 euro pagati dall’università di Agrigento. Pubblicato mercoledì, 04 dicembre 2019 da Corriere.it. È riuscito a spendere circa 200mila euro tra viaggi all’estero, telefonini e cene nei ristoranti romani dove ha pagato conti fino a 1.300 euro. E per questo Joseph Mifsud - il docente maltese ritenuto personaggio chiave del Russiagate - è stato denunciato alla procura di Agrigento dal presidente facente funzioni del Consorzio universitario della città dei Templi, Giovanni Di Maida. Il denaro era infatti dell’ateneo che gli rimborsava i costi ed è arrivato a pagare fino a 4mila euro per la bolletta telefonica. I magistrati indagano per truffa e abuso d’ufficio. Mifsud ne è stato presidente dal 2009 al 2012. Di Maida ha consegnato ai pubblici ministeri l’elenco degli esborsi con la carta di credito: nel 2010 avrebbe speso 35.369 euro; 6.090 euro, invece, sarebbero stati corrisposti da Mifsud nel 2011 quando la carta di credito utilizzata venne sospesa però da maggio a settembre. Mifsud, che poi è andato a lavorare per la Link Campus a Roma, risulta scomparso dall’ottobre del 2017 dopo aver rivelato a George Papadopoulos l’esistenza di mail “compromettenti” per la candidata alle presidenziali americane del 2016 Hillary Clinton. La Corte dei Conti di Palermo lo ha già condannato a risarcire un danno erariale alla provincia di Agrigento. La Guardia di finanza della città siciliana ha già sequestrato centinaia di documenti sulle presunte spese “pazze” sostenute da Mifsud mentre era a capo dell’università. Documenti, bollette telefoniche, biglietti aerei, bolle di acquisto di telefoni cellulari e molto altro. Carte che documenterebbero i ripetuti viaggi in Russia, ma anche a Malta, Usa, Inghilterra, Libia, Libano.

Russiagate, indagine sul prof Mifsud: "Spese folli, cene da 1.300 euro a carico dell'Università". Viaggi in compagnia di giovani donne dell'Est, bollette telefonche astronomiche: aperta un'inchiesta sul docente legato a Trump del quale si sono perse le tracce ormai da oltre due anni. La Repubblica il 04 dicembre 2019. Viaggi in Russia, Malta, Stati Uniti, Inghilterra ma anche in Libia e Libano. Spesso in compagnia di "sconosciute giovani donne dell'Est". E poi telefoni comprati e poi spariti nel nulla e bollette telefoniche stratosferiche, anche da 4 mila euro al mese. Tutto a spese del Consorzio universitario di Agrigento. Il mistero su Joseph Mifsud, elemento chiave della controinchiesta voluta da Donald Trump sul Russiagate di cui si sono perse le tracce dalla fine di ottobre del 2017, si infittisce sempre di più e arriva fino all'Università di Agrigento che lo stesso Mifsud ha presieduto per tre anni, dal 2009 al 2012. Le spese folli di Mifsud, che ammonterebbero ad oltre 100 mila euro (ma c'è chi dice anche molto di più) finiscono in un esposto in Procura. Lo scrive l'agenzia AdnKronos. La denuncia è stata presentata nei giorni scorsi dal Presidente facente funzione del Consorzio Giovanni Di Maida che ha scoperto il "buco". La Procura di Agrigento indaga per truffa e abuso d'ufficio sul misterioso docente maltese di cui non si hanno più notizie da due anni. Sarebbe stato lui nel marzo del 2016 ad avvicinare George Papadopulos, consigliere della campagna elettorale di Donald Trump, offrendogli "migliaia" di email rubate dai russi a Hillary Clinton. Mifsud era stato nominato Presidente del Consorzio Universitario di Agrigento nel 2009 su indicazione dell'allora Presidente della Provincia Eugenio D'Orsi. L'accademico, di recente, è stato anche condannato dalla Corte dei Conti di Palermo a risarcire un danno erariale alla provincia di Agrigento. Mifsud è sparito dopo che nell'ottobre del 2017 gli investigatori usa dell'epoca resero noto il suo coinvolgimento nel Russiagate. Non si trova né nel suo appartamento a Roma, né presso il suo ex campus alla Link University, né a Londra. Il Comitato nazionale democratico che ha citato in giudizio anche Mifsud in merito all'hackeraggio di migliaia di email nel 2016 ha detto che il professore "è scomparso o forse morto". "Andando a controllare le carte sulle spese affrontate da Mifsud mentre era ad Agrigento - racconta il Presidente del Cda Di Maida - ci siamo accorti che erano state sostenute spese assurde. A partire dalla bollette telefoniche. Tutte chiamate verso Paesi esteri che non hanno nulla a che vedere con la nostra università". Poi c'erano le spese "anomale", come le definisce Di Maida. "C'è un acquisto fatto in un negozio di intimo - dice - e un altro in un negozio di giocattoli. Sempre con la carta di credito dell'Università". Pranzi da 1.300 euro in ristoranti di lusso ai Parioli e numerosi biglietti aerei, anche con "signore dell'Est" che "nulla c'entravano con l'università". "E quando è stato chiesto al professor Mifsud perché avesse la necessità di farsi accompagnare da queste donne rispondeva che erano "assistenti". Dopo l'arrivo di Di Maida le cose cambiano al Consorzio: "Abbiamo trovato quel buco enorme dice - e quindi ci siamo dovuti rimboccare le maniche. Noi per primi, del Cda, abbiamo rinunciato alle nostre indennità, cercando di rimettere i conti in sesto, almeno un pò". Mifsud aveva anche eliminato le borse di studio per gli studenti meritevoli. "Ricordo che c'era un padre disperato perché nonostante la figlia fosse una studentessa modello, non riusciva a farle frequentare l'università perché non c'era più la borsa di studio, io ero mortificato, Il minimo che potessimo fare era eliminare le nostre indennità, con qualche sacrificio per le nostre famiglie".

Marta Allevato per agi.it il 21 novembre 2019. La Russia continua a guardare all’Italia come un “partner chiave prioritario in Europa” e dal governo Conte-bis si aspetta continuità, con l’attuazione delle intese intestatali raggiunte nell’ultimo anno. In un’intervista esclusiva all’Agi, l’ambasciatore della Federazione russa a Roma, Sergey Razov, fa il punto sui rapporti bilaterali col nostro paese a poche settimane dall’arrivo del ministro degli Esteri di Mosca, Sergey Lavrov, atteso a Roma per la conferenza Med Dialogues (5-7 dicembre) e una serie di incontri con “i vertici italiani”. L’ambasciatore ribadisce l’impegno a collaborare con l’Italia per la stabilizzazione della Libia e il rispetto del principio di “non ingerenza”, respingendo così le accuse mosse al Cremlino da diversa stampa internazionale sulla presenza in Libia, a fianco del generale Khalifa Haftar, di mercenari del gruppo Wagner, società di contractor riconducibile all’imprenditore Evgheny Prigozhin, vicino al presidente Vladimir Putin. Il capo missione commenta poi il cosiddetto "Russiagate italiano" nei suoi due filoni: quello della trattativa per finanziamenti russi alla Lega di Matteo Salvini e quello relativo al ruolo del professor Joseph Mifsud, della Link Campus University di Roma, diventato figura chiave della contro-inchiesta ordinata da Donald Trump per capire la genesi delle indagini sulle interferenze russe nelle presidenziali Usa del 2016. 

Dal “Corriere della Sera” il 6 dicembre 2019. Il mondo intero continua a dare la caccia a Joseph Mifsud. Del professore maltese diventato l' elemento chiave della contro inchiesta voluta da Donald Trump sul Russiagate non si avevano più tracce da due anni: ora il suo passaporto è stato trovato in un ufficio degli oggetti smarriti di un aeroporto del Portogallo. Lo scrive il sito Buzzfeed , precisando che il documento insieme al portafogli, sarebbe stato trovato dalla polizia portoghese a Madeira il 5 agosto del 2017, tre mesi prima che il professore maltese sparisse nel nulla e sei mesi dopo essere stato interrogato dagli agenti dell' Fbi sul suo ruolo nel Russiagate. Il passaporto sarebbe quindi rimasto per 17 mesi nell' ufficio «lost and found». L' ambasciata di Malta a Lisbona sarebbe stata avvertita del ritrovamento lo scorso 24 gennaio.

Ambasciatore, quale è lo stato delle relazioni tra Federazione Russa e Italia dopo l'ultimo cambio di governo? In questo momento quali sono gli obiettivi di Mosca nelle relazioni con il governo Conte-bis? 

«L’Italia è uno dei nostri partner chiave prioritari in Europa. Si tratta di un dato di fatto che non subisce variazioni a seconda delle fluttuazioni nella vita politica interna italiana. I governi vanno e vengono, ma rimangono invariati i reciproci interessi che affondano le proprie radici nella tradizione storica di rapporti amichevoli, collaborazione economica, vicinanza culturale e spirituale. In merito ai processi interni all'Italia non mi stancherò mai di ripetere che non abbiamo interferito e non interferiamo in nessuna misura in essi, mantenendo le relazioni di lavoro con ogni governo costituito nel rispetto delle procedure democratiche, sulla base della libera volontà dei cittadini. Anche gli obiettivi di cui lei parla sono palesi: l’attuazione coerente delle intese precedentemente raggiunte a livello interstatale, anche durante la visita del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, a Mosca nell'ottobre 2018 e quella del presidente della Russia, Vladimir Putin, in Italia nel luglio 2019»

Come vede Mosca il ruolo dell'Italia nella Ue e nella Nato? Quali aspettative ha nei confronti della Commissione europea che presto entrerà in carica? 

«L’Italia è uno degli Stati membri dell’Unione europea e della Nato. L'appartenenza a queste e ad altre organizzazioni è una sua scelta sovrana che noi senza dubbio rispettiamo. A questo proposito, a differenza dei leader di altri paesi, siamo ben lontani da esprimere il nostro punto di vista sull'opportunità per l’Italia di partecipare a tali istituzioni. In merito alla politica della Nato e della Ue nei confronti della Russia, anche alla luce della formazione di una nuova composizione della Commissione europea, auspichiamo che alla fine dei conti prevalga una linea che porti alla costruzione di una collaborazione paritaria e reciprocamente vantaggiosa con il nostra paese»

Il ministro degli Esteri, Sergey Lavrov, sarà a Roma in visita ufficiale a dicembre, quali incontri sono previsti a margine della partecipazione al Forum "Med-Mediterranean dialogues"? 

«Il ministro Sergey Lavrov prevede di partecipare alla conferenza annuale "Mediteranean Dialogues". La Russia senza dubbio ha molto da dire sulle questioni chiave di politica internazionale, anche nell'ottica della situazione regionale. Sono previsti incontri e colloqui del ministro con i vertici italiani, ma anche con alcuni partecipanti stranieri alla conferenza. Sono certo che questi contatti a livello bilaterale saranno sicuramente utili e segneranno un buon traguardo politico dell'anno che sta per chiudersi»

In Italia si discute del "Russiagate italiano" nei suoi due filoni: il ruolo e i legami del professor Mifsud e le presunte trattative tra la Lega e russi all'hotel Metropol. L'imprenditore Konstantin Malofeeev, considerato vicino al Cremlino, ha confermato alla trasmissione "Report" che tali trattative hanno effettivamente avuto luogo. In che misura Malofeev sarebbe legato ai vertici russi e cosa pensa della storia del "Metropol"? La Russia segue gli sviluppi della contro-indagine del ministro della Giustizia Usa, William Barr sulle origini del Russiagate e dell'eventuale coinvolgimento dell'Italia? 

«Ha ragione, in Italia purtroppo, un mese dopo l'altro si diffonde il tema dell'ingerenza della Russia negli affari interni di altri paesi. Come ha detto lo scrittore russo Mikhail Saltykov-Shchedrin: "Niente eccita l'immaginazione come l'assenza di fatti". E i fatti sono deboli. La storia del professor Mifsud e del ministro della Giustizia degli Stati Uniti non ha nulla a che fare con le relazioni italo-russe. Non conosco l'imprenditore Malofeev e non posso commentare i suoi legami».

Per quanto riguarda la cosiddetta "storia del Metropol’" Mosca ha più volte dichiarato ufficialmente che non sono stati mai stipulati degli accordi per finanziare l'uno o l'altro partito politico in Italia.

«Non ho niente da aggiungere a questo. A proposito di un’ipotetica ingerenza negli affari interni dell'Italia, non riesco nemmeno ad immaginare quale reazione avrebbero potuto provocare appelli o raccomandazioni da parte di Mosca simili a quelli che spesso giungono dalle capitali dei partner strategici del vostro paese, per esempio su chi dovrebbe essere nominato alla guida del governo, come votare ai referendum, a quali strutture di integrazione dovrebbe partecipare l’Italia, quali accordi firmare con i paesi terzi, ecc... Bisogna ammetterlo: nessuno in Russia si permette nulla del genere».  

La Libia è uno dei dossier internazionali su cui si svolge la cooperazione tra i nostri paesi. Come può commentare la notizia della presenza di mercenari russi in Libia a fianco di Hafiar? Quale ruolo svolge attualmente la Libia nella politica estera di Mosca che riserva sempre più attenzione all'Africa? E' vero che il Cremlino sarebbe favorevole al ritorno di Saif al-Islam Gheddafi? 

«Nel rispondere a questa domanda, vorrei porre l'accento sul nostro rispetto di principio di una delle leggi della diplomazia classica: la non ingerenza negli affari interni degli Stati sovrani. La Libia non fa eccezione. Per essere politicamente corretti, non stiamo a ricordare chi e cosa ha fatto in quel paese nel 2011, il che non vuol dire che dobbiamo dimenticare gli errori del passato. Ora stiamo cercando tutti di raccogliere e incollare insieme i cocci del vaso rotto. La nostra posizione, in sostanza, è consonante con quella italiana: ci appelliamo a tutte le parti in conflitto per il cessate il fuoco e sosteniamo 1'idea di tenere una riunione internazionale ad alto livello, con la partecipazione di tutte le parti interessate, nonché la convocazione di un Forum panlibico. II primo ministro della Federazione russa, Dmitry Medvedev, ha rappresentato il nostro Paese alla conferenza internazionale sulla Libia, organizzata dal governo italiano a Palermo nel novembre dell’anno passato. Purtroppo, al momento lo stato del processo di risoluzione della situazione libica non ispira grande ottimismo»

Lei è un esperto e profondo conoscitore della Cina, come valuta lo sviluppo delle relazioni tra Roma e Pechino in relazione alla firma del memorandum sulla Via della Seta e alle critiche al governo Conte? 

«L’Italia fa parte del gruppo di diverse decine di paesi, compresa la Russia, che - in una forma ? nell'altra - hanno aderito a questo grande progetto. La diplomazia italiana, tradizionalmente, si distingue per un approccio equilibrato e pragmatico alla realizzazione dei propri interessi economici nonché per un orientamento lungimirante. In merito alla reazione di alcuni dei vostri partner alla firma del memorandum, questa è oggetto delle vostre relazioni reciproche con loro».

Presto si terranno le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, cosa si aspetta la Russia? Quali sono i rischi reali per l'Europa e l’Italia, derivanti da un possibile ulteriore deterioramento dei rapporti tra Mosca e Washington? 

«La risposta alla prima parte della domanda è scontata ed univoca: ci relazioneremo con il governo e con l'amministrazione ai quali l'elettore americano darà la propria fiducia. Per quanto riguarda i rischi di un ulteriore deterioramento delle relazioni russo-americane, che hanno già raggiunto un punto basso, questi sono molto elevati: la distruzione della stabilita strategica, con la cessazione di una serie di trattati fondamentali nel campo del disarmo nucleare e della non-proliferazione, il deterioramento del clima politico generale, gravido di un aumento del potenziale conflittuale… Tutto questo difficilmente corrisponde all'interesse dell'Europa e dell’Italia in particolare»

Medio ed Estremo Oriente, Sudamerica e Africa. La Russia sembra essere al centro di tutti i più importanti dossier internazionali. Quali sono oggi le priorità dei Mosca in politica estera? 

«La Russia è membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, è uno stato nucleare, il paese più grande in termini di territorio, un potente centro economico e un vasto mercato commerciale. E’ difficile immaginare la possibilità di risolvere i principali problemi internazionali, compresi i conflitti regionali, senza tener conto degli interessi e del coinvolgimento della Russia. Le aree e zone geografiche che ha elencato sono indubbiamente oggetto dell'attenzione e dell'azione dinamica e costruttiva della diplomazia russa»

Colpo a Trump e Bolton disse: «Il caso Kiev come un traffico di droga». Pubblicato giovedì, 21 novembre 2019 da Corriere.it. Scena prima: 10 luglio 2019, Casa Bianca. Racconta Fiona Hill, numero due del Consiglio di Sicurezza nazionale: «Quel giorno ci fu una riunione sull’Ucraina nell’ufficio del capo, John Bolton. C’erano molti funzionari ed esperti. Tra gli altri il nostro ambasciatore presso l’Unione Europea Gordon Sondland. A un certo punto venne fuori che il presidente dell’Ucraina si aspettava un invito nello Studio Ovale, dopo aver dato la disponibilità ad avviare “l’inchiesta”. Bolton era seduto al tavolo, io ero alle sue spalle. Lo vidi irrigidirsi, guardare l’orologio e interrompere il meeting con una scusa. Subito dopo mi convocò e mi disse: vai subito a riferire tutto a John Eisenberg (il legale del Consiglio di Sicurezza nazionale, ndr). Non voglio avere niente a che fare con questo traffico di droga che stanno preparando Mulvaney (il capo dello staff ad interim della Casa Bianca, ndr) e Sondland». Scena seconda, 26 luglio, in un ristorante di Kiev. Parole di David Holmes, consigliere politico nell’ambasciata americana nella capitale ucraina: «Stavamo pranzando con l’ambasciatore Sondland. A un certo punto squillò il suo cellulare: era il presidente. Sondland scostò il telefono perché dall’altra parte la voce era fortissima. Ascoltai quello che stava dicendo il presidente: chiedeva come andavano le cose in Ucraina e a che punto fossimo con “l’inchiesta”. Sondland rispose: sì, molto bene». È il tocco cinematografico dell’audizione di ieri sull’impeachment nella Commissione Intelligence della Camera. Fiona Hill, 54 anni, specialista in studi russi al servizio prima di George W. Bush, poi di Barack Obama e fino al 19 luglio 2019 di Trump, ha confermato che solo Bolton si tirò fuori con decisione «dal traffico di droga»: bloccare gli aiuti militari all’Ucraina, fino a quando il neopresidente ucraino Volodymyr Zelensky non avesse annunciato la riapertura delle indagini per corruzione sulla società del gas Burisma e sul figlio di Joe Biden. Hill, inoltre, ha stroncato «la falsa narrativa» diffusa da Trump e Giuliani: «non furono gli ucraini, ma i russi a interferire nelle elezioni americane del 2016 e ora in quelle del 2020». Viene smentito in parte anche Sondland che mercoledì 20 novembre aveva dichiarato, sotto giuramento, di aver collegato Burisma ai Biden «solo verso settembre«. Sembra che l’albergatore prestato alla diplomazia fosse al corrente almeno fin dallo scorso luglio. Il presidente ha reagito via Twitter: «Non ho mai visto nessuno ascoltare chiaramente la telefonata di un altro, a meno che non ci fosse l’altoparlante». La portavoce della Casa Bianca, Stephanie Grisham, ha commentato: «I testimoni dell’inchiesta farsa si sono basati solo su loro supposizioni od opinioni personali».

Trump: "L'Italia starebbe molto meglio senza la Ue. Ma se vogliono rimanerci..." Il presidente Usa intervistato da Nigel Farage prende posizione esplicitamente sul nostro paese. "Ma voi britannici siete bloccati dall'Unione Europea, come altri Paesi nell'Ue". Antonella Guerrera il 31 ottobre 2019 su La Repubblica. "L'Italia starebbe molto meglio fuori dall'Ue". A dirlo non è un opinionista qualsiasi, ma il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, durante un'intervista, alla radio londinese LBC (Leading Britain's Conversation), con il suo vecchio amico sovranista inglese Nigel Farage, leader del Brexit Party e storico euroscettico del Regno Unito, che ha un programma fisso sulla stessa LBC. Trump sinora non si era mai espresso così esplicitamente contro l'appartenenza dell'Italia in Ue. Tutto è avvenuto mentre Trump e Farage parlavano in diretta di sanità pubblica britannica, subito dopo l'endorsement del presidente Usa a un'alleanza di Farage con il premier britannico Boris Johnson alle prossime elezioni in Regno Unito il 12 dicembre ("sareste una coppia perfetta per completare la Brexit"), affinché il leader Labour Jeremy Corbyn non vada a Downing Street ("finireste molto male con lui"). A un certo punto Trump, mentre prova a tranquillizzare i britannici sulle future relazioni commerciali Usa-Uk dopo la Brexit, dice: "Noi non vogliamo avere niente a che fare con la vostra sanità pubblica. Parliamo soltanto di commercio, che nel vostro caso, se faceste un accordo con noi, sarebbe quattro-cinque volte più grande di adesso, e la vostra economia ne gioverebbe moltissimo. Ma oggi voi siete bloccati dall'Unione Europea, come altri Paesi nell'Ue. Anche l'Italia e altri Paesi starebbero molto meglio senza l'Unione Europea". Trump cita espressamente soltanto l'Italia, oltre al Regno Unito. "Ma se questi Paesi vogliono rimanere in Ue, ok", ha aggiunto Trump. "Ma sappiate che in Europa governano persone con le quali è molto difficile negoziare, mentre con me sarebbe tutto più facile: faremmo subito un accordo commerciale con voi". 

Un ufficiale accusa Trump: sul Kievgate omissioni e bugie. Valerio Sofia il 31 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Parla il tenente colonnello Alexander Vindman. Il tycoon avrebbe nascosto alcuni contenuti della telefonata con il presidente Zelensky in cui chiedeva di indagare sul rivale Joe Biden. È esplosa some una vera e propria bomba la testimonianza chiave sul cosiddetto Kievgate che apre la strada all’impeachment del presidente Donald Trump. Il tenente colonnello Alexander Vindman è stato ascoltato dalla commissione del Congresso e ha scatenato un putiferio. L’uomo è nel Consiglio per la sicurezza nazionale come il più grande esperto di Ucraina, suo Paese natale da cui è scappato con la famiglia quando aveva tre anni ed essa faceva parte dell’Unione Sovietica. Vindman in questo ruolo ha assistito personalmente alla telefonata di Donald Trump con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. E secondo la sua versione sotto giuramento le trascrizioni di quella telefonata ( che gli uomini di Trump sono pronti a divulgare) sono in realtà inoffensive per il semplice fatto che sono piene di omissioni. Egli infatti – secondo la ricostruzione del New York Times che cita tre diversi testimoni a conoscenza dell’audizione – avrebbe sentito personalmente le pressioni di Trump sul corrispettivo ucraino perché fosse riaperta l’indagine su Joe Biden ( ex vicepresidente candidato fino a qualche tempo fa favorito alle primarie democratiche per la Casa Bianca) e sul figlio a proposito di una storia di presunta corruzione in Ucraina. Le omissioni, ha affermato il colonnello Vindman, includevano l’affermazione di Trump secondo cui c’erano registrazioni dell’ex vicepresidente Biden mentre discuteva di corruzione in Ucraina e una menzione esplicita da parte del presidente ucraino della Burisma Holdings, la compagnia energetica dove il figlio di Biden, Hunter, faceva parte del consiglio di amministrazione. Vindman ha aggiunto di essersi allarmato per l’omissione di parole e frasi cruciali e che i suoi tentativi includerli non è riuscito. «Non pensai – aveva spiegato in una deposizione scritta pubblicata dal Times – che fosse appropriato chiedere a un governo straniero di indagare un cittadino americano, ed ero preoccupato riguardo le implicazioni legate al sostegno degli Stati Uniti nei confronti dell’Ucraina». La testimonianza dell’esperto militare è la prima di una persona che abbia assistito direttamente a quella telefonata. L’alto ufficiale ha spiegato di aver deciso di deporre per «senso del dovere» e si autodefinisce un «patriota». Pluridecorato per il suo servizio militare, il tenente colonnello non ha certo il profilo del cospiratore. Anche i parlamentari repubblicani infatti si sono trovati in difficoltà, in quanto hanno cercato di metterlo sotto pressione ( c’è stato un duro scontro con i democratici che li accusavano di voler far emergere il nome riservato della “talpa” della telefonata) ma hanno voluto ribadire che si tratta appunto di un patriota rispettabile con alle spalle una carriera priva di macchie. «È decorato con una Purple Heart, credo che sia un errore attaccare la sua credibilità», ha sottolineato John Thune, numero due dei repubblicani al Senato, «solo che la sua ricostruzione dei fatti è sbagliata», hanno aggiunto gli esponenti del Gop che provano a fare muro per proteggere il presidente. Durissimi come sempre invece gli attacchi allo stesso Vindman da parte dei commentatori delle emittenti più conservatrici. Una ulteriore spaccatura per il caso Trump.

Così l’Fbi ha incastrato il consigliere di Trump. Roberto Vivaldelli il 28 ottobre 2019 su it.insideover.com. A lanciare la “bomba” è l’avvocato di Michael T. Flynn, consigliere per la sicurezza nazionale di Donald Trump dal 20 gennaio al 13 febbraio 2017, tra le prime “vittime” dell’inchiesta sul Russiagate. L’avvocato Sidney Powell sostiene che l’Fbi abbia “manipolato” i verbali della sua intervista del 2017, durante la quale Flynn si sarebbe dichiarato di colpevole di aver mentito ai federali. In una mozione di 27 pagine, Powell chiede al tribunale che esamina il caso di “respingere l’intera accusa” per “l’oltraggiosa cattiva condotta del governo” e degli agenti del Bureau che hanno manipolato le dichiarazioni di Flynn sui suoi rapporti e contatti con l’ambasciatore russo Sergey Kislyak. Uno degli agenti dell’Fbi che condusse l’interrogatorio a Flynn fu Peter Strzok, licenziato quando la squadra investigativa del Consigliere speciale Robert Mueller scoprì gli sms denigratori contro il Presidente Trump che l’agente federale scambiava con la sua collega e amante Lisa Page. Secondo l’avvocato dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, Strzok condusse l’interrogatorio in maniera tale da portare Michael T. Flynn a mentire. “Un comportamento scioccante” ha spiegato Sidney Powell.

Così l’Fbi ha “incastrato” Michael Flynn. La cosa più sorprendente, tuttavia, sottolinea il The Federalist, è il sospetto che “alti funzionari dell’Fbi” abbiano “orchestrato un’intervista a sorpresa” all’allora consigliere per la sicurezza nazionale, “non allo scopo di scoprire qualche attività criminale” ma per “incastrarlo, inducendolo a rilasciare dichiarazioni false dichiarazioni”. L’11 gennaio 2017 Buzzfeed pubblica il cosiddetto “Dossier Steele”, che attribuiva a Donald Trump legami longevi e intensi con il governo russo, e sosteneva l’esistenza di dossier e materiali usati dalle stesse autorità russe per ricattare Trump. Un dossier, finanziato in parte dalla Fusion Gps, dal Washington Free Beacon, dal Democratic National Committee e dalla campagna di Hillary Clinton, che poi si è rivelato essere in larga parte infondato e falso, come lo stesso ex spia inglese Christopher Steele ha ammesso. Mentre la notizia del dossier divampa sui media, Strzok manda un messaggio alla sua amante, Lisa Page: “Seduto con Bill a guardare la Cnn, stiamo discutendo se, ora che è uscito, possiamo usarlo come pretesto per andare a intervistare alcune persone”. L’avvocato di Michael T. Flynn rivela che nelle due settimane successiva vengono organizzati diversi incontri fra Strzok e il vicedirettore dell’Fbi Andrew McCabe per discutere “se interrogare il consigliere per la sicurezza nazionale Flynn” e, in tal caso, “quali strategie usare”. Il 23 gennaio 2017 i vertici dell’Fbi si incontrano per orchestrare l’intervista a sorpresa. Presenti il vicedirettore McCabe, il consigliere generale James Baker, Lisa Page, Peter Strzok, David Bowdich, Trish Anderson e Jen Boone. In seguito all’interrogatorio di Flynn del giorno successivo, Strzok scambia altri messaggi con Page: “Descrivi il sentimento, il nervosismo, l’eccitazione sapendo che lo avevamo appena sentito negare tutto”.

Flynn e i telefoni di Mifsud. Nei giorni scorsi, l’avvocato Sidney Powell, che rappresenta il generale Michael T. Flynn, ha presentato una mozione in cui chiede di visionare i dati contenuti nei due telefoni Blackberry recentemente entrati in possesso del Dipartimento di Giustizia Usa e appartenenti a Joseph Mifsud. Secondo l’avvocato, in quei file ci sarebbe la prova che Mifsud incastrò il generale Flynn cercando di collegarlo alla Russia e alimentando così la narrativa della collusione con il Cremlino, esattamente come fece con l’ex advisor della campagna di Trump, George Papadopoulos: operazione di controspionaggio a cui parteciparono, secondo Papadopoulos e gli avvocati di Flynn, l’Fbi, il Doj e i servizi d’intelligence stranieri. Esattamente ciò su cui stanno indagando e cercando di fare luce William Barr e John Durham nella loro indagine penale .Come spiega Federico Punzi su Atlantico Quotidiano, l’avvocato Powell aveva chiesto già a settembre “qualsiasi informazione, comprese registrazioni o i 302, circa la presenza e coinvolgimento di Joseph Mifsud nel coinvolgere o riferire della presenza di Mr. Flynn e dello stesso Mifsud alla cena di Russia Today tenuta a Mosca il 17 dicembre 2015″. Fu in quell’occasione che Flynn conobbe il presidente russo Vladimir Putin. La fotografia che li ritrae allo stesso tavolo fu fondamentale per sostenere che l’ex generale fosse un agente russo e, quindi, per alimentare la narrativa della collusione fra la campagna di Trump e la Russia.

Estratto dell’articolo di Federico Punzi per atlanticoquotidiano.it il 10 dicembre 2019. Un rapporto devastante per l’FBI dell’ex direttore Comey quello dell’ispettore generale del Dipartimento di Giustizia Michael Horowitz pubblicato ieri, le cui conclusioni demoliscono l’indagine di controintelligence aperta sulla Campagna Trump e, come vedremo, non diradano, anzi confermano la fondatezza dei sospetti sulle origini stesse di quell’indagine. Anche se l’IG non arriva ad accusare l’FBI di bias politico, le violazioni così gravi e sistematiche che il suo rapporto ricostruisce si spiegano solo con la volontà di colpire Trump e i suoi associati anche e soprattutto dopo la sua elezione. Ma se c’è stato un complotto ai suoi danni da parte di agenzie e/o singoli Usa e stranieri, questo sarà compito del procuratore Durham, la cui inchiesta è penale, accertarlo. (…)  Riguardo il professore maltese della Link Campus Joseph Mifsud, dai cui incontri con Papadopoulos è scaturita l’indagine sulla Campagna Trump, Horowitz scrive nel suo rapporto che da una verifica condotta sugli archivi delle confidential human sources dell’Agenzia “non sono stati trovati record che indicano che Mifsud fosse una fonte confidenziale dell’FBI, o che i suoi incontri con Papadopoulos fossero un’operazione dell’FBI, e nessuno dei testimoni che abbiamo intervistato o dei documenti che abbiamo visionato aveva informazioni a sostegno di questa affermazione”. Ma questo, essendo l’FBI solo una delle agenzie di intelligence Usa, non esclude che Mifsud, come abbiamo più volte ipotizzato nel nostro speciale e come sostiene il suo legale Stephan Roh, fosse una “risorsa” di qualche western intelligence – di Paesi alleati, magari il DIS italiano o l’MI6 britannico, o della stessa CIA. (…)

Paolo Mastrolilli per “la Stampa” il 10 dicembre 2019. L' Fbi ha commesso molti errori nel Russiagate, ma l' apertura dell' inchiesta «Crossfire Hurricane» sulle interferenze di Mosca nelle elezioni del 2016 era giustificata e non era stata condizionata da pregiudizi politici. È la conclusione a cui è giunto l' ispettore generale del dipartimento alla Giustizia, Michael Horowitz. Il rapporto di 434 pagine che ha pubblicato ieri tocca anche l' Italia, perché in sostanza la scagiona dall' accusa di aver partecipato ad un complotto contro la campagna presidenziale di Trump, sostenendo che il professore maltese Joseph Mifsud non era un agente dei servizi occidentali.

La smentita. Horowitz ha condotto la sua indagine perché il capo della Casa Bianca ritiene che il Russiagate sia stata un' operazione illegale di spionaggio, lanciata dall' Fbi per impedire la sua vittoria. All' origine dell' inchiesta c' era stata la rivelazione fatta da Mifsud a George Papadopoulos, consigliere del candidato repubblicano, secondo cui la Russia aveva ottenuto le mail di Hillary Clinton. L' incontro tra i due era avvenuto alla Link Campus University di Roma, e quindi Papadopoulos aveva accusato gli apparati dello stato italiano di aver aiutato il complotto per incastrarlo. Horowitz ha individuato molti errori e comportamenti inappropriati nella gestione dell' indagine da parte dell' Fbi, ma sul punto centrale in discussione ha scritto che c' erano motivi credibili per avviare il Russiagate, e le posizioni politiche degli agenti coinvolti non hanno condizionato l' operazione. Per quanto riguarda la parte italiana, a pagina 263 l' ispettore generale rivela che l' Fbi aveva interrogato Mifsud nel febbraio del 2017, ma il professore poi scomparso aveva smentito di aver avuto informazioni in anticipo sul furto delle mail da parte della Russia, e quindi non aveva potuto fare alcuna offerta a Papadopoulos. Horowitz comunque è arrivato alla conclusione che Mifsud non era un agente dell' Fbi e i servizi occidentali non hanno avuto un ruolo nella vicenda. Il segretario alla Giustizia Barr però ha reagito, scrivendo che non condivide le conclusioni dell' ispettore generale, perché «Crossfire Hurricane» era stata aperta sulla base di prove inconsistenti. Lo stesso ha detto il procuratore Durham, incaricato da Barr di condurre un' altra inchiesta che lo ha portato anche a Roma, per raccogliere informazioni su Mifsud. Da questa indagine quindi potrebbero ancora emergere ancora elementi imbarazzanti per l' Italia.

DAGONEWS il 12 dicembre 2019. Mentre a Washington infuria il dibattito sul rapporto dell'Ispettore Generale del Dipartimento di Giustizia, Michael Horowitz – con i repubblicani che parlano di clamorosi illeciti dell'Fbi per trovare una scusa (processuale) per intercettare lo staff della campagna Trump, e i democratici che ovviamente sminuiscono la faccenda – in Italia il premier Conte si chiede che effetto potrà avere sul suo futuro politico. In realtà nel rapporto non si delinea la complicità dei governi occidentali (e dunque dell'Italia) con Mifsud o con il tentativo di screditare il candidato repubblicano per bollarlo come burattino dei russi prima del voto. Il rapporto Horowitz insomma non avrà grosse ripercussioni dalle nostre parti. Ma quello che più si attende a Palazzo Chigi è il rapporto di William Barr, Attorney General, che invece (pur senza presentare prove concrete, non potrebbe) toccherà qualche punto debole dell'apparato di intelligence italiana. Il tutto lasciando però aperti molti interrogativi: perché Mifsud è sparito? Perché l'Italia non ha mai aperto un'inchiesta sul suo ruolo o sulla sua sparizione? La giustificazione ''nessuno ha denunciato e quindi non abbiamo aperto inchieste'' è un po' kafkiana e regge poco visto che sono due anni che il nome Mifsud è legato al Russiagate e a quella bollente estate del 2016. Il fatto è che lo stesso Trump è indeciso sul da farsi con il suo quasi amico ''Giuseppi''. Cosa ne verrebbe all'amministrazione USA dall'indebolire il governo menando sui servizi cari al premier? Un esecutivo Salvini che rischia di angosciare le istituzioni europee e dunque le borse (globali)? Guidato da uno che ha il partito sotto inchiesta per i legami con faccendieri russi e strani traffici milionari di carburanti? In fondo sul 5G, nonostante le aperture di Casaleggio e dei suoi boys, è partito un tipico Italian job: il governo prende tempo, allunga le scadenze, rimanda, fa il vago, dà un colpo al cerchio cinese e uno alla botte americana. Tanto non c'è tutta 'sta fretta, la tecnologia è acerba e qua gli autobus non riusciamo a evitare che prendano fuoco o che ammazzino i pedoni, a Roma come Milano, figuriamoci farli guidare da soli. Così come Trump ha detto che la guerra commerciale con la Cina potrebbe risolversi solo dopo la sua elezione, anche il Conte-bis aspetta di prendere una posizione vera su Cina e 5G, magari anche fino al novembre 2020. Se Trump sarà riconfermato, si vedrà. Intanto, meglio non decidere.

Russiagate: Mifsud indagato ad Agrigento per peculato. (ANSA  il 9 dicembre 2019) - Il procuratore aggiunto di Agrigento Salvatore Vella e il pm Chiara Bisso, dopo aver aperto un fascicolo contro ignoti per abuso di ufficio e truffa, hanno ora iscritto nel registro degli indagati - anche per l'ipotesi di peculato - l'ex presidente del Consorzio universitario Joseph Mifsud, l'uomo al centro dello scandalo Russiagate. La Procura ha attivato le procedure per la notifica dell'inchiesta al misterioso docente, ritenuto da molti una spia di cui si sono perse le tracce del 2017. L'inchiesta è partita da un esposto dell'attuale presidente del Consorzio, Giovanni Di Maida, in cui si contestano le 'spese pazze' fatte da Mifsud quanto era è stato a capo dell'ente, dal 2009 al 2012: viaggi in Russia, Malta, Usa, Inghilterra, Libia, Libano e Bulgaria, quasi sempre accompagnato "da sconosciute giovani donne dell'Est", ma avrebbe anche acquistato telefoni Blackberry, almeno cinque, comprati e poi spariti nel nulla. Un buco da oltre 200 mila euro.

Felice Cavallaro per il “Corriere della Sera” il 10 dicembre 2019. Che si tratti davvero di una spia internazionale o di uno spregiudicato faccendiere pronto ad offrire a Donald Trump le mail rubate dai russi a Hillary Clinton, ad Agrigento nessuno può confermarlo. Ma che Joseph Mifsud, il misterioso professore al centro del Russiagate, sia «una sorta di truffatore seriale con l'alea del Mister X» lo sospetta il suo successore alla presidenza del Consorzio universitario, Giovanni Di Maida, che a tre mesi dall'insediamento sta scoperchiando la pentola delle spese pazze di questo impostore arrivato nella città dei Templi nel 2009 come possibile prolifico contatto con gli altri atenei del Mediterraneo. E questo diceva di se stesso Mifsud appena incaricato e presentato al pianeta agrigentino da un ex presidente della Provincia, Giuseppe D'Orsi, esponente di un centro destra adesso imbarazzato e diviso. Ma forse nessuno poteva immaginare anche al vertice del Consorzio che il presidente approdato dalla sua Malta avrebbe utilizzato la carica per attivare e moltiplicare la sua rete privata internazionale con viaggi continui in Libia, Libano, Siria, Bulgari, Iran, Russia e Stati Uniti «senza alcun ritorno, senza alcun vantaggio per studenti e dipartimenti universitari, senza mai depositare una relazione di servizio, un documento per spiegare le ragioni delle lunghe e costose trasferte», insiste Di Maida, sorpreso soprattutto dall'uso disinvolto della carta di credito interna. Mifsud avrebbe infatti utilizzato i fondi del suo ufficio per acquistare biglietti aerei relativi a viaggi personali, pagare conti salati in grandi alberghi, comprare capi in negozio di intimo, addirittura alcuni giocattoli, farsi sostituire dai tecnici del consorzio cinque telefonini, cinque Blackberry, senza mai restituire quelli ufficialmente andati in tilt. Spesso circondato da una sfilza di signore come ospiti a cena, con nomi top secret per indagini adesso avviate dalla Procura di Agrigento che valuta un danno immediato di almeno 60 mila euro e accertamenti della Guardia di finanza su conteggi che sfiorano il milione e mezzo di euro. È stato Di Maida ad aver passato tutte le carte al procuratore Luigi Patronaggio, all'aggiunto Salvatore Vella e alla pm Chiara Bisso che hanno aperto un fascicolo contro ignoti per abuso di ufficio e truffa. Ma quando hanno provato ad attivare le procedure per la notifica del provvedimento gli ufficiali delle Fiamme Gialle si sono imbattuti nel muro da tempo elevato dalla presunta spia, forse ormai ricercata da diversi servizi segreti stranieri, forse rifugiatasi in Svizzera. Patronaggio, il procuratore poco amato da Salvini per le inchieste su Mediterraneo e ong, avrebbe voluto mettere le mani soprattutto su alcuni di quei cinque telefonini. Ma i tecnici non si facevano mai restituire quello che ogni volta Mifsud diceva di dover cambiare per un guasto. La memoria di quei cellulari avrebbe potuto raccontare alcuni segreti. Ma si lavora ai tabulati del traffico telefonico. E dalle carte tirate fuori da Di Maida ecco venir fuori le bollette con le chiamate in uscita per Libia, Inghilterra, Russia e così via, con numeri in parte identificabili. Sono bollette da capogiro. Quella dell'ottobre 2010 ammonta a 3.143 euro. A novembre e dicembre supera i 4 mila euro. Come nel marzo 2011 quando raggiunge quota 4.204 euro. Di Maida spulcia e commenta stupito: «Tutte chiamate a Paesi esteri estranei alla vita della nostra università. A cominciare da Russia, Libia, Siria e Libano». Forse qualche dubbio avrebbe potuto averlo già qualche anno fa anche lo stesso Di Maida che all'epoca stava nel consiglio di amministrazione con i professori Maria Immordino e Gianfranco Tuzzolino, ma ai magistrati assicura che «tutto passava attraverso due funzionari del Consorzio che nulla dicevano, una signora oggi in pensione e un impiegato che fecero trasferire dalla vicina Licata». Ecco le coperture assicurate a Mifsud che tanti ricordano spesso in contatto con D'Orsi, con l'altro esponente del centro destra Roberto Di Mauro e con l'ex governatore Raffaele Lombardo. Tutti esponenti di un mondo politico in subbuglio nella vecchia Girgenti già da tempo in campagna elettorale per il nuovo sindaco che si eleggerà a maggio.

L’ex 007 del sequestro Abu Omar fuggita dall’Italia negli Usa. Pubblicato sabato, 26 ottobre 2019 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. De Sousa messa in allarme dalle visite romane di Pompeo e Haspel (Cia). Era l’unica condannata per il sequestro di Abu Omar che stava scontando la pena, ma ora non più perché è fuggita. Nel 2017 il giudice aveva concesso a Sabrina De Sousa l’affidamento in prova in sostituzione del carcere dove avrebbe dovuto rimanere tre anni, ma a pochi mesi dalla libertà ha preferito violare gli obblighi e tornare negli Stati Uniti. Riaprendo così il mistero dell’imam egiziano sospettato di terrorismo rapito a Milano il 17 febbraio 2003 da un commando di agenti segreti americani spalleggiati da funzionari italiani. Nel timore di qualche trappola collegata alle missioni romane del segretario di Stato Usa Mike Pompeo, a inizio ottobre, e soprattutto del nuovo capo della Cia Gina Haspel, sbarcata qualche giorno più tardi. «Di tutti i direttori della Agenzia, Haspel è la più informata sulla vicenda di Abu Omar, dall’inizio alla fine», fa sapere da oltreoceano De Sousa, 63 anni, già segretaria del consolato statunitense a Milano. Lasciando intendere di poter raccontare altri particolari «in virtù delle recenti modifiche al Whistleblower Act», la legge americana sugli informatori. «Se non sarò bloccata, o peggio», aggiunge. Per il tribunale di Milano, che le ha inflitto sette anni di prigione, De Sousa è uno dei 25 diplomatici Usa sotto copertura implicati a vario titolo in quel reato; la sola ad essere stata estradata (dal Portogallo) sebbene lei abbia sempre negato ogni responsabilità. Ma appena fu riconsegnata all’Italia, nel giro di poche ore è arrivata la grazia parziale firmata dal presidente della Repubblica che, aggiunta all’indulto di tre anni, ha abbattuto la pena e fatto sì che dopo una notte trascorsa in cella, fosse scarcerata in attesa dell’affidamento ai servizi. Arrivato poco dopo. A quel punto l’ormai ex diplomatica, che lamentava di non essere stata protetta adeguatamente dal suo governo come gli altri condannati, s’era convinta a chiudere i conti con la giustizia. Le recenti visite romane di Pompeo e della Haspel, invece, l’hanno messa in allarme. In particolare gli incontri della neo-direttrice della Cia con i capi dei Servizi italiani. «Mi sono terrorizzata delle conseguenze che potevano ricadere su di me — spiega De Sousa —. L’ultima volta che un direttore della Cia, John Brennan, ha visitato il Portogallo, sono finita in prigione». Nonostante lei fosse anche cittadina portoghese. Per quella cattura, collegata a un mandato d’arresto europeo emesso dall’Italia, l’avvocato Andrea Saccucci ha presentato per conto della donna un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, tuttora pendente. Tramite lo stesso legale, De Sousa ha chiesto al presidente del Consiglio Giuseppe Conte la rimozione del segreto di Stato apposto dall’Italia sulla vicenda Abu Omar, per poter dimostrare la propria estraneità al sequestro, ma da Palazzo Chigi non è arrivata alcuna risposta. Fra i segreti sul sequestro di Abu Omar custoditi da Gina Haspel ci sarebbe pure «un accordo passato e uno tuttora in vigore con l’Italia» di mutue coperture su quella intricata vicenda, attraverso «l’uso molto specifico e selettivo dei segreti di Stato», sostiene De Sousa, che insiste: «Come nel caso del viaggio di Brennan in Portogallo, l’arrivo di Haspel in Italia ha confermato anche al governo italiano che l’amministrazione americana s’è lavata le mani del mio caso». La donna sospetta inoltre che, consigliato da qualcuno, Trump abbia fatto per lei un’eccezione al programma di riportare a casa tutti i cittadini americani detenuti all’estero: «Questo mi ha lasciato in una posizione pericolosa, senza protezione né possibilità di fare ricorsi». Resta da capire, a parte l’accenno alla nuova legge sui whistleblowers, che senso abbia avere timore dell’amministrazione Usa e poi fuggire dall’Italia per andare proprio negli Stati Uniti. Sapendo di non poter più tornare qui, se non in carcere. Perché sebbene non sia tecnicamente un’evasa, dal momento che non è scappata da una prigione, Sabrina De Sousa s’è comunque sottratta all’esecuzione della pena (che si sarebbe estinta all’inizio del 2020), violando il divieto di espatrio. In teoria adesso l’Italia potrebbe chiedere il suo arresto agli Stati Uniti e la conseguente estradizione, per farle scontare, dall’inizio, i tre anni di residuo pena. E stavolta in cella.

Una ex spia della CIA: “Ecco perché siamo addestrati a fermarci a ogni semaforo giallo”. Ryan Pickrell su it.businessinsider.com il 26/10/2019. Insider ha recentemente ottenuto in anteprima una copia di “Life Undercover: Coming of Age in the CIA“, il nuovo libro della ex agente dei servizi segreti Amaryllis Fox. In un’intervista, Fox ha parlato delle motivazioni dietro alla scrittura del libro, del suo addestramento, delle sue esperienze sul campo e anche di alcune strane abitudini che non l’hanno abbandonata. Tra esse, oltre allo stare con le spalle al muro nei ristoranti e guardare ingressi e uscite, c’è quella di fermarsi a ogni semaforo giallo. Dopo aver trascorso anni nella CIA combattendo per prevenire il terrorismo nucleare e altre catastrofi, semplicemente, alcune vecchie abitudini non ti abbandonano, dice l’ex spia Amaryllis Fox. “Cerco un po’ di cambiare questi istinti”, ha detto recentemente a Insider Fox, ex agente del servizio clandestino della CIA e autrice del nuovo libro Life Undercover: Coming of Age in the CIA. “Ma penso che siano ormai entrate nel mio subconscio, almeno alcune di loro”. Le spie della CIA imparano a padroneggiare abilità non solite delle persone normali, e queste restano attaccate. Imparano a immergersi così tanto nella loro copertura che riescono a superare un test con la macchina della verità, a individuare il perfetto luogo di incontro abbastanza isolato da evitare occhi e orecchie del nemico ma anche giustificabile in caso si venga scoperti, e a gestire chi li pedina,  che se capissero di essere stati scoperti potrebbero compromettere completamente un’operazione. “Quando mi sposto, noto quale potrebbe essere un buon luogo per segnali e i per passaggi”, ha detto Fox a Insider, riferendosi rispettivamente a luoghi dove si potrebbe lasciare un segno che indica un messaggio e quelli dove effettuare discretamente uno scambio. In due occasioni nella vita civile, ha detto, ha individuato quelli che sospettava essere segnali, di solito gesso o addirittura pastiglie antiacido, lasciate da altri ufficiali in quelli che secondo lei erano posti adatti. “Ho ancora l’abitudine a notare luoghi adatti alle operazioni”, ha detto. “Penso che me la porterò con me per il resto della vita”. Fox ha anche detto che in un ristorante si sente maggiormente a proprio agio con le spalle al muro e che tende a prendere nota degli ingressi e delle uscite ovunque vada. Ma c’è un’abitudine, ha detto, che fa ammattire un po’ suo marito: fermarsi a ogni semaforo giallo quando guida. Cosa c’entrano i semafori gialli? “Quando fai addestramento di controsorveglianza, una delle cose che ti viene insegnata è di non fare arrabbiare il tuo sorvegliante facendogli pensare che stai cercando di seminarlo“, ha detto Fox. “Per cui, se il semaforo diventa giallo, ti fermi in modo che non abbia la sensazione che hai provato a seminarlo“, ha detto. Gestire un pedinatore non è come la maggior parte delle persone ha letto o visto nei thriller di spionaggio. “Niente potrebbe essere più lontano dalle realtà del modo in cui queste operazioni vengono mostrate in televisione o nei film, dove qualcuno salta su un treno e semina il pedinatore, o salta da un tetto all’altro con l’arma in pugno”, ha detto.

“Ciò attirerebbe un sacco di attenzione sull’agente, anche se in quell’occasione è riuscito a scappare, e la sua copertura salterebbe“, ha detto Fox a Insider. “Gran parte dell’addestramento include l’essere molto bravi a non attirare l’attenzione, essere sostanzialmente e semplicemente molto noiosi in modo da non farsi notare“. Ha aggiunto che la maggior parte delle cose viste nei film di spionaggio — come il minimizzare l’aspetto umano per esaltare quello paramilitare, o i ritratti imprecisi di personaggi femminili e dei loro importanti contributi a questo genere di lavoro — sono estremamente sbagliate. Descrivendo il proprio orgoglio nel vedere quattro donne ai vertici della CIA, ha detto, “Spero che i ritratti cinematografici che vedremo d’ora in poi riflettano maggiormente i contributi che le donne portano alla sicurezza nazionale”. “Sono davvero molto importanti”, ha aggiunto.

Anna Lombardi per “la Repubblica” il 16 dicembre 2019. «Mister President, vorrei mostrarle l' ultimo trucco della Cia». Era il 1991 quando Jonna Mendez, all' epoca capo dell' ufficio travestimenti dell' agenzia, si presentò nello Studio Ovale indossando i panni della collega adibita a consegnare a George HW Bush i rapporti mattutini. In realtà avrebbe voluto assumere le sembianze di un collega afroamericano. Ma temendo che la voce potesse tradirla, preferì quelli di un'impiegata più giovane. «Me lo faccia scoprire da solo», aveva risposto Bush padre, capo della Cia nel 1976, alzandosi dalla scrivania. Salvo arrendersi dopo qualche minuto: «Rimase a bocca aperta quando vide un altro volto sotto quella faccia». A trent' anni dal camuffamento con cui ingannò perfino il presidente degli Stati Uniti, Jonna Mendez, 74 anni, mette giù la maschera. Raccontando al Wall Street Journal la sua storia: insieme a quella dei volti di silicone donati allo Spy Museum di Washington che col marito Tony ha contribuito a fondare. Sì, perché Jonna è la vedova di quel Tony "faccia di gomma" Mendez, morto a 79 anni lo scorso gennaio, ispiratore del film Argo . Colui che nel 1980, travestito da produttore di Hollywood, riuscì a portar fuori dall' Iran degli ayatollah sei diplomatici americani nel pieno della crisi degli ostaggi. Sposatisi nel 1991, lei appena nominata capo del dipartimento dei travestimenti, lui pronto ad andare in pensione a soli 50 anni, hanno scritto insieme diversi libri. Da Spy Dust - oggi la Bibbia degli aspiranti agenti segreti - a The Moscow Rules dove, col consenso dell'agenzia, hanno svelato, per la prima volta, le tattiche utilizzate durante la guerra fredda per carpire segreti ai russi. Regole d'oro come «mai essere troppo vistosi, ma nemmeno dimessi». Oppure: «Il successo della missione dipende dal gioco di squadra». E pensare che Jonna, nata in Kentucky nel 1945, era approdata per caso alla Cia. Assunta nel 1966 come segretaria dopo che il primo marito, John Goeser. le svelò di essere un agente a tre giorni dal matrimonio. Erano in Germania: «Mi reclutai praticamente da sola». Fu l' interesse per la fotografia a spingere inizialmente la sua carriera. Il capo della sua sezione la notò, mandandola alla Farm, il centro in una fattoria in Virginia. Qui apprese i rudimenti del foto spionaggio: «Il mio strumento preferito è una microcamera nascosta nel rossetto. Imbattibile». Condusse le sue prime missioni col marito Goeser: poi, dopo il divorzio, continuò da sola, lavorando come agente sotto copertura fra Asia ed Europa, per i successivi 27 anni. Una carriera difficile, in un ambiente prevalentemente maschile: «Per farti notare dovevi lavorare il doppio di loro». Prima di essere destinata in quella Mosca che, racconta, «chiamavamo l'ombelico della Bestia. I russi avevano almeno 50mila agenti operativi» - andò a studiare i trucchi di Hollywood e quelli dei maghi a Los Angeles: «Tutto sta nello sviare l'attenzione. Se sei inseguito puoi cambiare abito e fisionomia tra la folla in 45 secondi. Basta un naso finto, una sciarpa da trasformare in scialle, un sasso nella scarpa per cambiare modo di camminare». Del disgelo con i vecchi nemici non vuole sentire parlare: «All' interno dell' agenzia nessuno si fida dei russi. Non li molleranno nemmeno davanti a ordini dall' alto». Poi, alludendo a certe voci riportate nel controverso rapporto Steele avverte: «I russi hanno marchingegni incredibili. Non so dove Donald Trump sia stato a Mosca: ma di sicuro la sua stanza era piena di microspie. Se ha fatto qualcosa che non doveva, loro lo hanno certamente ripreso».  

Maria Butina, la spia russa arrivata a Mosca: è stata scarcerata dagli Usa. Pubblicato sabato, 26 ottobre 2019 su Corriere.it da Silvia Morosi. Arrestata nel luglio 2018, ha scontato la pena in una prigione della Florida. Tra armi e party avvicinò il clan di Trump Guido Olimpio. Maria Butina, 30 anni, la «spia» russa arrestata negli Usa con grande clamore nel luglio 2018, è giunta a Mosca dopo essere stata scarcerata al termine della pena di 18 mesi scontata in una prigione della Florida. In un breve incontro con i giornalisti al suo arrivo in aeroporto, Butina ha ringraziato i suoi sostenitori che l’hanno sempre appoggiata fin dal suo arresto. La «spia» si è dichiarata colpevole di aver cospirato contro gli Stati Uniti cercando di infiltrare la potente lobby delle armi Nra e di creare canali di comunicazione occulta tra il governo russo e il Partito Repubblicano. «I russi non si arrendono» ha esclamato quando, mazzo di fiori in mano, è arrivata all’aeroporto di Mosca. Condannata negli Stati Uniti per aver tentato di infiltrarsi negli ambienti politici americani, è stata liberata ieri dalla prigione di Tallahassee, capitale amministrativa della Florida. «Non mi sono arresa perché so che non avevo il diritto», ha detto Butina alla folla di giornalisti che l’attendevano all’aeroporto. Dopo il suo arrivo, l’emittente televisiva RT - finanziata dal Cremlino - ha mostrato immagini nelle quali si vede la donna a bordo di un minibus insieme ad alcuni diplomatici che parla dell’«orrore in cui mi trovavo» durante la sua permanenza nelle carceri americane. «Assolutamente tutti mi odiavano, tutti», ha aggiunto, sottolineando che Washington «mostrando le mie foto ha fatto di me una sorta di show televisivo».

Giuseppe Agliastro per “la Stampa” il 2 novembre 2019. Vladimir Putin? È una giovane spia «pronta, disciplinata e scrupolosa», fedele al comunismo ma anche dotata di un certo carisma. È così che l' attuale presidente russo appariva ai suoi superiori quando era un ufficiale del Kgb di circa 25 anni. Lo rivela un rapporto della fine degli anni '70 esposto in questi giorni all' Archivio Centrale di Stato di San Pietroburgo. Secondo alcuni osservatori, il documento appartiene ai servizi segreti sovietici, ma il direttore dell'archivio sostiene che si tratti di una relazione del Komsomol, il ramo giovanile del partito comunista sovietico. Il fatto che il profilo di Putin sia ora in mostra nell' antica capitale degli zar rientra nel processo di esaltazione del leader russo messo in atto dal Cremlino. Ma il documento fornisce comunque un interessante ritratto del giovane Putin, rimasto così legato al suo passato da 007 da essersi circondato in questi anni di ex colleghi dell' intelligence sovietica o presunti tali: dal segretario del Consiglio di Sicurezza Nikolai Patrushev al potentissimo Igor Sechin, a capo del colosso del petrolio Rosneft. «Il compagno Putin - si legge nel documento - migliora costantemente i suoi livelli ideologici e politici» e «si impegna attivamente nel lavoro di educazione del partito». Nel rapporto Putin è descritto come una persona «moralmente retta» che gode di «una ben meritata autorevolezza tra i colleghi». Ma secondo l' ex generale del Kgb Aleksey Kondaurov questa valutazione non ha nulla di eccezionale. «Di solito - spiega - scrivevamo "persona moralmente retta" quando non c' era altro da dire». Putin però era lodato dai suoi superiori (del Kgb o del Komsomol) «per il lavoro ben organizzato e per i risultati» nonché per la sua abilità nel judo: un asso nella manica di cui il leader russo ama fare sfoggio anche ora, presentandosi spesso sul tatami davanti alle telecamere. Putin non ha dimenticato gli anni da giovane judoka a a San Pietroburgo. Il suo amico d' infanzia ed ex sparring partner di judo Arkady Rotenberg è adesso uno degli oligarchi più ricchi della Russia ed è stata una sua azienda a costruire il ponte tra la Russia e la Crimea, la penisola che Mosca si è annessa illegalmente nel 2014. Stando alla tv Dozhd, fu proprio la passione per il judo a permettere a Putin e Rotenberg di guadagnare i primi soldi negli anni '70 facendo le controfigure in alcuni film patriottici sovietici. Poi Putin proseguì sulla strada del patriottismo arruolandosi nel Kgb dove rimase per 16 anni, fino al crollo dell' Urss nel 199. Dal 1985 al 1990 lavorò a Dresda, in Germania Est. Tra il 1998 e il 1999 fu a capo dell' intelligence russa, poi segretario del Consiglio di sicurezza e premier.

Emanuele Rossi per formiche.net il 12 dicembre 2019. Due diplomatici tedeschi sono stati espulsi da Mosca per decisione diretta del Cremlino in un tit-for-tat che ha uno sfondo spionistico da romanzo. L’espulsione di due uomini dell’ambasciata tedesca in Russia secondo Berlino è “segnale sbagliato e ingiustificato”, ma per i russi è una misura simmetrica necessaria. Tutto perché la scorsa settimana due persone collegate alla sede diplomatica russa in Germania erano state espulse dal governo tedesco perché il Cremlino si rifiutava di collaborare su un caso di omicidio di un ex ribelle ceceno. Raccontare la vicenda spiega molti risvolti. Ad agosto il georgiano Zelimkhan Khangoshvili, un ex comandante anti-russo in Cecenia, è stato ammazzato da un sicario in un parco di Berlino. Un uomo gli si è avvicinato in bicicletta e l’ha freddato con due colpi di pistola. Un lavoro da professionista. Secondo Bellingcat, un sito investigativo che segue con minuziosa attenzione i dossier russi, l’assassino sarebbe Vadim Krasikov, già arrestato nel 2014 in Russia con l’accusa di aver ucciso un businessman a Mosca con la stessa modalità. Era il 2013. Il bike-killer era l’unico sospettato, ma nonostante questo il suo caso è stato rapidamente derubricato. Lui si spostava in Asia Centrale come in Crimea nonostante avesse un mandato di cattura. Bellingcat ha trovato che l’ordine di arresto contro di lui era stato ritirato quasi subito e negli anni successivi il suo caso era diventato praticamente inesistente. Addirittura sembra che non esista più nemmeno la sua patente (e a dispetto del suo marchio di fabbrica ciclistico, un tempo ce l’aveva e aveva anche una macchina intestata). Krasikov è sparito, e gli investigatori tedeschi dicono allo Spiegel che è il governo russo a proteggerlo. Un sicario misterioso, come quelli dei film, che il Cremlino tiene sotto copertura. Si potrebbe dire “estrema copertura”, ma siamo nell’epoca dell’informazioni ed è difficile nascondere tutto, tant’è che i bravissimi investigatori di Bellingcat hanno raccolto informazioni molto utili. Poi ci sono quelle non diffuse che ha in mano l’intelligence. E non solo quella tedesca. I due russi allontanati da Berlino la scorsa settimana erano agenti del Gru, i servizi segreti militari russi, e sono stati messi fuori dalla Germania non per un’azione di rappresaglia (quello che ha fatto la Russia oggi), ma perché Mosca si rifiuta di fornire informazioni sul conto di Krasikov. E allora sono stati espulsi due agenti sotto copertura, evidentemente tracciati e individuati da tempo, messi in una lista speciale pronta all’uso. Nei giorni scorsi anche il francese Monde si era occupato di qualcosa di simile. Aveva pubblicato i nomi di quindici agenti di una sezione speciale del Gru, l’Unità 29155, che si occupano di portare avanti attività di guerra ibrida in Europa (per approfondire quello che la Russia sta facendo, oggi Formiche.net ha pubblicato un’intervista a Nona Mikhelidze, che fa ricerca su questi argomenti per l’Istituto Affari Internazionali). Si tratta di assassini politici come quello di Khangoshvili o come il tentato omicidio a Salisbury della ex spia Sergei Skripal, a cui altri due sicari del Gru hanno cercato di somministrare una dose letale di Novichok (un componente nervino) nel marzo del 2018. Questa squadra (che non è l’unica) opera dalle Alpi, e secondo le ricostruzioni arrivate sui media si sarebbe stabilita a Chamonix per lungo tempo. Sarebbero gli stessi che hanno progettato il fallito golpe in Montenegro tre anni fa (quando il paese balcanico entrò nella Nato). La polizia olandese ne aveva beccati altri quattro (con l’aiuto dell’intelligence americana, francese e svizzera) mentre stavano cercando di sottrarre dati dall’Opcw, l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, che stava indagando sul Novichok usato contro Skripal e sua figlia. Erano in macchina nel parcheggio della sede centrale dell’organizzazione, all’Aia con in mano sofisticati strumenti informatici. Altri avevano cercato di hackerare i laboratori svizzeri dove l’Opcw aveva mandato ad analizzare i campioni rinvenuti a Salisbury. L’Europa sembra infestata da squadre di destabilizzazione russe (secondo un articolo del New York Times di ottobre ce n’è almeno un’altra, nota sotto la sigla 26165), che però il controspionaggio alleato intercetta e insegue.

Il gigantesco sottomarino di Putin che può creare lo tsunami nucleare. Pubblicato lunedì, 25 novembre 2019 da Guido Olimpio e Paolo Valentino su Corriere.it. Quando in «Caccia all’Ottobre Rosso» Alec Baldwin, nella parte dell’analista della Cia Jack Ryan, cerca di chiarire al consigliere per la Sicurezza nazionale la pericolosità del nuovo sottomarino sovietico, gli dice così: «Questa cosa potrebbe depositare un paio di centinaia di testate nucleari al largo di Washington o di New York e nessuno ne saprebbe nulla fin quando non sarebbe tutto finito». Sono passati 35 anni dal romanzo di Tom Clancy, ventinove dal film di John Mc Tiernan. La Guerra Fredda tra Usa e Urss è ormai un lontano ricordo. Ma quel sottomarino non è più una fantasia letteraria o hollywoodiana. Esiste davvero. Dopo due decenni di relativa calma e ambizioni di disarmo frustrate, una nuova corsa al riarmo nucleare sta trasformando l’intero pianeta un luogo ad altissimo rischio. Stati Uniti, Russia, Cina, perfino Francia e Gran Bretagna (i cinque Paesi che ufficialmente posseggono la bomba) stanno investendo centinaia di miliardi di dollari nel più massiccio e radicale rinnovamento dei loro arsenali dell’ultimo mezzo secolo. Una modernizzazione che punta a garantirsi, da qui al 2080, sofisticati e avveniristici sistemi d’arma atomici in grado di portare morte e distruzione totale a decine di migliaia di chilometri di distanza. Ma di tutti i teatri del confronto, quello di gran lunga più rivoluzionario e inquietante avviene negli abissi. È sotto gli oceani che Mosca e Washington fanno a gara per dotarsi dell’arma risolutiva, quella da cui sarà impossibile difendersi. Lo scorso 27 aprile a Severodvinsk, alla presenza di Vladimir Putin, la marina russa ha varato il Belgorod. È uno dei più grandi sommergibili mai costruiti al mondo: mosso da due propulsori atomici, lungo 178 metri, l’equivalente di due campi di calcio o se si preferisce di due jumbo jet e mezzo, il suo scafo ha un diametro di 15 metri. E’ proprio come l’Ottobre Rosso del film, lo speciale design delle eliche e i nuovi materiali con cui sono costruite rendono il Belgorod molto silenzioso e difficile da localizzare dai sonar nemici. Eppure la vera novità non è il sommergibile in sé, ma quello che ha dentro e fuori. Non ci sono infatti missili intercontinentali nella pancia del Belgorod, ma sei giganteschi siluri anch’essi a propulsione nucleare. Lunga 24 metri, larga 2, capace di viaggiare a 140 chilometri l’ora anche a mille metri di profondità, figlia di un’idea originaria del padre dell’atomica sovietica, il premio Nobel per la Pace Andrei Sakharov, quest’arma è stata battezzata Poseidon ed è il vero novum dell’arsenale russo. Armato di una testata atomica da 2 megaton, 150 volte più potente della bomba di Hiroshima, esso può navigare senza ostacoli fino alle coste nemiche ed esplodere provocando uno tsunami radioattivo, in grado di seppellire un’intera metropoli e la sua regione. Occorrerebbero 36 ore a un Poseidon per percorrere il tratto da Murmansk a New Yok. Vi sembra troppo? «Ma i satelliti non potrebbero rilevarlo e viaggerebbe al riparo da ogni sistema di difesa, garantendo una carica mortale lenta e inevitabile», spiega H.I. Sutton, massimo esperto della guerra sottomarina e autore del blog Covert Shores, che ha dedicato molte ricerche su questi sistemi e con il quale siamo in contatto. E’ vero tuttavia che non ci sono dati precisi sullo stato di sviluppo del Poseidon, se cioè sia già pienamente operativo ovvero si tratti ancora di una tigre di carta. Certo è che la marina russa lo abbia e lo stia testando. Non ultimo nella più grande esercitazione sottomarina dal tempo della Guerra Fredda, che secondo indicazioni diverse e convergenti i russi avrebbero iniziato già da qualche settimana. In ogni caso, osserva Sutton, «dal punto di vista psicologico il Poseidon è un’arma brillante, l’idea di un robot-bomba in grado di sollevare uno tsunami radioattivo è terrorizzante, degna di un film apocalittico di Hollywood». Ancora un altro ordigno sarebbe collegato al Belgorod. Si chiama Losharik, è un mini-sommergibile atomico attaccato esternamente al gigantesco scafo-madre e verrebbe usato per missioni supersegrete di spionaggio subacqueo. Lungo 70 metri, 35 uomini di equipaggio, il Losharik è supportato da un sistema di robot sottomarini chiamati Klavesin, anche loro ospitati a bordo del Belgorod, droni in grado di cartografare i fondali. Di più, ad assistere questa straordinaria macchina militare è un sistema di sensori e sonar chiamato Harmonia, in corso di realizzazione, che secondo i russi in futuro permetterà loro di intercettare qualsiasi cosa si muova sotto l’acqua fino a 100 chilometri di distanza. Non tutto fila liscio. Sarebbe infatti su un prototipo del Losharik che in luglio, nel Mar di Barents, è scoppiato l’incendio nel quale sono morte 14 persone, quasi tutti alti ufficiali. Secondo il quotidiano Kommersant, il fuoco sarebbe stato originato nella zona degli accumulatori di corrente. Neppure gli americani sono da meno. Il Pentagono ha stanziato fondi consistenti per realizzare entro quest’anno diversi esemplari di un apparato innovativo, lo XLUUV. Secondo quanto è trapelato dovrebbe avere dodici «tubi» attraverso i quali può lanciare missili da crociera e anti-nave, mine e dispositivi per l’intelligence. Una delle sue missioni potrebbe essere anche quella di contrastare il Poseidon russo prima che si avvicini troppo ai bersagli. E come spiega ancora Sutton andrà ad integrare l’azione dei grandi sottomarini nucleari Usa. Alcuni di questi, come la classe Ohio, hanno armi, ma diventano comando avanzato e base usando il meglio della tecnologia della Navy. Questa capacità mutante sarà caratteristica fissa dei Columbia, la nuova generazione di sottomarini strategici destinata a rimpiazzare la classe Ohio. Rispetto ai giganti però, lo XLUUV ha il vantaggio di poter operare anche in teatri «ristretti», come quello cinese. Tutto questo avviene su un fronte subacqueo dove anche Paesi più piccoli, come Israele e Corea del Nord, hanno dedicato risorse per dotarsi di un braccio missilistico a lungo raggio. Per capacità e budget non competono con le Superpotenze, ma vogliono avere mezzi per impensierire il nemico. Prove in mare hanno dimostrato che battelli convenzionali europei, italiani inclusi, possono sorprendere con i loro siluri perfino una portaerei e la sua scorta. L’Us Navy, da parte sua, si è immersa nella nuova «battaglia per l’Atlantico». A questo fine ha riattivato il comando della Seconda Flotta e sono state intensificate le operazioni nello scacchiere Groenlandia-Islanda-Gran Bretagna, dove per anni la Nato ha cercato di marcare, con i sensori, il passaggio dei sommergibili atomici russi, attivi come non mai. Profili di missione ripetuti dagli Usa verso la Cina, l’altra grande protagonista della sfida sul fondo. Pechino dal canto suo sviluppa la flotta e si protegge con una muraglia subacquea per tenere lontani gli «squali» statunitensi. Un duello del quale conosciamo – forse - le spade, ma non vediamo chi le impugna.

Spie Spa. Come l’intelligence conquista il mondo. Sempre più uomini addestrati a maneggiare segreti lasciano i governi per aziende che fanno dello spionaggio un business. E nessuno è più al sicuro. Massimo Castelli il 5 novembre 2019 su Panorama. Panama. Due uomini d’affari russi contattano un avvocato con i giusti agganci per far loro bypassare un po’ di leggi. Vogliono aprire un «puticlub» con prostitute e festini nel Paese centroamericano e sanno che lui, Janio Lescure, non è un Savonarola. Si incontrano in un ristorante di Madrid. Parlano. Parla soprattutto Lescure, e viene tutto registrato. Perché i due sono spie, ex agenti dei servizi israeliani ora contractor della società privata di intelligence «Black Cube», ingaggiata da un businessman panamense troppe volte tagliato fuori da appalti e commesse. Hanno analizzato le abitudini del «target» e il suo profilo psicologico, probabilmente l’hanno hackerato per studiarne passioni e frequentazioni. Poi hanno costituito una società fittizia, imbandito la credibile identità di loschi businessmen moscoviti e attirato Lescure in Spagna, dove le leggi sulle intercettazioni sono più permissive. L’inconsapevole avvocato ha spifferato tutto sul sistema di mazzette trasferite a diversi giudici attraverso terze parti e conti off shore. A Panama è scoppiato lo scandalo. I professionisti son tornati nell’ombra. Spie... Uomini sotto copertura, infiltrati, 007. Nel nostro immaginario sono agenti segreti della Cia, del Mossad o al servizio di Sua Maestà Britannica: dei James Bond che agiscono rischiando la pelle per il bene del loro Paese. Ma la realtà, oggi, può essere ben diversa. L’intelligence mondiale è stata rivoluzionata dal boom delle «private intelligence agencies» (o Pia), società indipendenti spesso composte da agenti che dopo essersi formati negli apparati governativi optano per il privato. Esistono da decenni, ma adesso stanno dilagando: un’economia valutabile in circa 20 miliardi di dollari all’anno. Fanno Humint (Human intelligence: raccolta di informazioni mediante contatti interpersonali), ma usano anche strumenti tecnologici e analizzano le informazioni che tutti noi forniamo in rete. Si arriva ad hackerare e fare disinformazione strategica (come la produzione di fake news), a screditare soggetti o organizzazioni, a manipolare i social media per influenzare l’opinione pubblica. Il tutto lecitamente, o almeno il più lecitamente possibile nelle zone lasciate grige da legislazioni nazionali impacciate, quasi naïf di fronte alla velocità con cui sta cambiando il mondo. Mercenari? Siamo oltre. «Il mostro del mercenariato non esiste più» puntualizza Gianpiero Spinelli, 45 anni, ex Folgore, ex contractor in zone calde del Pianeta, fondatore a Londra di Stam Strategic & Partners Group, Private military security and intelligence company «come ce ne sono tante, ma si stanno diffondendo sempre di più, se n’è capita l’importanza. Oggi sono 10 mila i target nel mondo affidati a privati e circa 45 mila i contractors del comparto intelligence ingaggiati per attività una volta appannaggio delle agenzie governative». Numeri enormi, in aumento. «Le Pic costano meno e possono essere attivate in poche ore. E quando termina il contratto non rimane il personale da ricollocare. Inoltre le Pic sono sicure: il controllo dello Stato sulle loro attività è molto forte e sono legate a contratti da milioni di dollari che non vogliono perdere». Così le Pic prosperano erodendo un patrimonio di competenze che era degli Stati. «Il personale è fatalmente attratto da soldi (a Londra si parla di parcelle da 1.000-1.500 euro l’ora, ndr) e maggiore libertà: con un impiego governativo non puoi viaggiare dove vuoi o vedere chi ti pare», spiega Damien Van Puyvelde, professore di Intelligence e sicurezza internazionale all’università di Glasgow, autore del libro Outsourcing US Intelligence. Nei numeri citati da Spinelli c’è tutto: le agenzie con decine di migliaia di dipendenti o con una manciata di collaboratori, quelle che offrono soprattutto soluzioni militari e quelle che lavorano principalmente con l’informatica, quelle di piccolo cabotaggio e quelle che possono cambiare la storia di un Paese. Tante agenzie private a disposizione di chi paga e con diverse sfumature etiche. Chiunque, con il giusto budget, potrebbe noleggiare il proprio servizio segreto. Vuoi sapere dov’è andato il jet del tuo concorrente in affari? Chiama. Il candidato di un altro partito potrebbe farti perdere le elezioni? Chiama. Ti accusano di molestie sessuali? Chiama. Troveranno il modo per avvicinare il target, hackerarlo, scoprirne segreti e punti deboli.  L’avvento di questo fenomeno ha una data precisa: 11 settembre 2001, attentato alle Torri gemelle, débâcle degli 007 americani. Nella «War on terror» che ne è seguita, i contractor sono stati visti come un’arma in più. Bene marines, bombe e tank, ma serviva far proliferare lo spionaggio occidentale a tutti i livelli e in qualunque forma. Conseguenza? Secondo dati trapelati nel 2013, circa il 70 per cento del budget dell’intelligence statunitense è andato al settore privato. È avvenuto così il brain drain, il «drenaggio» di tante ottime risorse dal pubblico al privato. Solo dal 2004 al 2009, 2.435 militari con esperienza sono entrati in 52 società di sicurezza e intelligence private, dal 2001 al 2011 ben 91 figure chiave dell’intelligence sono passate sotto un datore di lavoro non statale, mentre c’è chi sostiene che la Dia, Defense intelligence agency, sia oggi composta al 51 per cento da contractor. È qui negli Stati Uniti che si trovano le aziende-monstre. Spesso il governo appalta loro un lavoro, ed esse appaltano a loro volta, o si servono di freelance. Al punto che esiste un portale di lavoro interinale, Clearance Jobs, dedicato ai professionisti del settore con posizioni per chi ha un attestato di sicurezza nazionale: una «clearance». I numeri sono da capogiro: oggi più di un milione di utenti pronti per il mercato dello spionaggio (che includono logistica e servizi). Le più grandi si chiamano Stratfor, Kroll, DynCorp, GK Sierra. Oppure Booz Allen Hamilton che da sola ha 25.803 dipendenti e 6,7 miliardi di dollari di fatturato: Bloomberg l’ha eletta «world’s most profitable spy organization». Vicepresidente è stato a lungo Mike McConnell, zar dell’intelligence ai tempi di George W. Bush e simbolo delle «porte girevoli» tra pubblico e privato (oggi è senior executive advisor). Booz Allen è nota per aver aiutato gli Emirati a creare un’equivalente dell’Nsa (la National security agency americana). E in Arabia Saudita ha consentito a Mohamed Bin Salman di rafforzare il suo dispositivo militare, di sicurezza e cybernetico. Edward Snowden era un contractor di Booz Allen Hamilton, dove aveva accesso a diversi programmi top-secret, compresi quelli di sorveglianza di massa orditi dal governo statunitense e britannico, i cui dettagli sono stati rivelati dai suoi leaks. Ma il più grande esportatore di intelligence privata è Israele, e il Mossad il suo vivaio. La citata Black Cube ne è un notevole esempio. Società con fatturato stellare fondata nel 2010 da due ex membri della Difesa israeliana, ramo intelligence, a lungo ha avuto come presidente il già direttore del Mossad, Meir Dagan. Gran parte dello staff di Black Cube è composto da veterani dei corpi d’élite e delle unità spionistiche di Tel Aviv: Shin Bet (interno), Unità 8200 (cyber), Aman (militare), Mossad (estero). Il suo nome è uscito in relazione a grossi affaire di spionaggio industriale, giudiziario, politico. Un lungo elenco cui accenniamo nel box della prossima pagina. Israeliana era Psy-Group, che si descriveva come «private Mossad», la prova che alcune agenzie private fanno lavori che il governo non può riconoscere, ma - diciamo così - auspica. Spiava e cercava di disgregare organizzazioni di studenti pro-Palestina (chiamati Bds) negli Stati Uniti. L’Fbi ha cominciato a investigare e hanno chiuso i battenti. Oggi il governo di Tel Aviv risulta sempre più coinvolto nelle indagini. Un’altra è la Nso Group Technologies, specializzata in cyber intelligence. Fondata da Niv Carmi, Omri Lavie e Shalev Hulio, ex Unità 8200, è cresciuta esponenzialmente negli anni dichiarando di vendere tecnologia ai governi «per aiutarli a combattere terrore e crimine». Il loro spyware di punta, Pegasus, può trasformare ogni cellulare in un apparecchio-spia ed è stato fornito ai governi di molti Paesi. In Messico Joaquín Guzmán, El Chapo, è stato hackerato così e dopo l’arresto il presidente Felipe Calderón ha chiamato Nso per ringraziare. Però nello stesso Paese ci sono anche state denunce di intromissioni nei telefoni di attivisti e normali cittadini (sempre smentite)... Come dicevamo è questione di sfumature etiche e con uno strumento così potente in mano, i governi meno benevoli potrebbero essere tentati di usarlo su elementi scomodi della società. Insomma spiare non «terroristi e criminali», ma oppositori politici, attivisti, giornalisti. L’ultimo caso è del 10 ottobre: in Marocco Amnesty International ha protestato perché il cellulare di due attivisti dei diritti umani era sotto controllo. Dentro c’era Pegasus. Nel dicembre 2018 un’inchiesta del New York Times ha concluso che Pegasus è stato usato per spiare l’editorialista del Washington Post e dissidente arabo Jamal Khashoggi prima di essere soffocato e smembrato da uomini vicini a Mohamed Bin Salman. Competitor dell’Nso israeliana è l’araba Dark Matter, emiratina, creata con l’aiuto di agenti americani. Tra le figure di spicco ci sono parecchi ex agenti Nsa e Cia che qui guadagnano centinaia di migliaia di dollari l’anno. Il top executive Marc Beier, ex ufficiale dell’unità Nsa che realizzava «avanzate cyberoperazioni offensive» spia le stesse attività americane. Una volta sarebbe stato alto tradimento, oggi si chiama mercato (ma l’Fbi, scrive il New York Times, sta indagando). Quanto di tutto questo si trova in Italia? «Siamo in alto mare, tranne che nel settore cyber tecnologico», dice Spinelli. «In Italia non c’è molto», conferma Mario Caligiuri, direttore del master in Intelligence all’Università della Calabria e presidente della neonata Società italiana di intelligence (SocInt). «Il nostro mercato non è interessante ma potrebbe diventarlo: con la Via della seta marittima il Mediterraneo e l’Italia torneranno ad avere un ruolo geostrategico. Dobbiamo essere preparati, anche con le Pia. Ma devono servire per competenze specifiche e solo nell’interesse dello Stato». «Una intelligence seria dovrebbe usarle unicamente per operazioni marginali» gli fa eco Luigi Sergio Germani, direttore dell’Istituto Gino Germani di Scienze sociali e studi strategici. «Una rete di informazioni segrete, raccolte da fonti umane, è preziosissima e deve rimanere sotto il controllo dei servizi. Se ti rivolgi a strutture private non è più garantito e venendo meno la riservatezza si rischia inquinamento delle informazioni ed eliminazione fisica della fonte. Ciò non toglie che sul nostro territorio possano essere presenti agenti russi o cinesi di Pic controllate dai loro governi, magari con la copertura di aziende private, magari di telecomunicazioni». L’ultimo rapporto sulla sicurezza Ict in Italia del Clusit (Associazione italiana per la sicurezza informatica), parla di «rivoluzione» e di «mutazione genetica delle minacce informatiche». Più che i cyber-criminali, scrive, desta «grave preoccupazione l’attività di cyber-spionaggio e sabotaggio, in netta crescita, attraverso fake news amplificate dai social, infiltrazione di infrastrutture critiche, aziende e istituzioni, furto sistematico di informazioni per finalità geopolitiche e di predominio economico e tecnologico». «Una proliferazione di gruppi mercenari State-sponsored che realizzano campagne su commissione». È certamente la fine dello spionaggio per come l’abbiamo conosciuto. Addio per sempre James Bond.   

Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 12 ottobre 2019. Se è sempre vero che it's the economy, stupid, il modo pericoloso ini cui la gestisce Trump riserva delle grandi soddisfazioni quando la campagna elettorale per il secondo mandato presidenziale è già cominciata, anzi è già bollente, con contorno di minacce di impeachment, e spionaggio internazionale. E'  pomeriggio di venerdì e Wall street fa in tempo a festeggiare. Trump twitta che «una delle grandi cose dell'accordo con la Cina è il fatto che, per vari motivi, non deve passare attraverso il lunghissimo e politicamente complesso processo di approvazione da parte del Congresso. Quando l'accordo è completamente negoziato, lo approverò personalmente per conto del Paese. Veloce e pulito". Gli Stati Uniti e la Cina hanno raggiunto un accordo parziale che significa  una tregua nella guerra commerciale e le basi per un'intesa più ampia. che Donald Trump e il presidente cinese Xi Jinping potrebbero firmare più avanti nel corso dell'anno. Intanto i nuovi dazi americani, aumenti del 25 e 30 per cento contro il Made in China, non scatteranno la prossima settimana. Così il presidente tra un rally in Minnesota e uno Louisiana tira il fiato e ricomincia ad accusare  l'avversario Joe Biden di non essere niente altro che uno che bacia il culo di Barack Obama. Il whistleblower, la gola profonda numero due, lo spifferatore dello  scandalo dell' Ucraina che dovrebbe mettere nei guai il presidente, altro non è che un secondo  stretto collaboratore del candidato democratico ed ex vicepresidente di Barack Obama, il quale non soltanto faceva fare al figlio affari allegri in giro per il mondo a partire dall' Ucraina, ma se n'e' vantato più di una volta, visto che tra i suoi difetti non c'è la discrezione. L'altra sfidante democratica, Elizabeth Warren, Pocahontas per tutti, dopo che ha praticamente inventato discendenze nativo americane, ha raccontato in lungo e in largo nel Paese di essere stata nel 1971 licenziata perché incinta, e invece escono le prove che si tratta di un'altra bugia. Quante ne potrà dire impunemente la beniamina della sinistra democratica, una di fronte alla quale i finanziatori del partito a Wall Street hanno già alzato le mani spiegando che la patrimoniale grazie no, se fosse lei la candidata si rivolgeranno altrove? Cominciamo bene le primarie americane! Ma che cos'è una impeachable offence, un reato degno della messa sotto accusa di un presidente degli Stati Uniti? Se lo domanda il giurista Alan Dershowitz in un editoriale del Wall Street Journal, e risale alle origini, alla convention dei Costituenti nel 1787, per concludere che le rampanti parlamentari del partito Democratico alla Maxine Waters non hanno proprio chiare le idee su cosa costituisca impeachment mentre accusano scompostamente Donald Trump. Sia chiaro che siamo in piena campagna elettorale in vista delle presidenziali americane, che come sempre si tengono il primo martedì di novembre del 2020. Leggete i giornali italiani, guardate telegiornali ineffabili come il tg1? Bene, sfida accettata, sarete ancora una volta certi che per Donald Trump si stia mettendo male, dal momento che sulla sua testa pende  un processo di impeachment.  Il punto è che, come sempre, vi dicono solo la prima parte, ovvero non vi dicono che  per passare dal desiderio al processo di impeachment bisogna prima che un'inchiesta porti alla nomina di un Procuratore speciale, che dal Congresso si ottenga la maggioranza, che al Senato si istruisca poi un vero e proprio processo con accusa, difesa, e giudice nella persona del membro anziano della Corte Suprema, che infine la giuria, il Senato, emetta con due terzi di maggioranza una sentenza di colpevolezza. Fantascienza, quindi. Peggio, l’impeachment consente  a Trump di continuare naturalmente con la propaganda del candidato solo contro tutti: un metodo in cui il presidente sguazza. Infatti è passato al contrattacco. Comizi, campagna mediatica in televisione e sui social network, il presidente ha intensificato le indagini sulle controverse origini dell’inchiesta Russiagate, per dimostrare che è stato in realtà  un complotto ai suoi danni, ordito dai servizi segreti occidentali. È questa l'operazione alla quale avrebbe preso parte anche l’Italia. È chiaro che, la Casa Bianca cerca prove per ritorcere contro i democratici le accuse che gli hanno scagliato contro per anni. E' possibile anche che col proseguire della campagna elettorale siano i democratici a tirare fuori  materiale che coinvolgerebbe l'italia, per accusare Trump di mestare con Paesi stranieri in maniera anti patriotica. Poi c’è l’economia, ovvero la vera cosa che conta. Trump deve fare in modo  che, nei prossimi dodici mesi, il livello di crescita del prodotto interno lordo continui a mantenersi alto come nel corso del 2019. Cosi' il bassissimo tasso di disoccupazione. Sono le uniche cose che rischierebbero di metterlo in seria difficoltà nel pieno della campagna elettorale. Potrebbe decidere di iniettare infatti duemila miliardi di dollari nell’economia nazionale soprattutto sotto forma di investimenti pubblici. Un pallino che ha da anni, finora i Repubblicanii gliel'hanno bocciato, la ritengono una misura troppo statalista,ma in campagna elettorale potrebbero non avere questo potere. Se Trump vede rallentamenti, agirà. Sul fronte democratico, la situazione resta per ora poco chiara.  Joe Biden, pur mantenendo ancora la posizione di front runner, ha perso quasi quattro punti percentuali nelle ultime due settimane. Biden è detestato  dall'elettorato di sinistra che lo considera troppo vicino all'establishment, eppure è forte nell'elettorato afroamericano, eredità di Obama. Carattere, importante per gli elettori americani, ne ha dimostrato molto poco sia rispetto ai conflitti di interesse che  rispetto agli atteggiamenti di fermezza che non ha dimostrato in questi ultimi mesi. Un po' poco per diventare il nominato nella campagna delle primarie, l'unico vantaggio che ha è una forte notorietà nazionale, dovuta al ruolo passato di vicepresidente. Non se la passa bene neanche il sempiterno Bernie Sanders. Qualche giorno fa, il senatore del Vermont è stato costretto a sospendere temporaneamente la campagna elettorale a causa di un’occlusione ad un’arteria. Si tratta di un problema serio per lui: ha già annunciato di essersi ripreso Ma il fattore salute è un argomento molto delicato per i candidati a qualsiasi carica pubblica americana. Oltretutto dovrebbe fare uno sforzo enorme, fisico e organizzativo, perché fino ad ora la campagna non era decollata.. Sanders dice sempre le stesse cose di sinistra ma nel 2016 era solo lui a farlo, Ora sono una folla. Elizabeth Warren, senatrice del Massachusetts è la sua vera rivale: Real Clear Politics la dà al 26%, appena due punti dietro al front runner, Joe Biden. La amano donne e ceti medi, la detestano i colletti blu; dice un sacco di bugie, lo sforzo organizzativo non si è ancora capito di quale potenza possa essere. Come sempre, quando manca un candidato degno di questo nome da prendere come numero uno dell'intera campagna elettorale lasciando gli altri a fare da strascico, si aspetta il mega dibattito di metà ottobre, e si fanno nomi di sconosciuti, che però sarebbero giovani, di centro, quindi in grado di conquistare quella parte di elettorato fluttuante, come Peter Buttigieg, 37 anni, sindaco di South Bend, Indiana.

Parte l’impeachment per Trump. Pubblicato giovedì, 31 ottobre 2019 su Corriere.it da Giuseppe Sarcina da Washington. Sotto accusa le pressioni sul governo dell’Ucraina. La camera dei deputati degli Stati Uniti ha approvato l’avvio della procedura di impeachment nei confronti del presidente Donald Trump in merito alle pressioni esercitate sul governo dell’Ucraina. Hanno detto sì 231 deputati democratici, contrari 194 repubblicani. E’ la terza volta nella storia degli Usa che viene avviata questa procedura; i precedenti casi riguardarono Richard Nixon (1974, per il Watergate) e Bill Clinton (1998, per il caso Monica Lewinsky). L’avvio della procedura era stato sollecitato in apertura della seduta dalla presidente dell’assemblea Nancy Pelosi: «Con questo voto è in gioco la nostra democrazia - ha detto l’esponente democratica - e quando abbiamo un presidente che dice che l’articolo II della Costituzione dice che `io posso fare quello che voglio´, questa è una sfida alla separazione dei poteri, non è quello che dice la Costituzione». Grazie a questo via libera, la Camera potrà interrogare in seduta pubblica i testimoni coinvolti nel caso. Il caso riguarda i rapporti intercorsi tra il presidente Donald Trump e il premier ucraino Volodymyr Zelensky. Il 25 luglio scorso Trump aveva telefonato a Zelensky (il testo della telefonata è stato reso pubblico dalla stessa Casa Bianca) chiedendogli di indagare sul figlio di Joe Biden, già vicepresidente con Barack Obama e ora di nuovo candidato alla presidenza per il partito democratico. «La più grande caccia alle streghe della storia americana!»: così Donald Trump twitta pochi minuti dopo il voto alla Camera che ha approvato le procedure per avviare la seconda fase dell’indagine per l’impeachment. Anche la Casa Bianca è immediatamente intervenuta definendo il via libera una risoluzione «ingiusta, incostituzionale e antiamericana». «Quella dei democratici è una folle ossessione», afferma la portavoce Stephanie Grisham.

Usa, impeachment: parte inchiesta ufficiale su Trump. Il presidente: "Caccia alle streghe". A formalizzare la procedura è stata la Camera del Congresso approvando una risoluzione con le regole da seguire nel seguito delle indagini. Un voto dell'aula che è la prova generale di ciò che potrà accadere quando si dovrà decidere sulla richiesta di messa in stato di accusa del presidente. Anna Lombardi il 31 ottobre 2019 su La Repubblica. "La democrazia è a rischio. Donald Trump ha tradito il suo giuramento ed è nostro dovere difendere la Costituzione degli Stati Uniti. Quando dice che l'articolo due gli permette di fare come vuole, sfida la separazione dei poteri: ma noi siamo una repubblica, non una monarchia". La mela stregata  offerta da Nancy Pelosi a President Trump alla vigilia di Halloween è la risoluzione che formalizza le procedure dell'inchiesta d'impeachment, votata oggi dalla Camera dominata dai democratici ad ampissima maggioranza: 232 favorevoli, 139 contrari. "Siamo di fronte alla più grande caccia alle streghe della storia americana!", si difende Trump su Twitter. Con due dem in cerca di rielezione in distretti trumpiani che hanno votato col Gop. La risoluzione è una sorta di road map lunga otto pagine  - concordate dai 13 membri del Comitato Regolamento della Camera, formato da 9 democratici e 4 repubblicani - per garantire la trasparenza delle investigazioni portate avanti da sei commissioni parlamentari sulle pressioni esercitate dalla Casa Bianca sul presidente ucraino Volodimir Zelenskij affinché riaprisse le indagini sul rivale politico Joe Biden, in cambio di aiuti militari. Una decisione, quella del voto in aula, presa dopo le tante pressioni dei repubblicani, arrivati la settimana scorsa addirittura ad occupare la sala dove si tengono le audizioni, accusando i dem di condurre "interrogatori segreti". E perfino la notifica, arrivata da parte del Consigliere legale della Casa Bianca Pat Cipollone, del rifiuto dell'amministrazione di cooperare con le indagini proprio perché non legittimate dal voto in aula. Richieste che ora rischiano di trasformarsi in boomerang, poiché la risoluzione votata garantisce maggior trasparenza al processo d'indagine, e fra i risultati immediati ci sarà la pubblicazione dei transcript delle testimonianze già ascoltate. Per niente tenere col Presidente. Certo, alla Camera nessun repubblicano ha votato a favore della risoluzione, e questo mostra come il partito difenda compatto il suo capo: e, dunque, se pure si arriverà a una richiesta ufficiale di impeachment, la maggioranza Gop al Senato impedirà di andare avanti con l'incriminazione, possibile solo col voto favorevole della maggioranza qualificata, ovvero i due terzi del Congresso. Il braccio di ferro, insomma, è tutto in vista della campagna presidenziale 2020: nella speranza che le rivelazioni imbarazzanti fatte da personaggi super partes e alti ufficiali scelti dallo stesso The Donald, mettano in crisi la tenuta del presidente. Le ultime testimonianze si sono rilevate particolarmente dannose per Trump, confermando le preoccupazioni dell'informatore anonimo che il 12 agosto scorso presentò un rapporto all'Ispettore generale dell'Intelligence, Michael Atkinson, denunciando per primo il contenuto di una telefonata fra Trump e l'omologo ucraino Zelenskij avvenuta il 25 luglio come un "pericolo alla sicurezza nazionale". Quelle preoccupazioni sono state confermate, in sede d'indagini da altri testimoni. Come l'incaricato d'affari in Ucraina William Taylor ascoltato il 22 ottobre. L'ambasciatore mandato nel paese a giugno, per sostituire Marie Yovanovitch, ritenuta poco malleabile dallo staff presidenziale. Taylor ha detto di aver giudicato subito preoccupante il canale "informale e irregolare" che gestiva le relazioni fra Usa e Ucraina, in mano a quattro fedelissimi del presidente: il suo avvocato Rudy Giuliani, architetto del ricatto all'Ucraina. L'ex ministro dell'Energia Rick Perry, l'ambasciatore presso l'Unione Europea Gordon Sondland e l'inviato speciale in Ucraina  Kurk Volker, impegnati a pressare Zelenskij affinché si prodigasse per danneggiare i Biden. Uno scambio chiaro, come gli aveva rivelato chiaramente il consigliere alla sicurezza nazionale Tim Morrison. Ascoltato dalla commissione Giustizia, proprio mentre in aula si votava, ha confermato il congelamento degli aiuti militari all'Ucraina per ottenere l'apertura dell'indagine sulla compagnia energetica Burisma, dove lavorava Hunter Biden, figlio di Joe, appunto. Centrale anche la testimonianza del direttore per gli Affari Europei del Consiglio di Sicurezza Nazionale, colonnello Alexander Vindman. Presente alla telefonata fra i due presidenti, nella sua testimonianza ha addirittura affermato che la conversazione fu molto più compromettente di quel come il transcript diffuso a settembre rivela. Con certe sue annotazioni volutamente lasciate fuori. Ora l'attenzione è tutta su John Bolton. Secondo quanto riferito dalla adviser per la Russia Fiona Hill, il falco ed ex consigliere alla sicurezza nazionale licenziato il 10 settembre, era profondamente contrario a quel che Giuliani e compagni stavano ordendo. Il presidente della commissione Intelligence lo ha invitato a testimoniare volontariamente. Ma lui per ora risponde picche. Parlerà solo se verrà emesso un ordine di "subpoeana". Cioè solo se obbligato da un mandato di comparizione.

Al via l'indagine per impeachment contro Donald Trump. La Camera ha votato il via libera. Per la terza volta nella storia degli Usa un presidente sotto inchiesta per il caso Ucraina. Stefano Graziosi il 31 ottobre 2019 su Panorama. Stati Uniti. La Camera dei Rappresentanti ha approvato oggi le procedure dell’indagine per impeachment contro Donald Trump. La misura, che stabilisce le regole per le audizioni a porte aperte e per l’interrogatorio dei testimoni, ha ottenuto 232 voti favorevoli. I repubblicani si sono schierati compattamente contro il provvedimento, ricevendo l’appoggio di due deputati democratici. Nello specifico, la votazione non avvia il processo di impeachment vero e proprio ma conferisce i crismi della formalità all’indagine che la Speaker Nancy Pelosi aveva di fatto avviato alla fine di settembre. Una mossa che i repubblicani avevano giudicato arbitraria, proprio perché non era stata preceduta da un voto formale della Camera: voto che, per inciso, si era tenuto nel 1974 (nell’avvio dell’indagine per impeachment contro Richard Nixon) e nel 1998 (quando ad essere messo sotto inchiesta era invece stato Bill Clinton). Nelle scorse settimane, i repubblicani hanno anche lamentato una certa opacità nella gestione dell’indagine, visto che le audizioni si sono finora tenute a porte chiuse e il partito d’opposizione non è stato granché coinvolto nella conduzione dell’inchiesta. Tra l’altro – accusano i repubblicani – i democratici avrebbero fatto appositamente trapelare informazioni incomplete e manipolate alla stampa, per spingere l’opinione pubblica americana verso sentimenti ostili nei confronti di Trump. Anche per questo, negli scorsi giorni, il senatore repubblicano, Lindsey Graham, aveva annunciato di voler presentare una risoluzione di condanna per l’indagine avviata dalla Camera. Dal canto suo, Nancy Pelosi si è sempre difesa, sostenendo che un voto formale non fosse necessario da un punto di vista tecnico. Alla fine, la Speaker ha tuttavia ceduto, soprattutto a causa delle crescenti accuse di politicizzazione dell’indagine da parte dell’elefantino. Una scelta, quella della Pelosi, che non si è rivelata poi troppo indolore per l’asinello: come riportato dalla testata The Hill, negli ultimi giorni, il Partito Democratico ha registrato non pochi malumori interni per questo voto. Un voto che ha di fatto costretto molti deputati democratici a prendere posizione netta su un dossier – quello di un eventuale processo di messa in stato d’accusa – che risulta politicamente scivoloso. Non sono pochi infatti coloro che temono che un impeachment possa rivelarsi un boomerang: esattamente come accadde nel 1999 ai repubblicani con Clinton. Nel dettaglio, le regole votate oggi stabiliscono che si terranno audizioni pubbliche, saranno diffuse le trascrizioni delle testimonianze già avvenute a porte chiuse e che verrà redatto un rapporto. Quest’ultimo sarà poi consegnato alla commissione giudiziaria della Camera, la quale avrà il compito di redigere i capi di imputazione che dovranno essere votati infine per avviare il processo vero e proprio. L’obiettivo dei democratici risulterebbe quello di arrivare a un voto definitivo entro la fine di novembre, visto che loro intenzione sarebbe quella di concludere un eventuale processo entro l’inizio delle primarie, fissato a febbraio. I repubblicani non si sono comunque mostrati soddisfatti della risoluzione e sono andati all’attacco. Lo stesso Graham ha dichiarato su Twitter: “Il voto della Camera ha legittimato un processo che impedisce al presidente il diritto a un avvocato nella commissione Intelligence e rende la minoranza repubblicana asservita alla volontà di Adam Schiff nella commissione Intelligence quando si tratta di interrogare testimoni”. Il senatore ha quindi parlato di giorno “triste” per l’America. Il punto maggiormente controverso della risoluzione appena approvata riguarda infatti il grande potere che resta nelle mani dei leader democratici, i quali – almeno sulla carta – possono bloccare eventuali ordini di comparizione emessi dai repubblicani. Un elemento, questo, che – secondo gli esponenti dell’elefantino – non garantirebbe reale equità nell’ambito dell’indagine in corso. Nonostante qualche malumore espresso dai repubblicani storicamente ostili a Trump (come il senatore dello Utah, Mitt Romney) l’elefantino sembra, almeno per ora, intenzionato a fare quadrato intorno al presidente. Senza dimenticare che – come riportato da The Hill –  recenti rilevazioni sondaggistiche condotte in alcuni Stati chiave abbiano registrato una maggioranza critica verso l’ipotesi di un impeachment contro Trump. In particolare, la maggior parte degli elettori in Michigan, Carolina del Nord, Pennsylvania, Wisconsin, Arizona e Florida sarebbe contraria alla rimozione del presidente dall'incarico. Mentre lo scontro infuria al Congresso, la questione del voto è entrata anche nella corsa per la campagna elettorale. Se Trump ha bollato su Twitter il provvedimento come “la più grande caccia alle streghe della storia americana”, molti degli attuali candidati alla nomination democratica hanno espresso il proprio sostegno alla risoluzione. Il sindaco di South Bend, Pete Buttigieg, si è detto favorevole all’eventualità di un processo di impeachment. Su una posizione simile si è collocata la senatrice californiana, Kamala Harris, secondo cui “nessuno è al di sopra della legge: anche il presidente degli Stati Uniti”. Il senatore del New Jersey, Cory Booker, si è invece detto “orgoglioso” del lavoro svolto dai deputati democratici. Bisognerà adesso vedere come si evolverà l’indagine. Negli ultimi giorni, alcune testimonianze sembrerebbero aver messo in difficoltà il presidente americano, visto che l’ambasciatore statunitense in Ucraina, William Taylor, ha sostenuto in audizione che Trump avrebbe nei fatti minacciato di trattenere consistenti aiuti militari all’Ucraina, qualora il presidente Volodymyr Zelensky non avesse acconsentito ad indagare sull’attuale candidato alla nomination democratica, Joe Biden. Il deputato repubblicano, John Ratcliffe, ha smentito questa testimonianza, sostenendo che i vertici ucraini non risultassero a conoscenza del fatto che gli aiuti fossero stati congelati. Una tesi, quest’ultima, che è stata a sua volta criticata dal New York Times. Tutto questo, mentre il colonnello Alexander Vindman ha dichiarato che vi sarebbero delle omissioni nella trascrizione della telefonata intercorsa tra Trump e Zelensky lo scorso luglio. Sospeso su questo groviglio resta comunque un dato politico non indifferente. Se, come sembra, i democratici procederanno contro Trump con l’accusa di abuso di potere per le pressioni su Zelensky, il grande rischio è che a farne le spese possa essere anche il medesimo Joe Biden. Secondo quanto da lui stesso pubblicamente raccontato l’anno scorso, da vicepresidente in carica minacciò – nel marzo del 2016 – l’allora presidente ucraino, Petro Poroshenko, di bloccare un miliardo di dollari in aiuti economici americani a Kiev, qualora non fosse stato licenziato il procuratore generale, Viktor Shokin. Quello stesso Shokin che stava indagando per corruzione sulla società ucraina di gas naturale Burisma Holdings, nel cui consiglio d’amministrazione sedeva il figlio di Biden, Hunter. È da sottolineare che quest’ultimo avesse ottenuto quell’incarico nel maggio del 2014: nello stesso periodo in cui, cioè, suo padre veniva nominato da Barack Obama come figura di collegamento tra Kiev e Washington, all’indomani dell’annessione russa della Crimea. Visto il fortissimo peso politico rivestito quindi da Joe Biden in Ucraina, il fatto che suo figlio acquisisse quel ruolo in quel momento fu criticato anche da molta stampa statunitense. Ed è per questo che le pressioni dell’ex vicepresidente contro Shokin hanno poi attirato su di lui pesanti sospetti di conflitto di interessi. Perché è indubbiamente vero che quel procuratore fosse una figura discussa e che molti all’epoca ne chiedessero il siluramento. Ma è altrettanto vero che, in quel momento, stesse indagando sull’azienda in cui lavorava Hunter Biden. Il fatto non è stato per ora indolore per la campagna elettorale dell’ex vicepresidente: pur dandolo ancora al primo posto, i sondaggi delle ultime settimane sono apparsi abbastanza deludenti. Senza poi dimenticare che, sulla questione ucraina, abbia rimediato qualche frecciata da alcuni suoi rivali nella corsa per la nomination (a partire dalla senatrice del Minnesota, Amy Klobuchar).

Federico Rampini per “la Repubblica” l'1 novembre 2019. Nei 230 anni dall'entrata in vigore della Costituzione degli Stati Uniti, ci sono stati solo tre "mezzi" impeachment, tutti incompiuti: nessuno è arrivato fino alla destituzione del presidente. Il primo risale al 1868 contro Andrew Johnson, il secondo nel 1974 contro Richard Nixon, il terzo nel 1998-99 ai danni di Bill Clinton. Dei tre l' unico ad abbandonare la Casa Bianca fu Nixon, ma non perché destituito dal Congresso. Quando gli fu chiaro che il suo stesso partito (repubblicano) lo stava mollando, preferì andarsene da solo e l' impeachment non ebbe luogo. La scarsità dei precedenti contribuisce a rendere evanescente la giursiprudenza. Di fatto la Costituzione lascia ampia autonomia al Congresso sia sulla definizione dei reati presidenziali passibili d' impeachment, sia sulle procedure per incriminare e condannare il capo dell' esecutivo. La scarsità dei precedenti però sta anche a sottolineare quanto sia grave l' evento. Perfino in un'èra di polarizzazione già avanzata, e di delegittimazione reciproca, non ci fu il (paventato o auspicato) tentativo di impeachment contro George W. Bush per le menzogne sulle armi di distruzione di massa con cui giustificò l' invasione dell' Iraq nel 2003. La stessa presidente della Camera, la democratica Nancy Pelosi, ha esitato molto prima di arrivare a questo passaggio. Con l' impeachment si scrive una pagina terribile di storia della Repubblica, a prescindere da chi ne subirà il maggior danno alla fine. Per Clinton rimase una macchia infamante, anche se si salvò dalla condanna al Senato; una parte del discredito provocato dall' affaire Monica Lewinsky non smise mai di danneggiare la moglie Hillary. Il precedente storico di Nixon è interessante per un altro motivo. Erano altri tempi e dentro il partito repubblicano soffiava un vento di fronda contro le malefatte di quel presidente. La destra giocò a limitare i danni conservando la Casa Bianca visto che in caso d'impeachment subentra il vicepresidente: allora era Gerald Ford, oggi toccherebbe a Mike Pence. In quanto a Nixon, negoziò la sua uscita di scena in cambio di un perdono presidenziale che lo mise al riparo da ogni conseguenza giudiziaria successiva. La tentazione potrebbe averla anche Trump? Di certo una volta tornato normale cittadino sarà un bersaglio attraente per processi di varia natura. Il "perdono tombale", confezionato a regola d' arte, potrebbe interessarlo? Ma Trump per ora preferisce puntare sullo scenario Clinton: salvarsi al Senato, giocare la parte della vittima, farsi rieleggere tra un anno.

Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 31 Ottobre 2019. Impeachment per Trump, Trump nei guai, si aggrava la posizione di Trump, Votata la risoluzione sul l'impeachment, i Democratici all'attacco di Trump, Svolta nell’Ucraina-gate…Non che io pensi di arginare la quantità di fake news, o se preferite balle spaziali, che nei prossimi giorni verranno riversate su di noi da sussiegosi giornalisti che la sanno lunga. Solo per salvare la mia di faccia a futura memoria. I Democratici hanno la maggioranza in Congresso, acquisita con le elezioni di metà mandato del 2018, di 35 voti. Sono in maggioranza al Senato i repubblicani: 52 a 48. Stanno votando, a dimostrazione della loro disperazione politica - non hanno candidati o ne hanno di invisi ai moderati, l'economia va benissimo, i successi in politica estera pure, il Russiagate in tutta la sua verità potrebbe cascargli addosso da un momento all'altro - un tentativo di Impeachment, ovvero una "risoluzione" che contiene le nuove regole scritte ad hoc. Sono regole contrarie alla Costituzione e violano la prassi usata fino ad oggi e radicata nel costume e nella legge comune. In pratica si arrogano il diritto di chiamare testimoni e di presentare documenti senza che la parte avversa, i Repubblicani e l'accusato, abbiano diritto di controbattere e quindi unicamente a loro discrezione. Non si tratta dunque della messa in stato d'accusa, come prescritto dalla Costituzione, che poi dovrebbe essere vagliata, accusa per accusa, con le prove, nelle varie commissioni e che, dopo la discussione e l'esame delle prove, passerebbe al Senato per il processo di impeachment vero e proprio. Tale processo viene istruito con avvocati, testimoni e prove forniti da ambedue le parti, accusa e difesa, ed è presieduto dal membro più anziano della Corte Suprema. Il Senato infine si dovrebbe  pronunciare con una maggioranza di 67 voti, due terzi, che non è realistico ipotizzare, visti i numeri, e aggiungendo che Bernie Sanders ed Elisabeth Warren sono candidati alle primarie presidenziali e sarebbero in palese conflitto di interessi. Come non è realistico ritenere che il Senato prenda quanto votato ora dalla House in considerazione. Ha già detto che non lo farà. Quello che invece sicuramente accadrà  sarà una causa per incostituzionalità dal risultato già oggi sicuro. Dal punto di vista dell’utilità politica della mossa, basta leggere gli ultimi sondaggi, compreso uno del New York Times, che dimostrano tutti come l'elettorato sia o decisamente contrario o tiepido nei confronti di questo tipo di iniziativa, che lo sia in tutti gli Stati in cui si andrà a votare nel 2020, che lo sia specialmente in Wisconsin e Florida, due Stati chiave per la elezione del prossimo presidente perché il primo è andato dai democratici ai repubblicani nel 2016, dopo decenni, il secondo è tornato ai repubblicani dopo che Barack Obama lo aveva ottenuto per otto anni. La verità? Si sparano sui piedi questi Democratici, in America e non solo. La vicenda delle pressioni sull'Ucraina con blocco degli aiuti militari per ottenere informazioni sulle malefatte del figlio di Joe Biden, e smentita dalla registrazione della telefonata e dalle dichiarazioni del presidente ucraino. A sostenerla sono due fonti anonime dei Servizi, in via indiretta. Si fanno invece più consistenti le prove raccolte durante l'inchiesta dell' Atttorney General William Barr e del suo procuratore generale John Durham sul complottone ordito dall'amministrazione Obama e dal comitato elettorale della Clinton con la complicità di servizi stranieri e forse di governi, Italia inclusa, per tentare di screditare il candidato Trump  prima e il presidente eletto Trump dopo. Inchiesta penale ormai. Questione di una settimana.

Impeachment, l’harakiri dem contro Trump. Roberto Vivaldelli su it.insideover.com l'1 novembre 2019. A 13 mesi dalle prossime elezioni presidenziali, con 232 voti favorevoli e 196 contrari, la Camera degli Stati Uniti a maggioranza democratica ha avviato la procedura di impeachment nei confronti del Presidente Donald Trump. Nonostante le apparenze, il voto rappresenta una prima sconfitta per i democratici: non solo non sono riusciti a convincere un solo repubblicano a votare la loro risoluzione, ma due dem hanno votato con i repubblicani e uno si è astenuto. Politicamente, è un flop. Compatti, invece, i deputati Gop nella difesa del loro Presidente. E al Senato, dove servirebbe una maggioranza di due terzi per cacciare Trump, sono in maggioranza i repubblicani: 52 a 48. Nel caso di impeachment di Bill Clinton, per esempio, 31 democratici alla Camera si schierarono con i repubblicani, con il risultato che Clinton venne assolto da tutte le imputazioni. Il legittimo “sospetto”, dunque, è che quella dei dem sia soltanto una mossa elettorale – rischiosissima – per rosicchiare consensi a The Donald, che molti danno in vantaggio nella corsa alla prossime elezioni, con una rielezione tutt’altro che impossibile. “I democratici vogliono l’impeachment del Presidente degli Stati Uniti a meno di 13 mesi prima di un’elezione basandosi su un informatore anonimo che, a quanto pare, ha lavorato con il vicepresidente Joe Biden” ha dichiarato Jim Jordan, deputato repubblicano del Committee on Oversight and Reform. “Il popolo americano vede questo processo per quello che è, perché è fatto di persone di buon senso e non lo tollereranno. Apprezzano la leadership del nostro leader”.

I democratici “riscrivono” le regole sull’impeachment. Il deputato McGovern, presentando la risoluzione sull’impeachment, ha spiegato che quest’ultima ha adottato gli stessi principi di quelle votate con i Richard Nixon e Bill Clinton. I democratici sostengono che Donald Trump abbia abusato del proprio potere per fare pressioni su un altro Paese (l’Ucraina) al fine di indagare su uno dei suoi principali rivali, Joe Biden. In realtà, la risoluzione è diversa rispetto ai casi precedenti perché i democratici hanno cambiato le carte in tavola. Come sottolinea il Washington Times, la risoluzione conferisce il ruolo guida nella procedura d’impeachment all’House Permanent Select Committee on Intelligence, principale comitato della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti incaricato della supervisione della Comunità di intelligence, guidato dal deputato dem Adam Schiff e non, come di prassi, al Judiciary Committee (comitato giudiziario).

Quelle adottate dai democratici, scrive Maria Giovanna Maglie su Dagospia, sono regole contrarie alla Costituzione e violano la prassi usata fino ad oggi e radicata nel costume e nella legge comune. “In pratica – osserva – si arrogano il diritto di chiamare testimoni e di presentare documenti senza che la parte avversa, i repubblicani e l’accusato, abbiano diritto di controbattere e quindi unicamente a loro discrezione”.

Cnn: i democratici perdono tempo con l’impeachment. Persino sul sito web della Cnn, emittente non certo vicina al Presidente Donald Trump, sono apparsi commenti autorevoli molto critici nei confronti della strategia dei democratici sull’impeachment. “Il Senato a maggioranza repubblicana – scrive Scott Jennings – assolverà [Trump] quasi sicuramente. E il risultato netto sarà che i democratici avranno abusato della Costituzione degli Stati Uniti per soddisfare le loro mire politiche invece di avvicinarsi all’impeachment”. Diciamo la verità, prosegue Jennings, “i democratici lo avrebbero fatto sin dal primo momento. Da quando si sono resi conti, la notte delle elezioni, che Donald Trump aveva vinto, hanno iniziato a fantasticare sull’annullamento del risultato elettorale“. I democratici Usa hanno cominciato a valutare l’ipotesi di presentare una richiesta di impeachment nei confronti del Presidente Donald Trump dopo che quest’ultimo ha ammesso di aver parlato con il neo-leader ucraino Volodimir Zelensky dell’ex vice Presidente americano e candidato democratico alla Casa Bianca Joe Biden in una telefonata dello scorso 25 luglio. Lo stesso tycoon, tuttavia, ha negato di aver fatto pressioni sul leader ucraino e ha pubblicato la trascrizione del suo colloquio telefonico con l’omologo ucraino, al centro della denuncia del whistleblower dell’intelligence Usa. Il commento che dà meglio l’idea di quello che sta accadendo negli Stati Uniti è quello di Michael Goldwin, sul New York Post: “Un altro giorno, un altro passo da gigante sulla strada della rovina. O Nancy Pelosi ha perso la testa o vuole davvero scavare la tomba dell’America. Il voto per formalizzare la jihad dell’impeachment è un grande giorno per gli haters di Trump e una tragedia per la democrazia e il buon senso”.

Paolo Mastrolilli per “la Stampa” l'11 ottobre 2019. Le interferenze russe nei processi elettorali democratici degli Usa, e di altri Paesi occidentali come l' Italia, sono ormai un fatto ampiamente dimostrato. Per chi fosse disposto ad accettarlo, si tratta solo di guardare le prove senza pregiudizio. L’inchiesta sul Russiagate condotta dall' ex direttore dell' Fbi Robert Mueller non ha provato la «collusione» tra la campagna elettorale di Trump e Mosca, ma ha confermato senza ombra di dubbio che il Cremlino ha cercato di influenzare il voto del 2016, perché voleva boicottare Hillary che considerava una nemica. L'operazione è stata condotta attraverso le incursioni digitali come quelle lanciate per rubare le mail del Partito democratico e della sua candidata alla Casa Bianca, ma anche con l' apparato gestito dall' Internet Research Agency di San Pietroburgo, che ha creato bot e siti per condizionare l' opinione pubblica americana, spesso diffondendo informazioni false. Di questo fatto ormai sono convinte tutte le agenzie di intelligence degli Stati Uniti, e lo riconoscono anche la maggior parte dei politici repubblicani. L'unico che continua ad esprimere dubbi è Trump, ma questa è una posizione legata ai suoi interessi personali, più che ai fatti. Anche se non aveva affari o questioni che lo esponevano ai ricatti della Russia, e anche se non fosse avvenuta la «collusione» o il coordinamento per una collaborazione volontaria, comunque accettare la conclusione di essere stato aiutato a vincere le elezioni da una potenza quanto meno concorrente degli Usa macchierebbe il suo mandato. I professionisti del settore però non hanno dubbi, così come molti repubblicani, e le indagini riguardano anche potenziali tentativi di corrompere il sistema o finanziare illegalmente la campagna, come il caso di Maria Butina, condannata a 18 mesi di prigione per aver cercato di penetrare i circoli conservatori, come la lobby dei produttori di armi National Rifle Association, senza rivelare di essere un agente del Cremlino. Ancora da chiarire invece il ruolo giocato dall' Ucraina, al centro ora dell' inchiesta per l' impeachment del presidente. Alla vigilia delle ultime elezioni europee abbiamo incontrato a Washington l' allora Commissaria per la Giustizia Vera Jourová, che ci aveva confermato non solo le interferenze passate della Russia nei processi democratici di vari paesi della Ue, ma anche il sospetto che tali attività fossero ancora in corso per condizionare la consultazione del maggio scorso. Le operazioni lanciate per condizionare il referendum britannico sulla Brexit sono state documentate da un rapporto pubblicato il 10 gennaio 2018 dalla Commissione Esteri del Senato americano, guidata allora dal repubblicano Bob Corker. Il titolo dello studio era «Putin' s asymmetric assault on Democracy in Russia and Europe». L'Italia figurava a pagina 137, dove il rapporto notava che la linea favorevole alla Russia scelta da Lega e M5S esponeva il Paese alle interferenze: «Alcuni di questi partiti sono forti sostenitori delle politiche pro Cremlino, e hanno usato estensivamente le fake news e le teorie cospirative nelle loro campagne mediatiche, spesso prendendole dai media russi di proprietà statale». Quindi a pagina 138 aggiungeva: «Alcuni osservatori sospettano anche che la Lega possa aver ricevuto fondi dai servizi di sicurezza del Cremlino», e questo prima che emergesse il caso Savoini-Metropol, ora al vaglio dei magistrati italiani. I professori americani della Clemson University John Walker e Darren Linvill hanno poi analizzato circa 3 milioni di tweet riconducibili all' Ira, pubblicati tra il giugno del 2015 e il dicembre del 2017, individuandone circa 18 mila relativi all' Italia. Durante la sua visita alla Casa Bianca nell' ottobre 2016, l' allora premier Renzi aveva denunciato le interferenze a Barack Obama, che aveva incaricato il consigliere Ben Rhodes di investigare. Il rapporto del Senato Usa denunciava interferenze russe anche in Ucraina, Georgia, Montenegro, Serbia, Bulgaria, Ungheria, Lituania, Lettonia, Estonia, Danimarca, Finlandia, Norvegia, Svezia, Olanda, Germania, Spagna e Francia, dove lo stesso FN di Marine Le Pen ha ammesso di aver ricevuto un prestito da 9 milioni di euro dalla First Czech-Russian Bank di Mosca. Questi sono tutti fatti già appurati, a disposizione di chi avesse la voglia, il coraggio e l' onestà di guardarli.

Da repubblica.it il 12 ottobre 2019. "Ti amo Peter..." "Ti amo anche io Lisa. Lisa! Lisa! Oh Dio ti amo Lisa!" Donald Trump durante un comizio elettorale a Minneapolis ha concluso il suo intervento imitando una sorta di orgasmo in stile "Harry ti presento Sally" sulla falsariga di uno scambio di messaggi hot tra Peter Strzok - ex capo della sezione controspionaggio che guidò le indagini dell'Fbi sull'uso da parte di Hillary Clinton di un server di posta elettronica personale - e la sua amante Lisa Page, una avvocata dell'Fbi. Nel mese di giugno e luglio 2017 Strzok ha lavorato sull'indagine Special Counsel di Robert Mueller che cercava possibili collegamenti tra la campagna presidenziale di Donald Trump e il governo russo. Mueller lo ha rimosso dall'indagine quando è venuto a conoscenza delle critiche a Trump contenute nei messaggi di testo personali scambiati via smartphone tra Strzok e Page.

Hillary Clinton  e le mail segrete: 38 dirigenti  sotto accusa. Pubblicato sabato, 19 ottobre 2019 da Corriere.it. Il Dipartimento di Stato americano ha individuato 38 persone che hanno commesso violazioni in seguito all’uso della mail privata per lavoro da parte dell’allora segretario di Stato, Hillary Clinton. Lo scrivono i media americani. Le persone accusate sono colpevoli di aver inviato in 91 casi informazioni «riservate» alla mail personale di Clinton. Si tratta di funzionari, attuali ed ex, del Dipartimento di Stato. L’indagine interna ha riguardato 33 mila mail che Clinton fornì per una revisione dopo lo scandalo dell’uso della mail privata per gestire questioni sensibili. Il dipartimento ha dichiarato di aver riscontrato 588 violazioni in totale che riguardavano informazioni all’epoca o ancora adesso ritenute classificate, ma non è stato possibile individuare responsabilità in 497 casi. Ma non è l’unica notizia che coinvolge l’ex segretario di Stato. Tornata ieri sotto i riflettori della politica per aver denunciato che i russi «tengono gli occhi su qualcuno che attualmente è nelle primarie democratiche e la stanno preparando per diventare la candidata di un partito terzo» per dividere gli elettori liberali e aiutare la rielezione di Donald Trump. «È un asset dei russi, hanno un sacco di bots e altri modi per sostenerla», ha aggiunto in una intervista, senza fare il nome della candidata, che però è stata identificata dai media Usa nella deputata delle Hawaii Tulsi Gabbard. La replica non si è fatta attendere. Gabbard ha definito le accuse mosse dalla Clinton «vigliacche», e ha scritto su Twitter: «Grande! Grazie Hillary Clinton. Tu, la regina dei guerrafondai, la personificazione della corruzione e del marcio che ha fatto ammalare il Partito democratico così a lungo sei finalmente uscita da dietro il sipario. Ora è chiaro che questa campagna è tra te e me. Non ti nascondere vigliaccamente dietro i tuoi delegati. Partecipa alla corsa direttamente». Veterana di guerra, la Gabbard chiede come candidata che gli Usa mettano fine alle loro guerre e non siano più il gendarme del mondo. Nell’ultimo dibattito tv con i suoi rivali dem aveva definito «spregevoli» le suggestioni dei media americani secondo cui sarebbe un asset russo. In precedenza aveva escluso una campagna indipendente.

Usa, email segrete Clinton: accusati 38 dirigenti. Presidenziali 2020, Hillary contro candidata dem: "Asset dei russi". I funzionari sotto inchiesta dal Dipartimento di Stato per aver inviato informazioni classificate su email personale Hillary. Nel mirino della Clinton Tulsi Gabbard: "Punta a formare un terzo partito per danneggiare i liberal". Ma la parlamentare democratica eletta alle Hawaii smentisce e definisce quelle illazioni "vigliacche". Alberto Custodero su La Repubblica il 19 ottobre 2019. Il Dipartimento di Stato americano ha individuato 38 persone che hanno commesso violazioni in seguito all'uso della mail privata per lavoro da parte dell'allora segretario di Stato, Hillary Clinton. Le persone accusate sono colpevoli di aver inviato in 91 casi informazioni "riservate" alla mail personale di Clinton. Si tratta di funzionari, attuali ed ex, del Dipartimento di Stato. L'indagine interna ha riguardato 33 mila mail che Clinton fornì per una revisione dopo lo scandalo dell'uso della mail privata per gestire questioni sensibili. Il dipartimento ha dichiarato di aver riscontrato 588 violazioni in totale che riguardavano informazioni all'epoca o ancora adesso ritenute classificate, ma non è stato possibile individuare responsabilità in 497 casi. Hillary Clinton è intanto al centro di un nuovo caso politico che vede sullo sfondo una possibile interferenza dei russi sul voto delle prossime presidenziali. Ha infatti accusato una delle candidate democratiche alle presidenziali, Tulsi Gabbard, di essere un "asset della Russia" che punta a formare un terzo partito per danneggiare i liberal. Il duro attacco è contenuto in un'intervista in podcast che la candidata sconfitta da Donald Trump nel 2016 ha registrato ed è in rete. "Non faccio previsioni - spiega - ma credo che loro (i russi, ndr) abbiano messo gli occhi su qualcuna che attualmente sta partecipando alle primarie democratiche e la stanno preparando a presentarsi come candidata di un terzo partito. E' la favorita dei russi". Clinton non cita Tulsi Gabbard ma secondo i media americani il riferimento sarebbe chiaro. Sono soltanto cinque le donne finora in gara: Gabbard, le senatrici Kamala Harris, Elizabeth Warren, Amy Klobuchar e la scrittrice Marianne Williamson. Nessuna delle ultime quattro è stata mai accusata di avere legami con Mosca. "Sì - aggiunge nell'intervista Clinton - è un asset russo, perchè sanno che non potranno vincere senza un candidato di un terzo partito. Non so che cosa succederà ma vi garantisco che ci sarà una sfida poderosa negli stati chiave dove i repubblicani ne hanno più bisogno e si stanno organizzando per sostenerla". Alle presidenziali del 2016 c'era stato il caso di Jill Stein, attivista, candidata del Green Party, capace di conquistare da "outsider" 1,5 milioni di voti, in gran parte potenzialmente destinati a Clinton. Di lei si era occupata la commissione Intelligence del Senato nel corso dell'inchiesta sul Russiagate, le interferenze russe alle presidenziali di quattro anni fa. Secondo Clinton, lo schema si ripeterà con la parlamentare democratica eletta alle Hawaii, Gabbard, che però nei giorni scorsi ha smentito in modo deciso la possibilità di candidarsi per un terzo partito, negando qualsiasi legame con la Russia. E passando al contrattacco, definendo "vigliacche" le accuse dell'ex segretaria di stato. Gabbard ha accusato l'ex first lady di essere "la regina dei guerrafondai" e di orchestrare una campagna "per distruggere la mia reputazione".

Gaffe di Trump con Mattarella? Tutto falso, ecco perché. Donald Trump ha spiegato che Stati Uniti e l’Italia sono legati da un’eredità culturale e politica condivisa antica di migliaia di anni ma non ha affatto parlato di "alleanze". E non ha chiamato Sergio Mattarella "Mozzarella". Roberto Vivaldelli, Venerdì 18/10/2019, su Il Giornale. Niente da fare. Quando parla Donald Trump, la stampa progressista deve sempre inventarsi qualcosa per screditare il tycoon, anche rilevando "gaffe" che non sono tali. Giornali e commentatori hanno irriso e bacchettato l'uscita del presidente Usa durante la conferenza stampa congiunta con il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella, in visita a Washington DC, nella quale The Donald avrebbe detto gli Stati Uniti e l’Italia sono uniti dalla condivisione di un’eredità culturale e politica antica migliaia di anni. Gli stessi giornali hanno osservato che gli Stati Uniti non solo non esistevano, ovviamente, ai tempi di Roma, ma l'intero continente americano non sarebbe stato scoperto prima di un altro millennio. Aprititi cielo, dunque, con gli sfottò e con i paragoni con Luigi Di Maio, che parlò di tradizione millenaria democratica della Francia. Come se non bastasse, è circolato in rete, diventando presto virale, il video che mostrerebbe lo sguardo attonito dell’interprete italiana Elisabetta Savigni Ullmann che ha partecipato all’incontro bilaterale e all’incontro con la stampa di Trump e Mattarella nello Studio Ovale. Secondo la lettura di diversi giornali, l'interprete sarebbe rimasta sbigottita nel sentire le "castronerie" pronunciate dal presidente americano. Peccato che la realtà sia molto diversa. Certo, Trump non è uno storico raffinato né un docente presso l'Università di Harvard ma un buisnessman estremamente pragmatico e dai modi inusuali che però, va ricordato, frequentò la Wharton School of Finance and Commerce dell'Università della Pennsylvania, cioè una delle migliori facoltà di economia di tutte le università statunitensi, dove si laureò in economia. Che cosa c'entra, dunque, Luigi di Maio? Ma torniamo al discorso di Trump, che è stato completamente travisato o volutamente mal interpretato. "Gli Stati Uniti e l’Italia sono legati da un’eredità culturale e politica condivisa, antica migliaia di anni" ha detto Trump. "Dall’Antica Roma - ha specificato il presidente Usa - nei secoli il popolo italiano ha contribuito ad accrescere la civilizzazione con magnifiche opere d’arte, scienza, filosofia, architettura e musica. Lunedì scorso noi abbiamo dato il nostro tributo all’italiano che ha scoperto un Nuovo Mondo, un genovese che si chiamava Cristoforo Colombo. E per me quel giorno si chiamerà sempre Columbus Day. A qualcuno non piace, a me sì". Roma, dunque, intesa da Trump come culla della civiltà. Che cos'ha detto di male o di sbagliato? Non ha minimamente fatto cenno da alcuna alleanza fra Usa e Italia, come qualcuno ha erroneamente scritto e riportato e ha detto altresì qualcosa di estremamente sensato. Ha semplicemente fatto riferimento al legame ideale tra i Padri fondatori americani e le istituzioni democratiche romane. Come nota Daniele Scalea, Presidente del think-tank Machiavelli, i critici del presidente Usa forse non sanno che "i Padri fondatori americani lessero e studiarono approfonditamente la storia e i classici dell'epoca repubblicana romana". Questi, spiega Scalea, "si identificavano nei vari Bruto, Catone e Cicerone mentre lottavano contro la tirannia d'oltreoceano. Ecco perché i luoghi del potere americano trasudano di riferimenti alla Roma repubblicana: dalle aquile ai fasci al Campidoglio". Come ha poi precisato anche l'account ufficiale della Casa Bianca "gli Stati Uniti e l'Italia sono uniti da un patrimonio culturale e politico condiviso che risale a migliaia di anni fa nell'antica Roma". E non finisce qui. Perché è una fake news anche quella, già menzionata, della traduttrice italiana che avrebbe reagito con quell'espressione incredula e sbigottita a quest'affermazione. In verità, il video virale fa riferimento all'incontro tenutosi presso lo Studio Ovale, dove si parlava di tutt'altro: ed è sufficiente guardare il filmato completo per rendersi conto che non c'è assolutamente nulla di rilevante nell'espressione della traduttrice. Come scrive anche Open l’espressione della donna incaricata di tradurre in italiano le parole di Donald Trump non è di stupore ma piuttosto di concentrazione, visto che è la stessa che assume fin dall’inizio dell’incontro. Inoltre, Trump non ha mai chiamato “Mozzarella” la più alta carica istituzionale dello Stato Italiano, come un filmato circolato in rete faceva intendere.

Chi è l'interprete (è di Livorno) della Casa Bianca del video virale tra Mattarella e Trump. Pubblicato venerdì, 18 ottobre 2019 su Corriere.it da Marco Gasperetti. Elisabetta Savigni Ullmann, interprete ufficiale alla Casa Bianca, in passato ha fatto da traduttrice anche per Obama, Bush e Clinton. Era stata profetica Elisabetta Savigni Ullmann, interprete ufficiale alla Casa Bianca e docente all’Università del Maryland, diventata famosa (grazie a un video virale) per via degli sguardi apparentemente inorriditi mentre cerca di tradurre (e soprattutto interpretare) gli svarioni lessicali di Donald Trump. Due anni fa, ospite d’onore in un convegno a Pisa sulla possibilità che l’intelligenza artificiale potesse sostituire l’interpretazione umana, spiegò che l’intervento umano non si basa soltanto sulla traduzione, ma su tantissimi aspetti «che vanno dall’espressione facciale alla mediazione culturale» e dunque a oggi il computer non può sostituire una corretta traduzione. Già, chissà che cosa avrebbe combinato un algoritmo nell’ascoltare le parole del presidente Usa davanti al nostro Mattarella, per non parlare poi dell’ormai famosissimo «Giuseppi» E chissà come l’algoritmo avrebbe interpretato le «faccine» della traduttrice. Elisabetta Savigni — livornese doc, diploma al liceo linguistico nella sua città, poi scuola per interpreti a Firenze e infine, dopo una serie di viaggi di lavoro, trasferimento nel 1989 con il marito di nazionalità svizzera negli Stati Uniti — di interpretare (e soprattutto tradurre) il linguaggio altrui è una maestra quasi ineguagliabile. E’ nata a Montenero, Elisabetta, una collina davanti a Livorno e al suo mare, diventata un quartiere residenziale e sede di uno dei santuari mariani più famosi d’Italia. E qui ha frequentato elementari, medie e superiori. Madre di due figlie di 39 e 30 anni, vive ormai da vent’anni a Washington e gira il mondo dietro gli uomini più potenti. E’ stata interprete di Clinton, Bush, Obama e adesso di Trump. In pochi anni, poco dopo essere partita da Livorno, si è fatta apprezzare non solo per le sue doti tecniche di traduttrice, ma anche per l’intelligenza e l’amore, dopo tanti anni trascorsi all’estero, per l’Italia e la sua città, Livorno, la stessa di Carlo Azeglio Ciampi. Che la volle incontrare dopo che il suo predecessore l’aveva nominata commendatore. In un’intervista di qualche anno fa al quotidiano della sua città, Il Tirreno, Elisabetta Savigni aveva descritto Clinton come «un brillante e abile uomo politico», George Bush come «una persona estremamente carina che conquista con la sua cordialità». Barack Obama, invece, lo aveva raccontato come l’uomo «della svolta epocale per gli Stati Uniti, che nonostante tutto, è un paese ancora molto razzista». E ancora: «Obama è una persona vera, lo adoro: crede veramente in quello che fa e ogni volta che parla accende una profonda riflessione». Elisabetta ha ancora l’Italia nel cuore e quando ha un po’ di tempo trascorre le vacanze a Livorno. Gli amici dicono che è innamorata del mare e soprattutto degli scogli del Romito, con un'acqua da favola, resi celebri anche dal film cult Il Sorpasso di Dino Risi. Ama anche ascoltare il vernacolo della sua gente. Che spesso si diverte a tradurre. E quando lo fa, dicono gli amici, il volto le si illumina e certe “faccine” spariscono.

Trump, il buldozer che sta distruggendo la destra americana. Gennaro Malgieri il 29 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Dai neo-con ai tea party, dagli evangelici ai conservatori come Mccain, l’avvento del tycoon alla Casa Bianca ha spazzato via la vecchia guardia: al loro posto gli apprendisti stregoni. Il declino del Grand Old Party. L’ascesa alla Casa Bianca di Donald Trump ha paradossalmente segnato la fine del composito universo politico repubblicano. Anni fa Karl Rove, “stratega” e spin doctor dell’amministrazione Bush, aveva fatto sapere, con eccessiva supponenza, che i Repubblicani ambivano a diventare “maggioranza permanente”. Non prevedeva che il GOP, il Grand Old Party, si sarebbe politicamente liquefatto. Anni fa Karl Rove, “stratega” e spin doctor dell’amministrazione Bush, aveva fatto sapere, con eccessiva supponenza, che i Repubblicani ambivano a diventare “maggioranza permanente” negli Stati Uniti. Non prevedeva il potente ispiratore della presidenza che di lì a poco le elezioni sarebbe state vinte da Barack Obama per ben due volte, né che il GOP, il Grand Old Party, somma di tutti i conservatorismi e di tutte le opposizioni al partito democratico, si sarebbe politicamente liquefatto pur vincendo a sorpresa le presidenziali del 2016: un chiaro e lampante esempio di populismo neppure immaginato dall’establishment. L’ascesa alla Casa Bianca di Donald Trump ha paradossalmente segnato la fine del composito universo politico repubblicano. Tanto la destra cristiana, quanto il fumoso e impalpabile Tea Party, per non dire del variegato mondo intellettuale conservatore dalle sue innumerevoli sfaccettature, non sono riusciti a rinnovare una classe dirigente degna di tal nome, al punto che l’estremo addio a John McCain è sembrato a molti come il congedo repubblicano dalla sua storia, forse da se stesso. Trump, cresciuto più per l’insipienza dei conservatori che per i suoi meriti, ha letteralmente devastato quel che sembrava, perfino durante il potere di Obama, un granitico assetto politico fondato su ben consolidati blocchi sociali e su un radicamento culturale di tutto rispetto. Nelle mani di improvvisati “stregoni” alla Steve Bannon e con il suo stesso determinante contributo, Trump – uomo che non crede in nulla, che ha votato per i democratici come per i repubblicani, sostenendo le campagne degli uni e degli altri, alieno dall’ispirarsi a qualsivoglia dottrina riconducibile al conservatorismo – si è alienato le simpatie della leadership del partito che inopinatamente lo ha candidato, più per disperazione che per convinzione, al punto che al Congresso con difficoltà passano le sue proposte, si è dovuto difendere dai molti scandali che gli sono piovuti addosso, si è eclissato dal società liberal- conservatrice che avrebbe dovuto sostenerlo, mentre in politica estera ha dissolto legami diplomatici consolidati da tempo immemorabile, mettendo a repentaglio gli interessi americani ed atlantici con le sue estemporanee uscite che si sono ribaltate sul partito repubblicano bloccandone la crescita. Sia sul piano etnico che su quello statuale e fiscale, oltre che sul versante dei diritti, i repubblicani sono frastornati dall’approssimazione di Trump che non sembra rendersi conto di quello che dice. A proposito della crisi turca, l’aver sostenuto che il Pkk curdo sarebbe più pericoloso dell’Isis è la prova di una confusione mentale sconcertante, a meno che non intenda con simili battute alzare il tiro al fine di aumentare la confusione in un’area nevralgica, martoriata e ad altissima pericolosità. Forse ha in testa un disegno ( ne dubitiamo), ma se così fosse sarebbe più che sbagliato, autolesionista. La recente letterina inviata a Erdogan, immediatamente cestinata dal destinatario, nella quale lo invitava a miti consigli sulla questione siriana, è l’ulteriore prova che la sua personale battaglia Trump la conduce prescindendo dalle regole, perseguendo soltanto fini personali (incomprensibili ai più). Come la xenofobia ossessiva, in particolare contro i messicani, che è diventata l’emblema della sua presidenza è la condanna senza appello di una presidenza sballata, approssimativa, perfino pericolosa nella quale i repubblicani non possono più riconoscersi. Gestiscono il potere ( sempre meno), ma hanno rinunciato ad avere una visione al punto di non riuscire a trovare un’alternativa a Trump. Molti parlano della fine del partito repubblicano e dell’eclisse dei conservatori. Un po’ quel che accadde dopo la scomparsa di John F. Kennedy il cui successore batté come nessuno mai il candidato repubblicano Barry Goldwater che dalla sconfitta comunque seppe rimettere insieme le truppe disperse e rilanciare il GOP al punto che dopo Lyndon Johnson esplose la stella di Richard Nixon. Ma oggi un altro Goldwater in circolazione non c’è Qualche tempo fa, Sam Tanenhaus, direttore della New York Times Review of Books e della Sunday Review, scrisse un saggio anticipatore della fine dei repubblicani o, quantomeno, della loro crisi, intitolato Death of Conservatism. All’inviato della Stampa, Paolo Mastrolilli, spiegò: «Il Gop non è più un partito conservatore, ma la fusione di due correnti radicali: la prima lo è nella sua opposizione a qualunque ruolo serio per lo stato; la seconda sui temi sociali. Reagan non era così. Il problema ha origine con il tentativo fallito da Karl Rove di creare una maggioranza permanente. Da quel momento in poi il Gop ha rinunciato alle idee, al contributo degli intellettuali, e si è affidato agli ideologi. È diventato il partito del risentimento, del catastrofismo, dei bianchi anziani e arrabbiati per la perdita di peso economico, sociale o religioso. Ora sappiamo che in America ci sono ancora molti bianchi vecchi e arrabbiati, ma non sono più la maggioranza». È forse questa la “chiave” che apre al mistero del declino repubblicano e che con ogni probabilità sarà foriero della disfatta dell’anno prossimo. È pur vero che i competitori democratici di Trump sono litigiosi e “solitari”, nel senso che non fanno “squadra”, ma dalla parte opposta non bisogna credere che la “vittoria” annunciata almeno alle primarie abbia smorzato gli entusiasmi e le ambizioni di alcuni democratici disposti a metterci la faccia, se non altro per vedere, almeno nella prima fase, l’effetto che fa. Infatti, sono ben ottantaquattro al momento gli iscritti al registro della Federal Election Commission statunitense per le primarie repubblicane. Nessuno di essi ha la benché minima possibilità di vittoria, e forse quasi sicuramente abbandoneranno il campo prima del tempo: il fattore denaro è decisivo, come si sa. Ed investire su perdenti certi non è nel costume dei filantropi americani…Ma anche tra coloro che nutrono qualche pallida aspettativa non sembrano esserci avversari in grado di impensierire seriamente Trump, che ha già anche anticipato tutti gli avversari presenti e futuri iniziando la sua campagna elettorale a colpi di raccolta di fondi e muovendo una potente macchina elettorale che nessuno si può permettere, soprattutto prescindendo dal partito nel quale sembra un corpo estraneo per stessa ammissione di senatori, deputati e governatori che dovrebbero supportarlo.

C’è chi immagina, non senza ragione, che le primarie potrebbero addirittura non tenersi se non in pochi stati federali. Il che però allontanerebbe e demotiverebbe ulteriormente i supporter repubblicani che non perderebbero tempo ad impegnarsi in una competizione senza prospettive politiche, a tutto vantaggio dei concorrenti democratici più accreditati come Kamala Harris, Elisabeth Warren e l’acciaccato (elettoralmente) Joe Biden. Del resto si sa che affrontare il Presidente uscente è impresa rischiosissima che ha fatto numerose vittime sia tra i repubblicani che tra i democratici Da Ronald Reagan, che ci andò più vicino di tutti nel 1976 ma non riuscì a sottrarre la candidature a Gerald Ford; da Pat Buchanan, che sfidò senza successo Bush nel 1992. Finanche il democratico Ted Kennedy non riuscì a prevalere su un non irresistibile Jimmy Carter nel 1980. I precedenti, dunque, sono scoraggianti. Per di più il Republican National Committee, l’organismo che vigila sui candidati repubblicani alla Presidenza, ha più volte dichiarato di non avere alcuna intenzione di sostenere eventuali sfidanti di Trump. Il messaggio lanciato ai sostenitori del partito è chiaro: non ha senso sprecare soldi in primarie dall’esito scontato, molto meglio risparmiare le forze per la vera campagna Presidenziale, tutti uniti sotto il vessillo del Presidente uscente. E Trump nel frattempo si sta preparando a controbattere qualunque sfidante, forte di un patrimonio per la campagna elettorale da circa quaranta milioni di dollari e di una pletora di impiegati, strateghi, consulenti, agitatori che lavorano a tempo pieno in vista delle presidenziali. Questo non vuol dire che i “giochi” siano fatti. Come si diceva, l’anima profonda del GOP è ostile a Trump. Molte sono le voci che chiedono alla dirigenza del partito di trovare uno sfidante, anche che per non perdere l’elettorato. Nonostante le avversità, è innegabile ci sia più di un Repubblicano che preferirebbe votare un altro candidato, e non Trump. Diverse le voci che invocano uno sfidante ma a fronte di tante chiama- te nessuno si è ancora fat- to avanti pro- ponendosi come l’anti- Trump. Vediamo comunque chi, in teoria, potrebbe affrontare una campagna per le Primarie. Bill Weld, politico di lungo corso, già Governatore del Massachusetts per due mandati negli anni ‘ 90, sembra il più deciso tra gli indecisi. È stato più volte sul punto di ufficializzare la candidatura, ma finora non l’ha fatto. Poi ci sono Larry Hogan, attuale Governatore del Maryland, che incarna la corrente centrista e moderata dei Repubblicani a stelle e strisce. E gode di un buon consenso soprattutto a livello locale, dove è stato il secondo Governatore repubblicano a essere rieletto per un ulteriore mandato nell’ultimo secolo. Molto critico nei confronti della politica di Trump sull’immigrazione, è giunto a richiamare la Guardia nazionale del Maryland impegnata sul confine messicano per protestare contro la divisione delle famiglie di profughi. Anche John Kasic, Governatore dell’Ohio, si è pronunciato contro Trump già nelle Presidenziali del 2016: è Il più liberal tra i Repubblicani, soprattutto per quanto riguarda i diritti della comunità LGBT e decisamente più sensibile rispetto all’amministrazione Trump nei confronti del global warming, che riconosce come reale e che ha affrontato con alcune leggi a favore delle rinnovabili approvate nel suo Stato. Al di là dei nomi tutti attendono l’esito dell’indagine sul cosiddetto Russiagate che sta conducendo il procuratore Robert Müller. Per quel che si sa, ha scagionato il Presidente da collusioni con la Russia, ma non ha ancora raccolto abbastanza prove per decidere se abbia poi ostacolato le indagini a suo carico. Se il “Mü ller report” incrinerà in qualche modo la fiducia dei Repubblicani in Trump, in quello spazio saranno in molti a volersi inserire. E la lista dei papabili andrà sicuramente aggiornata con personaggi di maggior rilievo. Un impeachment stravolgerebbe i piani di Trump, dei repubblicani e complessivamente la politica americana. Intanto – non certo in vista delle imminenti presidenziali scalpitano rampanti congressman in vista di posizionamenti futuri: Jeff Flake, senatore dell’Arizona, il cui recente libro La coscienza di un conservatore, è un implacabile atto d’accusa al partito, alla sua gestione e alla presidenza. Un altro senatore da tenere d’occhio è Ben Sasse, del Nebraska, aperto anti- trumpiano, sostenuto appassionatamente da Regina Thomson e Beau Correll, leader di “Never Trump”. Ai tempi della convention repubblicana di Cleveland, questo movimento balzò agli onori della cronaca per aver condotto una dura battaglia, per incitare i delegati a votare secondo coscienza, senza seguire come da convenzione i risultati di primarie e caucus locali. Per Thomson e Correll, Sasse è "la quintessenza del conservatorismo" e potrebbe costituire una minaccia reale e allo strapotere di Trump. Il gruppo dei “centristi papabili”, come vengono definiti, annovera Tom Cotton esponente dell’Arkansas il governatore del Colorado John Hickenlooper. Il deputato Justin Amash del Michigan, appartenente alla corrente libertaria, tra i fondatori dell’House Freedom Caucus, noto per essere stato il primo a prendere in considerazione apertamente un impeachment di Trump, aveva sostenuto il senatore Rand Paul. Mark Cuban, proprietario della squadra texana di basket dei Dallas Mavericks, famoso per le sue partecipazioni al reality show Shark Tank, Dwayne Johnson, detto "The Rock", sono outsider, mentre Michael Bloomberg che è stato democratico, repubblicano e infine indipendente, nutre qualche ambizione per contare nel partito repubblicano. Il miliardario, a capo dell’impero delle comunicazioni ha detto più volte di non essere interessato. In tanti, però, sperano che cambi idea. Il mistero di fondo, intanto, resta quello legato alla sorte del presidente. Per la scelta “a sorpresa” chi tiene gli occhi ben aperti è il vicepresiden-te Mike Pence, ovvero colui che potrebbe trarre un maggiore profitto da una rinuncia di Trump. Ma a scalpitare ci sarebbero anche altre stelle del Gop come gli ex sfidanti Rick Scott, governatore della Florida; Ted Cruz, ambizioso senatore del Texas; Marco Rubio, senatore della Florida, e Scott Walker, governatore del Wisconsin. Per il momento Donald Trump alla sua maniera sembra aver spento tutti gli entusiasmi. Ha detto di recente: “Che mi amiate o che mi odiate, non c’è altra scelta che votare per me”. E così ha chiuso la partita. Almeno se lo augura. Indifferente al declino del partito repubblicano, dei conservatori, di quella destra che ha fatto comunque l’America.

CONTRO TRUMP TUTTO È LECITO. Da “Libero quotidiano” il 20 ottobre 2019. Donald Trump legato come un salame in stile sadomaso: sembra questa l' ultima frontiera della pubblicità americana. Un piccolo produttore di indumenti sportivi dell' Oregon che si chiama Dhvani - noto per le tute da yoga a 58 dollari - ha riempito le città americane, da New York City a Washington DC, di enormi manifesti in cui il protagonista è il presidente: legato, imbavagliato e anche picchiato da atlete in vestiti attillati. I media americani sostengono che si tratti di una campagna contro la decisione presa dall'amministrazione repubblicana di bloccare gli aiuti federali a Planned Parenthood, l'organizzazione che riunisce medici e gruppi abortisti, e alle cliniche in cui si pratica l'interruzione di gravidanza. Perché poi una fabbrica di mutande sportive si interessi così tanto all' aborto resta ancora misterioso. Il primo ad accorgersi del manifesto è stato il figlio del presidente, Donald Trump Jr., che ha denunciato la cosa su Twitter.

DAGONEWS il 21 ottobre 2019. Uno scagnozzo della mafia afferma che Donald Trump è stato filmato in un bordello di New York mentre aveva un rapporto a tre con un’adolescente e una porno star nel 1982. La registrazione è stata quindi inviata a un boss della mafia. La scioccante accusa è stata raccolta dagli autori Barry Levine e Monique El-Faizy nel loro libro "All the President's Women: Donald Trump and the Making of a Predator" in uscita il 22 ottobre. Gli autori hanno raccontato al sito web "The Daily Beast" come hanno intervistato l'ex gangster John Tino, che ha affermato di essere stato testimone della trombata del Presidente in un sex club VIP a Times Square. Tino, che ha un cancro terminale, ha detto di aver visto tutto da una stanza adiacente mentre una telecamera nascosta registrava il futuro presidente. Ma gli autori ammettono che Tino, l'unica persona che ha assistito all’incontro a tre, ha precedenti penali tra i quali falsificazione, frode e furto. Anche Levine ed El-Faizy non sono stati in grado di rintracciare l'adolescente o l'attrice porno, identificata nel libro solo come "Tri", per confermare l'affermazione di Tino. Il bordello, che secondo Tino era frequentato da uomini ricchi e potenti, da allora è chiuso. Levine ha detto al The Daily Beast: «Ci sono molte persone che diranno che Tino è un bugiardo e diranno che le sue affermazioni sono false. Sono venuto via dall’incontro pensando che le accuse fossero credibili». Molte persone coinvolte sono morte, ma alcuni hanno confermato che Tino lavorava per la malavita ed effettivamente spesso era in quel bordello. Tino ha detto agli autori che Trump era noto come «il ragazzo del settore immobiliare che portava sempre una cravatta e non beveva mai alcol nel club segreto». Gli autori hanno scritto: «La maggior parte delle donne che lavoravano lì erano pornostar, sebbene non tutte. Trump preferiva una donna che si esibiva principalmente in spettacoli di sesso dal vivo con suo marito, sebbene recitasse occasionalmente in film per adulti». Tino ha affermato che il suo capo mafia nell'autunno 1982 gli disse: «Il ragazzo del settore immobiliare sta arrivando. Vuole Tri e vuole un'altra ragazza per un menage à trois». Tino ha descritto come una "femmina dall'aspetto giovane" si presentò al club: «Tri chiese alla ragazza quanti anni aveva. Lei le risposte che era un'adolescente». Il libro, che non specifica se la ragazza avesse superato l'età legale del consenso, dice che "il ragazzo del settore immobiliare" ha trascorso un'ora nella stanza. All'epoca Trump aveva 36 anni ed era sposato con la sua prima moglie Ivana. Tino ha affermato che le telecamere segrete erano state collocate nelle stanze in modo da poter monitorare quello che accadeva e impedire che le prostitute fossero "maltrattate" dai clienti. Secondo gli autori, Tino ha poi raccontato come le registrazioni video siano state consegnate al suo capo. Nel libro si dice che non si sa dove si trovino i video e gli autori dicono che il boss che poteva averli è stato assassinato nel 1986. Levine ha detto a The Daily Beast che Tino aveva parlato con i giornalisti in vista delle elezioni del 2016, ma nessuno era stato in grado di trovare l'attrice porno Tri: «Fino a oggi non sappiamo se la pornostar coinvolta in questo presunto incidente sia ancora viva. Tino ci ha detto che voleva raccontare tutto prima di morire dicendoci che doveva farlo perché lui è il Presidente». Nel libro gli autori affermano di rivelare 43 nuove accuse di comportamento inappropriato, tra cui 26 casi di contatto sessuale indesiderato. Tra queste c’è anche la testimonianza di Karen Johnson che ha affermato che Trump l'ha aggredita a Mar-a-Lago a una festa di Capodanno nei primi anni 2000 mentre Melania era al piano di sopra. La donna ha raccontato agli autori come Trump ha afferrato i suoi genitali durante la festa nel suo club sulla spiaggia a Palm Beach, in Florida, alla quale ha partecipato con il marito malato terminale che soffriva di sclerosi multipla. Il libro cita anche l'attrice porno Alana Evans che sostiene di conoscere tre ex star del porno che affermano di essere state pagate da Trump in cambio di sesso. In una dichiarazione a Business Insider su "All The President's Women", Stephanie Grisham, responsabile della comunicazione della Casa Bianca,  ha negato qualsiasi accusa contro il Presidente: «Quel libro è spazzatura e quelle accuse di 20 anni fa sono state già affrontate molte volte».

Robert De Niro: "Trump è uno sbruffone molto pericoloso". Lasciano il segno le ultime dichiarazioni di Robert De Niro sul Presidente Trump e la politica americana, l'attore infatti si confessa senza nessun freno inibitorio. Carlo Lanna, Mercoledì 20/11/2019 su Il Giornale. È uno fra gli attori più rappresentativi di una Hollywood che, oramai, non esiste più da tempo. Robert De Niro è celebre non solo per le sue interpretazioni e per le sue attività umanitarie e filantropiche, ma anche e soprattutto, per le sue invettive verso la politica americana. Infatti non passano inosservate le ultime dichiarazioni nei riguardi del Presidente Donald Trump. Intervistato da Vanity Fair in vista dell’uscita su Netflix di Irishman, il nuovo film di Martin Scorsese, De Niro rivela senza nessun pelo sulla lingua, tutto il dissenso verso un presidente che definisce uno "pericoloso sbruffone". Per l’occasione il settimanale dedica a Robert De Niro la copertina e una lunga cover story che, sicuramente, farà discutere. "Mi è stato detto che dovevo dare a Trump il beneficio del dubbio, ma è stato peggio di quanto potessi immaginare – esordisce l’attore -. Viviamo in tempi strani e l’imbecille qui in America non aiuta di certo. Io non preferisco neanche chiamarlo Presidente. Se verrà rieletto sarà davvero molto pericoloso. È totalmente amorale, non possiede la bilancia dell’etica". Durante l’intervista, l’attore paragona l’indole di Trump a quella di un altro newyorkese, tale Bernie Madoff, che De Niro ha interpretato in un altro film di grande successo. "New York è una splendida città che vanta persone di grande spessore culturale, ma Trump e Madoff sono la nostra illusione – afferma –. Un vero cittadino di New York li trova imbarazzanti, rappresentano il lato peggiore della Grande Mela. Sono orribili, solo che Trump ora è diventato anche Presidente – e aggiunge -. E’ diventato così grazie a quello stupido reality show, The Apprentice. Credevo che quel programma avesse potuto avere un peso sulla gente, invece non è stato così. E’ aria fritta e chiunque ha un po’ di buon senso dovrebbe avere un po’ di vergogna". L’invettiva di Robert De Niro non si ferma di certo qui, dato che ha parole infuocate anche per la gente del Midwest che considera Trump un "un tipo a posto", quando invece: "Lui è un cretino. Non ho mai avuto interesse a incontrarlo. A lui non interessa il bene del nostro Paese. Vuole solo vincere". Anche al Saturday Night Live non ha tenuto a bada il suo odio verso il Presidente e: "Mi spaventa il fatto che Trump ha empatia verso il popolo. Chissà cosa resterà di lui fra due o tre generazioni". Nel film che è stato presentato al Festival del Cinema di Roma, Robert De Niro interpreta Frank Sheeran, un uomo veramente esistito, che fa il lavoro sporco per il capomafia Russell Bufalino. Il lungometraggio di Scorsese racconta con forza e coraggio una lunga pagina della storia americana recente.

Eva Longoria: «Quando Trump ha vinto le elezioni sono caduta in depressione». Pubblicato martedì, 12 novembre 2019 da Corriere.it. L'elezione di Donald Trump nel 2016 ha sorpreso il mondo intero. C'è chi ha vissuto l'elezione del presidente Usa come una sconfitta personale. È il caso dell'ex casalinga disperata Eva Longoria che in una lunga intervista al «Guardian» di Londra racconta le sue nuove sfide professionali (sarà la prima latino-americana a dirigere due importanti film a Hollywood) e la recente «depressione» per motivi politici. Oggi, però, tutto è passato e l'attrice 44enne è pronta a impegnarsi attivamente per scongiurare la rielezione di Trump.  

Francesco Semprini per “la Stampa” il 15 novembre 2019. La candidatura di Michael Bloomberg è a rischio #MeToo. L' ex sindaco di New York e probabile aspirante alla corsa per le presidenziali del 2020 si trova a fare i conti con un avversario inatteso. Non tanto di carattere politico bensì di genere visto che a Bloomberg viene rimproverato il fatto di aver fatto ricorso in maniera spregiudicata a battute denigranti ed eccessiva ironia sulle donne. Il magnate dei media è rinomato fra amici, collaboratori e dipendenti per il suo linguaggio irriverente e ironico verso l' altro sesso. A tal punto - racconta il New York Times - che nel 1990 i colleghi gli regalarono un libro di 32 pagine, «Il Bloomberg portatile», in cui venivano raccolte tutte le sue massime in tema di «genere». «Se le donne vogliono essere apprezzate per il loro cervello, dovrebbero andare in biblioteca invece che da Bloomingdale' s», è una tra le più usate perle dell' ex primo cittadino della City. Il quale era solito ripetere alle dipendenti che i terminali di Bloomberg (i computer usati nel suo impero editoriale) faranno «tutto» incluso il sesso orale, e questo «potrebbe tagliare fuori dal lavoro molte di voi». Il controverso passato non impedì a Bloomberg di essere eletto sindaco di New York. Ma i tempi sono cambiati e Bloomberg deve fare i conti con l' era del #MeToo, il movimento che dal caso del molestatore seriale di Hollywood, Harvey Weinstein, ha scatenato una vera e propria rivoluzione negli Usa in fatto di diritti delle donne. Lo staff di Bloomberg spiega come «Mike ha realizzato che quello che ha detto era sbagliato, una mancanza di rispetto. Ritiene che non sempre le sue parole siano allineate con i suoi valori e con quello che ha fatto nella sua vita». E chi conosce il magnate sottolinea come si sia speso durante la sua carriera e con le sue attività filantropiche per sostenere le donne e i loro diritti. Ma nel suo passato c' è un altro neo ovvero l' azione legale patteggiata per essere andato su tutte le furie quando una dipendente gli ha detto di essere incinta. E questo guardando l' elettorato al quale si rivolge per Usa 2020, ovvero quello democratico composto da moltissime donne, rischia di essere sintomo di emorragia di consensi.

UN MILIARDARIO EX REPUBBLICANO CHE SI CANDIDA COI DEMOCRATICI PER BATTERE UN MILIARDARIO EX DEMOCRATICO ELETTO COI REPUBBLICANI. Federico Rampini per “la Repubblica” il 26 novembre 2019. L’ingresso dell' ex sindaco di New York Michael Bloomberg nella gara per la nomination democratica apre uno scenario senza precedenti. La sfida per la Casa Bianca nel novembre 2020 in teoria potrebbe opporre due newyorchesi (mai accaduto nella storia), ambedue settantenni e miliardari. La forza del denaro in realtà è soprattutto dalla parte di Bloomberg. Il suo patrimonio di 50 miliardi lo colloca nella serie A del capitalismo americano, più vicino a Bill Gates che al palazzinaro-bancarottiere Donald Trump. Ma se in termini di talento imprenditoriale Bloomberg giganteggia rispetto al controverso tycoon finito sotto impeachment, nella percezione pubblica è Trump a partire con un netto vantaggio. Lui è il magnate che sa parlare alle masse: sia perché per tutta la vita fu un outsider snobbato dall' establishment, sia perché il suo vero talento lo ha scoperto diventando uno showman nei reality-tv. Trump è riuscito a farsi "uno di noi" agli occhi della classe operaia del Midwest, abbracciandone il rancore verso la Cina o le paure sulla concorrenza degli immigrati nel mercato del lavoro. Bloomberg deve far dimenticare di essere ebreo (in tempi di antisemitismo di ritorno, anche in America), arricchitosi a Wall Street, nonché ultra-liberal sui diritti gay, sul cambiamento climatico, contro il possesso di armi. Insomma è il radical chic per eccellenza. Salvo che su di lui si accanisce anche l' ala ultra-sinistra, e non solo per rimproverargli i primi 35 milioni spesi per saturare di auto-pubblicità lo spazio televisivo. L' ortodossia politically correct ha riesumato qualche sua frase sessista in passato, o la politica "legge e ordine" della polizia newyorchese durante la sua gestione (con arresti più frequenti tra neri e ispanici). Agli handicap va aggiunto che un sindaco di New York - con l' eccezione di Rudolph Giuliani - è una celebrity nel mondo dei media ma uno sconosciuto appena varchi il fiume Hudson, entri nel New Jersey e sbarchi sul "continente". La sua candidatura dunque parte in salita. Per il momento vale come un sintomo. Segnala la confusione in campo democratico: non bastavano 17 candidati? E tradisce l' allarme per la radicalizzazione del partito. È il tema che sta sollevando Barack Obama: attenti a spaventare un' America dove ancora le elezioni si giocano al centro. Elizabeth Warren e Bernie Sanders fanno paura non solo ai ricchi a cui promettono una super-patrimoniale, ma anche al ceto medio diffidente verso il modello da socialdemocrazia europea: "più tasse, più Stato". Obama e Bloomberg temono che questa sia la ricetta per un secondo mandato Trump. Il quale sta confermando i peggiori timori dei democratici sull' effetto-impeachment: in questi giorni la base repubblicana si è ricompattata a sostegno del suo presidente. I soldi di Bloomberg - che in passato fu repubblicano e indipendente - almeno su una cosa dovrebbero favorire i democratici in generale: alimentando una massiccia campagna negativa sulle malefatte di Trump. L' importante sarà occupare spazio tv a pagamento sulla Fox News, l' unica rete di cui l' elettore di destra si fida.

Stefano Graziosi per ''la Verità'' il 26 novembre 2019. Il miliardario Michael Bloomberg scende in campo per sfidare Donald Trump e su una cosa pare già in vantaggio: l' enorme conflitto di interessi che si porta dietro, con tutto il suo colosso editoriale che si è già schierato compatto. Un clima da «Quarto potere» inizia ad aleggiare dalle parti di Washington. Bloomberg News ha stabilito che non farà inchieste sul suo editore. Almeno fin quando sarà in campagna elettorale. Domenica scorsa, l' ex sindaco di New York, Michael Bloomberg, ha annunciato la propria candidatura alla nomination democratica del 2020. Peccato che il magnate sia anche il proprietario della (nota) testata che porta il suo nome. Quella stessa testata che adesso non ha alcuna intenzione non solo di condurre inchieste sul suo conto ma neppure sui suoi rivali alle primarie del Partito democratico. John Micklethwait, direttore di Bloomberg News, ha infatti inviato una lettera ai suoi collaboratori, in cui si legge: «Proseguiremo la nostra consuetudine di non condurre inchieste su Mike [Bloomberg] (sulla sua famiglia e sulla sua fondazione) ed estenderemo la stessa politica ai suoi concorrenti nelle primarie del Partito democratico. Non possiamo trattare i concorrenti democratici di Mike in modo differente da come trattiamo lui». Micklethwait sostiene poi (bontà sua) che sarà dato conto di eventuali inchieste condotte da altre testate. Ma non è tutto. Perché, prosegue la missiva, «continueremo a fare inchieste sull' amministrazione Trump». Infine viene reso noto che alcuni giornalisti della testata entreranno a far parte del team elettorale dell' ex sindaco newyorchese. Che aleggiassero problemi di questo tipo su Bloomberg News non è del resto esattamente una novità. Come recentemente ricordato da Politico, Kathy Kiely - direttrice della sezione politica - si dimise all' inizio del 2016, esprimendo il timore che la testata non si occupasse adeguatamente dell' eventuale candidatura presidenziale del suo proprietario (che all' epoca stava ipotizzando una discesa in campo da indipendente). «La linea di fondo», affermò la Kiely, «è che non puoi coprire il circo, se non puoi scrivere di uno dei più grandi elefanti nella stanza». Insomma, il conflitto di interessi è palese. Senza poi trascurare la disparità di trattamento, visto che - come detto - Bloomberg News cesserà le inchieste su tutti gli attuali candidati democratici, proseguendo invece quelle su Trump. Il punto è tuttavia capire se (e come) l' ex sindaco della Grande Mela verrà stigmatizzato per questa spinosa faccenda. Nonostante infatti i media statunitensi abbiano riportato il controverso contenuto della lettera di Micklethwait, in pochi sembrano ancora esprimere un chiaro giudizio negativo su questa vicenda. Un elemento ben strano. Soprattutto alla luce del fatto che, nei primi mesi del 2017, l' attuale inquilino della Casa Bianca fu ripetutamente attaccato per aver ceduto la guida della Trump organization principalmente ai figli Eric e Donald Jr, anziché a un blind trust. E questo nonostante non ci fosse stata violazione della legge: per quanto la scelta di Trump potesse risultare oggettivamente inopportuna, non va infatti trascurato che le norme sul conflitto di interessi negli Stati Uniti non comprendano le figure del presidente e del vicepresidente. Adesso ci si attenderebbe un'analisi critica altrettanto dettagliata per quanto riguarda Bloomberg. Anche perché qui è in gioco un settore particolarmente delicato: quello mediatico. D' altronde, figure come Silvio Berlusconi in Italia e Andrej Babi in Repubblica Ceca sono sovente finite nell' occhio del ciclone, con l' accusa di indebita commistione tra politica e informazione. E Bloomberg? Bloomberg rischia di riesumare un personaggio abbastanza inquietante della storia americana: William R. Hearst, magnate dell' editoria che utilizzò assai spesso il proprio potentissimo impero mediatico a fini smaccatamente politici. Divenuto deputato alla Camera dei rappresentanti per il Partito democratico, arrivò addirittura a sfiorarne la nomination del 1904. Questo non gli impedì comunque di schierare il suo impero contro il democratico, Al Smith, nel corso della campagna elettorale per le presidenziali del 1928, visto che proprio Smith gli aveva negato poco prima una candidatura al Senato. Non è un caso che a Hearst si sia ispirato Orson Welles nel 1941 per il suo Quarto potere. Che ci siano d' altronde curiose analogie tra Bloomberg e il magnate di San Francisco è testimoniato anche da una certa disinvoltura dal punto di vista politico. Se Hearst - un tempo democratico - non esitò a spalleggiare il repubblicano Herbert Hoover nel 1928, Bloomberg ha cambiato spesso partito nel corso degli anni (è stato repubblicano dal 2001 al 2007, indipendente dal 2007 al 2018, per poi passare all' asinello). La questione è tanto più grave se si pensa al fatto che Bloomberg News riveste un ruolo di primo piano nel panorama mediatico statunitense e internazionale. Un discorso che, almeno sotto certi aspetti, vale anche per il Washington Post che, nel 2013, è stato acquistato dal fondatore di Amazon, Jeff Bezos. Non un politico, d' accordo. Ma comunque un personaggio potente, con grandi interessi in ballo e - soprattutto - particolarmente avverso a Trump. Alla luce di tutto ciò, si spera che il comitato direttivo del Partito democratico prenda presto una posizione chiara sulla questione Bloomberg. Resta frattanto il fatto che il sistema mediatico americano continui a riscontrare pesanti cortocircuiti. E non è detto che, alla fine, paradossalmente Trump non riesca a beneficiarne. D' altronde, il frequente scontro con i media gli procurò, nel 2016, non pochi consensi.

Da ansa.it il 15 Novembre 2019. L'avvocato di Donald Trump, Rudolph Giuliani, figura centrale nella vicenda dell'Ucrainagate, è indagato dalla giustizia federale nell'ambito di un'inchiesta su alcune sue operazioni finanziarie. Mentre l'ex ambasciatrice americana a Kiev, Marie Yovanovitch, testimonia al Congresso di essersi sentita minacciata dalle parole di Trump che, parlando con il presidente ucraino Voldymyr Zelensky, la descrisse come una bad news, e assicurò che presto se ne sarebbe andata. "Nel leggere la trascrizione della telefonata ero scioccata e devastata", ha spiegato la diplomatica. Mentre lei testimoniava, il presidente Usa l'ha attaccata su Twitter: "Ha fatta male ovunque e il nuovo presidente ucraino mi parlò male di lei. Un presidente ha tutto il diritto di nominare gli ambasciatori che vuole". Ma è bufera sui tweet diffamatori postati da Trump mentre alla Camera testimoniava l'ex ambasciatrice Usa a Kiev. Lo sdegno per le intimidazioni è bipartisan, con il presidente della commissione Intelligence Adam Schiff, che coordina le indagini per l'impeachment, che ha detto a Yovanovitch: "Il presidente la sta attaccando in tempo reale e qui prendiamo molto sul serio le intimidazioni ai testimoni". Su Fox si parla addirittura di "punto di svolta", con l'intimidazione via Twitter di Trump che da sola potrà essere oggetto di uno degli articoli per l'impeachment. "L'intimidazione è un reato", accusa su Twitter la candidata dem alle presidenziali Kamala Harris. Mentre anche la deputata repubblicana Elise Stefanik, membro della commissione intelligence, ha espresso forte disaccordo con i tweet di Trump. E novità arrivano anche dal Russiagate. Roger Stone, ex responsabile della campagna di Donald Trump e amico di vecchia data del tycoon, e' stato dichiarato colpevole di ostruzione della giustizia e false dichiarazioni al termine di un processo legato alle indagini del Russiagate. Stone viene accusato di aver mentito al Congresso sui suoi contatti con Wikileaks per tentare di avere materiale contro gli avversari del tycoon nel 2016.

Anna Guaita per ilmessaggero.it il 03 dicembre 2019. Che il presidente e la first lady dormissero in camere separate era un fatto abbastanza noto. Ma che Donald e Melania vivano addirittura su due diversi piani della Casa Bianca è una sorpresa. Secondo quanto racconta la giornalista Kate Bennett in Free, Melania: The Unauthorized Biography, la first lady risiede nell'appartamento che durante l'Amministrazione Obama ospitava la mamma di Michelle, Marian Robinson, al terzo piano della residenza presidenziale, mentre Donald ha preso possesso dell'appartamento principale al secondo piano. Il libro della Bennett arriva in libreria oggi, pieno di particolari che illuminano il mistero che circonda tanti dei comportamenti di Melania. Ma lo stesso libro è un piccolo mistero in sé e per sé: l'autrice non offre nessuna spiegazione per quella virgola fra Free e Melania. Molti infatti credevano che il titolo fosse semplicemente Free Melania, cioè «Liberate Melania». Con quella virgola il significato diventa enigmatico, quasi a sottolineare quanto lo stesso personaggio lo sia. L'autrice, Kate Bennett, segue la first lady da due anni, e ha già girato un documentario su di lei per la Cnn. Il libro non può essere definito un erudito saggio di storia, ma aiuta a spiegare tanti aspetti di questa first lady così privata come non se ne vedevano dagli anni Cinquanta. Tanto ama la sua privacy, Melania, che quando è stata malissimo per un problema renale, lo scorso maggio, ha voluto che si mantenesse il totale silenzio stampa. La sua assenza è stata però notata, le voci si sono intrecciate, sempre più intriganti, e solo in questo libro ora scopriamo che il problema che l'aveva portata in ospedale era tanto grave che era stata a un pelo dal perdere un rene. Proprio per questo suo desiderio di privacy, Melania non voleva che Donald corresse per la presidenza e la notte della vittoria invece di celebrare, pianse. Questi sono fatti noti. Ma pochi sanno che Melania ha imparato ad esprimere i propri sentimenti in modo meno evidente, parlando attraverso i suoi abiti. Quando la vedete indossare un tailleur pantalone ad esempio, significa che è in rotta con il marito. La disapprovazione di Donald per le donne in pantaloni è cosa risaputa, il suo desiderio di vederla sempre fasciata in abiti molto femminili e sexy lo è altrettanto, ed ecco che invece lei di quando in quando gli fa capire di essere irritata. Un altro trucchetto è di portare una giacca o un cappotto appoggiati sulle spalle, in modo che il marito non possa prenderla per la mano, senza che il cappotto scivoli per terra. Chi ricorda la camicetta di seta rosa che indossò la notte del dibattito con Hillary Clinton nell'ottobre del 2016? Solo poche ore prima era trapelato il nastro di Trump che si vantava volgarmente con un giovane giornalista che lui le donne le afferrava «per le parti intime», «by the pussy». La camicetta che Melania aveva scelto quella sera era per l'appunto una creazione Gucci, dal nome Pussy Bow Blouse. Non un caso, ma un modo intimo per esprimere con il marito la propria disapprovazione. E la famosa giacca verde soldato che scelse per andare a far visita al confine con il Messico e ai bambini degli immigrati? La giacca che aveva scritto sulle spalle «I really don't care, do u?» (In realtà non me ne importa nulla, e a te?) sarebbe stata una punzecchiatura contro la figliastra Ivanka, con la quale Melania ha un rapporto abbastanza gelido. Ivanka è una presenzialista, al contrario di Melania, e spesso si fa carico di missioni che dovrebbero essere invece prerogativa della first lady. E tuttavia è Melania la persona più popolare fra i Trump, anche se il suo tasso di approvazione è un po' sceso rispetto al primo anno. Proprio il fatto che non abbia voluto posizioni ufficiali nell'Amministrazione, come Ivanka e il marito Jared Kushner, le ha conservato un'aria di maggior indipendenza agli occhi di una buona parte del pubblico, anche perché si è allontanata dalle posizioni più discutibili del marito. Kate Bennett ci racconta che quando Melania ha scelto come propria attività di first lady la lotta al bullismo, il marito aveva fatto resistenza. Dopotutto, se c'è qualcuno che usa Twitter per attaccare, spesso con terminologia da bullo, è proprio il presidente. Ma Melania lo ha voluto a tutti i costi, per differenziarsi da lui. Peccato che l'iniziativa langua, e non sembri riscuotere il successo che le iniziative di altre first lady hanno ottenuto. Melania è la terza moglie di Trump, che l'ha sposata nel 2005. Nata in Slovenia, è emigrata negli Usa nel 1996, come modella. È diventata cittadina americana nel 2006. Da Trump ha avuto un figlio, Barron, che oggi ha 13 anni. A 49 anni, conserva una figura invidiabile e compare in pubblico sempre senza un capello fuori posto, anche perché alla Casa Bianca ha una palestra tutta sua, dove pratica pilates, e ha una glam room, dove ogni mattina si ferma per un'ora e mezzo interamente dedicata al parrucchiere, al makeup artist e a scegliere la mise del giorno.

Da marieclaire.com il 10 dicembre 2019. Forse nessun mandato presidenziale ha avuto dei risvolti così apertamente controversi, quasi una sceneggiatura da film, come quello di Donald Trump e famiglia. L’ultima notizia che sta rimbalzando ovunque riguarda Ivanka Trump, che non è (per ora) diventata presidente della Banca Mondiale come si ipotizzava a inizio 2019, che non ha cambiato idea sulla sua linea di abbigliamento per business woman, dalle vendite crollate dopo un picco post elezione del padre (e quindi in liquidazione). Non ha nemmeno indossato qualcosa di così particolare da far parlare di sé. Stavolta il binomio che sta occupando spazio sui quotidiani di tutto il mondo è Ivanka Trump Christopher Steele. E ora, chi è questo signore? A tutti gli effetti, James Bond in carne e ossa. Si tratta infatti di un ex membro del Secret Intelligence Service britannico, meglio conosciuto come M16, ed è l’autore del famoso dossier in cui si afferma che la Russia possiede informazioni compromettenti sul presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Per aggiungere benzina su una vicenda già scottante è saltato fuori, però, che un membro della famiglia Trump avrebbe avuto una relazione "personale" con questa ex spia britannica. E questa persona sarebbe Ivanka Trump. Secondo un rapporto stilato da Michael Horowitz (l’ispettore generale del Dipartimento di Giustizia) pubblicato da ABC News, Christopher Steele, 55 anni e faccia insospettabile, avrebbe incontrato la figlia del presidente degli Stati Uniti (attualmente sotto impeachment) e della prima moglie Ivana Trump, nel 2007 a una cena, quando lui lavorava nella sede russa del M16 e lei era dirigente senior della Trump Organization. Nota bene: nel rapporto di Horowitz non viene fatto il nome di Ivanka. È stata la ABC a tirarla in ballo liberamente, senza margine di dubbi. Dopo quell’evento di 12 anni fa, Ivanka Trump e la spia sarebbero rimasti “in contatto” per qualche tempo. Che tipo di contatto? E perché dovrebbe interessare a qualcuno? Visto che lo 007 è stato sentito dire di essere "favorevolmente disposto" nei confronti della famiglia Trump a causa della sua relazione con quel membro della famiglia, si tratterebbe di qualcosa di sentimentale, ma che va in conflitto con tutta la vicenda. Nel 2009 Ivanka Trump ha sposato l’imprenditore Jared Kushner, con cui ha avuto tre figli, ma pare che il contatto fra lei e Christopher Steele, anche solo di amicizia, non si sia mai interrotto. Almeno, ufficiosamente. Se questa faccenda apre il capitolo "l'amante di Ivanka Trump", ancora non si sa. Steele ha dichiarato di aver fatto visita a Ivanka alla Trump Tower, di avere avuto un rapporto "amichevole" con lei per "alcuni anni", intendendo chiaramente una relazione "personale". Secondo il rapporto di Horowitz, l'ex spia britannica ha regalato alla Trump anche un tartan di famiglia portato dalla Scozia, in omaggio alle origini del presidente la cui madre, Mary Ann Macleod, era un’emigrata dall’isola scozzese di Tong. Il problema è che il presidente stesso, su Twitter, dopo l’esito del dossier Steele e prima della pubblicazione del rapporto Horowitz, ha dichiarato tutto il contrario. Ovvero che Christopher Steele nutriva dei pregiudizi verso di lui. La fiducia della famiglia presidenziale verso questo ex agente inglese, invece, era tale che Ivanka Trump avrebbe discusso la possibilità di avvalersi dei servizi di Orbis Business Intelligence, la società di proprietà di Steele. Cosa comporterà tutto questo? Certamente, anche se i legali dello 007 sono già partiti a difenderne la professionalità, ora si reputa che l’FBI abbia posto troppa enfasi sul dossier di Christopher Steele, che a questo punto sarebbe viziato da una carenza di obiettività, visto il coinvolgimento personale. Poi, c’è un problema di credibilità. Su Twitter, come già detto, il presidente ha chiamato Steele “spia fallita” e “phony”, il termine con cui in inglese si intende, con libera traduzione, un "bugiardo cialtrone". Ha finto di non avere confidenza con lui, mentre si trattava di una habitué del sua famoso grattacielo newyorchese. Nessuno, né The Donald, né la figlia, all’uscita del rapporto sulla Russia ha mai fatto menzione del legame con l’agente. Come mai? Saranno le indagini successive a fare chiarezza in questa ingarbugliata a faccenda, che avrebbe fornito quintali di spunti persino a Ian Fleming.

Da repubblica.it il 12 dicembre 2019. La pecora argali è il tesoro nazionale della Mongolia ed è anche un animale a rischio estinzione. Per questo, sacro e inviolabile. Non si può cacciare. Ma il figlio di Donald lo ha fatto. Legalmente. Glielo ha concesso il governo mongolo con una deroga emessa dopo avere incontrato il papà presidente. E' successo quest'estate durante una battuta di caccia nel Paese asiatico. Lo svela il sito di informazione ProPublica. Trump figlio nel viaggio era accompagnato dai servizi di sicurezza sia americani che mongoli. La pecora argali, con le sue grandi corna, è protetta dalla legge, e il permesso di ucciderla è "controllato da un sistema di autorizzazioni opaco, che secondo gli esperti si basa principalmente su denaro, conoscenze e politica". Da quando Donald Jr è partito a quando è stato emesso il permesso, è trascorso un mese, durante il quale sembra che il presidente americano, riferisce ProPublica, si sia incontrato con il collega mongolo, Khaltmaagiin Battulga, che probabilmente ha avuto un occhio di riguardo per il prestigioso cacciatore di frodo. "Trump Jr ha sparato agli argali di notte, usando un fucile con il mirino a laser", hanno detto dei testimoni, secondo quanto riportato da ProPublica. "Ha però impedito alle guide locali di smembrare le pecore, istruendole invece su come trasportare il corpo dell'animale utilizzando fogli di alluminio, per non danneggiare pelliccia e corna", ha affermato Khuandyg Akhbas, una delle guide locali. Ha anche ucciso un cervo. Le leggi americane sull'importazione di trofei di caccia sono abbastanza ambigue e in continuo divenire. Il presidente stesso si è detto stanco di queste pratiche di caccia da "horror show", nonostante entrambi i suoi due figli maschi siano cacciatori convinti e anche molto contestati. Le loro foto di caccia grossa in Zimbabwe nel 2012, allegramente postate sui social, scatenarono un'ondata di polemiche e indignazione. Infatti, stavolta, Donald Jr ha pubblicato foto del viaggio in Mongolia, ma nessuna immagine della pecora uccisa. 

Paolo Mastrolilli per “la Stampa” il 4 dicembre 2019. C'era una volta l'amicizia tra Emmanuel e Donald, la gara a chi stringeva la mano più forte, la cena a lume di candela sulla Tour Eiffel con Brigitte e Melania. Magari era tutta ipocrisia, però serviva a tenere unite le due sponde dell' Atlantico. Ieri a Londra è stata sostituita dall'acrimonia, e con la Gran Bretagna in procinto di Brexit, e la Germania indebolita dal tramonto di Merkel, a rimetterci rischia di essere l' intera Europa, e non solo per i dazi che Trump minaccia di imporre alla Francia, ma anche all' Italia. Lo scontro infatti riguarda i commerci, il destino dei terroristi in Siria, la Russia, il futuro stesso della Nato. La tensione è calata soltanto in serata quando Trump, con Giuseppe Conte al suo fianco, ha dato un passaggio sulla Beast a Macron. Il capo della Casa Bianca si è presentato lunedì al vertice agitando tariffe del 100% sulle esportazioni di prodotti francesi per 2,4 miliardi di dollari. La proposta è stata fatta come ritorsione contro la digital tax di Parigi, accusata di penalizzare le multinazionali americane come Google, Apple, Amazon e Facebook. Le tariffe colpirebbero 63 categorie di prodotti, dal formaggio al vino, ed entrerebbero in vigore non prima della metà di gennaio. Ciò darebbe il tempo di negoziare un compromesso. Washington, però, ha minacciato ritorsioni simili anche contro Italia, Austria e Turchia, perché hanno tasse digitali analoghe a quelle francesi. A margine del G7 di Biarritz, Trump e Macron avevano raggiunto un compromesso che sembrava aver congelato la crisi. Parigi si era impegnata a rimborsare le tasse raccolte dalle aziende americane, se avessero superato gli importi di un' imposta digitale globale da negoziare in seno alla Ocse. Gli Usa ora hanno deciso di accelerare, perché non vedono progressi sufficienti. Trump ha iniziato ad attaccare Macron dalla colazione di ieri col segretario della Nato Stoltenberg, definendo «nasty» (cattiva) l' accusa del francese secondo cui l'Alleanza è vicina alla morte cerebrale: «Ha insultato 28 paesi, e nessuno ha più bisogno della Nato della Francia». Poi è passato a umiliarlo: «In Francia l' economia non va bene, perciò ha pensato di tassare le aziende straniere. Io non amo Facebook, Google e compagnia, perché sono contro di me, ma sono compagnie americane e dobbiamo tassarle noi». Ha ripetuto le critiche ai Paesi che non investono il 2% del pil nella Difesa, dicendo che dovrebbero salire al 4%, e ha messo in discussione la volontà di applicare l' Articolo 5 della Nato per la difesa reciproca. Invece ha difeso la Turchia, che «ha acquistato i missili S-400 dalla Russia perché Obama non le ha permesso di comprare i Patriot». Si è tenuto alla larga dalle elezioni britanniche, per paura di danneggiare Boris Johnson. Sulla Cina ha scosso i mercati, avvertendo che «potrebbe convenirmi di rimandare l' accordo commerciale a dopo le elezioni», forse perché spera che la determinazione contro Pechino gli faccia guadagnare voti. Lo scontro tra Emmanuel e Donald è proseguito nel faccia a faccia. «La mia dichiarazione - ha detto il francese - ha fatto discutere, ma non la ritiro. Quando discutiamo di Nato parliamo solo di soldi, mentre dovremmo discutere di strategia». Trump allora lo ha attacco per la resistenza a rimpatriare i terroristi partiti dall' Europa: «Vuoi un po' di combattenti dell' Isis? Ne abbiamo tanti». Macron ha risposto scuro in volto: «Cerchiamo di essere seri. I terroristi stranieri sono una minoranza. Il vero problema è la situazione nella regione. Non abbiamo nemmeno la stessa definizione di terrorismo, quando vedo la Turchia che combatte contro coloro che hanno combattuto con noi», cioè i curdi. Sui dazi Donald minimizza: «Abbiamo una piccola disputa, possiamo superarla». Allora Emmanuel ha rilanciato: «Così non si attacca la Francia, ma l' Europa. Cosa fai con la Gran Bretagna, che ha la stessa tassa? E l' Italia, l' Austria, la Spagna? Io voglio solo ristabilire la giustizia». Anche sulla Russia Macron ha dribblato: «Serve il dialogo, ma senza ingenuità».

Da repubblica.it il 4 dicembre 2019. "La crescente influenza della Cina e le sue politiche rappresentano opportunità e sfide che la Nato deve affrontare insieme". È questa in estrema sintesi la dichiarazione finale congiunta dei 29 leader riuniti a Londra per il vertice dei settant'anni dell'Alleanza atlantica. Il segretario generale Jens Stoltenberg ha sottolineato l'impegno "senza precedenti" per l'incremento delle risorse da destinare alla Difesa: "Siamo determinati a condividere i costi e le responsabilità della nostra sicurezza". Tra le linee guida anche la necessità di aumentare il dialogo con la Russia. I 29 Paesi, sancisce la dichiarazione finale, "riaffermano il legame transatlantico duraturo tra Europa e Nord America, la nostra aderenza agli scopi e ai principi della Carta delle Nazioni Unite e il nostro solenne impegno sancito dall'articolo 5 del Trattato di Washington che un attacco contro un Alleato deve essere considerato un attacco contro tutti noi.

Il video che offende Trump. Il presidente Usa Donald Trump si è detto soddisfatto dell'incontro ma, alla fine, ha cancellato la conferenza stampa prevista. "Torneremo a Washington direttamente. Penso che abbiamo già fatto diverse conferenze stampa, a meno che non vogliate una conferenza stampa, allora ne facciamo una, ma credo che abbiamo già risposto a tante domande", ha detto durante un incontro con il cancelliere tedesco, Angela Merkel. Un annuncio polemico che arriva dopo che la l'uscita di un video in cui, prima di un ricevimento a Buckingham Palace offerto ieri sera dalla regina Elisabetta a Buckingham Palace, il primo ministro canadese, Justin Trudeau, quello olandese Mark Rutte, il presidente francese, Emmanuel Macron, il primo ministro britannico, Boris Johnson e la principessa Anna apparentemente ridicolizzano Trump e il suo staff. Nel video si sente Johnson chiedere a Macron il motivo del suo ritardo, ma il presidente francese non ha il tempo di rispondere e viene interrotto da una battuta di Trudeau: " È in ritardo perché ha avuto una conferenza stampa fuori programma di 40 minuti", dice il canadese ridendo, riferendosi agli incontri fiume di ieri del presidente Usa con Macron e la stampa. L'audio non è più comprensibile, ma poi Trudeau insiste: "Dovevate vedere la faccia dello staff, erano a bocca aperta con le mascelle a terra". Il siparietto dura ancora qualche secondo, con i quattro leader che sorridono divertiti. Oggi però Boris Johnson ha tagliato corto sull'ipotesi che anche lui si stesse facendo beffe di Trump: "Sono assurdità: non so chi le abbia messo in giro". Rispondendo ad una domanda sul video, Trump ha definito il pm canadese un falso.

La posizione degli Stati Uniti. "L'Alleanza è più forte che mai" ha detto il presidente degli Stati Uniti, minacciando però non meglio specificate ritorsioni commerciali nei confronti della Germania, se Berlino non aumenterà le sue spese militari. "Sono stati fatti grandi progressi dalla Nato negli ultimi tre anni, altri Paesi oltre gli Stati Uniti hanno acconsentito a pagare 130 miliardi di dollari in più all'anno, e per il 2024 saranno 400 miliardi. La Nato sarà più ricca e forte che mai prima d'ora". Lo ha sottolineato il presidente americano Donald Trump su Twitter, riferendo di aver avuto incontri con Turchia, Germania, e poi Danimarca e Italia. Trump, al termine di un incontro a porte chiuse di mezz'ora con Recep Tayyip Erdogan, ha elogiato il collega turco per il "buon lavoro" di Ankara come membro Nato. Un portavoce della presidenza turca ha dichiarato su Twitter che è stato "un incontro molto produttivo". La Casa Bianca ha confermato il bilaterale. Erdogan aveva minacciato prima dell'incontro di bloccare i piani della Nato per la difesa di Polonia e Paesi baltici se l'Alleanza atlantica non avesse riconosciuto la minaccia terroristica posta dalle Unità di protezione del popolo curdo (Ypg) nel nord-est della Siria.

Il tycoon loda il premier Conte. "Un uomo molto popolare, un grande amico, che sta facendo un fantastico lavoro". Così Trump ha definito Giuseppe Conte. L'avvocato e il tycoon si sono incontrati a margine del vertice Nato nel resort di Watford. Sul vertice aleggiava la minaccia di Trump di imporre nuovi dazi agli europei ("non mi aspetto dazi", ha detto Conte) come rappresaglia alla web tax e anche una frase, riferita in mattinata ai giornalisti americani dal tycoon, sul fatto che l'Italia sembrava non essere più intenzionata a procedere con il 5G di Huawei". Su entrambi i dossier Conte ha ostentato sicurezza, in particolare sulla tecnologia cinese, smentendo tra l'altro di aver mai affrontato il tema con il tycoon. E chiarendo poi, durante il bilaterale, la posizione italiana. "Gli ho detto che abbiamo una legislazione tra le più avanzate d'Europa che sarà un modello per gli altri. Applicheremo quella normativa e quei controlli e questo ci garantirà per quanto riguarda la protezione di tutti gli asset strategici e da qualsiasi pericolo sul piano della cybersecurity". Con l'inquilino della Casa Bianca Conte ha poi parlato a lungo di Libia, senza risparmiare una stoccata a Macron. "Ho richiamato la sua sensibilità per una soluzione politica per la quale ci battiamo", ha detto, aggiungendo poi che Trump "è molto attento, sa che noi conosciamo molto bene il dossier e che a dispetto di quello che altri rappresentano la nostra conoscenza del territorio, anche ormai datata, ci consente di fare delle valutazioni più accorte e più attente, più sostenibili anche in prospettiva futura".

Il segretario Stoltenberg: "L'alleanza non è morta". In apertura del vertice il segretario generale Jens Stoltenberg aveva smentito il presidente francese, Emmanuel Macron, che nei giorni scorsi aveva definito l'Alleanza atlantica in stato di "morte cerebrale": "Non è questo il caso - ha detto - la Nato è l'alleanza di maggior successo nella storia perché siamo stati in grado di cambiare più e più volte quando il mondo è cambiato". Ieri il presidente Usa Donald Trump aveva criticato il capo dell'Eliseo: "Penso che sia stato molto offensivo. Sono rimasto molto sorpreso, è stato irrispettoso".

Boris Johnson: "Solidarietà e unione". Il premier britannico Boris Johnson in apertura dei lavori ha richiamato i membri dell'Alleanza atlantica, fondata nel 1949 per difendere l'Occidente dalla minaccia sovietica, all'unità: la Nato ritrovi lo spirito di concordia che le ha permesso d'essere "per 70 anni un gigantesco scudo di solidarietà". Durante l'incontro che si svolge a Watford, alle porte di Londra, il premier tory ed euroscettico ha affermato: "Fino a quando stiamo uniti nessuno può sperare di sconfiggerci e quindi nessuno inizierà una guerra". "Se la Nato ha un motto, esso è: uno per tutti e tutti per uno". E ha citato l'articolo 5 come "principio essenziale" dell'Alleanza: "Se uno di noi è attaccato, tutti noi andremo in sua difesa". Johnson ha rivendicato inoltre il ruolo del Regno Unito come partner chiave della Nato e per la sicurezza anche del Vecchio continente: "Noi spendiamo oltre il 2% del Pil per la difesa", ha ricordato indicando il traguardo fissato per tutti gli alleati e sollecitato con forza dagli Usa di Donald Trump, e "siamo il maggior contributore fra gli alleati europei della Readiness Initiative della Nato per la quale abbiamo offerto una brigata corazzata, due squadroni di caccia e sei navi da guerra inclusa una portaerei della Royal Navy".

“La democrazia è in pericolo, non abbiamo scelta”: Pelosi sferra l’impeachment a Trump. La speaker del Congresso in diretta tv annuncia che il voto della Camera è inevitabile; poi replica a giornalista che le chiedeva se odiasse Trump. La Voce di New York il 06 Dicembre 2019. “Ha violato la costituzione, la nostra democrazia è in pericolo, il presidente non ci lascia altra scelta che agire”. Con  queste gravi parole, la speaker del Congresso Nancy Pelosi, ha detto in un solenne discorso al popolo americano, pronunciato in diretta tv giovedì, che il presidente Donald Trump deve essere messo in stato di accusa. Dopo aver spiegato lo spirito con cui i padri fondatori degli Stati Uniti scrissero la Costituzione, la leader dei democratici ha detto che i fatti sono “incontestabili, il presidente ha abusato del suo potere per beneficio personale a spese della sicurezza nazionale”. Trump, ha cercato,  “di corrompere le elezioni a suo vantaggio”, e quindi la Camera dovrà votare l’impeachment.  “In America nessuno è al di sopra alla legge, il presidente non è al di sopra della legge… Oggi chiedo ai nostri presidenti delle commissioni di procedere con gli articoli di impeachment”, ha detto la speaker democratica e ora questo annuncio rende probabile che l’impeachment, con il voto della Camera, possa avvenire prima di Natale, con l’inizio del conseguente “processo del presidente” al Senato già a gennaio. Mentre i democratici hanno una solida maggioranza alla Camera, al Senato la maggioranza è dei repubblicani, Trump dovrebbe quindi alla fine del “processo” essere assolto se il GOP resterà unito nel difenderlo anche se prove schiaccianti del suo “tradimento della Costituzione” dovessero essere presentate ai senatori durante il procedimento. Prima però alla Camera i democratici voteranno gli articoli dell’impeachment messi a punto dalla commissione giustizia entro due settimane, proprio prima della chiusura del Congresso per le vacanze di Natale.

Pelosi, ad una conferenza stampa tenuta dopo il suo discorso sull’impeachment, è stata protagonista di un alterco con un giornalista che, mentre stava uscendo dalla sala, le ha chiesto se “odiasse Trump”. Pelosi ha risposto (con il solito ditino alzato sinistroide nda) : “Io non odio nessuno” e tornando al microfono ha poi continuato: “Penso che il presidente sia un vigliacco quando si tratta di andare in soccorso dei nostri ragazzi spaventati dalla violenza delle armi. Penso che sia crudele quando si rifiuta di aiutare i dreamer – i figli d’immigrati illegali arrivati da piccoli negli Stati Uniti –  Penso che sia lui a negare l’esistenza di un problema climatico… Qui stiamo parlando di elezioni, di Costituzione degli Stati Uniti e del fatto che il presidente ha violato il giuramento del suo ufficio. E come cattolica, mi amareggia che lei possa usare la parola ‘odio’ in una frase rivolta a me. Io non odio nessuno. Io semmai prego per il Presidente degli Stati Uniti…. Quindi, stia attento a come si rivolge a me usando parole come quella”.

Pelosi è apparsa turbata e il presidente Trump, in un twitter, l’ha subito accusata di avere avuto una crisi di nervi e di mentire quando dice che lei “prega per lui”. In un seguente intervento televisivo con la CNN, la speaker Pelosi ha continuato il suo duello a distanza con Trump. Quando le è stato chiesto di commentare le accuse del presidente nei suoi confronti dopo quel suo sfogo con il giornalista, la speaker ha detto: “Il presidente Trump è un maestro nel proiettare le sue paure. Dice a qualcuno che ha una crisi di nervi, perché è lui che sta avendo una crisi di nervi; quando sospetta che qualcuno non prega, perché è lui che probabilmente non prega”.

Impeachment, per Trump accuse di abuso di potere e ostruzione al Congresso. Pubblicato martedì, 10 dicembre 2019 da Corriere.it. Abuso di potere e ostruzione del Congresso sono i due «articoli» che saranno messi al voto per l’impeachment di Donald Trump nella vicenda dell’ Ucrainagate: lo ha annunciato il presidente della commissione giustizia Jerrold Nadler, sostenendo che il presidente ha messo se stesso davanti al paese minacciandone la sicurezza, corrompendo le elezioni e violando la costituzione. È la terza volta nella storia degli Usa che vengono proposti capi di imputazione per la messa in stato d’accusa del presidente. Dalle indagini alla Camera su Donald Trump sono emerse «prove schiaccianti e incontestabili, non ci ha lasciato altra scelta»: lo ha detto il presidente della commissione intelligence Adam Sxchiff che ha coordinato le indagini dei dem. «Ha cercato aiuto dal’Ucraina per i suoi interessi personali, essere rieletto, e non per il bene del Paese. E la sua cattiva condotta continua ancora in questi giorni», ha aggiunto Schiff. La risposta del presidente americano è arrivata su Twitter: «Mettere in stato d’accusa un presidente che tramite risultati, compresa la realizzazione dell’economia forse più forte della storia del nostro Paese, ha provato di avere una delle presidenze più di successo di sempre, e cosa più importante, che non ha fatto NIENTE di sbagliato, è una assoluta Follia Politica!». Così il presidente Donald Trump, ha scritto su Twitter utilizzando l’hashtag "Elezioni 2020".

Impeachment, le accuse a Trump: abuso di potere e ostruzione al Congresso. I democratici hanno presentato i due articoli di accusa contro Donald Trump alla base dell'impeachment. La replica del tycoon: "Pura follia politica". Roberto Vivaldelli, Martedì 10/12/2019, su Il Giornale. I democratici hanno annunciato in conferenza stampa i due articoli d'accusa per l'impeachment ai danni del Presidente Donald Trump: il tycoon è accusato di "abuso di potere" e "ostruzione del Congresso". Come spiega l'Agi, la procedura di impeachment dei confronti di Donald Trump entra in una fase cruciale.

"Non parteciperemo alle udienze". I membri dell'aula esprimeranno il loro parere sugli articoli per la messa in stato di accusa del presidente americano, che per i democratici ha fatto pressione sull'Ucraina per ottenere un vantaggio personale in vista delle presidenziali 2020. Per l'approvazione serve la maggioranza semplice dei voti: essendo i membri 435, basterà la metà più uno, 218. Alla Camera i democratici detengono la maggioranza con 233 voti, contro i 197 dei repubblicani. Viceversa, al Senato, dove servirebbe una maggioranza di due terzi per cacciare Trump, sono in maggioranza i repubblicani: 52 a 48. Nel caso di impeachment di Bill Clinton, per esempio, 31 democratici alla Camera si schierarono con i repubblicani, con il risultato che Clinton venne comunque assolto da tutte le imputazioni. I democratici Usa hanno cominciato a valutare l'ipotesi di presentare una richiesta di impeachment nei confronti del Presidente Donald Trump dopo che quest'ultimo ha ammesso di aver parlato con il neo-leader ucraino Volodimir Zelensky dell'ex vice presidente americano e candidato democratico alla Casa Bianca Joe Biden in una telefonata dello scorso 25 luglio. Lo stesso presidente, tuttavia, sempre ha negato di aver fatto pressioni sul leader ucraino, nonostante la denuncia presentata dal whisteblower della Cia. È tuttavia improbabile, vista la maggioranza dei repubblicani al Senato, che il Presidente Donald Trump venga destituito: membri Gop che, in queste settimane, hanno fatto quadrato attorno a The Donald. Il Presidente Usa passa all'attacco: "L'impeachment di un Presidente che ha provato con i suoi risultati, fra cui produrre l'economia probabilmente più forte della storia del nostro paese, di avere la presidenza più di successo di sempre e, più importante ancora, di non aver fatto nulla di sbagliato, è pura follia politica!", ha twittato Trump. Adam Schiff ha parlato dopo Jerry Nadler, spiegando che il Congresso non ha avuto altra scelta che perseguire l'impeachment rapidamente perché le elezioni del 2020 sono tra un anno. Schiff, che è presidente della commissione intelligence della Camera e ha guidato gran parte dell'indagine, ha definito l'impeachment "un rimedio straordinario". Trump, ha osservato Schiff, "non ci ha dato scelta. Non fare nulla ci renderebbe complici dell'abuso del presidente e del suo ufficio". La replica di The Donald non si è fatta attendere e su Twitter ha bollato le accuse dei democratici come una "caccia alle streghe". "Nadler ha appena detto che ho fatto pressioni sull'Ucraina affinché interferisse nelle nostre elezioni del 2020. Ridicolo, e sa che non è vero. Sia il presidente che il ministro degli esteri ucraino hanno detto, molte volte, che non c'era alcuna pressione Nadler e i Dem lo sanno, ma si rifiutano di riconoscerlo!" ha osservato Trump.

La farsa dell'impeachement e l'incontro Trump-Lavrov. Piccole Note de Il Giornale l'11 dicembre 2019. Sono stati annunciati i capi di imputazione contro il presidente degli Stati Uniti: abuso di potere e ostruzione alla giustizia. L’impeachement s’impenna. Tutto ruota attorno a una telefonata tra Trump e Zelensky, nella quale il presidente americano ha chiesto al suo omologo ucraino di indagare su due fronti. Anzitutto su Hunter Biden, figlio del più accreditato candidato alla Casa Bianca per i democratici, Joe Biden. Ma soprattutto sulla genesi del Russiagate, cioè le asserite ingerenze russe in favore di Trump alle presidenziali del 2016, che il presidente (e non solo lui) reputa sia una montatura ad opera dei suoi nemici nella quale l’Ucraina avrebbe avuto un ruolo cruciale; qui sarebbe nascosto il server utilizzato dagli asseriti troll russi pro-Trump. La procedura di impeachement prevede che la Camera prima e il Senato poi svolgano inchieste per verificare la fondatezza di eventuali accuse contro il presidente, per poi sottoporle al voto. Due inchieste indipendenti, dunque, così quello cui abbiamo assistito è stato solo il primo round, quello svolto alla Camera, controllata dal partito democratico.

Procedura anomala. A differenza di quanto accadde per Richard Nixon e Bill Clinton, la presidente della Camera, Nancy Pelosi, ha avviato l’impeachement senza un voto previo dell’assise, incaricando delle indagini diverse Commissioni, sotto la supervisione della Commissione intelligence. I testimoni sono stati così esaminati a porte chiuse, per verificare se le accuse avessero fondamento. Ciò secondo la versione ufficiale, secondo i sostenitori del presidente, invece, tale procedura segreta è servita a selezionare testimoni e documenti, scartando quelli a favore di Trump, che in quella sede non aveva nessuna possibilità di difesa. Al termine delle indagini preliminari, la Commissione intelligence ha redatto il suo atto di accusa inviandolo alla Commissione giustizia della Camera, che ha chiamato a pubbliche audizioni i testimoni “selezionati” nel segreto. A fronte di una procedura alquanto anomala, Trump ha deciso di non difendersi neanche durante le audizioni pubbliche, limitandosi a denunciare la faziosità del procedimento.

L’impeachement non ha i voti né li sposta. Terminate la audizioni, ieri la formalizzazione delle accuse da parte della Commissione giustizia della Camera. Alquanto scontata la condanna successiva di tale ramo del Congresso, ma poi la palla passerà al Senato, controllato dai repubblicani, che quindi avranno modo di gestire il procedimento e di portare prove e testimoni a discarico del presidente. Non solo: perché il presidente sia dichiarato decaduto, la condanna deve ottenere i tre quarti dei voti dei due rami del Congresso. Al Senato ciò appare impossibile, dato che dovrebbero “tradire” più della metà dei senatori repubblicani. Insomma, tanto fumo e poco arrosto, che peraltro non sembra poter incrinare l’immagine di Trump in vista delle presidenziali, come speravano i democratici. I sondaggi, infatti, indicano che l’impeachement non sposta voti. Lo rivela, tra gli altri, un articolo del Washington Post, peraltro schierato apertamente contro Trump e per l’impeachement (vedi editoriale), in un articolo dal titolo significativo: “L’ossessione per l’impeachment dei democratici è controproducente”.

Di abusi e rimedi. Tanto fumo, che ha offuscato i fatti. Nella telefonata incriminata Trump non chiede a Zelensky di indagare su Hunter Biden, in realtà chiede se si può riavviare un’inchiesta che Biden padre avrebbe bloccato, abusando della sua posizione di vice-presidente Usa (ne ha fatto pubblico vanto, vedi video). L’abuso, se c’è stato, non è di Trump, ma del suo predecessore. Il presidente ha semplicemente chiesto di porvi rimedio.

Non solo, anche la richiesta di verificare una possibile montatura riguardante la vicenda Russiagate, non è affatto abuso di potere, ma anzi è tesa a verificare se sia esistita una macchinazione contro gli Stati Uniti. Certo, ambedue le richieste erano  interessate, ma avevano un’oggettiva legittimità. Era, e resta, nell’interesse degli Stati Uniti chiarire le questioni, ma l’impeachement ha bloccato tutto. Di fatto, è stata una mossa difensiva camuffata da attacco.

Di rivoluzioni colorate e summit oscurati. Molto interessante anche un altro passaggio della telefonata, quello riguardante l’ex ambasciatrice Usa in Ucraina Marie Yovanovitch, testimone chiave dell’impeachement. Al telefono, Zelensky spiega che era ” una nefasta ambasciatrice […]. Il suo atteggiamento nei miei confronti era tutt’altro che il migliore in quanto ammirava il precedente presidente (Petro Poroschenko) ed era dalla sua parte. Non mi accetterebbe come nuovo presidente”. D’altronde la donna fu mandata come ambasciatrice in Kirgizistan il 4 febbraio 2005 e un mese dopo iniziò la rivoluzione colorata che travolse l’ex Paese sovietico (rivoluzione dei tulipani). Si spiega così l’ostilità verso Zelensky, il quale sostiene la necessità di una riconciliazione con Mosca, chiudendo di fatto la stagione della rivoluzione colorata di piazza Madan. Cenno che denota la lotta politica, e geopolitica, sottesa all’impeachement…Peraltro è significativo che l’accusa di Trump sia stata formalizzata nello stesso giorno in cui il presidente, a sorpresa, incontrava alla Casa Bianca il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. Summit di rilievo per la distensione internazionale, che l’annuncio dell’impeachement ha totalmente oscurato. Non certo a caso.

Federico Rampini per “la Repubblica” il 19 dicembre 2019. Donald Trump entra nella storia come il terzo presidente degli Stati Uniti ad aver subito l' impeachment in due secoli e mezzo. Il Congresso di Washington scrive una pagina infame, in un giorno tragico per l'America. «Non ci ha lasciato altra scelta», dice in tono grave e solenne la presidente della Camera, la democratica Nancy Pelosi. I due capi d' accusa con cui è stato incriminato sono l' ostruzione al Congresso e l' abuso di potere: Trump minacciò di sospendere gli aiuti militari all' Ucraina, necessari per difenderla dalla Russia, finché non otteneva dal governo di Kiev un aiuto contro il proprio avversario politico Joe Biden (ex vicepresidente con Barack Obama, oggi candidato alla nomination democratica per l' elezione presidenziale del 2020). Per i democratici, che hanno la maggioranza alla Camera, queste sono violazioni della Costituzione per le quali l' impeachment è doveroso. Trump ha reagito accusando Pelosi e il suo partito di "tentato colpo di Stato". Il partito repubblicano ha fatto quadrato attorno a lui. La votazione in seduta plenaria alla Camera ha visto quasi tutti i deputati schierati in base alla disciplina di partito: due blocchi compatti e contrapposti. È l'immagine di un' America che sprofonda in una crisi istituzionale drammatica, di cui l' impeachment è solo un aspetto. Altrettanto preoccupante è la lettura divergente della Costituzione da parte dei due partiti storici, l' incapacità di riunirsi in difesa di valori comuni, la rinuncia a cercare convergenze in nome dell' interesse nazionale. E questo non accade solo nel mondo della politica. I sondaggi dicono che la società civile assomiglia allo spettacolo offerto dal Congresso. Due Americhe si fronteggiano. Quasi la metà dei cittadini pensa che alla Casa Bianca ci sia un criminale colpevole di aver violato la Costituzione, indegno di rappresentare la nazione e di governarla. L' altra quasi-metà pensa che l' impeachment sia una rivalsa politica, una vendetta di parte, il tentativo fazioso di cancellare l' elezione del 2016. I media si sono adeguati da tempo, o forse hanno preceduto e alimentato la spaccatura del paese: i notiziari di Cnn e Msnbc sono colpevolisti da mesi, come lo furono un anno prima per l' indagine Mueller sul Russiagate (in quel caso l' accusa era di collusione Trump-Putin); la Fox News di Rupert Murdoch dà credito alla congiura di sinistra che insegue una scorciatoia giudiziaria per rifarsi di aver perso la Casa Bianca. La più antica e potente delle liberaldemocrazie occidentali sprofonda in una crisi che non è solo politica e costituzionale, ma investe il patto di cittadinanza, il discorso pubblico, lo spazio di un dialogo civile. In questo senso non reggono i paragoni con lo scandalo Watergate, che nel 1974 costrinse Richard Nixon a dimettersi ancor prima che il Congresso procedesse a destituirlo: allora c'erano tante crisi di coscienza nel partito del presidente; c' erano media rispettati come arbitri imparziali. Qualche affinità c' è invece con la vicenda di Bill Clinton, che vent' anni fa subì l' impeachment ma evitò la condanna finale: allora apparvero i germi di una polarizzazione estrema, di una faziosità che è stata paragonata a una guerra civile "a bassa intensità", un divorzio valoriale sempre più insanabile tra le due Americhe. La seconda puntata di questa tragedia va in scena al Senato a gennaio. Anche in quel caso il copione è già scritto. In quel ramo del Congresso sono i repubblicani ad avere la maggioranza. Al momento non c' è ragione di pensare che verrà meno la compattezza della destra. Quindi mancherà quella maggioranza qualificata - due terzi - necessaria perché il presidente incriminato venga condannato, rimosso dall' incarico e sostituito dal vicepresidente. Trump è riuscito in un miracolo, dall' estate del 2015 in cui ufficializzò la sua candidatura: all'inizio venne trattato come un improbabile outsider, un corpo estraneo, irriso o condannato dall' establishment. Oggi ha ridotto il partito repubblicano a docile strumento; la destra "moderata e rispettabile", quella tradizione repubblicana che si rifà a figure come Abraham Lincoln e Teddy Roosevelt, o più di recente Ronald Reagan e Bush padre, sembra svanita. Trump, pur rimanendo un leader "di minoranza", che non ha mai raggiunto il 50% dei consensi, ha coagulato una nuova base sociale che non sembra disposta a mollarlo. Chi lo votò nel 2016 guarda alla buona salute dell' economia, alle misure prese per castigare la Cina o per limitare l' immigrazione, e potrebbe ri-votarlo il 3 novembre 2020. Il tribunale che conta, alla fine sarà quello. Tra Camera e Senato avremo un pareggio annunciato, come da copione. L' incertezza riguarda l' impatto del processo politico sugli elettori. I candidati democratici incolleranno a Trump l'etichetta infame del presidente-incriminato. Lui si farà forte della non-condanna al Senato per atteggiarsi a vittima. I repubblicani si dicono fiduciosi e ricordano quel che accadde a Bill Clinton, paradossalmente reso più popolare dall' impeachment sul caso Monica Lewinsky. Sembra esserci più incertezza fra i democratici, dove la leadership moderata fino a pochi mesi fa tentò di non imboccare la via giudiziaria contro il presidente. In quella frase di Nancy Pelosi - "Non ci ha lasciato altra scelta" - si potrebbe leggere quasi il presagio di una trappola? A Trump sono stati attribuiti reati fiscali e sessuali, violazioni di ogni sorta di leggi, nonché flagranti conflitti d' interessi. Alla fine l' impeachment lo incrimina "solo" per aver tentato di farsi rieleggere con l' aiuto di un governo straniero; potrebbe riuscirci anche senza. 

Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 19 dicembre 2019. "In realtà non è con me che ce l'hanno, è con voi", dice un meme della campagna di Donald Trump, a riassumere l'intera faticosa vicenda. Ieri sera alla Camera Bassa, il cosiddetto Congresso, i democratici in cerca di autore per le elezioni del 2020 hanno realizzato un progetto folle e disperato che perseguivano dalla primavera del 2016, (vedi "Politico"), ovvero da quando Donald Trump non era ancora neanche il candidato prescelto dai repubblicani per quelle presidenziali, e di cavilli non ne avevano trovati, ma li andavano già cercando. Si chiamano pretesti esterni, non ce la fai a contrastare con l'agenda politica e la forza dei leader l'avversario, e allora ti inventi il crimine. Funziona in tutto il mondo purtroppo attualmente, o meglio ci provano a farlo funzionare, dalle navi bloccate nei porti di Matteo Salvini, che pure oggi sta all'opposizione, all'ostruzione al Congresso di Donald Trump, il capo di Stato più potente del mondo. Nel frattempo infatti Trump è un presidente di grande successo economico e diplomatico, che con tutta probabilità sarà riconfermato nel novembre del 2020,e il tentativo di impeachment per abuso di potere e ostruzione al Congresso non solo è sembrato ai democratici in cerca di autore un modo per tirare avanti, coprire la debolezza letargica dei suoi candidati, Bloomberg compreso, l'estremismo di altri, Warren in testa, forse ad evitare il ritorno di Hillary sulla scena del delitto, magari per provare a riprendersi nelle prossime elezioni perlomeno il controllo strategico del Senato, tirandolo nei prossimi mesi a cimento sulla questione dell' impeachment. Vedremo. Alla fine di una giornata nella quale il voto sull'impeachment, essendo i democratici in maggioranza al Congresso, era scontata, la speaker Nancy Pelosi si è rifiutata di rispondere alla questione fondamentale dell'invio della pratica al Senato, sede naturale dell'eventuale processo. Quando fu il turno dell' impeachment per Bill Clinton, finito nel nulla, i repubblicani spedirono la documentazione alla Camera Alta pochi minuti dopo. Perché ora esitano? Perché il comportamento compatto dei Repubblicani già verificato al Congresso, non una defezione, e quello fierissimo in difesa del presidente già preannunciato al Senato dal leader della maggioranza, insieme al fatto che non c'è praticamente nessuna possibilità per i democratici di ottenerlo questo impeachment, per il quale serve una maggioranza dei due terzi, alla fine di un processo, fanno dubitare che non finisca in un boomerang, cioè in un danno grave per il consenso elettorale, ovvero non si dimostri rapidamente che hanno fatto una grande cazzata. Come ha detto nel suo Angolo su Fox news Laura Ingraham, il popolo americano è perfettamente in grado di riconoscere una puttanata. Non solo quello americano.  La Pelosi, che è un' abilissima chiacchierona, anche se ora un po' in disarmo, se l'è cavata con un decideremo, vedremo, ora sta a loro comprendere le loro responsabilità, ma tradotto in soldoni significa che c'è scontento anche tra i democratici moderati del Senato, c'è fastidio tra quelli che nel 2020 dovranno affrontare difficili elezioni, tanto è vero che tre democratici hanno votato contro l'impeachment e uno si è astenuto, c'è diffusa la sensazione che i moderati degli Stati chiave questa roba sull'Ucraina proprio non l'abbiano mandata giù, che abbiano ben capito che laggiù a fare le marachelle è stato il candidato Democratico ed ex vice presidente, Joe Biden, e la sua prole disinvolta negli affari come nel maneggio di droghe pesanti. Senza contare che il Congresso nell'agire motu proprio senza nominare uno special counsel, un procuratore speciale, incaricato di coordinare le indagini e di riferire alle commissioni, hanno pesantemente sfiorato ,quando non superato, la procedura incostituzionale, e sulla Costituzione, essendoci una Corte Suprema che vigila occhiuta, nessuno scherza negli Stati Uniti. Da Old Creek, Michigan, dove la folla dei repubblicani si era radunata dalla sera prima piantando tende, Donald Trump parla di marcia suicida della Pelosi e dei democratici. Annuncia i record economici, lascia che il Comitato Nazionale Repubblicano a sua volta annunci che nel mese di novembre mentre si istruiva la pratica dell' impeachment contro di lui sono stati raccolti 20.6 milioni di dollari,cifra record che sommata a quelli già in cassa fa 63.2, e siamo solo all'inizio.  Spiega la presidente del comitato repubblicano, Ronna McDaniel - che di cognome suo fa Romney ed è la nipote del dissidente ed ex candidato Mitt, lui detesta Trump, lei lo adora - che la crociata democratica è solo servita a rafforzare la volontà della nostra base e ad attrarre alla nostra causa un numero più alto di elettori. Tanto più che sempre nel mese di novembre sono stati trovati 266mila nuovi posti di lavoro. Insomma, parliamoci chiaro, a differenza di quanto facciano i giornaloni che leggete o non leggete tutti i giorni, o i telegiornali stitici di controinformazioni, la raccolta di fondi dei repubblicani dimostra che la messa sotto accusa del presidente l'hanno volta in vantaggio, sollevando una base elettorale che si è sentita offesa ed oltraggiata. E perciò occhio, che con la loro mossa astuta, i democratici non hanno messo soltanto a repentaglio le presidenziali, ma anche le elezioni parlamentari del 2020, quando come da regola si rinnova l'intero Congresso e un terzo del Senato. Complimenti vivissimi, per ora a vincere è la campagna di contro impeachment "stop the madness", fermate questa follia, 140 comizi già realizzati dal Maine alla California, con 100mila nuovi volontari. E c'è di più: l'argomento al centro dell'inchiesta contro Trump, ovvero che abbia bloccato milioni di dollari in aiuti militari all'Ucraina, perché voleva che il presidente Volodymyr Zelensky lanciassei in grande stile delle investigazioni sugli affari del vicepresidente Joe Biden e di suo figlio Hunter, circostanza sempre negata dal presidente Trump con tanto di testimonianza diretta di telefonata tra lui r il presidente ucraino, e di smentita ufficiale di Zelensky medesimo, dagli elettori repubblicani e non solo viene visto, se anche fosse vero, come una iniziativa del tutto legittima. Ovvero se sei candidato come è ora Biden, vogliamo la prova che tu sia pulito. Un'ondata di pubblica opinione diventata nelle ultime settimane così forte che in molti cominciano a credere che quella vecchia volpe di Trump l'impeachment lo abbia in qualche modo provocato per usarlo in campagna elettorale ed assicurarsi la vittoria.  Russiagate, Ucrainagate, tutto utile per la rielezione. Ma questo e' argomento di Impeach a chi 2/ la vendetta. A domani.

Putin difende Trump: «Impeachment su accuse totalmente inventate». Pubblicato giovedì, 19 dicembre 2019 su Corriere.it da Antonello De Gregorio. Conferenza stampa di fine anno numero quindici per Vladimir Putin, che ha riunito i giornalisti per il consueto «punto», che dal 2001 (con un'interruzione tra il maggio 2008 e il maggio 2012, quando Putin ricopriva la carica di primo ministro), va in scena a Mosca. Sono quasi 1900 quest'anno (200 più del precedente) gli esponenti di media sia russi che stranieri in attesa di rivolgere una domanda al presidente russo. Il leader del Cremlino ha esordito parlando di clima, minimizzando la portata dell'impatto delle azioni umane sull'ambiente: «Il riscaldamento globale è una minaccia per la Russia e per il mondo - ha affermato - ma nessuno conosce le origini del cambiamento climatico». Pur sottolineando che il riscaldamento globale può avere effetti negativi sulle città russe dell'Artico e sul permafrost, nonché provocare incendi e inondazioni, Putin ha dichiarato che «nella storia della Terra ci sono stati periodi di riscaldamento e di raffreddamento e che questo potrebbe dipendere dai processi dell'universo». Ha poi comunque rimarcato che la Russia rispetta l'Accordo di Parigi sul clima. Parlando di temi di politica interna, Putin si è detto a favore dell' abolizione del limite di due mandati presidenziali consecutivi dalla Costituzione, un passaggio che può aprire la strada al fatto che rimanga a capo del Cremlino a vita. Quanto alla squalifica dello sport russo da Olimpiadi e Mondiali da parte della Wada, per «doping di Stato», il leader del cremlino l'ha definita «Una decisione ingiusta, che non ha senso e che va contro il diritto internazionale» ma, soprattutto, punisce la Russia «due volte per lo stesso reato». Passando alla politica estera, Putin ha affermato che l’impeachment di Donald Trump «si basa su accuse inventate e il Senato respingerà le imputazioni contro il presidente americano». «Si deve ancora passare dal Senato, dove i repubblicani hanno la maggioranza», ha affermato Putin commentando la decisione della Camera Usa di mettere formalmente in stato d’accusa il presidente Usa, accusato di abuso di potere per le pressioni su Kiev per far indagare il suo principale rivale nella corsa alla Casa Bianca, Joe Biden, e per ostruzione del Congresso per aver bloccato testimoni e documenti. «È estremamente difficile - ha dichiarato Putin - che» i repubblicani «tolgano la carica» di presidente «a un rappresentante del loro stesso partito per motivi che sono assolutamente inventati». Mosca, poi, è pronta aa prorogare il trattato New Start sulla riduzione e limitazione delle armi strategiche offensive «in qualsiasi momento», ha assicurato. «Siamo pronti fino alla fine dell'anno per prorogare l'accordo esistente: se lo invieranno per posta domani siamo pronti a firmarlo e inviarlo a Washington per le controfirme», ha detto Putin.

Trump, lettera alla Pelosi, leader di «una crociata anticostituzionale». Pubblicato mercoledì, 18 dicembre 2019 su Corriere.it da Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington. La lettera del presidente Trump alla Speaker della Camera. La risposta: «Non ho avuto il tempo di leggere tutta la lettera, stavo lavorando. Mi hanno riassunto il senso». «Ho scritto questa lettera per la storia, per chi tra 100 anni vorrà capire com’è andata questa vicenda» scrive Donald Trump, a conclusione delle sei pagine inviate nella serata di martedì 17 dicembre alla Speaker della Camera, Nancy Pelosi. In realtà il messaggio serve soprattutto per oggi, mercoledì 18. Il dibattito sull’impeachment, in seduta plenaria, dovrebbe cominciare intorno alle 15 italiane; il voto finale è previsto verso le 22,30. I democratici controllano la House e hanno quindi i numeri per approvare la mozione. I repubblicani si atterranno allo schema difensivo indicato da Trump. C’è tutto quello che serve, a cominciare dagli attacchi diretti, personali a Nancy Pelosi, la «grande ipocrita», la leader di «una crociata anticostituzionale» che «dichiara guerra aperta alla democrazia americana». Nel testo si può riconoscere a tratti la mano di Pat Cipollone, il legale della Casa Bianca che aveva già scritto un documento pubblico l’11 ottobre scorso. Anche qui ritorna l’argomento di una procedura scorretta, squilibrata, politicizzata. Ma il tono dominante è quello del Trump più rabbioso, da campagna elettorale permanente: è una «lettera-tweet», si potrebbe dire. Leggiamo questo passaggio, per esempio, ancora per «Nancy»: «Lei osa richiamarsi ai Padri Fondatori, ma la sua spregevole condotta offende non solo i Padri Fondatori, ma soprattutto il popolo americano. Lei dice: “Prego per il Presidente”, ma sa benissimo che non è vero, a meno che non intenda “pregare” con un obiettivo negativo». La Speaker ha risposto con una battuta molto secca: «Non ho avuto il tempo di leggere tutta la lettera, stavo lavorando. Mi hanno riassunto il senso. Trump non sta bene». La penna di Cipollone smonta, dal punto di vista della Casa Bianca, i due capi di imputazione dell’impeachment: abuso di potere e ostruzione alle indagini del Congresso. «Nessuna pressione» sul presidente ucraino Volodymyr Zelensky. «Gli ho chiesto di fare un favore a “noi”, non a “me”, al “nostro Paese”, non alla “mia campagna elettorale”». Nella telefonata del 25 luglio scorso Trump sollecitò Zelensky a riaprire un’indagine per corruzione a carico del figlio di Joe Biden. E ancora: «Assurdo parlare di ostruzione al Congresso. Ho solo esercitato le mie prerogative di presidente». Certo nel resoconto vengono omessi i risultati di una lunga sequela di testimonianze ascoltate, in diretta tv, dall’opinione pubblica americana. Oppure vengono chiaramente distorte. L’ambasciatore presso la Ue, George Sondland, per esempio, ha riferito che ci fu un tentativo di scambio tra l’indagine su Biden e lo sblocco di 400 milioni di aiuti militari già promessi a Kiev. Trump scrive, invece, che Sondland lo ha scagionato. Ma il merito dei fatti è sommerso dalla teoria elaborata dall’ala più oltranzista della Casa Bianca. Tracce che portano al consigliere Stephen Miller, l’allievo di Steve Bannon, e agli advisor esterni, al partito di «Fox News». «Lei Signora Speaker e tutti i democratici siete semplicemente incapaci di accettare il verdetto delle grandi elezioni del 2016. Avevate scelto una candidata che è stata sconfitta in maniera devastante e non vi siete mai ripresi da quella sconfitta». I democratici, quindi, fin dal primo momento hanno provato a capovolgere il risultato delle urne con l’impeachment. Prima puntando sul Russiagate, sulle indagini condotte dal «più sporco poliziotto che abbiamo mai avuto» James Comey, il direttore dell’Fbi, poi licenziato da Trump. Il presidente stila un elenco dettagliato: le deputate Maxine Waters e Rashida Tlaib (“dobbiamo mettere sotto accusa quel “motherf....”, quel figlio di p.), il parlamentare Al Green, fino ad arrivare, naturalmente, al presidente della Commissione Intelligence, Adam Schiff. Velenosa, ben oltre la diffamazione se non la calunnia, l’accusa rivolta al «Vice presidente Joe Biden» di aver usato «un miliardo di dollari di aiuti militari per costringere il governo di Kiev a licenziare un procuratore che stava investigando in una compagnia che pagava milioni di dollari a suo figlio». Per la cronaca: il «procuratore» era Yuriy Lutsenko, già condannato per corruzione. Le iperboli trumpiane, regolarmente rilanciate da «Fox news», oggi riecheggeranno nell’Aula della Camera. Poi, da gennaio, si trasferiranno al Senato, dove si aprirà la seconda fase della procedura, quella del verdetto. Ma lì sono i repubblicani ad avere i margini per assolvere il presidente.

La Camera vota sì all’impeachment, Trump è sotto accusa. La rabbia del presidente: «Una vergogna» La cronaca del voto. Pubblicato giovedì, 19 dicembre 2019 su Corriere.it da Viviana Mazza e Giuseppe Sarcina. Come previsto i democratici hanno approvato i due capi di imputazione contro il presidente: abuso di potere e ostruzione al Congresso. La parola adesso passerà al Senato, dove i repubblicani hanno un’ampia maggioranza. Donald Trump è ufficialmente sotto accusa. Alle 20,08, le 2,08 di giovedì 19 dicembre in Italia, la Camera dei rappresentanti ha approvato la mozione di impeachment, divisa in due capi di imputazione. Il primo articolo, «abuso di potere» ha ottenuto 230 voti a favore e 197 contro. Il secondo, «ostruzione dell’indagini del Congresso», 229 contro 198. La Speaker Nancy Pelosi ha letto i risultati e ha fulminato con un gesto alcuni parlamentari che stavano esultando. «È una giornata triste, non bisogna gioire» aveva detto questa mattina, arrivando a Capitol Hill. Tutto secondo le previsioni dunque. I democratici, in maggioranza nella House, hanno rinviato il presidente al giudizio del Senato, dove il 6 gennaio comincerà la seconda parte dell’impeachment, quella della decisione finale: colpevole o innocente? Trump entra nella storia con Andrew Johnson e Bill Clinton. Ieri sera ha reagito praticamente in diretta dal palco del comizio a Battle Creek, in Michigan: «I democratici sono divorati dall’odio, vogliono annullare il risultato elettorale con l’impeachment». Le tv hanno trasmesso in diretta sei ore di dibattito nel merito, più un altro paio sui cavilli regolamentari. Pelosi apre la seduta, facendo montare un cavalletto con la bandiera americana e ripetendo concetti durissimi: «Oggi siamo qui per difendere la democrazia per il popolo. È tragico che il comportamento senza scrupoli del presidente renda l’impeachment necessario. Non ci ha dato altra scelta. È un fatto assodato che il presidente sia una minaccia attuale per la nostra sicurezza nazionale e per l’integrità delle nostre elezioni, la base della nostra democrazia». La Speaker lascia al presidente della Commissione Affari giudiziari, il democratico Jerry Nadler, il compito di ricapitolare i capi di imputazione. Trump avrebbe «abusato» dei suoi poteri presidenziali sollecitando il leader ucraino Volodymyr Zelensky a riaprire un’inchiesta per corruzione a carico del figlio di Hunter Biden, il figlio di Joe Biden. Trump avrebbe bloccato 400 milioni di dollari in aiuti militari per smuovere Zelensky. La magistratura ucraina, però, non avviò alcuna indagine su Hunter Biden e a fine agosto le forniture militari americane furono consegnate al governo di Kiev. Spiega Nadler: «Il presidente ha posto i suoi interessi personali, della sua campagna elettorale al di sopra di quelli del Paese». Mercoledì 17 dicembre, i gruppi dirigenti dei due partiti avevano negoziato regole semplicemente indigeribili. A ogni parlamentare viene consentito di vivere il suo minuto di visibilità. Il risultato è uno spezzatino infinito di mini dichiarazioni, ripetitive e scontate, dalle 12 circa fino alle 19 inoltrate. L’Aula rimane piatta e semivuota praticamente fino a tarda sera, quando finalmente la discussione si accende, con l’intervento dei leader da una parte e dall’altra. Il capogruppo repubblicano Steve Scalise strappa platealmente il foglio con le accuse avanzate al presidente. Il numero uno dei conservatori, Kevin McCarty invoca una specie di maledizione politica sui progressisti e Nancy Pelosi, per aver ridotto l’impeachment a uno strumento di parte. Sul versante democratico il più vivace e il più efficace è di gran lunga Adam Schiff, il presidente della Commissione Intelligence, il regista sul campo dell’operazione impeachment. Fioccano citazioni, vengono scomodati tutti i padri fondatori, da Jefferson ad Hamilton, da Paine a Franklin. Ciascuno li arruola, estrapolando questa o quella frase. Intanto Trump segue da lontano e accompagna il passare delle ore con una scarica di 45 tweet senza risparmiare sulle maiuscole: «Questo è un assalto all’America», «Ci potete credere che oggi sono messo sotto accusa dalla sinistra radicale, da questi nullafacenti di democratici, senza che abbia fatto nulla?». Il presidente aveva segnato la linea difensiva con la lettera inviata a Pelosi, alla vigilia del dibattito, martedì 17 dicembre. Da quelle sei pagine i repubblicani pescano le argomentazioni e perfino le battute. Anche se la parola più usata è stata «charade», messinscena, lanciata l’altro ieri dal numero uno repubblicano al Senato, Mitch McConnell. Certo, qualcuno, su un versante e sull’altro, si fa prendere la mano. Il repubblicano Barry Loudermilk, della Georgia, si avventura in un confronto con il processo a Gesù: «Quando fu falsamente accusato di tradimento, Ponzio Pilato gli diede la possibilità di rispondere alle accuse. In quel processo farsa, Ponzio Pilato concesse a Gesù più diritti di quanti i democratici abbiano lasciato al presidente». Dall’altra parte il democratico Lou Correa, California, comincia in inglese e poi devia sullo spagnolo per dire: «Voto l’impeachment perché il Paese rischia la dittatura». Tutti gli altri si attengono alle consegne. I parlamentari democratici si muovono sulla traccia di Pelosi. Mary Gay, Pramila Jayapal, Cedric Richmond, Suzan Delbene e tanti altri premettono di essere «turbati», di «non odiare nessuno», ma di «essere costretti a difendere la Costituzione». I repubblicani restano sulla scia trumpiana. Brian Rabin, Roger Marshall, Debbie Lesko sembrano leggere direttamente dalla lettera scritta dal presidente e dal legale della Casa Bianca, Pat Cipollone. A un certo punto il conservatore Bill Johnson (Ohio) usa il suo tempo per imporre un minuto di silenzio, «in memoria degli elettori espropriati della loro volontà». Ma non sappiamo che cosa rimarrà davvero nella “memoria” degli elettori e di coloro che hanno seguito fino in fondo. Sappiamo che tra qualche settimana lo scontro si sposta al Senato.

La Camera vota sì all'impeachment. Trump sotto accusa: "Un assalto contro l'America e i repubblicani". Il presidente: "Democratici consumati da odio, vogliono annullare le elezioni". La parola passa ora al Senato. A gennaio inizierà un processo durante il quale verrà deciso se condannare e rimuovere Trump. Anna Lombardi il 19 dicembre 2019 su La Repubblica. Donald Trump fa il suo ingresso nei libri di Storia come il terzo presidente americano finito sotto impeachment - dopo Andrew Johnson nel 1868 e Bill Clinton nel 1998 (Nixon si dimise prima del voto) - quando negli Stati Uniti sono ormai passate otto e mezza di sera: al termine di una lunghissima giornata politica durata più di 12 ore. I due articoli di impeachment approvati il primo con 230 voti favorevoli e 197 contrari - in pratica tutti i repubblicani più i dem Collin Petterson e Jeff Van Drew, il deputato del New Jersey che ha già annunciato di voler cambiare casacca. Il secondo con 229 voti a favore e 198 contrari: perché il dem Jared Golden del Maine già da lunedì aveva annunciato la volontà di votare a favore dell'articolo che incrimina Trump per abuso di potere: ovvero aver pressato il leader ucraino Volodimir Zelenskij affinché aprisse un'inchiesta sui Joe Biden, in cambio di 391 milioni di dollari in aiuti militari già varati. Ma di non essere convinto dal secondo capo d'accusa, quello di ostruzione al Congresso: per cui il Presidente avrebbe intralciato l'inchiesta. E dunque avrebbe votato contro. La parola passa ora al Senato. A gennaio, inizierà un processo durante il quale verrà deciso se condannare e rimuovere Trump. Se meno dei due terzi dei senatori voteranno per ritenerlo colpevole, il presidente americano resterà in carica. Al contrario, se il 67 per cento lo condannerà, Trump verrà rimosso e il suo incarico verrà assunto dal vice presidente. Nel corso di una conferenza stampa, la presidente della Camera Nancy Pelosi ha dichiarato che i democratici prenderanno una decisione "come gruppo" su quando inviare gli articoli al Senato. La giornata era iniziata con Nancy Pelosi che, dopo il voto procedurale, aveva arringato la Camera riunita in seduta plenaria affermando: "Non ci ha dato altra scelta". Aprendo "solennemente e tristemente" il lungo dibattito sull'impeachment. Una vera maratona di interventi, coi deputati di entrambe gli schieramenti pronti a ripetere all'infinito accuse ("Trump ha violato la Costituzione e abusato dei suoi poteri per ottenere benefici politici personali. Nessuno è al di sopra della legge") e difesa ("Non ha fatto nulla di male, è una caccia alle streghe, un tentativo di colpo di stato"). Una lunga passerella dove ciascun deputato ha un minuto per dire la sua: parlando alla nazione, certo. Ma soprattutto ai propri elettori. Per molti deputati democratici a caccia di rielezione negli stati più incerti, un vero atto di coraggio, visto che la scelta ne mette a repentaglio la rielezione. Approvando l'impeachment contro Trump, la Camera dei Rappresentanti Usa "ha fatto il suo dovere costituzionale. Sfortunatamente sembra sempre più evidente che il Senato repubblicano non lo farà. Questa questione non sarà risolta fino al prossimo novembre dal popolo americano". Così Michael Bloomberg, candidato alla presidenza con i democratici, commentando la messa in stato di accusa di Trump e anticipando l'assoluzione da parte del Senato controllato dal Grand Old Party.

Soldi statunitensi, sinistrati…Alessandro Bertirotti il 5 dicembre 2019 su Il Giornale. Tutta questione di… vergogna. Ecco chi era il più favorito antagonista di Donald Trump alla corsa per la Casa Bianca nell’anno 2020: Warren Wilhelm Jr., ovvero il Sindaco di New York. Sicuramente questo nome non vi dirà alcunché, dal momento che “il nostro” è meglio conosciuto con lo pseudonimo Bill de Blasio. D’altro canto, si sa, un colpo di italianità porta sempre bene nella Grande Mela che, da sola, raccoglie ben oltre un quinto dei 15,6 milioni di italiani presenti su suolo statunitense. E, quindi, se Parigi val bene una Messa, allora, in vista delle presidenziali, va benissimo abdicare alla nascita americana per fregiarsi di quella “pennellata” di pizza, spaghetti e mandolino, che Bill de Blasio ritrova nel suo corredo genetico, grazie al puro caso di esser stato generato da madre italica. Secondo quanto riportato da Public Integrity, de Blasio è un autentico moralizzatore “de noartri”. Di lui si ricorda il potente grido di difesa delle fasce sociali più deboli, e della classe dei lavoratori. Di lui i media hanno celebrato la forte censura all’uso del denaro nelle competizioni politiche delle Elezioni Federali (sentenza nota per aver sancito, in materia di spesa politica, un atteggiamento maggiormente liberale e libertario rispetto al passato). Di de Blasio e di sua moglie si rammentano i modesti, al limite del pidocchioso, contributi (rispettivamente $ 1.000,00 e $ 700,00) offerti per sostenere Obama nella campagna elettorale 2011-2012, così come le irrisorie briciole di $ 295 devoluti al democratico John Edwards, in occasione della sua corsa alle presidenziali 2003-2004. Qualcuno potrà dire che gli oboli in questione si ponevano come la coerente traduzione pratica della prospettiva moralizzatrice di Bill de Blasio. Anche no. Perché il Sindaco di New York ha tenuto il punto di coerenza soltanto “in uscita”, ovvero quando toccava a lui frugarsi in tasca per sostenere le candidature altrui. Ben altra nonchalance ha dimostrato “in entrata” vale a dire durante le campagne elettorali che lo hanno visto candidato. Infatti, de Blasio ha accettato contributi milionari a favore della sua competizione elettorale del 2013, per la carica di Sindaco di NY. Non solo. Nonostante la sua ben nota posizione di fronte alla suddetta sentenza delle Suprema Corte, pacificamente applicabile anche ai sindacati, de Blasio non ha avuto alcuna remora nell’accettare i sostanziosi contributi del sindacato Service Employees International Union; così come non si è fatto scrupolo ad accettare gli aiuti elettorali in denaro che provenivano, non soltanto dal mai troppo lodato George Soros in persona, ma anche dai figli di quest’ultimo. Grazie ad un provvedimento legislativo da lui stesso firmato nel 2016, il suo stipendio di Sindaco nell’anno 2018 ha fatto un balzo in avanti di ben $ 33.000,00 rispetto al 2017. Tutto questo a dispetto della sanzione di $48.000,00 irrogatagli nel 2016 dal Consiglio finanziario per la campagna di New York per (udite, udite!) violazione delle norme sul finanziamento elettorale ed, in particolare, per mancata segnalazione delle transazioni, l’accettazione di contributi oltre il limite, ed incameramento di contributi da commissioni politiche non registrate. Che vette di sublime, sfacciata derisione, rispetto al politicamente opportuno! (per non scomodare l’etica). In buona sostanza, Bill de Blasio è un moderno Catone censore dei soli deretani altrui. Con la convinzione che la scopertura del suo non faccia notizia. Fortuna che la gente non ha l’anello al naso, e lo scarso gradimento emerso nei sondaggi lo ha convinto a ritirarsi dalla competizione per lo Studio Ovale.

Federico Rampini per “la Repubblica” il 12 dicembre 2019. Il dopo-Nafta è alle porte, Donald Trump e i democratici trovano un accordo che sblocca la ratifica del trattato per il nuovo mercato unico nordamericano. Stati Uniti Canada e Messico sono pronti a commerciare tra loro adottando nuove regole, che segnano un miglioramento contrattuale per gli operai sindacalizzati. In contemporanea arrivano avvisaglie di una possibile tregua, almeno parziale, nella guerra dei dazi Usa-Cina. I due segnali positivi per il commercio globale sono un successo per Trump, proprio mentre la Camera si avvia a votare il suo impeachment. Il via libera democratico sul nuovo US-Mexico-Canada Agreement, la cui sigla Umca sostituirà quella del trattato Nafta varato a inizio anni '90, è stato annunciato dalla presidente della Camera Nancy Pelosi, la stessa che dirige i lavori dell' impeachment. Per conquistare i voti della sinistra Trump ha introdotto alcune modifiche che rafforzano i vantaggi per gli operai americani, ma che sostanzialmente erano già presenti nella stesura iniziale. Nell'industria automobilistica, perché le vetture e i camion possano essere venduti oltreconfine senza dazi, sale dal 62,5% (Nafta) al 75% il contenuto minimo che deve essere prodotto in Nordamerica. Questo penalizza certe fabbriche di assemblaggio messicane che usano componenti da altri paesi. Sale dal 40% al 45% il contenuto minimo che dev'essere fabbricato in aziende con salario orario di almeno 16 dollari Usa; una clausola che beneficia gli operai statunitensi e canadesi. I sindacati Usa cantano vittoria, e così fa il partito democratico; ma è Trump ad essersi prodigato fin dall' inizio per questa revisione del trattato. Vi aggiunge un' apertura del mercato canadese all' export alimentare Usa, specie prodotti lattiero-caseari, pollame, grano. In cambio di queste concessioni Trump ha accettato di togliere i dazi del 25% sull' acciaio e del 10% sull' alluminio. I democratici sono convinti di aver agito saggiamente. Negare la ratifica del nuovo mercato unico li avrebbe esposti all' accusa di fare un'opposizione distruttiva, e di concentrarsi sull' impeachment anziché sulle priorità economiche. La Pelosi porta a casa alcuni miglioramenti del trattato richiesti dai sindacati. Nell' insieme però è Trump a cantar vittoria visto che questa revisione del Nafta era una delle sue promesse elettorali. Il nuovo accordo con Canada e Messico riguarda due paesi con cui gli Usa hanno un interscambio totale comparabile a quello con la Cina. Anche nei rapporti con Pechino qualcosa si starebbe muovendo. Il consigliere economico di Trump, Larry Kudlow, ha dichiarato che la nuova ondata di dazi prevista il 15 dicembre (tasse doganali del 15% su importazioni dalla Cina per un valore di 165 miliardi di dollari annui) potrebbe essere rinviata. La mossa distensiva è legata alle concessioni che Trump vuole ottenere subito da Xi Jinping sul versante agroalimentare. La Casa Bianca punta a strappare almeno 40 miliardi di acquisti annui di derrate agricole, e non si accontenta di promesse: vuole un meccanismo trimestrale di verifica. La resistenza di Pechino è legata, ufficialmente, alla preoccupazione di non penalizzare altri fornitori agricoli con cui la Cina ha rapporti consolidati (dall' Australia al Brasile). Inoltre i cinesi preferiscono un accordo che elimini anche i dazi precedenti, quelli che già colpiscono 360 miliardi di dollari (valore annuo) di loro prodotti venduti negli Stati Uniti. Il desiderio di una tregua prima di Natale potrebbe sbloccare l'impasse.

Federico Rampini per “la Repubblica - Affari & Finanza” il 16 dicembre 2019. Il 2019 è stato un altro anno nero per gli economisti. È una categoria dalle responsabilità enormi. Se nel mondo intero soffia il vento del populismo, la colpa è anche loro. Avendo sbagliato ogni sorta di previsione, diagnosi, prognosi e ricette prima della crisi del 2008, hanno contribuito molto a generare diffidenza verso gli esperti. E quando i tecnocrati vengono sfiduciati, il passo è breve per consegnare il governo agli incompetenti. Ma anziché gridare allo scandalo perché il popolo è becero, bisogna prendersela con chi lo ha ingannato prima. Nel 2019 dove hanno sbagliato? Praticamente su tutto. Un coro unanime aveva pronosticato disastri immani se Donald Trump avesse osato mettere dazi sui prodotti cinesi; o se Boris Johnson fosse andato al governo nel Regno Unito. Io non simpatizzo né per Trump né per il suo amico inglese. Però mi corre l' obbligo di constatare che i disastri non sono avvenuti. L' economia Usa ha ripreso a correre e a generare posti di lavoro. I salari operai crescono più adesso che sotto Obama. E dov' è l' Apocalisse generata dai dazi? La stragrande maggioranza degli economisti concordava sul fatto che le tasse doganali le avrebbe pagate il consumatore americano. Cioè che sarebbero state scaricate sui prezzi finali. Ma l' inflazione al consumo negli Stati Uniti resta ostinatamente inchiodata al 2% annuo o anche meno, cioè esattamente dov' era prima dei dazi. Eppure molte tasse doganali sono ormai in vigore da quasi due anni (si cominciò con acciaio, alluminio, elettrodomestici). Anche a Londra non è accaduta l' Apocalisse nei mesi di governo di Boris Johnson. Naturalmente gli "esperti" hanno la risposta pronta: l' Apocalisse è dietro l' angolo, non c' è stata ma sta per arrivare. Il trucco è semplice, basta spostare le lancette dell' orologio, le previsioni fallite nel 2016 (anche allora si disse che una vittoria Brexit avrebbe portato al collasso economico) sono state spostate al 2017, 2018, 2019, 2020. Idem sui dazi, la rovina non c' è stata ma solo perché tre giorni fa Trump si è pentito e ha raggiunto una tregua. Già, ma le previsioni dicevano che i dazi dovevano rovinarci già un anno fa. È troppo comodo aggiornarle modificando il calendario. Il peggio è l' arroganza degli economisti. Dove sono le autocritiche per aver sbagliato sistematicamente tutto da molti anni a questa parte? Ci fu - è vero - un momento di sincerità e di onestà intellettuale. Ricordo quando la Regina d' Inghilterra fece la domanda semplice e scomoda agli economisti del suo Paese: perché non avete previsto la grande crisi del 2008? Dall'associazione degli economisti arrivò qualche risposta seria, che accennava a una spiegazione imbarazzante: conflitto d' interessi. Troppi economisti vivono di emolumenti legati alle grande imprese, alle banche o alla finanza, che viziano la loro visione del mondo. Poco è cambiato da allora.

Federico Rampini per “la Repubblica” il 16 dicembre 2019. Congratulazioni a Boris Johnson per la sua grande VITTORIA!". Quando Donald Trump passa ai caratteri maiuscoli su Twitter, è come se urlasse. Il trionfo del suo amico e sodale lo entusiasma. Nel 2016 la vittoria di Brexit nel Regno Unito fu il preludio e il presagio dell' inattesa elezione di Trump, meno di cinque mesi dopo. Nei due casi i sondaggi fecero un flop clamoroso. Nei due casi una costante fu la rivolta della classe operaia contro l'establishment. Nazionalismo e sovranismo, protezionismo contro la concorrenza dai Paesi emergenti, resistenza all'immigrazione: l' elenco dei punti comuni fra le insurrezioni populiste anglo-americane è lungo. Le élite tradizionali (compresi i capitalisti, i top manager delle multinazionali, i repubblicani e i Tories di vecchio stampo) odiano o disprezzano i "gemelli" Donald e Boris, qualche volta scambiando i propri desideri per realtà. Gli economisti prevedono da due anni cataclismi nelle economie americana e britannica, mai avvenuti. Intellettuali e giovani universitari hanno avuto innamoramenti per Jeremy Corbyn, la riscoperta del marxismo è stata celebrata, ma il verdetto delle urne è deludente su quel fronte. Perciò, subito dopo l' euforia di Trump, è interessante l' impatto dell' elezione britannica sulla sinistra americana a meno di 11 mesi da un altro voto di portata mondiale. La tv Cnbc apre i suoi servizi con "Le lezioni della vittoria di Johnson per i democratici Usa". Non c' è giornale, rivista, sito o talkshow televisivo che non affronti questo argomento sul versante Ovest dell' Atlantico. Lo scenario è abbastanza simile a quello inglese, con l' aggiunta dell' impeachment (anche questa si presta a paragoni interessanti).

Esistono almeno due versioni americane di Corbyn.

Bernie Sanders, il senatore del Vermont che si proclama socialista e già sfidò Hillary Clinton per la nomination nel 2016, è il più simile. Si può applicare a Sanders la battuta che il Financial Times coniò per Corbyn: reduci di una sinistra "vetero" secondo la quale la Guerra fredda fu vinta dalla parte sbagliata. Simpatizzanti del castrismo cubano, dei vari Chávez Maduro Morales, nonostante i fallimenti ripetuti. Piacciono, non a caso, a tanti giovani che della Guerra fredda o dell'Urss non sanno nulla.

L'altra simil-Corbyn in America è la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren, la cui carriera politica ebbe inizio con il movimento Occupy Wall Street e la protesta contro i salvataggi delle grandi banche, le diseguaglianze sociali, l' economia al servizio dell' un per cento di privilegiati. La Warren è più moderna di Sanders e Corbyn, non ha nostalgie di Che Guevara o t-shirt con la faccia di Mao. Insieme, la Warren e Sanders hanno un seguito che sfiora la metà della base democratica nei sondaggi. Di recente però l'ascesa della Warren - che aveva sorpassato il moderato Joe Biden, ex vice di Obama - si è arrestata e ha dato segni di flessione. È accaduto che, per onestà intellettuale o ingenuità, lei ha scoperto le carte sulla sua riforma sanitaria. Porterebbe in America un sistema uguale a quello italiano, un servizio sanitario nazionale, gratuito o quasi. Il costo della transizione, che sposterebbe dal privato al pubblico l' intera sanità, lei stessa lo ha calcolato in ventimila miliardi di dollari per un decennio. Se a questo si aggiungono altre proposte simili per Warren e Sanders come il Green New Deal e l' università gratuita, la ricetta è chiara: trasformare gli Stati Uniti in una grande socialdemocrazia nordeuropea. Con una pressione fiscale molto più elevata di quella attuale, ma un modello più equo e solidale, meno diseguaglianze, più redistribuzione, più servizi sociali per tutti. È un'idea suggestiva, affascinante, però spaventa anche metà degli elettori democratici, inclusa una parte di classe operaia: vedono l' Europa come un continente stagnante, senza crescita. Forse sono smemorati, perché l' America fu una specie di grande Svezia nel periodo incluso tra Franklin Roosevelt e John Kennedy, l' era delle grandi riforme sociali, quando l' aliquota marginale più elevata sugli straricchi raggiunse il 70%. Quel modello però s' incagliò negli anni Settanta. Poi arrivò la rivoluzione neoliberista, guidata da un' altra coppia anglo-americana: Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Disprezzati e odiati dalle élite anche loro. La Thatcher venne "riabilitata" a sinistra solo da Tony Blair. Reagan, che gli intellettuali europei trattavano come un rozzo cowboy, è stato rivalutato da Barack Obama. Un'altra lezione che viene meditata dopo la vittoria di Johnson: guai a disprezzare gli elettori. Chi votò Brexit nel 2016 si è sentito preso in giro dai tre anni di rinvii che tentavano di svuotare quel referendum. Una parte degli americani prova irritazione di fronte all' impeachment: se Trump è indegno, se è un pericolo per la democrazia, molti cittadini pensano che la via maestra per cacciarlo è il suffragio universale. La sinistra radicale ha voluto l' impeachment, forzando la mano a moderati come Nancy Pelosi, presidente della Camera. Un altro caso in cui radicali alla Corbyn rischiano di essere i migliori alleati della destra?

DAGONEWS il 6 dicembre 2019. Un pupazzetto di un baby Trump è stato spedito nello spazio come protesta per la visita del Presidente Usa nel Regno Unito. Il bambolotto, che raffigura Trump in versione neonato con il pannolino, è stato lanciato nell’atmosfera da "Sent Into Space" che lo ha posizionato su un pallone aerostatico dotato di telecamera per riprendere il viaggio da Sheffield. Il pupazzo, con la testa mobile e con in mano un cellulare, è stato visto allontanarsi sempre dalla superficie terreste, raggiungendo un’altezza tale da rendere visibile la curvatura del globo.  

DAGLI AL PUZZONE, SEMPRE E COMUNQUE.  Davide Casati per Corriere.it il 6 agosto 2019. Il discorso del presidente degli Stati Uniti Donald Trump dopo le due stragi in Texas e in Ohio (31 morti in 13 ore) ha causato qualche grattacapo al New York Times, uno dei più importanti giornali del mondo. Il quotidiano, tradizionalmente liberal e prevalentemente schierato — nella sua sezione dei commenti — contro le decisioni politiche compiute dalla presidenza Trump, ha ieri titolato in prima pagina «Trump urges unity vs. racism», «Trump esorta all’unità contro il razzismo». Il discorso del presidente, però, era parso a molti commentatori debole e poco sincero, nonché privo di qualunque tipo di decisione rilevante su un maggior controllo della vendita e dell’utilizzo delle armi. Trump ha sì indicato che «con una sola voce la nostra nazione deve condannare il razzismo, l’intolleranza e il suprematismo bianco», concludendo che «non c’è posto per l’odio in America»; ma ha anche affermato che «sono i disturbi mentali e l’odio a premere il grilletto, non le armi». Se si somma a questo il fatto che, poche ore prima di leggere il proprio discorso, Trump avesse espresso su Twitter opinioni molto diverse sulle radici delle stragi (accusando i media di «diffondere fake news che promuovono un clima di rabbia»); che il presidente abbia sbagliato il nome di una delle località colpita dalle stragi (parlando di «Toledo») e che abbia nel tempo promosso politiche e sdoganato linguaggi molto controversi nei confronti degli immigrati, si comprende meglio quanto avvenuto dopo la pubblicazione di quella prima pagina sui social. Dopo la pubblicazione su Twitter, moltissimi lettori hanno criticato aspramente la scelta del New York Times. Tra loro Nate Silver, statistico di fama mondiale, fondatore del blog Fivethirtyeight.com, ex giornalista proprio del Times e mago dei sondaggi (per aver azzeccato, distretto per distretto, le due elezioni di Barack Obama) . «Non sono sicuro che avrei utilizzato le stesse parole», ha scritto. I commenti sono stati moltissimi: e tra lettori che affermavano di voler disdire l'abbonamento e utenti di Twitter contrari alla scelta del Times è intervenuta anche Alexandria Ocasio-Cortez, la più giovane deputata della storia americana, originaria dello Stato di New York, una delle voci più apertamente critiche nei confronti del presidente Trump (che ha attaccato lei e altre tre deputate con termini razzisti). «Questo titolo», ha scritto AOC, «ci ricorda come il suprematismo bianco sia aiutato da - e spesso trovi appoggio su — la codardia delle istituzioni mainstream». Secondo quanto riportato da Yashar Ali, giornalista freelance, su Twitter, a lamentarsi sono stati anche moltissimi giornalisti del Times: «Mai ricevuto tanti messaggi da reporter del NYT, furibondi, come oggi. Ritengono che il loro lavoro sia stato macchiato da un titolo orribile: e stanno tutti accusando Dean Baquet», il direttore del giornale. Il Times ha deciso di cambiare il titolo radicalmente, tra la prima e la seconda edizione, trasformandolo così: «Assailing hate, but not guns», «(Il presidente) attacca l'odio, ma non (le politiche di vendita e diffusione del)le armi». Un titolo più critico nei confronti di Trump, dunque. Il Times non ha, per ora, spiegato ufficialmente i motivi del cambiamento radicale del titolo: di sicuro il cambiamento è avvenuto dopo l'esplosione di commenti negativi, non è ancora chiaro se sia avvenuto a causa di quei commenti. Di certo, poi, i commenti dedicati al discorso di Trump di ieri hanno titoli molto chiari sulla linea editoriale del giornale: si va da «The nihilist in chief» («Il nichilista in capo: come il nostro presidente e i colpevoli delle stragi siano connessi alle stesse forze psichiche oscure»), di Ross Douthat, a «Trump is a white nationalist who inspires terrorism» («Trump è un nazionalista bianco che ispira il terrorismo - Non fingiamo che il suo discorso fatto con un teleprompter davanti abbia cambiato qualcosa»), di Michelle Goldberg. Come nota Jon Allsop, sulla newsletter della Columbia Journalism Review, il New York Times non è l'unico giornale ad aver faticato di fronte alle parole di Trump: molti altri giornali hanno semplicemente riportato parti del discorso senza nemmeno provare a fornire un contesto, e il Washington Post ha pubblicato un pezzo dal titolo: «Trump dice che il suprematismo bianco e le ideologi sinistre "devono essere sconfitte". Condurrà la lotta in prima persona?».

Antonino D’Anna per ''Il Foglio'' il 28 luglio 2019. «È un buffone». Con tale lapidaria definizione rilasciata ai microfoni di Caterpillar, irriverente trasmissione cult di Radio2, la scrittrice Simonetta Agnello Hornby che da anni vive in Inghilterra ha definito Boris Johnson, da oggi leader dei conservatori e primo ministro del governo di Sua Maestà britannica Elisabetta II, che Dio la salvi. La Hornby ha anche specificato di aver conosciuto Johnson di persona: le dà l’impressione di essere un individuo che ama divertirsi alle spalle degli altri e che dice quello che tu vuoi sentirti dire, ma il suo egotismo sarebbe a livelli veterotestamentari. Ah, però. La presentazione di Johnson da parte di alcuni giornaloni, giornalini, giornaletti nostrani è stata più o meno su questa linea. Boris il rosso, come lo chiamavano, è uno che non ha niente della quieta compostezza tipicamente british dei primi ministri britannici. Peccato però che l’ironia in quel di Westminster sia sempre stata di casa. Benjamin Disraeli, magnifico primo ministro alla fine dell’Ottocento, incontrando l’avversario William Gladstone si sentì dire: «Le predico che lei morirà o impiccato o per qualche malattia vile» (tipo le malattie veneree). E Disraeli: «Beh signore, questo succederà se abbraccerò i suoi princìpi oppure sua moglie». E via blastando, si direbbe oggi. Winston Churchill, che vinse due guerre mondiali, uscendo dalla Camera dei Comuni nel ‘46 mentre puzzava di alcol alla grande, venne apostrofato dalla collega Bessie Braddock: «Winston, sei ubriaco e, peggio ancora, sei disgustosamente ubriaco». Winnie non fece un plissé: «Bessie cara», rispose, «tu sei brutta e, peggio ancora, sei disgustosamente brutta. Ma domani io sarò sobrio e tu sarai ancora disgustosamente brutta». Forse, a dirla tutta, nel presentare Johnson come un mezzo scemo (il mezzo scemo però ha preso 92 mila voti su 160 mila da parte dei delegati del suo partito), c’è anche molta prevenzione. Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei: Johnson ha gli stessi capelli di Donald Trump, e il presidente americano ha salutato entusiasta la sua elezione; vuole la Brexit entro 100 giorni; vuole azzerare il grigio Jeremy Corbyn. Boris entrò ad Oxford ed anche a Eton, college dei re, con una borsa di studio per merito (era uno dei 70 King’s scholars, scelti per merito fra gli studenti più intelligenti del Paese); Corbyn ha fatto il sindacalista tutta la vita. Il neo primo ministro conosce greco, latino, italiano, cita correttamente opere letterarie. E farà quello che ha promesso perché gli inglesi sono un popolo perseverante. Ed è la perseveranza, egregi signori a sopracciglio alzato, che fa la differenza tra chi riesce e chi no. Per finire. Nel 1979, quando venne eletta primo ministro (se l’avessero chiamata ministra avrebbe avuto un moto di disgusto), Margareth Thatcher venne presentata come una suffraggetta. La Stampa riportò una considerazione di Maggie sulle sue idee ritenute antiquate: «Sorry, le mie idee son quelle che sono, non le modifico per ottenere il consenso di gruppi o di individui». La storia le ha dato ragione. E Boris il rosso, che ha tra i suoi miti il simbolo della perseveranza britannica, ossia Churchill, dev’essere dello stesso avviso. Anche perché il rosso, qui dal Sud Italia da dove vi scrivo, è sempre stato Malpelo, amici miei.

Angela Napoletano per “Avvenire” il 26 luglio 2019. Il primo confronto parlamentare tra il nuovo premier britannico, Boris Johnson, e il leader dell' opposizione, Jeremy Corbyn, è stato, ieri, un assaggio della guerriglia che si consumerà nei prossimi mesi fuori e dentro Westminster in vista della Brexit. Il discorso con cui Johnson, dai banchi del governo appena nominato, ha bollato come «inaccettabile» l' accordo Ue respinto tre volte dai Comuni, confermando l' intenzione di voler, «in buona fede», negoziarne un altro, ha infiammato la replica di Corbyn e sollecitato, al di là della Manica, un chiarimento telefonico con il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker. Dopo aver, sarcasticamente, sottolineato il presunto legame politico tra il neopremier e il presidente Usa Donald Trump, il socialista Corbyn ha sfidato BoJo, il «Trump britannico», ad «assicurare che il sistema sanitario nazionale britannico (Nhs) non verrà «messo in vendita» nell' ambito dell' accordo commerciale che il governo intende negoziare con Washington dopo Brexit. Johnson ha replicato che «l' Nhs non sarà mai sul tavolo», ma ha anche fatto notare che solo una strategia «pro business» può garantire risorse per la sanità. Supportato, alle spalle, dagli ultrà brexiteer della nuova squadra di governo (tra cui Jacob Rees-Mogg come ministro dei Rapporti con i Comuni, Dominic Raab agli Esteri e Michael Gove con competenza specifica ai preparativi per il "no deal"), BoJo ha ribadito la necessità di eliminare dall' accordo di recesso dall' Ue il controverso "backstop": il meccanismo di garanzia del confine tra Irlanda e Irlanda del Nord, uno dei cardini dell' accordo di separazione dall' Ue. Parole che, questa volta, hanno scosso Bruxelles più dell' opposizione laburista, quasi rassegnata all' assenza di dettagli sulle alternative proposte. In una lettera inviata ai leader dei 27 Paesi europei, il capo negoziatore della Ue su Brexit, Michel Barnier, ha ribadito come Juncker che Bruxelles è pronta «a modificare la dichiarazione politica» ma l'«esclusione del backstop è inaccettabile». Da qui, l'invito a una compatta alzata di scudi contro il «combattivo» Johnson: «Dobbiamo essere pronti a fronteggiare una situazione in cui Londra dia priorità al no deal». «È essenziale - ha aggiunto Barnier - restare calmi, mantenere i nostri principi guida e mostrare solidarietà tra i 27». Del discorso con cui il nuovo premier ha spiegato a Westminster come intende fare della Gran Bretagna «il miglior Paese in cui vivere sulla Terra», fanno parte anche altri nodi d' interesse europeo, come le politiche sull' immigrazione ispirate al modello australiano di gestione dei flussi e controllo delle frontiere.

Azzurra Barbuto per “Libero Quotidiano” il 26 luglio 2019. Euroscettico oltranzista, accanito sostenitore della Brexit, tanto sfacciato da risultare indisponente, Boris Johnson, ex sindaco conservatore di Londra per due mandati (dal 2008 al 2018) nonché ex ministro degli Esteri, dal 24 luglio capo dei Tory e premier britannico, è l'incarnazione di tutto ciò che i bulletti progressisti dell' intero pianeta disprezzano. Storcono il naso davanti al suo taglio di capelli, considerano rozzi i suoi modi di fare, folli e vergognose le sue sparate, ridacchiano non appena ne scorgono l'immagine, eppure Boris non è mica il signor Cretinetti. Nel 2016, per motivi di correttezza politica, il politicamente scorretto Johnson ha rinunciato alla cittadinanza americana, di cui era in possesso essendo nato a New York 55 anni orsono. Il leader inglese proviene da un' ottima famiglia, ha frequentato i college più esclusivi ed è cresciuto circondato dagli agi, cosa che da un lato non lo ha risparmiato dai dolori e dall' altro non gli ha impedito di studiare e lavorare sodo. Il padre Stanley è stato politico e altresì scrittore, lavorava prima per la Banca mondiale e poi come funzionario della Commissione europea, quell'Europa che suo figlio oggi promette di abbandonare entro il 31 ottobre; la sua sorella prediletta, Rachel, invece è giornalista. La madre, Charlotte, la quale visse all' ombra del marito dedicandosi esclusivamente ai quattro figli, si ammalò di depressione e manie ossessivo-compulsive allorché Boris era molto piccolo e a 40 anni le fu diagnosticato il Parkinson. L' allontanamento della mamma da casa per 9 mesi, periodo in cui la signora fu ricoverata per ricevere le cure necessarie, fu un trauma per Boris. E Charlotte riconduce l' ambizione sfrenata del figlio ad un bisogno di sentirsi amato e diventare invincibile. Eppure non sembra affatto che Johnson compia grandi sacrifici nel tentativo di farsi apprezzare - semmai profonde sforzi nell' opera di rimbalzare sulle balle -, forse sul giudizio della mamma pesano i sensi di colpa e i decenni di terapia psichiatrica, che alla fine inducono alla ricerca di contorte e cervellotiche spiegazioni psicoanalitiche fini a loro stesse. Viene dipinto quale ignorante e grossolano, eppure, allorché era sindaco di Londra, Johnson (un latinista, grecista e italianista) reintrodusse lo studio del latino nelle scuole pubbliche, considerandolo fondamentale. Ed egli è anche autore di un saggio dal titolo Il sogno di Roma. La lezione dell' antichità per capire l' Europa di oggi. La passione per la civiltà romana, tuttavia, non lo ha reso immune dai colpi che gli hanno inferto in questi giorni sui media gli intellettuali del Bel Paese, i quali giudicano un uomo dalla sua pettinatura. Boris è stato paragonato a Donald Trump, con il quale ha in comune soltanto tre cose: la capigliatura paglierina (forse anche il parrucchiere), il rigetto nei confronti del "politically correct" ed il fatto che sulla sua ascesa nessuno avrebbe scommesso un soldo. Elementi sufficienti per attirare su di sé il dileggio dei radical-chic. Allorché scriveva sul Telegraph (è pure giornalista), dove curava una rubrica di successo, Johnson aveva definito gli omosessuali «culattoni in canottiera» e gli africani «negretti». Durante la campagna elettorale dell' aprile del 2005, invece, aveva cercato di convincere gli elettori a votare per il suo partito garantendo: questa scelta «farà diventare più grosse le tette di vostra moglie e aumenterà le vostre chance di possedere una Bmw M3». Nella stessa occasione ammise senza scomporsi di sostenere David Cameron «per cinico interesse personale». Viva la sincerità! Facendo la cronaca di una sua visita all' università di Portsmouth aveva vergato: «Eccoci qua in uno dei recessi più depressi dell' Inghilterra meridionale, un posto troppo pieno di droghe, obesità, delusione e deputati laburisti». Infuriò la polemica. Il nuovo primo ministro inglese non utilizza filtri allorché si tratta di fornire la sua opinione. Nel 2007, pur sostenendone la candidatura alla Casa Bianca, definì l' aspetto di Hillary Clinton simile a quello di «un' infermiera sadica di un manicomio», mentre George W. Bush, a suo avviso, non era altro che «un texano strabico, guerrafondaio, disarticolato e non eletto». Nulla in confronto alla definizione usata per descrivere Erdogan: «segaiolo pazzesco», che non disdegnerebbe il sesso con le capre. Sul perché Boris conosca in modo tanto dettagliato le abitudini private del presidente turco non sappiamo offrirvi ragguagli. La scorsa estate Johnson tuonò contro l'uso diffuso del burqa all' interno delle comunità islamiche insediate nel Regno Unito giudicando «assolutamente ridicolo» che le signore escano di casa abbigliate alla stregua di «rapinatori di banche». Come dargli torto? Qualche settimana fa, invece, il neo premier se l'è presa con i dirimpettai francesi, chiamati «stronzi» poiché vorrebbero «fregare gli inglesi». Da uno così, con la lingua direttamente collegata al cervello, aspettiamoci almeno un centinaio di incidenti diplomatici. Insomma, Boris è uno che non le manda a dire, ecco perché o lo ami o lo odi. Il primo ministro britannico si è sposato due volte, prima nel 1987, poi nel 1993, il che è prova non solo di coraggio ma anche di ottimismo. E ha ben cinque figli, quattro dalla seconda consorte ed uno nato da una relazione extraconiugale con una consulente d' arte. Il rapporto con la sua attuale compagna, Carrie Symonds, sembra essere burrascoso e passionale. Il mese scorso i vicini di casa, sentendo provenire dall' abitazione di Johnson delle urla disumane, hanno allertato la polizia londinese che è intervenuta per sedare una lite tra il politico e la sua morosa, la quale era incazzata nera. Johnson viene deriso dal mondo intero per le sue gaffe, di cui egli stesso tuttavia ammette di andare fiero, aggiungendo che «molto spesso gli scivoloni finiscono per essere la verità spogliata di abbellimenti». E noi senza dubbio preferiamo quest' ultima, nuda sporca e cruda, alle menzogne rivestite di fini ricami e graziosi merletti.

·         Wikipedia: l’enciclopedia partigiana.

 Angelo Allegri per “il Giornale” l'11 novembre 2019.  «Mai così tanti dovettero così tanto a così pochi». Churchill lo diceva dei piloti della Raf impegnati a difendere il loro Paese durante la battaglia d' Inghilterra. Con tutte le avvertenze e le differenze del caso verrebbe da ripeterlo anche per i wikipediani che tengono in piedi l' enciclopedia della Rete. Solo in Italia le pagine sfogliate durante il mese di ottobre su quello che è il quinto sito più popolare della penisola, hanno superato quota 620 milioni, 20 milioni al giorno. Non c' è istante in cui un dubbio, una domanda, una curiosità non si traducano nella consultazione di una provvidenziale voce di Wikipedia. L'altra faccia della medaglia sono gli editor, come si dice in inglese, gli «utenti», secondo l' espressione usata in italiano: i volontari che scrivono, contribuendo ad alimentare e aggiornare il corpaccione dell' enciclopedia. Secondo i dati dichiarati, quelli attivi, che effettuano almeno cinque interventi al mese, sono da noi non più di 2.300. Spetta a loro esibirsi su ogni ramo dello scibile umano, per fare manutenzione e possibilmente far crescere le voci, sono più di un milione e mezzo, dell' edizione italiana. Dopo i picchi di una decina d' anni fa, quando avevano superato quota 3mila, il numero dei volontari tricolori è stagnante da tempo. E all' estero va anche peggio: fonti indipendenti parlano di un calo continuo in corso da anni. Un' analisi precisa è difficile perché il numero degli utenti attivi, quelli che si danno da fare, non figura, e forse vuol dire qualcosa, tra le molte statistiche diffuse da Wikipedia. «Siamo diventando un po' una riserva indiana», scherza Maurizio Codogno, portavoce di Wikimedia, l'associazione, filiazione della fondazione americana, che cura l' infrastruttura tecnica dell' enciclopedia online. Non è solo questione di cifre. O meglio, le cifre sono importanti, ma sembrano riflettere qualche cosa di più profondo: la crisi di un modello che rischia di rimanere vittima del proprio successo. In discussione è il principio stesso da cui tutto è partito. Wikipedia nasce nel 2001, e nasce per sbaglio. Il progetto di Jimmy Wales, il fondatore, è quello di mettere online un' enciclopedia gratuita, Nupedia, scritta da esperti, secondo un modello tradizionale. Ma questi ultimi non rispondono all' appello, i tempi si allungano. Wales nel frattempo ha raccolto una piccola comunità di appassionati all' idea illuministica della diffusione del sapere via web. «Cominciamo a scrivere noi», dice. E il successo arriva subito. Di profitto non si parla, l' idea di fondo è quella della conoscenza cooperativa, dell' intelligenza collettiva che supera quella individuale. Le voci dell' enciclopedia vengono migliorate attraverso il dibattito e il confronto. Gli autori non appaiono: nascosti da un nickname, un soprannome, danno il loro oscuro ma importante contributo, accontentandosi della soddisfazione di partecipare a un progetto. È l' utopia della prima fase di Internet. Solo che poi la Rete prende un' altra strada: nel 2004 nasce Facebook, nel 2006 Twitter, nel 2010 Instagram. Dall' anonima e umile partecipazione all' intelligenza di gruppo, si passa all' esibizione dell' ego. Sulla Rete si fa di tutto per un «like», ha scritto qualcuno, mentre chi collabora a Wikipedia al massimo può beccarsi le critiche di chi mette in discussione questa o quella voce. L' enciclopedia diventa un po' alla volta parte delle abitudini quotidiane dei frequentatori del web, ma allo stesso tempo resta una comunità quasi del tutto maschile: la percentuale di autori donne va dal 10% stimata da fonti indipendenti al 15% dichiarato da Wikimedia. Il numero degli editor inizia a calare, qualche cosa di analogo si può dire delle voci: non aumentano più, molte vengono aggiornate di rado e con ritardo. È la dinamica normale di chi è cresciuto molto, spiega il portavoce Codogno: «Certo, il numero di utenti attivi si è ridotto rispetto al boom, ma è anche vero che Wikipedia non può crescere all' infinito: non può diventare una mappa grande come il territorio che riproduce, come raccontava Lewis Carroll un secolo prima di Borges. Detto altrimenti: gli utenti che aggiungono materiale sono di meno perché c' è meno da aggiungere». Poi c' è il problema della tecnologia: «È vero, oggi sul web ognuno è l' agenzia pubblicitaria di se stesso, lo spirito dei tempi sembra lontano dall' approccio collaborativo dei primi anni 2000», spiega Frieda Brioschi, per 13 anni e fino al 2016 presidente di Wikimedia Italia. «Ma non è solo questo a tenere lontane le persone. L' interfaccia è ferma a 14/15 anni fa, le logiche di funzionamento pure. Un sistema di notifiche è stato introdotto con molti limiti e solo in tempi recenti». Tutti temi importanti, ma oscurati dalla madre di tutte le accuse che pesano su Wikipedia: l' aver contribuito ad alimentare in maniera decisiva quell' ondata di incompetenza che sembra segnare l' era digitale. «Che mi importa della tua laurea, l' ho letto su Wikipedia e quindi ne so quanto te», è la sintesi che pare caratterizzare molti dibattiti. E a livello politico il clima ha finito per essere sintetizzato dal mantra grillino «uno vale uno». Da cui però Codogno sembra prendere le distanze: «Filosoficamente parlando, uno vale uno può significare che la decisione della maggioranza è la verità. Per noi non è così, al contrario: ci sono fonti affidabili e meno affidabili. Che vanno valutate e su cui ci sforziamo di raggiungere un consenso diffuso». Per raggiungere l' obiettivo Wikipedia ha una struttura basata fondamentalmente su due livelli: gli editor o utenti che possono contribuire a scrivere o modificare una voce, e gli amministratori. Questi ultimi, in Italia un centinaio, sono eletti dalla comunità sulla base del loro impegno (voci create o modificate, partecipazione alle discussioni), e confermati ogni anno. Rispetto ai soldati semplici hanno qualche potere in più. Si occupano in prima persona della cosiddetta attività di «patrolling», la sorveglianza contro gli atti di vandalismo digitale (che peraltro può essere svolta anche dai semplici utenti) e possono «proteggere» le pagine: nei casi più controversi e in cui si registrano interventi considerati inaccettabili, hanno la facoltà di congelare la situazione impedendo ogni ulteriore intrusione ed eventualmente «bloccando» l' autore malintenzionato. Il dibattito e il confronto si svolgono su pagine o portali tematici, forum dove talvolta le discussioni assumono toni infuocati. Parallelamente alla struttura di Wikipedia, c' è quella di Wikimedia, l' associazione (ha circa 400 aderenti) che «promuove la produzione, la raccolta e la diffusione di contenuti liberi», ossia non protetti da vincoli all' utilizzo anche commerciale, e che sostiene anche tecnicamente l' enciclopedia. L' associazione non è tecnicamente responsabile dei contenuti di Wikipedia. Ma le polemiche sono frequenti e di tutti i tipi. Ci sono i «buontemponi» digitali, come quelli che solo qualche settimana fa hanno modificato la voce su Omegna, scrivendo che la cittadina sul lago d' Orta era un «comune di stupratori» (in un paio d' ore la situazione è tornata normale). E poi ci sono casi più seri, quelli in cui correggere una voce equivale al tentativo di riscrivere la storia. A livello internazionale per esempio ha fatto rumore la recente denuncia del quotidiano israeliano Haaretz, secondo cui le pagine dedicate all' Olocausto venivano regolarmente modificate da autori vicini all'estrema destra polacca, nel tentativo di minimizzare la partecipazione di Varsavia al genocidio ebraico. Wikipedia, come la realtà che si sforza di spiegare, è un mondo pieno di insidie. Ma forse non a sufficienza per giustificare quanto deciso in Russia. Mosca ha avviato da tempo un progetto per separare l' Internet russa da quello del resto del mondo. E nel piano, affidato alla cosiddetta Roskomnadzor, l' autorità per il controllo di Comunicazioni e Mass Media, c' è anche la creazione della prima enciclopedia digitale alternativa a Wikipedia: il portale, controllato dal governo e realizzato in collaborazione con la «Grande Enciclopedia Russa», costerà 30 milioni di dollari, sarà pronto nel 2022.

Angelo Allegri per “il Giornale” l'11 novembre 2019. Il fondatore Jimmy «Jimbo» Wales ci riprova: la sua ultima creatura si chiama Wikitribune, un social basato sulla condivisione di articoli di qualità. Lanciato nel 2017 il progetto non sembra essere ancora decollato, ma l' ideatore insiste: «L' informazione del futuro passerà da social come il mio Wikitribune, senza paywall né pubblicità, sostenuti solo dalla comunità», ha dichiarato in una recente intervista al Sole24Ore. Classe 1966, americano cresciuto in Alabama, finanziere appassionato di tecnologia, Wales è oggi presidente emerito della Fondazione Wikimedia, a cui ha donato la proprietà di Wikipedia. «La donazione è stata la cosa più stupida che ho fatto e anche quella più intelligente», ha detto. Stupida, ha spiegato, perché ha comportato la rinuncia a un bene il cui valore prudenziale è stato stimato intorno a tre miliardi. Intelligente perché il carattere non profit del progetto ne ha garantito il successo. Da rilevare che nonostante tutto, il patrimonio di Wales non è proprio trascurabile e viene valutato intorno al miliardo di dollari. Per quanto riguarda la fondazione di Wikipedia Wales è stato coinvolto in una controversia proprio con la sua creatura. Il miliardario si considera l' unico fondatore dell' enciclopedia online: fu lui a fornire i capitali iniziali e ad assumere come collaboratore Larry Sanger (che oggi non si occupa più di Wiki e che tra l' altro, è diventato uno dei più accaniti critici di ogni tipo di social). Visto che però Sanger ha elaborato buona parte del progetto e che almeno in una fase iniziale, i due, in articoli e interviste, si presentavano come co-fondatori, Wikimedia ha deciso di fare lo stesso. La voce scritta in proposito da Wales è stata modificata e l' interessato ha anche dovuto scusarsi per essersi occupato personalmente della propria biografia, politica che le linee guida di Wiki cercano di scoraggiare. Quanto a Wikitribune a seppellire di recente l' iniziativa è stata la rivista Wired: «Wales, appassionato di stampa, da tempo nel board del Guardian, voleva salvare il giornalismo. Purtroppo non ci è riuscito».

Il «Polocaust» e la bufala più vecchia di Wikipedia (15 anni) La verità sul campo di Varsavia. Pubblicato martedì, 08 ottobre 2019 su Corriere.it da Silvia Turin. Il quotidiano israeliano Haaretz denuncia: modificate decine di pagine sull’enciclopedia da gruppi di estrema destra per minimizzare l’Olocausto. La più antica fake news circolata su Wikipedia potrebbe riguardare l’Olocausto e in particolare la presenza o meno di una camera a gas nel campo di concentramento di Varsavia. Almeno è quanto sostiene il quotidiano israeliano Haaretz, che da qualche tempo scrive articoli su quello che definisce «uno sforzo sistematico da parte dei nazionalisti polacchi per falsare centinaia di articoli di Wikipedia relativi alla Polonia e all’Olocausto». La bufala di cui scrive Haaretz riguarda la pagina in inglese di Wikipedia sul «campo di concentramento di Varsavia», noto anche come Konzentrationslager Warschau (KL Warschau). Il luogo di questo campo, vicino alla stazione ferroviaria di Warszawa Zachodnia, è oggi meta di pellegrinaggio e vi si tengono periodiche cerimonie di commemorazione delle vittime polacche. Questo perché per circa 15 anni si è parlato in quella pagina internet, aperta nel 2004, di un «campo di sterminio» dove sarebbero stati assassinati anche in una «camera a gas» migliaia di polacchi (200.000, si leggeva). La pagina è stata tradotta dall’inglese in varie lingue e frammenti di quelle informazioni sono finite in altre voci di Wikipedia su argomenti correlati, addirittura negli articoli principali dell’enciclopedia dedicati alla Shoah dove, per anni, il KL Warschau è stato accostato a campi come Auschwitz. Peccato che gli storici (anche polacchi) hanno smentito che all’interno del KL Warschau ci fossero camere a gas e il numero dei polacchi lì assassinati, per quanto controverso, è stimato più vicino ai 4.000-20.000 (le fonti non sono concordi) che a 200.000. «Nella realtà dei circa 42.500 tra campi e ghetti creati dai Nazisti nell’Europa occupata e del Reich, il campo di concentramento di Varsavia era uno dei campi “minori” per memorie e informazioni - spiega Andrea Bienati, docente di Storia e didattica della Shoah e delle Deportazioni -. È conosciuto in Polonia con il nome di Gęsiówka, dal nome della via dove era stato creato. Venne realizzato dopo la rivolta del ghetto ebraico creato dai nazisti e la successiva sistematica demolizione degli edifici dell’area, con lo scopo di recuperare i materiali riutilizzabili nell’edilizia, i rottami ferrosi, ed eventuali oggetti preziosi tra le macerie. I deportati qui acquartierati furono utilizzati come lavoratori schiavi per questo progetto. Funzionò dall’estate dal 19 luglio del 1943 al 5 agosto del 1944, quando gli insorti di Varsavia lo liberarono. Lì vennero deportati complessivamente 8.000-9.000 ebrei scelti tra i più in forze e principalmente non di origine polacca, onde rendere più difficili progetti di fuga e la creazione di movimenti di empatia e resistenza con i lavoratori polacchi non ebrei che erano coinvolti nel lavoro di rimozione delle macerie dall’area. Circa la metà dei deportati morirono per maltrattamenti, condizioni di lavoro, esecuzioni e tifo. La fonte più aggiornata su questo è l’“Enciclopedia dei campi e dei ghetti” curata dall’”Holocaust Memorial Museum” degli Stati Uniti”». La pagina di Wikipedia sul campo in questione è stata modificata solo nell’agosto di quest’anno da un editor israeliano soprannominato Icewhiz, che rifiuta di essere identificato con il suo vero nome ma ha accettato di parlare con Haaretz. Icewhiz ha riscritto l’articolo in lingua inglese che - dice - sarebbe solo «la punta dell’iceberg» e sta tentando di ripulire altre voci di Wikipedia. Ad esempio, nell’articolo «campi tedeschi nella Polonia occupata durante la seconda guerra mondiale» le informazioni false relative a Varsavia sono rimaste online per quasi 13 anni. Nella prima versione del 2006, l’editor polacco aveva cancellato anche una riga in cui si spiegava che «l’intenzione principale di questi campi era lo sterminio degli ebrei». Haaretz, insieme ad alcuni storici dell’Olocausto interpellati, parla «di quello che sembra essere uno sforzo sistematico da parte dei nazionalisti polacchi per falsificare centinaia di articoli di Wikipedia relativi alla Polonia e all’Olocausto», un tentativo di minimizzare la Shoah e rivendicare una parità di sofferenza tra tutte le vittime del nazismo, in particolare polacchi ed ebrei. In Polonia alcuni nazionalisti di destra hanno coniato il termine «Polocausto», usato per indicare le vittime polacche dell’occupazione nazista. «Polocausto come espressione è stata introdotta nel dibattito pubblico all’inizio del 2018 da Marek Kochan, un consigliere d’immagine di Jarosław Kaczyński, capo del partito Diritto e Giustizia (PiS) che governa attualmente la Polonia», spiega Remigiusz Poltorak, giornalista di Interia.pl di Cracovia interpellato dal Corriere. «Il dibattito nel nostro Paese si è soprattutto concentrato sull’impedire che qualcuno potesse parlare della Polonia come corresponsabile dell’Olocausto. Per questo nel febbraio del 2018 il parlamento ha approvato la legge che vieta di accusare la Polonia di complicità nell’Olocausto e di riferirsi ai campi di concentramento nazisti in Polonia come “polacchi”. L’introduzione di questa legge (che all’inizio prevedeva la reclusione per la violazione del divieto) ha però danneggiato l’immagine della Polonia all’estero – ci dice Poltorak - e nonostante le successive modifiche, da allora le relazioni con Israele sono molto peggiorate». «Se si potesse dimostrare che i tedeschi avevano costruito una camera a gas allo scopo di sterminare i polacchi non ebrei, ciò minerebbe lo status dell’Olocausto come un crimine di proporzioni uniche», scrive Christian Davies, corrispondente di The Guardian a Varsavia e autore di una breve ma avvincente storia del mito delle camere a gas del KL Warschau in una recente edizione di “The London Review of Books”. È contro il travisamento di numeri, memoria e storia e soprattutto contro chi sta dietro alle modifiche delle voci di Wikipedia che si concentrano gli sforzi di Icewhiz. In effetti per le versioni locali dell’enciclopedia libera, in particolare quelle legate a lingue parlate solo in un Paese (come l’ebraico o il polacco) è attivo un gruppo di editor ristretto e quindi è maggiore la possibilità che vengano commessi degli errori, intenzionali o no, o che comunque le pagine riflettano la narrazione predominante in quegli stessi Paesi. Se poi, per completare le voci mancanti in inglese, vengono semplicemente tradotti i lemmi senza controllo, gli errori passano da una versione alle altre. Per quanto riguarda la più antica bufala, è sorprendente come sia rimasta online per così tanto tempo dato che la prima fonte di queste false notizie sembra essere stata la giudice Maria Trzcińska nel 2002 (che lavorò per la Commissione del governo comunista che indagava sui crimini nazisti in Polonia). Secondo Trzcińska, il tunnel della strada Józef Bem, vicino alla stazione ferroviaria di Warszawa Zachodnia, era stato utilizzato come una gigantesca camera a gas. La tesi, a seguito di una serie di dettagliate indagini fatte fare dall’Istituto Nazionale per la Memoria polacco è stata completamente smontata e si è scoperto anche che i pozzi di ventilazione (una delle presunte prove per sostenere la storia della camera a gas) erano stati installati solo negli anni ’70. Il rilancio della notizia dell’esistenza di un campo di sterminio con una camera a gas a Varsavia è avvenuto all’interno degli ambienti nazionalisti all’inizio degli anni Novanta. Recentemente il PiS ha sciolto il consiglio degli storici che si erano schierati contro le targhe di commemorazione al KL Warschau. Una di queste, posta nel 2017 nel quartiere di Grochów, recita: «In memoria dei 200.000 polacchi assassinati a Varsavia nel campo di sterminio tedesco KL Warschau». Alla cerimonia di inaugurazione un deputato del PiS, Andrzej Melak, - scrive Christian Davies - ha tenuto un discorso parlando di «storia vivente, che ogni polacco dovrebbe conoscere».

Mentre tutta questa nuova narrativa revisionista non è riuscita a trovare spazio nel mondo accademico o nei media al fuori della Polonia, su Wikipedia ha prosperato dato che gli accademici specialisti non si prendono la briga di modificare le voci dell’enciclopedia online. «È un fenomeno che invece meriterebbe di essere studiato», ha detto ad Haaretz Havi Dreifuss, a capo del Centro di ricerca sull’Olocausto di Yad Vashem, in Polonia. «Ho visto gli articoli cambiare radicalmente, di fronte agli occhi dei miei studenti negli ultimi anni. Quando ho esaminato alcuni articoli con loro, ho notato che il testo e alcuni aspetti visivi erano stati alterati». Nel 2009 WikiLeaks (che non è collegato a Wikipedia) ha pubblicato una serie di email rivelando l’esistenza di un gruppo di redattori di Wikipedia provenienti da nazioni dell’Europa orientale che stavano coordinando le loro azioni e lavorando insieme per modificare i contenuti e portare avanti una linea nazionalista. Molti di questi autori sono tuttora attivi su Wikipedia e, mentre Icewhiz è stato escluso dagli editor a causa delle sue posizioni pro-Israele definite «aggressive», poche settimane fa - scrive Haaretz - , un editor bandito a seguito delle segnalazioni di cui abbiamo parlato ha cercato nuovamente di modificare l’articolo sul campo di concentramento di Varsavia. «Come è possibile – si chiede il quotidiano israeliano - che i redattori coinvolti in una violazione così grave delle regole di Wikipedia siano tornati alla modifica?». Intanto la comunità di Wikipedia deve decidere su un’altra domanda, se riconoscere intanto la storia della versione falsata del «KL Warschau» come la bufala più antica della storia dell’enciclopedia online.

Wikipedia e la bufala sul Polocausto: «Meglio gli errori che un controllo dall’alto». Così funziona l’enciclopedia libera. Pubblicato martedì, 15 ottobre 2019 da Corriere.it. C’è la Wikiquette, l’etiquette che detta le linee di comportamento della comunità. E c’è il WikiLove, lo «spirito di collegialità e mutua comprensione» che dovrebbe guidare gli utenti volontari nella costruzione dell’enciclopedia online «libera e collaborativa». Ma non esiste un modo per definire le bufale che nascono e crescono tra le milioni di voci del portale che offre ogni giorno la soluzione ai nostri dubbi. L’ambizioso obiettivo con cui Jimmy Wales e Larry Sanger fondarono Wikipedia nel gennaio del 2001 si scontra ogni giorno con la realtà. Una realtà abitata non solo da burloni da tastiera, ma anche da revisionisti radicali della Storia. Perché se da una parte c’è chi manomette le voci dell’enciclopedia solo per farsi due risate, dall’altra ci sono squadre di spacciatori di false credenze. È il caso del lager di Varsavia trasformato in un campo di sterminio di polacchi per minimizzare i numeri dell’Olocausto, bufala considerata la più antica della storia di Wikipedia. Ma come si protegge Wikipedia da questo problema? Di fatto non lo fa. Non esistono strumenti di prevenzione contro la pubblicazione di fake news: nessun organo di controllo, nessuna redazione, nessun algoritmo. La missione di mantenere un punto di vista neutrale, uno dei cinque pilastri del progetto, è affidata unicamente alla capacità della comunità di autoregolarsi e nella fiducia dei collaboratori che si spendono di più per la causa. Chiunque può modificare un’informazione discutibile, che ritiene non basata su fonti esterne attendibili. «Wikipedia non è una fonte primaria», spiega Maurizio Codogno, portavoce di Wikimedia Italia, succursale nostrana dell’organizzazione non profit che sostiene Wikipedia e tutti i progetti collegati all’enciclopedia. «Noi non possiamo fare altro che avere delle fonti esterne che consideriamo valide e basarci su queste». Di certo quest’opera di revisione fatta da volontari – sono tra i 2mila e i 2500 i più attivi - non è infallibile. Non ci sono esperti o accademici che lavorano per mantenere l’equilibrio in Wikipedia. O meglio, potrebbero esserci, ma essere una minoranza. Anche per questo ogni voce ha un suo registro che memorizza la cronologia delle modifiche. In caso di pasticci, è possibile riportare la voce alla versione precedente. Ciò avviene anche in caso di conflitto sulle informazioni contenute in una pagina. E il conflitto può trasformarsi nei casi più estremi in una «guerra di modifiche»: un muro contro muro tra uno o più contributori che vogliono imporre la propria versione. Come si mette fine a questi scontri? Nemmeno qui c’è un intervento dall’alto. Anche la risoluzione del conflitto è lasciata alla comunità. Sono due i livelli di discussione in modalità forum: se il dibattito resta limitato a una singola pagina, ci si confronta nella «pagina di discussione» collegata alla voce stessa; se, invece, il caso è più complicato la comunità la discussione si sposta nel «bar» dei progetti inerenti al tema della voce per un confronto più ampio. La «guerra di modifiche» può essere interrotta in via provvisoria da un amministratore, un utente più esperto che, solo in questi casi, può «cristallizzare» la pagina alla versione antecedente l’avvio della disputa. Benché l’orientamento di Wikipedia incentivi risoluzioni basate sul dialogo, esiste anche la strada del sondaggio o della votazione tra le varie alternative di modifica sul tavolo. Lo stesso approccio è adottato e promosso in merito ai ban definitivi di un contributore, cioè le espulsioni dal portale. «È una misura estrema, viene usata quando si nota che questa persona non ha nessuna intenzione di mettersi in gioco nella comunità», specifica Codogno. Ma l’espulsione riguarda solo l’utente che si nasconde dietro precise credenziali. Perché, chiaramente, una persona può perseverare nella sua condotta scorretta con un nuovo profilo. Oppure costruirsi una «nuova vita» da wikipediano collaborativo. «Se queste persone volessero iscriversi con un diverso nome utente e tornare a scrivere, noi non possiamo scoprirlo perché non abbiamo accesso ai log», i file su cui è tracciata tutta l’attività dell’utente. Questo discorso riguarda l’edizione italiana di Wikipedia, perché ogni comunità linguistica – sono 280 - ha le sue regole. Potenzialmente, quindi, attraverso la traduzione di una pagina da un’altra lingua che segue politiche più anarchiche, un’edizione in genere curata può ereditare errori, omissioni e travisamenti. Facendo una sintesi estrema, Wikipedia si lascia aggredire dalle bufale per sviluppare gli anticorpi necessari a combatterle. Ma nel tempo trascorso dal momento dell’infezione e quello in cui il virus viene debellato le informazioni false possono influenzare profondamente il pensiero di una persona, specie in tempi in cui non tutti gli utenti web sono dotati degli strumenti per valutare l’attendibilità di una fonte. Come nel caso del lager polacco. «Quello che succede in casi come questo – analizza Codogno - è che possono esserci gruppi di utenti che cercano di far accreditare fonti che non sono effettivamente neutrali e cercano di imporre altre visioni come quella negazionista. Per un po’ ci riescono ma prima o poi qualcuno si accorge della cosa, in maniera pubblica, come in questo caso, o meno pubblica. La comunità di fruitori è sempre riuscita a mantenere l’equilibrio nell’enciclopedia». Ora sulla pagina dedicata al campo di concentramento di Varsavia ci sono due avvisi che mettono in guardia gli utenti: «Questa voce o sezione sull’argomento storia è ritenuta da controllare» e «Questa voce o sezione sembra contenere dati fantasiosi, assurdi o completamente inventati». Note che, però, non sempre si rivelano efficaci: «Possiamo mettere tutti gli avvisi che vogliamo ma se l’avviso viene ignorato siamo punto a capo». Appurato che alcune informazioni non sono vere o frutto di bizzarre teorie, non si potrebbe semplicemente intervenire con il bianchetto? «Avere la fonte falsa con la spiegazione del perché è falsa porta un vantaggio nella comprensione globale», spiega Codogno. «Se io ho un’enciclopedia con un controllo dall’alto, questa rifletterà un pensiero più o meno evidente. Su Wikipedia vogliamo avere più punti di vista corroborati da fonti. Il problema si sposta sull’attendibilità di queste».

·         Deepfake, dopo le fake news arrivano i video bufala: come si costruiscono?  

Da qualche tempo in rete spopolano i Deepfake. Le Iene il 27 ottobre 2019. Sono l’evoluzione delle fake news: video bufala in cui i protagonisti dicono cose che non hanno mai detto o pensato nemmeno di dire. Come si realizzano e quali pericoli nascondono? Ce lo spiega Matteo Viviani. Si chiama Deepfake ed è la tecnica che sta spopolando in Rete per la realizzazione di video dove però i soggetti non sono mai stati in realtà ripresi. Per molto tempo vi abbiamo parlato di fake news, oggi invece sono anche i video a poter essere delle complete bufale. Matteo Viviani ce ne parla nel servizio che vedete qui sopra. Come si realizza un video in cui i soggetti sembrano dire cose che non hanno mai detto o pensato di dire? E soprattutto: quali pericoli possono nascere da questa tecnica? Matteo Viviani lo ha chiesto a Davide Cozzolino, ricercatore dell’Università Federico II che insegna ai computer come ragiona la mente umana e in particolare come distinguere le immagini modificate da quelle reali. Potremmo trovare magari tutto questo divertente, ma forse dovremmo iniziare tutti a preoccuparci.

Da "ilfattoquotidiano.it" il 19 novembre 2019. “Il video in cui piangevo per la morte di mio padre è stato trasformato in un porno con i deepfake”. È quanto denuncia l’attrice e cantante Bella Thorne, la fidanzata di Benji del duo Benji e Fede, in un’intervista alla Bbc in cui ha spiegato come il suo video in cui si mostrava sconvolta per la morte di suo padre sia stato preso e trasformato in un filmato porno con l’utilizzo dell’intelligenza artificiale. La 22enne è infatti la celebrità in assoluto più sfruttata dai deepfake, ovvero questi video falsi ma assolutamente realistici realizzati manipolando con l’intelligenza artificiale dei contenuti veri. Bella Thorne ha ribadito tutto il suo sdegno per questa tendenza purtroppo in crescita: “Perché diavolo fanno cose del genere? Perché rendono accessibili tecnologie simili quando sanno che gran parte del mondo poi le sfrutterà? Mentre raccontavo quanto stavo male per mio padre, dicevo che mi mancava. Loro hanno preso quelle immagini e le hanno aggiunte al corpo di una ragazza che si stava masturbando. E questo video è andato ovunque e tutti hanno pensato che in quel filmato porno fossi realmente io“, ha detto indignata. I deepfake vengono utilizzati infatti soprattutto per realizzare contenuti pornografici: da un’analisi di Deeptrace Labs, il 96% dei deepfake pubblicati online consiste infatti in materiale pornografico non consensuale. “Non so ancora come potremo regolare una cosa del genere. A maggior ragione se penso che non riguarda solo le celebrità, ma perché chiunque può farlo usando anche i propri amici, a scuola. E se decidi che invece li odi abbastanza li puoi mettere online, farli girare“, ha concluso l’attrice. Questa tecnologia è diventata infatti ormai accessibile a tutti motivo per cui i suoi impieghi sono molteplici e pericolosi: qualche tempo fa, per esempio, aveva fatto discutere il video realizzato da Striscia la Notizia con protagonista Matteo Renzi.

Dagospia il 12 novembre 2019. Dal sito de ''Le Iene''. Chiara Ferragni e Fedez come Nicolò De Devitiis e Veronica Ruggeri vittime del deepnude? No, se c’è lo zampino di Matteo Viviani che ha voluto mostrarci un paio di esempi (falsi) di questa tecnica che in California è paragonata al reato del revenge porn. Dopo averci parlato del deepfake (clicca qui per il servizio), Matteo Viviani ci mostra che dietro al deepnude c’è l’agenzia artificiale e una strategia di addestramento chiamata Gan (Generative Adversarial Network) o meglio rete generativa avversaria. Una tecnica che ha due obiettivi: generare un’immagine sempre più realistica e un altro in grado di capire se è realistica o meno. Il programma viene addestrato con migliaia di immagini di corpi femminili nudi, così è in grado di riprodurne uno partendo da zero. Da una foto di partenza lui studia inclinazioni, ombre e luci. Ed è in grado di riprodurre pixel dopo pixel anche le parti coperte. Finché crea un’immagine che non è più distinguibile dall’originale. Il primo programma è uscito online la scorsa estate, ma dopo 4 giorni è stato rimosso. Ma in rete altre versioni simili si sono diffuse. Matteo Viviani vuole mettere alla prova Fedez e Nicolò De Devitiis mostrando loro i deepnude delle rispettive compagne: Chiara Ferragni e Veronica Ruggeri. Così recuperiamo delle loro foto in costume e facciamo partire il programma che ci permette anche di indicare le dimensioni delle parti intime come la grandezza del seno, dell’areola, del capezzolo. E dopo neanche 30 secondi il programma sforna le foto fake. A questo punto non ci resta che mostrarle a Fedez e al nostro Nicolò. “Non è un fotomontaggio?”, ci dice il rapper. Invece la Iena accusa subito il colpo: “Mi fa strano che Veronica faccia queste foto però è anche vero che lei usa il telefono come mia nonna. Fa solo chiamate e foto, appunto”. Fedez intanto manda le foto a Chiara: “Sono sicuramente fatte con Photoshop”, le risponde. E così almeno il rapper smaschera il trucco. Chi invece ci crede è Nicolò, ma dopo averlo fatto friggere per un po’ gli diciamo che è un deepnude. Noi abbiamo scherzato, ma la questione è molto seria. “Quello che ne consegue è chi ti dà della puttana e via dicendo”, dice Fedez. Proprio come è successo a Fabiana, una ragazza di 24 anni che si è ritrovata sul web ben 36 foto di lei completamente nuda. Lei fa la modella curvy e l’influencer. Un giorno ritrova le sue foto in un forum frequentato da milioni di utenti. “C’erano persone che chiedevano su commissione di spogliare foto di ragazze e in alcuni casi di bambine”, racconta Fabiana. “Non è solo una questione di social, avevo un’ansia perenne”.  

Deepfake, dal porno ai politici: come si creano i video bufala. Le Iene il 28 ottobre 2019. In Rete spopolano i Deepfake soprattutto nell’azienda del porno. Sono l’evoluzione delle fake news: video bufala in cui i protagonisti dicono e fanno cose che non hanno mai detto o pensato nemmeno di dire o fare. Matteo Viviani ci dice come si realizzano e quali rischi comportano. La propria faccia o quella di personaggi famosi in un film porno? È il rischio che si corre con il deepfake, la tecnica che sta spopolando in Rete per la realizzazione di filmati dove però i soggetti non sono mai stati in realtà ripresi. Tutto questo è possibile sfruttando l’intelligenza artificiale di alcuni software. Matteo Viviani ne parla con Davide Cozzolino, ricercatore dell’Università Federico II di Napoli: “All’inizio lavoravo per individuare immagini e video falsi modificati con tecniche false, ma negli ultimi anni ci siamo concentrati sul deepfake”. Un nuovo pericolo in Rete che potremmo trovare divertente. Forse però dovremmo iniziare tutti a preoccuparci. “Si tratta di video manipolati in cui la faccia del filmato originale diventa quella di uno sconosciuto”, spiega Cozzolino. È la tecnica già usata che fa invecchiare gli attori, ma con l’avanzare dei progressi il video fake è diventata accessibile a tutti. Chiunque può sostituire il volto di una persona partendo da quelli di un’altra: bastano le foto dei due. Fin qui si parla solo di immagini, ma se un politico dicesse cose mai dette potrebbero sorgere problemi internazionali. Oggi il deepfake viene utilizzato anche nell’azienda del porno. Ne parliamo con Alessandro, che ci aveva fatto scoprire le stanze della perversione (clicca qui per il servizio), quelle comunità dove centinaia di utenti sfogano le loro indicibili fantasie sessuali nei confronti di ragazze ignare alle quali sono state rubate le foto dai loro profili social. Ci aveva parlato anche dei deepfake porno e soprattutto del rischio che potrebbe concretizzarsi tra qualche anno: “Si rischia che con una manciata di foto si possano fare dei filmati hard”. Stando ad alcune ricerche, il numero dei deepfake nell’ultimo anno è quasi raddoppiato passando dai 7mila video del 2018 agli oltre 14mila del 2019. E il 96% è di tipo pornografico. Per questo fine, in alcuni forum ci sono caricate migliaia di foto di particolari del volto di politici e persone famose tra cui attrici. Con la tecnica del deepfake si potranno attaccare i volti di queste persone a quelle di attrici porno. Questa tecnica rischia di diventare un’arma, senza contare che purtroppo diverse persone si sono tolte la vita perché loro immagini pornografiche sono finite in Rete. “È fondamentale conoscere questo fenomeno in modo da arrivare pronti ai rischi. Perché se non siamo pronti a fronteggiarli, davvero qui ci scappa il morto”, dice il nostro esperto Alessandro. Ma il fenomeno si può estendere ad altro. Pensate solo a video deepfake che rischiano di finire in tribunale per un processo. Per questo Cozzolino e il suo team si stanno specializzando nel capire se un filmato è stato manomesso o meno: “Qualcosa si muove, ma le tecniche sono ancora nell’ambito della ricerca”.  

Jaime d'Alessandro per “Affari & Finanza - la Repubblica” il 14 ottobre 2019. "I curdi combattono per la loro terra (), e non ci hanno aiutati nella Seconda Guerra Mondiale, non ci hanno aiutato in Normandia ()». Guardando Donald Trump durante una delle sue ultime performance in conferenza stampa, mi sono chiesto sinceramente se ero davanti ad un caso di "deepfake": una manipolazione operata da un'intelligenza artificiale per far dire al presidente degli Stati Uniti quello che in realtà non ha mai detto. In Italia di questa tecnologia ce ne siamo accorti solo di recente con il servizio mandato in onda da Striscia la Notizia: un Matteo Renzi posticcio che lanciava insulti di ogni genere convincendo milioni di persone malgrado si capisse fosse un' operazione posticcia. La California ha bandito ogni falsificazione e manipolazione tecnologica di video mentre sia Google sia Facebook stanno realizzando delle contromisure. È un'arma virale devastante per screditare qualcuno La Stanford University, assieme al Max Planck Institute, già nel 2016 aveva dimostrato le potenzialità di questa tecnologia in un video ormai celebre intitolato Face2Face. Un ricercatore ripreso da una telecamera, veniva trasformato in diretta in George Bush, un altro in Vladimir Putin, un altro ancora in Barack Obama e uno appunto in Donald Trump. Che a me, tutt'oggi, sembra decisamente più credibile di quello che è andato in tv giustificando la fine del supporto ai curdi per assenza di reciprocità. Poche ore prima sempre Trump aveva messo al bando 28 aziende cinesi e fra queste alcune delle più abili nel campo dell'intelligenza e della visione artificiale. SenseTime, Megvii, Yitu, iFlytek sono tutte coinvolte in questo settore e le loro tecnologie sono state usate nella sorveglianza di massa in Cina e nella repressione degli uiguri in Xinjiang. La distanza da applicazioni come Zao della Momo, che permette di applicare il nostro volto a sequenze di film e serie trasformandoci nei protagonisti, è breve. Da qualsisia angolazione la si guardi, si tratta di tecnologie potenzialmente pericolose tanto che la California ha pensato bene di bandire ogni forma di deepfake mentre sia Google sia Facebook stanno realizzando delle contromisure. È un' arma virale devastante per screditare qualcuno e prima o poi anche l' Europa dovrà correre ai ripari andando oltre i convegni sul tema. Ma certo, davanti a certi politici il dubbio che si tratti di un falso resterà sempre.

Nanni Delbecchi per il “Fatto quotidiano” l'1 ottobre 2019. Una volta era tutto più semplice. "Se non vedo non credo", dice San Tommaso. Ma se il dubitoso apostolo si connettesse in Rete, dovrebbe cambiare idea. Di una notizia è il caso di dubitare proprio quando la vedi, specie se la vedi troppo. "Pardon. Credo solo a quello che non vedo". Siamo nell' era dell' intelligenza artificiale, d' altronde quella naturale scarseggia. Il Renzi così finto da essere vero di Striscia la notizia è l' ultima frontiera della manipolazione permanente, proposto in perfetta coerenza con il Tg satirico di Antonio Ricci. Da sempre la vera missione di Striscia è smascherare i fake (la verità è inafferrabile, ma la menzogna no): con le imitazioni, le animazioni, specie con i fuorionda. Tutto sembrava perduto fuorché il fuorionda, che ora si candida a ultimo stadio della messa in scena. Le polemiche stanno a zero, Striscia si conferma il nostro unico programma educational, il solo a metterci sotto gli occhi quello che gli altri fingono di non vedere, o non vedono proprio. L' unico appunto che si può fare è averci mostrato il Renzi più credibile a memoria di telespettatore. Lo sappiamo tutti che in quel fuorionda dove sfida Totò nell' arte del pernacchio c' è il suo vero pensiero. Se il vero finto Bomba avesse tessuto le lodi di Zingaretti leader della sinistra italiana, del grande statista Conte, del leale avversario Salvini, allora sì che si sarebbe potuto gridare allo scoop. Con la benedizione di San Tommaso: "Pardon. Credo solo a quello che è falso".

Carmelo Caruso per “il Giornale” l'1 ottobre 2019. Ci ha spaventato un' altra volta con il suo falso Sergio Mattarella che in video ha detto: «Malfattori. Ai ceppi! Casta di cialtroni». Ma questa volta non era più vero del vero così come lo era stato Matteo Renzi che, a «Striscia la Notizia», spernacchiava Giuseppe Conte, Nicola Zingaretti e poi Luigi Di Maio: «Di Maio? Tié». E insomma tutti sapevano che Antonio Ricci, diabolico e pur geniale, ci avrebbe riprovato e avrebbe riproposto un altro un deepfake, un video perfettamente manipolato attraverso la tecnica che permette di sintetizzare la voce e riproporla ma senza filtri. Un esperimento sofisticatissimo, già praticato negli Usa, ma angosciante come lo era quello di Cuore di Cane di Bulgakov. E infatti è vero che Renzi, in prima battuta, si è complimentato con Ricci, ma dopo ha compreso il pericolo della menzogna che sul web diventa subito verità. Certo è vero che Ricci ha sussurrato, ha ammiccato, ha lasciato intendere, già in occasione del video di Renzi, che le immagini avrebbero stupito tutti e «suscitato polemiche» e però la bravura dell' attore quanti ha tratto in errore e fatto pensare al Renzi davvero mai visto? Ieri sera c' era la grande attesa non appena diffusa la nota di «Striscia» che annunciava la presenza di Mattarella nientemeno che per «intervenire sulla manipolazione spesso operata dagli organi di informazione». La paura era tanta che perfino il Quirinale, appresa l' anticipazione, ha confermato l' ovvio, ma di questi tempi non si sa mai, ovvero: «Non è previsto alcun intervento del presidente né registrato né in diretta. Si tratterà, ha spiegato il consigliere per la stampa del capo dello Stato, di una nuova puntata satirica del programma di Canale 5 su cui dal Colle non hanno nulla da eccepire». Si era quindi impazienti quando Ezio Greggio è entrato in scena per prepararci a «servizi clamorosi» e si è collegato con un Adriano Celentano che sembrava, questo sì chiaramente falso, e che non necessitava di punto interrogativo che Ricci, però, ha voluto inserire in basso. Mattarella, ed era già tardi, è apparso con tanto di inno, ma il suo volto ballava e si capiva che era incollato su quello di un altro. Ricci si è tuttavia preso gioco e gli ha fatto dire: «Sono indignato. Sono da anni che si manipolano le notizie come hanno fatto quei gaglioffi del Tg1». A quel punto è partito un servizio commentato da Greggio per dimostrare che nel 2001 il tg della Rai aveva fatto sembrare piena la sala vuota di Francesco Rutelli. Ma poi riprendeva un Mattarella con il tono, questo sì suo, cadenzato, che rimprovera l' informazione («Se ne infischiano. Chi doveva vigilare era connivente») per arrivare a: «Sono per la libertà di stampa, ma di stamparli tutti in galera». E poi: «Wanna Marchi al confronto sembra essere una santa. Sono per i paletti ma so dove metterli». È finita con Mattarella che spediva una pernacchia a Renzi e con l' elogio della libera informazione che non significa però avvicinarsi al falso e farlo passare per vero.

Simone Pierini per leggo.it il 25 settembre 2019. Un fuorionda che avrebbe dell'incredibile quello mandato in onda lunedì sera da Striscia la Notizia. Il protagonista è, o meglio dire sarebbe, Matteo Renzi. Il suo volto, il corpo, il viso che si muove seguendo le parole. I gestacci con insulti al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, al segretario del Pd Nicola Zingaretti e, infine, anche al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. «Dovevi vedere la faccia di Conte quando gli ho detto che me ne andavo; Zingaretti… ma per carità, dai», dice Renzi che, in realtà, non è lui. Questo perché si tratta di un innovativo sistema basato sull'intelligenza artificiale chiamato "DeepFake". A svelare il "gioco di prestigio" televisivo è proprio Striscia la Notizia che in una nota apparsa sul sito ha spiegato la tecnologia utilizzata. «Striscia la Notizia - si legge - ha implementato tale processo in cui converge il lavoro di professionisti della scrittura autoriale, della recitazione, della produzione di audiovisivi, della post-produzione e della matematica: il Tg satirico di Antonio Ricci ha raggiunto quindi un risultato televisivo, per ora, unico e irripetibile al mondo». «È lui o non è lui? Certo che non è lui», twitta la trasmissione di Antonio Ricci che ieri ha aperto la nuova stagione. «Ieri Striscia la notizia ha inaugurato la 32esima stagione con una grande vittoria - ha dichiarato in una nota Giancarlo Scheri, direttore di Canale 5 in una nota Un risultato che, ancora una volta, celebra l'immenso genio di Antonio Ricci, deus ex machina di questo unicum televisivo, capace ogni giorno di creare un programma sempre vivo e di altissima qualità, tassello fondamentale al successo del dato di prime time di Canale 5. Grazie a lui, agli strepitosi Ezio Greggio e Michelle Hunziker, alle Veline Shaila Gatta e Mikaela Neaze Silva, reduci dal grande successo estivo di Paperissima Sprint, e a tutto il team produttivo», ha concluso Scheri.

Da primaonline.it il 25 settembre 2019. “Ricci e la sua trasmissione sono come sempre all’avanguardia e ci hanno fatto conoscere per primi in italia il fenomeno della Deep fake news. Adesso però conosciuto il fatto, sarebbe opportuno, anzi è doveroso, che le autorità competenti mettano dei paletti per capire cosa si può fare e dove non si può andare oltre”. E’ quanto dichiara il deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, Michele Anzaldi, in un’intervista al sito “Affaritaliani.it”, a proposito del falso fuorionda di Matteo Renzi creato con l’intelligenza artificiale e andato in onda nella prima puntata di “Striscia la notizia”. “Era già successo un caso simile qualche tempo fa – prosegue Anzaldi – con uno scherzo al presidente della Corte costituzionale, Valerio Onida, vittima grazie ad un artifizio tecnologico, che in pratica fotocopia il tono della voce, di un grave scherzo della redazione della Zanzara che creò parecchi danni di immagine tanto da ipotizzare reato di sostituzione di persona, tipologia di reati "che, in quanto – delitto contro la pubblica fede – sono illeciti" come ci ricorda l’ex presidente della Consulta”.

Renzi e il falso fuorionda di «Striscia»: così il video “deepfake”  è diventato (quasi) verità. Pubblicato mercoledì, 25 settembre 2019 da Corriere.it. «Dovevi vedere la faccia di Conte quando gli ho detto che me ne andavo... Zingaretti? Il carisma del commissario Montalbano? Ma dai!». Se il fuorionda con Matteo Renzi protagonista fosse stato vero, sarebbe scoppiato il finimondo. Eppure, il video trasmesso su Mediaset da Striscia la notizia per la puntata d’esordio della 32 esima edizione, era talmente fatto bene che in tanti ci sono cascati. È l’effetto della tecnologia «deepfake» (qui l’articolo in cui si spiega cos’è, come funziona e quali sono i rischi), importata dalla Cina e utilizzata per la prima volta in Italia. Questa tecnologia, grazie all’evoluzione 4.0 dell’intelligenza artificiale (qui l’intervista di Sette al ceo di Microsoft Satya Nadella: «L’AI non deve farci paura), gli autori e la produzione di Striscia hanno realizzato un falso video in cui l’ex premier Renzi, dopo la scissione dal Pd, faceva il gesto dell’ombrello all’attuale presidente del Consiglio Conte, al leader M5S Luigi Di Maio, canzonava il segretario del Pd Nicola Zingaretti e faceva un gesto irriguardoso persino nei confronti del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. I contenuti del video, accompagnato da una parlata quasi perfetta e con tanto di spiccato accento fiorentino, erano palesemente falsi, ma la qualità della fattura della sequenza era talmente alta essere risultata verosimile per moltissimi spettatori, effetto alimentato dal fatto che all’ora di cena (e dopo una giornata di lavoro) si abbassano le difese cognitive. Il video ha talmente fatto breccia, che sui social le reazioni sono state centinaia — ha spiegato lo stesso Matteo Renzi su Instagram, pubblciando un fermo immagine del video —. «A tutti quelli che scrivono: “Ma che cosa hai detto a Striscia la Notizia?” rispondo con una risata. L’imitazione è perfetta. Ma è un’imitazione!!! Un abbraccio a chi ci è cascato e i miei complimenti a Striscia». Mentre Michele Anzaldi, deputato di Italia via, il nuovo partito di Renzi, e segretario della commissione di Vigilanza Rai lancia un’altolà sull’impiego di questa tecnologia: «Ricci e la sua trasmissione sono come sempre all’avanguardia e ci hanno fatto conoscere per primi in italia il fenomeno della “deepfakenews” — spiega —. Adesso però conosciuto il fatto, sarebbe opportuno, anzi è doveroso, che le autorità competenti mettano dei paletti per capire cosa si può fare e dove non si può andare oltre».

UN RENZI COSI’ FINTO DA SEMBRARE VERO. Massimo Gramellini per il Corriere della Sera il 26 settembre 2019. Il Renzi vero ma finto mandato in onda da «Striscia» mentre fa le pernacchie a Mattarella non era né un imitatore né un sosia. Era l' ultima frontiera della mistificazione. Come spesso accade, ci voleva un programma satirico per sbatterci addosso una questione serissima. Non solo la tecnologia è in grado di prendere la tua faccia e sovrapporla a quella di qualsiasi altro, come cantava De Gregori, ma può catturare il timbro autentico della tua voce per rimodularlo con le parole che intende farti dire. Domani potrebbe arrivarvi sul telefonino l' immagine del sottoscritto che grida «Forza Juve» e molti ci crederebbero, temo. È già successo di peggio. In America hanno preso il volto e le corde vocali di Scarlett Johansson e li hanno abbinati al corpo della protagonista di un film a luci rosse. In Italia lo hanno fatto con la Boldrini. Non solo il deep fake (profondo falso) può distruggere qualsiasi reputazione, ma queste forme sofisticate di manipolazione della realtà raggiungono in un istante milioni di utenti che sofisticati non sono. E che si bevono ogni panzana, non avendo gli strumenti (ma ormai chi li ha?) per distinguere il vero dal verosimile. Così il deep fake finisce per alimentare lo scetticismo credulone. Si dubita di tutto, ma si è disposti a credere ancora a qualcosa, purché sia incredibile. Come ci difenderemo? Per fortuna ogni volta che l' uomo ha forgiato una nuova spada, ha poi sempre anche trovato uno scudo.

Polemiche sul deepfake di Striscia. Gramellini: può distruggere qualsiasi reputazione. Ricci: filmato qualificato come fake. Prima On Line il 27/09/2019. Qualche giorno fa a Striscia la notizia è andato in onda un video dove è stata usata una sofisticata tecnologia di manipolazione dei volti, "deepfake"  Una tecnica che grazie all’intelligenza artificiale manipola un video applicando sul volto del protagonista la faccia di qualcun altro in tempo reale. A Striscia la notizia ad esempio la ‘vittima’ è stata Matteo Renzi che straparlava fra battute e commenti sui suoi avversari politici. Questa tecnologia di manipolazione ha suscitato una serie di reazioni tra politica e stampa. Massimo  Gramellini  sul Corriere della Sera  avverte il pericolo:  il deepfake “può distruggere qualsiasi reputazione, ma queste forme sofisticate di manipolazione della realtà raggiungono in un istante milioni di utenti che sofisticati non sono”.

Ecco il suo ‘Caffè’ integrale. “Il Renzi vero ma finto mandato in onda da «Striscia» mentre fa le pernacchie a Mattarella non era né un imitatore né un sosia. Era l’ ultima frontiera della mistificazione. Come spesso accade, ci voleva un programma satirico per sbatterci addosso una questione serissima. Non solo la tecnologia è in grado di prendere la tua faccia e sovrapporla a quella di qualsiasi altro, come cantava De Gregori, ma può catturare il timbro autentico della tua voce per rimodularlo con le parole che intende farti dire. Domani potrebbe arrivarvi sul telefonino l’ immagine del sottoscritto che grida «Forza Juve» e molti ci crederebbero, temo. È già successo di peggio. In America hanno preso il volto e le corde vocali di Scarlett Johansson e li hanno abbinati al corpo della protagonista di un film a luci rosse. In Italia lo hanno fatto con la Boldrini. Non solo il deep fake (profondo falso) può distruggere qualsiasi reputazione, ma queste forme sofisticate di manipolazione della realtà raggiungono in un istante milioni di utenti che sofisticati non sono. E che si bevono ogni panzana, non avendo gli strumenti (ma ormai chi li ha?) per distinguere il vero dal verosimile. Così il deep fake finisce per alimentare lo scetticismo credulone. Si dubita di tutto, ma si è disposti a credere ancora a qualcosa, purché sia incredibile. Come ci difenderemo? Per fortuna ogni volta che l’ uomo ha forgiato una nuova spada, ha poi sempre anche trovato uno scudo. Alle polemiche l’ufficio stampa di Striscia risponde  inviando un estratto della conferenza di Striscia la notizia durante la quale “Antonio Ricci, quattro giorni prima della messa in onda della prima puntata, parla davanti a decine e decine di giornalisti dell’inquietante provocazione che intende lanciare”. Ecco il video con Ricci in conferenza stampa.

Sempre l’ufficio stampa di Striscia, mercoledì 25 settembre,  ha inviato a La Stampa, una risposta al vetriolo rivolta  a  Massimiliano Panarari.  Eccola: Gentile Direttore, in merito all’articolo dal titolo “Il video del Renzi falso. L’ultimo salto di qualità nella manipolazione tv” (La Stampa, 25 settembre), precisiamo che Massimiliano Panarari afferma il falso quando scrive che solo in seconda battuta il filmato era stato qualificato da noi come fake sul sito e sui social. Come lei ben sa, avendolo pubblicato sul suo giornale il 20 settembre, ne avevamo già dato notizia in conferenza stampa davanti a decine e decine di giornalisti. Il Panarari, non solo non legge il giornale per cui scrive, ma neppure vede integralmente le trasmissioni di cui si perita di discettare. Infatti, in uscita dal filmato (riferendosi a Renzi), Ezio Greggio e Michelle Hunziker così commentavano:

Greggio: “Ma è lui o non è lui? Certo che non è lui!”

Michelle: “Ma è identico!”

Greggio: “Ma scusi, secondo lei Renzi può dire cose di questo tipo?”

Michelle: “Certo!”

Greggio: “Ma no, al massimo le pensa, ma non le dice, non le dice, non le dice…”

Nei titoli di coda della trasmissione, inoltre, veniva chiaramente specificato: “La voce di Matteo Renzi è di Claudio Lauretta”. Siamo anche rimasti molto delusi che il Panarari, da grandissimo esperto di comunicazione, pur citandolo, non si sia accorto che l’”ESCLUSIVO” posto a sinistra del teleschermo sia stato volutamente scritto con gli stessi caratteri degli “ESCLUSIVO” di Barbara d’Urso. Da 31 anni Striscia esemplifica, scova e combatte quelle che un tempo venivano chiamate bufale e oggi sono diventate fake news, insinua il dubbio con il suo stile provocatorio che di certo non può piacere a chi è completamente privo di ironia. Purtroppo anche noi abbiamo un interrogativo inquietante: chi salverà le democrazie liberali dal Panarari già autore di un saggio fake, la cui scientificità era basata sulle scie chimiche? L’ufficio stampa di Striscia la notizia.

Massimiliano Panarari per ''la Stampa'' del 25 settembre 2019. Incredibile, ma verosimile. O, piuttosto, verosimile proprio perché tutt' altro che incredibile. Il video deepfake di Striscia la notizia, dove un falso Matteo Renzi sbeffeggia gli ex compagni di strada del Pd, il premier Conte e il presidente Mattarella, costituisce un autentico salto di qualità dal punto di vista della manipolazione. Peraltro, ancora una volta, all' insegna di quell' ambiguità costitutiva (e, non di rado, "pelosa" e strumentale) che caratterizza l' infotainment del programma-corazzata di Antonio Ricci. E anche se il "machiavellico" Matteo Renzi si è affrettato a complimentarsi con l' operazione, quanto andato in onda non si sottrae a una sfilza di interrogativi di vario genere. La tecnologia deepfake circola a livello pubblico già da qualche tempo negli Stati Uniti, con filmati come quello in cui Barack Obama "confessa" di aver votato per Donald Trump alle presidenziali del 2016, e quello nel quale la speaker democratica della Camera Nancy Pelosi appare in stato di ubriachezza. E così, lo Stato della Virginia ha approvato una pionieristica legge contro l' utilizzo dei deepfake (nella fattispecie, per cercare di limitarne l' applicazione sotto la forma del revenge porn). Con la messa in onda del fuorionda, presentato come «esclusivo» da Striscia la notizia (anche se qualificato come un fake, in seconda battuta, sul sito e sui social), siamo al primo caso di suo impiego su una televisione generalista e durante una prima serata. E, dunque, all' interno del palinsesto rivolto al pubblico "di massa", che si siede sul divano o sta cenando, e abbassa le difese dei filtri cognitivi allo scopo (più che legittimo) di rilassarsi. Il grande pubblico che risulta popolato di telespettatori - che sono anche, e soprattutto, cittadini-elettori - più anziani, o meno avvezzi alla conoscenza delle tecnologie. Ricci ha così confermato il proprio ruolo avanguardistico nell' ambito della tv per tutti; e, del resto, dell'«ultima avanguardia storica» - il situazionismo - si è sempre proclamato erede. E con la deep fake news di lunedì sera la trasmissione di Canale 5 si è infatti dimostrata capace di realizzare un riuscito "matrimonio allargato" tra sberleffo neosituazionista, operazione politica (avente come bersaglio un potente un po' meno potente del passato, e che compete ora direttamente nella stessa prateria politica di Silvio Berlusconi) e l' ultimo grido delle tecnologie. A condire il tutto, infine, il consueto "marchio di fabbrica" di Striscia con il suo repertorio scatologico e sonoro di pernacchie, gesti dell' ombrello e risate registrate. E, fin qui, siamo nel combinato disposto nazionalpopolare e acchiappa-audience di cui Ricci è campione. Ma se dal simulacro baudrillardiano (e assai ingrassato) del leader della neonata Italia Viva passiamo a scenari più larghi dai dubbi si arriva all' inquietudine vera e propria e ai sudori freddi. Perché l' intelligenza artificiale e il machine learning consentono già ora di effettuare simulazioni pressoché perfette, e di sovrapporre immagini e audio rendendo l' attività di manipolazione praticamente irriconoscibile. E, mentre stiamo scrivendo, la tecnologia deepfake continua, minuto dopo minuto, ad avanzare, col rischio che il verosimile manovrato da qualcuno scacci il vero, e l' artificio cancelli il reale. Alterando la competizione elettorale e politica, decostruendo la credibilità dei media e dell' informazione, condizionando pesantemente l' opinione pubblica, fiaccando ulteriormente la già infragilita legittimità delle nostre democrazie liberali. E se ci riesce un programma televisivo, figuriamoci cosa possono fare le macchine della disinformazione e della propaganda e i servizi delle potenze nemiche dell' Occidente (dalla Russia alla Cina).

Lettera dell'ufficio stampa di Striscia (in realtà è Ricci che scrive) a ''La Stampa'' il 25 settembre 2019. Gentile Direttore, in merito all' articolo dal titolo "Il video del Renzi falso. L' ultimo salto di qualità nella manipolazione tv" (La Stampa, 25 settembre), precisiamo che Massimiliano Panarari afferma il falso quando scrive che solo in seconda battuta il filmato era stato qualificato da noi come fake sul sito e sui social. Come lei ben sa, avendolo pubblicato sul suo giornale il 20 settembre, ne avevamo già dato notizia in conferenza stampa davanti a decine e decine di giornalisti. Il Panarari, non solo non legge il giornale per cui scrive, ma neppure vede integralmente le trasmissioni di cui si perita di discettare. Infatti, in uscita dal filmato (riferendosi a Renzi), Ezio Greggio e Michelle Hunziker così commentavano: Greggio: "Ma è lui o non è lui? Certo che non è lui!"

Michelle: "Ma è identico!"

Greggio: "Ma scusi, secondo lei Renzi può dire cose di questo tipo?"

Michelle: "Certo!"

Greggio: "Ma no, al massimo le pensa, ma non le dice, non le dice, non le dice". Nei titoli di coda della trasmissione, inoltre, veniva chiaramente specificato: la voce di Matteo Renzi è di Claudio Lauretta.

Da 31 anni Striscia esemplifica, scova e combatte quelle che un tempo venivano chiamate bufale e oggi sono diventate fake news, insinua il dubbio con il suo stile provocatorio che di certo non può piacere a chi è completamente privo di ironia. L' ufficio stampa di Striscia la notizia.

Massimiliano Panarari per ''La Stampa'' il 25 settembre 2019. Che dire? A volte non c’è gusto in Italia a essere diligenti (libera parafrasi da Roberto “Freak” Antoni). Uno si sforza diligentemente di fare analisi – discutibili e opinabili, naturalmente (e ci mancherebbe altro) –, di produrre argomentazioni, di passare in rassegna i fatti, e, invece, zacchete, giù botte, e raffiche di kalashnikov verbale. Piovono (parole come) pietre. Nell’articolo da cui ha preso le mosse questa querelle si cerca di indicare come, con il video deepfake su Renzi, Striscia la notizia abbia ulteriormente spinto in avanti i confini dell’infotainment nostrano, riconfermando il suo ruolo di trasmissione portatrice di un’«ambiguità costitutiva». Per cui, tra l’altro, alla bisogna e à la carte, questo programma campione di ascolti può autodefinirsi informativo oppure satirico – e, in questo modo “doroteo”, punta a sfangarsela sempre da critiche e obiezioni. E, soprattutto, avvolge i suoi telespettatori in una nebulosa molto postmoderna dove il verosimile può prevalere sul dato di fatto. Un «ruolo avanguardistico» rispetto alla tv generalista, come si scriveva, che si presta a molte riflessioni e, nella fattispecie del video, anche a qualche inquietudine, dal momento che il modello del cittadino informato è quello a cui tutti quanti teniamo, anche se la pensiamo in maniera diversa su tante cose (o mi sbaglio?). Ecco, di qui, a pensare di essere stati accusati di rappresentare una minaccia per le democrazie liberali ce ne corre, e parecchio (nell’articolo il riferimento era, un po’ realisticamente, alla Russia e alla Cina). Quell’inusitata imputazione sarebbe, decisamente, «troppa grazia Sant’Antonio!». Ah, stiamo parlando del santo patrono, non del nome di battesimo dell’inventore del programma – sempre a scanso di equivoci, che qui non si mai come vengono prese le parole da chi dell’ambivalenza ha fatto il proprio marchio di fabbrica. E, già che ci siamo, potremmo pure dire che, dal berlusconismo al grillismo, c’è tanto riccismo nella politica e nell’antipolitica italiane. Una valutazione analitica, e pure una considerazione che riconosce il ruolo rilevante che gli spetta nell’immaginario televisivo (e non) italiano di questi ultimi decenni, ma c’è il rischio che qualcuno se la prenda a male, e allora meglio “sopravvolare” (come diceva Corrado Guzzanti). Del resto, si sa, il Ricci è ispido come un vero ricci(o). Mica è tondo come il Gabibbo. E, quindi, la «precisazione» non lesina fattoidi, affermazioni strampalate e offensive (“scie chimiche” de che?) e anche qualche attacco sul piano personale. E la butta in caciara, termine romanesco che rende perfettamente il significato delle armi (comunicative) di distrazione di massa utilizzate per distogliere l’attenzione dai veri punti in questione. E dire che il situazionismo teorizzava l’ironia e, soprattutto, l’autoironia, come dovrebbe ben sapere chi se ne dichiara erede.

Lettera dell'ufficio stampa di Striscia (in realtà è Ricci che scrive) a ''La Stampa'' il 25 settembre 2019. Le chiacchiere stanno a zero. Ribadiamo che Massimiliano Panarari ha semplicemente, e con la solita approssimazione, riportato fatti non veri. Tra l' altro è a disposizione di tutti sul nostro sito il filmato della conferenza stampa dove Ricci, davanti a decine e decine di giornalisti, ha chiarito il senso della provocazione dell'«inquietante» filmato che in seguito è stato trasmesso. È Massimiliano Panarari a buttarla in caciara, questa volta per fortuna ci risparmia la solita spolverata di Deleuze e Baudrillard che usa per insaporire i suoi soufflés. Spiace però notare che l' esperto di ambiguità (scrive per la casa editrice di B.) non abbia colto anche quanto riccismo ci sia nel trumpismo e nel putinismo. Apprezziamo il suo tentativo di fare l' ironico e il simpatico, se vuole ci proponiamo gratuitamente come tutor per un corso, ci piacciono i casi disperati. L' ufficio stampa di Striscia la notizia.

I “deepfake” ci riportano nella caverna di Platone. Angela Azzaro il 28 Settembre 2019 su Il Dubbio. Le nuove tecnologie digitali rendono sempre più difficile distinguere un filmato vero da uno manipolato. Dobbiamo attrezzarci per non venire travolti da una finzione che oscura la conoscenza. Nel film Blade runner di Ridley Scott, tratto dal romanzo di Philip Dick «Ma gli androidi sognano pecore elettriche?», i replicanti sono copie degli esseri umani, che vengono impegnati nelle colonie fuori dalla terra. E’ forza lavoro, sfruttata e non pagata. Sono i nuovi schiavi che si ribellano e che uccidono il padre che li ha creati. Ma per quanto siano copie, i replicanti restano umani. Hanno sentimenti simili ai nostri, nutrono passioni, hanno ricordi. Amano e odiano come gli uomini e le donne. La storia è ambientata proprio nel 2019 a Los Angeles e immagina un futuro che per noi è una realtà. Ma per quanto Philip Dick prima, Ridley Scott poi immaginassero un mondo distopico, in cui l’essere umano potesse essere replicato, restano ancorati a una visione profondamente antropocentrica del mondo. Tutto cambia, l’umano si fonde con la macchina, ma i replicanti non posso che avere le nostre sembianze, parlare come noi, vivere e morire come noi. In Blade runner il futuro fa paura, è incerto, la città e noir, e il sole non si vede quasi mai, ma resta una certezza: la possibilità di conservare un grumo di quella verità che abbiamo ereditato da secoli e secoli di storia. Oggi che il calendario segna il 2019, il futuro appare allo stesso tempo meno disastroso e più preoccupante. I replicanti siamo noi. Gli sviluppi dell’Intelligenza artificiale permettono di modificare le immagini senza che sia possibile scovare quale sia la rappresentazione originale. Stiamo parlando dei “deepfake”, la tecnica usata per sovrapporre e modificare le immagini, che abbiamo visto recentemente applicata a un filmato di Matteo Renzi. Il video trasmesso dal programma Striscia la notizia era molto rudimentale ed era facilmente comprensibile che si trattasse di un fake. Ma con il tempo sarà sempre più difficile distinguere il vero dal falso, l’originale dalla copia alterata, l’umano dal totalmente artificiale. E’ un salto di qualità preoccupante in un mondo in cui la comunicazione è diventata l’elemento centrale del fare politica e dell’agire collettivo. Le ultime campagne elettorali sono state vinte grazie all’utilizzo di tecniche di propaganda che hanno avvelenato il web: notizie false spacciate per vere, campagne di odio orchestrate contro i nemici politici, spie informatiche al soldo del più forte. A questo quadro già devastante ora si aggiunge il deepfake. Sarà possibile creare dei video che mettano in difficoltà un nostro avversario in qualsiasi campo, far credere che un leader abbia pronunciato un discorso o una promessa, far credere che un avvenimento sia accaduto nonostante sia inventato di sana pianta. Le difficoltà che abbiamo nello smascherare una fakenews si potenziano a dismisura. Le immagini, molto più della parola scritta, godono di uno “statuto di realtà” che le rende vere a prescindere. Siamo intrappolati nella caverna platonica: da una parte e dall’altra siamo circondati da immagini ma non sappiamo, e forse non possiamo, distinguere quelle vere e quelle finte, la copia e l’originale, l’umano e il non umano. Il filosofo che riesce a liberarsi dalle catene non saprà come fare per aiutare gli altri prigionieri a raggiungere la conoscenza, a distinguere il bene dal male. Stiamo un po’ esagerando? Forse. Non dobbiamo essere catastrofisti, ma neanche far finta di nulla. Prima che queste nuove tecniche prendano il sopravvento, dobbiamo ragionare su come attrezzarci per non soccombere e sprofondare nella finzione. I nostri attrezzi saranno millenni di storia e di cultura, sapendo però che molti di questi attrezzi oggi sono spuntati per una parte importante dell’umanità e che dovremmo fronteggiare sempre più persone che credono in ciò che vedono senza attivare il senso critico. Arriviamo all’appuntamento con i deepfake dopo aver combinato un bel po’ di guai. Non basta prendersela con chi oggi diffonde false notizie o fa campagne di odio sul web. Né con chi creando profili falsi condiziona “il sentiment” della rete che poi a sua volta condiziona la politica e chi prende le decisioni più importanti. Questa è la punta dell’iceberg. Siamo immersi in un sistema informatico e di comunicazione che considera normale montare a proprio piacimento pezzi di realtà per orientare il senso comune e creare consenso. Lo si fa in tv, lo fanno i giornali. Non stiamo parlando solo di algoritmi, ma del nostro cervello, cioè della nostra volontà. Il deepfake è una conseguenza non solo della nuove conoscenza dell’intelligenza artificiale ma prima ancora delle scelte che compie l’intelligenza umana, cioè noi.

Striscia e il video «deepfake» che raggiunge un’audience totale. Pubblicato sabato, 28 settembre 2019 da Corriere.it. Quanti ascolti si possono fare con un video dichiaratamente falso? Questa settimana «Striscia la notizia» conquista il vertice degli ascolti, confermando una partenza di stagione piuttosto positiva (ben sopra il 18% di share), con una prima puntata, quella di lunedì 23 settembre, che raccoglie 5.287.000 spettatori, e il 20,61% di share. L’inizio della settimana è, di regola, il giorno migliore per il tg satirico condotto da Ezio Greggio e Michelle Hunziker, sia perché la platea complessiva è più ampia sia perché vi sono inserite rubriche molto amate (come «Striscia lo striscione»). Ma lunedì scorso uno dei momenti più seguiti è stato quello del video «deepfake» che ritrae il fuori-onda di Matteo Renzi che sbeffeggia alleati di Governo e cariche istituzionali. Come era stato annunciato in conferenza stampa, qualche giorno prima, il video, impressionante per il suo realismo, era dichiaratamente un falso (anche se molti l’hanno preso per vero): per la prima volta in un programma mainstream e popolare approda un contenuto volutamente «farlocco» (la provocazione di «Striscia» ha anche riportato la scritta «esclusivo» con una grafica che ricorda altri programmi della rete). Insomma, una provocazione che rende chiaro quanto siano manipolabili le immagini. Fatto sta che il video del finto Renzi ha esemplificato bene cosa può funzionare nella tv 2.0 ormai pienamente digitale e ibridata col web. In tv l’ascolto si impenna superando i 5 milioni di spettatori per raggiungere quasi 6 milioni. Ma la tv non è più solo «in diretta»: l’analisi della «total audience» Auditel rivela un notevole picco di «Striscia» nel consumo on-demand sul web di un contenuto dall’alto potenziale di «spalmabilità» (grazie ai social): quasi 400mila stream raccolti dalla clip in poche ore, per quasi 270mila spettatori «aggiuntivi». Questa, oggi, è la tv, queste le sue logiche da comprendere e studiare. (a.g.) In collaborazione con Massimo Scaglioni, elaborazione Geca, ComScore, iPort Nielsen su dati Auditel

Da Ansa.it il 10 ottobre 2019. La quasi totalità dei deepfake, i video fasulli ottenuti con l'intelligenza artificiale che "sembrano veri", sono filmati porno con protagoniste donne famose, mentre quelli "politici" sono una piccola minoranza. Lo afferma uno studio dell'azienda Deeptrace, specializzata nello scovare questo tipo di video. Secondo la ricerca al momento sul web ci sono 14.678 video deepfake, e il 96% è costituito da porno che hanno come protagoniste involontarie soprattutto attrici famose, mentre l'utilizzo con personaggi politici, che ha reso famosi questi video anche in Italia, non è ancora molto diffuso. Il rapporto ha comunque registrato un aumento del 75% del numero dei video rispetto al 2018. "La pornografia deepfake è un fenomeno che riguarda quasi esclusivamente le donne - avvertono gli autori -. Tutti i video coinvolgono donne, soprattutto attrici e musiciste famose. Il numero non è ancora molto alto, ma preoccupa l'ascesa del fenomeno". L'era dei deepfake è iniziata ufficialmente nel 2017, con un video che aveva come protagonista Mark Zuckerberg. In Italia recentemente ha fatto scalpore un filmato con l’ex premier Matteo Renzi realizzato dalla trasmissione tv Striscia la Notizia. La preoccupazione più diffusa è proprio per l’utilizzo "politico", ad esempio per screditare gli avversari con video imbarazzanti che sembrano veri.

·         La censura, o no?

Maggioni e quell'intervista ad Assad che la Rai non sa come usare. L'amministratore delegato di Rai Com è volata a Damasco per parlare con il presidente siriano ma ora lo scoop non va in onda. Goffredo De Marchis il 04 dicembre 2019 su La Repubblica. Un colpo giornalistico (anche se è un bis). Un’intervista dalla probabile eco internazionale. Ma la Rai non sa dove mandarla in onda, su quale canale, in quale contenitore, a quale ora. Potrebbe trasmetterla su Raiplay che con Fiorello ha inaugurato la stagione dei contenuti esclusivi: è un’idea. Ma per il momento giace in qualche saletta di montaggio a Saxa Rubra. Abbandonata così. Una foglia morta. Monica Maggioni è volata a Damasco per intervistare il presidente siriano Bashar al Assad. Lo aveva già fatto per il Tg1, da presidente della Rai, nel novembre del 2015 in un momento caldo del conflitto tra il regime e i ribelli. Il colloquio infatti scatenò polemiche politiche. Non si capiva neanche bene perché fosse lì, non nel suo ruolo di inviata di punta ma di numero uno del Cda. Stavolta la situazione appare se possibile ancora più surreale. La Maggioni, che occupa la poltrona di amministratore delegato di Rai Com (una partecipata del servizio pubblico) è partita, pare con il consenso di Salini, ha realizzato l’intervista, è tornata ma ora c’è un problema: dove e come mandare in onda il tutto? Evidentemente, non aveva concordato il viaggio né con i tg, né con le reti. È scattato un imbarazzante scaricabarile. Mia, tua, sua. E lo scoop non va in onda. Si cerca in queste ore una soluzione che dia un senso alla trasferta.

(AGI l'8 dicembre 2019) Da Damasco arriva un "ultimatum" alla Rai sull'intervista fatta dall'amministratore delegato di RaiCom, Monica Maggioni, al presidente siriano, Bashar al ASSAD, e non ancora mandata in onda, rinviando più volte la programmazione prevista per il 2 dicembre scorso. Se la Rai non la trasmetterà entro lunedì 9 dicembre, il colloquio andrà in onda comunque sui media siriani senza la contemporaneità prevista dagli accordi. "Il 26 novembre 2019, il presidente al-ASSAD ha rilasciato un'intervista alla Ceo di Rai, Monica Maggioni. Si è convenuto che l'intervista sarebbe andata in onda il 2 dicembre su Rai News 24 e sui media nazionali siriani", si legge in una nota dell'ufficio stampa della presidenza siriana pubblicata su Facebook. "La mattina presto del 2 dicembre, abbiamo ricevuto una richiesta, per conto di Rai News 24, di ritardare la trasmissione senza una chiara spiegazione. A ciò seguirono altre due richieste di rinvio, senza che fosse fissata una data per l'intervista e senza nessun'altra spiegazione", protestano ancora da Damasco. "Questo e' un ulteriore esempio dei tentativi occidentali di nascondere la verità sulla situazione in Siria e sulle sue conseguenze sull'Europa e nell'arena internazionale", si afferma nel comunicato. Poi l'ultimatum: "Se Rai News 24 continuerà a rifiutare di trasmettere l'intervista, l'Ufficio politico e dei media della presidenza siriana la trasmetterà integralmente lunedì 9 dicembre 2019 alle 21, ora di Damasco" (le 20 in Italia).

(Adnkronos l'8 dicembre 2019) - "L'intervista al presidente siriano Bashar al Assad, realizzata dall'Ad di Rai Com, Monica Maggioni, non è stata effettuata su commissione di alcuna testata Rai. Pertanto non poteva venire concordata a priori una data di messa in onda". Lo afferma in una nota l'Ad Rai, Fabrizio Salini. "Chiarito che né Rainews24 né alcuna altra testata della Rai ha commissionato l'intervista al presidente della Siria Assad, né quindi ha preso impegni a trasmetterla, chi ha assunto accordi con la Presidenza della Siria per conto della Rai? E perché? Fermo restando che non si può cedere ad alcun ultimatum da parte di nessuno, men che meno da parte del capo dello Stato di un Paese straniero, siamo di fronte a una vicenda imbarazzante. La Rai deve fare chiarezza con urgenza e individuare le responsabilità. Senza alcun tentennamento. Questa volta è in gioco l'autorevolezza della Rai, la credibilità internazionale sua e dell'Italia". Lo sottolinea in una nota l'esecutivo Usigrai in merito all'intervista al presidente della Siria Assad.

Rai, bufera sull’intervista a Assad della Maggioni. L’ultimatum della Siria: «La mandiamo in onda noi». Pubblicato domenica, 08 dicembre 2019 da Corriere.it. Scoppia in Rai il caso di un’intervista al presidente siriano Bashar al Assad, fatta dall’ad di RaiCom, Monica Maggioni, e mai messa in onda dalla tv pubblica. E finisce direttamente nel consiglio di amministrazione di martedì. Ieri l’ufficio stampa della presidenza siriana ha inviato un ultimatum alla Rai: se l’intervista realizzata il 26 novembre dalla Maggioni che, secondo accordi, avrebbe dovuto andare in onda il 2 dicembre su RaiNews24 e sui media siriani, non andrà in onda entro domani, sarà comunque trasmessa dalle tv nazionali di Damasco domani alle 9. Ma cosa è successo? Perché quella che oggi è la manager di un’azienda pubblica, già giornalista, direttrice di RaiNews24 e presidente della Rai, fa un’intervista al presidente siriano? Chi l’ha autorizzata? A queste domande non ci sono risposte ufficiali, tranne il comunicato diramato questa mattina dall’ad della Rai, Fabrizio Salini, che precisa che l’intervista «non è stata effettuata su commissione di alcuna testata Rai. Pertanto non poteva venire concordata a priori una data di messa in onda». Il che esclude l’iniziativa delle testate ma non chiarisce se Salini fosse al corrente o meno dell’intervista. Nè scioglie il dubbio sul fatto se domani andrà in onda. Secondo indiscrezioni, l’intervista avrebbe trovato in un primo momento collocazione in uno speciale di Checkpoint, il 2 dicembre, su RaiNews24, al cui direttore Antonio Di Bella, Maggioni avrebbe chiesto ospitalità. Sarebbe stato previsto un collegamento con la corrispondente da Istanbul, Lucia Goracci, e la presenza in studio del professor Francesco Strazzari, professore associato di Relazioni Internazionali alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Lunedì pomeriggio però l’intervista al presidente siriano viene annullata. Sul punto, fonti di RaiNews24 fanno sapere che l’intervista non era stata concordata preventivamente con la testata e che alla richiesta di ospitalità della Maggioni, era stato chiesto di visionare l’intervista prima della sua messa in onda. Ma l’intervista sarebbe stata inviata alla testata solo il giorno dopo. Altri due programmi sarebbero stati interessati all’ipotesi di ospitare l’intervista: il Tg1 e la trasmissione di Lucia Annunziata “Mezz’ora in più”. Intanto però la levata di scudi del sindacato Usigrai, secondo cui è inaccettabile mandare in un’onda un’intervista non concordata preventivamente con alcuna testata, blocca tutto. Fino a ieri e all’ultimatum della Siria che nel comunicato alza i toni: «Sarebbe stato meglio per un operatore europeo aderire ai principi proclamati dall’Occidente, specialmente alla luce del fatto che opera in un Paese che è parte dell’Unione Europea, che dovrebbe tutelare la libertà di stampa e il rispetto della diversità di opinioni come parte essenziale dei propri “valori”». Intanto trapela la forte irritazione di Marcello Foa, presidente della Ra con delega alle Relazioni internazionali, per non essere stato informato dell’intenzione di intervistare il presidente siriano Assad e tanto meno dei successivi sviluppi e delle decisioni assunte in azienda riguardo alla gestione dell’intervista. Segue una richiesta di spiegazioni che viene avanzata anche dal Pd per bocca del sottosegretario allo Sviluppo economico, Gian Paolo Manzella e dall’Usigrai. A difendere Maggioni, Daniela Santanché (Fdi): «Monica Maggioni è una giornalista brava e competente. Che una sua intervista non vada in onda non ha senso soprattutto se ad essere intervistato è una figura internazionale controversa. Cosa siamo? Alla censura ? La Rai dovrebbe essere servizio pubblico. È dovrebbe dare le notizie, non preoccuparsi di non mandarle».

Siria, Rai nella bufera per il ritardo dell'intervista di Maggioni ad Assad: lunedì, la messa in onda. La messa in onda sarà domani sera. La decisione è arrivata dopo le polemiche tra Damasco e la Rai, con il governo siriano che aveva messo un ultimatum: "Lunedì la trasmettiamo noi". La Repubblica l'8 dicembre 2019. E’ polemica furiosa sull’intervista di Monica Maggioni a Bashar al Assad: l’amministratore delegato di Rai.com ha avuto l’opportunità di parlare con il presidente siriano ma finora la Rai non aveva ancora proposto né programmato alcuna trasmissione. Questo ha suscitato irritazione a Damasco: Marwa Osman, portavoce della presidenza siriana, ha sottolineato in una nota che la data prevista per la messa in onda era il due dicembre scorso, ma la Maggioni ha chiesto un rinvio “per motivi incomprensibili”. "Dalla Presidenza della Repubblica siriana annunciano che l'intervista al presidente siriano Assad rilasciata per la Rai sarà trasmessa per intero, su tutti gli account dei social media, domani alle 21.00 ora di Damasco", ha detto su Twitter il giornalista siriano Naman Tarcha. Prima della conferma Damasco aveva annunciato che “se l'intera intervista non verrà trasmessa dall'italiana RaiNews24 nei prossimi due giorni, la trasmetteremo noi sugli account presidenziali social e sui media nazionali siriani lunedì 9 dicembre alle 9, ora di Damasco”. “Sarebbe stato meglio per un operatore europeo aderire ai principi proclamati dall'Occidente, specialmente alla luce del fatto che opera in un Paese che è parte dell'Unione Europea, che dovrebbe tutelare la libertà di stampa e il rispetto della diversità di opinioni come parte essenziale dei propri valori”, conclude la nota della presidenza siriana. La replica della Rai è arrivata con una nota dell’amministratore delegato Fabrizio Salini, che ha addirittura preso le distanze dall’operazione, sottolineando che: “L'intervista al presidente siriano Bashar al Assad, realizzata dall'Ad di Rai Com, Monica Maggioni, non è stata effettuata su commissione di alcuna testata Rai. Pertanto non poteva venire concordata a priori una data di messa in onda”.

Il giallo dell'intervista a Assad: perché la Rai non la mette in onda? L'ex presidente della Rai, Monica Maggioni, ha intervistato il presidente siriano Bashar al Assad. Ora però la tivù di Stato pare non trovare spazio per metterla in onda. Damasco: "Un tentativo di nascondere la verità". Matteo Carnieletto, Domenica 08/12/2019, su Il Giornale. Un vero e proprio giallo unisce Damasco a viale Mazzini. Tutto inizia il 26 scorso, quando l'ex presidente della Rai, Monica Maggioni, vola nella capitale siriana per intervistare il presidente Bashar al Assad. Un'intervista lunga, che va a completare quella fatta nel 2013, quando il governo sembrava vacillare sotto i colpi dei ribelli e la minaccia jihadista. Un vero e proprio colpo giornalistico, quello dell'allora numero uno della tivù pubblica, che ora però pare non esser stato replicato. Già, perché l'intervista - molto lunga nella sua versione integrale, secondo quanto appreso da ilGiornale.it - pare esser stata messa da parte. L'amministratore delegato dell'emittente di Stato, Fabrizio Salini, ha commentato così i rumor apparsi nei giorni scorsi: "L'intervista al presidente siriano Bashar al Assad, realizzata dall’Ad di RaiCom, Monica Maggioni, non è stata effettuata su commissione di alcuna testata Rai . Pertanto non poteva venire concordata a priori una data di messa in onda". Parole che, però, non trovano conferma nella realtà, secondo quanto appreso da ilGiornale.it: "Non sappiamo ciò che sta accadendo, ma continuano a rimandare la messa in onda dell'intervista senza alcuna spiegazione chiara. (La Maggioni, Ndr) era ansiosa di pubblicare l'intervista ed era stata già concordata una data: il 2 dicembre". Il presidente della Rai, Marcello Foa, secondo quanto riporta un'indiscrezione dell'Agi, si sarebbe detto irritato per l'accaduto, anche perché non sarebbe stato mai informato dalla presidente di RaiCom. Nella serata di ieri, è intervenuta ufficialmente la presidenza siriana, con un comunicato diffuso sulla propria pagina Facebook: "Il 26 novembre 2019, il presidente Al Assad ha rilasciato un'intervista alla Ceo della Rai, Monica Maggioni. Si era stabilito che l'intervista sarebbe andata in onda il 2 dicembre su Rai News 24 e sui media nazionali siriani. La mattina presto del 2 dicembre, abbiamo ricevuto una richiesta, per conto di RaiNews24, di ritardare la trasmissione senza una chiara spiegazione". Secondo quanto fanno sapere i siriani, ci sarebbero state due richieste di delucidazioni da parte di Damasco per comprendere i reali motivi di questo ritardo. Domande rimaste senza alcuna risposta, però: "È un altro esempio dei tentativi occidentali di nascondere la verità sulla situazione in Siria". E poi: "Se Rai News 24 continuerà a rifiutare di trasmettere l'intervista, l'Ufficio politico e dei media della presidenza siriana trasmetterà per intero l'intervista, lunedì 9 dicembre 2019 alle 21:00, ora di Damasco". Secondo una ricostruzione fornita dall'Agi, confermata anche da fonti in Rai de ilGiornale.it, tutto sarebbe sarebbe saltato in 24 ore, tra l'1 e il 2 dicembre scorso, quando la Maggioni propone l'intervista al direttore di RaiNews24, Antonio Di Bella, che la reputa interessante e attiva la redazione Esteri del canale all news per allestire uno speciale. Vengono coinvolti anche la corrispondente da Istanbul Lucia Goracci e Francesco Strazzari, professore associato di Relazioni Internazionali alla Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa. In poche ore però salta tutto e l'intervista non viene messa in onda. Ed è a questo punto che ci troviamo davanti a quello che è il vero e proprio mistero che ruota attorno a questa intervista. Ovvero: chi l'ha bloccata? Fonti interne alla Rai, contattate da ilGiornale.it, spiegano infatti che a far saltare defintivamente l'intervista della Maggioni sarebbe stato l'Usigrai, il potente sindacato dei giornalisti Rai, che avrebbe posto il veto in quanto l'amministratore delegato di RaiCom non avrebbe alcun ruolo all'interno delle redazioni della tivù di Stato. In quest'ottica andrebbe allora letto il duro comunicato rilasciato dall'Usigrai in cui si chiede alla Rai di fare chiarezza con urgenza: "Chiarito che nè Rainews24 nè alcuna altra testata della Rai ha commissionato l'intervista al presidente della Siria Assad, nè quindi ha preso impegni a trasmetterla, chi ha assunto accordi con la Presidenza della Siria per conto della Rai? E perchè? Fermo restando che non si può cedere ad alcun ultimatum da parte di nessuno, men che meno da parte del capo dello Stato di un Paese straniero, siamo di fronte a una vicenda imbarazzante". Una versione confermata anche da altre fonti della Rai, secondo cui la Maggioni avrebbe incassato l'ok da Salini per l'intervista ad Assad, senza però condividere l'iniziativa con i colleghi della tivù di Stato. Anche chi scrive, nel 2016, ha concordato con l'ufficio della presidenza siriana le tempistiche per l'uscita dell'intervista, fatta in esclusiva per Gli Occhi della Guerra (oggi InsideOver) ad Assad. Una formalità pensata dagli uffici di Damasco per non "bruciare" le testate che intervistano il presidente. Che ora forse dovrà esser disattesa...

Aggiornamento delle 12.24 dell'8 dicembre 2019: una prima versione dell'articolo faceva riferimento a un'intervista della Maggioni ad Assad del 2015. In realtà era stata realizzata due anni prima, nel 2013. Ci scusiamo con i lettori per l'errore.

Rai, polemiche nel cda. Non votato il codice sui social network. Continua il giallo sul viaggio di Maggioni in Siria. Tutto da rifare per il testo predisposto dall'amministratore delegato Fabrizio Salini in materia di policy aziendale sui social. La Repubblica il 10 dicembre 2019. Tutto da rifare. Il cda della Rai non ha votato oggi il testo che era stato predisposto dall'amministratore delegato Fabrizio Salini in materia di policy aziendale sui social. Documento che sarà da rielaborare e riproporre nella prossima seduta, fissata già per giovedì 19 dicembre. Secondo fonti interne, il testo ha registrato critiche dalla gran parte, se non da tutti, i consiglieri Rai. Il tema è estremamente delicato, esiste un atto di indirizzo della commissione di Vigilanza ed era anche fissato un limite temporale entro cui l'azienda di viale Mazzini avrebbe dovuta dotarsi di questo strumento. Nel corso del cda è stata anche richiesta una ricostruzione scritta, una sorta di relazione o memoria, all'amministratore delegato Fabrizio Salini in merito allavicenda dell'intervista di Monica Maggioni al presidente siriano Assad. A sollecitarla sono stati alcuni consiglieri che ritengono ancora non del tutto lineare quanto successo. Più sfumato l'intervento di altri consiglieri. Ieri intanto Salini aveva fornito spiegazioni al presidente della Rai, Marcello Foa, che già domenica mattina le aveva subito sollecitate considerando anche il fatto che a lui è affidata, nell'ambito del cda, la delega per le relazioni internazionali, e l'intervista al presidente siriano è tema di caratura internazionale. In merito Salini avrebbe spiegato ai consiglieri che la capogruppo Rai non ha sostenuto alcuna spesa relativa al viaggio di Maggioni in Siria, né ha pagato le troupe per l'intervista al presidente siriano. L'ad ha di fatto confermato la versione già emersa nei giorni scorsi e cioè che lui era stato informato dall'amministratrice delegata di Rai Com del suo viaggio in Siria e della eventualità che tale viaggio potesse portare in dote l'intervista al presidente Assad. Salini ha anche spiegato che al ritorno si è limitato a rispettare l'autonomia editoriale dei direttori delle testate Rai.

Mario Ajello per il Messaggero il 10 dicembre 2019. Che giornata alla Rai. Che putiferio ha scatenato il caso dell'intervista ad Assad. A un certo punto, mentre si accavallavano ieri riunioni su riunioni tra cui il faccia a faccia tra l'ad Salini e il presidente Foa (che non era stato informato del viaggio a Damasco di Monica Maggioni per il colloquio con il presidente siriano), a qualcuno è venuto lo scrupolo: «Non è che, vista la delicatezza del tema e del personaggio, cioè Assad, anche la Farnesina ce l'ha con noi per quello che stiamo combinando?». Cioè per l'intervista commissionata chissà da chi (Salini?) per RaiNews senza che RaiNews sapesse e che non è andata in onda facendo arrabbiare i siriani che infatti ieri sera da soli l'hanno trasmessa sulle reti. No, tranquilli, fonti della Farnesina hanno detto che di questo caso se ne infischiano e almeno un problema si è evitato. Ma altri problemi ci sono stati. Mandare in onda o no, dopo che i siriani l'hanno fatto, questa intervista? Alla fine si decide di metterla su RaiPlay, a disposizione degli utenti. Ma intanto la Maggioni - narrano in Rai - aveva cercato di piazzarla a tutti e invano al Tg1, al Tg2, e via così. Realizzata il 26 novembre dall'ad di RaiCom, cioè appunto la Maggioni, l'intervista ad Assad era rimasta nel cassetto e finita al centro di un caso internazionale. La mediazione alla fine - ma prima c'è stata una riunione assai turbolenta tra il direttore di RaiNews, la Maggioni e Salini e le grida di quest'ultimo si sentivano dal corridoio - si è trovata, si va su RaiPlay dopo l'ultimatum di qualche giorno fa di Damasco che aveva parlato di mancato rispetto degli accordi sulla trasmissione in contemporanea. La scelta della piattaforma streaming consente di rispettare la volontà dei direttori interpellati di non mandare in onda il colloquio (Di Bella lamenta che non era stato informato della missione Maggioni) e insieme di diffondere un documento destinato in poche ore a fare il giro del web. Ma la polemica continua: l'agenzia di stato siriana Sana ribadisce che la trasmissione da parte di RaiNews 24 era attesa per il 2 dicembre ma che poi l'intervista «non è stata messa in onda dalla tv italiana per ragioni incomprensibili». Ovvero, anche se non lo dicono esplicitamente, censura e antipatia politica verso il regime di Damasco. Quanto ai contenuti, nell'intervista Assad dice tra l'altro: «Gli europei sostengono il terrorismo in Siria e per questo devono fare i conti con i rifugiati». E ancora: «Perché avete i rifugiati in Europa? È una domanda semplice: per il terrorismo sostenuto dall'Europa - e ovviamente da Usa e Turchia - ma l'Europa è stato il protagonista principale nel creare il caos in Siria». Il presidente siriano ha poi ribadito di non avere nulla a che fare con le armi chimiche, che le sue truppe non le hanno mai usate e che il rapporto dell'Opac in cui si accusa Damasco «è stato fabbricato solo ed esclusivamente perché lo chiedevano gli americani». A Viale Mazzini la bufera non sembra placarsi e oggi il caso sarà esaminato in Cda. Pur informato dalla Maggioni del viaggio in Medio Oriente e della possibilità di realizzare un'intervista ad Assad, Salini ha precisato ieri che l'intervista non era stata commissionata da alcuna testata e quindi non era stata concordata a priori una data di messa in onda. Al di là delle tensioni internazionali, resta lo sconcerto del presidente Foa. E seguono naturalmente le polemiche politiche. Ma il pasticcio è stato fatto e Salini esce indebolito da questa vicenda.

Brahim Maarad per agi.it il 10 dicembre 2019. Il caos in Siria è colpa dell'Europa che "dal primo momento ha sostenuto i terroristi contro il governo di Damasco" e le preoccupazioni di Papa Francesco sui civili siriani sono dovute "al quadro incompleto che ha il Vaticano sulla situazione siriana". È l'accusa che lancia il presidente siriano, Bashar al Assad, nell'intervista rilasciata a Monica Maggioni, Ad di RaiCom, e che inizialmente era stata trasmessa solo dai media siriani dopo il rifiuto dei canali Rai. La tv pubblica ha optato poi per rendere il colloquio di 24 minuti disponibile su RaiPlay. "I rifugiati sono in Europa perché il terrorismo è stato sostenuto dall'Europa, ovviamente anche da Stati Uniti e Turchia e altri, ma l'Europa è stata l'attore principale nel creare questo caos in Siria e di conseguenza si raccoglie ciò che si semina", ha affermato Assad nel suo faccia a faccia nel Palazzo presidenziale con l'ex inviata della Rai. È poi passato all'attacco della Francia: "L'Unione europea ha pubblicamente sostenuto i terroristi dal primo giorno, dalla prima settimana. Hanno incolpato il governo siriano e alcuni regimi, come quello francese, hanno armato i terroristi. È stato uno dei loro funzionari a dichiararlo, credo sia stato l'allora ministro degli Esteri, Fabius, 'mandiamo le armi' aveva dichiarato", ha sottolineato il capo di Stato. Assad, che più volte pone l'accento "sull'integrità e sovranita' della Siria" giudicando l'intervento russo a "tutela del diritto internazionale" e dichiarando la Turchia "un invasore", è convinto che l'Occidente "non ha un quadro completo della situazione", compreso il Vaticano. "Speriamo che il Vaticano, come Stato, convinca tanti Stati a smettere di interferire nella questione siriana e a smettere di violare il diritto internazionale. Questo è tutto ciò che vogliamo. In questo modo i civili saranno al sicuro e tornerà l'ordine e tutto andrà bene", ha dichiarato. Nella sua risposta a una lettera di Papa Francesco dello giugno scorso in cui chiedeva di proteggere i civili, Assad ha raccontato di "aver spiegato la verità sulla Siria perché il Vaticano come il resto dell'Occidente ha una narrazione distorta. Siamo quelli che hanno più a cuore l'incolumità dei civili". Il capo di Stato, che si definisce "un sopravvissuto come il resto dei siriani", ha ancora una volta negato di aver usato armi chimiche durante la guerra. "Per noi è impossibile, e lo è anche per motivi logistici. Ad esempio perché usare le armi chimiche quando stai avanzando? Noi eravamo in una buona situazione, specie nel 2018, e quindi perché usarle?", ha affermato. "Inoltre - ha aggiunto - queste sono armi di distruzione di massa e parliamo di migliaia di vittime, o almeno centinaia, e questo non è mai successo assolutamente. Ci sono sempre stati solo questi video di messinscena degli attacchi". Assad ha inoltre precisato che "il cloro non è arma di distruzione di massa e la quantità che gli ispettori hanno trovato è la stessa che si puo' trovare in ogni casa". Assad attacca infine l'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) accusandola di "aver fabbricato e falsificato il rapporto solo perché gli americani hanno voluto che lo facessero. I rapporti trafugati hanno dimostrato che l'Organizzazione è politicizzata, immorale e che tutte le organizzazioni parallele all'Onu che dovrebbero lavorare per la pace, sono un braccio degli Usa per creare caos".

Leonardo Martinelli per “la Stampa” il 9 dicembre 2019. Trentatré appartamenti nel sedicesimo arrondissement, quello dei ricchi parigini. E lì anche due palazzi interi, antichi e lussuosi, senza contare un castello subito fuori città e scuderie di cavalli e ancora uffici a Lione: sorprendente il patrimonio immobiliare in terra di Francia di Rifaat al-Assad, zio dell' attuale presidente siriano Bashar, valutato novanta milioni di euro. Dal 2016 la giustizia, sollecitata da due Ong attive nella lotta alla corruzione, Sherpa e Transparency international, indaga sulla natura di queste proprietà e su presunti e connessi reati. Oggi a Parigi inizia a suo carico un processo: Rifaat, 82 anni, residente a Londra, è accusato di appropriazione indebita di fondi pubblici siriani tra il 1984 e il 2016, di frode fiscale e di riciclaggio. Rifaat, in realtà, non sarà presente. Come indicato dai suoi avvocati, non può spostarsi a Parigi «per ragioni mediche». Rischia comunque di vedersi sottrarre quel patrimonio ingente, già messo in gran parte sotto sequestro. Ma chi è Rifaat al-Assad? Fratello minore di Hafiz, padre-padrone della Siria dal 1971 fino al 2000, fu a lungo influente nel regime. A Damasco lo ricordano come il «macellaio di Hama». Gli Assad fanno parte della minoranza degli alauiti, corrente religiosa considerata eretica da gran parte dei sunniti, maggioritari in Siria. Hafiz riscrisse la Costituzione in senso laico, senza menzionare esplicitamente che il presidente del Paese dovesse essere musulmano. Questo a tanti non andò giù e i Fratelli musulmani (appoggiati da numerosi sunniti) scatenarono nella città di Hama una rivolta contro il regime (le radici dell' opposizione islamista risalgono a quell' episodio). Fu Rifaat a reprimerla, nel sangue: mai è stato chiarito in maniera definitiva il numero di morti, ma sarebbero stati più di 20mila. Forte di quella «prodezza», l' uomo tentò un golpe militare contro il fratello, ma venne bloccato e costretto nel 1984 ad abbandonare Damasco. Se ne andò a vivere prima in Svizzera e poi a Parigi, dove ottenne da François Mitterrand, che lo proteggeva, la legion d' onore. Ora gli inquirenti si sono resi conto che proprio in quegli anni Rifaat iniziò ad acquisire le sue proprietà francesi. Renaud Van Ruymbeke, il giudice istruttore, che in maniera testarda ha indagato sul caso, ha scoperto, mediante intercettazioni telefoniche su alcuni dei gestori del patrimonio, che Rifaat possiede una lunghissima serie di immobili anche in Spagna, per un valore ancora superiore, 691 milioni. Per questo è stato da poco rinviato a giudizio pure a Madrid. La giustizia francese ha accertato illegalità fiscali, con diversi immobili intestati a società offshore. Ma soprattutto sono stati interrogati ex rappresentanti di alto livello del regime di Damasco. Hanno assicurato che Rifaat avrebbe finanziato tutte quelle acquisizioni mediante attività di contrabbando in Siria, commercio illegale di beni archeologici siriani all' estero e attingendo dalle casse pubbliche prima della sua partenza, ma forse anche dopo. Lui ritornò a Damasco nel 1992 per il funerale della madre e da lì in poi riconquistò una certa influenza nel Paese. Ripartì definitivamente alla fine degli anni Novanta, poco prima dell' ascesa al potere di Bashar. Ma con il nipote le relazioni sono sempre state ambigue e ci sono perfino sospetti che l' attuale presidente abbia utilizzato lo zio per portare fondi all' estero. Rifaat, ovviamente, rigetta ogni accusa. Lui vive a Londra con quattro mogli, sedici figli e un codazzo di 200 fedelissimi. Da sottolineare: in contesti simili, la giustizia francese ha già condannato familiari di politici africani e confiscato le loro proprietà in Francia, di dubbie origini.

Fatwa sul Giornale pagata dall'Europa. La Ue finanzia due studiosi vicini ai Fratelli musulmani e a Erdogan per schedare chi critica il fondamentalismo. Alessandro Sallusti, Mercoledì 06/11/2019 su Il Giornale. L'Unione Europea ha finanziato uno studio, diventato libro, nel quale Il Giornale è messo sul banco degli imputati, accusato di praticare forme di razzismo nei confronti del mondo islamico.

"Così vogliono censurare le critiche all'islam politico". Una sorta di fatwa (sentenza coranica) scritta da due signori, uno molto vicino ai Fratelli Musulmani, l'altro al partito del presidente turco Erdogan. Per intenderci, i Fratelli Musulmani sono un'organizzazione estremista islamica dichiarata fuorilegge, in quanto considerata terroristica, da otto Paesi del mondo, tra i quali Russia, Egitto e Arabia Saudita (ma, guarda caso, non dalla Turchia, che le elargisce finanziamenti e protezioni). Ma davvero siamo un giornale pericolosamente razzista, islamofobo o, addirittura, fascista? La risposta è certamente no, non lo siamo mai stati e mai lo saremo, anche se c'è una forte spinta a farlo credere perché fa comodo così. L'allarme è un ottimo paravento dietro il quale nascondere ben altro, sia all'interno di quel mondo islamico che tanto orrore ha seminato in Europa, sia dentro una sinistra italiana incapace di gestire una seria integrazione. E questo sì è un fenomeno preoccupante e pericoloso, perché se tutto è razzismo e fascismo, nella palude indistinta a guadagnarci sono i più feroci alligatori, di una parte e dell'altra, non certo le guardie a difesa della popolazione. Non è vero che preoccuparsi per oggettivi pericoli equivalga a essere razzisti. Noi siamo per la libertà religiosa di chiunque e, quindi, anche per la libertà dei cattolici a entrare in una chiesa che non sia un bivacco di prima accoglienza, per il loro diritto a festeggiare le loro ricorrenze senza limitazioni «per non offendere altre fedi» (sarebbe come non potere mangiare pane e salame al bar per non offendere clienti ebrei, musulmani e vegani). Noi siamo per il rispetto della Costituzione, che all'articolo 4 recita: «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un'attività che concorra al progresso materiale o spirituale della società», cosa che esclude la legalizzazione dell'illegalità. E all'articolo 10: «La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali», che non sono gli statuti delle Ong private. E non abbiamo mai nascosto di essere molto preoccupati per l'odio, quello sì, che molti islamici nutrono nei confronti della civiltà occidentale.

Che fingano di non capirlo, i Fratelli Musulmani, non fa che confermare i nostri dubbi. Che non lo capisca l'Unione Europea ci preoccupa assai di più.

La censura sul Muro: ora è vietato parlare di comunismo a scuola. Sbianchettato il testo di Forza Italia-Lega-Fdi La sinistra: la dizione è "socialismo reale". Sabrina Cottone, Giovedì 07/11/2019 su Il Giornale. Sono passati trent'anni dal giorno della caduta del Muro di Berlino, quel 9 novembre del 1989 che per molti è un ricordo degli occhi e del cuore, ai ragazzi è stato tramandato tra racconti familiari e The Wall dei Pink Floyd, per tutti è una data entrata nei libri di storia e nei testi che si studiano a scuola. Eppure la condanna del comunismo divide ancora, e capita, è capitato ieri che in commissione Cultura alla Camera si dibatta un'intera seduta per censurare l'espressione «dittatura comunista» di stampo sovietico, e proprio in un testo che vuole impegnare il governo a verificare che nelle scuole si celebri realmente il «Giorno della libertà» istituito nel 2015. A opporsi all'espressione «dittatura comunista» è stato Nicola Fratoianni di Sinistra italiana, l'area della maggioranza più radicale che fa riferimento a Leu, sostenuto dal sottosegretario al Miur, Giuseppe De Cristofaro, ex parlamentare di Rifondazione comunista oggi esponente di governo di Si. Non è caduta «la dittatura comunista», ma «la dittatura del socialismo reale», la tesi sostenuta dagli esponenti di Sinistra italiana. È così partita una battaglia da azzeccagarbugli che ha impedito di arrivare a una risoluzione condivisa. Si spera che oggi un ritorno alla realtà di ciò che è stato riporti il comunismo nel testo, così da arrivare a una mozione unitaria. Ma nel frattempo la commissione Cultura della Camera, a trent'anni dalla caduta del Muro, è rimasta travolta per un giorno dalle vecchie macerie, a dibattere se quel 9 novembre a Berlino fosse davvero caduta la dittatura comunista o il socialismo reale. La risoluzione contestata è stata presentata da Fratelli d'Italia, con Paola Frassinetti come prima firmataria, dalla Lega con Daniele Belotti e da Forza Italia con Valentina Aprea. «Il 9 novembre ha rappresentato per milioni di persone il giorno della ritrovata libertà dopo decenni di dittatura comunista» il passaggio che ha fatto inciampare i parlamentari della sinistra radicale. Le risoluzioni presentate per la discussione congiunta, con l'intenzione di fonderle in una sola, sono state tre: una di maggioranza, una seconda a firma di Alessandro Fusacchia di +Europa, confluita nella risoluzione della maggioranza, e la risoluzione del centrodestra, la prima a essere depositata e quindi discussa. Si lavorava agli impegni per stendere una risoluzione unitaria quando si è levata l'opposizione dell'area radicale di Leu alla «dittatura comunista». Uno stop inatteso che ha riportato indietro di decenni l'orologio della storia. «Dopo la risoluzione del Parlamento europeo, il comunismo è equiparato ad altri totalitarismi. Per questo, la censura è da ritenersi odiosa e inaccettabile. Sotto la cortina di ferro del comunismo, sono morte milioni di persone» è la protesta sulle labbra di Federico Mollicone, capogruppo di Fdi in commissione Cultura. «È vergognoso come questo governo non ammetta la parola comunismo, come se nulla fosse accaduto. Quanto avvenuto in commissione Cultura è inaccettabile» commenta il leghista Belotti, capogruppo del suo partito in Commissione. E l'azzurra Valentina Aprea parla di «revisionismo storico» e aggiunge: «È fondamentale insegnare alle giovani generazioni che con la caduta del Muro ci siamo liberati dalla dittatura comunista di stampo sovietico. Noi combattiamo tutti e tre i totalitarismi del Novecento: comunismo, fascismo e nazismo. E nei Paesi del blocco sovietico la gente è stata privata della libertà a causa del comunismo».

In Parlamento un giro di parole per salvare l'idea comunista. Sabrina Cottone, Venerdì 08/11/2019, su Il Giornale. È caduto il comunismo quando è caduto il Muro? La domanda potrebbe sembrare semplice ma in politica non lo è, come dimostra il parapiglia in commissione Cultura della Camera, dove la sinistra radicale di Leu voleva espungere le espressioni «comunismo» e «dittatura comunista» per parlare di ciò che accadeva a Berlino Est, in Unione sovietica e negli altri Paesi d'oltrecortina. Meglio un più edulcorato «dittatura del socialismo reale» per trasmettere alle giovani generazioni la memoria di ciò che è stato. Il dibattito si è acceso proprio su una risoluzione che impegna il governo a moltiplicare le iniziative di ricordo della caduta del Muro nelle scuole e nelle università. Quasi fuori tempo massimo, all'antivigilia del trentesimo anniversario del 9 novembre 1989 dichiarato con legge del 2005 Giorno della libertà, è arrivato il compromesso storico, con una risoluzione votata da maggioranza e opposizione. In un soprassalto di senso della realtà storica, il «comunismo» è tornato a esistere insieme alla «dittatura». Ma, recita il documento, la «libertà» è stata ritrovata «dopo decenni di dittatura imposta in nome del comunismo». Non una dittatura comunista ma «una dittatura imposta in nome del comunismo». Un giro di parole politicamente corrette che è piaciuto a tutti, forse anche perché ciascuno è libero di interpretarle a proprio modo. «Imposta in nome del comunismo» può significare che il comunismo in sé non fosse un'ideologia perversa, come potranno leggere e supporre senza sussulti tutti coloro che ne sono orfani e anzi continuano a credere che nel Manifesto del Partito comunista, tra le parole di Marx e Engels, nel materialismo dialettico, nella lotta di classe, fossero nascoste giustizia, uguaglianza e fraternità, e se poi mancava la libertà poco male, ma era un bellissimo progetto di vita e società incompreso, realizzato peggio, trasformatosi in orrore e violenza, in un'eterogenesi dei fini che inevitabilmente rimane incomprensibile. Ma «dittatura imposta in nome del comunismo nei paesi del cosiddetto socialismo reale» può significare anche altro, quasi l'opposto, e cioè che quel «comunismo» che sarebbe morto il 9 novembre 1989, sbriciolato insieme al Muro di Berlino, in realtà non è morto, anzi è vivo e vegeto e lotta ancora contro di noi, nei Paesi in cui oggi esiste una dittatura imposta nel suo nome. Il Partito comunista cinese, la seconda formazione politica più grande del mondo, governa la Repubblica popolare cinese. Segretario e presidente sono un'unica persona che può rimanere al potere a vita. Non è l'unico Paese in cui ciò accade. Nella circolare del Miur alle scuole si parla della caduta del Muro come «evento simbolo per la liberazione di Paesi oppressi e auspicio di democrazia per le popolazioni tuttora soggette al totalitarismo». E allora una delle domande dell'oggi, a trent'anni dalla caduta del Muro, resta una grande muraglia anche a scuola. Esiste ancora o no la «dittatura imposta nel nome del comunismo»?

La storia del Muro diventa radical chic. Roberto Vivaldelli suit.insideover.com l'8 novembre 2019. A 30 anni dalla Caduta del Muro di Berlino lo spauracchio delle forze progressiste che vogliono riscrivere la storia diventa uno solo: il “sovranismo”. L’ex premier Paolo Gentiloni e commissario Ue designato ha spiegato a Porta a Porta che “questa ventata nazionalista, soprattutto nelle campagne e nei piccoli centri, va fortissimo e mette in discussione la democrazia liberale che quella notte aveva trionfato”. Dopo 30 anni, ha sottolineato Gentiloni, “rallegra avere tutto quello che abbiamo, ma non ci dimentichiamo che quella cosa che a noi sembrava scontata, la democrazia liberale, sarà il tema degli anni 20 del nuovo secolo, la posta in gioco vera sarà se questo sistema è davvero il sistema migliore”, ha spiegato il commissario Ue designato. Che cosa abbia a che fare la “ventata nazionalista” con la Caduta del Muro, che aprì la strada alla dissoluzione del sistema di potere costruito dall’Unione sovietica, nessuno lo sa, se non il tentativo di individuare nel “sovranismo” il “male assoluto” che minaccia la democrazia liberale di cui i progressisti, eredi del Partito comunista italiano, sarebbero – a loro dire – i soli portavoce. “Il trentennale dalla caduta del Muro di Berlino è una festa. Ma a metà. Perché mentre celebriamo una data così significativa per l’Europa, assistiamo alla rinascita di tanti piccoli muri nel nostro continente e nel mondo. Alcuni ideologici. Altri, purtroppo, reali. Muri fisici che puntano a dividere. Vendendo l’illusione di una maggiore sicurezza. Quando invece l’unica cosa che accrescono è l’intolleranza”. Spiega invece la senatrice Laura Garavini, vicepresidente del gruppo Italia viva di Matteo Renzi. “In questo momento storico – aggiunge la senatrice – l’unico modo per celebrare il trentennale della caduta del Muro è alzare la voce contro l’imbarbarimento della mentalità comune. Venti di destra soffiano in Italia, nella stessa Germania ed in tutta Europa”.

La Caduta del Muro e le strumentalizzazioni. Anche i vescovi europei, riuniti in assemblea plenaria, commemorano la caduta del muro di Berlino e lanciano un monito rivolto ai cittadini contro i sovranismi. Il Comece si è espresso mediante una dichiarazione: il Muro, spiegano, “ci ha insegnato che costruire muri tra i popoli non è mai la soluzione, ed è un appello a lavorare per un’Europa migliore e più integrata”. Come riporta l’agenzia Sir, il riferimento dei vescovi ai nazionalismo è eloquente: “Le ideologie, un tempo alla base della costruzione del muro, non sono del tutto scomparse in Europa e sono ancora oggi presenti, seppur in forme diverse”, hanno scritto. Si tratta di riletture strumentali, a fini politici e ideologici di un evento storico che andrebbe analizzato in ben altri termini. Innanzitutto sottolineando che una cosa è riflettere sulla fine del socialismo reale, ben altro è disquisire sull’unificazione della Germania e le importanti conseguenze geopolitiche che quell’evento ebbe sulla storia europea e mondiale. Come nota l’ex segretario di Stato Henry Kissinger in Ordine Mondiale, “la caduta del Muro di Berlino rapidamente al collasso dell’orbita dei satelliti dell’Urss, la fascia di Stati dell’Europa orientali assoggettati al sistema di controllo sovietico”. Il collasso dell’Unione sovietica, nota Kissinger, “modificò il carattere dell’azione diplomatica. La natura dell’ordine europeo risultò trasformata in modo sostanziale nel momento in cui non esisteva più una consistente minaccia militare proveniente all’interno dell’Europa. Nell’atmosfera di esultanza che seguì, i tradizionali problemi dell’equilibrio furono liquidati come ‘vecchia’ diplomazia, da sostituire con la diffusione di ideali condivisi”.

La fine della Guerra fredda e il trionfo dell’egemonia liberale. Alla fine della Guerra fredda, gli Stati Uniti si affacciarono sul mondo con la possibilità di esercitare un potere e un’influenza senza precedenti. Con la sconfitta dell’Unione sovietica e la conclusione dell’era bipolare, infatti, gli strateghi americani hanno cominciato a sognare di modellare il globo a immagine e somiglianza dell’unica superpotenza rimasta. Una visione ottimista del futuro ben espressa da Francis Fukuyama nella riflessione formulata nel saggio The End of History?, pubblicato su The National Interest nell’estate 1989, nel quale il liberalismo, agli occhi dell’illustre politologo, appare come l’unico possibile vincitore e meta finale dell’evoluzione storica dell’uomo e della società. Si faceva inoltre sempre più largo l’idea che le nazioni potessero essere superate e il realismo politico fosse ormai un lontano ricordo. Fu un grave errore. Come ricorda il professor Marco Gervasoni, già all’epoca qualcuno, come il grande Samuel P. Huntington, mise in guardia e spiegò che il ruolo delle nazioni, tutt’altro che diminuito, era addirittura cresciuto dopo il 1989, e che si sarebbe ulteriormente intensificato. Insieme a lui John J. Mearsheimer e tutta la schiera di “realisti”.

L’unificazione incompiuta. L’ultimo aspetto da analizzare riguarda la “mancata unificazione” e il grande divario fra la Germania dell’Est e quella dell’Ovest. Come nota il Fatto Quotidiano, “da qui bisognerebbe partire, se si vuol capire come l’ Unione stia perdendo l’ Est: dai modi e dai discorsi pubblici con cui l’ Est – Germania orientale in testa – è stato annesso e privatizzato, più che integrato e rispettato”. In Germania, ricorda Il Fatto Quotidiano, l’autocritica è in pieno corso, e non mancano libri che parlano dell’Est come di un Mezzogiorno ancora più dannato del nostro. Tra i tanti, quello di Daniela Dahn, già dissidente in Ddr, che invariabilmente denuncia le modalità di un’ unificazione cui dà il nome storicamente pesante di Anschluss, annessione. I cittadini dell’est hanno la sensazione di essere cittadini di serie B. Come riporta IlSole24Ore, il reddito di un cittadino dell’Est è comunque all’85% di quello di un cittadino dell’ Ovest, con un gap di produttività del 20% a favore della parte occidentale.

Bibbiano, Laura Pausini si schiera: «Sono piena di rabbia nei miei pugni». Pubblicato venerdì, 19 luglio 2019 da Corriere.it. «Ho appena letto un articolo sulla storia dei Bimbi di Bibbiano. Sono senza parole, senza fiato, piena di rabbia nei miei pugni, mi sento incazzata fragile impotente». Inizia così il lungo post di Laura Pausini su Facebook, che schiera la sua popolarità su una vicenda non ancora chiarita. «Ho deciso di cercare questa storia perché una mia fan mi ha scritto pregandomi di informarmi. Non ne sapevo nulla. Non posso credere che abbia dovuto cercare questa vicenda, perché sì, quando sono in tour sono spesso distratta dall’attualità e dalla cronaca ma questa notizia è uno scandalo per il nostro Paese e dovrebbe essere la notizia vera di cui tutti parlano schifati. Tutta Italia». La cantante si chiede cosa si può fare e come si possa aiutare perché il caso abbia l’eco che merita: « Per chi non sa ancora di cosa parlo scrivete Bibbiano su Google e leggete. E poi scrivete su questi maledetti social che usiamo solo per le cavolate, cosa pensate di queste persone che strappano i figli alle loro famiglie. Non parlo di politica, parlo di umanità, di rispetto, di diritto alla Vita… ecco, se avete letto, ditemi sinceramente … voi non sentite di avere nelle mani degli schiaffi non dati? Non sentite la voglia di urlare? Non sentite la voglia di punire queste persone in maniera molto dura? Scusate lo sfogo ma a me manca il fiato pensando a questi bambini e alle loro famiglie che sono stati torturati psicologicamente per sempre. Se avete un figlio pensate che improvvisamente una persona della quale per altro potreste anche fidarvi, fa un lavoro psicologico tanto grave da portarveli via e affidarli ad altre persone. Come si rimedia adesso nella testa e nei cuori e nell’anima di queste persone? Ma vogliamo fare qualcosa?».

Quelle bufale crudeli sulla pelle dei bambini. Non si sa nulla o si sa male, ma ci si sente in dovere di aizzare la folla. Lo ha fatto anche Laura Pausini. Angela Azzaro il 20 luglio 2019 su Il Dubbio. Nei giorni scorsi sui social girava un messaggio che accusava l’informazione di aver oscurato il caso di Bibbiano. Era un post molto sentito, molto emotivo. E diceva una marea di fesserie. In primo luogo l’accusa rivolta a giornali e tv. Se c’è infatti un caso che ha avuto una risonanza immediata, e fuori luogo, è stato proprio quello dell’inchiesta sull’affido di alcuni minori. Il commento, condiviso da migliaia di persone, faceva riferimento a centinaia di bambini strappati ingiustamente alle loro famiglie. L’inchiesta di Bibbiano, chiamata dalla procura “Angeli e demoni” a uso e consumo del processo mediatico, in realtà riguarda solo 6 casi. Ma l’opinione pubblica, abilmente strumentalizzata, ha già deciso che le persone coinvolte nell’inchiesta a vario titolo siano mostri, persone orribili che andrebbero più che processate mandate alla ghigliottina. La stessa sorte che è toccata al sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti: coinvolto nell’inchiesta con l’accusa di abuso di ufficio e falso in atto pubblico è invece diventato, anche grazie alle dichiarazioni del vicepremier Luigi Di Maio, il simbolo di un sistema corrotto con cui invece non c’entra nulla anche per la procura. Bene ha fatto il Pd di Zingaretti a querelare per diffamazione il vicepremier dei 5 Stelle. Ma forse anche il Partito democratico avrebbe dovuto non solo rifiutare qualsiasi accostamento tra l’inchiesta e il proprio simbolo, ma dire che un’inchiesta non è una condanna e che soprattutto su temi così delicati bisognerebbe essere molto, ma molto cauti. Così non è stato. La conferenza stampa organizzata dalla procura di Reggio Emilia è diventata subito spettacolo, titoli sparati a tutta pagina. Si voleva l’orrore, il sangue, e si è fatto di tutto per costruirlo. Emblematici i titoli sul cosiddetto elettrochoc, in realtà un macchinario – riconosciuto dalla comunità scientifica – che non infligge scosse al paziente, ma emette suoni e vibrazioni che servono a stimolare i ricordi. Bastava leggere le carte. Ma in pochi anche nelle redazioni lo hanno fatto. Per chi ha avuto la pazienza di visionare le 270 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare la decisione del riesame di scarcerare Claudio Foti non è una sorpresa. Ma paradossalmente i giudici si basano sui fatti. Il processo mediatico no. E sarà difficile far cambiare idea a un’opinione pubblica sempre alla ricerca di qualcuno da linciare. Non si sa nulla o si sa male, ma ci si sente in dovere di aizzare la folla. Lo ha fatto anche Laura Pausini: «Mi sento incazzata e impotente», ha scritto chiedendo ai suoi fan di prendere posizione. Una volta che si è creato il mostro è difficile rinunciarci.

Bibbiano, l’indagine si allarga: ricontrollati oltre 70 casi. Pubblicato sabato, 20 luglio 2019 da Alessandro Fulloni su Corriere.it. Settanta fascicoli ricontrollati dai giudici del Tribunale dei minori di Bologna. Accertamenti non soltanto sui sei casi, finiti nell’inchiesta dei carabinieri, dei finti abusi segnalati dai servizi sociali della Val d’Enza, nel Reggiano, per togliere i bambini a famiglie deboli e affidarli (con aiuti mensili sino a 1.300 euro) ad altre coppie giudicate più adatte. L’elenco comprende tutti i dossier trattati negli ultimi due anni dalla rete dei servizi sociali — con sei Comuni, tra cui Bibbiano, sede del presidio più importante, quello della struttura «La Cura» — e approdati sui tavoli delle toghe minorili. A ordinare la verifica è stato il presidente del Tribunale Giuseppe Spadaro che aveva da tempo informato la Procura di Reggio sui sospetti relativi alle tante denunce in Val d’Enza per maltrattamenti in famiglia: ma poi, senza riscontri, fioccavano le richieste di archiviazione. Il meccanismo per togliere i bambini era però già avviato con il corollario — per l’accusa — delle relazioni false per screditare i genitori «inaffidabili», i condizionamenti degli psicoterapeuti sui minori. E le modifiche ai disegni dei piccoli. Uno mostra un uomo che accarezza una bimba: ma poi si è scoperto che erano state aggiunte delle lunghe braccia. Già il primo fascicolo rivisto dallo staff di Spadaro contiene pesanti «anomalie e omissioni». In una dichiarazione di abbandono, dove i genitori naturali erano autori di violenze, il servizio non avrebbe comunicato al tribunale di avere individuato la nuova coppia affidataria. Questo contravvenendo alla sentenza che prevedeva invece un tassativo iter «concertato con i giudici». L’inchiesta — che terminerà il 26 settembre, poi si valuteranno le richieste di rinvio a giudizio — intanto prosegue: gli indagati sono saliti a 29. Tre sono sindaci o ex sindaci: uno è quello di Bibbiano Andrea Carletti. Sospeso dal prefetto e autosospesosi dal Pd «è ai domiciliari, accusato di abuso d’ufficio e falso: avrebbe assegnato dei locali a una onlus» precisa il suo avvocato Giovanni Tarquini. Sotto inchiesta per abuso d’ufficio ci sono anche gli altri due ex primi cittadini: anche loro Pd, sono Paolo Colli (Montecchio) e Paolo Buran (Cavriago), ex presidente dell’Unione Val d’Enza. Uno degli arrestati tira intanto un sospiro di sollievo. Si tratta di Claudio Foti, 68 anni, psicoterapeuta e fondatore della onlus «Hansel e Gretel» che collaborava con gli operatori reggiani. Accusato di aver manipolato una minorenne spingendola a confessare abusi inesistenti è tornato in libertà dopo che il Riesame ha revocato i domiciliari perché «non vi sono gravi indizi di colpevolezza». Lui ora dice: «Non sono un mostro. Mi hanno salvato i filmati delle sedute. Dimostrano che la mia terapia era basata sul rispetto empatico: se non li avessi trovati sarei ancora agli arresti».

Nek e l'appello per Bibbiano: "Vogliamo la verità". Nek, dopo la Pausini, lancia un messaggio su social su quanto accaduto ai bimbi tolti alle loro famiglie per essere affidati ad altre coppie. Angelo Scarano, Sabato 20/07/2019, su Il Giornale. Il mondo della musica si mobilità per far luce sui fatti di Bibbiano. Diversi volti noti della musica italiana chiedono la verità su quei bambini tolti ai genitori per essere poi affidati (nel silenzio più assoluto) ad altre coppie. La prima voce ad alzarsi in questo senso è stata quella di Laura Pausini. Proprio la cantante romagnola ha voluto lanciare un appello molto chiaro: "Ho appena letto un articolo e sono senza parole, senza fiato, piena di rabbia nei miei pugni. Mi sento incazzata, fragile, impotente". E ancora: "Ho deciso di cercare questa storia, perché una mia fan mi ha scritto pregandomi di informarmi. Non ne sapevo nulla. Non posso credere che abbia dovuto cercare questa vicenda, perché sì, quando sono in tour sono spesso distratta dall’attualità e dalla cronaca ma questa notizia è uno scandalo. Cosa si può fare? Come possiamo aiutare?". Adesso su questa vicenda (che da settimane ilGiornale.it sta raccontando) è intervenuto anche Nek che con un post sui social ha chiesto la verità su quanto accaduto a Bibbiano. Il cantante non usa giri di parole e anche lui dai social lancia un appello che ha fatto in poche ore il giro del web: "Sono un uomo e sono un papà. È inconcepibile che non si parli dell’agghiacciante vicenda di #bibbiano Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico. È proprio così. Ci sono intere famiglie distrutte, vite di bambini di padri e di madri rovinate per sempre...e non se ne parla. Ci vuole giustizia!!". Insomma la storia dei bimbi di Bibbiano grazie anche ai messaggi dei volti noti dello spettacolo tenta di rompere il muro del silenzio che diversi organi di stampo hanno creato attorno a questa vicenda. E c'è da giurare che l'appello di Nek non resterà isolato e non sarà certo l'ultimo. Altri cantanti sono pronti a chiedere la verità e a dar voce ad una vicenda su cui è importante tenere alta l'attenzione.

Bibbiano, Nek risponde agli insulti rossi: "Bah, passo e chiudo..." Nek adesso non usa giri di parole e risponde per le rime a chi lo ha attaccato per il suo post su Bibbiano: "Vi pare giusto?" Angelo Scarano, Mercoledì 31/07/2019 su Il Giornale. Nek reagisce. Non ci sta a subire attacchi gratuiti per il suo appello a far luce su quanto accaduto a Bibbiano. Come è noto, il cantante sui social ha lanciato un messaggio chiaro per chiedere verità su una vicenda che finora ha diverse ombre. Lo ha fatto con semplicità, con queste parole: "Sono un uomo e sono un papà. È inconcepibile che non si parli dell’agghiacciante vicenda di #bibbiano Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico. È proprio così. Ci sono intere famiglie distrutte, vite di bambini di padri e di madri rovinate per sempre...e non se ne parla. Ci vuole giustizia!!". Parole che hanno subito scatenato la reazione degli haters "rossi" che su Facebook e Twitter hanno messo nel mirino il cantante. Ma non ci sono solo gli haters ad attaccare Nek. C'è anche Luca Bottura che su Repubblica non ha usato certo toni morbidi per il cantante: "Filippo Neviani, in arte Nek esordì a Sanremo con una canzone antiabortista che risulta tutt'ora nella lista dei crimini contro l'umanità, dopo Nagasaki e Hiroshima ma comunque prima del gelato gusto Puffo". Livore gratuito contro chi ha espresso un'opinione legittima e che viene deriso anche sul fronte professionale. Ma Nek non ci sta e così ha deciso di reagire e dire la sua rispedendo al mittente tutti gli insulti ricevuti: "Paragonare una mia canzone di 25 anni fa a un crimine contro l’umanità, uno di quelli veri… Ma certo, è normale, si fa, è satira! Tirare fuori addirittura i lager e Salò. Ok, è sempre satira! Ma sarà davvero satira accostare tutto questo? Una canzone che legittimamente può o non può piacere, con eventi e tragedie che hanno segnato la storia di tutti noi? Bah!! Passo e chiudo". Poi chiama in causa in modo esplicito Bottura: "Non discuto la critica – scrive Nek – Sono quasi 30 anni che ci sono abituato. Né tantomeno, quando è attinente, la satira. Evviva la libertà di espressione, del signor Bottura, della stampa, quella di ognuno di noi, ma anche la mia". Ma dopo aver regolato i conti con chi l'ha insultato, Nek rilancia il suo appello per Bibbiano: "Ho espresso un pensiero su una vicenda che mi stava a cuore, e che ritengo importante. Sono stato oggetto di critiche, giudizi, insulti, strumentalizzazioni e forzature. Me ne faccio serenamente una ragione. E certo non mancherò di esprimermi ancora ogniqualvolta ne sentirò il bisogno". Insomma il cantante non usa giri di parole e non torna sui suoi passi dopo aver chiesto verità per Bibbiano.

Da Nek a Mietta e Laura Pausini anche i VIP contro il silenzio su Bibbiano. Letizia Giorgianni il 21 Luglio 2019 su La Voce del Patriota. Mentre il Pd minaccia querele a chiunque parli della vicenda ed il suo segretario Zingaretti risponde con una risata alla domanda della giornalista, l’indagine sugli affidi di Bibbiano si estende a nuovi casi, che riguardano anche altri comuni, e che getterebbe ombre su oltre 70 affidi. Si perché, mentre il pool degli avvocati del Pd sono impegnati affinché “nessuno osi strumentalizzare” la vicenda, i magistrati del Tribunale e della Procura dei minori di Bologna, su ordine del Presidente Giuseppe Spadaro, stanno ricontrollando tutti i dossier trattati negli ultimi due anni dalla rete dei servizi sociali per 6 Comuni. Impossibile ormai arginare lo sdegno provocato da una tale mercificazione  e violazione dell’infanzia; non basta più il silenzio dei media e neppure l’infaticabile lavoro della fallimentare agenzia on-line di Mentana, impegnata alacremente a far sgonfiare l’inchiesta con notiziole ininfluenti (tipo il finto prete che parlava di Bibbiano). Lo sdegno della gente comune è tangibile. E allo sdegno della piazza, (l’ultimo corteo a Bibbiano proprio ieri) adesso si unisce anche quello dei vip, come la Pausini, Nek, e nella tarda serata di ieri anche la cantante Mietta, che dopo aver letto su Instagram lo sfogo di Nek, chiede a quest’ultimo la possibilità di condividere il post, appoggiandolo in pieno. Niente prime pagine per loro però. I loro post sono passati praticamente inosservati, ignorati. Dal canto loro i media, o per lo meno quelli che ritengono che l’informazione sia un diritto solo quando non lede gli interessi del padrone, continuano a tacere. Anzi, adesso, dopo la presa di posizione di personaggi dello spettacolo, tacere non gli basta più. Sono passati all’attacco, dimenticandosi completamente ogni regola, oltre che deontologica di buon senso, di quella che dovrebbe essere l’attività di un cronista. C’è infatti persino chi tenta di ironizzare e mettere alla berlina coloro che vogliono venga fatta completa luce sulla vicenda. Lo fa Repubblica, che chiama con disprezzo gli indignati “complottisti da social” ma anche La Stampa, che titola un articolo, (che di informativo non ha proprio niente): E allora Bibbiano? con il chiaro intento di descrivere in toni grotteschi chi osa collegare l’inchiesta di Bibbiano al Pd. Nell’articolo la giornalista, incredibilmente, parla di “luoghi comuni e falsità contro il Pd” di chi vuole strumentalizzare la vicenda per interessi personali. Probabilmente ne sa più lei che i pm che si stanno occupando dell’inchiesta. Fa eco Next, che di tutta l’inchiesta, documentata anche da intercettazioni, ci propina un “trattato” sull’uso improprio della parola “elettroshock” sui bimbi, rassicurandoci che non si è trattato di un vero e proprio elettroshock ma di “stimoli di tipo elettrico usati nella terapia per superare alcuni tipi di traumi”. Certo, adesso ci sentiamo sicuramente sollevati. E ci domandiamo se non vogliano anche loro prendere il posto degli inquirenti che si stanno occupando della vicenda. Per fortuna esistono anche giornalisti che alle imbarazzanti forme di autocensura preferiscono la coraggiosa e dolorosa ricerca delle verità nascoste. E anche la politica lo deve fare. E non si tratta di strumentalizzazione, si tratta di tenere ancora i riflettori accesi affinchè venga fatta piena luce sulla vicenda. Se non si considerano le responsabilità politiche ci ritroveremo tra qualche anno a dover affrontare un altro caso, altre vittime. Ricordiamo che prima Forteto e oggi Bibbiano si sono generati negli stessi ambienti culturali e politici. In tutti questi casi il silenzio è stato il nutrimento che ha consentito a queste realtà di operare per anni in modo incontrastato.

#ParlatecidiBibbiano. Perché la cacca non diventi… cioccolata. Cristiano Puglisi 23 luglio 2019 su Il Giornale. Ancora mutande sporche di Nutella. Questa volta al Comune di Bibbiano. A consegnarle, in sei borsette chiuse destinate ad altrettanti e differenti destinatari, tutti interni alla macchina comunale, è stato nuovamente il misterioso gruppo degli “Idraulici”, che già si era distinto per un’azione similare nei confronti della nave della ONG“ Open Arms”, ormeggiata al porto di Lampedusa. Il gruppo di attivisti, vestiti proprio da idraulici, ha fatto irruzione sabato mattina negli uffici comunali e ha recapitato la “castana” sorpresa a quelli che ha identificato come i responsabili dello scandalo relativo agli affidi. “Gli Idraulici – hanno poi spiegato gli autori del gesto in un comunicato stampa - non dimenticano qual è il loro compito principale, la ragion stessa del loro esistere: sturare quelle situazioni in cui l’accumulo di merda è diventato eccessivo. Bibbiano è una latrina a cielo aperto, la cui puzza viene coperta e deviata in ogni modo dal silenzio di sistema. È in questi frangenti che un Idraulico torna utile!”. “Non ci sono stati – dice ancora il comunicato – servizi-scandalo, maratone, titoloni a tutta pagina e chi ha provato a richiamare l’attenzione è stato immediatamente tacitato con news spacciate come prioritarie. Ma gli Idraulici arrivano come il destino, senza pretesti, senza riguardo, esistono come esiste il fulmine! E con loro, la gente d’Italia, che nella famiglia naturale ha un cardine imprescindibile(…)”. Il gruppo degli “Idraulici” è ritenuto vicino al think tank identitario Il Talebano. “Quanto è successo a Bibbiano è un fatto tremendo, la politica deve intervenire fermando la sperimentazione sociale attuata nelle scuole di stato sui bambini – ha commentato al proposito Fabrizio Fratus, fondatore proprio de ‘Il Talebano’ – Le strutture pubbliche non devono essere utilizzate per fini ideologici”. Già. Eppure il fecale fetore dei fatti di Bibbiano sembra, nella grande stampa generalista, essere già stato dimenticato. Passato in secondo piano, destinato non più alle prime pagine (come invece capita agli scontri tra le ONG e l’attuale ministro dell’Interno e al ridicolo “Russiagate” all’amatriciana), ma, al più, alla cronaca giudiziaria. #ParlatecidiBibbiano è l’hashtag-denuncia che sta circolando in queste ore su Twitter, rilanciato, tra gli altri, anche dal presidente di CulturaIdentità, Edoardo Sylos Labini. Giusta iniziativa, perché di Bibbiano si deve parlare. Se ne deve parlare per rispetto verso i bambini, vittime innocenti e senza difesa, e verso le famiglie coinvolte. È una questione morale, prima che giornalistica. Perché non si può consentire che la cacca, ancora una volta, diventi cioccolata.

Sui social centinaia di meme e post costruiti ad arte accusano media, Partito Democratico e movimento Lgbt di aver oscurato l’inchiesta di Reggio Emilia sui presunti abusi. Nadia Ferrigo il 18 Luglio 2019 su La Stampa. «Allora Bibbiano?» La «guerriglia culturale» invocata da VoxNews.info, l'autodefinitosi «quotidiano sovranista» Il Primato Nazionale e da una nebulosa galassia di decine di pagine Facebook dai nomi più o meno evocativi, ha un nuovo tormentone: l'inchiesta sui presunti abusi su minori in provincia di Reggio Emilia. Ne parlano centinaia di post e articoli, condivisi e commentati migliaia di volte sui social: nulla aggiungono, se non notizie false e un minestrone di pregiudizi e luoghi comuni che vanno dai «risultati della campagna Lgbt per distruggere la famiglia naturale e diffondere la teoria gender» a una «ideologia aberrante che mira alla disgregazione totale della famiglia nel nome del gender, del femminismo, della famiglia arcobaleno, dei diritti/capricci». Colpevole è il Partito Democratico, che con «la complicità dei media» vuole mettere a tacere la vicenda. Una squallida speculazione, con argomenti che nulla hanno a che fare con l’inchiesta di Reggio Emilia. Cosa c'entrano per esempio Luciana Littizzetto, Fabio Volo, Roberto Saviano e Laura Boldrini? Assolutamente nulla. Ma sono decine i meme che accostano le loro fotografie al «connivente silenzio dei media» sull’indagine. Lo stesso accade sugli account Facebook e Twitter dei media nazionali. Le notizie di politica sono bersagliate dallo stesso, squallido ritornello: «Parlate dei rubli, per non parlare di Bibbiano». Nella lettura complottista di una galassia di siti specializzati nella produzione di bufale e fake news virali, i media sono complici di Pd e movimento Lgbt: l’obiettivo di tutti sarebbe nascondere la realtà. Ecco i fatti. Giovedì 27 giugno i carabinieri di Reggio Emilia hanno messo agli arresti domiciliari sei persone al termine di un'indagine su un'organizzazione criminale che da una parte aveva lo scopo di togliere bambini a famiglie in difficoltà e affidarli a famiglie di amici o conoscenti, mentre dall’altra gestiva illecitamente fondi pubblici. L'indagine si concentra dell'affidamento di sei bambini legati ai servizi sociali dell'Unione Val d'Enza, un consorzio di sette comuni che condividono la gestione di molti servizi. La notizia è stata riportata da tutti i principali media italiani, che continuano a seguirne gli sviluppi. Ma la campagna d’odio, anche in assenza di notizie, va alimentata: online le varianti morbose sono infinite, per forza ripetitive. Spesso ricostruzioni assolutamente false. Titola l’ultimo link di VoxNews.info: “I mostri di Bibbiano occupano aula contro Salvini”. Le fotografie sono quelle della protesta dei parlamentari del Pd, che chiedono che il ministro Matteo Salvini riferisca in Parlamento sulla vicenda dei fondi russi alla Lega. Nulla a che fare con l’inchiesta. Tra i più attivi su Facebook, gli account legati all’estrema destra. Un esempio, il «Gruppo Gnazio». I post con riferimenti a Bibbiano sono decine, i commenti assolutamente irripetibili. Tra quelli che senza vergogna si possono riprendere c’è: «Vauro ha la matita rotta, nessun commento sui bambini di Bibbiano?». Continua a essere postato e ripostato il video attribuito a Bibbiano – ma che in realtà si riferisce a un’altra vicenda di cronaca, come raccontato da Open – di un bimbo che si dispera perché separato dal padre. Filmato postato anche dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Questa squallida campagna di speculazione su una vicenda giudiziaria ancora agli esordi, cui prodest? A chi giova? Non certo ai bambini. Nè a quelli vittime degli abusi – che per oltre il 70% avvengono in famiglia – né ai bambini presunte vittime degli errori del sistema di affidamento. A decidere non saranno né i social né le invocate «indagini giornalistiche», ma la magistratura.

Commento di Alessandra Ghilardini: Questo sotto è una parte di quello che scrivevate nel non tanto lontano 31 luglio 2016...definendo l'unione val d'Enza una lavatrice sana....quindi non mi stupisco ora la vostra improvvisa prudenza e ritrosia nel commentare anni di abusi perpetrati da chi voi esaltavate come la soluzione ai problemi di quella "cattivona" (mio aggettivo) modello di famiglia patriarcale così definito da quella brava professionista Federica Aghinolfi.

"La Val d’Enza. C’è un posto in Italia dove la lotta alla pedofilia è una priorità assoluta. E i risultati si vedono. È un fazzoletto di terra in provincia di Reggio Emilia dove gli otto comuni della Val d’Enza - 62mila abitanti, 12mila minorenni, 1900 in carico ai servizi , 31 seguiti per abusi sessuali - hanno costituito un’Unione guidata dal sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, per tutelare i minori. E magari cambiare anche la testa di chi non vede il problema. «Abbiamo fatto rete e lavoriamo con operatori specializzati capaci di dare risposte rapide. La variabile tempo è decisiva», dice Carletti. È seduto di fianco al medico legale Maria Stella D’Andrea e all’assistente sociale Federica Anghinolfi. «Noi la volontà politica l’abbiamo avuta. E nonostante i tagli abbiamo anche trovato i soldi». Come li hanno spesi? Facendo formazione sugli operatori per renderli in grado di leggere in anticipo i segnali di malessere, spesso aspecifici, dei bambini, rivalutando la figura dell’assistente sociale, lavorando con gli ospedali e con le scuole e appoggiando in modo esplicito le vittime della violenza. Ad esempio costituendosi parte civile in un processo contro una madre che faceva prostituire la figlia dodicenne. Favoloso. Ma i soldi? «Abbiamo cercato di ricorrere meno alle comunità (che pure sono fondamentali) dove per seguire un bambino servono 50mila euro l’anno. E abbiamo incentivato il ricorso agli affidi, che costano molto meno». Le idee. Un piano capillare. La professionalità degli operatori. «Per noi è decisiva la riumanizzazione delle vittime. E per questo servono empatia e competenze specifiche. Ma sa quanti sono i corsi di laurea, a medicina o a psicologia, che prevedono la materia: “vittime di violenza”? Zero», dice Maria Stella D’Andrea, che chiede al governo interventi non solo teorici. La legge di Stabilità del 2016 ha previsto, ad esempio, un “percorso di tutela delle vittime di violenza” rimandando a un decreto della presidenza del consiglio la definizione delle linee guida. Ma il decreto non è mai arrivato. E anche se arrivasse ci sarebbe la garanzia della sua applicazione? Dubbio legittimo. «Dal 2001 la legge prevede l’obbligo per il sistema sanitario di mettere a disposizione delle vittime uno psicoterapeuta. Ma, mancando i soldi e mancando una visione, mancano anche gli psicoterapeuti. Però tutti zitti. In questo Paese è ancora troppo forte l’idea della famiglia patriarcale padrona dei figli», dice Anghinolfi. Così in provincia di Reggio insistono con il fai da te. E a settembre, grazie anche alla consulenza del centro studi Hansel e Gretel di Torino, apriranno un Centro di Riferimento per minori che garantirà formazione, tutela, ascolto e assistenza. Venite qui, vi diamo una mano. Il sistema? Lo chiamano “riciclo delle emozioni”. Come se i bambini finissero dentro una lavatrice sana e cominciassero a lavarsi dentro. Ora, il modello degli otto comuni dell’Unione Val d’Enza è lì, basta allungare una mano e prenderlo. Interessa?"

Non è più tollerabile. Luca Bottura il 21 luglio 2019 su La Repubblica. Ameno stavolta. Filippo Neviani in arte Nek esordì a Sanremo con una canzone antiabortista che risulta tutt’ora nella lista dei crimini contro l’umanità, dopo Nagasaki e Hiroshima ma comunque prima del gelato al gusto Puffo. Successivamente prestò la sua immagine a una campagna contro la droga condotta fianco a fianco dell’allora ministro Giovanardi e di un cane poliziotto. Il cane cominciò a drogarsi di lì a breve. Non stupisce che ieri abbia pubblicato sui social un post indignato sulla vicenda di Bibbiano, l’indagine su presunte sottrazioni di minori nel Reggiano, corredata da uno striscione in caratteri postfascisti nel quale si attribuisce al Pd il ratto dei piccoli. Quella di Nek viene subito dopo la presa di posizione social di Laura Pausini, a sua volta desiderosa di squarciare la coltre di silenzio su un evento di cui parlano tutti dacché è emerso, e di Enrico Ruggeri, che l’altro giorno accusava Zingaretti di aver preso i rubli prima di Salvini. Successivamente, la Pausini è stata ripresa dal sottosegretario contro gli Interni, Sibilia, mentre a Nek è toccato il retweet di Giorgia Meloni. La domanda sorge spontanea: ma il povero Povia, che il sovranista da pentagramma lo faceva quando non era ancora così di moda, sarà contento di vedere tutta ‘sta gente sulla Lada dei vincitori?

“E allora Bibbiano?”: Pd, media, movimento lgbt nel mirino dei complottisti da social. La macchina dell'odio che specula sull'inchiesta "Angeli e demoni" di Reggio Emilia si è riattivata alcuni giorni fa, dopo le parole del vicepremier Di Maio. E cerca di saldarsi all'indagine statunitense sul miliardario Jeffrey Epstein. Segnalato un utente che ha minacciato di morte il deputato dem Andrea Romano. Simone Cosimi il 19 luglio 2019 su La Repubblica. L’operazione è stata certificata dal vicepremier Luigi Di Maio. Intervistato sugli scenari politici, in merito a un possibile accordo di governo col Pd ha spiegato che il M5S non avrebbe mai fatto un’alleanza “con il partito di Bibbiano”. In risposta, i dem hanno annunciato una querela al ministro dello Sviluppo economico. Non era una dichiarazione campata in aria. Da qualche giorno l’implacabile macchina della calunnia si è messa in moto sui social network, dove l’inchiesta "Angeli e demoni" sul sistema illecito di gestione dei minori in affido in Val d’Enza, secondo l’accusa strappati alle famiglie con manipolazioni e pressioni e assegnati ad altri nuclei, viene da giorni sfruttata come stigma con cui screditare e attaccare il Partito democratico. E non solo. Il gancio è con l’ormai ex sindaco sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, indagato per abuso d’ufficio e falso ideologico. Secondo i pm avrebbe saputo del sistema e avrebbe deciso, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, “lo stabile insediamento di tre terapeuti privati della Onlus Hansel e Gretel all’interno dei locali della struttura pubblica ‘La Cura’”. Sui social il topic "Bibbiano" è montato in questi giorni come una gelatina in cui avvolgere una nuova campagna d’odio dalle mille facce. Davvero una delle più scivolose degli ultimi tempi. Passando anche dalle parole del vicepremier, che il 18 luglio in diretta Facebook ha detto: "Col Pd non ci voglio avere nulla a che fare, con il partito di Bibbiano che toglieva i bambini alle famiglie con l’elettroshock per venderseli non voglio averci nulla a che fare e sono stato in questo anno quello che più ha attaccato il Pd". Centinaia di post, articoli e meme (alcuni raffiguranti personaggi come Roberto Saviano, Fabio Fazio, Luciana Littizzetto, Fabio Volo o Laura Boldrini con la mano sulla bocca, rei di aver censurato il tema) hanno nel corso dei giorni mescolato il fatto a mille altri cavalli di battaglia del sovranismo e populismo digitale, transitando da siti come VoxNews.it, dalle galassie social sovraniste – come l’intervento del consigliere di Ostia di CasaPound, Luca Marsella - fino a eventi reali. Come quello di ieri organizzato da Fratelli d’Italia con ospite Alessandro Meluzzi che in un video rilanciato da Giorgia Meloni (fra gli account più attivi per l’hashtag #Bibbiano insieme a quello di Francesca Totolo, collaboratrice del Primato nazionale, il sito di CasaPound, e di @adrywebber) spiega che “il caso di #Bibbiano è solo la punta dell'iceberg”. Dalla teoria gender alla “campagna Lgbt per distruggere la famiglia naturale”, come si legge in altri post, tutto – secondo l’intossicazione in corso – è coperto dal Pd che avrebbe lanciato il diversivo del Russiagate “divulgato provvidenzialmente dopo #Bibbiano, lo scandalo del #Csm e quello della sanità in Umbria” come scrive Totolo in una battaglia che nella mattinata di venerdì l’ha contrapposta all’eurodeputato Pd Carlo Calenda, che è ripetutamente intervenuto per tentare di contrastare la campagna d’odio e disinformazione. Perché Bibbiano è diventato ormai il ritornello con cui un ristretto ma agguerrito gruppo di account risponde a qualsiasi post o contenuto, specialmente se pubblicato da esponenti Pd o giornalisti. La “world cloud” delle parole più usate in quei contenuti e in quelle risposte è composta da “bambini”, “scandalo”, “caso”, “fatti”, “famiglie”, “attenzione” e poi “minori”, “inchiesta”. C'è chi si è spinto oltre: Andrea Romano, deputato del Partito democratico, ha segnalato alla polizia di aver subito minacce di morte su Twitter dall'utente @VincenzoMoret17 per la vicenda del presunto screzio con la deputata dei 5 Stelle Francesca Businarolo. La vicenda è slegata da quella di Bibbiano, ma l'utente ha twittato le sue minacce usando l'hashtag #Bibbiano. Gli hashtag che raccolgono le diverse articolazioni della campagna sono #Bibbiano e #BibbianoPD. Anche se a scavare bene, il primo a muovere le truppe dell’odio è stato uno ben più pesante: #PDofili, decollato dal 27/28 giugno, per esempio col tweet di  @alberto_rodolfi in risposta a Matteo Orfini o di @ValeMameli. Il più condiviso è stato quello di @PiovonoRoseNoir, il cui si dice che “da oggi non sono più #PDioti ma #Pdofili. Hanno fatto il salto di qualità le merde”. A firmare i contenuti, a conferma di squadriglie piccole ma agguerrite, sono stati 2.600 utenti per 6.200 post fra tweet e retweet. Ma solo poco più di 400 utenti hanno postato un contenuto originale. Nonostante si sia ormai spento da giorni, anche per i timori di querela traslocando #BibbianoPD, è ancora ricco di orrori di ogni genere. Ne escono collage fotografici con i personaggi citati sopra, e altri come Lucia Annunziata, la senatrice Monica Cirinnà o la nostra giornalista Federica Angeli, e la frase “Tutti muti su Bibbiano”. Contenuti fuori da ogni senso e contesto come vecchi spezzoni di video in cui Matteo Renzi elogiava il sistema degli asili nido di Reggio Emilia o di un bambino disperato perché separato dal padre ma, come ha svelato Open, attribuibile a un’altra situazione in Sardegna di due anni fa. E ancora, orribili vignette con protagonisti bambini sottoposti a sevizie elettriche, ritornelli contro il “silenzio dei media”, che in realtà stanno coprendo approfonditamente il caso, e sul “sistema che ruba i bambini”. Non basta. Negli ultimi giorni sembra essersi saldato anche un ponte digitale con le vicende che negli Stati Uniti hanno portato in carcere il miliardario Jeffrey Epstein, ex amico di Bill Clinton, del principe Andrea, duca di York, ma anche di Donald Trump, accusato di sfruttamento sessuale dei minori fra 2002 e 2005 e che ora rischia fino a 45 anni di carcere. Alcuni tweet (basta scorrere quelli dell’utente @DPQ87968970) tentano di trapiantare quella vicenda, innestandola sul tessuto dell’inchiesta italiana di Bibbiano e simili, con un obiettivo: avvalorare la folle tesi di un sistema internazionale, una specie di Spectre per cui la pedofilia è uno strumento per tenere sotto controllo politici e le mosse dei governi. L’hashtag è, non a caso, #PedoGate e raccoglie fra l’altro riferimenti ai più diversi casi di cronaca del passato, anche italiano, che ovviamente non hanno alcun collegamento l’uno con l’altro. Ricapitolando, gli hashtag più utilizzati su Twitter – che è il canale principale su cui si sta squadernando l’operazione – sono #bibbiano, #bibbianopoli (che sta decollando proprio in queste ore, quasi in contrapposizione a Moscopoli), #bibbianopd (su cui tuttavia poco meno 300 profili nell’ultima settimana hanno pubblicato post originali, il più popolare è l’elogio degli asili nido di Renzi, nel 2012, il secondo più diffuso è del deputato 5 Stelle Massimo Baroni che rilancia il meme con Saviano e gli altri accomunati dalla scritta “Bibbiano”), #bibbianonews, in ordine decrescente di utilizzo. In una decina di giorni, tutti i contenuti sul tema, sempre rimanendo al social dell’uccellino, sono circa 78mila. Non c’è nulla di casuale: il numero relativamente basso delle utenze più attive coinvolte e il loro schema d’azione – quasi sempre risposte a post del Pd e di altri – racconta dell’ennesima operazione coordinata. Sono infine dati e tendenze che dimostrano la reale capacità di influenzare e raggiungere altri utenti perché non includono gli utenti o i contenuti” nascosti” da Twitter in quanto offensivi o dannosi secondo gli ultimi aggiornamenti delle regole della piattaforma.

Quelle bufale crudeli sulla pelle dei bambini. Angela Azzaro il 20 luglio 2019 su Il Dubbio. Non si sa nulla o si sa male, ma ci si sente in dovere di aizzare la folla. Lo ha fatto anche Laura Pausini. Nei giorni scorsi sui social girava un messaggio che accusava l’informazione di aver oscurato il caso di Bibbiano. Era un post molto sentito, molto emotivo. E diceva una marea di fesserie. In primo luogo l’accusa rivolta a giornali e tv. Se c’è infatti un caso che ha avuto una risonanza immediata, e fuori luogo, è stato proprio quello dell’inchiesta sull’affido di alcuni minori. Il commento, condiviso da migliaia di persone, faceva riferimento a centinaia di bambini strappati ingiustamente alle loro famiglie. L’inchiesta di Bibbiano, chiamata dalla procura “Angeli e demoni” a uso e consumo del processo mediatico, in realtà riguarda solo 6 casi. Ma l’opinione pubblica, abilmente strumentalizzata, ha già deciso che le persone coinvolte nell’inchiesta a vario titolo siano mostri, persone orribili che andrebbero più che processate mandate alla ghigliottina. La stessa sorte che è toccata al sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti: coinvolto nell’inchiesta con l’accusa di abuso di ufficio e falso in atto pubblico è invece diventato, anche grazie alle dichiarazioni del vicepremier Luigi Di Maio, il simbolo di un sistema corrotto con cui invece non c’entra nulla anche per la procura. Bene ha fatto il Pd di Zingaretti a querelare per diffamazione il vicepremier dei 5 Stelle. Ma forse anche il Partito democratico avrebbe dovuto non solo rifiutare qualsiasi accostamento tra l’inchiesta e il proprio simbolo, ma dire che un’inchiesta non è una condanna e che soprattutto su temi così delicati bisognerebbe essere molto, ma molto cauti. Così non è stato. La conferenza stampa organizzata dalla procura di Reggio Emilia è diventata subito spettacolo, titoli sparati a tutta pagina. Si voleva l’orrore, il sangue, e si è fatto di tutto per costruirlo. Emblematici i titoli sul cosiddetto elettrochoc, in realtà un macchinario – riconosciuto dalla comunità scientifica – che non infligge scosse al paziente, ma emette suoni e vibrazioni che servono a stimolare i ricordi. Bastava leggere le carte. Ma in pochi anche nelle redazioni lo hanno fatto. Per chi ha avuto la pazienza di visionare le 270 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare la decisione del riesame di scarcerare Claudio Foti non è una sorpresa. Ma paradossalmente i giudici si basano sui fatti. Il processo mediatico no. E sarà difficile far cambiare idea a un’opinione pubblica sempre alla ricerca di qualcuno da linciare. Non si sa nulla o si sa male, ma ci si sente in dovere di aizzare la folla. Lo ha fatto anche Laura Pausini: «Mi sento incazzata e impotente», ha scritto chiedendo ai suoi fan di prendere posizione. Una volta che si è creato il mostro è difficile rinunciarci.

Commento di Andrea Battoccolo: Allora spiegatemi una cosa: parlate di risonanza immediata: appena venuta fuori la notizia ho visto i TG che ne anno parlato per circa 2 giorni, poi personalmente non ho più visto niente, se no qualche piccolo riassunto sulle notizie precedenti. Che si tratta solo di 6 casi lo sento ora da voi, e personalmente non ci credo,dico personalmente perché più che un idea personale non posso farmi visto che i media tradizionali non ne parlano e le notizie che si trovano in rete vanno prese con le pinze giustamente. Allora perché non la fate voi informazione,no voi state zitti per 2 settimane, poi ve ne uscite accusando di infamia chi accusa i responsabili di questo schifo, tanto non imparerete mai, ma la storia del forteto la gente se la ricorda, parlate di andare cauti, io parlo di giustizia e TRASPARENZA. Se volete essere credibili la prostima volta non state in silenzio per 2 settimane perché così mi sembrate più insabbiaturi che giornalisti. Buonasera merde! No, giusto per dire...Era il 2013 su canale 5 quando Morcovallo già denunciava che era un sistema e non un un caso isolato, io non so se sarebbero indagati solo su 6 casi ( mi pare strano visto il giro di soldi che porta)mi interessa sapere in quanti altri posti succede Sto schifo, mi interessa sapere perché nel 2013 non è esplosa una bomba di fronte tali affermazioni e in fine mi interessa sapere quanta codardia e servilismo servono per starsene zitti 2 settimane( parlo in generale perché è il secondo articolo che vedo a difesa degli indagati dopo 2 settimane di puro silenzio) e uscirvene difendendoli, siete fantastici. VOI e chi vi sostiene NON CONOSCETE VERGOGNA E RISPETTO PER LE VITTI “Allora Bibbiano?” è il nuovo tormentone della “guerriglia culturale” di Vox&Co.

Bibbiano, insulti "rossi" su Nek "Tue canzoni come Hiroshima". Bottura su Repubblica punta il dito contro Nek che ha chiesto verità su Bibbiano. Il cantante "massacrato" per le sue canzoni. Angelo Scarano, Lunedì 22/07/2019 su Il Giornale. Nek ha chiesto la verità sul caso Bibbiano e per questo motivo è finito nel mirino della stampa di sinistra. Non si spiega altrimenti l'attacco di Repubblica, a firma Luca Bottura, contro il cantante che qualche giorno fa si è esposto sui social proprio sul caso che riguarda i bimbi tolti alle loro famiglie per essere affidati ad altre coppie. Non si tratta di una voce isolata. Anche Laura Pausini ha chiesto la verità su quanto accaduto. Ma a sinistra hanno già messo per bene nel mirino Nek. Le sue parole sono state fin troppo chiare, parole di un padre: "Sono un uomo e sono un papà. È inconcepibile che non si parli dell’agghiacciante vicenda di #bibbiano Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico. È proprio così. Ci sono intere famiglie distrutte, vite di bambini di padri e di madri rovinate per sempre...e non se ne parla. Ci vuole giustizia!!". Nessuna polemica, solo la richiesta di dare voce a questa vicenda sui cui è in corso un inchiesta. A quanto pare però l'appello di Nek che è stato condiviso da tutti suoi fan e non solo, non è stato digerito a sinistra. Ed ecco qui che arriva il livore. Nel suo pezzo Botturaparla con questi toni di Nek: "Filippo Neviani, in arte Nek esordì a Sanremo con una canzone antiabortista che risulta tutt'ora nella lista dei crimini contro l'umanità, dopo Nagasaki e Hiroshima ma comunque prima del gelato gusto Puffo". Un vero e proprio assalto al cantante che viene colpito con un giudizio (molto) discutibile sulla sua carriera e sul suo stile musicale. A prendere le difese di Nek è stato Salvini che su Facebook ha commentato così le parole di Bottura: "Non avevamo dubbi che una certa sinistra avrebbe subito messo Nek tra i “cattivi” per aver denunciato gli orrori di Bibbiano, nonostante lui con la politica non c’entri nulla e si sia permesso di fare solo un ragionamento da papà. Non si smentiscono mai". Insomma la colpa di Nek è forse quella di aver alzato il velo su una storia, come quella di Bibbiano, che merita luce e verità in tempi rapidi? A quanto pare porsi alcune domande può essere pericoloso. Sulla strada si può incontrare anche chi paragona una tua canzone ad una tragedia come quella di Hiroshima...

Bibbiano, Nek e Pausini veri megafoni del popolo. Paolo Giordano, Lunedì 22/07/2019, su Il Giornale. Ci risiamo. Il pop torna a smuovere la politica, a infiammare l'opinione pubblica, a dividere le opinioni. Finita senza rimpianti l'epoca dei cantanti ideologici (quelli che poi si trovavano al Festival de l'Unità, per intenderci) adesso ci sono artisti che rilanciano casi di cronaca e lo fanno a prescindere dal partito di appartenenza. Laura Pausini e Nek, per esempio, o Mietta subito dopo. Per venti giorni le indagini sul presunto giro illecito di affidi di bambini a Bibbiano (16 misure cautelari e 29 indagati) avevano volato basso nell'informazione, scatenando più che altro qualche baruffa social, ma niente più. E dello psicoterapeuta Claudio Foti o del sindaco Andrea Carletti parlavano soltanto i vicini di casa e gli avvocati, anche se il primo cittadino Pd è ai domiciliari per falso e abuso d'ufficio. La cronaca è così ingolfata da pinzellacchere e bagattelle, da casi di penoso glamour o ridicola politicanza da perdere per strada talvolta le questioni di reale importanza. Come questa. Ci hanno pensato per primi due artisti che con la politica non hanno mai avuto a che fare ma che stavolta sono «scesi in campo» muovendo le opinioni dei loro fan, che sui social sono milioni. «Non sentite di avere nelle mani degli schiaffi non dati?», ha scritto per prima Laura Pausini alla propria maniera verace e sincera: «Questa notizia è uno scandalo per il nostro Paese e dovrebbe essere la notizia vera di cui tutti parlano schifati». Prima botta da migliaia di like. Poi è arrivato Nek, un altro che non si è mai schierato con la politica ma solo con il buon senso: «Sono un uomo e sono un papà. È inconcepibile che non si parli dell'agghiacciante vicenda di Bibbiano». Missione raggiunta. Non soltanto Salvini e Di Maio hanno parlato della questione, ma pure i social hanno fatto il proprio mestiere, dividendosi tra favorevoli e contrari ma comunque dando un segnale di grande interesse. Insomma, più o meno come altri loro colleghi tanti anni fa, anche Pausini e Nek hanno dato la scintilla all'opinione pubblica, si sono schierati, hanno preso evidentemente una posizione. Rispetto agli anni '70 e '80, oggi gli artisti si spendono per questioni vere, non per vertenze ideologiche. E perciò, da genitori, Pausini e Nek hanno richiesto maggiore chiarezza sui fatti di Bibbiano. Suscitando immediata risposta ai piani alti. A conferma che gli artisti pop sono ancora autentici megafoni del sentimento popolare.

Mannoia sbotta per Bibbiano: "Volete screditare l'avversario". Fiorella Mannoia attacca Sibilia per aver condiviso l'appello per Bibbiano della Pausini. Ed è scontro sui social. Angelo Scarano, Mercoledì 24/07/2019 su Il Giornale. La vicenda di Bibbiano da qualche giorno si è intrecciata con il mondo della musica italiana. Diversi cantanti, tra questi in prima fila ci sono Nek e Laura Pausini. Tutti e due sono finiti nel mirino del web solo per aver chiesto luce e verità su una vicenda, quella dei presunti affidi illeciti, che ha parecchi lati oscuri. Proprio ieri la Pausini è intervenuta sul caso per ribadire la sua posizione e per sottolineare che non ha lanciato un appello per "sentirsi dire brava" ma per richiamare l'attenzione su quello che avrebbero passato questi bambini. Ma c'è un'altra voce che fa parecchio discutere, quella di Fiorella Mannoia. La cantante "rossa" ha avuto un battibecco con il sottosegretario agli Interni, Carlo Sibilia proprio sui fatti di Bibbiano. La Mannoia non ha usato giri di parole e ha attaccato il grillino che ha chiesto di far luce sulla vicenda: "Lo vedete come fate? State strumentalizzando qualsiasi cosa per motivi politici. Cantanti, bambini... Ma non vi vergognate? La faccenda di Bibbiano è grave e seria. Smettetela di strumentalizzarla, i bambini e le famiglie non lo meritano. Che sia fatta luce su questo schifo al più presto". La Mannoia non ha digerito il post di Sibilia che condividendo una foto di Laura Pausini ha di fatto ringraziato chi in questi giorni ha cercato di tenere alta l'attenzione su un caso come questo. E così il grillino ha immediatamente replicato alle accuse della Mannoia: "Mi sono limitato a ringraziare chi ha scritto pensieri che condivido. Sono pubblici. Ho condiviso e ringraziato. Perché sono (momentaneamente) un politico dovrei smettere di ringraziare, retwittare, vivere? Ognuno faccia la sua parte per fare luce su questo schifo. Non dividiamoci". Ma di fatto la Mannoia non ha digerito la risposta del pentastellato ed è passata nuovamente al contrattacco contestando la posizione del sottosegretario e mettendo in discussione il suo appello: "State attaccando il cappello su questa storia triste approfittando per screditare l’avversario, fatelo su tutto, ma non sui bambini. Se veramente vogliamo stare uniti smettiamola di farne un caso politico. È un triste caso umano sul quale si deve fare luce". Insomma sul caso pian piano si sta sviluppando una polemica feroce che riguarda sia il mondo della politica che quello dello spettacolo. E probabilmente lo scontro non finirà in tempi brevi. L'indagine in corso prosegue e a quanto pare il caso Bibbiano resta un nervo scoperto per il Pd che ha protestato duramente per la visita di Salvini nel centro dell'Emilia-Romagna finito sotto i riflettori.

SU BIBBIANO È VIETATO ESPRIMERSI. Francesco Borgonovo per “la Verità” il 24 luglio 2019. Grazie all'odiosa vicenda di Bibbiano gli italiani hanno finalmente la possibilità di comprendere come funzioni la cultura progressista. Una regola imposta da tale cultura è la seguente: gli artisti che si interessano a temi sociali vanno benissimo, ma solo se i temi sociali sono quelli graditi alla sinistra. In caso contrario, gli artisti in questione meritano dileggio, insulti e attacchi feroci. A questo proposito ci sono tre casi emblematici che meritano di essere approfonditi. Partiamo da quello di Laura Pausini, la prima a esporsi con enorme coraggio sulla Val d' Enza. La cantante, con un post su Facebook, ha richiamato l' attenzione su quanto sta accadendo a Bibbiano e dintorni, e ha notato che la gran parte dei media sta cercando di insabbiare tutto. Come prevedibile, con quell' intervento la Pausini si è attirata un fiume di critiche. Così ha deciso di tornare sul tema: «Questo messaggio è per i bambini. Non lo faccio né per farmi insultare né per farmi dire brava. Qui c' è solo da fare qualcosa subito e da far sapere a tutti coloro che perdono tempo a scrivere cazzate, che c' è una notizia gravissima con cui dobbiamo fare i conti», ha scritto. E ha aggiunto: «Ecco chi ha bisogno di sfogarsi, stavolta utilmente, tiri fuori la voce per parlare di questo scandalo». La Pausini, purtroppo, non è stata l' unica a finire alla gogna per aver parlato di Bibbiano. La stessa sorte è toccata anche a Nek. Pure lui ha deciso di esporsi pubblicamente con un messaggio accorato: «Sono un uomo e sono un papà», ha scritto. «È inconcepibile che non si parli dell' agghiacciante vicenda di Bibbiano. Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico. È proprio così. Ci sono intere famiglie distrutte, vite di bambini di padri e di madri rovinate per sempre... E non se ne parla. Ci vuole giustizia!!». Tanto è bastato per attirargli l' astio del progressista medio internettiano. Come se non bastasse, contro Nek si è scatenata pure Repubblica, tramite la penna di Luca Bottura, uno che, dopo decenni di carriera, continua a confondere la satira con la spocchia. Con la consueta sicumera, Bottura ha rivolto a Nek un corsivo feroce: «Filippo Neviani, in arte Nek, esordì a Sanremo con una canzone antiabortista che risulta tutt'ora nella lista dei crimini contro l' umanità, dopo Nagasaki e Hiroshima ma comunque prima del gelato gusto Puffo». Mascherata dietro un' ironia degna delle peggiori scuole medie, c' è l' accusa infamante: Nek ha commesso un crimine contro l' umanità perché ha scritto una canzone a favore della vita, dunque merita di essere sbertucciato e insultato. Già: i temi pro life, le battaglie su Bibbiano o sul gender sono ridicole. Non meritano altro che sberleffi e sputi. Esattamente come quelli che sono piovuti addosso a Ornella Vanoni, celebratissima icona della musica italiana. Di solito, quando la si cita, ci si leva il cappello. A meno che, ovviamente, non si occupi di temi sgraditi all' intellettuale unico progressista. La Vanoni ha scritto quanto segue: «È mostruoso ciò che è accaduto a Bibbiano. Questi bambini hanno perso l'infanzia, come tanti ormai nel mondo, e sono rovinati per sempre. Non sono pupazzi che si possono spostare da una famiglia all'altra. Queste persone dovrebbero andare in galera senza processo». In men che non si dica sulla cantante hanno cominciato a piovere pietre, sotto forma di offese via Web. C' è chi l' ha accusata di non essersi siliconata il cervello, chi la descrive come una vecchia rimbambita e altre amenità dello stesso tenore. Persino alcuni quotidiani online si sono accodati, accusandola di aver utilizzato toni troppo duri e di aver invitato a condannare gente senza prima averla processata.

Tre casi diversi, stesso trattamento. Morale: se un artista si impegna in una causa politicamente scorretta, gli tocca il linciaggio. In realtà, nelle parole della Vanoni, della Pausini e di Nek non c' è alcun riferimento politico. C' è solo il caro, vecchio e troppo spesso dimenticato buon senso. C' è la rabbia del genitore (o del figlio, del fratello, del semplice osservatore) davanti a uno scandalo che grida vendetta e di cui nessuno si è interessato se non per difendere i presunti colpevoli. Ma nemmeno una normalissima manifestazione di umanità viene tollerata: su Bibbiano è vietato esprimersi. A meno che non lo si faccia per difendere il Pd.

Rita Dalla Chiesa parla di Bibbiano. E finisce nel mirino degli haters. Dopo Laura Pausini, Nek e Ornella Vanoni, ora anche Rita Dalla Chiesa parla di Bibbiano. Ed è subito polemica. Costanza Tosi, Giovedì 25/07/2019, su Il Giornale. Laura Pausini, Nek, Ornella Vanoni e ora, anche Rita Dalla Chiesa. La giornalista dice la sua sul caso Bibbiano e, anche per lei, è pioggia di insulti sui social. Ad innescare la polemica è stato un tweet del giornalista di Rai3 Massimo Bernardini che attacca il ministro degli interni, Matteo Salvini, sul caso degli affidi illeciti emerso dall’inchiesta della Procura di Reggio Emilia. “Prima le Ong adesso le famiglie affidatarie e i servizi sociali: l’offensiva di Matteo Salvini contro i corpi intermedi che fanno sussidiarietà è grave e senza precedenti. Nella furia della polemica politica sta demolendo la credibilità di interi pezzi di società.” Scrive Bernardini, che esorta la replica del vicepremier: “Urge risposta”. A schierarsi dalla parte di chi tiene accesi i riflettori sullo scandalo di “Angeli e Demoni” è invece la conduttrice Rita Dalla Chiesa. Che commenta: “Perché pensi che sia solo una battaglia politica? Allora anche il vostro silenzio lo è… Qui si parla di bambini, ci sono le prove, ci sono famiglie distrutte, sappiamo tutti che non sempre gli assistenti sociali si comportano in modo eticamente corretto. Riflettiamoci.” Ma come era già successo nei giorni scorsi con i big della musica, attaccati a suon di insulti dal popolo dei social, anche per la giornalista non mancano le critiche: “Da quando sei diventata leghista? Pensavo che fossi una persona affidabile”, commentano i followers. Mentre il leader della Lega prende le sue parti, esprimendo solidarietà a Rita Dalla Chiesa tramite una foto postata sul suo profilo instagram: “Solidarietà a Rita Dalla Chiesa, riempita di insulti in rete perchè ha osato rompere il muro di omertà su Bibbiano". La prima a parlare di Reggio Emilia, finendo nella bufera tra i commenti degli haters, era stata Laura Pausini. E, nonostante le polemiche, scaturite per il suo appello a tenere alta l’attenzione sulla vicenda, la cantante continua a difendere la sua battaglia tramite Facebook: “Ho chiesto di non strumentalizzare le mie parole NON sono un messaggio politico. Come NON lo erano quelle dedicate ai bambini morti nei barconi. Sto dalla parte dei bambini. Sempre.” Il caso Bibbiano continua a dividere e a fare polemica. Mentre le famiglie e i bambini restano in attesa di avere giustizia.

Alessandro Borghese chiede verità e giustizia per i bambini di Bibbiano. Lo chef più amato della tv lancia una petizione sui social per chiedere una Commissione di Inchiesta sugli affidi illeciti nel comune emiliano. Alessandro Zoppo, Mercoledì 31/07/2019, su Il Giornale. Alessandro Borghese si è aggiunto alla schiera di volti noti del mondo dello spettacolo che hanno voluto esprimersi sul caso Bibbiano, l’inchiesta “Angeli e Demoni” sugli affidi dei minori nel comune in provincia di Reggio Emilia che è diventata un caso politico nazionale. Lo chef più amato della tv ha usato i social per sostenere la petizione #MaiPiùBibbiano, che chiede una seria riforma degli affidi dei minori in Italia. “Never again!”, il messaggio di Borghese, affidato ad una foto che racconta lo choc provocato dal venire a conoscenza della storia dei bambini di Bibbiano. La petizione, lanciata dal Moige (il Movimento Italiano Genitori) sul sito ufficiale della onlus, chiede l’attivazione di una Commissione di Inchiesta che faccia luce sulle responsabilità dirette e indirette e sulle eventuali complicità degli amministratori locali.

Alessandro Borghese appoggia il Moige sul caso Bibbiano. Il Moige chiede inoltre al Parlamento italiano una modifica sostanziale al “sistema degli affidamenti dei minori, mettendo al centro il diritto del bambino a stare con i suoi genitori e rafforzando le verifiche e i controlli indispensabili per la tutela puntuale del minore”. “Il rapporto mamma-figlio-papà – si legge nel documento presentato dal Moige – va tutelato, protetto e salvaguardato con il massimo rigore e per questo chiediamo a gran voce al Parlamento italiano una riforma delle norme che regolano gli affidi dei minori, prevedendo, modalità chiare e stringenti unite a severe verifiche delle professionalità e dei potenziali conflitti di interesse”. Boghese è soltanto l’ultimo tra i tanti attori, cantanti e personaggi tv che si sono espressi, prendendo una posizione netta su un caso che presenta diversi lati oscuri. Prima del noto chef star del piccolo schermo, erano stati Nek, Rita Dalla Chiesa, Fiorella Mannoia, Ornella Vanoni e Laura Pausini ad affrontare la vicenda, scatenando spesso e volentieri violenti scontri verbali e insulti a pioggia sui social.

L'ipocrisia progressista su Bibbiano. Karen Rubin, Sabato 27/07/2019, su Il Giornale. «Non venire sarebbe stato molto peggio perché è necessario che le istituzioni siano presenti». Si espresse così Laura Boldrini in visita a Fermo quando Amedeo Mancini fu arrestato per l'omicidio di Emmanuel Namdi. Al funerale c'erano la Boldrini, Sassoli, la Kyenge e per il governo Renzi presiedeva Maria Elena Boschi. Al cospetto della Rackete su una nave Ong, di fronte alle telecamere c'erano Orfini, Delrio e Fratoianni. Una passarella antirazzista funzionale al proprio elettorato dal momento che nessuno di loro era presente né quando a Palagonia fu sterminata una coppia di italiani da un ivoriano né quando furono assassinate Pamela Mastropietro da un nigeriano e Desiree Mariottini da tre nordafricani. Se invece Salvini va in visita a Bibbiano non si tratta più della presenza dello Stato ma della strumentalizzazione di un caso di cronaca su cui esigere silenzio. Un atteggiamento da due pesi e due misure. Dall'inchiesta su Bibbiano emerge un abuso di potere che impressiona come un traffico di organi ma siccome il sistema welfare utilizzato nel reggiano era quello sostenuto dalla sinistra si cerca di stendere un velo pietoso su agiti che hanno provocato indicibili sofferenze a molte famiglie. Sui bambini dei comuni della Val d'Enza è stata usata una stimolazione elettronica che non è l'elettroshock ma non è neanche una terapia standardizzata e considerata la più sicura allo stato dell'arte. Queste stimolazioni sono associate ad una tecnica psicoterapica, l'Emdr (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), che si prefigge lo scopo della rielaborazione di vissuti traumatici attraverso la stimolazione del cervello. In Italia è una tecnica usata da poco e sulle stimolazioni elettroniche si conosce poco o niente. Fatto è che si sono presi dei bambini che avrebbero subito un abuso, li hanno stimolati affinché rievocassero un abuso ipotizzato. Tutto questo senza il consenso dei genitori, messo in atto da una Onlus, la Hansel e Gretel. Una bambina sottratta alla sua famiglia è stata data in affidamento ad una coppia di lesbiche da una dirigente dei servizi sociali, attivista Lgbt, che con una delle donne era stata legata sentimentalmente: forse non è un conflitto di interesse ma fa pensare ad una sorta di risarcimento. La sinistra invece di invocare il silenzio di Salvini dovrebbe dare una risposta sul perché il comune gestito da un loro sindaco abbia assegnato ad una attivista Lgbt i servizi sociali e la tutela di minori che dovrebbero essere protetti da tutte le ideologie.

Lo sfogo della Cuccarini: "Fate luce su Bibbiano alla faccia di chi ci insulta". Anche Lorella Cuccarini prende parte a quel gruppo di personaggi del mondo dello spettacolo che esige la verità su Bibbiano. Anna Rossi, Sabato 03/08/2019 su Il Giornale. Lo scandalo degli affidi illeciti di Bibbiano ha sconvolto l'opinione pubblica. L'inchiesta Angeli e Demoni fa davvero rabbrividire. E ora, anche i personaggi del mondo dello spettacolo alzano la testa e vogliono la verità. La esigono. La prima a farsi sentire è stata Laura Pausini. "Ho appena letto un articolo e sono senza parole, senza fiato, piena di rabbia nei miei pugni - ha scritto sui social la cantante romagnola -. Mi sento incazzata, fragile, impotente. Ho deciso di cercare questa storia, perché una mia fan mi ha scritto pregandomi di informarmi. Non ne sapevo nulla. Non posso credere che abbia dovuto cercare questa vicenda, perché sì, quando sono in tour sono spesso distratta dall’attualità e dalla cronaca ma questa notizia è uno scandalo. Cosa si può fare? Come possiamo aiutare?" E al suo grido di rabbia si è unito anche Nek. L'artista non ci sta, non può stare zitto di fronte a questo scempio. "Sono un uomo e sono un papà - commenta anche lui su Facebook -. È inconcepibile che non si parli dell’agghiacciante vicenda di #bibbiano Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico. È proprio così. Ci sono intere famiglie distrutte, vite di bambini di padri e di madri rovinate per sempre...e non se ne parla. Ci vuole giustizia". Ma i loro appelli hanno scatenato tutta la sinistra rossa che si è rivolta a loro con parole d'odio, immediatamente condannate da Matteo Salvini. Il ministro, anzi, ha personalmente ringraziato questi artisti per essersi interessati a un tema così delicate e al contempo forte. Diversi, quindi, i cantanti e i personaggi del mondo dello spettacolo che chiedono giustizia. E a questi si aggiunge anche Lorella Cucccarini. Intervistata da La Verità sfoga tutta la sua rabbia. "I miei su Bibbiano sono sentimenti condivisi. [...] E insieme alla nostra gente penso a quello che è accaduto a Bibbiano e mi domando com'è possibile. Se fosse successo a me di patire ciò che hanno dovuto subire quei poveri genitori forse sarei morta di dolare oppure avrei reagito come una belva". "La Anche Lorella Cuccarini prende parte a quel gruppo di personaggi del mondo dello spettacolo che esige la verità su Bibbiano su Bibbiano deve uscire tutta - dice - e abbiamo diritto di sapere se quello era un sistema ristretto o se è successo anche in altre parti d'Italia. [...] Quella di Bibbiano è una barbarie assoluta e io sto con loro, sono una di loro. Noi mamme sappiamo cosa significa anche solo la remotissima possibilità che ti possano togliere un figlio: è un incubo, uno strazio, un dolore anche solo immaginarlo. Posso dirlo? Non ne posso più del politicamente corretto. È ora che noi che abbiamo un dialogo col pubblico facciamo sentire la nostra opinione al di là delle convenienze ed è anche ora di smetterla di pensare che i giudizi della rete siano oro colato. Basta fare come me: fregarsene. Mi raccomando voi continuate: andate fino in fondo".

Da Alessandro Borghese a Milly Carlucci: si allarga il fronte “Mai più Bibbiano”. Carlo Marini giovedì 1 agosto 2019 su Il Secolo d'Italia. Si allarga il fronte di associazioni e cittadini che pretendono chiarezza sullo scandalo degli affidi in provincia di Reggio Emilia. A questo proposito, in queste ore il Moige ha lanciato la petizione on line Mai più Bibbiano. «È inaccettabile –si legge nel comunicato stampa – che qualcuno possa prendersi il diritto di strappare i figli alla mamma e al papà e che servizi sociali “deviati” distruggano la vita dei minori senza alcun controllo e senza alcun ragionevole motivo. La Costituzione e il diritto internazionale ribadiscono con forza l’importanza dell’indissolubilità del rapporto mamma-figlio-papà che va tutelato, protetto e salvaguardato con il massimo rigore». La petizione è disponibile a questo link: «Per questo –prosegue la nota del Movimento italiano dei genitori – lanciamo una petizione per chiedere al Parlamento di riformare subito il sistema degli affidamenti dei minori, mettendo al centro il diritto del bambino a stare con la sua mamma e il suo papà, rafforzando le verifiche e i controlli indispensabili per la tutela puntuale del minore. Ecco alcuni dei punti su cui chiediamo di riformare il sistema degli affidi a tutela dei ragazzi: rafforzare il sistema del contraddittorio, evitare il conflitto di interessi, fornire il potere di decisione esclusivamente ai giudici e non ad altre figure professionali, riconoscere abusi e violenze solo tramite comprovate prove filmate, valutare l’allontanamento solo in casi estremi privilegiando comunque l’affidamento ai parenti del minore».

Mai più Bibbiano: i vip aderenti: «Sono sempre più numerosi i personaggi del mondo dello spettacolo e dei media che stanno aderendo alla petizione, in primis Sabrina Ferilli, reduce del successo della fiction “L’amore strappato”, che tratta di una storia vera di falso abuso e allontanamento del minore dai genitori, ma ad oggi anche Alessandro Borghese, Guillermo Mariotto, Eleonora Daniele, Metis Di Meo, Rita Dalla Chiesa, Andrea Lo Cicero, Monica Leofreddi (nella foto di copertina con Mariotto e Borghese), Monica Marangoni, Cataldo Calabretta, Carla Gozzi, Milly Carlucci, Milena Miconi che hanno deciso di dare voce e sostegno ad una riforma che rimetta al centro la tutela del legame tra mamma-figlio-papà».

Da Pausini a Branduardi: in campo anche i big della musica. Nei giorni scorsi, anche nel mondo della musica alcuni artisti più coraggiosi avevano fatto sentire la propria voce. A cominciare da Laura Pausini, passando per Nek e Ornella Vanoni, per concludere con Angelo Branduardi, autore di un paio di post di denuncia sulla vicenda di Bibbiano.

Bibbiano, il “Rolling Stone” zittisce i VIP e impone il silenzio. Stelio Fergola su Oltrelalinea.news 25 Luglio 2019. “Su Bibbiano i musicisti italiani hanno perso la testa”, recita il titolo del Rolling Stone di ieri. E ancora: “L’indecente passerella di oggi del ministro Salvini nel paese reggiano conferma la tossicità del dibattito sul tema”. Il riferimento è a Laura Pausini, a Nek ma anche a Ornella Vanoni, i quali invertendo decisamente il trend di VIP che tradizionalmente non fanno altro che da megafono al pensiero unico su praticamente ogni tema, hanno alzato la voce contro lo scandalo degli affidi pilotati di Bibbiano.

Il Rolling Stone impone il silenzio. Proseguendo nella lettura, l’articolo ci regala perle ancora maggiori: “Il problema è che quando una vicenda come quella di Bibbiano viene strumentalizzata in maniera feroce come una parte politica ha fatto in queste settimane, chiamarsi fuori da un dibattito così tossico, soprattutto per una persona con così tanta visibilità, sarebbe buonsenso.” Il risultato di questa frase è chiaramente solo uno, tranne per chi vuole intendere diversamente: i signori cantanti non possono parlare di Bibbiano, anche se non citano questo o quel partito, ma si limitano a constatare l’orrore di fatti che, al netto del giudizio definitivo, in molti casi sono praticamente flagranze di reato. Ammesso e non concesso che la “strumentalizzazione” sia presente infatti, questo non è un buon motivo per cucire la bocca a chi ha tutto il diritto di criticare uno scempio come quello perpetrato contro famiglie, mamme, papà e soprattutto bambini. La verità è che, come sempre, la “tossicità” consiste nel fatto stesso che se ne parli, come non potrebbe essere diversamente, vista la gravità dell’accaduto. E specialmente in questo momento i dibattiti devono andare sempre verso altre direzioni politiche. Giammai discutere l’integrità dei democratici. 

Bibbiano, la denuncia di Meluzzi: «Scandalo frutto della cultura di sinistra, basta omertà». Il Secolo d'Italia  martedì 23 luglio 2019. In un video pubblicato su Youtube da Fratelli d’Italia, il professor Alessandro Meluzzi, famoso psichiatra ed esperto di problemi legati ai minori, denuncia un clima di pesante omertà sullo scandalo dei bambini “sottratti” ai genitori legittimi dagli operatori sociali, con la complicità della politica. «Sembra che si voglia far calare il silenzio su questa tragedia frutto di una certa cultura di sinistra», dice Meluzzi, che loda le denunce di cantanti come Nek e Laura Pausini e invita chiunque abbia a cuore la sorte dei bambini a parlare di questo scandalo e ai musicisti chiede di organizzare un grande concerto per sensibilizzare l’opinione pubblica su questa vicenda, “contro un certo buonismo e un’omertà mafiosa di cui si stanno rendendo complici anche i media».

Bibbiano, Alessandro Meluzzi sulla commissione d'inchiesta: "Il Pd si deve vergognare". Libero Quotidiano il 3 Agosto 2019. Uno scandalo nello scandalo. In Emilia Romagna è stata nominata una commissione deputata a indagare su Bibbiano. Peccato che sia presieduta da Pd, sinistra italiana più una ragazza del M5s. Per Giorgia Meloni uno scandalo, un tentativo di insabbiare l'orribile vicenda dei bambini strappati alle legittime famiglie. E la pensa così anche Alessandro Meluzzi, che dice la sua in un durissimo video, in cui spiega: "Giorgia Meloni ha giustamente stigmatizzato e denunciato lo scandalo della regione Emilia Romagna, che ha nominato una commissione di inchiesta sugli orrori di Bibbiano presieduta dal Pd, da Sinistra italiana e da una ragazzotta del M5s - premette Meluzzi -. Se questa è la volontà di ricerca da parte dell'ente da cui dipende la sanità, l'assistenza della regione Emilia Romagna, io credo che questo sia uno scandalo nello scandalo, che si aggiunge ancora di più al furto dei bambini, ai traffici delle cooperative e a tutte le vicende che hanno scatenato la sacrosanta reazione degli italiani". Dunque, Meluzzi picchia durissimo contro la sinistra: "In questo modo il Pd si condanna, condanna se stesso non solo all'inevitabile sconfitta elettorale, anche in Emilia Romagna. Ma si condanna anche di fronte al tribunale della storia, dell'etica, della dignità. Che vergogna cari amici del Pd: un tentativo di fare una commissione per insabbiare", conclude. Il video è stato rilanciato su Twitter dalla Meloni: "Ascoltate il prof Meluzzi sulla recente nomina di una commissione d'inchiesta in Emilia Romagna sui presunti affidi illeciti di Bibbiano. Uno scandalo nello scandalo, che vergogna!", conclude la leader di Fratelli d'Italia.

Bibbiano, Meluzzi al Pd: «Volete solo insabbiare. Che vergogna». Il Secolo d'Italia  sabato 3 agosto 2019. «Che vergogna, cari amici del Pd. Il tentativo di fare una commissione non per denunciare e rivelare, ma insabbiare. Che vergogna». Con un video postato su Facebook, Alessandro Meluzzi torna su Bibbiano e si sofferma sul caso della Commissione d’inchiesta istituita alla Regione Emilia Romagna, in cui il Pd si è messo alla presidenza e ha affidato le due vicepresidenze a Sinistra italiana e M5S. Una scelta che, visti i coinvolgimenti politici nell’inchiesta sui bambini rubati, lascia quanto meno interdetti.

«Uno scandalo nello scandalo». Meluzzi lo dice chiaramente, parlando della «commissione sugli orrori di Bibbiano presieduta da Pd, Sinistra italiane e M5S»: «Io credo che questo sia uno scandalo nello scandalo. Uno scandalo che si aggiunge al furto dei bambini, ai traffici delle cooperative e a tutte quelle vicende che hanno scatenato la sacrosanta reazione degli italiani». «In questo modo – prosegue Meluzzi – il Pd si condanna, ma condanna se stesso non soltanto all’inevitabile sconfitta elettorale, anche in Emilia Romagna. Condanna se stesso di fronte al tribunale della storia, dell’etica, della vita. Che vergogna, cari amici del Pd. Che vergogna», conclude Meluzzi, che in apertura del filmato loda Giorgia Meloni per aver denunciato – anche – la vicenda della commissione d’inchiesta.

La denuncia di Giorgia Meloni. «Il Pd nomina una commissione d’inchiesta in Emilia Romagna sullo scandalo degli affidamenti illeciti di minori assegnandosi la presidenza e dando le due vicepresidenze al M5S e alla Sinistra italiana», ha scritto la leader di FdI sulla sua pagina Facebook, ricordando che si tratta dello «stesso Pd che ha i propri esponenti coinvolti nello scandalo e che non voleva si parlasse di Bibbiano» e dello «stesso M5S che chiedeva verità, ma a livello locale vanta tra le sue fila un avvocato che ha rinunciato a ogni ruolo istituzionale per difendere una delle principali indagate». «Una situazione talmente paradossale – ha concluso Meloni – che farebbe quasi ridere, se di mezzo non ci fosse il dramma di tante famiglie».

 Giorgia Meloni, furia contro il Pd: sapete chi indaga su Bibbiano? Lo scandalo. Libero Quotidiano il 3 Agosto 2019. Giorgia Meloni a valanga contro il Pd. Motivo? Bibbiano. "Il Pd", scrive Giorgia su Twitter, "che non voleva si parlasse di  Bibbiano, nomina la commissione d'inchiesta sugli affidi illeciti prendendosi la presidenza e nominando 2 vice di SI e M5S (da cui proviene l'avvocato di una delle indagate). Farebbe ridere se non ci fosse di mezzo il dramma di tante famiglie". Si è insediata la commissione d'inchiesta regionale per approfondire il tema degli avvidi illeciti. Presidente della commissione sarà infatti il consigliere del Pd Giuseppe Boschini, mentre i suoi vice saranno Igor Taruffi di Sinistra Italiana e Raffaella Sensoli del M5s. "E' possibile supporre - ha detto il consigliere leghista Massimiliano Pompignoli - che l'obiettivo del Pd sia quello di mettere i lavori della commissione in sorveglianza preventiva: non si sa mai cosa potrebbe emergere". 

Strage di Bologna, l’ira del Pd Bolognesi: insulti al ricercatore che ha trovato le carte del Sismi. Il Secolo d'Italia sabato 3 agosto 2019.  È una furia l’ex-parlamentare Pd, Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione familiari delle vittime della strage di Bologna. L’esponente dem, che ritiene di essere l’unico depositario della verità sull’attentato del 2 agosto ‘80, non ci sta, non accetta possibili verità alternative. Spiazzato dalle nuove carte del Sismi trovate per caso dal ricercatore Giacomo Pacini fra i fascicoli processuali del dibattimento sulla strage di piazza della Loggia a Brescia, Bolognesi non trova nulla di meglio che insultare lo storico: “Pacini dovrebbe fare lo storico non il mestatore, sarebbe ora che andasse a studiare, gli farebbe bene alla salute”. Un’aggressione, quella di Bolognesi al ricercatore, che tradisce la totale mancanza di equilibrio dell’esponente dem e la rabbia per le nuove rivelazioni sulla pista palestinese: “Sono cose trite e ritrite – prova a controbattere Bolognesi nel tentativo di ridurre a burletta la vicenda – La cosiddetta pista palestinese è un insieme di carte e di ipotesi che non hanno neanche la dignità della pista”. Peccato che perfino esponenti del suo partito, come il parlamentare Pd Gero Grassi la considerino molto più che una pista dopo aver visto le carte segretate in Commissione parlamentare Moro, carte di cui nessuno può parlare per non violare il segreto di Stato. Non è un caso che Bolognesi ieri abbia esplicitamente minacciato il suo collega di partito Grassi e chiunque parli di pista palestinese per la strage di Bologna avvertendo che gli avvocati dell’Associazione guidata dallo stesso Bolognesi sono pronti a denunciarli per depistaggio, il nuovo reato introdotto nel 2016.

Strage di Bologna, Rampelli: «Le note del Sismi sono una svolta, ora via tutti i segreti». Il Secolo d'Italia sabato 3 agosto 2019. Sono «atti dirimenti per la ricerca della verità». Il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, interviene sul caso dei due documenti del Sismi «riservatissimi» scoperti dal ricercatore Giacomo Pacini e collegati alla strage di Bologna e sottolinea che «potremmo essere di fronte a una clamorosa svolta nelle indagini». «Si lavori – chiede – per desecretare i documenti».

Una svolta «clamorosa». «In merito alla strage di Bologna, la notizia dell’esistenza di due documenti del Sismi – che parlerebbero delle minacce di attentati all’Italia da parte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina a ridosso delle stragi di Bologna e Ustica – costituiscono oggi più che mai atti dirimenti per la ricerca di quella verità storica e processuale che l’Italia attende da 39 anni», sottolinea Rampelli. «Significa – aggiunge l’esponente di FdI – che potremmo essere di fronte ad una clamorosa svolta nelle indagini. Prima fra tutte la revisione del processo».

Rampelli: «Commissioni d’inchiesta chiave per la verità». «Si lavori quindi per desecretare i documenti», è l’esortazione di Rampelli, che ricorda come «a questo punto la proposta di legge promossa da Fratelli d’Italia per l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sui fatti di Bologna, che si aggiunge alla pdl che presentai un anno fa per la richiesta di una commissione d’inchiesta su Ustica, diventa la chiave d’accesso per raggiungere la verità». «Lo dobbiamo alle famiglie delle vittime e – conclude il vicepresidente della Camera – a quella parte politica accusata per bugiarda estensione di un delitto incompatibile con i suoi principi».

Maria Giovanna Maglie contro Pierluigi Battista sulla "zingaraccia". Libero Quotidiano il 3 Agosto 2019. Ancora polemica attorno alla "zingaraccia". Ci si riferisce a quanto detto da Matteo Salvini, che rispondeva così alla rom che si è augurata che il leghista venga colpito da una pallottola in testa. Ma in questo caso la polemica è tra Maria Giovanna Maglie e Pierluigi Battista. Il tutto avviene su Twitter. La firma del Corriere della Sera, infatti, ha cinguettato: "Zingaraccia dillo a tua sorella", un modo per stigmatizzare quanto detto da Salvini. Ma la Maglie ha risposto a Battista, a sua volta con un cinguettio: "Perché, sua sorella va in giro facendo pubbliche minacce di morte?". Touchè.

Antonio Maria Rinaldi contro la "zingaraccia": "Così ha dato dei cretini a tutti noi italiani". Libero Quotidiano il 4 Agosto 2019. Si torna ancora al servizio di Stasera Italia, il programma di Rete 4 che è andato nel campo rom dove si trova la "zingaraccia" - per dirla con le parole di Matteo Salvini - la quale si è augurata una "pallottola in testa" al ministro dell'Interno. L'intervista è davvero sconvolgente, perché lei - come poi il marito - dice senza troppi giri di parole che gli italiani sono dei fessi perché si sono comprati casa facendo sacrifici con dei mutui quando sarebbe bastato rubare proprio come ha fatto lei. Un video, come detto, davvero rivoltante, che è stato rilanciato su Twitter da Antonio Maria Rinaldi, l'europarlamentare leghista, che ricorda come "la gentile Signora intervistata ci ha fatto sapere che i milioni di italiani che si sono comprati casa facendo sacrifici con mutui sono dei cretini perché sarebbe bastato rubare come ha fatto lei...".

Matteo Salvini, il marito della rom che vuole ucciderlo: "Ho rubato tanto per costruirmi casa". Libero Quotidiano il 3 Agosto 2019. Continua a tenere banco la rom che si è augurata che sparassero in testa a Matteo Salvini, quella che il ministro dell'Interno ha definito "zingaraccia" scatenando un diluvio di polemiche. A Stasera Italia, infatti, hanno mostrato le foto di lei e della sua famigliola, nel dettaglio del marito. Il quale, davanti alle telecamere di Rete 4 e come se nulla fosse, dice: "Non è giusto che mi tolgano la casa, io ho rubato tanto per costruirla". Testuali parole. Il video è stato rilanciato su Twitter da Salvini, che ha commentato: "Che balla famigliola! E c'è chi li difende... Serve una democratica ruspa!", ha concluso il vicepremier del Carroccio, aggiungendo gli immancabili emoticon-ruspa.

I rom che vogliono Salvini morto: "Non possono toglierci la casa abbiamo rubato tanto per costruirla". La sinistra si indigna per il termine "zingaraccia". Ma la rom che vuole morto Salvini ammette di aver passato una vita intera a rubare. Sergio Rame, Domenica 04/08/2019 su Il Giornale. "Io sono la zingaraccia...". È con aria sfrontata che, davanti alle telecamere di Stasera Italia(guarda il video), la rom del campo nomadi di via Monte Bisbino, alla periferia Nord di Milano, rivendica il termine affibiatole da Matteo Salvini. È stata lei che, intervistata dal Giornale.it (guarda il video), ha detto che il ministro dell'Interno "si merita un proiettile in testa". E il leghista ha replicato, appunto, che "per questa zingaraccia c'è bisogno di una ruspa democratica", e la sinistra si è subito schierata al suo fianco. Adesso lei si vanta di aver passato la vita a rubare in giro tutto quello che le capitava a tito. "Ora - dice - sono agli arresti domiciliari". "Polemica surreale e cori indignati perché ho detto che è una zingaraccia...". Agli attacchi di progressisti e radical chic ieri sera Salvini ha replicato durante un comizio a Cervia dove sta trascorrendo le proprie vacanze estive. "Ribadisco è una zingaraccia", ha scandito incassando gli applausi di tutta la piazza. D'altra parte è la stessa rom a confermare ai microfoni di Stasera Italia di aver passato la vita a delinquere. "Rubavo tutto quello che mi capitava", ha raccontato senza farsi troppi problemi. "Portafogli, tutto... Sono sette anni ai domiciliari e ho combattuto per tutta la vita affinché i miei figli non facciano la mia stessa vita". Gli arresti domiciliari, li trascorre nella sua casa al campo nomadi di via Monte Bisbino dove la scorsa settimana fa è entrata anche una troupe del Giornale.it. Non si tratta, però, di un'abitazione fatiscente. Al contrario. Come documentato da un servizio di Stasera Italia, infatti, si tratta di una sorta di villino con arredamenti in stile Gomorra. Ovunque marmo bianco, candelabri di cristallo, divani di pelle, ampi tavoli da soggiorno. "Voglio un condono", grida il marito della rom. Lì dove hanno costruito la casa, c'era il divieto di edificazione. E adesso pretendono che lo Stato gli dia una mano a risolvere la questione. E quando gli chiedono con quali soldi abbia pagato i lavori, non si fa problemi a dire che anche lui ha "truffato e rubato" per potersela permettere. "Ma mica agli italiani, solo agli svizzeri...", dice. In passato è già stato in carcere. Più di una volta. Per furto e per truppa, appunto. Eppure la sinistra è tutta presa a condannare Salvini per aver definito la moglie "una zingaraccia". La donna, forte del soccorso dei radical chic, va in giro a rilasciar interviste in cui conferma che al leader leghista "servirebbe una pallottola" e in cui lo accusa di "voler sterminare il nostro popolo".

Lorenzo Mottola per “Libero Quotidiano” il 4 agosto 2019. Il campo di via Monte Bisbino è una specie di Beverly Hills dei rom costruita alla periferia nord di Milano. Parliamo di decine di ville in muratura su due o più piani realizzate su terreni agricoli ovviamente non edificabili. In pratica, i nomadi si sono comprati anni fa dei campi e ci hanno fatto una città abusiva, dove risiede un campionario umano degno del' Inferno di Dante, ma con una varietà di peccati anche superiore. Si segnalano perfino poligami: uno dei residenti aveva quattro mogli e diciassette figli. Qui abita la signora che per alcune strane coincidenze è riuscita a diventare la nuova star dell' informazione in Italia. Il tutto per aver minacciato di morte di fronte alle telecamere Matteo Salvini, il quale ha replicato dandole della "zingaraccia". Sul termine adottato dal ministro degli Interni Libero si è già espresso e evitiamo di tornare sul tema, però può essere interessante raccontare chi è la nuova antagonista del politico più popolare d' Italia. «Rubavo tutto quello che mi capitava», ha raccontato la damina in un' illuminante intervista andata in onda a Stasera Italia «Portafogli, tutto. Sono sette anni ai domiciliari e ho combattuto per tutta la vita affinché i miei figli non facciano la mia stessa vita». E quindi apre le porte della sua umile dimora. All' ingresso troviamo un colonnato modello tempio greco, sormontato da una tettoia di plexiglass (tanto per ricordare a tutti che comunque ci troviamo in un campo rom). All'interno domina il colore bianco, con arredamenti stile-Gomorra, candelabri di cristallo, divani angolari in pelle da una quindicina di persone e così via. Tutto ottenuto, conferma il marito, "truffando e rubando, ma mica agli italiani, solo agli svizzeri". Un' uscita che ha aperto un fronte anche con il governo elvetico: i cronisti del Corriere del Ticino da ieri si stanno occupando della faccenda. Tornando a Salvini, qualche benpensante ritiene che questo insediamento dovrebbe essere spianato dalle ruspe quanto prima. Tra questi, perfino qualche esponente di centrosinistra, come il sindaco di Milano Giuseppe Sala. Gli abitanti della favela a cinque stelle, tuttavia, non intendono mollare, per questo la "zingaraccia" s' è messa a minacciare il vicepremier. Senza pentirsene. «Certo che confermo, servirebbe una pallottola", ha ribadito sempre di fronte alle telecamere di Rete Quattro la Signora « io penso che ce l' abbia con il nostro popolo, ci vuole sterminare». Teoria curiosa: sospettiamo che Salvini se la sarebbe presa per gli avvertimenti mafiosi anche se fossero arrivate da una guida alpina. Ma il marito sembra non considerare importante la cosa e insiste: «Un condono, serve un condono». Ma il leader leghista non sembra ben disposto: «Che bella famigliola», ha commentato ieri sera su Twitter, «E c' è che li difende... Serve una democratica ruspa!». Però qui da condonare c'è parecchia roba: allacci alla corrente elettrica abusivi, fogne abusive, tubature abusive. Nel campo fino a qualche tempo fa c' era perfino una piccola stalla abusiva e un maneggio. Ci troviamo letteralmente ai confini della realtà, tra depositi di merce rubata e nullatenenti che sfrecciano su Mercedes da 40mila euro. Quando arriva la polizia in questa zona spunta sempre fuori qualcosa di bizzarro, dalle Jacuzzi ai camper spariti nel nulla a Napoli e trasportati in Lombardia. Qualche mese fa qui è stato rinvenuto perfino un chihuahua, sottratto alla sua padrona tre anni fa e oggi riconsegnato. La famiglia pensava che l' animale fosse morto. Per non parlare dell' uomo arrestato in loco per aver partecipato a una rapina a Roma nella quale è stata uccisa una signora di 89 anni. Meglio non girare la sera tra questi giardini, insomma. A meno che non si arrivi muniti di una ruspa, ovviamente.

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 3 agosto 2019. Riassumo la vicenda in poche righe. Una rom leggermente incavolata afferma: sarebbe bello piantare un colpo di pistola in testa a Salvini. Il quale risponde a tono: taci zingaraccia. Non è stato un battibecco fra aristocratici. Succede. Il punto è un altro. Il Pd, un partito e non un postribolo, si è avventato subito contro il leader leghista, rimproverandolo di aver definito zingaraccia una signora, mentre ha sorvolato su quanto questa avesse augurato a Matteo, cioè una rivoltellata nel cranio. Secondo i dem in sostanza è meno grave una pistolettata nelle tempie di un leader che ha utilizzato un termine ormai giudicato politicamente scorretto quale zingara o zingaraccia. Il che non indigna ma dimostra quanto la sinistra abbia perso il lume della ragione, ammesso che l' abbia mai avuto. Cosicché mi è venuta voglia di estrarre dal cassetto il capitolo di un libro che non ho mai pubblicato, in cui dico che un tempo si bruciavano i libri all' indice o comunque sgraditi ai dominatori conformistici del momento, e ora addirittura si fa la guerra alle parole, al vocabolario, come se il linguaggio tradizionale e popolare fosse da bandire.

Distruggere un libro è un crimine contro l'umanità. Eppure certi roghi, come la distruzione di intere biblioteche, erano pratiche non inusuali in passato, quando i volumi venivano considerati potenzialmente pericolosi o fuorvianti, non in linea con il pensiero dominante dell' epoca, o con un determinato regime, allora venivano eliminati. Nell' anno 642 le truppe arabe che conquistarono l' Egitto, incenerirono i famosi tomi di Alessandria nonché quelli custoditi su ordine del califfo Omar. Diversi secoli più tardi il frate Girolamo Savonarola organizzò a Firenze, nel febbraio del 1497, il "falò delle vanità", che non era una festa in spiaggia con annessa sfilata in costume da bagno, bensì un incendio di opere artistiche, considerate immorali.

Tra il 1930 ed il 1945, invece, i nazisti bruciarono tutti i testi di autori ebrei, o scritti da oppositori politici. Il 10 maggio del 1933, in particolare, in varie città tedesche, i nazisti organizzarono fuochi con le biblioteche delle università.

In Italia, nel 1961, nel cortile della questura di Casbeno a Varese fu realizzato l' ultimo massacro di pagine stampate per disposizione legale. Ad essere eliminato fu il capolavoro "Storielle, racconti e raccontini" del Marchese de Sade, edito da Luigi Veronelli. Anche i terroristi islamici dell' Isis si sono dedicati con passione alla eliminazione di libri considerati non islamicamente corretti. Nel gennaio del 2015 circa 2000 libri, tra cui trattati di diritto, poesie e saggi di scienza, romanzi eccetera.

Persino la Chiesa ha dato alle fiamme pubblicazioni messe al bando perché considerate eretiche o immorali. All' Index Librorum Prohibitorum, la lista nera creata nel 1558, sono stati aggiunti titoli fino al 1966. Ad essere inseriti nella lista furono anche fascicoli oggi famosi, studiati persino a scuola, come il "Decamerone" di Giovanni Boccaccio, "Il Principe" di Niccolò Machiavelli. Finirono nella pattumiera autori come Erasmo da Rotterdam, Giordano Bruno (in questo caso, per velocizzare, sono stati abbrustoliti perfino gli autori), Cartesio, Bacone, Galileo Galilei, Darwin, Stendhal, Flaubert. Bastava anche una sola parola sbagliata per fare scattare la censura.

Proprio come accade ancora oggi. È bastata infatti una sola parola per disporre il ritiro immediato dal commercio di un manuale giuridico contenente una raccolta di pareri motivati di diritto penale destinato a coloro che si apprestano a sostenere l' esame di abilitazione per l' esercizio della professione di avvocato, edito dal Gruppo Editoriale Simone e stampato nel 2011. Per spiegare il reato di "acquisto di cose di sospetta provenienza", disciplinato dall' articolo 712 del codice penale, l' autore del volume, Fabio Visco, ha scritto: "Quando, ad esempio, la cosa, nonostante il suo notevole valore sia offerta in vendita da un mendicante, da uno zingaro o da un noto pregiudicato". Questo passaggio ha indotto la rom Dzemila Salkanavic a denunciare casa editrice ed autore del volume. A nulla sono valse in tribunale le spiegazioni dell' avvocato Visco, che ha sostenuto di avere utilizzato la parola "zingaro" senza alcun intento denigratorio, o razzista, riferendosi esclusivamente al nomadismo caratteristico della cultura rom, dunque alla difficoltà di fissare una dimora certa, elemento che può configurare il sospetto di incauto acquisto. Le sue motivazioni non hanno però convinto i giudici del tribunale di primo grado di Roma, che hanno ritenuto che "l' associazione del termine zingaro alla commissione di reati contro il patrimonio di fatto diffonde uno stereotipo negativo oltre che un preconcetto razziale privo di fondamento, stigmatizzando Rom e Sinti con evidente pregiudizio sociale" degli appartenenti a queste comunità. Scrittore ed editore, bollati come razzisti pur non essendolo affatto, sono stati condannati nel febbraio del 2015 per condotta discriminatoria, il manuale è stato ritirato dal commercio, per evitarne la diffusione, inoltre è stato disposto a favore della donna denunciante un risarcimento di mille euro per "la lesione subita". Sempre nel 2015 a finire nell' occhio del ciclone della censura fu il leader di Lega Nord Salvini, reo di avere utilizzato su facebook la parola "zingaro". Una leggerezza che il famoso social network non ha tollerato, bloccando il povero Matteo, che ha dichiarato in sua difesa: il termine "zingaro" non costituisce un' offesa, ma è un sostantivo di uso comune. Tuttavia, si dice che gli zingari non gradiscano di essere chiamati zingari, in quanto questo termine sarebbe troppo generico e quindi incapace di indicare e descrivere le diversità e le identità delle numerose comunità di rom. Insomma, un po' come se gli abitanti della penisola italica si sentissero offesi nell' essere chiamati "italiani", appartenendo ciascuno ad un contesto regionale specifico, con una propria storia, una propria identità, una propria cultura, proprie tradizioni, e fossero convinti gli uni di essere migliori degli altri, tanto da non accettare di essere messi in un unico calderone. È innegabile che il termine "zingaro" abbia acquisito con il tempo un' accezione negativa. Per antonomasia, "zingaro" è colui che è vestito male, o che si cura poco. Ma, giustamente, immagino che sia difficile avere un armadio che offra un' ampia scelta di capi quando ci si sposta di continuo da un luogo ad un altro. Mettendo da parte lo spirito di patata (non bollente), bisogna sottolineare il fatto che la parola "zingaro" conserva tuttora, anche dopo la sua incriminazione, dei significati, a mio modesto avviso, stupendi. Si tratta di un termine "romantico", che ci fa pensare a persone tanto coraggiose da essere libere o tanto libere da essere coraggiose. "Zingaro" è colui che viaggia, che non si ferma, che non mette radici da nessuna parte per la sua sete di conoscenza e per il suo desiderio di vivere. Gli zingari sono musicisti, danzatori, artisti, che girano il mondo. "Zingaro" ero pure io da ragazzo, quando rientravo più tardi la sera, lo sono stati i nostri figli, allorché dicevamo loro: "Questa casa non è un albergo". Se io uso la parola zingaro in riferimento ad un mio amico, intendo dire che questi è ramingo, che non sta mai fermo, e non che puzza o che sembra uno straccione. Mi sembra quasi che i periodi più felici della nostra vita siano stati quelli in cui eravamo un po' zingari e facevamo le zingarate come nel film "Amici miei". Poi abbiamo messo le tende, poi abbiamo fatto il mutuo, poi sono arrivate le grosse responsabilità ed i grossi problemi, insieme all' Imu e alle bollette. Stiamo attenti a vietare le parole, perché potremmo perdere i loro significati più belli. Nel dialetto calabrese esiste un verbo molto affascinante: "zingariare", ossia cercare di arrabattarsi come si può, arrangiarsi facendo questo e quello. Io lo trovo davvero divertente. Tra il 1996 ed il 2002 era molto in voga un programma televisivo che andava in onda su raiuno, "La Zingara", un gioco-quiz, ideato da Pippo Baudo e condotto da lui e poi da diversi altri presentatori, tra cui Paolo Bonolis, Mara Venier, Milly Carlucci, Fabrizio Frizzi, Carlo Conti. Ricordo la sigla della versione itinerante del programma: "Io sono la zingara, qui di passaggio, proprio per te nell' estate italiana, la zingara è in viaggio. Ma fai molta attenzione perché c' è la luna che viaggia con me, se si arrabbia e si tinge di nero, fortuna non c' è". Il concorrente doveva scegliere tra le sette carte disponibili sul tavolo della zingara, interpretata da Cloris Brosca, che ebbe un successo strepitoso. E poi dicono che gli zingari sono odiati! Chissà come sarebbe stato chiamato oggi questo programma, oggi in un' epoca di oscurantismo della parola. Mettendo al bando la parola "zingaro", dovremmo in automatico cancellare il brano musicale vincitore del festival di Sanremo del 1971, presentato in doppia esecuzione da Nicola Di Bari e Nada, "Il cuore è uno zingaro". "Che colpa ne ho, se il cuore è uno zingaro e va e va, catene non ha, il cuore è uno zingaro e va e va, finché troverà il prato più verde che c' è, raccoglierà le stelle su di sé e si fermerà, chissà". Non oso immaginare quale potrebbe essere la sua versione moderna, quella che sarebbe anche politically correct. Magari oggi gli artisti sarebbero stati denunciati per avere usato il termine ingiurioso e razzista di "zingaro" all' interno di un brano cantato nell' ambito di un concorso musicale tanto celebre in Italia. E non mi sarei stupito nemmeno troppo qualora un giudice, nel caso in cui il brano fosse stato scritto oggi, avesse condannato i cantanti e disposto la censura di quella che è e resta una delle canzoni italiane più belle che siano mai state scritte. 

Vietato presentare la graphic novel sulle Brigate rosse. Riccardo Pelliccetti, Sabato 08/06/2019, su Il Giornale. La censura è un venticello... Ci risiamo. È da poco terminata la polemica sul Salone del Libro a Torino, da dove è stato cacciato un editore di destra, e si riaccendono i riflettori sulla vocazione della sinistra alla censura. Questa volta ad essere messa sotto accusa è una graphic novel, Brigate rosso sangue, dedicata all'assassinio di Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci, uccisi dalle BR il 17 giugno 1974 a Padova. È pubblicata da Ferro Gallico, piccolo editore di area, trascinato in una situazione molto simile a quella che, come dicevamo, ha visto coinvolto Altaforte al Lingotto. Niente di straordinario nella rievocazione di quei fatti avvenuti negli anni di piombo. Eppure se a parlarne o scriverne sono autori o editori di destra scatta immediata l'accusa di fascismo, di lettura di parte della storia. E scendono subito in campo politici e intellettuali che reputano la cultura cosa loro. Da un lato la richiesta della sinistra padovana di impedire agli autori di presentare l'opera a fumetti nella sala del Comune, dall'altro l'intervento di alcuni storici, che sul Corriere della Sera hanno denigrato il lavoro, lanciando accuse di parzialità. «È giusto onorare la memoria di Mazzola e Giralucci - ha detto Carlo Fumian, docente di Storia all'Università di Padova - Di certo non fa bene alla verità approfittare di questa commemorazione per sminuire, anzi quasi cancellare, le responsabilità dei neofascisti», che hanno insanguinato l'Italia «con stragi mostruose». Uguale pensiero è stato espresso da Alba Lazzaretto, anche lei ex docente di Storia nella stessa università, che ha parlato di «fumetto agiografico, racconta una parte, non rende conto dell'insieme, non si parla dello stragismo di destra». Non è fantascienza, ma dichiarazioni ufficiali. È come se uno scrivesse un libro sul bombardamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki e venisse accusato di non aver parlato dei missili V1 e V2 lanciati dai nazisti su Londra. «Commemorare con un'opera a fumetti la memoria di due caduti è ancora un problema in Italia» ha affermato l'editore di Ferro Gallico Marco Carucci. «Il racconto è basato sugli atti giudiziari e infatti neppure gli storici interpellati hanno detto che ci fosse una ricostruzione errata. Parlano solo di parzialità, come dire che se i fascisti muoiono qualcosa devono aver fatto». Siamo lontani da quegli anni Settanta in cui gridavano «uccidere un fascista non è reato». Ma secondo Carucci le cose non sono molto cambiate. «Se prima la forma mentis era togliere la vita all'avversario, oggi è togliergli la dignità. Ha mutato faccia, ma rimane un pensiero violento». Per l'editore abituato alla censura c'è un motivo. «Hanno paura. Usiamo uno strumento, la graphic novel, che avvicina i giovani al nostro passato. Andiamo nelle scuole, e non solo, a presentarli. E questo dà molto fastidio alla sinistra perché significa mettere piede in quello che credono sia un loro monopolio: la cultura».

Fazio, scontro in Rai sullo stop. E il Pd urla subito alla censura. L'ad Salini chiede una relazione alla direttrice di rete. Ma i tagli decisi solo per far spazio a Porta a Porta. Fabrizio de Feo, Martedì 14/05/2019, su Il Giornale. La tempesta per la chiusura anticipata del programma di Fabio Fazio non cessa di infuriare. È il Pd a tenere alta la polemica, evitando di entrare nel merito e puntando a far passare il messaggio di una censura ai danni di una trasmissione sgradita alla maggioranza. La questione è più complessa. Essendo a ridosso delle elezioni la Rai, come da tradizione, ha deciso di affidare nella settimana prima del voto gli speciali politici a Porta a Porta e un approfondimento politico la sera del 27 maggio, per analizzare il risultato del voto. Rai Uno ha così deciso di programmare Bruno Vespa al posto di Fabio Fazio per due puntate. La terza e ultima - di cui era stata ipotizzata la messa in onda per il 3 giugno - è stata cancellata perché sarebbe costato troppo tenere in piedi lo studio per così tanto tempo, con il rischio di poter essere chiamati in causa per danno erariale. Peraltro la data del 3 giugno era stata ipotizzata per recuperare una puntata non andata in onda, ma in realtà la Rai aveva proposto il giorno di Pasquetta, una opzione che era stata rifiutata. Inoltre non saranno tagliate solo tre puntate a Che tempo che fa di Fabio Fazio. A rimetterci sarà anche Povera Patria di Annalisa Bruchi. In ogni caso l'amministratore delegato di Viale Mazzini, Fabrizio Salini, ha chiesto alla direttrice di RaiUno, Teresa De Santis, e al numero uno della direzione palinsesti Marcello Ciannamea una relazione sulle motivazioni per cui Che fuori tempo che fa sia stata interrotta in anticipo. Naturalmente complice la campagna elettorale la questione Fazio si tinge dei colori della polemica politica. «Su Fazio chiamatela come volete. Io la chiamo censura contro la libertà di espressione», dice Nicola Zingaretti con il Pd che si prepara a discutere oggi in Vigilanza la risoluzione contro Marcello Foa e il suo doppio ruolo alla presidenza RaiCom. Sempre in Vigilanza verrà ascoltato il sottosegretario alla Presidenza e con delega all'editoria, Vito Crimi. Matteo Salvini - che si è sempre rifiutato di sedere nel salotto domenicale almeno «fino a quando non si taglierà lo stipendio» - vede in Fazio una garanzia per la tenuta del suo consenso. «A me piacerebbe che Fazio fosse in onda anche a Natale e a Ferragosto, a reti unificate 365 giorni all'anno perché più fa propaganda di sinistra, più gli italiani aprono gli occhi. Ma quanto meno con lo stipendio dimezzato: con un milioncino di euro ce la fai a tirare a fine mese». Giancarlo Giorgetti si concede, invece, una piccola stoccata ai Cinquestelle. «Penso che la libertà di espressione vada sempre garantita e queste polemiche non hanno molto senso. Questo però significa che va sempre garantita, per esempio, anche a Radio Radicale, che invece qualcuno vorrebbe chiudere». Luigi Di Maio, invece, sceglie di dribblare la questione. «Questa polemica sulla Rai non è la risposta che i cittadini chiedono. Preferisco parlare dei problemi del Paese». Il presidente della Commissione di Vigilanza Rai solleva, invece, una questione di metodo. «È paradossale che ad annunciare una modifica sostanziale del palinsesto della principale rete Rai sia un conduttore, peraltro esterno all'azienda, e che lo faccia rivolgendosi direttamente ai telespettatori, con una sorta di comunicazione di servizio che non gli compete», dice Alberto Barachini. «La comunicazione delle scelte editoriali è, infatti, istituzionalmente riservata ai vertici della Rai».

Fabio Fazio una vittima? Per favore, no...La chiusura anticipata di "Che tempo che fa" sta scatenando polemiche con gente che si appella alla libertà di stampa contro l'ingerenza della politica. Panorama il 14 maggio 2019. La notizia è che la Rai, nella persona del direttore di Rai 1, ha deciso di chiudere in anticipo "Che Tempo che Fa", la trasmissione di Fabio Fazio cancellando dal palinsesto le ultime tre puntate previste del lunedì. Una notizia che ha scatenato un mare di polemiche. L'accusa, senza girarci troppo intorno, è molto semplice: è stato Salvini che essendo al Governo comanda in Viale Mazzini e che da sempre contesta lo stipendio milionario del conduttore "nemico politico" a chiedere la "testa" di Fazio. Un'ingerenza della politica nella Rai, un attacco alla libertà di stampa. Zingaretti, ad esempio, parla di "censura contro la libertà di espressione". In Italia c'è libertà di opinione, ed ognuno quindi ha diritto di credere e sostenere quello che vuole. Però c'è un limite. Ed il limite in questo caso è cercare di far passare per vittima il "povero" Fazio. Non ce lo meritiamo, è davvero troppo. Perché è davvero impossibile far passare per vittima uno dei conduttori che da anni in Rai fa più o meno quello che vuole, alternando successi e sconfitte (con l'Auditel). Uno che, se entriamo nel dettaglio del programma oggetto della presunta censura, ha usato Che Tempo Che Fa a suo totale e personale piacimento, gestendo gli ospiti, soprattutto quelli politici, in maniera sfacciatamente "faziosa". Sempre dalla stessa parte, sempre le stesse facce, sempre contro il cattivo di turno (fu Berlusconi, oggi Salvini). E secondo voi non ci sono state ingerenze politiche nella sua super carriera a Viale Mazzini? Non ci sono state ingerenze politiche dietro i suoi successi? Tutto quello che ha ottenuto: spazi, programmi, orari di punta, per finire in prima serata sulla rete ammiraglia, con un contratto milionario che hanno in pochi, ma proprio in pochi, è tutto e solo frutto della sua professionalità e delle sue capacità, senza alcun sostegno? Le ingerenze ci sono state solo contro e mai a favore? Siamo sicuri che Fazio avrà modo di tornare in tv con il suo solito "carrozzone". Ed è anche giusto che possa farlo. Ma, per favore, martire, vittima questo no. Questo è davvero troppo pesante da sopportare. Più di alcune sue prime serate.

FAZIO, CHE STRAZIO! Giovanni Valentini per “Il Fatto Quotidiano” 13 maggio 2019. "L`audience, di per sé, non può aggiungere nulla ai codici di un Servizio pubblico" (dall’intervento di Sergio Zavoli al Seminario della Commissione di Vigilanza Rai - Roma, 24 novembre 2009). Può anche darsi che, nei piani della Lega, Fabio Fazio sia la "vittima designata" per impossessarsi definitivamente della Rai. E un`occupazione manu militari del servizio pubblico televisivo da parte del Carroccio, nel segno della lottizzazione partitocratica, non sarebbe certamente auspicabile. Ma ciò non toglie che le critiche manifestate da Matteo Salvini sul maxi-compenso del conduttore e dal presidente Marcello Foa sull`esaurimento della sua "carica innovativa" abbiano un fondamento oggettivo. Se si parte dall`assunto che non può essere l`audience a giustificare il servizio pubblico, non basta appigliarsi ai dati di ascolto delle trasmissioni condotte da Fazio (‘’Che tempo che fa’’ e ‘’Che fuori tempo che fa’’) per giustificare un compenso stratosferico come il suo (quasi 9 milioni di euro in quattro anni). Né si possono fare i conti fra quanto costano e quanto ricavano in termini di spot i due programmi di Rai1, come se si trattasse di una qualunque rete commerciale piuttosto che dell`ammiraglia della televisione pubblica. Non è da oggi, del resto, che chi scrive sostiene la necessità di un duplice affrancamento della Rai dalla sudditanza alla politica e dalla schiavitù dell`audience, tanto più che adesso il canone d`abbonamento è inserito nella bolletta elettrica. C`è poi un aspetto particolarmente delicato - su cui è in corso un’istruttoria davanti alla Corte dei Conti - che riguarda il conflitto d`interessi in capo a Fazio, conduttore e produttore di se stesso, in forza del contratto (circa 10 milioni all`anno) con la società "Officina" di cui è proprietario al 50%. Tant`è che - come si sa - ha scelto di dimettersi dall`Ordine dei giornalisti per diventare "artista" e per poter percepire così il suo astronomico compenso, al di là dei "tetti" fissati dalla legge per le aziende pubbliche. A maggior ragione, dunque, il conduttore non può essere paragonato a un professionista del calibro di Enzo Biagi, come s`è avventurato a sostenere Michele Serra su ‘’Repubblica’’, rimbeccato giustamente dal deputato del Pd Michele Anzaldi. In realtà, al di là del fatto che le interferenze di Salvini rischiano alla fine di rafforzare la posizione di Fazio, non ha tutti i torti Foa a rimproverare al conduttore-produttore di aver perso la "capacità innovativa". Spesso le sue trasmissioni si trasformano in una passerella di attori, comici e giornalisti amici, con l`accomodante ospitata di qualche politico, per promuovere film, spettacoli teatrali, canzoni, libri, non sempre degni di una rete come Rai1. Una specie di "marchettificio", vale a dire "il luogo - per citare il vocabolario Treccani delle esibizioni compiacenti e interessate", "propizio per catturare i favori del miglior offerente". Con l`occasione si può ricordare al bi-presidente sovranista, messo ora sotto accusa dalla convergenza M5S-Pd in Commissione di Vigilanza per il doppio incarico di presidente della Rai e di RaiCom, l`ormai dilagante tendenza di molti conduttori e conduttrici televisivi a fare pubblicità, in veste di testimoni al, dentro e fuori i propri programmi. Secondo la terminologia della normativa antitrust, dovremmo parlare di "pubblicità ingannevole" e di "pratiche commerciali scorrette", dal momento che il contenuto televisivo si confonde con il messaggio pubblicitario sfruttando il "potere mediatico" del conduttore-testimonial. Forse, la "Rai del cambiamento" potrebbe cominciare una buona volta da qui. 

Mica c’è solo Fabio Fazio. Smantellare tutto il Circo rosso degli intoccabili. Francesco Storace martedì 14 maggio su Il Secolo d'Italia. Fabio Fazio? E tutti gli altri? Ma chi se ne frega. Sarebbe da proporre una grande manifestazione per liberarci di troppi capetti televisivi che vogliono raccontarci quanto sbagliamo a votare… Più perdono e più vogliono comandare. Le loro smargiassate propagandistiche non portano più un voto alla sinistra eppure pretendono di restare lì, in casa nostra, tutte le sere a spiegarci la democrazia.

Strapagati e privilegiati. Il Circo rosso degli inamovibili continua ad atteggiarsi a vittima. Strapagati, non intendono rinunciare ai loro privilegi. Che si tratti della tv pubblica – che manteniamo con il canone – sia che si tratti di quelle private – che campano con la pubblicità che sempre da noi trae quattrini – pretendono sempre e solo adulazione. E tanti denari. Pure questa polemica fasulla su appena tre puntate della trasmissione “Che tempo che fa” non ha affatto senso. Semmai ci è rimasto anche troppo. Ora la Rai se la vedrà con gli inserzionisti se è vero che Fabio Fazio porta pubblicità. Ma quel che pare intoccabile è la maestà politica rappresentata da questo signorotto della tv. Si fa difendere da Zingaretti, ma nel Pd va all’assalto il deputato Anzaldi. Chi ci capisce è bravo.

Pagati da tutti e non eletti da nessuno. Lui, Fazio, come tutti gli altri. Nel pubblico come nel privato. La lista più sintetica mette insieme i Santoro come le Annunziata, le Gruber come i Formigli e i Floris. Sono gli incriticabili, il verbo della televisione. Gli educatori della politica. Non chiedono ai leader quali idee hanno; pretendono di imporgli le loro. Quelle dei conduttori, pagati da tutti e non eletti da nessuno. Fanno carriera, poi entrano in politica, quando smettono ritornano a fare carriera. Per la serie visti da vicino potremmo aggiungere all’elenco anche Piero Badaloni e Piero Marrazzo. Poi ci sono i falsi indipendenti come i Guzzanti, la Dandini e la Littizzetto, tutti schierati con una sinistra che vorrebbero ancora più “sinistra”. Perché non gli basta mai. Sono i miti alimentati da Roberto Saviano e Gad Lerner, i peggiori esegeti della modalità in socialismo reale con le povertà altrui. Se tutta questa bella gente ci lasciasse respirare la sera quando dopo una giornata di lavoro ci mettiamo in poltrona davanti alla televisione, vivremmo tutti molto meglio. Invece ci tocca sopportare lezioni quotidiane di odio, il vomito in diretta tv e magari se ne lamentano pure. Costoro non si sono ancora accorti di come sta cambiando l’Italia. Ci vorrebbero vedere come una colonia africana in terra europea, tanta è la loro avversione ad un comune senso dell’identità nazionale. Mandateli tutti al diavolo e se possibile non alla fine della stagione. Tanto ce li ritroveremo prima o poi tutti nelle fila del Pd o compagnia cantando, al termine del loro regno televisivo troppo a lungo tollerato. Meriterebbero chilometri di girotondi davanti alle loro redazioni, a testimoniare l’indignazione di un popolo contro i loro reiterati abusi della menzogna nella propaganda in cui si elevano a maestri. Dovremmo davvero sigillare i nostri apparecchi televisivi: perché non un euro deve andare più dalle nostre tasche alle loro; perché nessuna pubblicità deve più asservire le nostre curiosità di consumatori alle loro faziosità.

·         Liste di Proscrizione e Censura.

Proscrizione sillana. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La Prima proscrizione o proscrizione sillana consiste in un'epurazione controllata degli oppositori politici di parte mariana da parte di Lucio Cornelio Silla nell'82 a.C., attuata attraverso la pubblicazione di liste di cittadini romani dichiarati hostes publici, i cui beni venivano confiscati.

I fatti. La proscrizione di Silla ebbe inizio nell'82 a.C., in seguito alla sua seconda marcia su Roma, e alla sua nomina a dittatore, ed anche se fu in parte concepita come un atto di vendetta contro le uccisioni perpetrate dai mariani nell'87 e nell'82 a.C., fu ben presto regolamentata da un procedimento giuridico che non lasciava spazio a iniziative personali. Dopo la vittoria di Porta Collina del primo novembre dell'82 a.C., dal momento che il Senato romano non era intervenuto impedendo ulteriori disordini, Silla si occupò personalmente di ristabilire l'ordine a Roma, avendo ancora con sé i suoi soldati, che rimasero ai suoi ordini fino al giorno del trionfo, celebrato il 28 gennaio dell'81. Il 2 novembre dell'82 a.C. Silla convocò il Senato nel tempio di Bellona, che essendo situato all'esterno del pomerium, la cinta sacra di Roma, nella parte meridionale del Campo Marzio gli permetteva di esercitare il potere militare in qualità di proconsole, potere che in seguito sarà accresciuto dall'assunzione della carica di dittatore. Qui espose un'apologia delle proprie azioni ed illustrò il piano che intendeva seguire. Nello stesso momento, nella Villa Publica poco distante, venivano giustiziati i prigionieri dell'esercito vinto. Dichiarando che non sarebbe stato concesso il perdono per tutti coloro che avevano collaborato con la parte mariana dopo la rottura della tregua dell'83 a.C. fatta dal console Scipione, Silla redasse le liste includendo tutti i magistrati di Roma, ovvero consoli, pretori, questori e legati, gli ex-magistrati, ed i senatori e cavalieri di parte mariana, senza però includere i semplici cittadini, che pure l'avevano combattuto. Immediatamente dopo l'assemblea Silla fece dunque proclamare dal banditore, il praeco, un editto che fece poi affiggere nel foro e negli altri luoghi deputati all'affissione pubblica, là dove erano esposti gli editti dei magistrati, sia a Roma che negli altri centri d'Italia. La procedura d'affissione continuò nei quattro giorni successivi, ovvero dal 3 novembre al 6 novembre dell'82 a.C. Silla fece affiggere tre liste di nomi, in cui furono inclusi tutti i nomi degli abitanti dell'Etruria e del Sannio di qualche importanza. Le due regioni che si erano opposte a Silla fino alla vittoria finale furono duramente punite. L'Etruria vide la confisca delle terre di tutti i suoi centri più importanti, mentre tutti gli esponenti della famiglie eminenti del Sannio furono eliminati, per evitare la nascita di nuovi oppositori politici. Silla, dopo aver fatto uccidere tutti i prigionieri sanniti caduti nelle sue mani, completò l'epurazione con le liste di proscrizione.

L'editto di Silla. L'editto di Silla, secondo la consuetudine romana, era scritto con il minio sulla superficie di tavolette di legno imbiancate, denominate semplicemente tabulae. Tale editto non è stato conservato, ed il suo contenuto può essere dedotto dall'editto relativo alla Seconda Proscrizione, riportato da Appiano nel Bellum Civile. Nella prima parte dell'editto di Silla si giustificavano le misure decise contro i proscritti, ricordando i crimini che avevano commesso, e vietando che fosse perseguitato chiunque non fosse nominato di seguito. Le prescrizioni dell'editto erano probabilmente precedute dalla formula rituale "Quod felix faustumque sit", che ricorda come il potere del magistrato deriva dalla divinità. I proscritti erano esclusi dal diritto di asilo in qualsiasi luogo: l'aiuto nei loro confronti era punibile con la morte, e non erano affatto considerati i legami di parentela. Inoltre, per il cittadino che avesse collaborato era prevista una ricompensa, pagata ufficialmente dal questore con fondi pubblici. Infatti chi avesse ucciso un proscritto non soltanto non sarebbe stato accusato di omicidio, ma riportandone la testa, avrebbe ricevuto la ricompensa di due talenti d'argento, pari a 48.000 sesterzi. Una ricompensa minore era riservata a chi avesse denunciato un proscritto o avesse contribuito alla sua cattura. Qualora fosse stato uno schiavo, sarebbe stato affrancato. I beni dei proscritti erano destinati alla confisca come i beni di tutti i parenti maschi del proscritto, che erano inoltre sottoposti all'esclusione in perpetuo dalla vita pubblica. Se il proscritto apparteneva al rango senatorio i suoi parenti dovevano comunque concorrere per la loro parte agli oneri imposti ai senatori. Alle prescrizioni seguiva poi la prima lista, in cui comparivano 80 nomi di esponenti del ceto senatorio di parte mariana, magistrati o ex magistrati. A questa lista seguirono altre due liste per un totale di 440 nomi; la seconda lista, affissa il 5 novembre dell'82 a.C., conteneva 220 nomi, mentre la terza lista, affissa il 6 novembre dell'82 a.C riportava gli ultimi 220 nomi di senatori e cavalieri. I personaggi figuravano nelle liste in ordine di importanza. I primi due erano i consoli di quell'anno, ovvero Gneo Papirio Carbone e Gaio Mario il giovane, seguiti dai consoli dell'83 a.C., Lucio Cornelio Scipione e Gaio Norbano. Comparivano poi gli altri personaggi secondo l'ordine gerarchico delle loro cariche, ovvero i cinque pretori dell'82 a.C., Lucio Giunio Bruto Damasippo, Marco Mario Gratidiano, Marco Peperna Veiento, Gaio Carrinas, che aveva comandato l'ala destra dello schieramento mariano nella battaglia di Porta Collina, e Marcio Censorino. Seguiva il nome del tribuno della plebe dell'82 a.C., Quinto Valerio Sorano, che oltre ad essere un avversario politico di Silla, aveva rivelato in una delle sue opere il nome della divinità tutelare di Roma, che era tenuto segreto perché non fosse evocato dai nemici, compiendo così un'azione straordinariamente sacrilega. Comparivano inoltre i nomi di alcuni pro-magistrati, il primo dei quali, il più pericoloso di tutti, era Quinto Sertorio, la cui resistenza in Spagna durò molti anni, seguìto da Gneo Domizio Aenobarbo che teneva l'Africa, e da due dei tre pretori dell'83 a.C., Marco Giunio Bruto, il padre dell'assassino di Cesare, e Burrieno.

Le conseguenze dell'editto. Benché nell'editto non si faccia esplicitamente riferimento alla condanna a morte, ma venga piuttosto elencata una serie di misure volte a privare i proscritti dello status di cittadini romani, la morte del proscritto appare inevitabile per le successive imposizioni. I proscritti erano condannati perché limitati dalla serie di divieti che negavano loro il diritto di asilo, perché nessuno, pena la morte, avrebbe potuto accogliere un proscritto, nasconderlo o aiutarlo nella fuga, ed inoltre erano ricercati in vista di importanti ricompense in denaro per la loro uccisione o denuncia. Inoltre, in caso di esecuzione non immediata, la condanna risultava valida in ogni tempo e in ogni luogo. Per il proscritto si verificava quindi l'impossibilità giuridica di sfuggire alla morte con l'esilio, con la conseguenza che quasi tutti coloro che scamparono inizialmente alla morte dandosi alla fuga, furono in seguito catturati e uccisi oppure costretti al suicidio. È questo il caso del console Gaio Norbano, che si era imbarcato su una nave che aveva come destinazione Rodi, perché avendo esercitato pochi anni prima la questura in Oriente, vi aveva dei sostenitori. L'isola di Rodi era da sempre un luogo sicuro di esilio, ma Silla mandò degli emissari agli abitanti, reclamando la testa del console. Gli abitanti dell'isola si trovarono quindi combattuti tra il loro vincolo di obbedienza a Silla, al cui fianco si erano risolutamente schierati durante la guerra contro Mitridate, e il desiderio di conservare la reputazione dell'isola come luogo di rifugio sicuro. Mentre gli abitanti di Rodi deliberavano in assemblea riguardo alla richiesta dell'estradizione avanzata da Silla, Gaio Norbano si suicidò pubblicamente nell'agorà. Con la prospettiva di ricompense considerevoli, rafforzata inoltre dalla rassicurazione che il cittadino il cui nome non era riportato in nessuna delle tre liste poteva considerarsi al sicuro, e che quindi era opportuno dare immediata prova di adesione al nuovo regime, si scatenò una caccia all'uomo di notevoli proporzioni non soltanto ad opera dei partigiani di Silla ma anche da parte dell'intera collettività.

La proscrizione come procedura straordinaria nel sistema giuridico romano. La prima proscrizione si configura come una procedura straordinaria, perché prima di questa il mondo romano risolveva il caso degli oppositori facendo prevalentemente ricorso all'esilio. Nel mondo romano l'esilio è un fenomeno che ha una pluralità di esiti, e non sempre è considerato come una pena. L'esilio può essere infatti considerato come l'esercizio di cui il cittadino romano può avvalersi e che gli è comminato al posto di una pena più grave, come riporta Cicerone oppure come una scappatoia per fuggire alla pena di morte, come riporta Sallustio, oppure –soprattutto in epoca imperiale- come una pena vera e propria inserita all'interno del sistema punitivo romano. Queste tre possibilità non si susseguono necessariamente nel tempo, ma appaiono spesso coesistere affiancate. Poiché risulta che inizialmente l'esilio comminato come pena si ha sempre per un delitto particolarmente grave e non per una ragione politica, sia pure in senso non stretto, ne risulta che "l'esilio comminato come pena si rivela l'equivalente di ciò che in delitto penale sarà la proscrizione", sottolineando dunque l'apparente equivalenza negli effetti dell'esilio e della proscrizione intesi come pena comminata ai colpevoli. Tuttavia, dopo l'82 a.C., accanto alla possibilità di evitare la morte scegliendo l'esilio e (in molti casi) senza perdere la cittadinanza romana, compare il fenomeno della proscrizione che ha la duplice caratteristica di legittimare di fatto uccisioni palesi ma soprattutto di impedire ai proscritti la scelta dell'esilio, formalmente ancora possibile.

Il numero delle vittime. Il numero delle vittime della prima proscrizione è impossibile da calcolare con precisione, perché le varie fonti presentano cifre differenti. Inoltre, il fatto che la tradizione storiografica superstite sia essenzialmente di stampo senatorio rappresenta un elemento di distorsione della verità storica. Benché si sottolinei fortemente il massacro dei senatori, considerando le cifre appare evidente che non è stata la componente senatoria ma quella equestre ad essere colpita nel modo più duro. Secondo Appiano, che pure durante la narrazione si sofferma sulla morte di 58 senatori contro due sole uccisioni di cavalieri e 27 personaggi di cui non viene precisato la classe sociale, sarebbero stati uccisi 60 senatori e 1600 tra cavalieri ed altri personaggi di cui non è esplicitato il ceto. Valerio Massimo, che è meno preciso di Appiano, perché non fa distinzioni di censo, in totale stima 4700 morti; per Floro i morti sarebbero stati 2000, mentre per Orosio che fa il calcolo più alto, i morti sarebbero stati 9000.

Le esecuzioni. Benché l'editto del proconsole non si esprimesse sulla modalità di esecuzione, il sistema di ricompensa richiedeva necessariamente la decapitazione. Il pagamento era infatti effettuato in presenza della testa mozzata, come testimoniano le Tavole di Eraclea. Tuttavia, a differenza delle proscrizioni del 43 a.C., quando le esecuzioni eseguite dai soldati avvenivano comunemente in strada o dovunque si trovasse il proscritto, la prima proscrizione vide uccisioni realizzate in modo solenne, che avevano una notevole somiglianza con le esecuzioni militari. Generalmente le esecuzioni avvenivano infatti all'esterno del pomerium, con l'eccezione dei prigionieri di guerra giustiziati dopo un trionfo, che venivano uccisi nel Foro. Quindi il proscritto, una volta arrestato, veniva condotto nel Campo Marzio dove avveniva l'esecuzione. Il condannato era privato delle vesti, e con le mani legate dietro la schiena subiva prima la fustigazione con verghe e infine veniva fatto sdraiare al suolo per ricevere il colpo dell'ascia. La morte avveniva quindi per decapitazione con l'ascia oppure per sgozzamento, al punto che il verbo iugulare viene spesso usato come sinonimo di proscribere. L'esecuzione mediante il taglio della testa assimila ulteriormente i proscritti a nemici catturati in guerra, ed è quindi un atto infamante. L'esecuzione era eseguita davanti al magistrato, in questo caso Silla, che assisteva con la testa velata da un lembo della toga, in segno di lutto. La testa troncata del proscritto veniva poi portata nei luoghi più visibili della città, dove già Mario, al suo ritorno a Roma nell'87 a.C., aveva esposto le teste dei suoi avversari. Questi luoghi erano il Foro, dove le teste erano esposte sui rostri, le tribune utilizzate per le arringhe, oppure alla fontana del lacus Servilius, là dove la via Jugaria immetteva nel Foro, e dove furono eseguite anche alcune condanne, secondo la testimonianza di Cicerone e di Seneca. Le teste rimanevano esposte finché la decomposizione non aveva cancellato i tratti del volto. Nel frattempo il corpo veniva straziato e mutilato sistematicamente dal carnifex con un uncino, con cui veniva poi trascinato fino al pons Aemilius e da qui gettato nel Tevere, secondo la stessa procedura utilizzata per i condannati che morivano in prigione. Sia la decapitazione che l'accanimento sul corpo delle vittime rispondono al desiderio di annientare l'integrità del corpo, che il mondo antico riteneva requisito imprescindibile per ottenere una sepoltura rituale e un conseguente statuto onorevole nel mondo dei morti. La mutilazione si inserisce quindi nel processo di degradazione e umiliazione del condannato, già iniziato con l'utilizzo del termine proscriptio e che porterà Cicerone a definire il proscritto come qualcuno che "non è soltanto bandito dal numero dei vivi, ma è addirittura relegato, se è possibile questa condizione, anche più in basso dei morti".

Esecuzioni particolari. Si verificarono anche alcuni casi particolari in cui la mutilazione solitamente riservata ai cadaveri fu inflitta a uomini ancora vivi, e in cui il carnefice evitò di sferrare subito il colpo mortale, strappando gli occhi della vittima al termine dell'esecuzione, in modo che potesse assistere all'intera tortura. Sono questi i casi di Marco Bebio, di Marco Pletorio, di un non bene identificato Venuleio e di Marco Mario Gratidiano. Il caso di M. Bebio è particolare per il fatto che le fonti antiche univano le vicende di due diversi personaggi, entrambe appartenenti alla gens Baebia, che furono giustiziati in circostanze simili. Il primo M. Baebius fu ucciso nell'87 a.C. al ritorno di Mario, dopo essere stato trascinato con uncino e tagliato a pezzi dagli schiavi Bardei di Mario, mentre il secondo M. Bebio, forse figlio del precedente, al ritorno di Silla, fu smembrato dalla folla mentre era ancora vivo, nel corso di una vera esecuzione di massa. Marco Pletorio e Venuleio sono due personaggi di rango senatorio di cui non ci sono notizie certe. Una tradizione riferisce che furono messi a morte in condizioni simili a Bebio, un'altra tradizione collega la loro fine all'esecuzione di Marco Gratidiano. La tradizione riporta che Marco Mario Gratidiano fu catturato da Catilina, quando in seguito alla disfatta di Porta Collina, aveva trovato rifugio in un ovile. Fu poi giustiziato in modo spettacolare sul Gianicolo, sulla tomba dei Catuli, per mano di numerosi carnefici tra cui lo stesso Catilina. Gratidiano fu prima privato dei suoi abiti, e in catene fu trascinato per la città, colpito dalle verghe e umiliato dal corteo che lo seguiva. In seguito fu mutilato sistematicamente in tutte le parti del corpo (l'ordine delle mutilazioni è riportato dalle fonti in modo diverso) ed infine fu decapitato da Catilina. La sua esecuzione ebbe particolare rilievo perché si trattava di un nipote di Mario, figlio di una sorella, adottato da un fratello più giovane affinché diventasse un Mario. Si trattava di un personaggio estremamente popolare perché nell'85 a.C., quando ricoprì la carica della pretura, fece pubblicare soltanto a suo nome un editto che era stato preparato congiuntamente dai pretori e dai tribuni della plebe. Questo editto, che aveva eliminato le monete coniate da M. Livio Druso e che riguardava più in generale il controllo della monetazione da parte dello Stato, produceva inoltre una notevole diminuzione dei debiti privati. L'essersi attribuito tutti i meriti di un procedimento collettivo gli procurò uno straordinario favore da parte del popolo di Roma. Gli furono concessi onori quasi divini, perché furono costruite statue che lo rappresentavano, davanti alle quali venivano bruciati ceri e incenso. Nell'82 a.C., per un fatto straordinario, Marco Gratidiano era inoltre pretore per la seconda volta, benché avesse aspirato al consolato, per cui venne nominato suo cugino Gaio Mario il Giovane. Gratidiano era dunque il magistrato più importante che i sillani erano riusciti a catturare, essendo pretore, perché i due consoli erano al momento irraggiungibili: Mario il giovane era assediato a Preneste e Gneo Papirio Carbone era fuggito in Africa. La sua esecuzione si riveste di elementi altamente simbolici non soltanto per le modalità con cui fu effettuata, ma anche per il luogo; la tomba di Quinto Lutazio Catulo, che Gratidiano aveva costretto al suicidio dopo avergli intentato un processo per alto tradimento (era stato infatti console con Mario nel 102 a.C. e con lui vincitore dei Cimbri e dei Teutoni), era un luogo politicamente importante per i sillani vincitori sulla parte mariana.

La confisca dei beni. I beni dei proscritti come quelli appartenenti a chi era morto in guerra dalla parte mariana venivano requisiti e devoluti allo Stato. Si tratta di una procedura che assimila i proscritti, non a caso definiti hostes publici, a un qualunque nemico di Roma, dal momento che avevano preso le armi contro la repubblica, come appunto un nemico. Per questo motivo i loro beni erano considerati praeda, bottino di guerra, spettante di diritto ai Romani vittoriosi. L'equivalenza beni dei proscritti/bottino era stata dichiarata dallo stesso Silla, alla cui presenza, con una lancia conficcata simbolicamente a terra, i beni erano posti all'asta. Queste aste erano pubbliche, ma date le circostanza i beni furono venduti a prezzi irrisori rispetto al loro valore, a vantaggio di Silla stesso, dei suoi familiari, la moglie Metella e la figlia, e dei suoi alleati e collaboratori nelle persecuzioni, ovvero Publio Licinio Crasso, M. Emilio Lepido, Bellieno, Lucio Sergio Catilina e il liberto di Silla Lucio Cornelio Chrysogono. È possibile avere una qualche nozione del volume del passaggio delle proprietà causato dalla prima proscrizione grazie ad un passo della Periocha LXXXIX di Livio, dove è scritto che Silla “vendette i loro beni, dai quali sottrasse moltissime delle cose più belle. È stato redatto che questi beni avessero un valore di trecentocinquanta milioni di sesterzi”. Tutte le fonti che parlano della prima proscrizione, oltre alla distruzione fisica dei proscritti, sottolineano con insistenza l'importanza dell'elemento economico, legato per di più alla dissoluzione del concetto di proprietà inalienabile, espresso dalla formula "dominum ex iure Quiritium". Con la prima proscrizione, attraverso l'epurazione controllata dei capi della sconfitta fazione rivale, il nuovo regime ricerca l'appoggio delle masse proletarie con l'incitamento all'eliminazione indiscriminata dei possidenti e la possibilità di una facile acquisizione delle loro ricchezze. L'intero processo è bene esplicitato da Sallustio che scrive "chi desiderava la casa o la villa, e anche soltanto un oggetto di arredamento, un vestito, che apparteneva a qualcuno, si adoperava per farlo iscrivere nella lista dei proscritti". Si trattava però di beni il cui possesso si rivelò molto precario, come conferma il tentativo di Rullo, contrastato da Cicerone, di confermarne la validità nel 63 a.C., e la cui restituzione agli antichi proprietari fu poi pretesa dalla Lex Porcia del 64 a.C., promulgata dal questore Marco Porcio Catone Uticense. In ogni caso a Roma le ricchezze, ed in particolar modo il patrimonio immobiliare, erano imprescindibili per intraprendere la carriera politica, per cui i personaggi più ricchi dello Stato che furono proscritti coincisero necessariamente con gli uomini politici.

I discendenti maschi dei proscritti. Secondo una prassi comune nel mondo antico i figli e i discendenti maschi dei proscritti erano colpiti con l'esilio e non potevano ereditare le proprietà paterne, perché la mentalità corrente faceva ricadere sui figli la colpa del padre. Con questa prassi si risolvevano due problemi distinti: in primo luogo, i figli, non potendo ereditare i beni paterni, confiscati dallo stato, decadevano necessariamente di censo, e quindi non potevano aspirare a cariche pubbliche, cosa che avrebbe permesso loro di diventare pericolosi oppositori politici. In secondo luogo, in una società in cui erano fondamentali i legami familiari, e che includeva nel "mos maiorum" il concetto di "pietas", intesa anche come dovere di vendetta del figlio nei confronti del padre, il nemico del padre diventava necessariamente quello del figlio, con conseguenze non solo politiche ma anche sociali e personali di lotta tra famiglie. Di conseguenza l'impossibilità che avevano i figli dei proscritti di vendicare i loro familiari, o almeno di riabilitare la loro memoria, evitava che si innescasse una spirale di violenze e vendette in ambito pubblico come in ambito privato.

La sorte dei capi mariani. I capi mariani superstiti che non furono immediatamente catturati ebbero sorti diverse. Alcuni furono costretti al suicidio, come Gaio Norbano, altri scapparono verso luoghi lontani da Roma, come Quinto Sertorio che trovò rifugio in Spagna. Lucio Cornelio Scipione ottenne invece il permesso di vivere in esilio a Massalia, salvandosi unicamente per la sua minima importanza politica e per l'appartenenza all'illustre gens degli Scipioni. La vendetta di Silla si rivolse ovviamente anche contro Mario, il suo avversario principale, che però era già morto nell'86 a.C., quindi più di quattro anni prima. Impossibilitato ad ucciderlo, Silla si accanì contro la sua memoria pubblica, rovesciando i trofei e i monumenti che commemoravano le vittorie di Mario sugli Africani e sui Teutoni, cancellando i suoi atti, ed infine rompendo la sua tomba e disperdendo le ceneri nel fiume Aniene.

La sorte delle città. I centri d'Italia furono colpiti in modo molto diverso. In alcuni centri la proscrizione interessò soltanto un numero esiguo di cittadini, come nella sannita Larino. Qui furono proscritti soltanto quattro cavalieri, appartenenti ad una famiglia dell'aristocrazia locale, Aulo Aurio, Aulo Aurio Merlino, Gaio Aurio e Sesto Vibio. In precedenza questi magistrati di Larino, che erano cavalieri romani, avevano preso le difese dei consoli dell'83 a.C. Lucio Cornelio Scipione e Gaio Norbano, che avevano rotto la tregua con Silla. In seguito a questa decisione avevano quindi obbligato alcuni abitanti a lasciare la città; dopo la vittoria sillana di Porta Collina gli esuli ritornarono con l'accompagnamento di un piccolo distaccamento di soldati e affissero alle mura della città l'editto di proscrizione corredato da un estratto della lista che riportava soltanto i nomi dei quattro magistrati. Alcune città per evitare un assedio si accordarono con Silla affinché i proscritti presenti all'interno delle loro mura fossero gli unici abitanti ad essere giustiziati: nella città di Nola, in Campania, e più tardi anche a Volterra dopo una resistenza di due anni, in Etruria, si preferì fare uscire i proscritti che vi si trovavano dalle mura della città, in modo che fossero giustiziati da un reparto di cavalleria. Altre città subirono una punizione molto più dura, in particolar modo Preneste e Norba. Prima della caduta della città di Preneste, Silla aveva già inviato all'assediante della città, Q. Lucrezio Ofella, le teste di Marcio Censorino, Carrinas, Damasippo e di Marco Mario Gratidiano, i capi mariani giustiziati immediatamente dopo la vittoria di Porta Collina, in modo che fossero esposte alla vista di Gaio Mario il Giovane, asserragliato dentro Preneste, e degli abitanti della città, come monito della futura sorte della città assediata. Appresa la notizia della disfatta Mario il Giovane e il fratello minore di Telesino, che con lui difendeva la città, cercarono inizialmente di fuggire attraverso i numerosi corridoi sotterranei. Dopo aver constatato che tutte le uscite erano bloccate e sorvegliate, Mario il Giovane e il fratello di Telesino si uccisero reciprocamente. Dopo la caduta di Preneste la testa di Mario il Giovane fu portata a Roma ed esposta sui rostri, mentre gli abitanti di Preneste furono suddivisi in tre gruppi. Gli abitanti che avevano la cittadinanza romana vennero graziati, i Sanniti e i Prenestini furono invece giustiziati; in totale furono uccisi forse 12000 uomini. Dopo aver concesso la vita alle donne e ai bambini, Silla abbandonò la città in fiamme al saccheggio del suo esercito. La città di Norba, Norma, in Calabria, era la patria del console dell'83 a.C., Gaio Norbano. La città resistette all'assedio dei sillani fino a quando M. Emilio Lepido riuscì ad entrare nella città grazie ad un tradimento. Per non cadere nelle mani dei sillani, all'ingresso di Lepido i cittadini fecero ricorso al suicidio collettivo, alcuni impiccandosi, altri dandosi la morte reciprocamente, altri ancora sventrandosi. Dato che alcuni si erano rinchiusi nelle loro case appiccandovi il fuoco, l'incendio si propagò con rapidità e distrusse completamente la città di Norba.

La regolarizzazione della proscrizione. Per confermare la validità del suo editto di proscrizione, visto che l'editto di un magistrato romano aveva valore soltanto per la durata della sua magistratura, negli ultimi giorni del dicembre dell'82 a.C., Silla fece approvare la Lex Cornelia. Questa legge era corredata da due liste, ed andava a colpire tutti i nemici dello Stato, formalizzando le procedure della proscrizione. Nella prima lista comparivano sia i proscritti che i loro figli maschi, mentre nella seconda lista erano nominati tutti coloro che erano morti nel corso dei combattimenti della guerra civile. La Lex Corneliametteva esplicitamente al riparo dall'accusa di omicidio tutti coloro che avessero ucciso un proscritto, stabiliva la proibizione del lutto da parte delle famiglie dei proscritti uccisi, per evitare disordini impedendo cerimonie funebri che avrebbero avuto risonanza politica, ed inoltre stabiliva per il proscritto la damnatio memoriae, ovvero la distruzione dei ritratti e delle statue del personaggio, anche privati, insieme alla cancellazione del suo nome da tutte le iscrizioni in cui compariva.

Le ragioni della prima proscrizione. Le ragioni della prima proscrizione devono essere trovate nel clima generale successivo alla conclusione dello scontro tra sillani e mariani. Tutte le fonti, anche quelle dichiaratamente antisillane, concordano sul fatto che in una situazione così incandescente sarebbe stato impossibile concedere il perdono ai nemici e proibire qualsiasi genere di repressione, perché il tutto si sarebbe risolto in un massacro indiscriminato, perpetrato esclusivamente sulla base di rancori personali. Silla assunse dunque il compito di regolarizzare la repressione, assumendo il titolo di Ultor, il Vendicatore. Procedette così rapidamente che appena due giorni dopo la vittoria di Porta Collina a Roma si sapeva già che l'epurazione dei sostenitori della parte avversa sarebbe stata contenuta e limitata da una procedura regolarizzata, e tre giorni dopo Porta Collina, con la comparsa dell'ultima lista di proscrizione, si conoscevano con precisione i nomi di tutti coloro che erano stati colpiti dal procedimento. La prima proscrizione viene quindi istituita per cercare di arrivare ad un'epurazione controllata in un clima di massacri, e costituisce quindi un notevole progresso per aver regolato per la prima volta a Roma l'eliminazione degli oppositori politici attraverso una procedura giudiziaria.

L'obiettivo di Silla. Lo scopo principale della prima proscrizione, benché nascosto sotto il più evidente obbiettivo dell'immediata eliminazione fisica dei nemici, si rivela nella sua interezza nella volontà di evitare la nascita di nuovi avversari politici, attraverso il ricorso ad una serie di misure che annientano non soltanto il proscritto ma tutta la sua gens. La proscrizione, e la conseguente damnatio memoriae, hanno avuto infatti un impatto tale da cancellare dai documenti storici non soltanto moltissimi nomi, ma anche la testimonianza dell'esistenza di intere gentes. È inoltre elemento degno di considerazione il fatto che siano stati tramandati soltanto 75 nomi su un totale di 520 proscritti, con l'ulteriore conseguenza che questo 15% dei proscritti non costituisce una minoranza rappresentativa, ma sia soltanto il risultato casuale di ciò che è stato fortuitamente tramandato.

Gli antecedenti. Secondo la testimonianza di Appiano, durante la guerra sociale, e quindi prima dell'82 a.C., con la prima marcia su Roma da parte di Silla nell'88 a.C., si verifica - in piccolo - un episodio che sembra prefigurare la prima proscrizione. Dunque, nell'88 a.C., secondo la testimonianza di Velleio Patercolo, Silla scacciò "XII auctores novarum pessimarunque rerum", i dodici principali responsabili di quel funesto rivolgimento politico, fra cui comparivano Mario, Mario il giovane e il tribuno Sulpicio. Plutarco riporta invece informazioni meno dettagliate, affermando che ad essere dichiarati hostes furono Mario e qualche altro. Appiano riporta invece con esattezza i nomi di nove dei dodici proscritti: "in quella circostanza era stato poi decretato che erano nemici dei Romani e che il primo venuto li uccidesse impunemente o li conducesse davanti ai consoli, Sulpicio, che era ancora tribuno, e con lui Mario che era stato sei volte console, e il figlio di Mario, e Publio Cornelio Cetego, Giunio Bruto, Gneo e Quinto Granio, Publio Albinovano, Marco Letorio, e altri, quanti con loro, erano circa dodici". A questi si aggiunge il nome di Quinto Rubrio Varrone ricordato da Cicerone nel Brutus. Le fonti ricordano poi che Silla aveva fatto approvare dal Senato una legge che dichiarava hostes publici i suoi avversari personali, vietando loro la permanenza nello stato romano, lasciandoli all'arbitrio di chiunque, che avrebbe potuto anche ucciderli, e ponendo il loro patrimonio sotto il sequestro dei questori. Inoltre, anche se questo episodio può essere inserito all'interno della propaganda sillana, le fonti sottolineano come sia un elemento significativo il fatto che la promulgazione di questa prima lista sia preceduta da un sogno profetico, in cui è la divinità stessa Enyo, che i Romani ricevettero dai Cappadoci, che autorizza Silla a punire i suoi nemici. La dea Enyo si identifica nella romana Bellona, divinità che interveniva in caso di guerra civile e che rispondeva al concetto di giusta vendetta, come la greca Nemesi. In questa luce è quindi significativo il luogo scelto nell'82 a.C. per la convocazione del Senato dopo la vittoria nella guerra civile. Infatti è nel tempio di Bellona che Silla annuncia la sua intenzione di dare inizio alla proscrizione.

L'immagine della prima proscrizione tramandata dalla tradizione. Nonostante l'indubbio valore della prima proscrizione, un'epurazione legalizzata rivolta verso un numero limitato di cittadini, in cui trova sfogo la violenza collettiva, per la prima volta canalizzata in un'unica e ben determinata direzione, l'immagine del fenomeno che è stata tramandata è quella di un periodo di terrore scatenato da un tiranno senza pietà per nessuno. L'immagine di Silla ha subìto, a causa della proscrizione, una deformazione in senso negativo paragonabile in qualche misura soltanto a quella subita da Annibale, l'hostis per antonomasia, con la creazione della figura del vincitore crudele che annega la propria vittoria in un bagno di sangue. Questa immagine del dittatore si è formata soltanto a partire dalla prima e dalla seconda generazione dopo Silla, prevalentemente a causa dell'accostamento della prima proscrizione alla proscrizione triumvirale del 43 a.C. Infatti, i testi pervenuti, che sono tutti posteriori alla seconda proscrizione, sono necessariamente influenzati da quest'ultima, per cui Silla oltre a essere contrapposto ad Augusto, il restauratore della res publica dopo anni di conflitti, si trova anche a soffrire del paragone con Antonio, a cui la propaganda augustea aveva attribuito l'intera responsabilità del fenomeno della proscrizione triumvirale. L'immagine di Silla tramandata dalla tradizione nasce quindi a partire da Sallustio, precisandosi attraverso i testi di numerosi autori, ovvero Cassio Dione, Appiano, Valerio Massimo, Pausania e soprattutto dalle Vite Paralleledi Plutarco, ed è inoltre rafforzata dalla scelta diametralmente opposta di clementia fatta da Cesare, l'erede della tradizione mariana, in seguito alla sua vittoria contro Pompeo.

Milo Infante, si ribellò a lista di proscrizione e fu ridimensionato. Il giudice: “Dequalificazione”. Il conduttore si era opposto al divieto di invitare i giornalisti del Fatto Quotidiano, di Libero e de Il Giornale, Riccardo Bocca dell'Espresso, ma anche Carlo Rienzi del Codacons, don Gino Rigoldi, persino Massimo Giletti e Bruno Vespa. Domenico Naso il 20 Aprile 2016 su Il Fatto Quotidiano. Pochi giorni fa, la Corte di Appello di Milano si è pronunciata in favore di Milo Infante, giornalista e volto noto Rai, accertando “la dequalificazione professionale subita dal 1° settembre 2011 al 31 marzo 2012” e condannando la Rai “ad assegnare all’appellante mansioni compatibili con la sua professionalità”, oltre al risarcimento danni. Una vittoria che peraltro non è nemmeno la prima: nel luglio 2014, infatti, un altro giudice aveva accertato che per due anni (maggio 2012-maggio 2014), Infante era stato lasciato senza incarico, pur percependo un regolare stipendio: altro risarcimento economico, altra richiesta di reintegro in mansioni equipollenti. Nel 2011 il giornalista conduceva L’Italia sul 2 con Lorena Bianchetti (dopo anni di conduzione al fianco di Monica Leofreddi). L’Italia sul 2 era un programma pomeridiano di infotainment, che passava dai temi della più stretta attualità politica ed economica al commento dei reality show. Il problema, però, è che l’allora vicedirettore di RaiDue Roberto Milone aveva stilato una lunga lista di giornalisti che non andavano assolutamente invitati. C’erano Marco Travaglio, Peter Gomez e tutti i giornalisti del Fatto Quotidiano, così come Alessandro Sallusti e i giornalisti de Il Giornale, Maurizio Belpietro e i giornalisti di Libero, Massimo Fini, Carlo Rienzi del Codacons, Riccardo Bocca dell’Espresso, don Gino Rigoldi, persino Massimo Giletti e Bruno Vespa. Di ospiti, però, nello studio de L’Italia sul 2 ce n’erano sempre tanti: peccato che si trattasse spesso di esponenti di Nuovi Orizzonti, comunità religiosa nonché casa editrice del libro dello stesso Milone “Per trenta denari”. Ed è qui che Milo Infante compie “l’errore” segnalando la vicenda ai suoi superiori (nello specifico all’allora direttore di RaiDue Pasquale D’Alessandro e al direttore generale Lorenza Lei). In cambio, Infante viene demansionato e relegato in spazi strettissimi del programma dedicati a reality show e temi ultraleggeri, lasciando a Lorena Bianchetti i blocchi “di peso”, quelli che affrontavano argomenti politici ed economici. Nel frattempo, il giornalista aveva segnalato all’allora direttore generale Gubitosi anche alcune anomalie su trasferte “allegre”, chiedendo una internal audit per esporre i fatti di cui era a conoscenza. Adesso Milo Infante ha interpellato un terzo giudice per rendere esecutive le due sentenze precedenti e probabilmente si arriverà quanto prima a un ritorno in video.

La lista M5S dei cronisti «nemici», il diritto di raccontare e far domande. Non si può chiedere a un giornale di chiudere gli occhi, Raggi ha fatto tutto da sola.  Luciano Fontana il 6 febbraio 2017 su Il Corriere della Sera. «Confezionatori seriali di menzogne», «campagna di fango contro la Raggi». Sono mesi che il blog di Beppe Grillo ed esponenti, più o meno di rilievo, del Movimento Cinque Stelle usano queste, e altre, frasi fatte per reagire alla tempesta politica e giudiziaria che investe la nuova amministrazione della Capitale. Un disco rotto, un refrain che l’Italia conosce bene: l’abbiamo ascoltato da tanti partiti, almeno dal 1992 in poi. La migliore risposta che un giornale come il Corriere può dare è continuare a fare bene il proprio mestiere. Ovvero: informare con scrupolo e obiettività i lettori, senza pregiudizi e senza distinguere tra presunti amici e nemici. C’è qualcosa però di stonato nelle dichiarazioni che arrivano ogni giorno dal M5S, con anatemi che vogliono colpire individualmente i giornalisti «nemici». Siamo arrivati alle liste di proscrizione dei mezzi d’informazione e dei cronisti. L’ultima puntata è la lettera di denuncia all’Ordine dei giornalisti da parte di Luigi Di Maio con tanto di elenco dei professionisti colpevoli, a suo dire, di diffamare il Movimento Cinque Stelle (tra loro le nostre Fiorenza Sarzanini e Ilaria Sacchettoni). Come se ci fosse un Eldorado politico e amministrativo dei Cinque Stelle turbato solo dai «pennivendoli». Messi ai margini questi ultimi, tutto tornerebbe perfetto.

L’elezione e le prime scelte anonime. Proviamo allora a raccontare cosa è accaduto dal giugno scorso quando Virginia Raggi è diventata sindaca di Roma con il risultato più largo dall’introduzione dell’elezione diretta nelle città. I festeggiamenti per l’incoronazione del candidato anticasta erano ancora in corso e già si avvertiva il rumore di fondo della battaglia interna al mondo grillino della Capitale, con una fronda consistente guidata dall’onorevole Roberta Lombardi. Non è un caso che mentre l’altra star dei Cinque Stelle, Chiara Appendino, forma rapidamente la giunta comunale di Torino, a Roma i giorni passano e le scelte non arrivano. E quelle che arrivano, i fedelissimi Daniele Frongia a capo di Gabinetto e Raffaele Marra a vicecapo di Gabinetto, vengono revocate in appena dieci giorni. Il primo passa al ruolo politico di vicesindaco, il secondo viene spostato alla direzione del Personale. Raffaele Marra è un personaggio che ha tutte le caratteristiche per risultare indigesto alla base grillina: dirigente con il precedente sindaco Gianni Alemanno e nell’amministrazione regionale di Renata Polverini, racchiude in sé tutti i tratti di un mondo che i Cinque Stelle avevano giurato di voler spazzare via. Ma fa parte del «raggio magico». La sindaca subisce i diktat di Grillo ma non ha alcuna intenzione di rinunciare ad averlo al suo fianco. Vita ugualmente tormentata per Daniele Frongia. Il primo passo di lato non basta. Pochi mesi dopo dovrà abbandonare anche la poltrona di vicesindaco.

Falsa partenza e dimissioni a raffica. La falsa partenza non si ferma però qui. L’estate riserva ancora i casi del nuovo capo di Gabinetto, la magistrata Carla Romana Raineri, che abbandona dopo che la Raggi ha chiesto un parere sul suo contratto all’Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone, del superassessore al bilancio, Marcello Minenna, dell’amministratore dell’Azienda per i rifiuti Ama e del direttore generale dell’Atac (tutti dimissionari).Basta così? No, accetta e subito lascia dopo due giorni il nuovo assessore al Bilancio Raffaele De Dominicis, indagato per abuso d’ufficio (una vicenda non collegata al Comune di Roma). Esplode la vicenda di Salvatore Romeo, assunto con uno stipendio triplicato come capo della segreteria politica e rimasto in carica con una decurtazione dopo il parere del solito Cantone. Abbandona il suo incarico di assessore all’Ambiente Paola Muraro, indagata dalla Procura in un’inchiesta sulla gestione dei rifiuti. Muraro e la sindaca lo sapevano da mesi ma si erano guardate bene dal renderlo pubblico.

Quei «quattro amici al bar». Purtroppo non è finita qui. Raffaele Marra, a metà del dicembre scorso, viene arrestato su richiesta della Procura per una vicenda precedente al suo ruolo nell’amministrazione Raggi. Tre dei «quattro amici al bar», la chat riservata utilizzata da Marra, Frongia e Romeo per scambiare messaggi con la sindaca e decidere incarichi e progetti del Comune, sono a vario titolo nell’angolo. Inizia la stagione degli interrogatori, dei veleni, delle battaglie sotterranee. Con la curiosa vicenda delle polizze vita sottoscritte da Romeo con beneficiaria, in caso di morte, Virginia Raggi. Nessun reato, secondo quanto avrebbero accertato gli inquirenti. Deciderà il giudice ma alcune domande sulla stranezza della cosa sono o no legittime? Oppure è vietato porsele, insieme a milioni di cittadini, come vorrebbero i grillini e qualche giornale amico? Non ci addentriamo, perché sarebbe troppo lungo, nelle guerre interne ai Cinque Stelle romani con i sospetti di un’azione di screditamento di Marcello De Vito, rivale della Raggi nella corsa alla candidatura del Movimento per il Campidoglio.

Su Roma non chiuderemo gli occhi. Potrebbe sembrare una telenovela, se non fosse che riguarda la Capitale d’Italia. Sia chiaro: nessun rimpianto per i precedenti sindaci e le passate amministrazioni. E tutta l’attenzione dovuta alle novità positive (come i tempi veloci con cui è stato redatto il bilancio preventivo del Comune) che la Raggi e la sua giunta sapranno mettere in campo. Ma non si può chiedere a un giornale di chiudere gli occhi davanti ai fatti. È stato così, per il Corriere e i suoi giornalisti, quando alla guida di Roma c’erano altri partiti. È stato così in tutte le indagini e le vicende politiche nazionali. Senza doppi pesi e misure e casacche di schieramento da tutelare. Virginia Raggi, la sua giunta, i suoi sostenitori hanno fatto tutto da soli, compreso immergersi in un po’ di fango. Per inesperienza, libera scelta o motivi a noi sconosciuti. Aspettiamo le prossime puntate per capire.

Berlusconi: nessuna lista di proscrizione. Sara Bianchi su Il Sole 24 ore il 24 ottobre 2005.  Silvio Berlusconi alza i toni dello scontro politico sui media, accusa RockPolitik di avercela con lui, ma valuta l'opportunità di partecipare alla trasmissione di Adriano Celentano. Le sue considerazioni, il Presidente del Consiglio, le affida ad alcune anticipazioni dell'ultimo libro di Bruno Vespa in cui sostiene che RockPolitik «è solo l’ultimo episodio di un sistema di comunicazione, televisiva ma anche stampa, che dal 2001 ha sistematicamente attaccato l’operato del Governo e il presidente del Consiglio». Prosegue Berlusconi: «Non c'era bisogno di Adriano Celentano per avere ventate di libertà in televisione. Basta guardare ogni giorno i canali Rai per vedere battute contro il Presidente del Consiglio da parte di Serena Dandini e Sabina Guzzanti, Gene Gnocchi ed Enrico Bertolino, Dario Vergassola, Corrado Guzzanti e altri che cerco di non tenere a mente. Oltre a Rockpolitik».  Il Ministro delle Comunicazioni Mario Landolfi si dice d'accordo con il Premier. Il leader dell'Unione Romano Prodi attacca: «Ricominciano le liste di proscrizione, come dopo Sofia». E su quanto detto dal Presidente del Consiglio commenta: «Al di là di queste parole che mi sembrano ridicole, Silvio Berlusconi è l'unico imprenditore che si lamenta della sua azienda e fa sempre più soldi». Il Presidente emerito delle Repubblica Francesco Cossiga critica Silvio Berlusconi e denuncia il suo poco senso dell'umorismo: «In ogni Paese la satira prende di mira chi sta al governo. Lui è pure il settimo uomo più ricco del mondo, troppo fortunato, perciò diventano più cattivi. Io glielo avevo detto di scrivere a Celentano per ringraziarlo. Per le belle canzoni e per aver provato che pure Rai 1 è anti-Berlusconi. Ma lui nega di essere il padrone delle tv. Così finisce cornuto e mazziato». Giuseppe Giulietti, capogruppo Ds in Commissione di Vigilanza Rai sottolinea: «Le urla e le minacce di questi giorni servono anche a coprire il disastro di questi anni e a preparare il terreno per l'ultima legge truffa: l'eliminazione di quel poco che ancora resta della par condicio». Anche il segretario Ds Piero Fassino puntualizza: «Penso che il dibattito che si è aperto rischi di occuparsi di una questione delicata e importante soprattutto nel momento in cui Berlusconi cerca di alterare la legge sulla par condicio. Si tratta di una operazione che va respinta nel modo più assoluto». Avverte il Presidente della Commissione di Vigilanza Rai, Paolo Gentiloni: «Un Presidente del Consiglio non deve compilare liste di giornalisti o artisti graditi. Tanto meno può farlo un Premier che è proprietario, attraverso la sua famiglia, della maggiore tv commerciale e che attraverso la maggioranza di governo controlla la tv pubblica». E Silvio Berlusconi precisa: «Nessuna lista di proscrizione. Ho soltanto osservato, in risposta ad una domanda per un libro che uscirà in dicembre, che mi sembrava esagerato l'entusiasmo con cui era stata accolta e salutata la puntata di Rockpolitik». Prosegue il Premier: «Casomai il catalogo delle occupazioni televisive di una sinistra che prima incassa i risultati e che poi ci accusa falsamente di controllare tutte le reti, che grida ogni giorno senza fondamento al regime sulla televisione e sulla stampa, che deforma e ribalta scientificamente la realtà». «Tutte accuse - afferma Berlusconi - alle quali non può certo credere chi conosce o ha seguito da spettatore o da lettore la mia attività di editore liberale, e che perciò sa bene come io mi sia sempre ispirato ed attenuto a principi di assoluta libertà».

Da Forattini alle liste nere Rai Quando la censura è di sinistra. D’Alema chiese al vignettista 3 miliardi di danni, poi definì i giornalisti «jene dattilografe». Prodi diede l’ostracismo al Tg4 e adesso vuole chiudere i siti Internet che lo prendono in giro. Giuseppe Salvaggiulo, Venerdì 28/10/2005, su Il Giornale. Vuoi mettere la censura di sinistra? Quanto quella di destra è roboante e goffa, tanto questa è strategica ed efficace. Quella lenta, questa rock. E funziona anche dall’opposizione. Nel marzo di quest’anno, impedisce che la trasmissione Punto e a capo di Raidue trasmetta un servizio sugli sprechi di cinque Regioni, tra cui la Toscana. Il governatore Ds Claudio Martini chiama il presidente della Commissione di Vigilanza, il ds Claudio Petruccioli che telefona alla direzione generale. I Ds presentano un’interrogazione parlamentare. «Ho ricevuto pressioni inaudite per tutta la giornata», denuncia il conduttore Giovanni Masotti prima di arrendersi. Gustavo Selva (giornalista, oggi deputato di An) ricorda l’ostracismo che subì nella Rai del 1992 il suo programma «La notte del comunismo»: «Fu dura farla accettare al Cda. E comunque i membri di area Pci chiesero e ottennero che, dopo la prima puntata, fosse relegato in terza serata». Tutori indefessi della libertà di stampa, ma solo se la minacciano gli avversari. All’indomani della vittoria del 1996, Roberto Morrione, giornalista e responsabile della campagna elettorale dellUlivo, annuncia: «Alla Rai bisogna fare giustizia. Sì, giustizia è la parola giusta. Deve pagare chi ha distrutto la Rai, il gruppo dirigente che l’ha governata dal 1994». Segue lista di proscrizione. Morrione è ora direttore di RaiNews24. Pochi mesi dopo, il premier Romano Prodi va in visita a New York. Una giornalista lo avvicina per una dichiarazione. Prodi si avvicina cortese. Lei si presenta: «Sono del Tg4». Lui scuote la testa e si dilegua nell’ascensore: «No, il Tg4 no. Ne ho avuto già abbastanza». Il direttore Emilio Fede mostra le immagini in tv: «Nessun capo del governo si sarebbe mai permesso di trattare così una giornalista». Paladini della satira, purché non prenda in giro i compagni. Nel 1997, il direttore del Manifesto Valentino Parlato censura una vignetta di Vauro, ritenendola troppo offensiva nei confronti del segretario della Cgil, Sergio Cofferati. Due anni dopo, il premier DAlema querela Forattini e chiede tre miliardi di lire di danni per la vignetta che lo ritrae intento a sbianchettare i nomi del dossier Mitrokhin. Forattini è costretto a lasciare La Repubblica dopo 23 anni. La querela sarà ritirata nel 2001. Qualche mese fa, Prodi ha chiesto la chiusura di due siti satirici che lo riguardano a mezzo raccomandata del suo avvocato. Profeti della «schiena dritta», ma pronti a piegarla a chi alza la testa. Nel 93, il segretario del Pds Achille Occhetto va a Lisbona all’Internazionale socialista. Sull’aereo ci sono due inviati del Giorno e della Stampa, che pubblicano le sue critiche ai pm di Mani pulite. Occhetto accusa le due testate di aver ordito «una provocazione ai danni del Pds». L’Ordine dei giornalisti apre un fascicolo. Nel 1991, D’Alema querela Panorama e si sfoga: «Basta con queste storie sui politici: io accompagno mia figlia a scuola con una Fiat Tipo e vivo in 110 metri quadri». Ma quattro anni dopo l’inchiesta «Affittopoli» de il Giornale rivela che anche D’Alema beneficia di un appartamento pubblico a canone irrisorio. L’interessato, non potendo smentire, si accontenta di definire il direttore Vittorio Feltri «un mascalzone». Poi annuncerà in tv di voler rinunciare al privilegio. Nel 1997, il Pds celebra il suo congresso nazionale al Palaeur di Roma. I giornalisti sono tenuti lontani dai delegati e confinati in una specie di bunker. Fabrizio Rondolino, portavoce di D’Alema, suggerisce di provvedere. D’Alema gelido: «Si abitueranno». Del resto l’opinione di DAlema sulla categoria è tutta nella definizione «jene dattilografe». Nel 1997, si scatena contro il Corriere della Sera per gli articoli sulla sua strategia sindacale. Prima una smentita, poi un esposto all’ordine dei giornalisti in cui chiede sanzioni per i cronisti e il direttore Ferruccio de Bortoli, infine una querela con richiesta di risarcimento di due miliardi. De Bortoli risponde con un corsivo in prima pagina: paragona l’arroganza di DAlema a quella di Craxi e lo accusa di avere «l'abitudine, quando legge qualcosa di sgradevole, di rivolgersi agli azionisti». Di querele D’Alema se ne intende. Quando dirigeva l’Unità, ne prese una dal presidente del Consiglio Ciriaco De Mita per un articolo intitolato «De Mita si è arricchito con il terremoto». Interrogato dal Pm, rivendicò la paternità del titolo e «le ragioni della pubblicazione del servizio». Era il 1988.

Forattini e la lista Mitrokhin. Difesadellinformazione.com. Nel settembre 1999 viene pubblicato in Italia “L’archivio Mitrokhin”, un libro scritto dallo storico inglese Christopher Andrew. Il libro parla di un archivista del Kgb, Vassili Mitrokhin, che negli anni ’80 avrebbe copiato numerosi documenti segreti sull’attività svolta all’estero dall’ex servizio segreto sovietico, poi venduti agli inglesi. Secondo il libro, dai documenti emergerebbe che numerose spie agivano al soldo del Kgb informandolo su varie attività svolte nei propri paesi. In Italia, questo ruolo sarebbe stato svolto prevalentemente da funzionari del Pci, soprattutto negli anni ’70 e ‘80. Lo scandalo scoppia nell’ottobre 1999, quando da più parti si chiede che i nomi italiani della “lista Mitrokhin” vengano resi pubblici. Capo del Governo è Massimo D’Alema, al quale viene chiesto di fare piena luce sulla vicenda. Questi parla di strumentalizzazione politica e invoca il segreto istruttorio, poiché nel frattempo il dossier è stato consegnato ai magistrati della Procura di Roma. Il centrodestra fa pressione su D’Alema accusandolo di voler nascondere i nomi. Alla fine D’Alema cede e l’11 ottobre consegna il dossier alla Commissione Stragi, la quale decide all’unanimità di renderlo pubblico dopo aver chiesto e ottenuto il nulla osta della Procura di Roma. Alla fine, la lista viene pubblicata dai giornali, ma parzialmente. Lo stesso 11 ottobre il quotidiano “La Repubblica” pubblica in prima pagina una vignetta di Forattini. La vignetta ritrae Massimo D’Alema seduto alla scrivania, con alle spalle un ritratto di Marx, intento a usare il “bianchetto” su un lungo rotolo di carta. Dall’esterno qualcuno bussa alla porta chiedendo “Allora, arriva ‘sta lista?”, e D’Alema, imbarazzato e affaticato, risponde “Un momento! Non s’è ancora asciugato il bianchetto!”. Massimo D’Alema giudica la vignetta gravemente lesiva della sua reputazione e cita in giudizio Forattini dinanzi al Tribunale di Roma, chiedendo un risarcimento di 3 miliardi di (vecchie) lire. Ma nel 2001 D’Alema rinuncia alla domanda. La rinuncia viene accettata da Forattini. (Trib. Roma, processo estinto nel 2001 per rinuncia agli atti del giudizio).

La vignetta rientra nel diritto di satira, se si considera la dimensione pubblica di Massimo D’Alema all’epoca dei fatti. Da più parti D’Alema, allora capo del Governo, subiva pressioni perché rendesse pubblica la lista dei nomi contenuti nel dossier Mitrokhin. Ragioni di opportunità politica lo indussero a ritardare il più possibile quel momento. Ragioni determinate soprattutto dal fatto che tra i nomi della lista comparivano quelli di leader di forze politiche facenti parte della compagine governativa. La raffigurazione di D’Alema intento a temporeggiare mentre “sbianchetta” alcuni nomi dalla lista costituisce un ottimo esempio di come la satira può legittimamente storpiare i fatti. Se D’Alema capo del Governo ha seri motivi politici per impedire la pubblicazione della lista Mitrokhin, ecco che nella vignetta, sollecitato da chi bussa alla porta chiedendogli la lista, arriva paradossalmente ad adoperare il più grezzo e maldestro dei metodi, pur di evitare che elementi del proprio governo finiscano nel fuoco delle polemiche. La naturale ritrosia manifestata da D’Alema capo del Governo a rendere pubblica la lista, nel tentativo di impedire che alcuni di quei nomi cadano in pasto all’opinione pubblica, viene nella vignetta di Forattini storpiata con il ricorso all’uso del bianchetto. E’ agevole notare, quindi, come il messaggio contenuto nella vignetta di Forattini sia in stretta coerenza causale con la dimensione pubblica di D’Alema così come arricchitasi per effetto dello scandalo Mitrokhin. D’Alema era da più parti accusato di non voler pubblicare la lista solo perché preoccupato dalla presenza in essa dei nomi di alcuni aderenti al vecchio Pci. Se è indiscutibile, quindi, che D’Alema abbia mai materialmente usato il bianchetto per occultare alcuni nomi scomodi che figuravano nella lista, tale raffigurazione rappresenta, in termini satirici, la resistenza di D’Alema nel rendere pubblica l’intera lista solo perché preoccupato di nascondere alcuni di quei nomi. Resistenza che, manifestata pubblicamente e a più riprese, ha contribuito a specificare in quel determinato contesto la sua dimensione pubblica. Sensata, quindi, la decisione di Massimo D’Alema di rinunciare agli atti del giudizio, soprattutto considerando che con ogni probabilità il Tribunale di Roma avrebbe respinto la sua richiesta di risarcimento, riconoscendo il diritto di satira.

Raimo e la lista di proscrizione: un estremista consulente del Salone del libro. Giorgio Nigra il 4 Maggio 2019 su ilprimatonazionale.it. Nel comitato direttivo del Salone del libro di Torino, il più importante evento culturale italiano, figura un teorizzatore della riduzione degli spazi per i nemici ideologici, dell’antifascismo militante, della “vendetta” politica e del “menare forte” i fascisti, termine in cui del resto egli include l’intero universo sovranista. Il suo nome è Christian Raimo. L’edizione 2019 dell’evento torinese, in  programma dal 9 al 13 maggio, parte sotto questi auspici: liste di proscrizione e chiamate alle armi antifasciste.

Il caso Altaforte. Galeotto fu il libro di Chiara Giannini, che ha intervistato Matteo Salvini in un saggio in uscita per i tipi di Altaforte (Io sono Matteo Salvini, che uscirà proprio in occasione della kermesse torinese, nella quale la casa editrice avrà un suo stand). Capita, tuttavia, che nell’Italia del 2019 persino un’intervista al vicepremier e ministro degli Interni possa essere scambiata per un attentato alla democrazia. Allarmato da questa intollerabile provocazione (una casa editrice al Salone del libro, dove andremo a finire), il direttore dell’evento, lo scrittore Nicola Lagioia, ha scritto su Facebook una lunga supercazzola per spiegare che, purtroppo, pare che la censura bella e buona e la selezione politica preventiva degli espositori sia ancora impraticabile, spiegando però che negli stand non sarà consentito fare campagna elettorale. Peccato che nessuno avesse intenzione di farla. In calce al lungo intervento, figura l’elenco completo dei nomi di chi siede nel comitato editoriale della kermesse. Tra cui c’è anche lo scrittore e giornalista Christian Raimo, che del resto, sulla sua pagina, ha condiviso lo status e rilanciato con un suo alluvionale commento, poi fatto sparire e si capisce bene perché.

Il delirio di Raimo. Il succo del discorso è che “i neofascisti si stanno riorganizzando”, ovviamente sotto l’egida di Salvini. Del resto “i neofascisti si sono presi sempre di più uno spazio egemonico nel dibattito pubblico”. Dopo aver deplorato che “Acca Larentia o la commemorazione di Ramelli da roba per sfigati (sic) sono diventati luoghi cool”, Raimo lancia la sua personale lista di proscrizione: prima spiega che a Pietrangelo Buttafuoco “non gli darei tutto questo spazio” al Salone del libro. Poi dichiara che “Alessandro Giuli, Francesco Borgonovo, Adriano Scianca, Francesco Giubilei, tutti i giorni in tv, sui giornali, sostengono un razzismo esplicito”. Un vero elenco di nemici del popolo da epurare, o forse da colpire fisicamente, dato che il lungo post si intitola “l’antifascismo è militante o non è”. E quali siano i metodi dell’antifascismo militante, del resto ampiamente rivendicati da Raimo, lo sappiamo bene. Alcuni dei citati – nessuno dei quali, a nostra memoria, ha mai sostenuto alcun razzismo, implicito o esplicito – hanno già annunciato querela nei confronti di Raimo. Si capisce, quindi, perché lo status sia scomparso. Giova ricordare, per inquadrare questo post nel suo contesto, che qualche mese fa Raimo aveva scritto, a proposito di Marcello Foa e del potere gialloverde: “Ma presto, sono convinto, arriverà non l’opposizione, non la critica, non il contrasto, non il conflitto. Presto arriverà la vendetta e sarà spietata”. La stessa persona, nell’agosto del 2017, poneva queste parole a corredo di un video: “Quest’intervista di Christopher Hitchens a un suprematista e a un membro del Ku Klux Klan è un pezzo di giornalismo esemplare. Con una dialettica rigorosa Hitchens smonta le contraddizione dell’ideologia fascista. È così con i fascisti, o hai l’intelligenza e l’applicazione di Hitchens e li umili, oppure li meni forte”. Giova ricordare che per Raimo “fascisti” sono tutti i sovranisti e populisti, ovviamente. Tutti da “menare forte”.

Il Salone del Libro deve prendere le distanze. Il Salone Internazionale del Libro di Torino può tollerare nel suo comitato editoriale una persona con queste idee e questa concezione del dibattito pubblico? Lo chiediamo soprattutto agli enti che sostengono l’evento e che, da sito ufficiale, sono: Regione Piemonte, Città di Torino, Compagnia di San Paolo e Fondazione CRT, MiBAC Centro per il libro e la lettura, Associazione delle Fondazioni di origine bancaria del Piemonte, Italian Trade Agency ICE – Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, Fondazione Sicilia e Fondazione con il Sud,  Direzione Generale Cinema del Ministero dei beni e delle attività culturali. Da loro gradiremmo avere una risposta.

 Gad Lerner torna su Rai 3, alla faccia del "regime fascista". Si chiamerà "L'Approdo" il nuovo programma del conduttore che da tempo attacca il governo ed il regime fascista, che non esiste. Panorama il 21 maggio 2019.

"Questa destra di oggi strizza l'occhio all'iconografia del fascismo perché questa sua retorica di prima gli italiani è antica”. (3.6.2018)

“Sentono di essere protetti. Hanno legami dichiarati con il ministero dell’Interno, sono ammiratori di Salvini. Il Capitano trova tra loro militanti che come Luca Traini a Macerata stanno tra Forza Nuova e la Lega, e possono spostarsi indifferentemente perché la matrice culturale è molto simile”, (28.3.2019)

“Salvini, uno che dileggia i migranti della Diciotti è una merda umana” (19.12.2018)

Gad Lerner negli ultimi 12 mesi ha detto questo ed altro. Obiettivo il Governo, soprattutto Matteo Salvini, ed il "regime fascista" che starebbe dilagando in questo paese. Da ieri è ufficiale il suo ritorno a Rai 3, con un nuovo programma, titolo: "L'approdo". Sappiamo che la scenografia avrà al centro il relitto di un barcone usato dai migranti. Sappiamo che la prima puntata sarà sulla (e contro, scommettiamo?) la Lega e Salvini. Cose che non ci interessano. Il programma sarà giudicato solo dagli ascolti e dai telespettatori (nella speranza per l'azienda pubblica che Lerner possa avere risultati migliori rispetto alle ultime fallimentari esperienze tv). Quello che conta è un'altra cosa, una semplice domanda? Dove sarebbe il "regime fascista"? Dov'è se uno dei più noti nemici del regime ottiene un programma in prima serata dove (siamo certi) attaccherà a mani basse, difendendo e diffondendo la sua opinione? Dov'è il regime che permette allo stesso Lerner di andare da un altro "nemico del regime", Fabio Fazio, a parlare del suo programma e a ripetere le sue opinioni per 14 minuti in prima serata? Dov'è? La risposta è molto semplice: non c'è. Non esiste alcun regime. In Rai e nel paese. Esistono si anime ed opinioni diverse. Ma ognuno ha la libertà di raccontare e dire la sua, senza alcuna limitazione. Sarebbe ora che, almeno su questo, Lerner avesse il coraggio di dire la verità.

Dagospia il 21 maggio 2019. Riceviamo e pubblichiamo da Gad Lerner: Ciao Roberto, vedo che a La Verità insistono sulla mia lista di proscrizione di cui avete pure scritto voi su Dagospia... ma allora non sarebbe giusto pubblicare il mio articolo (tanto è breve) anziché riferirlo con parole farlocche? Ne approfitto per ricordarti che a Rai3 collaboro da anni, non sono stato reclutato adesso, e che L'Approdo non sarà un talk. Saluti e baci, Gad.

Gad Lerner per ''il Venerdì - la Repubblica'' il 21 maggio 2019. Vorrei compilare qui, a futura memoria, una lista di proscrizione meramente simbolica, non avendo io né il diritto né il potere di mettere al bando chicchessia, e tanto meno d’intromettermi nelle scelte degli autori a cui dobbiamo l’ossessiva, pluriquotidiana comparsata televisiva di certi personaggi. Lo so, parlare di lista di proscrizione risulta odioso. Ma io non temo di apparire tale, se questo è il prezzo da pagare per lasciare quei nomi qui depositati nero su bianco. Nella serena certezza che nessuno gli farà del male per causa mia, anzi, si compiaceranno del mio dispetto così come del plauso entusiasta di chi vede in loro il ritratto ideale dell’anticonformista, eretico, scorretto perché vicino al popolo. Il fatto è che nell’ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali del 1938, sono andato a leggermi gli articoli e a guardare le vignette dei giornalisti che già negli anni precedenti avevano cominciato a martellare l’opinione pubblica sulla pericolosità degli ebrei, dei massoni, dei negri e dei meticci. I loro nomi sono tuttora evocati con ammirazione dall’intellighenzia filogovernativa: Telesio Interlandi, Giovanni Preziosi, Giorgio Almirante, Julius Evola…Certo, vi concederanno, come tra V parentesi, in un breve inciso, che costoro si macchiarono di antisemitismo, per poi tornare subito a insistere sul valore letterario e sul talento giornalistico e sull’impianto filosofico del loro profilo. Il perché non mi è stato difficile scoprirlo: perché il linguaggio e gli argomenti adoperati da quei propagandisti del razzismo italiano novecentesco sono uguali identici a quelli adoperati dai loro epigoni contemporanei. Il ricorso allo scherno e alla provocazione satirica, il rappresentare deformi e viziosi i bersagli etnici prescelti, l’accreditarsi come coraggiosi nemici dei poteri forti, un po’ sfrontati antielitari estranei alla cultura ufficiale, furono tratti caratteristici che favorirono il successo di quei loschi individui. Ebbene, lasciatemelo dire, infine: i vari Paolo Del Debbio, Giuseppe Cruciani, Mario Giordano, Maurizio Belpietro, Vittorio Feltri più altri epigoni minori, non sono forse i Telesio Interlandi, Giovanni Preziosi, Giorgio Almirante, Julius Evola, ovvero i difensori della razza dell’Italia di oggi? Un applauso alla loro temerarietà, tanto i posteri non gliene chiederanno mai conto. P.S. Le carogne che dirigono il Venerdì avrebbero voluto intitolare questa rubrica Comunista col Rolex. Ma io resto un infedele (con il naso adunco).

Giampiero Mughini per Dagospia il 21 maggio 2019. Caro Dago, vedo che Gad Lerner ci tiene a far conoscere per intero l’articoletto che aveva scritto per il “Venerdì” e che aveva suscitato qualche turbamento tra noi cittadini repubblicani inclini alla tolleranza e al rispetto per chi la pensa diversamente da noi. Lerner invita a leggerlo riga per riga, parola per parola, nome per nome. L’ho fatto e ne sono rimasto allibito, allibito da tali porcate intellettuali degne di un semianalfabeta. Ossia compilare una lista di alcuni presunti energumeni del fascismo e del razzismo – Interlandi, Preziosi, Evola, Almirante – e definirli comparabili ad alcuni presunti energumeni di convinzioni nel presente che non piacciono a Lerner – Del Debbio, Giordano, Belpietro, Cruciani, Vittorio Feltri. Ancora ancora si possono giustificare dei ragazzi della scuola media che tentano una comparazione tra le orride leggi razziali del 1938 e il decreto sulla sicurezza del 2019 targato Matteo Salvini. Sono dei ragazzi per l’appunto, inevitabilmente inclini alla semplificazione intellettuale, ancora ignari dell’arte dell’interpretazione storico-politica che sta all’opposto dell’enunciazione di parte. Ma che un presunto intellettuale faccia degli elenchi talmente sfacciati e idioti, lascia di stucco. Quanto agli energumeni degli anni Trenta, già è uno sbraco mettere assieme Preziosi e Evola. Preziosi era un farabutto intellettuale, uno dei pochi antisemiti calzati e vestiti del nostro Novecento, e del resto le sue colpe le ha pagate buttandosi giù dal balcone assieme alla moglie. Evola è tutt’altro personaggio, a cominciare dalla sua cruciale esperienza di pittore dadaista. Da saggista ha scritto alcuni libri di gran calibro, che in Italia gli pubblicava un editore adamantino quale Vanni Scheiwiller. Il suo “Metafisica del sesso” è un testo che non dovrebbe mancare in nessuna biblioteca personale degna di questo nome. Così come non dovrebbe mancare in questa biblioteca l’eventuale libro di chi avesse raccontato l’intreccio di rapporti editoriali e intellettuali al cui centro stava il Telesio Interlandi degli anni Trenta, direttore di giornali che hanno ospitato il fior fiore della nostra cultura, un libro che Leonardo Sciascia avrebbe voluto scrivere se non lo avesse ucciso un raro tumore del sangue. Quanto a Giorgio Almirante non c’entra nulla con tutto questo. Era un ragazzotto che debuttò nel quotidiano di Interlandi dove gli era accanto il mio carissimo Antonello Trombadori, futura medaglia d’argento al valor militare della Resistenza. L’Almirante del dopoguerra, quello che conta, è un tutt’altro personaggio. Ma quella che è pazzesca solo ad averla pensata è la lista dei reprobi del presente. Che c’entra Cruciani con Del Debbio, e a parte il fatto che sono entrambi miei amici, persone da cui posso dissentire cento volte ma rispettarli tutte e cento le volte? Di che cosa è accusabile un bravissimo giornalista come Belpietro, se non di avere idee diverse da quelle di Lerner? E quale abisso di settarismo e fanatismo è necessario per raffrontare personaggi abissalmente distanti come Vittorio Feltri e Preziosi. E quanto a Mario Giordano, sono più le volte che duelliamo che non le volte che concordiamo, il che non toglie nulla al fatto che quando lo incontro su un set televisivo lo saluto e lo abbraccio. Mai e poi mai avrei creduto che nel terzo millennio qualcuno potesse fare delle liste di proscrizione talmente sciatte e sciagurate.

Replica di Gad Lerner: Caro Mughini, nel mio semianalfabetismo intriso di fanatismo settario ho letto la biografia piena di ammirazione che hai dedicato a Telesio Interlandi, fondatore e direttore de "La difesa della razza" nella prima edizione Rizzoli. Mi auguro che ristampandola per Marsilio tu abbia approfondito i tratti cruciali del suo spregevole razzismo, che francamente mi parevano diluiti nel profilo encomiastico da te tracciato. Del resto, lo sappiamo, Interlandi è morto nel suo letto nel 1965 dopo essere rientrato in possesso del suo cospicuo patrimonio. A questo tipo di indulgenza e reticenza postbellica facevo riferimento nel mio articoletto. Convengo che la levatura intellettuale degli epigoni odierni non sia comparabile a quella dei difensori della razza novecenteschi. Ma ti assicuro che se andassi a riprendere certi titoli di prima pagina o certe invettive radiofoniche e televisive in cui si sono dilettati negli ultimi anni i direttori da me citati, la somiglianza con i testi de "La difesa della razza" apparirebbero anche a te notevoli. Pur nel mutato contesto storico. Un saluto cordiale, Gad Lerner

Controreplica di Mughini: Caro Dago, vedo che Gad Lerner scrive di avere letto a suo tempo “la mia biografia piena di ammirazione per Telesio Interlandi”. Deve star confondendo il mio libro con quello di qualcun altro. Lo sfido a riferire una pagina, una riga, un aggettivo di quel libro da cui trasudi “ammirazione” per Interlandi. Su tutto possiamo avere idee e valutazioni diverse, non su quel che è davvero un libro, la sua fisionomia, le sue caratteristiche, la sua verità.

LOFFA CONTINUA. Maurizio Belpietro per ''La Verità'' il 18 maggio 2019. Chi sia stato in Lotta Continua, ossia in un movimento da cui uscirono molti dei protagonisti degli anni di piombo, dovrebbe maneggiare con cura le parole, anche perché le parole stampate sul giornale del gruppo della sinistra extraparlamentare poi si trasformarono nelle pallottole che assassinarono il commissario Luigi Calabresi. Ma Gad Lerner, che di Lotta Continua fu uno dei principali leader e di quel quotidiano fu vicedirettore, nonostante l' età, non pare avere imparato niente da quella stagione e ancora oggi, a molti anni di distanza dall' agguato al funzionario della Digos milanese, per il quale furono condannati il capo di Lc e alcuni militanti, continua imperterrito a impartire lezioni cariche d' odio. L'ultima l'ha vergata questa settimana sulVenerdì, il settimanale del quotidiano La Repubblica. L' incipit del testo è il seguente e consente fin dall' inizio di capire con che genere di personcina tollerante si abbia a che fare: «Vorrei compilare qui, a futura memoria, una lista di proscrizione». Lerner lo definisce un elenco meramente simbolico, perché, mentre si appresta a lanciare il sasso, già coraggiosamente preferisce nascondere la mano affinché qualcuno non lo reputi penalmente responsabile di ciò che sta scrivendo. Il simpatico collega compila un catalogo di persone da proscrivere, ossia - come spiega il dizionario Zanichelli - da esiliare, bandire, cacciare, deportare o confinare, e però aggiunge che lui non ha il potere di mettere al bando chicchessia. Cioè Lerner sta chiedendo «l' eliminazione» (vedi Dizionario Garzanti) di un certo numero di persone, ma mette le mani avanti precisando di non avere il diritto di farlo e dicendosi certo che «nessuno gli farà del male a causa mia». Anzi, i tipi che sta per menzionare, saranno felici di essere citati nella sua rubrica e «si compiaceranno del mio dispetto così come del plauso entusiasta di chi vede in loro il ritratto ideale dell' anticonformista, eretico, scorretto perché vicino al popolo». Il preambolo, in cui Lerner mostra quanto sia elevata la considerazione che ha di sé («si compiaceranno d' essere messi nella mia lista»), serve a introdurre l' argomento, ossia gli intellettuali del regime. Quello mussoliniano, quello che nel 1938 introdusse le leggi razziali. Giornalisti e scrittori che rispondono al nome di Telesio Interlandi, Giovanni Preziosi, Giorgio Almirante, Julius Evola. Ma non è di loro che Lerner vuole parlare. I loro nomi servono solo per evocare le campagne del Minculpop, il ministero della cultura popolare nell' epoca del Ventennio. Negli anni, questi scrittori e giornalisti «martellarono l' opinione pubblica sulla pericolosità degli ebrei, dei massoni, dei negri e dei meticci». Il linguaggio e gli argomenti di quei propagandisti del razzismo italiano novecentesco, scrive l' ex vicedirettore di Lotta Continua, giornale che con gli oppositori politici usava un linguaggio delicato e leggero come i proiettili della P38, «sono uguali identici a quelli adoperati dai loro epigoni contemporanei». Sì, quei «loschi individui», è sempre Lerner che scrive, facevano «ricorso allo scherno e alla provocazione satirica, rappresentavano deformi e viziosi i bersagli etnici prescelti», così come oggi un gruppo di intellettuali e giornalisti fa contro gli immigrati. E chi sono gli epigoni di Telesio Interlandi, Giorgio Almirante, Giovanni Preziosi e Julius Evola? Il comunista con il Rolex cava dal taschino l' elenco, così come rassegnando le dimissioni da direttore del Tg1 per aver mandato in onda immagini pedopornografiche cavò la lista di chi gli aveva sussurrato una raccomandazione e, pur essendo stato nominato da Massimo D' Alema, citò solo onorevoli di destra. Dal catalogo di persone da proscrivere - cioè, ribadiamo, da eliminare, espellere, deportare -spuntano i nomi di Mario Giordano, Paolo Del Debbio, Giuseppe Cruciani, Vittorio Feltri e del sottoscritto. Tutti da esiliare e cacciare. Un elenco a futura memoria, perché ci si ricordi di loro quando Matteo Salvini non sarà più in auge, come ovviamente l' editorialista della lotta di classe si augura. Io e i colleghi di altri giornali accostati a un elenco di scrittori e giornalisti che «si macchiarono di antisemitismo». Anzi definiti «i nuovi difensori della razza», anche se di razza credo che nessuno di noi (parlo per me, ma credo di poterlo fare a nome anche di qualche altro amico) abbia mai parlato o scritto. Credo ci sia poco altro da aggiungere alla faziosità di un tipo che si autodefinisce «Infedele». Mi consola solo un fatto: che Lerner non ne abbia mai azzeccata una. Non parlo di quando pronosticava la rivoluzione. No, penso a quando sosteneva che abbattendo Gheddafi non ci sarebbe stato nessun esodo biblico verso l' Italia. E anche a quando, con un ghigno sarcastico, commentò la mia assoluzione in un processo, dicendomi: «Questo è solo il primo grado». Come era immaginabile, essendo un noto difensore della libertà di parola, si augurava la mia condanna in appello. Senza sapere che la sentenza era definitiva.

Io nella lista di proscrizione di Gad Lerner. L'editoriale del direttore di Panorama, Maurizio Belpietro, sulla famosa lista compilata dal discusso giornalista oggi su Rai 3. Maurizio Belpietro il 10 giugno 2019 su Panorama. Prima delle elezioni Gad Lerner ha compilato una lista di proscrizione. Dell’elenco, «redatto a futura memoria» sul Venerdì di Repubblica, facevano parte alcuni giornalisti, tra i quali il sottoscritto. Secondo il dizionario della lingua italiana Devoto-Oli, il significato di proscrizione si rifà all’antica Roma, cioè alla pratica della confisca dei beni e della condanna a morte, sostituita in qualche caso dall’esilio, nei confronti degli oppositori politici. Il primo a praticarla, nell’82 avanti Cristo, fu Lucio Cornelio Silla, che con un editto epurò gli avversari. La proscrizione consisteva nella privazione di qualsiasi diritto. Il proscritto veniva bandito dopo essere stato spogliato di tutto. Nessuno, pena la morte, poteva accoglierlo o aiutarlo nella fuga e sul suo capo pendeva una ricompensa a favore di chi lo uccidesse o denunciasse. In pratica, un proscritto era un condannato a morte: che qualcuno lo assassinasse o si suicidasse, all’atto della decisione di proscriverlo la sua fine era segnata. Se ho fatto questa premessa, non è perché tema di essere cacciato o privato dei miei diritti, ma per segnalare come un signore e un giornale che ogni giorno denunciano l’odio di una parte politica, poi in realtà siano i primi a odiare e a usare un linguaggio che dire violento è dir poco. Proscrivere significa esiliare, mettere al bando, privare dei diritti. Ecco, Gad Lerner reputa che alcuni giornalisti, tra i quali il sottoscritto, per avere espresso opinioni diverse dalla sua sugli immigrati, sulla Lega o su altro, siano da esiliare, da mettere al bando, da privare dei diritti. Per il celebre giornalista «democratico», io e altri saremmo intellettuali fascisti e razzisti, benché né io né i colleghi si sia mai stati né fascisti né razzisti e mai si sia espresso un pensiero fascista o razzista. Ma tant’è. Lo stesso Lerner, dopo le elezioni, è stato oggetto del sarcasmo del ministro dell’Interno. Il quale, appresa la notizia che l’editorialista di Repubblica condurrà un programma in Rai, si è chiesto se il cambiamento nella tv pubblica fosse questo. Riporto le frasi esatte, che il quotidiano diretto da Carlo Verdelli ha già bollato come «l’editto della terrazza». «Eh, il cambiamento si tocca dappertutto»avrebbe detto Matteo Salvini «tranne che in Rai. Torna infatti un volto noto: Gad Lerner. Eh, sì, avete capito bene, cinque belle trasmissioni di Gad Lerner! Uno che non ha mai detto di essere di sinistra, non è di sinistra per niente, non odia la Lega, è super partes, equilibrato». Il maramaldo, così lo definisce Repubblica, poi avrebbe aggiunto: «Lerner, Fazio, Saviano, manca Santoro. Se la Rai del cambiamento passa per Gad Lerner!» avrebbe sospirato il Capitano padano. E ancora: «Io me lo ricordo 30 anni fa. E sapete qual è la prima puntata? Sulla Lega. Sai che novità! Mi stupisce che con tanti giovani giornalisti che ci sono torni Lerner». Dopo di che, Salvini avrebbe annunciato l’intenzione di chiedere i costi del programma di Lerner, concludendo con un «mi limiterò a non guardarlo». Tutto ciò ha però suscitato l’allarme della testata su cui il conduttore scrive, che in un editoriale ha subito denunciato l’editto padano, accusando il vicepremier leghista di essere ossessionato dalla tv. Insomma, Lerner fa scrivere al suo giornale di essere vittima di censura, lui che per primo vorrebbe censurare gli altri, compilando senza mezzi termini quella che ha definito «una lista di proscrizione». Mica male come cortocircuito e, soprattutto, quanto a ipocrisia. Ciò detto, se fossi nei panni del ministro dell’Interno non mi curerei del programma del simpatico proscrittore. Capisco che possa dare fastidio sapere che la tv pubblica affidi programmi pagati con il canone ai soliti fedeli della parrocchietta progressista. Il milieu culturale di sinistra sono trent’anni che ripete il solito cliché, con gli stessi volti, gli stessi argomenti e i medesimi complessi di superiorità. Dunque non stupisce che si facciano condurre le trasmissioni sempre alle solite facce. Tuttavia, il risultato di tanto impegno e propaganda sta in quel 34 per cento preso da Salvini alle Europee. E nel 3 per cento che in prime time, cioè nella fascia televisiva di maggior pregio, hanno collezionato le puntate della Difesa della razza, l’ultimo programma condotto sulla Rai da Lerner. Altro da aggiungere non c’è. Se non ignorarlo.

Lerner aggiorna la lista di proscrizione (ma nasconde la mano). Nel suo ultimo articolo sul Venerdì di Repubblica, Gad Lerner mette nel mirino altri giornalisti colpevoli di avere strizzato l'occhio alla maggioranza giallo-verde. Ma lo fa nascondendosi dietro l'iniziativa analoga di Giuliano Ferrara.  Gianni Carotenuto, Sabato 24/08/2019, su Il Giornale. A Gad Lerner non sembra vero di poter pontificare sulla caduta del governo giallo-verde. Alla fine di Conte, per l'ex giornalista di Lotta Continua, corrisponde quella della Lega e del "razzismo di Stato" contro cui si è battuto nei 14 mesi di Matteo Salvini al Viminale. Ora che il pericolo è passato Lerner rialza la cresta. Lo fa nel suo articolo sul Venerdì di Repubblica intitolato "A proposito di liste di proscrizione". Nell'editoriale, il giornalista rivendica con orgoglio l'elenco dei "zelanti propagandisti contemporanei della difesa della razza" da lui stilato qualche mese prima. Nel calderone erano finiti Del Debbio, Giordano, Belpietro, Cruciani e Feltri. Agli occhi di Lerner, tutti colpevoli di non pensarla come lui. E a loro si aggiungono altri reprobi. Tranquillizzato dalla probabile uscita della Lega dai palazzi del potere, il giornalista aggiorna la sua personale lista di proscrizione. Ma senza assumersene la responsabilità. Infatti cita l'analoga iniziativa dell'"elefantino" Giuliano Ferrara, che negli ultimi tempi ha puntato il dito - scrive Lerner - contro quei "personaggi che si sono macchiati di indulgenza e/o aperto sostegno nei confronti di grillini e leghisti: Massimo Franco, Piero Ignazi, Giovanni Orsina ed Ernesto Galli della Loggia", senza "risparmiare una fustigazione alla schiena per il povero Aldo Cazzullo, mentre Vittorio Feltri ha goduto della clemenza della corte in quanto non più responsabile dei propri atti". E poi altri nomi ancora, "seppure beneficiati di immunità: Maria Giovanna Maglie, Gennaro Sangiuliano, Alessandro Giuli, Annalisa Chirico". Altri profili indesiderabili, professionisti dell'informazione che a differenza di Lerner non hanno mai avuto la tessera del Pd.

Gad Lerner: "Io borghese benestante e amico di De Benedetti". Gad Lerner scarica il Pd. In un'intervista al Fatto Quotidiano, il giornalista archivia i dem con un duro sfogo. Luca Romano, Mercoledì 22/08/2018 su Il Giornale. Gad Lerner scarica il Pd. In un'intervista al Fatto Quotidiano, il giornalista archivia i dem in modo duro e non risparmia critiche al partito e a tutto il centrosinistra sottolineando tutti gli errori fatti in questi anni: "La subalternità del centrosinistra al capitalismo non è certo nuova, semmai ha inizio negli anni '90, quando i post-comunisti potevano ambire al governo nazionale e in loro si è determinata un'ansia da legittimazione: non mangiamo i bambini, sappiamo stare composti a tavola, garantiremo i vostri interessi". A questo punto Lerner si chiama fuori dall'area di centrosinistra: "Reputo la mia biografia compromessa. Io da giornalista mi sono occupato a lungo dei lavoratori e dei loro diritti perché ritenevo giusto farlo. Ma sono un borghese benestante, un 'radical chic', l'amico di Carlo De Benedetti. Sono tutte cose vere. Per questo la nuova classe dirigente del centrosinistra non partirà certo da quelli come me. Sarà una lunga traversata nel deserto, faranno la loro parte sindacalisti, militanti della cooperazione, del volontariato sociale, ma non gli stessi che volevano essere uomini di fiducia dei grandi capitalisti e allo stesso tempo riferimento del popolo di sinistra". Insomma pure Lerner abbandona la barca del Pd.

Lerner insiste con la lista di proscrizione: non è pentito e aggiunge altri nomi, con la scusa che lo ha fatto anche Ferrara. Il Secolo d'Italia sabato 24 agosto 2019. Gad Lerner torna ad aggiornare la lista dei proscritti, di quei giornalisti colpevoli a suo dire di incitare al “razzismo di Stato”. La prima volta – era fine maggio – se la prese con Del Debbio, Giordano, Belpietro, Cruciani e Feltri. Ora che Matteo Salvini e la Lega sarebbero, secondo il suo punto di vista, sconfitti e che potrebbe sorgere il governicchio Pd-M5S (tra liti, veti incrociati e nebulose trattative) ecco che sul Venerdì di Repubblica Lerner rivendica quel suo attacco compiacendosi della circostanza che anche Giuliano Ferrara si è cimentato in un analogo esercizio. Ebbene anche Giuliano Ferrara, sottolinea Lerner,  non ha mancato di additare a una sorta di tribunale speciale i personaggi che si sarebbero macchiati di complicità con il governo sovranista: nel calderone degli opinionisti scomodi finiscono Massimo Franco, Giovanni Orsina, Piero Ignazi e Ernesto Galli della Loggia. Ma anche altri nomi ancora, “seppure beneficiati di immunità”: Maria Giovanna Maglie, Gennaro Sangiuliano, Alessandro Giuli, Annalisa Chirico.  Come a dire: se lo fa anche Ferrara, l’idea di stilare una lista di chi ha opinioni scomode per la neo-inquisizione progressista non sarebbe poi così peregrina. Che poi, a ben vedere, non è che ci sia bisogno di fare una lista. I “reprobi” si auotedenunciano non nascondendo le loro idee, sempre finché sarà ancora permesso pensarla in modo diverso da Lerner e da Ferrara.

Il duello sulla paga di Lerner. La Rai adesso svela le cifre. Vespa punge il conduttore: "Guadagna un 40-45% più di me". Interviene Viale Mazzini: "Ecco quanto costa l'Approdo". Angelo Scarano, Domenica 02/06/2019 su Il Giornale. Il compenso di Gad Lerner per l'Approdo, la nuova trasmissione su Rai Tre che debutta domani in seconda serata, continua a far discutere. Nei giorni scorsi il conduttore ha duellato prima con Salvini e poi con La Verità sulle cifre del suo cachet. Il quotidiano di Belpietro ha sostenuto la tesi di un compenso da 60mila euro a puntata. Una tesi questa a cui è stato aggiunto un paragone: il confronto del compenso di Lerner con quello di Bruno Vespa. Secondo la Verità Lerner guadagnerebbe più del conduttore di Porta a Porta. E così con una lettera indirizzata al quotidiano di Belpietro è lo stesso Vespa a fare chiarezza e lanciare un attacco (velato) a Lerner: "Se lui guadagnasse 30.000 euro a puntata, il suo compenso sarebbe oltre il triplo del mio: ne guadagno meno di dieci e non vengo pagato per ogni trasmissione straordinaria. E vorrebbero pure tagliarmi il compenso non sai di quanto... È vero che Lerner fa soltanto cinque puntate, ma il triplo è il triplo, e Rai 1 non è Rai 3. Se invece, come dice Lerner, il compenso per puntata è di soli 14.000 euro, si tratterebbe soltanto di un 40-45 per cento più di me...". Gad Lerner solo ieri aveva svelato le cifre del suo contratto che ammonterebbe a 69mila euro lordi. Secondo la Verità invece il costo sarebbe di 60mila euro a puntata. A chiarire in modo esatto le cose c'ha pensato l'Ad di Viale Mazzini, Salini che ha comunicato il vero compenso di Lerner: "A Gad Lerner va un compenso di 69.000 euro lordi per l’intero programma, comprensivo di un periodo di preparazione e ideazione della trasmissione. Valore rimasto invariato dal suo rientro in Rai nel 2016. Si tratta di una nuova serie, in linea con le precedenti già realizzate da Gad Lerner sulla stessa rete". Poi, sempre la Rai parla anche delle spese "collaterali" del programma: "Tutti gli altri costi - aggiunge viale Mazzini - sono relativi all’utilizzazione di maestranze e scenografie del Centro di produzione televisivo di Torino, dove L’Approdo viene realizzato, al fine di avere il contributo di dipendenti e squadre di lavoro interne in un centro di eccellenza Rai che andrà sempre più valorizzato: in tal senso, i costi delle squadre di lavoro sono dipendenti dal limitato numero di puntate del programma".

“C’È UN DATO DI FATTO: C’È UNA LEGGE CHE FAZIO HA AGGIRATO”. In 1/2 ora il 2 giugno 2019.

GAD LERNER: Vedo un istinto alla ricerca della preda. Salvini ha appena ottenuto lo scalpo di Fabio Fazio, brutalizzato nel silenzio generale dei suoi colleghi perché guadagna troppo, per cui siccome lui prende 2 milioni all’anno, quelli che di milioni ne prendono uno o mezzo sono stati zitti dicendo ahah, se la prende con Fazio e ben gli sta…

LUCIA ANNUNZIATA: nella nostra tradizione di essere sinceri l’uno per l’altro, io divido la tua situazione da quella di Fabio Fazio, perché Fabio Fazio ha un problema… non significa che debba essere brutalizzato, però Gad, questo è un dato di fatto: c’è una legge che Fazio ha aggirato. Nessuno di noi l’ha fatto, è una legge, ci siamo tagliati tutti lo stipendio. Detto questo, è stato trattato come non si meritava.

·         Querele temerarie.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della sera” il 18 novembre 2019. Si chiamasse Maurizio Belpietro o Alessandro Sallusti, o lavorasse in qualche testata di opposto orientamento ma di pari ribalta, chissà già che mobilitazioni: proprio come era avvenuto prima che a Strasburgo la Corte europea dei diritti dell' uomo condannasse due volte l' Italia, nel 2013 e poi ancora pochi mesi fa nel 2019, perché i due giornalisti, responsabili di diffamazione, nel 2004 e nel 2012 erano stati sanzionati con la pena detentiva in carcere, che per Strasburgo è ingerenza spropositata di uno Stato rispetto al diritto alla libertà di espressione, salvo nei casi in cui i giornalisti siano responsabili di discorsi di odio o di incitamento alla violenza. Invece Carlo Mondonico scrive su «Novella 2000», diretta da Giorgio Nicola Bernardini De Pace, e il 12 settembre 2013 in un articolo su «Asia Argento ubriaca di Max Gazzè» inanellò una sfilza di calembour a doppio senso («ubriaca d'amore», «cenetta ad alto tasso alcolico», «vinello sempre al seguito», «susseguirsi di baci e brindisi», «presenza fissa la bottiglia di vino») ritenuti diffamatori dall'attrice patrocinata dall' avvocato Ervin Rupnik, ma declassati dai giornalisti (difesi dall'avvocato Jacopo Antonelli Dudan) a pettegolo gossip, mezzo «costo» e mezzo «motore» della notorietà di chi vive nel mondo dello spettacolo. Ora, nella disattenzione generale, e bellamente sorvolando sulle pronunce di Strasburgo e anche sulla prevalente giurisprudenza di Cassazione, davanti al Tribunale di Bergamo (che deciderà oggi) l'accusa ha chiesto la condanna per diffamazione a un anno e otto mesi di carcere: carcere «vero», cioè non soltanto senza conversione in pena pecuniaria, ma addirittura senza neanche il beneficio della sospensione condizionale della pena (solitamente concessa entro i 2 anni). Dopo che a chiedere il rinvio a giudizio nel 2015 era stato il pm Massimo Meroni, in udienza la richiesta di tipo ed entità della pena è stata formulata da un viceprocuratore onorario, e pare abbia spiazzato anche l'attuale reggenza della Procura, che non ne era stata informata e la cui dichiarata linea nei processi per diffamazione non è per il carcere. 

Querele temerarie, ecco i dati di Ossigeno. Il Dubbio il 2 Novembre 2019.  L’associazione “Ossigeno per l’informazione” ha presentato lo scorso 25 ottobre uno studio sui dati delle azioni condotte contro i professionisti dell’informazione. Nell’attesa che il legislatore ponga fine all’assurdità delle querele temerarie e della pena detentiva per i giornalisti, l’associazione “Ossigeno per l’informazione” ha presentato lo scorso 25 ottobre uno studio sui dati delle azioni condotte contro i professionisti dell’informazione. Il report, illustrato a Palazzo Madama dal segretario di “Ossigeno” Giuseppe Mennella, è costruito in base ai report dell’Istat e conferma come la stragrande maggioranza delle denunce sporte per articoli di stampa abbia un’origine sostanzialmente intimidatoria. «Nel 2016 sono andate in decisione 9039 querele», si legge nella relazione, «le archiviazioni sono state 6317, pari al 69,88 per cento. L’azione penale è iniziata in 2722 casi, pari al 30,12 per cento. Nel 2016 i condannati con sentenza irrevocabile sono stati 287. Le condanne a pene detentive sono state 38; 234 alla pena della multa». Vuol dire che più dei due terzi delle querele è del tutto infondata, e che sono davvero pochi, meno del 10 per cento, i casi in cui il giudizio va avanti fino ad accertare la responsabilità del cronista. «Esaminando la serie storica, si nota una tendenza crescente alla querela facile. Facile perché non costa nulla, ma può sortire quell’effetto intimidatorio che il presunto offeso spera di ottenere per mettere a tacere il cronista fastidioso», ricorda ancora “Ossigeno”. Secondo cui i numeri «descrivono una condizione di attacco alla professione che deve far riflettere tutte le istituzioni repubblicane e, innanzitutto, il Parlamento e gli enti della categoria».

Carlo Verna: «Noi giornalisti vittime di odio e querele, ora ci penserà la Consulta». Errico Novi il 2 Novembre 2019 su Il Dubbio. INTERVISTA AL PRESIDENTE DELL’ORDINE DEI GIORNALISTI. «La professione bersagliata persino sui social anche perché se ne dimentica il valore. Ma a richiamarlo potrebbe provvedere il giudizio di costituzionalità sulla pena detentiva per il reato di diffamazione. Pronta l’intesa con il Cnf per contrastare il linguaggio d’odio». «Sì, siamo bersagliati come se, per assurdo, fossimo anche noi una casta. È strano ma si è perso il valore della professione giornalistica. Nel senso che i social hanno prodotto molte rivoluzioni, non solo antropologiche ma anche nel processo informativo, che si è polverizzato. Ed è il motivo per cui è difficile difendere il nostro ruolo di giornalisti e, ancora, è il motivo per cui una parte dell’odio viene ormai scaricata proprio nei nostri confronti». Carlo Verna presiede l’Ordine nazionale dei giornalisti italiani, e lo fa nel momento in cui è intensa come mai lo è stata prima la sfida per difendere la professione. «Abbiamo all’esame del Parlamento una legge, doverosa, che introdurrebbe deterrenze contro le querele temerarie ma che incredibilmente annaspa: la reclamiamo con tutta la forza possibile. E c’è poi la battaglia arrivata, grazie al cielo, innanzi alla Corte costituzionale sull’illegittimità della pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo stampa. Ma c’è anche un impegno a cui teniamo molto contro la cultura dell’odio, da condurre insieme con l’avvocatura italiana: è ormai pronto alla sottoscrizione il protocollo d’intesa con il Cnf».

Intanto in Parlamento è stata istituita una commissione sul linguaggio d’odio, grazie a Liliana Segre. E sul Corriere di giovedì Caterina Malavenda scrive che noi giornalisti siamo tra i bersagli più esposti all’odio in rete. È vero?

«L’odio esiste da sempre. L’odio nei confronti di chi esercita un potere o, come nel nostro caso, semplicemente una funzione di pubblico interesse è fenomeno altrettanto storicizzato. Ora è chiaro che i social fanno da detonatore, ma è una propensione che c’è sempre stata. Il punto è che proprio la rete porta con sé una delle insidie con cui la nostra professione fa i conti, che è la polverizzazione delle fonti informative. Anche noi siamo tanti, certo: ma in un quadro simile è doveroso che i giornalisti difendano la specificità della loro funzione. Anche attraverso tutele più efficaci nei confronti delle querele temerarie, per esempio».

Intanto la legge presentata dal 5s Primo Di Nicola a Palazzo Madama va a singhiozzo.

«È un testo in sé efficace perché semplicissimo. Ha un solo contenuto: se il giudice accerta che una querela per diffamazione ha una così chiara infondatezza da lasciarvi scorgere il solo intento di vessare il giornalista per tappargli la bocca, allora il querelante può essere condannato a pagare almeno la metà della cifra richiesta. In Senato ora si propone di introdurre il meccanismo della domanda riconvenzionale, che però lascerebbe al giudice una così ampia discrezionalità da affievolire moltissimo l’effetto deterrenza».

Lo studio statistico presentato una settimana fa, proprio al Senato, da “Ossigeno per l’informazione” conferma clamorosamente la natura temeraria di gran parte delle querele: il 70% finisce direttamente archiviata, le condanne sono si è no il 5%.

«Con il presidente di “Ossigeno”, Giuseppe Mennella, ci sentiamo spesso. Svolge un’eccellente e puntuale opera di verifica statistica. Sarebbe sensato pensare ad arricchire l’effetto deterrenza anche con una specifica valutazione sull’eventuale azione reiterata del querelante. Se si verifica che un certo soggetto ha l’iniziativa giudiziale facile come espediente per occultare le proprie condotte, sarebbe opportuno considerare la circostanza come una spia indicativa, nell’esaminare la querela».

I giornalisti insomma devono difendersi da odio, vessazioni, querele. Cos’altro?

«Siamo minacciati da un precariato terrificante, dalla immaterialità della produzione, che impedisce di accertare le irregolarità da parte degli editori. Ma la nostra condizione è difficile anche per l’incredibile squilibrio delle norme che in caso di diffamazione prevedono, com’è noto, anche il carcere. Adesso potrebbe intervenire la Consulta».

Si riferisce ai giudizi innescati dalle remissioni dei giudici di Bari e di Salerno?

«Sì, giudizi in cui noi come Ordine abbiamo presentato istanza d’intervento. Con la procedura del prelievo, ossia con un’udienza preliminare in cui la Corte valuterà innanzitutto l’ammissibilità del nostro intervento, e con l’udienza del vero e proprio giudizio di costituzionalità fissata alcuni mesi dopo, entro febbraio o marzo 2020. Abbiamo buone chances: dall’ 82 in poi la Corte ammette gli Ordini professionali come enti esponenziali della categoria. Non è possibile che in Italia sia considerato doloso anche l’infortunio professionale, cioè l’articolo, eventualmente lesivo dell’onorabilità di qualcuno, viziato da un mero errore compilativo. Si assume il nostro dolo, non quello del medico che opera la gamba sbagliata. Assurdo. Come la responsabilità in vigilando del direttore che, vista l’ampiezza della produzione di una singola testata, è di fatto il solo caso di responsabilità oggettiva prevista dal nostro ordinamento penale. Ma su una simile battaglia ci faremo valere con tutte le forze».

A cosa pensa?

«A una conferenza stampa o a un intervento su una rete televisiva nazionale già in caso di felice esito dell’istanza di prelievo dinanzi alla Consulta. Direi che anche sul carcere ai giornalisti il Parlamento si fa superare dalla Corte, come nel caso Cappato».

Siamo esposti a ingiustizie e invettive in rete. A che punto è l’intesa con il Cnf contro il linguaggio d’odio?

«È un progetto molto importante. Il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti ha approvato la bozza di protocollo d’intesa con il Cnf dieci giorni fa. Credo che lo sottoscriveremo a breve con il presidente del Cnf Andrea Mascherin, che crede molto nell’accordo, così come il vicepresidente della Scuola superiore dell’avvocatura Rino Sica. L’obiettivo centrale è promuovere insieme la cultura del dialogo e della dialettica come valore che preserva innanzitutto la tenuta della democrazia, quindi vitale per ogni singolo cittadino. Chi è bersagliato deve difendersi ma è giusto anche che si impegni per diffondere una visione che dall’odio ci liberi una volta per tutte».

·         Sergio Romano.

«Nixon simpatico. Gorbaciov non lo stimavo». Pubblicato sabato, 06 luglio 2019 da Aldo Cazzullo su Corriere.it.

Sergio Romano, qual è il suo primo ricordo privato?

«Sono a Pegli, recito La Nave di D’Annunzio vestito da marinaretto. E al pensiero non so se oggi prevalga il sorriso o la nostalgia».

E il primo ricordo pubblico? Rammenta il Duce che proclama l’impero?

«Certo. Non avevo ancora sette anni, ma si percepiva nell’aria una generale soddisfazione, un certo orgoglio».

E la dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940?

«Non fu accolta con entusiasmo. Gli italiani la guerra non la volevano. Il 1939 era stato un anno di popolarità per Mussolini, attestato anche dai rapporti dei prefetti che in altre occasioni avevano registrato il malcontento popolare: gli italiani erano grati al Duce che li aveva tenuti lontani dalla guerra».

Cominciarono subito i bombardamenti.

«Il 14 giugno Genova fu colpita dal mare. Io cercai scampo nel rifugio della clinica dove mia madre era stata operata per un cancro al seno. Morì meno di due anni dopo. Scoprii dalla lapide che era nata nel 1906. Per civetteria diceva di essere del 1909».

Come la ricorda?

«Ricordo l’ultimo incontro… ma preferisco non parlarne. Benché Tolstoj dica esattamente il contrario, tutte le infelicità si assomigliano. I dolori, gli amori: viste sotto questo profilo, le vite degli uomini si assomigliano».

Il Duce lo vide mai?

«Una volta sola, a Milano, di ritorno dall’ultimo discorso, al Lirico. Salutava la folla dall’auto. E la folla gli rispondeva. Più per abitudine che per affetto. Anche perché c’era il rischio, in caso contrario, di essere apostrofati con durezza dalle brigate nere».

Però non vide piazzale Loreto.

«Mi rifiutai di assistere a quella che Valiani definì macelleria messicana».

E ha scritto di non capire cosa ci fosse da festeggiare all’arrivo degli americani. Non era lecito festeggiare la fine dell’occupazione nazista?

«Sì. Ma gli americani e i soldati delle varie nazionalità non erano nostri alleati. Erano occupanti. Ci ricordavano che avevamo perso la guerra. Avevano tutti i diritti; ma non quello di pretendere la mia cordialità. Un fondo nazionalista mi era rimasto. In parte era un retaggio veneto».

Nazionalisti i veneti?

«Lo erano molto. Avevano vissuto la Grande Guerra».

Lei ha scritto di un drammatico incontro nei giorni di Caporetto tra suo nonno, ufficiale al fronte, e suo padre, giovane convittore che aveva l’incarico di portare i compagni più piccoli a Bologna.

«La famiglia di mio padre era friulana, mia nonna ricordava con un pizzico di orgoglio di avere visto D’Annunzio in uniforme nella piazza di Latisana. Ma anche mia madre, che era di Vicenza, aveva vissuto la guerra: se gli austriaci avessero sfondato sull’altopiano di Asiago, il giorno dopo sarebbero stati in città».

Come ricordavano Caporetto?

«Nessuna sconfitta è stata sviscerata e quasi celebrata con altrettanto compiacimento».

Come lo spiega?

«Il fascismo si impadronì della vittoria, e la mise in scena in forme spesso rozze e retoriche. Questo aiuta a capire la rimozione successiva».

Nel 1946 lei è a Milano. Al concerto per la riapertura della Scala. Che impressione le fece Toscanini?

«Anche dall’ultima fila del loggione si percepiva il suo carisma. Ma l’impressione più grande me la lasciarono i milanesi. Pronti a far ripartire l’economia, a rilanciare le arti. Andai alla prima del Piccolo: amavo il teatro, ho anche scritto tre atti unici… Davano “L’albergo dei poveri” di Gor’kij. Quarant’anni dopo rividi la stessa pièce a Mosca: in una versione modernizzata che non mi convinse; e poi, in un altro teatro, in una versione basata sulle note di lavoro del primo regista, Konstantin Stanislavskij. Era uguale a quella del Piccolo. Strehler aveva studiato gli appunti di Stanislavskij con una attenzione filologica».

Al referendum del 1946, se avesse già avuto ventun anni, avrebbe votato monarchia o Repubblica?

«Ho votato Repubblica, grazie a mia nonna. Lei era del 1883, come Mussolini: al tempo era quindi considerata molto anziana. Considerò che le conseguenze di quella scelta storica avrebbero riguardato più la mia vita della sua. E mi disse che avrebbe votato seguendo le mie indicazioni. Anche mio padre votò Repubblica. La seconda moglie di mio padre, monarchia».

Che cosa motivò la sua scelta?

«Mi rendo conto solo oggi che forse influì su di me anche la propaganda anti-monarchica della Repubblica sociale, che rinfacciava al re il suo voltafaccia. Una propaganda aggressiva, in cui però c’era del vero».

Nel 1948 lei era a Parigi. Paolo Conte, destinato a diventare una star in Francia, mi ha raccontato di aver trovato da ragazzo un forte sentimento anti-italiano, tipo nero in un quartiere bianco dell’Alabama.

«Io ebbi l’impressione contraria. L’occupazione italiana era stata molto diversa da quella tedesca. Nella nostra zona l’esercito aveva protetto gli ebrei, e questo i francesi lo sapevano. Inoltre non erano particolarmente orgogliosi di come si erano comportati tra il 1939 e il 1944. Si nascondevano con ipocrita eleganza che molti di loro avevano collaborato con i nazisti».

Poi prese il treno per Londra. Come la ricorda?

«Nella capitale vincitrice il clima duro del dopoguerra si sentiva molto di più. Appena arrivato avevo fame e chiesi due uova al piatto: mi guardarono sorridendo. Le uova erano razionate, come il pane e la stoffa per i vestiti. Il governo socialista di Clement Attlee voleva pianificare tutto, compresi i pasti al ristorante: c’erano solo tre menu in tutta l’Inghilterra, e anche nel locale più esclusivo nessun conto poteva superare i cinque scellini».

Com’era l’atteggiamento verso gli stranieri?

«La polizia arrivò alle 4 del mattino per vedere se avevo i permessi in ordine. Cominciava la prima immigrazione. E gli inglesi non la volevano».

Poi lei andò a Berlino, la capitale distrutta e occupata.

«Era il 1951. Mi colpirono le cataste di pietre e mattoni, ognuna con un numero: la ricostruzione era già cominciata. Ripartiva anche la vita notturna, la gente era allegra. Ero invitato al festival cinematografico di Berlino Ovest, ma volli visitare gli studi di Babelsberg a Est, dove Fritz Lang aveva girato Metropolis e Marlene Dietrich era stata l’angelo azzurro. Gli organizzatori mi rimproverarono: ero stato a trovare i loro nemici. Con me c’era Curzio Malaparte, che non se l’era sentita di seguirmi dall’altra parte del confine».

Come mai? Com’era Malaparte?

«Convinto di essere molto importante. Vedeva nemici personali dappertutto, e temeva di correre a Berlino Est chissà quale pericolo. Si chiamava in realtà Kurt Erich Suckert ma non parlava tedesco. Gli facevo un po’ da interprete».

Nel 1952 lei andò in America.

«Passai da Long Island a trovare la sorella di mia madre, con cui avevamo perso i contatti da anni. Più tardi andò a visitarla anche mio padre, che provò a parlarle in veneto. Rispose in un misto di dialetto, italiano e inglese con accento americano».

Fu l’anno dell’elezione di Eisenhower.

«Studiavo all’università di Chicago. Nel voto precedente c’erano stati brogli — già funzionava la Chicago-machine che nel 1960 fu decisiva per la vittoria di Kennedy —, e alcuni studenti stranieri furono mandati come scrutatori nei seggi. Il mio era una casa privata, nel quartiere dei neri. Furono gentilissimi. Insistettero perché mangiassi il loro pollo fritto, retaggio delle radici del Sud».

Anni dopo, quando lei lavorava al Quirinale, fu l’interprete di Saragat nei colloqui con i presidenti americani. Il primo fu Lyndon Johnson.
«Molto cordiale, alla mano. Non era particolarmente brillante, ma aveva un controllo assoluto del partito e del Congresso. Quando Saragat espresse il dissenso italiano sulla guerra in Vietnam, lo guardò senza muovere un muscolo. Entrambi del resto non vedevano l’ora di parlare d’altro».

Il secondo fu Nixon.

«Uomo molto simpatico, alquanto diverso da come veniva descritto. Nixon aveva tutta la stampa contro, e anche a noi non piaceva: eravamo abituati ai Wilson e ai Roosevelt, a presidenti di statura internazionale; Nixon ci sembrava un politico minore, quasi locale. In realtà, ebbe intuizioni importanti. Era anche spiritoso».

Incontrò anche Bob Kennedy?

«Non facemmo in tempo. Ero presente però all’incontro di Saragat con Christian Barnard: grande cardiochirurgo, grande playboy».

Lei arrivò all’ambasciata italiana a Parigi in un momento cruciale: Maggio ’68.

«All’inizio guardai la rivolta con gli occhi del conservatore. Poi passai una notte nel Quartiere latino,con mia moglie, e cominciai a guardarli con simpatia. Era una ribellione che sarebbe piaciuta a D’Annunzio».

Come ricorda De Gaulle?

«Un gentiluomo. Studiava i curricula dei suoi interlocutori, sapeva tutto di noi. Mi chiese perché avevo fatto il diplomatico e cosa mi sarebbe piaciuto fare».

Lei cosa rispose?

«Il giornalista».

E Mitterrand?

«Mi affascinava meno. Uomo di contraddizioni: era stato a Vichy; da ministro dell’Interno aveva sostenuto l’Algeria francese. Però era un uomo di grande cultura e di tratto elegante. E amava sinceramente l’Italia».

Gorbaciov?

«Non l’ho mai stimato. I colloqui con lui si assomigliavano tutti: poneva una domanda, fingeva di interessarsi alla risposta; poi partiva con un monologo interminabile, in cui spiegava quel che voleva fare. Ma forse non lo sapeva nemmeno lui».

Lei fu accusato, in particolare da De Mita, di non aver compreso l’importanza della svolta di Gorbaciov.

«Dubito che De Mita abbia letto i miei rapporti da Mosca. Forse quelli che glieli hanno riassunti l’avranno tratto in errore. Forse avranno detto che a Mosca, secondo me, non accadeva nulla. Ma io scrivevo che non capivo la strategia di Gorbaciov. Aveva avviato una riforma velleitaria dalle conseguenze imprevedibili».

La conseguenza fu la fine della guerra fredda.

«E non è detto che sia stato un bene. La guerra fredda ha garantito la pace».

Tra i politici italiani, chi è stato il migliore nella politica estera?

«Andreotti. La capiva e la sapeva fare. Ogni volta che veniva a Mosca, la Pravda lo intervistava in prima pagina. Non erano interviste dirimenti: il giornalista non faceva domande scomode, e Andreotti badava a non scoprirsi. Era un segno di stima. I sovietici sapevano che gli altri andavano e venivano, compreso Craxi che pure era un uomo intelligente; Andreotti sarebbe rimasto».

E Moro?
«Purtroppo Kissinger non aveva torto. Tradurre Moro in inglese non era soltanto difficile; era spesso inutile: i suoi interlocutori stranieri non avrebbero capito. Ricordo un nostro incontro. Gli dissi che il vizio dell’Italia era l’incapacità di innovarsi, di sperimentare. Rispose che era proprio così. Ma palesemente la considerava una virtù».

Lei passa per un nemico di Israele.

«Non lo sono. Partecipai dell’entusiasmo per la nascita di Israele nel 1948. A Milano e a Vienna vidi i sopravvissuti dei campi di concentramento cominciare il loro lungo viaggio verso la nuova patria, proseguito spesso su navi italiane. Oggi di questo entusiasmo non vedo tracce. Gli israeliani hanno dilapidato un immenso patrimonio di simpatia e sostegno».

Ma hanno un leader forte come Netanyahu.

«Che non mi pare stia facendo una politica lungimirante. Certo per i palestinesi, cui nega il diritto a uno Stato nazionale; ma probabilmente per il suo stesso popolo. Dirlo non significa essere anti-israeliani, anzi».

Cosa resterà di Berlusconi?

«Ho sempre avuto simpatia per lui. Gli riconosco energia e coraggio. Ma è sempre rimasto un uomo d’azienda: cosa impossibile per un uomo politico, che deve legiferare e agire nell’interesse generale. Ricordo un incontro al Corriere. Gli posi la questione. La evase. Insistetti. Continuava a non rispondere. Dovette intervenire Ferruccio de Bortoli, a farmi notare che i miei sforzi sarebbero stati vani».

Cosa pensa di Salvini?

«Salvini non mi piace. Non mi piace quel che dice, non mi piace quel che fa, non mi piace quel che vuole».

Qualcuno vede in lui germi di un nuovo fascismo.

«No, è un fenomeno diverso. I sovranisti sostengono il recupero dell’identità nazionale, dopo vent’anni di egemonia del pensiero liberaldemocratico, aperto alla società multiculturale. 

E manifestano una certa nostalgia per l’epoca – avversata dai loro nemici – dei regimi autoritari e identitari. Una nostalgia che non ha nessuna ragione d’essere».

Come vede il futuro dell’Italia?

«Non lo vedo bene. Anche se il nostro rimane un Paese per certi aspetti ammirevole…».

Quali aspetti?

«Abbiamo avuto tre guerre civili: al Sud dopo il Risorgimento; poi negli anni tra la Grande Guerra e la marcia su Roma; infine tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945: una guerra tra italiani che in Emilia durò ancora per un altro anno. Per tornare alla pace civile abbiamo fatto compromessi: abbiamo traslocato una buona parte dello Stato borbonico nello Stato monarchico, una buona parte dello Stato giolittiano nel regime fascista e l’intero Stato fascista nello Stato repubblicano. Non fu bello, ma fu una prova di saggezza. Per questo però siamo un Paese zoppo. Limitato nella sua libertà di pensare, di immaginare. Di sperimentare, come avevo detto a Moro».

Lei crede in Dio?

«No, purtroppo; se credessi tutto sarebbe più semplice.. Ma preferisco definirmi agnostico piuttosto che ateo. L’ateismo è un’ideologia religiosa».

Come immagina l’aldilà?

«E se non esistesse?».

Cosa resterà allora di noi?

«Questo è un pensiero che ci sta a cuore finché siamo in vita. Dopo, probabilmente, no».

·         Annalisa Chirico.

“CONSIGLIATE ALLA CHIRICO DI MOSTRARE MENO BRAMOSIA DI POTERE”.  Roberto Nuvola per “la Verità” il 10 giugno 2019. Che la politica italiana soffra di strane forme di masochismo, lo si sa già da tempo immemore, però ultimamente siamo sfociati in accadimenti che hanno davvero dell'inspiegabile. Fatti del «terzo tipo», teatrini del politicamente assurdo, «cose che voi umani». In cima alla lista dei motivi per restare basiti e farsi cascare la mascella a terra, c'è l'enorme visibilità di cui gode Annalisa Chirico, talmente vellicata nel suo delirio di onnipotenza da pensare di poter dettare l' agenda di governo o consigliare a Matteo Salvini, tramite interviste di gusto spudoratamente trash, di «andare a Palazzo Chigi». Boh! Ci si domanda a che titolo dica tutto ciò. Ci si chiede anche come mai (e con quali ambiziosissime mire) abbia organizzato un convegno sul futuro della farmaceutica italiana. Qualche maligno, in quel contesto romano, ha notato come tra i presenti ci fossero soprattutto sue conoscenze - neanche troppe, la sala contava tanti posti vuoti - estrapolate dal mondo delle istituzioni, ma che mancasse un parterre significativo di settore, un vero pubblico di interessati. Pareva, a un'occhiata superficiale, il classico evento organizzato per guadagnare visibilità, per accreditarsi in settori succulenti, come quello in cui orbitano le case farmaceutiche. Le cose, però, vanno fatte anche con una certa grazia e, a dirla tutta, sarebbe bene che qualche esponente dell' alta società consigli alla Chirico di mostrare meno cotanta bramosia di potere. Il potere assoluto, soprattutto a Roma, non esiste. Ci sono solo sfere di influenza fluttuanti, effimere, imprendibili come un blob, che è meglio gestire con un briciolo di simpatia e generosità.

Dall’account twitter di Annalisa Chirico il 12 giugno 2019. Dunque Roberto Nuvola de “la Verità” si chiama Maria Elena Capitanio. Non la conosco, non so chi sia, so però che la signora usa un nom de plume per scribacchiare cosucce livorose sulle colleghe. È proprio vero: il coraggio, se non cel’hai, non te lo puoi dare.

·         Il Tribunale del Conformismo e la censura degli opposti.

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4 EVITARE RIFERIMENTI IMPROPRI AGLI ORIENTAMENTI SESSUALI

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8 RIMUOVERE DALLA RETE VIDEO E FOTO SE DISCRIMINANO

Libero fuori "dalla comunità dei giornalisti". L'ipocrisia dell'Ordine: tolleranza a senso unico. Libero Quotidiano il 18 Settembre 2019. Ieri il presidente dell'Ordine dei giornalisti, Carlo Verna, ha attaccato Libero, mettendolo fuori «dalla comunità dei giornalisti». Non ricordiamo se l'Ordine avesse preso provvedimenti nei confronti del Manifesto quando titolò con "Pastore tedesco" la prima pagina dell'edizione in cui dava notizia dell' elezione di Papa Benedetto XVI al soglio pontificio. Né tantomeno siamo in grado di ricostruire se all'epoca Carlo Verna si fosse indignato al punto da trasformarsi in hater di cronisti, purché non appartenenti alle correnti di sinistra che lo hanno votato. La tolleranza a senso unico proprio non coincide con le parole pronunciate da Papa Francesco durante l'omelia a Santa Marta del 16 settembre 2019: «Si deve pregare per l'altro, per quello che ha un'opinione diversa dalla mia». Speriamo che l'Ordine non intenda darsi alla caccia alle streghe con il pretesto di punire il vilipendio alla religione cattolica attraverso l'offesa al Papa. Anche perché nell'articolo e nel titolo finiti sotto la lente del Sant'Uffizio dei Giornalisti non ve n'era traccia. Comitato di Redazione di Libero.

Vittorio Feltri contro Carlo Verna: Libero infamato perché "osa" nominare Papa Francesco. Libero Quotidiano il 18 Settembre 2019. Tale Carlo Verna, presidente dei giornalisti italiani, le cui opere non mi sono note, si è scagliato contro Libero accusandolo di essere infame poiché ieri ha pubblicato in apertura il seguente titolo: Adesso il Papa prega per salvare il governo. Che, secondo lui, è indegno. E non capisco perché lo dovrebbe essere. La prima regola del giornalismo è il rispetto della verità, e il titolo in questione non è bugiardo bensì afferma un dato di fatto incontestabile. Noi non siamo né papisti né antipapisti, ci limitiamo a dire le cose come stanno. Non comprendo la ragione per cui il vertice dell’Ordine si adiri solo perché abbiamo fotografato una situazione documentata. Ci dica piuttosto dove avremmo sbagliato. È evidente che al presidente e a vari esponenti della categoria il nostro quotidiano non piace, in quanto esprime idee non condivise da molti. Tuttavia mi risulta che la legge tuteli la libertà di pensiero e quindi di informazione, principi a cui noi ci atteniamo scrupolosamente. Non accettiamo lezioni di giornalismo da nessuno, tantomeno da gente che non vanta titoli professionali di rilievo. Caro Verna, io non la conosco, e ciò non mi addolora. Mi dicono che lei si è occupato di televisione, narrando le vicende del calcio minore. La sua interessante attività forse non la autorizza a disturbare la nostra che si basa su risultati storici rilevanti. Pubblichiamo volentieri di seguito il comunicato del Comitato di redazione di questo foglio che spiega meglio di me la topica in cui lei è incorso con una leggerezza invero imperdonabile. Vittorio Feltri

Ieri il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Verna, ha attaccato Libero, mettendolo fuori «dalla comunità dei giornalisti». Non ricordiamo se l’Ordine avesse preso provvedimenti nei confronti del Manifesto quando titolò con “Pastore tedesco” la prima pagina dell’edizione in cui dava notizia dell’elezione di Papa Benedetto XVI al soglio pontificio. Né tantomeno siamo in grado di ricostruire se all’epoca Carlo Verna si fosse indignato al punto da trasformarsi in hater di cronisti, purché non appartenenti alle correnti di sinistra che lo hanno votato. La tolleranza a senso unico proprio non coincide con le parole pronunciate da Papa Francesco durante l’omelia a Santa Marta del 16 settembre 2019: «Si deve pregare per l’altro, per quello che ha un’opinione diversa dalla mia». Speriamo che l’Ordine non intenda darsi alla caccia alle streghe con il pretesto di punire il vilipendio alla religione cattolica attraverso l’offesa al Papa. Anche perché nell’articolo e nel titolo finiti sotto la lente del Sant’Uffizio dei Giornalisti non ve n’era traccia. Comitato di Redazione di Libero

TAPPANO LA BOCCA A CHI CRITICA ISLAMICI, ROM, TRANS E MIGRANTI.  Maurizio Belpietro per “la Verità” il 23 maggio 2019. Cari lettori, il quotidiano che avete tra le mani presto potreste non riconoscerlo più. E non perché rischi di essere stravolto da una riforma grafica: quella la fanno i giornali che sono a corto di idee e soprattutto di copie, ma non è il nostro caso. No, il cambiamento potrebbe essere imposto dall' alto, dalla censura di Stato. Sì, avete letto bene: un' autorità centrale suprema che sta sopra le nostre e le vostre teste potrebbe impedirci di svolgere il mestiere di giornalisti indipendenti e, soprattutto, di chiamare le cose con il loro nome, come siamo abituati a fare da sempre, ragione per la quale molti di voi ogni mattina ci scelgono fra le molte testate presenti in edicola. Quando quasi tre anni fa il primo numero della Verità vide la luce, si presentò a voi lettori con un impegno preciso, cioè di non accondiscendere ad alcuna censura. E così è stato. A chi mi ha seguito nell' appassionante avventura di dare vita a un quotidiano di carta, nella stagione in cui tutti suonavano campane a morto per la carta, personalmente giurai che non gli avrei tolto una virgola e non a caso, a volte, ho pubblicato opinioni che non condividevo o articoli che mi hanno fatto litigare con qualche amico. Però questo era il patto fatto con i colleghi e con voi: un giornale autonomo, impermeabile a qualsiasi condizionamento politico e imprenditoriale, un vero giornale libero. Ma purtroppo oggi devo darvi una cattiva notizia, ovvero che non so se riuscirò a mantenere questo impegno. E non per volontà mia, oppure per cedimento nei confronti della pubblicità o degli interessi imprenditoriali di qualcuno. No, se temo di non poter più raccontare i fatti per come stanno e non poter più lasciare che si scriva ciò che ci pare giusto scrivere, è perché l' Autorità garante per la comunicazione (Agcom) l' altro ieri ha varato un provvedimento che rappresenta un vero e proprio bavaglio nei confronti di chi non si uniformi al pensiero unico politicamente corretto. Con la scusa di porre un argine all' odio nei tg e nei social, la commissione di super esperti ha infatti emesso un regolamento che impone a tutte le trasmissioni, ai social network, ma anche agli editori, di evitare e cancellare «ogni espressione di odio che incoraggi alla violenza o all' intolleranza». Ovviamente, messa in questo modo, la norma è perfino condivisibile, perché a nessuno piace alimentare l' odio e l' intolleranza. Ma il provvedimento non è contro l' odio, bensì contro chi si permette di esprimere giudizi non conformisti. Infatti il regolamento è scritto su misura per impedire che qualcuno si azzardi a pubblicare qualche cosa che l' Autorità del politicamente corretto non gradisca. In particolare su immigrati, rom, musulmani e sul tema del gender. Sì, la Polizia linguistica ha nel mirino proprio gli articoli e le trasmissioni che trattano di questi argomenti e si muoverà su denuncia delle associazioni e delle organizzazioni rappresentative di tali gruppi, con un monitoraggio sistematico dei programmi, dei telegiornali, dei social e della stampa. Dunque, prevediamo che da domani saremo inondati di denunce da parte di associazioni Lgbt, rom, immigrati e islamici. Già molte di queste organizzazioni provano quotidianamente a impedirci di esprimere le nostre opinioni, ma grazie al nuovo regolamento adesso avranno un' arma in più. E soprattutto avranno dalla loro un apparato dello Stato. Ovviamente l' Autorità giura di non voler censurare la libertà di stampa garantita dalla Costituzione, ma solo di voler emettere un cartellino giallo, con una segnalazione che pubblicherà sul proprio sito. Ma allo stesso tempo il regolamento prevede una contestazione a cui l' editore avrà tempo 15 giorni per rispondere e, a seguire, scatterà la segnalazione all' ordine professionale per il giornalista, reo di avere opinioni non gradite all' Autorità. Il Tribunale del conformismo, che in altri tempi avremmo chiamato Minculpop, «diffiderà editori, testate e piattaforme Web dal continuare la condotta illegittima». E qualora questi soggetti ignorassero i provvedimenti dell' autorità, andrebbero incontro a sanzioni dal 2 al 5 per cento del loro fatturato. Tanto per capire l' aria che tira, la Rai, nei suoi tg, sarà obbligata a dedicare spazi ai temi della «inclusione sociale, della coesione, della promozione della diversità, dei diritti fondamentali della persona». La tv di Stato, dopo le europee, addirittura dovrà diffondere uno spot dell' Autorità che incoraggia all' uso della parola pace. Mi state chiedendo chi abbia dato alla Polizia linguistica il potere di decidere tutto ciò e soprattutto chi ci sia dietro questa manovra che punta a impedire di parlare di immigrati, rom, islamici e deriva Lgbt? Beh, il potere glielo ha dato il Parlamento, che in passato ha istituito l' Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, istituzione composta da un gruppo di signori che gli italiani non hanno eletto, ma ai quali si trovano sottoposti. Quanto a chi ci sia dietro, vi dico solo il nome del suo presidente, ossia Angelo Marcello Cardani, un professore della Bocconi che ha svolto ruoli nell' ambito della Commissione europea. In pratica, è un regalo di Mario Monti, del quale è stato anche capo di gabinetto. Un altro motivo per ringraziare l' ex presidente del Consiglio.

SE PARLI MALE IN TIVÙ TI CENSURANO. Renato Farina per “Libero Quotidiano”. L' Autorità garante delle comunicazioni (Agcom), per sua definizione indipendente e sovrana nei confini della Repubblica italiana, ha stabilito che saranno puniti con una multa dal 2 al 5 per cento del fatturato gli editori che consentano sui loro giornali, siti web, trasmissioni televisive, libri eccetera espressioni incitanti all' odio. Non l' odio contro tutti, non esageriamo, c' è odio e odio. Per cui l' Agicom ha stabilito di fornire la sua corazza a un bouquet di categorie scelte con cura. Le citiamo pedissequamente. Sono «le donne, gli omosessuali, i meridionali, gli immigrati, i rom, le persone di colore, i musulmani».

Senza un guizzo di fantasia, l' Authority ha copiato dal manualetto del "politicamente corretto" i tipi umani infilati dai progressisti nella loro fattoria. Solo loro possono accudirli, nominarli, eventualmente correggerli, cavalcarli. Chiunque altro li nomini, deve pronunciarsi con formula e concetti da loro coniati. Incredibile ma vero.

L' intento di Agcom è di prosciugare la palude dell' odio. Sottoscrivo. C' è un problema. I sentimenti non possono essere reati. Dunque nemmeno puniti da un organo dello Stato di diritto. Ed ecco allora la trovata: i sentimenti no, ma il linguaggio sì. D' accordo: le parole sono importanti. La questione è stabilire quali espressioni siano avvelenamento dei pozzi, e chi abbia tale autorità. Non basta chiamarsi Autorità per esserlo. Ci sono campi, come quello della libertà di parola, che sono materia immane. Si finisce per bruciare i libri.

Nel nostro caso, non esiste legge, e nemmeno potrebbe esistere, che assegni a questi signori dell' Agcom un simile potere sulla mente e sulla lingua. Tra l' altro, costoro - sia detto con il massimo rispetto - non li conosce nessuno fuori dal loro giro. In questo caso, al di là della provenienza politica, si appalesano come la dependance operativa della cultura progressista italiana, a sua volta serva dei quartieri alti di New York e di Parigi. Brave persone. Dio ci guardi dalle brave persone, il cui scopo è come sempre altamente educativo. 

Domandina. Su quale base di verità, la crème che si ritiene élite morale vuole insegnare la grammatica della vita buona ed imporci il suo vocabolario? Si appellano all' Onu, al Consiglio d' Europa, eccetera. Le radici cristiane sono state spazzate via dalle loro carte. La carta dei diritti umani del 1948 è stiracchiata di qua e di là secondo le convenienze. Magari i principi espressi sono così alti che bisogna inchinarsi. Poi finiscono in mano a interessi meschini e pregiudizi ideologici o addirittura invidie personali.

PROPOSITI LIBERTICIDI. Noi di Libero lo sappiamo bene. Espressioni popolari o ironiche, citazioni paradossali, o semplicemente sacrosante grida di indignazione contro stragi di innocenti in nome di una religione, sono diventati uno strumento per impedire la libertà di opinione di questo giornale. Al sinedrio della casta dei giornalisti non ci si abitua, ma si finisce per sopportare. Parliamo di noi, perché sappiamo che le nostre parole non erano di odio verso chi ci stava davanti ma di amore per la gente che ci segue (e qui parafrasiamo Chesterton). Fin qui passi. Ma adesso siamo a propositi liberticidi. Minacciare con multe di portata milionaria non gli autori di presunte incitazioni all' odio, ma gli editori, è una intimidazione peggio della galera per i cronisti. Uno infatti può per ragioni di coscienza accettare il rischio di esporre se stesso a una pena. Ma trasformare gli editori in giannizzeri del politicamente corretto è una vergogna. Finirà che certe battaglie allora uno potrà combatterle solo scrivendo sui muri. Donne, musulmani, omosessuali, eccetera... Ma questo catalogo che roba è? Questa individuazione di "bersagli" è in realtà una discriminazione. Diventa infatti una autorizzazione implicita all' odio verso chi non è segnalato come possibile obiettivo di un' aggressione. Ad esempio: un commissario di polizia come Calabresi in che categoria protetta lo inserirebbe il Garante? La polizia? Non c' è. La lotta di classe che prevede l' odio di classe è consentita? E lo scatenarsi del rancore di massa perché uno bacia un crocefisso è consentito, mentre scandalizzarsi per l' esibizione del velo come appartenenza religiosa e politica è punibile?

A SENSO UNICO. In realtà i membri di questa Autorità hanno stabilito, secondo criteri ideologici mutuati da Repubblica e dalla Fiera del libro di Torino, chi sono i forti e chi i deboli. I primi sono bastonabili bastonabilissimi, secondo la celebre frase del Conte Attilio. I secondi vanno tutelati non perché "persone", ma in quanto selezionati con il vaglio di una sociologia da quattro soldi. I vecchi, i bambini non nati, i down e i nani nel seno materno, i cristiani, i fascisti, i berlusconiani, i ricchi, i cacciatori, i pescatori, gli animalisti, ci metto anche i comunisti, i leghisti, i medievalisti, i pensionati, i pregiudicati, gli eterosessuali, gli impotenti, i carcerati, gli agenti di polizia penitenziaria, i carabinieri, i preti: quelli si può dire che ci rubano il pane, che sono pedofili, che stermineranno i neri, eccetera? Abbiamo elencato categorie alcune delle quali sono sottoposte in questi giorni a campagne che hanno il chiaro obiettivo di estrometterle dal consorzio sociale. Per giunta oggi le vittime della cultura dello scarto sono trattati con un linguaggio sterilizzato così si eliminano meglio: i vecchi sono chiamati anziani, si è attentissimi a non spregiare i bambini nati con malformazioni, ma diventano sempre di meno perché oggetto contemporaneamente di parole gentili e di aborto eugenetico (detto terapeutico). Anzi chi protesta contro questi maciullamenti è accusato, se propone un manifesto con un feto, proprio di istigare odio contro le donne. E se qualcuno osa dissentire sull' adozione per le coppie omosessuali, è inchiodato all' imputazione di omofobia. Colpisce molto una dichiarazione di uno degli autori del regolamento. Dice: «La libertà di espressione è sacra, ma vanno fermate pericolose generalizzazioni». Non si potrà più scrivere - a proposito di generalizzazioni - che «gli immigrati ci portano via il lavoro», o che «dall' Africa arrivano certe malattie». Si tratta infatti di «pericolose generalizzazioni, non supportate da dati o statistiche attendibili». Ce le date voi? Siamo qui apposta... Non sono i regolamenti linguistici stabiliti da una casta di presunti sapienti a diffondere l' amore. Semmai si ottiene il risultato contrario.

Vittorio Feltri monumentale: "Islam, immigrati, partigiani e comunisti, quello che non si può più dire". Libero Quotidiano il 24 Maggio 2019. Non si può dire negro al negro. Non si può dire che l' integrazione con gli islamici è impossibile. Non si può dire che i terroristi islamici sono bastardi. Non si può dire che l' accoglienza va limitata o evitata. Non si può dire che gli extracomunitari pisciano nelle aiuole e deturpano le città. Non si può dire che è uno scontro di religione o di civiltà. Non si può dire che lo stato etico è una cosa da medioevo e che il Corano ispira violenza. Non si può dire zingaro né rom né nomade. Non si può dire frocio né finocchio né culattone. Non si può dire che l' aborto è un orrore. Non si può dire che l' utero in affitto è orribile. Non si può dire che i bambini devono avere una mamma e un papà. Non si può dire che gli infanticidi sono prodotto di crudeltà. Non si può dire che i femminicidi sono omicidi tali quali ai vecchicidi e agli omicidi. Non si può dire che la difesa è sempre legittima. Non si può dire che il Mezzogiorno è arretrato rispetto al Nord. Non si può dire che la scuola è diventata un ammortizzatore sociale dove non si impara niente. Non si può dire che molti giovani sono disoccupati perché non hanno voglia di lavorare. Non si può dire bamboccioni. Non si può dire che la famiglia è l' unico baluardo della società. Non si può dire che le parrocchie sono migliori delle moschee. Non si può dire che è meglio credere in Dio che in Allah. Non si può dire che le donne rompono i coglioni. Non si può dire che gli uomini fanno altrettanto. Non si può dire che la natura non è democratica per cui non tutti gli individui sono uguali e che l' uguaglianza è un mito. Non si può dire che la scuola non deve insegnare l' educazione sessuale ma solo a leggere e scrivere. Non si può dire che il comunismo era una schifezza. Non si può dire che il fascismo ha fatto cose buone. Non si può dire che il comunismo e il nazismo pari sono. Non si può dire che gli israeliani hanno più ragioni dei palestinesi. Non si può dire che uno è cieco, semmai è un non vedente. Non si può dire che uno è sordo, al massimo è un audioleso. Non si può dire spazzino, ma operatore ecologico. Non si può dire che il clima cambia da sempre e che le glaciazioni sono state una costante. Non si può dire che i sindacati fanno male ai lavoratori. Non si può dire che destra e sinistra fanno entrambe schifo. Non si può dire che il Sud è meno evoluto del Nord. Non si può dare del terrone a un terrone mentre è lecito dare del polentone a un polentone. Non si può dire che i partigiani hanno infoibato tanti italiani. Non si può dire che a guerra finita i bolscevichi hanno continuato a uccidere. Non si può dire che gli abitanti della penisola hanno votato per anni la Dc per paura dei comunisti. Non si può dire che i terroristi rossi erano più numerosi e pericolosi di quelli neri. Vittorio Feltri

Con la scusa dell'odio ci imbavagliano. Il regolamento dell'Agcom. Francesco Maria Del Vigo. Venerdì 24/05/2019, su Il Giornale. Occhio a quello che dite e a quello che scrivete. E forse anche a quello che pensate. Non solo se siete giornalisti, anche perché, grazie alle reti sociali, sono tutti un po' giornalisti e tutti possono dire quello che gli pare e piace. Ieri il garante per le comunicazioni, l'Agcom, ha tracciato un limite inviolabile oltre il quale si sprofonda nell'hate speech. Chi sgarra viene segnalato e poi multato. Fino a qui siamo tutti d'accordo. Il problema è: quali sono le parole d'odio? Perché a questo punto entra in ballo la sensibilità personale e quindi, almeno in una certa misura, anche la soggettività. Le parole d'odio - spiega l'Agcom - prendono di mira bersagli specifici (come le donne, gli omosessuali, gli immigrati, i rom, le persone di colore). Parole che farebbero leva su stereotipi e luoghi comuni. Ma nel mirino del garante finiscono anche i contenuti di cronaca che possono portare a «pericolose generalizzazioni». E la questione si fa sempre più complicata. Facciamo un esempio pratico: lunedì a Mirandola un giovane marocchino ha dato alle fiamme le sede dei vigili urbani, uccidendo due persone e ferendone altre venti. Posso dire che è marocchino? Oppure sto seminando odio nei confronti della popolazione del Nordafrica? E se, come purtroppo molte volte è accaduto, qualcuno fa una strage nel nome di Allah, possiamo scriverlo o dobbiamo tacerlo per non turbare la sensibilità degli 1,8 miliardi di musulmani nel mondo? Perché quelle non sono parole d'odio, sono parole che raccontano l'odio. Odio altrui, non di chi scrive. Altrimenti bisogna smettere di raccontare e gettare alle ortiche i 5 pilastri del giornalismo, le domande: «Chi? Che cosa? Quando? Dove? Perché?». «Chi», se si tratta di uno straniero, è meglio non dirlo. «Perché», se in ballo ci sono questioni politiche e religiose, meglio evitare di esplicitarlo. Non sia mai che qualcuno generalizzi e pensi, per esempio, che tutti gli islamici siano kamikaze o che tutti gli zingari siano borseggiatori. Non c'è bisogno che arrivi qualcuno a mozzarci la lingua, noi occidentali siamo specializzati nell'arte di tagliarcela da soli. Anche perché chi è l'arbitro che decide cosa si può dire e cosa no? In parte l'Agcom stessa, che si impegna a monitorare il flusso di informazioni. Ma controllare tutto, dalle gazzette di provincia alle tv nazionali passando per Facebook e Twitter, è umanamente e tecnicamente impossibile. Quindi il garante si baserà anche sulle denunce di associazioni e organizzazioni rappresentative. Ed è ovvio che l'associazione che difende i nomadi vedrà ovunque un attacco ai nomadi. Perché quello è il suo lavoro. Così il regolamento dell'Agcom rischia di diventare una pericolosa tagliola che ingabbia ancora di più la parola nei recinti angusti della religione del politicamente corretto.

·         Censura: con le buone o con le cattive.

Avvocato Caterina Malavenda, per “Oggi” il 18 novembre 2019. Non basta essere vip per poter essere fotografati senza limiti. Applicare le norme vigenti, alcune anche risalenti nel tempo, per disciplinare un gesto - qual è fotografare con il cellulare tutto quel che abbiamo intorno - che è diventato consueto come mangiare, è pretesa che può apparire velleitaria. E può sembrarlo ancor di più se la persona oggetto dello scatto "rubato" vive sul web e posta apparentemente tutto quel che le accade, ma per sua libera scelta. Eppure, anche l'influencer più noto o il cantante più famoso hanno diritto alla loro privacy e alla tutela dei propri dati, fra i quali rientra anche l'immagine, che non può essere carpita, cioè, come dice la legge sul trattamento dei dati applicabile in questo caso, "raccolta" senza il consenso dell'interessato, a meno che ciò non avvenga nell'esercizio dell'attività giornalistica e a fini informativi. E non importa che la "vittima" si trovi in luogo pubblico o aperto al pubblico, cioè in aereo, al ristorante e ogni altro luogo cui si accede, in numero limitato e a determinate condizioni. A trovare applicazione non sono quindi la legge sul diritto d'autore, risalente al 1941, e le regole che si occupano dell'uso della foto, quanto piuttosto la più moderna normativa a tutela della privacy che consente anche alla persona più famosa del mondo di dormire in aereo, ma anche su una panchina, senza rimanere in balia di fotografi in erba che vogliono dimostrare di esistere, anche perché si trovano casualmente nello stesso luogo del proprio idolo e possono farlo sapere a tutti.

Telecronaca sessista, radiato il cronista tv Sergio Vessicchio. Pubblicato sabato, 30 novembre 2019 da Corriere.it. La vicenda aveva fatto discutere a lungo giornalisti e non nello scorso mese di marzo. Ora però è arrivato il verdetto del Consiglio di disciplina territoriale dell’Ordine dei giornalisti della Campania che ha deciso la radiazione dell’allora collaboratore e telecronista di CanaleCinquetv Sergio Vessicchio. Vessicchiolo scorso marzo durante la partita Agropoli-Sant’Agnello, partita del campionato di Eccellenza della Campania aveva duramente attaccato la guardalinee donna dell’incontro Annalisa Moccia con una frase che aveva fatto sobbalzare gli spettatori a casa: «Chiederei alla regia di inquadrare l’assistente donna, che è una cosa inguardabile. È uno schifo vedere le donne che vengono a fare gli arbitri in un campionato dove le squadre spendono migliaia di euro, una barzelletta della Federazione». Le parole di Vessicchio avevano provocato già la sospensione del giornalista prima del provvedimento di venerdì scorso. L’Ordine dei giornalisti della Campania, in una nota comunica che «il Consiglio di disciplina territoriale, dopo approfondita istruttoria, come previsto dalla Legge, ha provveduto a radiare dall’Albo il giornalista pubblicista Sergio Vessicchio». «In precedenza lo stesso Vessicchio era già stato sospeso dall’Albo. La decisione è stata notificata anche al Procuratore generale della Corte d’Appello di Napoli. La radiazione è stata delibera ai sensi dell’art. 55 della legge n 69 del 1963 e successive modifiche».

Vicenda Manfrin al Parlamento Ue. “Battaglia per la libertà di parola”. Redazione AostaSera il 15 Novembre 2019. "I parlamentari europei hanno infatti preso molto seriamente quella che è stata definita una vera e propria “censura politica” ai danni di un rappresentante eletto nelle istituzioni." spiega in una nota il Carroccio. E’ sbarcata al Parlamento europeo a Bruxelles nei giorni scorsi la sospensione di tre mesi dall’ordine dei giornalisti del consigliere regionale della Lega Vda Andrea Manfrin. Martedì 12 e mercoledì 13 novembre, i Consiglieri regionali Andrea Manfrin e Paolo Sammaritani sono stati ospiti della delegazione Lega-Salvini Premier e del gruppo Identità e democrazia al Parlamento europeo a Bruxelles. “I parlamentari europei hanno infatti preso molto seriamente quella che è stata definita una vera e propria “censura politica” ai danni di un rappresentante eletto nelle istituzioni.” spiega in una nota il Carroccio. “La battaglia per la libertà di parola e per il contrasto alla censura – commenta il Consigliere Andrea Manfrin – è fondamentale per la sopravvivenza della democrazia. Sono felice che anche il Parlamento Europeo sia stato informato della situazione paradossale che si è venuta a creare. È del tutto evidente però che se qualcuno pensava di mettermi in difficoltà dovrà prendere atto di aver ottenuto l’effetto opposto”. Dello stesso avviso il Capo Delegazione Marco Campomenosi: “Ho voluto fortemente invitare il Consigliere Andrea Manfrin – ha dichiarato – a condividere la sua esperienza in questa sede per risaltare ancora una volta l’incoerenza dell’Unione Europea sempre pronta ad attaccare i Governi sgraditi su temi di rispetto dei diritti fondamentali ma silente quando le violazioni, come questa, avvengono in Stati amministrati da governi apprezzati dall’establishment europeo!”. Nel corso della miniplenaria di mercoledì 13 novembre, l’europarlamentare Gilles Lebreton del gruppo Identità e democrazia è intervenuto nell’aula del Parlamento europeo durante il dibattito riguardante la Giornata mondiale della fine dell’impunità per i crimini contro i giornalisti. Insieme ad altri casi ha citato anche quello di Andrea Manfrin. “En Italie par exemple, l’Ordre des journalistes du Val d’Aoste a suspendu 3 mois un journaliste, Monsieur Andrea Manfrin, dont le seul tort est d’avoir critiqué la présence d’étrangers  – ha dichiarato in aula il MEP Lebreton – Cette suspension est fondée sur un texte qui interdit aux journalistes l’utilisation du mot “clandestin”. Les étrangers en situation illégale sont pourtant une réalité qu’il est vain de vouloir nier. L’honneur du journalisme est de dire la vérité, quel qu’en soit le prix à payer”.

La Bbc va nel dark web per contrastare la censura. Pubblicato mercoledì, 30 ottobre 2019 su Corriere.it. La Bbc si immerge nel dark web per aggirare la censura. Il servizio radiotelevisivo pubblico britannico ha infatti deciso di aprire una versione del proprio sito di notizie visualizzabile solo tramite la rete anonima Tor. Alla base della decisione — spiega la stessa Bbc — c’è la volontà di rendere disponibile la propria informazione anche in quei Paesi in cui il normale sito web viene bloccato, come la Cina, l’Iran e il Vietnam. Il browser Tor è un software focalizzato sulla privacy utilizzato per accedere al «web oscuro» e può nascondere i dati di chi lo sta utilizzando, aiutando gli utenti a evitare la sorveglianza e la censura dei governi. La versione della Bbc per il dark web è quella internazionale, vista dall’esterno del Regno Unito e comprenderà servizi in lingua straniera, tra cui anche il russo. Il deep web è quella parte del World Wide Web non indicizzata dai comuni motori di ricerca. Per capire la mole dell’iceberg basta dire che Google indicizza circa 2 miliardi di documenti, ossia tra l’1 e il 3% di quello che si può davvero trovare nel web, mentre il resto del ghiaccio rimane sommerso, una quantità di documenti pari a 500 volte la punta che emerge dal Surface Web. Nel deep web si trova di tutto: terroristi e agenzie di intelligence, hacktivisti e dissidenti, gruppi di criminali che si muovono tra vendita di armi e droga, traffico di esseri umani e materiale pedopornografico. Il dark web invece è un sottoinsieme del deep web, solitamente irraggiungibile attraverso una normale connessione Internet senza far uso di software particolari perché giacente su reti sovrapposte ad Internet chiamate genericamente darknet (le darknet più comuni sono Tor, I2P e Freenet).

Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” il 2 novembre 2019. «Sono tornato merde, ci divertiremo qui su Vk», annunciava Tommaso Longobardi, considerato il Luca Morisi di Giorgia Meloni, spin doctor digitale con un passato alla Casaleggio associati, creatore instancabile di meme sovranisti e dotato di un' ironia tutta sua (tipo: foto del bidet di casa e dida «pronto ad ospitare anche io Macron »). I neofascisti orfani delle pagine Facebook, da Casapound a Forza Nuova e Primato nazionale, sono decine di migliaia e assieme alle rispettive organizzazioni di estrema destra provano da alcune settimane a ritrovarsi tutti sul social network russo VKontakte, che starebbe per "in contatto". E a tenersi in contatto sui canali di Telegram, il Whatsapp russo, creato dallo stesso fondatore di Vk. Il quale però - si chiama Pavel Durov, ha 35 anni, è ricchissimo ed è cresciuto a Torino - adesso non è più a capo della società: nel 2014 per motivi mai ben chiariti fino in fondo ha ceduto il passo a due oligarchi molto vicini a Vladimir Putin, cioè Igor Sechin e Alisher Usmanov. Il primo, ex agente segreto del Kgb, è anche a capo della Rosfnet, il colosso petrolifero; il secondo era tra i proprietari dell' Arsenal e di lui si parlò come possibile acquirente del Milan. Vk è praticamente identico a Facebook: stesso blu tenue di sfondo, stessi tasti, stesso meccanismo di condivisione di fotografie e post. Ma è uno spazio russofilo, quindi terra praticamente vergine per gli italiani. Ed è un luogo dove la "censura", o più semplicemente le regole comportamentali richieste dal social di Mark Zuckerberg (il cui essere ebreo nel mondo neofascista non passa certo inosservato), non sono un tema all' ordine del giorno. Per il momento il problema è che i numeri, e quindi la cassa di risonanza, sono lontani da quelli di Facebook. La pagina di CasaPound ad esempio conta 4 mila fan, ma insieme a Forza Nuova è l' unico partito-movimento italiano che ha un proprio spazio, riaperto lo scorso 3 ottobre. «Questa pagina esisteva in realtà già da molto tempo, e a questo proposito ringraziamo gli amici, in particolare ucraini, che hanno presidiato questo nostro spazio in questi anni», è stato il messaggio re-inaugurale di Cpi. Il riferimento è ai neonazisti ucraini di Karpatska Sich, negli ultimi anni impegnati con delle proprie milizie nel Donbass e sodali dei "fascisti del terzo millennio". Invece il partito di Roberto Fiore - condannato per banda armata e associazione sovversiva come capo di Terza posizione, poi scappò a Londra dove fu latitante per 19 anni - dopo il blocco su Facebook sta tentando, come detto, di organizzarsi su «uno dei pochi social che non censura la libera circolazione delle idee» aprendo canali territoriali in modo coordinato: Catania, Agrigento, Lombardia, Lazio, Rovigo, Romagna, Veneto, Verona, Padova e così via. Gli aderenti sono poche decine per ognuno. Dello sbarco su Vk ne parlò «coraggiosamente» Radio Padania nella trasmissione condotta da Sammy Varin, storica voce dell' emittente leghista, ai tempi fustigatore dei «terroni» e oggi invece solidale coi neofascisti bannati. C' è poi un gruppo chiuso di 2.400 persone (di «patrioti») che si chiama "Prima gli italiani - Boia chi molla" e al quale sono ammessi solo attivisti di Lega, Fratelli d' Italia, CasaPound, Forza Nuova, Fronte nazionale, Movimento sociale Fiamma tricolore, Fronte della gioventù e «nazionalsocialisti» che «appoggiano in toto l' ideologia fascista». Una specie di coalizione, insomma, che ben descrive la reale tendenza maggioritaria del "centrodestra" italiano. Va ricordato infine che lo scorso luglio l'immagine della capitana della Sea Watch 3 Carola Rackete, scattata mentre veniva fotosegnalata dopo il leggero contatto tra la sua imbarcazione con i migranti e la vedetta della Guardia di Finanza nel porto di Lampedusa, fu pubblicata per la prima volta proprio su Vk. Il sospetto era che fosse stato qualche agente a pubblicarla, o a inviarla a qualche proprio contatto con l' account sul social russo. Una prateria sulla quale sfogarsi liberamente, contro comunisti, ebrei, migranti; e dove poter esporre senza filtri teschi, coltelli, mitra, uniformi militari, svastiche e croci uncinate. Con la benedizione dello zar Putin.

Giuseppe Agliastro per “la Stampa” il 2 novembre 2019. La Russia è pronta a erigere una cortina di ferro virtuale sul web. Una nuova legge appena entrata in vigore autorizza il governo russo a isolare la rete internet nazionale dal resto del mondo per farla funzionare autonomamente in caso di «emergenza». Il Cremlino presenta il nuovo provvedimento come uno scudo contro un eventuale attacco cibernetico dall' estero, ma molti osservatori considerano la riforma l' ennesimo pretesto per aumentare ulteriormente il controllo e la censura sul web da parte dello Stato. La legge per «internet sovrano» obbliga infatti i provider a installare degli strumenti capaci di tracciare, filtrare e reindirizzare il traffico online e consentire così alle autorità di bloccare con maggiore facilità l' accesso a siti e contenuti sul web: ultimo baluardo del dissenso in un Paese come la Russia in cui la tv è saldamente nelle mani del Cremlino. Queste tecnologie di controllo sono chiamate «deep packet inspection» (Dpi) e sono già state sperimentate in questi mesi in Russia, ma con risultati pare non sempre soddisfacenti. Secondo Novaya Gazeta, i primi test, in corso da settembre nella zona degli Urali, hanno dimostrato che gli utenti riescono ad aggirare i filtri. Una fonte ha invece raccontato alla testata online The Bell che i Dpi sono stati provati «di notte» e che «la rete crollava» quando venivano attivati. Pare inoltre che l' installazione degli strumenti di controllo sia in ritardo: stando ad alcune fonti di The Bell, il Consiglio dei ministri vuole infatti Dpi di qualità certificata, cosa che richiede almeno un anno, mentre il Cremlino preme per fare in fretta in modo da avere il web sotto chiave in tempo per le elezioni parlamentari del 2021. Le autorità sembra che riescano invece a bloccare con più facilità il traffico internet sui cellulari, come già avvenuto durante le proteste anti-Putin della scorsa estate a Mosca e le manifestazioni in Inguscezia contro la revisione dei confini con la Cecenia. Per isolare l'internet russo da quello mondiale, Mosca lancerà un sistema di nomi di dominio (Dns) indipendente nel 2021. I cambiamenti quindi non si vedranno subito perché, sottolineano gli esperti, nell' immediato mancano le tecnologie necessarie. Ma il provvedimento potrebbe comunque rivelarsi un duro colpo per la libertà di parola e aiutare il Cremlino a mettere in atto le tante leggi bavaglio sul web già esistenti in un Paese in cui si rischia di finire dietro le sbarre se si critica l' annessione della Crimea o l' intervento russo in Siria. «Ora il governo può censurare i contenuti o persino trasformare il web russo in un sistema chiuso senza spiegare al pubblico cosa stia facendo e perché», denuncia Human Rights Watch. Per questo migliaia di persone sono scese in piazza contro la legge lo scorso marzo a Mosca dopo il primo «sì» della Duma. C'è persino chi teme che la Russia voglia controllare internet con un Great Firewall come quello cinese, ma secondo alcuni analisti le peculiarità del web russo rendono questo obiettivo alquanto difficile per il Cremlino. Molti concordano comunque sul carattere di repressione politica della nuova norma. Questa legge - spiega Reporter Senza Frontiere - porta «la censura sul web in Russia a un nuovo livello».

Da repubblica.it il 31 ottobre 2019. L'ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama al summit annuale della sua Fondazione a Chicago dà una lezione ai ragazzi dei college: "Questa idea di purezza, e che tu non scendi mai a compromessi, e che tu sei sempre politicamente consapevole e tutte queste cose… voi dovreste superare queste sciocchezze velocemente. Il mondo è confuso, è pieno di ambiguità. Anche chi si dà da fare sul serio ha dei difetti. Le persone che stai combattendo potrebbero amare i loro bambini e, lo sapete, condividere certe cose con voi".

Paolo Mastrolilli per “la Stampa” il 31 ottobre 2019. «Abbiamo preso la decisione di bloccare tutte le pubblicità politiche su Twitter a livello globale. Crediamo che la diffusione del messaggio politico debba essere guadagnata, non comprata». Con questo annuncio, ovviamente pubblicato su Twitter, Jack Dorsey ha acceso quella che potrebbe diventare la scintilla per la rivoluzione del ruolo che i social media interpretano nella democrazia e nelle nostre società. L' inventore dei cinguettii ha infatti bandito dalla piattaforma tutti gli spot a pagamento pubblicati dai politici, per mettere fine alla diffusione di informazioni distorte o apertamente false. Inserzioni a pagamento In altre parole è pronto a rinunciare ad una montagna di soldi, in particolare alla vigilia delle presidenziali americane del 2020, pur di non compromettere la qualità del dibattito pubblico. Il ruolo dei social media nella politica è sotto la lente ormai da anni, per i diversi scandali che li hanno macchiati. Gli esempi sono tanti e tutti gravi, dalle campagne di fake news condotte dalla Russia in tutte le democrazie occidentali, ma in realtà non solo dalla Russia, fino alla vendita dei dati degli utenti di Facebook ceduti a Cambridge Analytica, per orientare il consenso a favore di Trump. Il problema è diventato un' emergenza, che rischia di falsificare i risultati elettorali e demolire la credibilità della democrazia.

«Nessuna censura» Nelle settimane scorse i candidati democratici Joe Biden ed Elizabeth Warren hanno chiesto a Facebook di rimuovere spot politici non aderenti alla verità, ma durante una recente audizione al Congresso il fondatore Mark Zuckerberg ha risposto che non intende diventare il poliziotto dei contenuti pubblicati sulla sua piattaforma. In teoria, questa posizione si giustifica con l' impegno dei social media di evitare ogni tipo di censura, e restare strumenti di comunicazione aperti a tutti. Nella pratica, però, c' è il rischio che sia invece una scelta dettata dall' interesse economico di continuare ad incassare i profitti generati dalla pubblicità e dalla vendita dei dati. Dorsey ha deciso allora di prendere una posizione diametralmente opposta, vietando tutti gli spot politici. Il problema secondo lui non è la libertà di espressione, che resta garantita, perché tutti i candidati possono avere accesso a Twitter, e conquistarsi attenzione e consenso attraverso i loro contenuti. Diverso invece è il discorso per le pubblicità, che sono spazi acquistati e imposti alla visione degli utenti. In questi spot spesso sono contenute informazioni false e distorte, e Jack non vuole assumersi la responsabilità di diffonderle in tutto il mondo: «La decisione non riguarda la libertà di espressione, ma il fatto di pagare per raggiungere l' audience. E pagare per aumentare questa capacità di diffusione ha ramificazioni significative, che l' infrastruttura democratica oggi potrebbe non essere preparata a gestire. Vale la pena di fare un passo indietro per affrontare la questione». Si comincia dunque con gli spot politici, ma la riflessione è così aperta su tutte le distorsioni dei social..

Leonard Berberi per il “Corriere della sera” il 30 ottobre 2019. La proposta non è nuova, l' applicazione complicata, le conseguenze non del tutto prevedibili. Per combattere l' odio online e la diffusione di notizie fasulle il deputato di Italia viva Luigi Marattin chiede di introdurre l' obbligo di depositare un documento d' identità quando si apre un profilo social. «Poi prendi il nickname che vuoi (perché è giusto preservare quella scelta) ma il profilo lo apri solo così», chiarisce su Twitter l' economista renziano. In un cinguettio successivo il parlamentare spiega che la mossa serve, tra le altre cose, a «impedire che il web rimanga la fogna che è diventato (una fogna che sta distorcendo le democrazie, invece che allargarle e rafforzarle)». L'idea viene sostenuta dal regista Gabriele Muccino che commenta, sempre a mezzo social: «Solo così - ragiona - sapremo chi si nasconde dietro la rete commettendo reati penali sotto l' impunità dell' anonimato». Ma come dovrebbe avvenire questa nuova forma di autenticazione? La petizione - che è stata postata sul sito di Italia viva e aveva ricevuto fino a ieri sera poco più di 2.400 adesioni (incredibile, ma vero: non tutte veritiere) su diecimila - sostiene che la registrazione del documento dovrebbe avvenire «avvalendosi di autorità terze» e al solo scopo di «garantire che a un account corrisponda un nome e un cognome di una persona reale, eventualmente rintracciabile in caso di violazioni di legge». L'idea raccoglie, almeno a livello social, più dissensi e critiche che consensi. E non è dissimile dal disegno di legge numero 895 depositato il 24 ottobre di un anno fa - dai senatori Pagano, Giammanco, Bernini, Malan, Damiani, Floris, Vitali, Aimi e Cangini - per la modifica al decreto legislativo 70 del 2003: nell' unico articolo si suggerisce l' introduzione dell'«obbligo di identificazione»: «I fornitori di servizi di memorizzazione permanente hanno l' obbligo di richiedere, all' atto di iscrizione del destinatario del servizio, un documento d' identità» valido.

Mica facile nel concreto. «Ci sarebbe difficoltà a definire cos' è un social network», scrive su Twitter il ricercatore di sicurezza Luigi Gubello (@evaristegal0is). Che poi sottolinea come con questa proposta lo Stato permetterebbe di collezionare i documenti a società private che hanno pure la sede legale fuori dal Paese. In generale le nostre autorità «farebbero fatica a sapere se il documento è vero o no e se è realmente associato alla persona dietro al monitor»: per esserne certi dovrebbero vietare quelle soluzioni che «mascherano» le proprie attività online (Tor, Vpn). Insomma: più che risolvere un problema la proposta di Marattin o il disegno di legge presentato l' anno scorso al Senato rischiano di aprire un vaso di Pandora. Legale e pratico.

Il problema della politica sui social non è la pubblicità. Twitter mette al bando l’advertising a tema politico ma tutto il resto, come su Facebook, non cambia. Federico Gennari Santori il 4 Novembre 2019 su rivistastudio.com. Nella pur breve storia dei social media stavolta l’aggettivo “storico” non è soltanto lecito ma anche dovuto. Perché storica è la decisione comunicata la settimana scorsa da Twitter, che dal 22 novembre vieterà la pubblicità di argomento politico. Da quel giorno sulla piattaforma non sarà più possibile investire denaro per aumentare la diffusione di tweet che abbiano a che fare con elezioni, referendum e temi annessi. In un clima sempre più teso tra istituzioni e aziende tech, e con le presidenziali statunitensi del 2020 ormai alle porte, il fondatore e Ceo Jack Dorsey ha pensato bene di togliersi da ogni equivoco, lanciando un guanto di sfida a quello che fin dal primo istante è stato il convitato di pietra di tutta la vicenda: Facebook. “Cosa farà Mark Zuckerberg?”, ci si domanda. Ma visto che la storia non si fa con i “se”, prima occupiamoci di come è scaturita e di che cosa implica la decisione di Twitter, che nonostante gli apprezzamenti è tutt’altro che risolutiva. Tanto per cominciare, un chiarimento. Twitter blocca la pubblicità a sfondo politico, ma non la possibilità di twittare qualunque cosa si voglia in materia di politica. Questo significa che continueremo a vedere i tweet di Donald Trump e anche, per dire, quelli di organizzazioni razziste. Senza contare che ben lungi dall’essere risolto è il più annoso problema di Twitter, ovvero l’utilizzo di account falsi e bot per influenzare il dibattito sulla piattaforma, che molti politici utilizzano (basti pensare alla “bestia” di Salvini) e che di fatto rende assai poco necessario pagare per raggiungere più utenti. Potremmo dire maliziosamente che il social network impone un blocco preventivo penalizzando tutti ed esimendosi dal fare i dovuti distinguo, a fronte di una mossa che, pur senza precedenti, non rappresenta certo un sacrifico economico. L’advertising di natura politica, come l’azienda stessa sottolinea, vale un pugno di dollari: appena 3 milioni in occasione delle elezioni statunitensi del midterm, che corrispondono a circa lo 0,1% dei ricavi dell’azienda, e un importo stimato analogo per il prossimo trimestre del 2019. Con questo non vogliamo disconoscere la portata della scelta fatta da Twitter. Ma va ricordato che, tolta la pubblicità, la gestione dei contenuti politici non cambia rispetto a quella che molto più esplicitamente Mark Zuckerberg aveva descritto durante il suo discorso alla Georgetown University. E che la responsabile dell’organizzazione Sharyl Sandberg ha ripetuto a Bloomberg dopo le dichiarazioni di Dorsey, specificando che non le condivide. Facebook rivendica che non farà fact-checking sulle dichiarazioni dei politici, si tratti di pubblicità o meno. Così una pioggia di critiche si è abbattuta sull’azienda e Twitter, come in altre occasioni, ne ha approfittato per fare un improbabile scatto in avanti sul rivale. Concorrenza e reputazione a parte, le ragioni che hanno portato a questo scatto sono tre: una sbagliata, una encomiabile, una nascosta. La prima, descritta da Dorsey, è che «il consenso politico va guadagnato, non comprato». Può anche sembrare una buona massima, ma da sempre la costruzione del consenso si basa, nel bene e nel male, anche sulla propaganda a pagamento. Per quanto possano essere diversi i social media, un’argomentazione del genere dovrebbe valere anche per la televisione, la radio e i cartelloni. E allora, guardandola dal punto di vista di un partito, perché per raggiungere i suoi scopi (soprattutto se non intende diffondere notizie false) gli si dovrebbe impedire di fare pubblicità sui mezzi di comunicazione più potenti della nostra epoca? Ecco che questa tesi e la sua applicazione, che non è esagerato definire pregiudiziale, appare più che discutibile. La seconda ragione addotta da Dorsey consiste in una presa d’atto inedita. Considerando i rischi per la democrazia che ha comportato, le sfide tecnologiche sempre più difficili a cui fare fronte (machine learning, micro targeting, deep fake, ecc.) e le difficoltà nel governare tutto questo, è meglio sospendere del tutto la pubblicità a sfondo politico. A costo di perdere un po’ di denaro. Dorsey non manca però di ricordare che serve una regolamentazione migliore sugli annunci politici, ma anche che da parte dei regolatori serve impegno per definirla. E qui arriviamo alla terza ragione, quella nascosta ma forse più concreta. Perché, al di là del buon gesto e del riconoscimento della propria non autosufficienza, Twitter ha preferito eliminare del tutto gli annunci politici piuttosto che subire ulteriori danni reputazionali dovuti alla comunicazione fatta perlopiù dai politici e alle critiche che ne sarebbero derivate da parte dagli stessi politici. Bypassando una responsabilità, però, la piattaforma se ne è di fatto presa un’altra. Facciamo un esempio concreto: in un Paese soggetto a un regime illiberale per i partiti di minoranza la pubblicità sui social media potrebbe essere uno dei pochi modi per sfuggire al controllo governativo.  Ancora: immaginando che il divieto si estenda a tutte le piattaforme digitali, i politici meno esposti mediaticamente e in cerca di notorietà potrebbero avere più difficoltà a emergere. Di più: come specifica la policy di Twitter, nell’advertising politico può rientrare un appello al voto per un certo candidato ma anche un argomento di interesse pubblico, come la critica o la richiesta di una legge in materia di immigrazione, sanità, ambiente. Possiamo supporre che un’organizzazione per i diritti umani non potrà investire denaro per campagne su argomenti del genere. La domanda allora è sempre la stessa: a chi spetta realmente decidere se e in base a che cosa censurare un determinato contenuto politico o impedire una pubblicità? Dov’è il confine tra ciò che deve decidere un’azienda privata e ciò che compete alle istituzioni pubbliche? In quest’ottica le già citate rivendicazioni di Facebook non sono immediatamente liquidabili come fossero una presa in giro: in nome della libertà d’espressione e per rispetto del ruolo rivestito dai politici in democrazia, i loro post non solo potranno essere pubblicizzati ma non saranno nemmeno sottoposti a verifica dalla piattaforma. L’idea è che la parola di un politico non si limita a riferire un’eventuale notizia, ma è essa stessa una notizia. Facebook la fa semplice, ma vorrebbe comportarsi come già fanno alcuni media tradizionali: riportare automaticamente quello che dicono i politici senza responsabilità editoriali o giornalistiche a riguardo, stop. Anche perché – soprattutto dopo le polemiche dovute alla supposta riduzione di visibilità per i contenuti diffusi dai repubblicani statunitensi – possiamo solo immaginare a quali critiche si esporrebbe controllando le dichiarazioni di tutti i politici, cosa che oltretutto creerebbe un precedente rispetto alle notizie di ogni presenti sul social network. Figurarsi eliminando l’advertising a tema politico: Trump, che basa su questo la sua propaganda, sarebbe sul piede di guerra. Non è chiaro allora perché un social network dovrebbe lasciarsi affibbiare, oltre a quelle legate alle proprie inadempienze, anche responsabilità che solo in parte gli appartengono. Siamo in una impasse ben rappresentata dallo scambio tra la rappresentante democratica Alexandria Ocasio-Cortez e Mark Zuckerberg nella sua recente audizione. Lei faceva domande calzanti ma recitava anche la sua parte di pasionaria; lui dava risposte vaghe fugando responsabilità ma con la tranquillità di chi, anche dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, è al timone di un colosso che nel terzo trimestre del 2019 continua a crescere superando le aspettative e che deve alle inserzioni politiche meno dello 0,5% dei suoi ricavi. Chi non vede l’incomunicabilità di fondo e magari si esalta per come Ocasio-Cortez ha “asfaltato” un “inerme” Zuckerberg si è perso un pezzo della storia. E sarebbe ora di finirla con il tifo mentre siamo alle prese con una questione epocale, che intacca la libertà di espressione, la democrazia e il liberismo economico, ma di fronte alla quale nessuno dei protagonisti sembra avere soluzioni. In anni di dibattito si è parlato molto di errori e crimini delle piattaforme, di multe e scorporamenti, meno del quadro normativo o, meglio, del conflitto di attribuzione di responsabilità che lo neutralizza. E meno ancora del problema che c’è a monte, cioè che ancor prima di notizie false (o vere), linguaggio dell’odio e pubblicità c’è un algoritmo che regola la visibilità di ogni contenuto da parte degli utenti. Questo filtro deve o non deve riguardare anche i contenuti di ambito politico, a maggior ragione se in periodo elettorale? È da qui che bisogna partire. I politici non potranno continuare a criticare, chiedere correzioni o, come qualcuno ha fatto, invocare il rispetto di regole (che spesso nemmeno esistono) senza assumersi a loro volta le proprie responsabilità di fronte a una rete che per partito preso viene già definita “ingovernabile”. Perché le aziende non lo faranno e, semmai lo facessero, dovremmo preoccuparci ancora di più per la nostra democrazia. Dorsey ne ha fatto cenno nei suoi tweet, ma la scorsa primavera era stato proprio Zuckerberg dalle colonne del Washington Post a rivolgere alla politica un appello, anche qui tacciato da molti come una resa: «Aiutateci perché non possiamo fare tutto da soli». Una bella faccia tosta, certo, ma il paradosso vuole che avesse almeno una parte di ragione. Troppo spesso la classe politica si è esibita in presunte “asfaltature” senza rinunciare ai propri investimenti sui social network e senza fare vere proposte. Forse il blocco dell’advertising su Twitter servirà da sollecito. Intanto attendiamo la mossa di chi, per introiti e ripercussioni, ha molto più da perdere: Facebook e Google. Facciamolo senza troppe illusioni.

Odio in rete, Marattin (Iv), chiede la carta social. Ma spuntano suoi insulti a Vendola e alla Lega: "Con Nichi fu un equivoco". Il parlamentare renziano chiede la carta social contro l'odio in rete, ma una volta non dava il buon esempio: definiva i leghisti "teste di cazzo", e faceva battute sessiste sull'ex presidente della Regione Puglia. La Repubblica il 30 ottobre 2019. Sta facendo discutere la proposta di Luigi Marattin, deputato di Italia Viva, di rendere obbligatoria la carta di identità per l'uso dei social network. Ma lui che vuole porre rimediare all'odio in rete una volta non dava certo il buon esempio. Sul web stanno circolando infatti alcuni vecchi post in cui il parlamentare renziano si lascia andare a un linguaggio non proprio british. "Ricordiamolo così, come l'uomo che accusava il web di essere una fogna", scrive ad esempio su Twitter Alessandro, pubblicando lo screenshot di un post di Marattin del 2012 rivolto contro Nichi Vendola. "Nichi, per usare il tuo linguaggio, ma va a elargire prosaicamente il tuo orifizio anale in maniera totale e indiscriminata", scriveva l'allora assessore del Pd a Ferrara. "Si è trattato di un equivoco molto sfortunato - dice ora Marattin -. Volevo mandare Vendola a quel Paese e invece di mandarlo semplicemente a quel Paese, cosa che avrei voluto fare, ho voluto 'imitare' una delle sue perifrasi. Ma il mio non voleva essere un riferimento alla sua sessualità. Sono passati 7 anni da quel giorno. Oggi sarei meno ingenuo". In un altro screenshot circolato in queste ore, risalente al 2018, il deputato di Italia Viva auspica che "gli italiani con il proprio voto rimandino nella fogna quelle miserabili teste di cazzo che hanno il coraggio di sparare fesserie su spread e austerità". La risposta era indirizzata ad alcuni esponenti della Lega, come il senatore Alberto Bagnai, per via di alcune loro considerazioni espresse in seguito al crollo del Ponte Morandi. "Avevano attribuito le ragioni del crollo alla politica di austerità dell'Unione europea. Replicando a quelle affermazioni commisi l'errore di non citarle, ma mi riferivo al fatto che speculare con i morti sotto le macerie per accampare le loro teorie economiche strampalate era una cosa miserabile. Oggi riconfermerei in pieno quel tweet", dice Marattin. Ad ogni modo Marattin difende la sua proposta di introdurre una carta di identità per i social. Un provvedimento, spiega, che "c'entra relativamente con l'odio in rete. In queste ore si è messa in moto una potente macchina, perché gli interessi in gioco sono grandi, e questi screenshot ne sono la prova. Ma io non mi faccio intimorire". Secondo il parlamentare renziano "il problema è chi usa i social per manipolare l'opinione pubblica. La mia proposta è qualcosa di simile a uno Spid. Abbiamo competizioni elettorali che sono state distorte dall'uso del web. Parliamo di distorsioni della nostra democrazia, non si capisce perché queste regole debbano valere per tutto tranne che per il web", rimarca l'ex esponente dem.

I due volti di Marattin: vuole ripulire il web ma è odiatore omofobo. Il promotore della schedatura sui social è un hater: insulti alla Lega e allusioni su Vendola. Domenico Di Sanzo, Venerdì 01/11/2019, su Il Giornale. Se esistesse una patente per potersi iscrivere ai social network probabilmente gliel'avrebbero già ritirata. O quantomeno gli avrebbero tolto un sacco di punti. Per fortuna la patente non c'è ancora, ma la proposta del deputato di Italia viva Luigi Marattin ha un che di simile. E ha già fatto discutere: introdurre la richiesta di un documento di identità prima di registrarsi alle piattaforme di social networking come Facebook e Twitter. La ratio dell'idea, secondo il promotore, è volta ad evitare il proliferare di account fake, in molti casi tra i principali diffusori di bufale montate ad arte e notizie false per manipolare l'opinione pubblica sul web. Ma anche troll e odiatori, detti haters, pronti ad offendere e insultare chi la pensa diversamente da loro. Di quest'ultima categoria, si è scoperto, avrebbe potuto far parte Marattin. L'attuale guru economico di Renzi, infatti, qualche anno fa era solito utilizzare al massimo il potenziale violento dell'interazione sui social. I vecchi post sono cominciati a circolare nella serata di mercoledì, dopo una giornata caratterizzata dalle polemiche e dalle denunce sulla possibilità di firmare la petizione sul sito di Italia viva senza alcun controllo di identità, quindi con nominativi rigorosamente fake. In uno screenshot pubblicato da un utente su Twitter si possono leggere gli insulti che Marattin lanciava all'indirizzo di Nichi Vendola nel 2012. L'allora assessore del Pd a Ferrara si esprimeva così: «Nichi, per usare il tuo linguaggio, ma va' a elargire prosaicamente il tuo orifizio anale in maniera totale e indiscriminata». Sembrerebbe un riferimento, abbastanza esplicito e di certo volgare, all'omosessualità dell'ex leader di Sel, già governatore della Puglia. Veramente troppo per chi propone di depurare il web da bufalari e leoni da tastiera. L'ineffabile Marattin, però, ha una giustificazione per questo episodio spiacevole del suo passato digitale: «Si è trattato di un equivoco molto sfortunato ha spiegato all'AdnKronos volevo mandare Vendola a quel paese e invece di mandarlo semplicemente a quel Paese, cosa che avrei voluto fare, ho voluto imitare una delle sue perifrasi». Niente allusioni, dunque: «Ma il mio non voleva essere un riferimento alla sua sessualità. Sono passati sette anni da quel giorno. Oggi sarei meno ingenuo», ha concluso il parlamentare renziano. Nessun dietrofront, invece, per gli insulti ai leghisti, definiti da Marattin «miserabili teste di c...». Era il 2018, l'economista era già deputato e importante esponente del Pd, e sui social non usava un linguaggio felpato, per usare un eufemismo: «Gli italiani con il proprio voto rimandino nella fogna quelle miserabili teste di c... che hanno il coraggio di sparare fesserie su spread e austerità», andava così all'assalto del senatore del Carroccio Alberto Bagnai e di altri suoi colleghi per via di alcune loro considerazioni espresse dopo il crollo del Ponte Morandi di Genova. Niente scuse, nemmeno per la forma del tweet: «Avevano attribuito le ragioni del crollo alla politica di austerità dell'Ue. Replicando a quelle affermazioni commisi l'errore di non citarle, ma mi riferivo al fatto che speculare con i morti sotto le macerie per accampare le loro teorie economiche strampalate era una cosa miserabile». E quindi, come chiude il discorso il paladino della correctness sul web? «Oggi riconfermerei in pieno quel tweet». Parola di Marattin.

Identità sui social, Luigi Marattin risponde a Riccardo Luna: "Il web non si può regolamentare da solo". Il deputato di Italia Viva interviene nel dibattito sulla sua proposta di rendere obbligatorio l'uso di un documento di identità per aprire un profilo sui social network. la Repubblica il 30 ottobre 2019. Riceviamo e pubblichiamo da Luigi Marattin, deputato di Italia Viva, la risposta all'articolo di Riccardo Luna pubblicato ieri su Repubblica. Ringrazio Riccardo  per aver voluto - circa mezz'ora dopo la mia proposta - commentarla con così grande evidenza. Lo avrei ringraziato con maggiore enfasi se avesse evitato di definire "colui che non sa di cosa si sta parlando" (o diffusore di "fuffa") chiunque non sia d'accordo con la sua legittima opinione, visto che non si sta parlando di contestare una verità (o un metodo) scientifico, ma di divergenti opinioni sulla regolamentazione di uno strumento. Ma tant'è, ognuno adotta l'approccio che vuole. E poi fin dai tempi di Palazzo Chigi ricordo Riccardo come una persona alla quale non piace troppo essere contraddetto.

In queste brevi righe proverò a rispondere alle sue osservazioni. Alla fine Riccardo fa solo due contestazioni di merito:

1) già oggi è possibile identificare con assoluta certezza tramite l'indirizzo Ip l'utente di ogni profilo social;

2) anche qualora questo non sia possibile, è giusto che ciascuno possa ricorrere all'anonimato in rete.

Comincio con l'osservare che i due punti sono in contraddizione. Se è vero il primo ("già oggi tutti sono identificabili"), non sussiste il secondo ("è giusto che rimanga il diritto alla non identificabilità"). Quindi c'è qualcosa che non va a livello logico. Ma procediamo ugualmente:

1) questa affermazione corrisponderebbe a verità se già oggi la magistratura potesse sempre e comunque risalire con certezza all'utente di un profilo e identificarlo. Questa cosa -  come sa chiunque abbia intentato un'azione legale per atti commessi in rete - semplicemente non è vera. Come del resto ammette lo stesso Luna. E quindi il problema rimane.

2) semplicemente, non sono d'accordo. Come mi è capitato più volte di dire, non vedo perché sul web non debba valere lo stesso contemperamento di interessi che avviene sul carta stampata: il diritto all'anonimato è preservato, ma la redazione di un quotidiano (alla quale chiunque può scrivere chiedendo di comparire in forma anonima) conosce la tua identità. Questo semplicemente perché il diritto all'anonimato va garantito ma contemperato con un'altra considerazione a tutela dell'interesse pubblico: la tutela dello spazio pubblico come un luogo in cui chiunque può essere chiamato a rispondere di ciò che scrive. Che è un principio di responsabilità (e quindi libertà), e non il suo contrario.

In conclusione, io ho semplicemente voluto sollevare un problema: non possiamo andare avanti con la fogna che è diventato il web. E il problema non sono (solo) gli insulti in rete e qualche centinaio di odiatori frustrati, ma il condizionamento dell'opinione pubblica con notizie false e la conseguente manipolazione della formazione del consenso. Che in ultima analisi deteriora la qualità (e prima o poi anche la quantità) di democrazia. Del resto, anche se poco pubblicizzato, il dibattito è in pieno svolgimento in tutta Europa (Austria e Germania stanno prendendo in considerazione provvedimenti anche molto più stringenti). Si è voluto rappresentare la mia proposta come "ognuno deve dare a Facebook la propria carta d'identità!". Ma in realtà  i meccanismi possono essere diversi, ad esempio sulla falsariga di quanto già avviene oggi con lo Spid (Sistema Pubblico di Identità Digitale), vale a dire il meccanismo che consente l'accesso ai servizi online della pubblica amministrazione. Ho maggiori dubbi, invece, che tutto possa essere  lasciato all'autoregolamentazione del web (come fa Riccardo in chiusura, quando invita ad ascoltare solo "chi sa di cosa sta parlando"). Per il semplice fatto che si tratta di una cosa che le grandi aziende del web non hanno interesse a fare, visto che con buona probabilità aumenterebbe la qualità degli utenti ma diminuirebbe la quantità, e con essa i ricavi connessi. E da che mondo è mondo, quando si mettono in discussione interessi economici così grandi, la reazione è sempre immediata e piuttosto scomposta. Mi pare.

LA RISPOSTA DI RICCARDO LUNA. "Caro Marattin, la carta d'identità per i social ci rende profughi digitali".  Continua il dibattito sulla proposta del deputato di Italia Viva. La Repubblica il 30 ottobre 2019. Visto che la vicenda della carta d'identità per i social continua a far discutere e che l'onorevole Luigi Marattin, che ringrazio, mi ha dedicato una garbata replica al post che avevo fatto su Repubblica a proposito della sua proposta, provo ad aggiungere qualche elemento costruttivo. Prima di entrare nel merito della proposta Marattin-Muccino (il regista cinematografico che per primo ha lanciato l'idea di un obbligo di carta di identità per aprire un profilo social), fermiamoci un attimo a capire il problema. Scrive Marattin oggi, ridimensionando l'impeto con cui ieri aveva detto di essere già intento a scrivere una proposta di legge: "Io ho solamente voluto sollevare un problema". Quindi non sta preparando una proposta di legge (meno male), voleva solo aprire un dibattito. C'è riuscito direi. Un dibattito su cosa: "Il web è diventato una fogna". Mi pare esagerato. Sul web quattro miliardi e mezzo di persone comunicano, si informano, ci incontrano, fanno affari e giocano. Una piccolissima minoranza lo usa per fini sbagliati. Una piccolissima minoranza da cui occorre difendersi. Quali sono i fini sbagliati? Sono essenzialmente due quelli a cui fa riferimento Marattin: le fake news e l'hate speech. Tradotto: la disinformazione e gli odiatori seriali, spesso razzisti e antisemiti. Chiedere a tutti di fornire un documento di identità per aprire un profilo social darebbe un sostanziale contributo alla sacrosanta lotta contro questi due fenomeni? Per rispondere vediamo di che stiamo parlando. Per il tema delle fake news ci riferiamo soprattutto alle campagne di disinformazione che la Internet Research Agency di San Pietroburgo ha messo in campo in occasione di importanti campagne elettorali in Europa e negli Stati Uniti. Lo ha fatto anche tramite l'uso di bot, cioè di profili gestiti da computer. Chiedere agli utenti italiani di fornire la carta di identità per stare su Facebook o Twitter, che effetto avrebbe sulle presunte azioni di disinformazione messe in atto dai russi? Nessuno. Su questo punto poi c'è un dettaglio che non va omesso: qualche giorno fa Mark Zuckerberg ha difeso la scelta di Facebook di accettare spot politici che dicano esplicitamente il falso. Lo ha fatto a proposito di una inserzione in cui il team di Trump sostiene che il candidato democratico Biden ha commesso cose che non ha in effetti fatto. In pratica sui social sono i politici stessi ad avere un diritto "a spararla grande", anche inventando, nel nome del free speech, della libertà di parola. Che facciamo, chiediamo ai documenti a Trump o chiediamo di bannarlo? Non sto banalizzando, sto dicendo che il tema delle fake news non si combatte chiedendo i documenti agli utenti dei social. Infine, qualche mese fa Facebook ha comunicato di aver chiuso in Italia 23 pagine con circa due milioni di follower totali, perché considerati spacciatori di balle. Una azione meritoria, ma a scorrere quelle pagine risulta evidente che parliamo di robetta, nulla che possa far dire a un politico che le elezioni in Italia le decidono le fake news. Per ora almeno. Il secondo fenomeno da contrastare riguarda l'hate speech. In particolare la denigrazione sistematica messa in campo da gruppetti di razzisti e antisemiti (ultimo caso, quello che ha visto come vittima la senatrice a vita Liliana Segre). Sono anomimi, gli odiatori? Di solito no. Quasi sempre si firmano con nome e cognome, vanno fieri delle loro idee mostruose, si fanno selfie con svastiche e fasci littorii, e sono quindi facilmente identificabili dalla polizia postale e dalla magistratura nel caso in cui commettano dei reati. Cosa che evidentemente fanno. Ma non commettono solo reati: violano anche le norme per stare su Facebook e Twitter, ma anche YouTube, motivo per cui le grandi piattaforme digitali sono impegnate in una colossale azione di contrasto di questi fenomeni. Solo a settembre Facebook, oltre ad aver rimosso alcune pagine legate a Forza Nuova e CasaPound (e al premier uscente Nethanyau in Israele), ha rimosso decine migliaia di app che rubavano i dati degli utenti per profilarli meglio; Twitter ha chiuso migliaia di profili legati alla disinformazione proveniente dal mondo arabo e cinese; YouTube ha rimosso centomila video e chiuso 17 mila canali legati a profili di odiatori. Insomma, dire che le grandi aziende tecnologiche non stanno facendo nulla o non stanno facendo abbastanza è semplicemente una fake news. Dire che serva il documento di identità di ogni utente social per contrastare l'odio online è perlomeno esagerato. Gli odiatori volendo si trovano già così. Costringere tutti gli italiani a dare la carta di identità per navigare non serve a combattere le fake news e gli odiatori. Non è una opinione, è un fatto. Potremmo finirla qui. Ma immaginiamo invece che l'anonimato degli utenti italiani sia il nostro problema, veniamo alla proposta. Perché non mi convince. Intanto io non ho detto che tutti gli utenti sono già oggi identificabili: lo sono i loro indirizzi Internet (IP), ovvero i computer o gli smartphone che hanno usato per collegarsi alla rete. Non è poco. E ribadisco il fatto che a livello globale è stato sancito che la possibilità di essere anonimi in rete è uno strumento fondamentale per tutelare i dissidenti di regimi autoritari. Ma noi non viviamo in una dittatura. E allora,  possiamo noi italiani creare un cyber-wall, come la Cina, e imporre solo ai nostri utenti una identificazione certa per tutti i servizi digitali, e imporre alle piattaforme digitali di far accedere ai loro servizi solo utenti che abbiano fornito un documento di identità in modo certo? Non parliamo solo di Facebook, ma anche di Twitter e Instagram, anche di YouTube, anche di Tik Tok, che è cinese. Buona fortuna. Ma poi: vogliamo davvero creare un cyber-wall italiano? Dopo i porti fisici, vogliamo chiudere anche quelli digitali? Ci rendiamo conto che in quel caso i "profughi", gli esclusi saremmo noi? Che i più bravi userebbero una VPN per continuare a navigare come prima - in qualche caso, insultare come prima - e che tutti gli altri avrebbero una vita molto più povera?  Di quale emergenza stiamo parlando per una chiusura così netta che ci separerebbe dal resto del mondo? Non sarà che qualcuno, a forza di stare su Twitter, pensa che il mondo sia fatto solo dai due-trecento scemi che passano il tempo a insultare? La rete è molto di più di quella roba lì: collega il mondo e lo rende migliore, nonostante tutto; la vogliamo davvero ridurre al retino di un acquario da tinello? Nessuno che abbia a cuore Internet, il web, il digitale in genere, sottovaluta i problemi indicati da Marattin. Ma prima di parlare, li studia, li contestualizza, li circoscrive, e poi cerca soluzioni tecniche con chi sa come è costruita la rete e come funziona. Il progetto di riforma  lanciato un anno fa da Tim Berners Lee va seguito con attenzione. Così come la proposta di Jaron Lanier di riformare radicalmente il modello di business del web, per rimettere al centro gli utenti. Così come i tanti segnali di scontento e di coraggio che arrivano dalla Silicon Valley, dove gli ingegneri di Google, Amazon e Facebook sfidano le rispettive leadership affinché l'etica torni centrale, e si torni a parlare delle rete come di uno strumento che deve fare il bene dell'umanità. Come si vede è una questione complessa, globale, che non si affronta minacciando una legge senza capo né coda per compiacere lo scatto di ira di un regista di cinema famoso. Il populismo ha già fatto abbastanza danni in questi anni, non abbiamo bisogno di una sua riedizione sotto diverse bandiere. Infine, un consiglio a Marattin che ringrazio per avermi contraddetto (adoro essere contraddetto ed imparare). Il consiglio è questo: nel sostenere la sua proposta parlando con una agenzia di stampa ha detto che per gli odiatori "la pacchia è finita". Lo ha ripetuto due o tre volte. "La pacchia è finita". Lo aveva detto anche a luglio mi pare. Ecco, io se fossi in lui "la pacchia è finita" non lo direi mai. Ne lascerei l'uso esclusivo al leader politico che ha reso celebre questa sfortunata espressione dandole però un sapore cattivo. Da pistolero. Ce ne sono in giro abbastanza. Sono i pompieri e i costruttori che scarseggiano. E poi "la pacchia è finita" è un po' come "stai sereno": sono frasi che se facessi politica mi guarderei bene dall'usare di nuovo. 

Chiara Giannini per “il Giornale” il 31 ottobre 2019. La sinistra si batte il petto e dichiara guerra ai fake sui social, proponendo di associare una carta d' identità a ogni profilo, ma poi si scopre che proprio da quell' area politica provengono la maggior parte di coloro che pagano per avere follower e che, quindi, si avvalgono di account fasulli per accrescere la loro notorietà. Su Twitter il re del bluff è Roberto Saviano. Grazie all' applicazione Twitteraudit è semplice rilevare come lo scrittore abbia 1.164.372 seguaci fake contro 581.313 utenti reali. Ovvero, due terzi di chi lo segue non esiste. Secondo in classifica, neanche a dirlo, è l' ex premier Matteo Renzi, che conta 591.008 follower fake contro i 2.786.182 reali. Proprio dal suo partito, Italia viva, proviene la proposta di schedare gli italiani sui social. Laura Boldrini si attesta al terzo posto, con 513.915 seguaci fake e 403.789 reali, nella classifica dei più seguiti da profili di gente non reale. Al quarto posto Beppe Grillo, con 477.308 follower fake contro i 1.995.793 reali. Maria Elena Boschi ha più seguaci fake (341.351), che reali (271.488), così come la senatrice Roberta Pinotti, il cui profilo Twitter è praticamente quasi del tutto seguito da falsi (85.895 fasulli contro i 41.735 reali). Come è possibile? Chi arriva a tali cifre è scontato che si affidi ad applicazioni o sistemi che, a pagamento, fanno aumentare i like, anche in modo esponenziale. I vantaggi? Quello di apparire più «importanti» agli occhi dell' opinione pubblica e, quindi, invogliare gli utenti a mettere il «mi piace». Ma nel caso in cui si decida di evidenziare un post, si rischia che lo stesso non diventi virale, visto che la condivisione si fermerà al profilo fake. La trasmissione Report ha dedicato un'intera puntata alle interazioni social tra la leader di Fratelli d' Italia, Giorgia Meloni e la giornalista Francesca Totolo, ipotizzando una rete «di troll e account fasulli per rendere virali i post». Ora si scopre che proprio su Twitter la pagina di Report ha 772.291 follower fake contro i 512.719 reali, mentre la Totolo solo 604 su oltre 22mila e la Meloni 133.232 contro i 694.295 veri. Per il Centrodestra si hanno anche i dati del segretario della Lega Matteo Salvini, seguito da 83.356 fake contro i 958.593 reali e di Silvio Berlusconi, con solo 2.419 fake contro i 35.979 utenti reali. Chi prende più in giro i seguaci social, visto che è seguito da più profili falsi che reali? Al primo posto c' è Roberto Saviano, al secondo Laura Boldrini, quindi Gad Lerner (206.017 fake contro i 198.731 reali), Nicola Zingaretti (286.002 fake contro i 182.087 reali) e Maria Elena Boschi. Anche il Partito democratico ha acquistato like, visto che è seguito su Twitter da 96.841 fake contro i 220.669 reali. Il Movimento 5 stelle ha, invece, 159.444 seguaci fasulli e 491.349 reali, mentre la Lega 5.207 fake contro i 21.204 realmente esistenti. Pochissimi i falsi che seguono Giuseppe Conte (1.384), a fronte di 51.841 reali, mentre Luigi Di Maio ha 70.405 fake contro i 501.991 reali. Uno sguardo anche a Instagram, dove l' acquisto di follower falsi è sicuramente meno consono. In questo caso Laura Boldrini ha il 77 per cento di utenti reali, Matteo Renzi il 67 per cento, Matteo Salvini il 73, Silvio Berlusconi il 75 per cento, Giorgia Meloni il 67 per cento, così come Roberto Saviano, mentre Nicola Zingaretti ha il 66 per cento di veri follower. Nell' arena dei leoni da tastiera che sono i social, insomma, si salvano davvero in pochi e la maggior parte preferisce essere adulata da fake. Altro che carte d' identità, a qualcuno servirebbe il certificato di buona fede.

Ma il vero problema di internet è la mancanza di anonimato. Non il contrario. Riccardo Luna su La Repubblica l'1 novembre 2019. Lo racconta il Washington Post che ha condotto una inchiesta sui 500 siti più visitati negli Stati Uniti  per scoprire che un terzo - compreso lo stesso Washington Post - prende le impronte digitali del nostro computer o telefonino. Il 5 luglio 1993 sul settimanale New Yorker apparve una vignetta che raccontava cos’era Internet meglio di tante dotte dissertazioni. La firmava Peter Steiner e a questo proposito anni dopo avrebbe detto che lì per lì mica aveva capito di aver creato un meme destinato a durare nel tempo. Insomma, la vignetta era questa: si vedono due cani davanti a un personal computer, e il cane nero, vicino allo schermo e con le zampe anteriori sulla tastiera, dice a quello bianco: su Internet nessuno sa che sei un cane. Erano gli albori del web e stavamo scoprendo l’ebbrezza dell’anonimato online, che sarebbe diventato un diritto umano sancito dalla Nazioni Unite molti anni dopo. In realtà Internet si è evoluto in un direzione completamente diversa: il modello di business di Facebook e Google si basa sulla costruzione continua di nostri profili psicologici sempre più dettagliati sulla base di quello che facciamo in rete. Ogni clic dice qualcosa di noi. Quando passiamo da un sito all’altro ci seguono decine e decine di pezzettini di software - cookies - che tengono traccia di tutto. E sebbene l’Unione Europea abbia varato norme che ci consentirebbero di scegliere quali dati condividere (il GDPR), quando entriamo su un sito web clicchiamo sbrigativamente per accettare tutto come se fosse una seccatura. Risultato: il problema di Internet oggi non è l’eccesso di anonimato, ma semmai il contrario. Sì certo teoricamente possiamo attivare la modalità di navigazione in incognito, oppure cancellare i cookie, o la cronologia. Ma anche così siamo individuabili. Lo racconta il Washington Post che ha condotto una inchiesta sui 500 siti più visitati negli Stati Uniti  per scoprire che un terzo - compreso lo stesso Washington Post - prende le impronte digitali del nostro computer o telefonino. Si chiamano proprio così, fingerprint, impronte digitali, e sono informazioni in grado di identificare il nostro device con una precisione del 99 per cento. Il 23 febbraio del 2015 i due cani sono tornati sul New Yorker, ma stavolta al computer c’era una persona. Il cane nero dice a quello bianco: ti ricordi quando su Internet nessuno sapeva chi fossi?

Censura e mafia. Non si può offendere Falcone e Borsellino.

Falcone e Borsellino "vittime di un incidente sul lavoro". Agi 04 novembre 2019. Intercettato dalla Dda, il direttore dell'Osservatorio internazionale dei diritti umani e assistente parlamentare di una deputata si fa beffe dei magistrati uccisi dalla mafia e vorrebbe cambiare nome all'aeroporto di Palermo. "All'aeroporto bisogna cambiare il nome... Non va bene Falcone e Borsellino... Perché dobbiamo arriminare (girare, ndr) sempre la stessa merda... Sono vittime di un incidente sul lavoro, no?". Così Antonello Nicosia, direttore dell'Osservatorio internazionale dei diritti umani, onlus che si occupa della difesa dei diritti dei detenuti, nonché di assistente parlamentare, si esprime in una conversazione intercettata recentemente dalla Dda di Palermo che lo ha fermato stanotte con l'accusa di associazione mafiosa nell'operazione "Passepartout" di Gico e Ros. "Ma poi quello là (Falcone, ndr)" proseguiva "non era manco magistrato quando è stato ammazzato... aveva già un incarico politico, non esercitava...". Secondo i pubblici ministeri Nicosia avrebbe veicolato all'esterno messaggi provenienti da mafiosi detenuti nei penitenziari sparsi nella Penisola. Accessi quest'ultimi che avvenivano grazie al suo ruolo di direttore della onlus e di consulente giuridico psicopedagogico della deputata (ex Leu appena passata con Italia Viva) Giuseppina Occhionero. Nicosia, 48 anni, di Sciacca, nel novembre scorso è stato inoltre eletto nel Comitato Nazionale dal XVII Congresso di Radicali Italiani. Dalle indagini della Dda palermitana guidata da Francesco Lo Voi - iniziate cercando il boss latitante Matteo Messina Denaro - Nicosia, sarebbe stato in contatto con il boss mafioso, anche lui saccense, Accursio Dimino, scarcerato nel 2016 e detenuto anche al 41 bis, ritenuto molto vicino al defunto capomafia di Castelvetrano, Francesco Messina Denaro, padre di Matteo. Nicosia, accusato di associazione mafiosa, riteneva di avere la chiave di accesso ai penitenziari della Penisola e di potere così, secondo l'accusa, veicolare i messaggi dei boss. Gli inquirenti parlano di "uso strumentale", da parte di Nicosia, "del rapporto di collaborazione instaurato con una parlamentare". La deputata - che non è indagata - dovrebbe essere sentita nei prossimi giorni dai pubblici ministeri del capoluogo siciliano. Cariche funzionali, quelle di Nicosia, in base alle indagini del Ros dei carabinieri e dal Gico della Guardia di Finanza, coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Guido e dai sostituti Francesca Dessì e Calogero Ferrara, all'obiettivo di tessere relazioni con i capimafia, come Dimino. Soprattutto avrebbe assicurato favori e contatti con Messina Denaro. Un 'postino' prestigioso e insospettabile, seppure con una condanna a 10 anni per traffico di droga, ma anche questa, tutto sommato, utile alla narrazione del suo personaggio, conoscitore delle dinamiche carcerarie che asseriva di volere cambiare.

Chi è Antonello Nicosia, il difensore dei diritti umani con legami mafiosi. Agi 4 novembre 2019. Esultava per la sentenza sull'ergastolo ostativo, definiva Falcone e Borsellino "vittime di un incidente sul lavoro" e si presentava come paladino dei detenuti anche se secondo la Dda era un messaggero dei clan. Scorrendo il curriculum di Antonello Nicosia, in stato di fermo con l’accusato di associazione mafiosa, salta all’occhio il suo principale impiego: direttore dell'Osservatorio internazionale dei diritti umani, onlus che si occupa della difesa dei diritti dei detenuti. Un ruolo che stride con le frasi pronunciate da Nicosia nelle intercettazioni che lo hanno incastrato nell’ambito nell'operazione "Passepartout" di Gico e Ros. “All'aeroporto bisogna cambiare il nome... Non va bene Falcone e Borsellino... Perché dobbiamo arriminare (girare, ndr) sempre la stessa merda... Sono vittime di un incidente sul lavoro, no?".

Gli impieghi politici. Ma Nicosia, 48 anni, di Sciacca (provincia di Agrigento) non è solo direttore della onlus: nel novembre scorso è stato eletto nel Comitato Nazionale dal XVII Congresso di Radicali Italiani. Ed è anche assistente parlamentare giuridico-psicopedagogico alla Camera dei deputati, in particolare della ignara deputata eletta tra Leu e passata tra le fila di Italia Viva Giuseppina Occhionero. In virtù anche di questo ruolo sottolineava che riusciva ad accedere più agevolmente negli istituti penitenziari assieme ai parlamentari.

Inserito nella famiglia mafiosa. Per gli inquirenti Antonello Nicosia era a tutti gli effetti un “organico alla famiglia mafiosa saccense”, grazie alle sue relazioni personali, emerse alle intercettazioni. Nicosia, oltre che essere in contatto diretto con il boss Accursio Dimino, scarcerato nel 2016 e detenuto anche al 41 bis, era ritenuto molto vicino al defunto capomafia di Castelvetrano, Francesco Messina Denaro, padre di Matteo, sarebbe stato anche in contatto con il boss latitante, Matteo Messina Denaro, "il primo ministro", come lo chiamava. Con Dimino, Nicosia discuteva di organizzare l'omicidio di un imprenditore di Sciacca, per impossessarsi delle sue aziende. Di giorno, alla luce del sole, oltre a battersi per i diritti umani e condurre battaglie politiche, faceva anche il conduttore in tv della trasmissione "Mezz'ora d'aria". Sul suo profilo Facebook scrive di aver frequentato la facoltà di Scienze (non specifica se Naturali o altro) dell’università di Palermo e vanta un’esperienza da Teaching assistant presso la University of California, Santa Barbara.  "La collaborazione con me, durata solo quattro mesi, era nata in virtù del suo curriculum, in cui si spacciava per docente universitario oltre che di studioso dei diritti dei detenuti" ha detto la parlamentare di Italia Viva Giuseppina Occhionero, non coinvolta nella vicenda, "Non appena ho avuto modo di rendermi conto che il suo curriculum e i suoi racconti non corrispondevano alla realtà ho interrotto la collaborazione. Le visite in carcere peraltro sono parte del lavoro parlamentare a garanzia dei diritti sia dei detenuti sia di chi vi lavora".

Di Maio contro Nicosia: “Fa ribrezzo. Insulta la memoria di Falcone e Borsellino definendo le stragi del 1992 un incidente sul lavoro”. Silenzi e Falsità il 4 novembre 2019. “Da Shanghai, leggo dell’arresto di Antonello Nicosia, membro del Comitato nazionale dei Radicali italiani, accusato di fare da tramite tra i capimafia in carcere e i clan. Non voglio entrare nei dettagli, sarà la magistratura ad occuparsene, ma lasciatemi dire che uno che considera Messina Denaro il nostro premier e che insulta la memoria di Falcone e Borsellino definendo le stragi del 1992 un incidente sul lavoro fa ribrezzo”. Così il capo politico del Movimento 5 Stelle e ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, in un post pubblicato su Facebook. “Sono parole sconvolgenti, scioccanti, che indipendentemente dalle implicazioni di Nicosia devono farci riflettere,” aggiunge Di Maio. “La mafia c’è, esiste, fa schifo e va combattuta ogni giorno. Senza nessuna paura. Siamo più forti di loro, non dimentichiamocelo mai,” scrive ancora il leader 5Stelle. Di Maio conclude il post con una citazione di Paolo Borsellino: “Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo.”. Anche la sorella del giudice ucciso dalla mafia, Maria Falcone, ha commentato quanto emerso dalle intercettazioni di Nicosia: “Le parole offensive di questo sedicente difensore dei diritti dei deboli suscitano solo disgusto,” ha dichiarato. “Mi chiedo, alla luce di questa indagine, se non sia necessario rivedere la legislazione in materia di colloqui e visite con i detenuti al regime carcerario duro. Non dimentichiamoci che lo scopo del 41 bis è spezzare il legame tra il capomafia e il territorio, recidere le relazioni tra il boss e il clan: scopo che si raggiunge solo limitando rigorosamente i contatti tra i detenuti e l’esterno,” ha sottolineato Maria Falcone.

L'offesa del cantante catanese a Falcone e Borsellino. Niko Pandetta (pregiudicato e nipote di un boss) a Realiti (Rai 2) offende i giudici vittime della mafia. E scoppia la polemica. Panorama 13 giugno 2019. “Queste persone (Falcone e Borsellino n.d.r.) che hanno fatto queste scelte di vita le sanno le conseguenze. Come ci piace il dolce ci deve piacere anche l’amaro” parola di Niko Pandetta, cantante rap neomelodico catanese, dette durante la registrazione dell’ultima puntata di “Realiti” il programma di Enrico Lucci in onda su Rai 2. Frasi che hanno sbigottito per la loro gravità il conduttore poi i presenti, infine il mondo dei social dove la frase del rapper sta facendo il giro ad una velocità incredibile accompagnata da polemiche ma anche qualche giustificazione. Prima di tutto bisogna spiegare chi si Niko Pandetta: Il suo nomignolo è “Tritolo”, conta già condanne e qualche periodo passato in carcere. E’ nipote di Salvatore “Turi” Cappello, il boss dell’omonimo clan catanese, attualmente nel carcere di Sassari dove sconta l’ergastolo al 41 bis. E proprio allo zio ergastolano, mafioso, Tritolo ha dedicato una delle sue canzoni: “Zio Turi, ti ringrazio per quello che hai fatto per me, sei stato la scuola di questa vita e per colpa di questi pentiti stai chiuso lì dentro al 41 bis”.

Senza parole. Si resta senza parole davanti a tutto questo; davanti al fatto che ormai in tv non sembrano esserci più limiti alla decenza, in nome dell’audience, ovvio. La Rai è corsa ai ripari: trasmissione sparita dal sito e spostata in seconda serata oltre ad un’inchiesta che stabilirà anche come mai a questo personaggio sia stata (come sembra) pure pagata una notte in albergo. Ma non è questo il problema.

E’ ora di dire basta. Questo paese è in emergenza, si, ma non solo economica, come sembra credere qualcuno. E’ in crisi di valori, di identità. La scuola, la famiglia, la tv, la cultura, la Chiesa, lo Stato. Colonne a cui per decenni si sono poggiate le fondamenta della crescita di intere generazioni sono in crisi, soppiantate dal nulla. Non ci sono più regole e chiunque provi ad imporne una, una sola, minimo è uno “sporco fascista” e quindi si è tutti liberi, di dire e fare qualsiasi cosa. E’ ora di dire basta a tutto questo; è ora tanto per cominciare che il paese cominci a spiegare, senza vergognarsi, che certe persone non possano andare nella tv di Stato a raccontare di essere orgogliosi di aver fatto una rapina. Un paese civile ogni tanto deve sapere dire di NO. Come un buon genitore. Altrimenti non è più nemmeno un paese.

Ps. Abbiamo deciso di non mettere in apertura del post la foto di "Tritolo". Al suo posto trovate Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Noi una scelta l'abbiamo fatta.

Riceviamo e pubblichiamo le spiegazioni e precisazioni diPandetta: La replica del cantane neo – melodico Niko Pandetta in merito alle polemiche successive alla diretta del programma “Realiti” in cui è stato coinvolto. “Mi rammarica essere protagonista di questa triste vicenda artificiosamente costruita intorno a me. Ritengo che questa mia replica sia doverosa, per mia moglie Federica e per mia figlia Sofia - alla quale, da padre, voglio trasmettere un buon esempio -, e per i miei fan. Premetto che non ho mai, e dico mai, pensato di reclamizzare la criminalità e che le mie esternazioni sono sempre state ironiche, magari maldestre… Mi riferisco nello specifico all’espressione, oggi strumento di tante polemiche, “io le pistole le ho d’oro”: è vero, potevo risparmiarmi questa battura di cattivo gusto che mi si è ritorta contro. Ci tengo a precisare che non ho mai offeso la memoria di Falcone e Borsellino, illustrissimi personaggi che non ho mai nominato. Ripeto, non posso assolutamente accettare che mi siano attribuite determinate colpe: insultare la memoria dei giudici Falcone e Borsellino significa offendere tutti coloro che sono stati coinvolti nella strage di Capaci, oggi sono un umilissimo cittadino italiano rispettoso del genere umano, incapace di compiere atti deplorevoli di tale entità!”. “Altra importante precisazione: non ho mai parlato di mio zio Turi avallandone le gesta – continua il cantante - , ho solo esternato l’affetto incondizionato che provo per lui, la mia riconoscenza nei suoi confronti per avermi creasciuto come un figlio, non avendo io un padre. Mai sono entrato nel merito delle azioni di mio zio, semplicemente l’amore che provo per lui non è condizionato dalle sue gesta. Ho dichiarato di non essere pentito del mio passato e considero questa mia affermazione onesta. Infatti la domanda rivoltami non era “rifaresti gli errori del passato?”, alla quale ovviamente avrei risposto di no; intendevo semplicemente dire che, rapportandomi all’età del tempo, non mi sono mai pentito di aver vissuto male la mia vita, e che sono felice e soddisfatto di averla cambiata”. “Per chiarezza vi racconto tutto ciò che è accaduto – dice Niko -: fui contatto per partecipare al programma di Rai 2 “Realiti - siamo tutti protagonisti”. Ho annullato due miei impegni lavorativi pur di prenderne parte: conservo ancora i biglietti dei voli aerei che mi furono inviati per essere presente (erano due, uno per me e uno per il mio manager). Senza motivazioni o spiegazioni plausibili, fu annullata la mia partecipazione al programma, ma fu trasmesso un servizio che mi riguardava. Nel corso di tale trasmissione, ove a questo punto mi vien da pensare che ero stato volutamente estromesso, il consigliere Francesco Emilio Borrelli Borrelli ha offeso e insultato me e la mia famiglia. Sono dell’opinione che non tocca ai politici giudicare le persone (utilizzando in maniera indiscriminata termini pesanti, offensivi), esistono i tribunali deputati a fare ciò. Io infatti sono stato giudicato e condannato, e ho scontato la pena inflittami. E’ evidente che questi politici (e il consigliere Borrelli è tra questi) ignorano le funzioni del carcere, ovvero la rieducazione e la reintegrazione in società di chi si è soggetto alla pena detentiva. Io non rimpiango il mio passato, perché grazie al mio passato e alla detenzione oggi sono un uomo diverso, che non potrebbe esistere se non fosse esistito il Niko di un tempo. Nessuno racconta della vita nelle carceri, della durezza della pena, delle capacità di affrontarla, del desiderio di farcela e della felicità di avercela fatta. Mi dispiace appurare che i rappresentanti della nostra Patria non sono in grado di pensare a noi ex detenuti come persone che ce l’hanno fatta, persone forti perché hanno affrontato un duro periodo di detenzione, e che ora possono mettere a disposizione della società questa loro esperienza per concretizzare qualcosa di buono, facendo del proprio passato non un vanto ma un punto di partenza. Ne deduco che chi governa questo paese non è disposto a dare una seconda possibilità ai detenuti perché non crede nel corretto funzionamento del sistema carcerario italiano, che però – guarda caso – è regolato dal Governo. E’, insomma, un cane che si morde la coda!”.

Miccoli al telefono insulta Falcone, bufera sul capitano del Palermo. Il calciatore è indagato per estorsione e accesso abusivo a un sistema informatico. Avrebbe chiesto il recupero di un credito al figlio di un boss, parlando con il quale ha definito Falcone "fango". La sorella del magistrato: "Inqualificabile". Sonia Alfano e il ministro D'Alia: "andrebbe radiato". Rabbia dei tifosi sul web: "Ora ti scordi la Sicilia". Zamparini: "Meglio che se ne vada da Palermo". La Figc chiede alla Procura federale di aprire un'inchiesta. Salvo Palazzolo il 22 giugno 2013 su La Repubblica. Amicizie pericolose e insulti verso uno dei massimi simboli della lotta alla mafia. E' bufera su Fabrizio Miccoli, il capitano del Palermo scivolato maldestramente sulle sue frequentazioni con il nipote di Matteo Messina Denaro e con il figlio del boss della Kalsa, Antonino Lauricella, detto "Scintilluni", con cui si divertiva a cantare "Quel fango di Falcone". E dopo mesi di polemiche e indagini la Direzione distrettuale antimafia di Palermo ha preso una decisione. Il bomber dovrà essere interrogato. E non come testimone, ma come indagato. Ieri, gli investigatori del centro operativo Dia di Palermo hanno notificato al giocatore un avviso di garanzia, che ipotizza due reati pesanti: estorsione e accesso abusivo a un sistema informatico. La prima contestazione è una clamorosa novità: il capitano rosanero avrebbe commissionato al suo amico Mauro Lauricella, il figlio del boss della Kalsa, il recupero di alcune somme dai soci di una discoteca di Isola delle Femmine. E i modi di Lauricella junior sarebbero stati piuttosto bruschi. La seconda accusa, per cui Miccoli era già stato iscritto nel registro degli indagati due mesi fa (come anticipato da Repubblica il 14 maggio) si riferisce invece a quattro schede telefoniche. Il capitano rosanero avrebbe convinto il gestore di un centro Tim a fornirgli alcune sim intestate a suoi clienti. Una di queste schede fu poi prestata a Lauricella junior nel periodo in cui il padre era latitante. Le accuse nascono proprio dalle indagini finalizzate alla ricerca di Antonino Lauricella, il re della Kalsa poi arrestato dalla polizia nel settembre 2011. Per molti mesi la Dia tenne sotto controllo Mauro Lauricella, anche intercettando le quattro misteriose schede telefoniche di cui adesso deve rispondere Miccoli. Fra quei dialoghi non emersero conversazioni utili per la ricerca del capomafia della Kalsa, ma sono saltate fuori le relazioni pericolose del giocatore del Palermo. Al telefono, Miccoli e Lauricella insultavano persino il giudice Giovanni Falcone: "Quel fango di Falcone", canticchiavano i due amici su un Suv mentre sfrecciavano per le vie di Palermo. E al telefono davano appuntamento a un altro amico in modo davvero singolare: "Vediamoci davanti all’albero di quel fango di Falcone". Toni che stridono con quelli usati da Miccoli durante le partite del cuore, quando dedicava i suoi gol proprio a Falcone e Borsellino. La Federcalcio ha incaricato la Procura federale di aprire un'inchiesta sulla vicenda.

Reazioni. Parole che suscitano l'indignazione di Maria Falcone, sorella del magistrato: "Non ho aggettivi per qualificare Miccoli, anzi ritengo che non valga nemmeno la pena di spendere una parola", dice Maria Falcone. "Che una persona dello sport e dello star system, che ha partecipato alle Partite del Cuore, quando dedicava i suoi gol proprio a Falcone e Borsellino, si esprima in quella maniera - aggiunge Maria Falcone - è davvero inqualificabile. Si vede - prosegue - che preferisce i boss alla legalita'". "Ha dimostrato - conclude - scarsissima sensibilità. Era meglio non partecipare a quelle manifestazioni". "Se venissero confermate sono affermazioni aberranti e inqualificabili, altro che calcio alla mafia. Non ci sono giustificazioni. Deridere un servitore dello Stato che ha sacrificato la vita nella lotta alla mafia è un fatto di una gravità inaudita che non può passare in silenzio soprattutto se dette da chi in questi anni è stato sui palcoscenici mediatici ed esempio per tanti giovani. Per mettere in fuorigioco le mafie, il calcio ha altri valori da seguire come l'esperienza della nazionale di calcio di Prandelli che si è allenata a Rizziconi in Calabria su un campetto confiscato alle mafie". Così, in una nota, Libera. E proprio nei campi di Libera propongono di far "passare le prossime settimane" al giocatore Federico Orlando e Beppe Giulietti, presidente e portavoce di Articolo 21. "Così magari si farà una idea più chiara sulla mafia e su coloro che sono morti per aver sfidato coloro, i mafiosi, che hanno "infangato e infangano" la Sicilia e l'Italia". "Le parole di Miccoli su Giovanni Falcone sono sconcertanti, così come sono inaccettabili le sue frequentazioni mafiose", scrive su Twitter il senatore Giuseppe Lumia, capogruppo del Pd in Commissione giustizia. "Ho atteso una precisazione da parte di Miccoli. Il suo silenzio e' sconcertante. Vada via da Palermo con l'ignominia di tutti i palermitani", scrive su Twitter Antonello Cracolici, deputato regionale siciliano e presidente della Commissione per l'applicazione del decreto Monti all'Ars. Duro anche il commento di Sonia Alfano, presidente della Commissione antimafia europea e dell'Associazione nazionale familiari vittime di mafia: "Palermo non è la città di Lauricella, Riina e i Graviano: è la città di Falcone, Borsellino, Giaccone, Agostino, Iannì, Domè e moltissime altre vittime innocenti che la mafia l'hanno combattuta a viso aperto! Le dediche di Miccoli ai giudici uccisi dalla mafia oggi suonano come delle vere e proprie prese in giro. Andrebbe radiato dal mondo del calcio". Dello stesso avviso Gianpiero D'Alia, ministro della Funzione pubblica: "Non può continuare a giocare perché ha tradito la fiducia di migliaia di tifosi che in lui, capitano del Palermo, hanno visto un esempio in cui identificarsi". "Chi utilizza certe espressioni dovrebbe chiedersi, come io chiedo, se sia mai stato degno di rappresentare la città di Palermo" dice il sindaco di Palermo Leoluca Orlando. "Auspichiamo che sia lo stesso calciatore a fare immediata chiarezza su quanto accaduto", ha detto Danilo Leva, presidente del forum Giustizia del Partito Democratico, "un giocatore di calcio è un idolo per tanti giovani, e questo comporta precise responsabilità. Ci si aspetterebbe che fosse un esempio positivo e un modello di comportamento da seguire, evitando di cadere in affermazioni che feriscono il Paese, la Sicilia e Palermo, quella città cui Miccoli deve gran parte della sua fama e del suo successo". "In una società sana una persona che dice queste cose verrebbe esiliato, ma sicuramente lo vedremo in qualche reality". E' quanto ha detto Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, circa le frasi del calciatore Fabrizio Miccoli. Pif ha partecipato alla terza edizione di Trame, festival dei libri sulle mafie diretto da Gaetano Savatteri in corso a Lamezia Terme fino, dove ha presentato in anteprima nazionale le prime immagini del film da lui diretto "La mafia uccide solo d'estate", ambientato a Palermo negli anni di piombo e raccontato dagli occhi di un bambino. E scatta anche il "cartellino rosso" dei tifosi rosanero delusi dal 'Romario del Salento' che nei social network lo condannano senza appello. "Ora ti scordi la Sicilia", reagisce un tifoso sulla pagina Facebook di Miccoli, comunque in partenza, anche per l'insofferenza crescente di patron Zamparini legata proprio agli sviluppi dell'inchiesta. "Una feccia? Sei una merda", gli urla una giovane. E su Facebook nasce il gruppo "Vogliamo la radiazione di Miccoli per la frase su Falcone", con un centinaio di adesioni. Non solo. Sempre sui social network si chiede che il Palermo "prenda le distanze" dall'ex giocatore rosanero sulla frase choc sul giudice ucciso nella strage di Capaci. Fino al pomeriggio il Palermo Calcio non si è espresso sulla vicenda, tenendo la foto del capitano sulla homepage del sito, poi le parole del patron Maurizio Zamparini: "Mi dispiace tantissimo, speriamo che sia un lapsus della procura. Conoscendo Miccoli non penso che lui possa fare un'estorsione a nessuno. Le sue parole? No comment, bisogna vedere esattamente cosa ha detto. Mi rende sconcertato che i giornalisti sappiano delle intercettazioni che devono essere un segreto, poi lo sarei se lui le dovesse aver dette per davvero". "Avevo un sentore, non che fosse indagato, ma che la procura stesse facendo delle verifiche perchè lui aveva delle amicizie - ha detto Zamparini ad Antenna Sicilia secondo quanto riporta Stadionews. Questo però accade a tutti i giocatori, mica sanno che balordi frequentano. Per questo penso che faccia bene ad andarsene da Palermo". "E' un demente e con lui quelli che lo acclamano", qualcuno scrive su Twitter. Per altri il simbolo di un "calcio marcio". "La società del Palermo rescinda subito il contratto", esorta un tifoso. "Delusione infinita", incalza un altro.

Isolato e “seviziato”, ma non arretrò: per fermare Falcone ci volle il tritolo. La strage di Capaci vent'anni dopo. Il magistrato "morto che cammina" aveva portato un vento nuovo dopo gli assassini di Terranova, Costa e Chinnici. Istruì il più grande processo alla mafia che si ricordi. Obbligò il mondo a decidere dove stare. Ma come in tutte le curve della storia del nostro Paese arrivarono le bombe, i morti e le stragi. Nando dalla Chiesa il 22 maggio 2012 su Il Fatto Quotidiano. Ci volle il tritolo, un tritolo infinito, per fermarlo. Dicevano di lui da anni che fosse “un morto che cammina”, perché la mafia da tempo l’aveva condannato. Anche Buscetta lo aveva avvertito: lei salderà il suo conto con Cosa Nostra solo con la morte. Lo sapeva benissimo. Per questo non volle avere figli, “per non lasciarli orfani”. Ma continuò lo stesso a camminare. E camminando faceva cose che i “vivi” non sapevano o non osavano fare. Istruì, con Paolo Borsellino, il più grande processo alla mafia che si ricordi. Per la prima volta in centotrent’anni di storia dello Stato italiano fece condannare all’ergastolo in via definitiva i grandi capi della mafia, sicuri (perché così gli era stato promesso) di farla franca in Cassazione, come centinaia di volte era già successo. Era arrivato come un turbine, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, mentre la mafia uccideva grandi magistrati: Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici. Giovane e sconosciuto, aveva portato un vento nuovo nelle investigazioni e nella giurisprudenza sconvolgendo abitudini ed equilibri, facendo sentire a un mondo melmoso e ambiguo tutta la scomodità di dover decidere da che parte stare, se con la legge o con i criminali. Costruì con tenacia e intelligenza una nuovo cultura giuridica nella lotta alla mafia, sfruttando gli spazi aperti dall’articolo 416 bis introdotto nel codice penale dalla legge Rognoni-La Torre. Pochi mesi prima del tritolo, in collaborazione con Marcelle Padovani, lasciò anche un libro di rara sapienza antimafiosa, che ancora oggi trasmette insegnamenti preziosissimi, primo fra tutti il ruolo del famoso “concorso esterno”, senza il quale la mafia potrebbe essere spedita a casa in poco tempo. Tra quella delle tante vittime, la sua vicenda fu la più terribile. Isolato come altri, ma per un periodo infinito, dieci, dodici anni che sembrarono un secolo, tali furono il carico di sangue, i conflitti, le lacerazioni, ma anche i passi avanti. Invidiato da molti suoi colleghi, e con una acidità tutta palermitana, quella del Corvo e del Palazzo dei veleni, fino ad accusarlo di essersi organizzato il fallito attentato all’Addaura per far carriera. Inviso al potere, che dopo le sue incursioni nei piani alti dei Salvo e dei Ciancimino coniò un nuovo vocabolario che ancora impera: il giustizialismo, la cultura del sospetto, il giudice-sceriffo. Temuto dalla politica, che manovrò, trovando provvidenziali aiuti democratici nel Csm, per sbarrargli il passo all’ufficio istruzione di Palermo. Sospettato perfino da settori dell’antimafia, e questa fu forse la più crudele pagina della sua vita, che ancora tutti ci interroga, poiché nel clima impazzito di quegli anni era possibile muovere accuse proprio a lui o ascoltarle senza condannarle. Isolato, umiliato, “seviziato” (come mi disse un giorno), non arretrò di un metro e nemmeno si fermò. Continuò a camminare. Per rimanere stritolato alla fine dentro una convergenza che sembrò allestita da un destino implacabile: la voglia di vendetta di Cosa Nostra; il crollo del sistema politico di Tangentopoli; la nascita della procura nazionale antimafia, da lui voluta tra mille diffidenze, ma che terrorizzava chi – dal nord – faceva patti con la mafia nell’isola e fuori dall’isola; la nascita (ancora clandestina) del nuovo partito a Milano. E l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, con le votazioni che ristagnavano in Parlamento. Fu in quel punto della transizione italiana verso qualcosa di nuovo e di incerto che decisero di fermare il suo cammino nel modo più eclatante e spaventoso. Facendo saltare l’autostrada Punta Raisi-Palermo. Perché in Italia a ogni momento di svolta arrivano le bombe e i morti e le stragi. Perché i poteri criminali, e la mafia in mezzo a loro, fanno politica così, da Portella della Ginestra a ieri. Fu una scena di guerra che si incise per sempre nella memoria di un popolo intero. E si trasmise alle nuove generazioni. Che affacciandosi all’adolescenza vengono da vent’anni educate a specchiarsi nei due visi sorridenti del giudice Falcone e del suo amico Borsellino e grazie al loro esempio scelgono di stare dalla parte dell’antimafia, animando il movimento che più ha cambiato la faccia civile del paese. I sedicenni e Falcone, i sedicenni e Borsellino. Purtroppo le stragi in Italia non finiscono mai. Nei momenti di incertezza, quando la politica si fa viscida e vigliacca insieme, tornano. Con puntualità maledetta. Per colpire chi cammina, da solo o per mano con altri. Per questo il tritolo fermò il giudice che non voleva arrendersi. Per questo, nel giorno del suo ricordo, una bomba ha fermato una sedicenne e il profumo di primavera che si portava addosso.

Il giorno di Segre tra gioia e amarezza «È la mia mozione». E Bonino: ho i brividi. Pubblicato giovedì, 31 ottobre 2019 su Corriere.it da Monica Guerzoni. La senatrice durante il dibattito non è mai uscita. La ministra dell’Interno Lamorgese ieri è andata da lei in visita privata per portarle solidarietà. «Sono in treno, zona silenzio e sono molto stanca». Sono le sette e dieci della sera, la «sua» sera. Liliana Segre risponde con un messaggino lapidario dal treno che la riporta a Milano, dopo il voto di Palazzo Madama sulla commissione istituita in suo nome. Un’idea nata sull’onda dell’odio digitale che ogni giorno, con una media di 200 messaggi, colpisce questa donna di quasi novant’anni, che porta impresso sul braccio e sull’anima il numero 75190 del lager di Auschwitz ed è un monumento vivente alla tragica memoria della Shoah. Nella testa e nel cuore la senatrice a vita ha ancora l’emozione per quei 151 sì e l’amarezza per i 98 astenuti, che resteranno, accusa il dem Lele Fiano, figlio di Nedo, ebreo deportato ad Auschwitz e unico superstite di tutta la sua famiglia, come una «macchia indelebile per la nostra storia parlamentare». Chissà se le hanno fatto più piacere gli applausi, gli abbracci e la lunga ovazione con cui mezzo emiciclo in piedi ha festeggiato il via libera, o le braccia conserte dei tanti, troppi senatori di centrodestra rimasti polemicamente seduti, senza battere le mani. Chissà se si è accorta di quei senatori di Forza Italia scattati, pur tardivamente, in piedi, con imbarazzo per la scelta appena compiuta e che dopo, a titolo personale, sono andati ad omaggiarla. E chissà se la nascita della commissione, della quale se tutto va bene sarà eletta presidente alla prima riunione, basterà a farle dimenticare le migliaia e migliaia di insulti che le piovono addosso ogni giorno per il sangue che le scorre nelle vene, per le bastonate che la vita le ha assestato («La peggiore? Quando hanno ucciso mio padre»), per il nome che porta: «Questa ebrea di m. si chiama Liliana Segre... Hitler non hai fatto bene il tuo mestiere». Oppure: «La senatrice a vita Segre sta bene in un simpatico termovalorizzatore». E ancora, ancora, in un crescendo di orrori registrato su Repubblica da Piero Colaprico. Emma Bonino, tra i primi a ringraziarla e abbracciarla dopo il via libera alla mozione, racconta che la illustre collega, «non essendo esperta di dinamiche politiche», non abbia capito perché il centrodestra avesse deciso di smarcarsi. «Desiderava che finisse con un accordo unanime — racconta Bonino —. Mi ha emozionato molto e mi ha fatto una grande tenerezza per questa sua forza, questa resilienza». Ore ed ore incollata allo scranno, cercando di non sentire la stanchezza e spiegando ai colleghi che no, «non posso andare a riposarmi, non voglio perdermi gli interventi perché è la mia mozione, non sarebbe dignitoso se io non ci fossi». Parole che a Emma Bonino hanno fatto «venire i brividi, per il profondo e raro senso delle istituzioni». E intanto sui banchi delle opposizioni, presente Matteo Salvini che a giudizio dei dem «in Aula non viene mai», nascevano i distinguo e prendeva forma la protesta contro la presunta censura, il «bavaglio», la commissione che secondo leghisti e senatori di Giorgia Meloni avrebbe un solo, vero obiettivo: silenziare le parole d’ordine della destra italiana. Fa buio, dal Viminale filtra la notizia che la ministra Luciana Lamorgese ieri mattina è andata privatamente a casa della senatrice Segre per portarle riconoscenza e solidarietà: «La conosco da anni, rappresenta la memoria di una pagina terribile della nostra storia». Il Partito democratico con Franco Mirabelli parla di «deriva di una destra che si consegna all’estremismo» e i Cinque Stelle per bocca di Alessandra Maiorino accusano i leghisti di «sbandierare un becero fanatismo». La polemica infuria da ore quando la senatrice del Pd Tatiana Rojc, «commossa e grata» a Liliana Segre, ma anche «molto preoccupata», racconta all’agenzia Ansa perché ha votato la mozione: «L’ho fatto anche in memoria di mio padre, deportato dai nazisti nel 1944 in quanto sloveno. Spero che quello che è accaduto al Senato serva a mettere un argine a un fiume di violenza».

«Io non amerei la patria? Ecco cosa dissi a una ragazza  dentro al lager di Birkenau». Pubblicato venerdì, 01 novembre 2019 da Corriere.it. Dopo il voto al Senato sulla commissione per il contrasto dei fenomeni d’intolleranza, razzismo, antisemitismo, istigazione a odio e violenza, la senatrice a vita Liliana Segre consegna al «Corriere» un testo di molti anni fa sulla prigionia ad Auschwitz-Birkenau. «Visto che l’opposizione pensa che non mi occupi di patria e famiglia, da questa pagina si evince — dice Segre — che già nel lager amavo la mia patria, anche se mi aveva mandato lì». La stanza era grande, lunga e stretta e vuota completamente. C’erano due porte e una finestra piccola, vicino alla finestra la stufa. La stufa era di ferro, era appena tiepida ma quel leggero tepore era annullato dalla corrente gelida che veniva dalla finestra. Stavo attaccata alla stufa e guardavo fuori la distesa di neve e le macchie indistinte delle prigioniere in fila, lontano verso i fili spinati. Avevo una consapevolezza nuova della mia nudità e del mio cranio rasato. La rasatura era stata crudele, la macchinetta passava duramente sulla povera testa quasi ormai pelata. I miei capelli neri lunghi, ricci, ribelli erano per terra e non avevo potuto tenere per me neanche il nastrino verde che li legava nella mia vita precedente. Non ero mai stata così sola e così infelice. Le ore passavano e ogni tanto entravano dei soldati, mi guardavano, ridevano, scambiavano una battuta di spregio. Avevo fame, sete e freddo. Nessuno mi diede nulla né da bere né da mangiare né da asciugarmi, dopo la doccia rimasi bagnata mentre aspettavo che i miei stracci venissero disinfestati.

La scoperta di un pidocchio sulla mia faccia e il mio gesto di ribrezzo disperato avevano attratto l’attenzione della kapò che mi aveva mandato subito alla disinfestazione e alla rasatura: io, la fortunata alla quale un mese prima all’arrivo a Birkenau non erano stati tagliati i capelli per un capriccio della sorvegliante, nell’invidia delle altre prigioniere. La mia faccia era terribile riflessa nel vetro. Mi facevo paura, volevo gridare, volevo piangere, volevo urlare la mia disperazione a quel cielo grigio: era inutile. Dopo ore entrò una ragazza. Avrà avuto forse due o tre anni più di me, anche lei nuda e disperata. Si avvicinò alla stufa e ci guardammo con pietà fraterna, già amiche, già sorelle, con occhi adulti. Tentammo in tutti i modi di parlare ma non ci capivamo assolutamente (forse era cecoslovacca o ucraina) e allora non so più a chi delle due venne in mente di tentare con il latino scolastico delle nostre prime frasi delle scuole medie, così lontane da lì. E fu fantastico poterci scambiare dolci brevissime frasi: Patria mea pulchra est («La mia patria è bella»), Familia mea dulcis est («La mia famiglia è dolce»), Cor meum et anima mea tristes sunt («Il mio cuore e la mia anima sono tristi»). Fu molto importante quel momento e anche se non ho mai saputo il nome di quella ragazza, con lei ho vissuto un’altissima affinità spirituale e la massima condivisione in una condizione umana bestiale. Grazie amica ignota, spero che tu sia tornata a raccontare di quel giorno di marzo 1944 nella «Sauna» di Birkenau.

«Perché non vi meritate mia madre, Liliana Segre». Pubblicato sabato, 02 novembre 2019 su Corriere.it da Alberto Belli Paci. Il figlio della senatrice a vita: «Credete che con quel numero sul braccio lei si lasci strumentalizzare da qualcuno?» Pubblichiamo una lettera di Alberto Belli Paci, figlio primogenito di Liliana Segre, dopo l’approvazione della proposta della senatrice a vita di istituire una commissione contro odio, razzismo e antisemitismo. Il centrodestra si è astenuto. "Caro direttore, sono allibito da quello che leggo in questi giorni, dalle dichiarazioni dei politici, da questo travisare intenzionalmente concetti come censura, libertà di opinione, difesa della famiglia, antisemitismo, in bocca a chi vorrebbe chiuderci dentro in una Italia sempre più isolata, lontana dai valori liberali nei quali siamo cresciuti e nei quali mi riconosco profondamente. Dove gli uni scrutano con sospetto gli altri, dove ognuno si tiene stretto il proprio tornaconto, la bandiera di partito, la propaganda, le dichiarazioni roboanti. A voi che non vi alzate in piedi davanti a una donna di 89 anni, che non è venuta lì per ottenere privilegi o per farsi vedere più brava ma è venuta da sola (lei sì) per proporre un concetto libero dalla politica, un concetto morale, un invito che chiunque avrebbe dovuto accogliere in un mondo normale, senza sospettosamente invece cercare contenuti sovversivi che potevano avvantaggiare gli avversari politici. A voi dico: io credo che non vi meritiate Liliana Segre! Guardatevi dentro alla vostra coscienza. Ma voi credete davvero che mia madre sia una che si fa strumentalizzare? Con quel numero sul braccio, 75190, impresso nella carne di una bambina? Credete davvero che lei si lasci usare da qualcuno per vantaggi politici di una parte politica in particolare? Siete fuori strada. Tutti. Talmente abituati a spaccare il capello in quattro da non essere nemmeno più capaci di guardarvi dentro. Lei si aspettava accoglienza solidarietà, umanità, etica, un concetto ecumenico senza steccati, invece ha trovato indifferenza al suo desiderio di giustizia".

Il presidente Rivlin scrive a Segre: «Sono inorridito dalle minacce che ha ricevuto». Pubblicato domenica, 10 novembre 2019 da Corriere.it. «Cara signora senatrice («Dear Madame Senator») , sono rimasto inorridito nell'ascoltare la notizia che lei ha dovuto ricevere protezione a garanzia della sicurezza a causa delle minacce antisemite, sono profondamente dispiaciuto che le circostanze che mi portano a scriverle siano così dolorose». Si apre così la lettera che il presidente israeliano, Reuven Rivlin, ha scritto alla sopravvissuta dell'Olocausto e senatrice a vita Liliana Segre, pubblicata su Twitter. «Rimpiango profondamente che le circostanze della mia lettera — ha aggiunto come si legge nel testo della missiva — siano così dolorose. Non ci sono parole per esprimere in modo adeguato il mio orrore e il mio disgusto» nel vederla esposta «a tale comportamento criminale». Come sopravvissuta alla Shoah, «ha già potuto vedere le conseguenze terribili e tragiche dell'antisemitismo quando non viene fermato». Da giovedì la senatrice a vita, in seguito alle minacce via web e allo striscione di Forza nuova esposto nel corso di un appuntamento pubblico a cui partecipava a Milano, è sotto scorta e ha due carabinieri che la accompagnano in ogni suo spostamento. Rivlin ha poi sottolineato che la vicenda di Segre «è solo un altro terribile esempio della realtà per gli ebrei in Europa oggi». Ma credo che la risposta più appropriata — ha proseguito — «sia continuare a fare quello in cui le crede», sottolineando come la senatrice sia un modello da seguire «per noi in Israele e per le comunità ebraiche in tutto il mondo» e valorizzandone «la missione personale, la forza e il coraggio» («Your personal mission, your strength and your bravery are a role model for us in Israel and for Jewish communities around the world»). Eguaglianza, diritti umani, accettazione dell'altro e tolleranza sono — ha concluso — valori chiave dell'ebraismo e universali, «sono le fondamenta su cui sono basate le nostre vite e senza di loro saremmo persone senza valore». «Sarebbe un grande onore mio personale e per lo Stato di Israele, accoglierla Gerusalemme e in Israele», ha aggiunto il capo dello stato ebraico. Intanto, oltre 80 lapidi sono state vandalizzate in un cimitero ebraico risalente al 1807 a Randers, una cittadina danese dello Jutland. Come riporta il giornale locale Randers Amtsavis, le tombe sono state dipinte con graffiti verdi e alcune sono state rovesciate.

Da corriere.it il 10 novembre 2019. Oltre 80 lapidi sono state vandalizzate in un cimitero ebraico risalente al 1807 a Randers, una cittadina danese dello Jutland. Lo riporta il giornale locale Randers Amtsavis. Le lapidi sono state dipinte con graffiti verdi e alcune sono state rovesciate. Sono in corso le indagini della polizia. «Abbiamo uno dei più antichi siti di sepoltura ebraici e lo custodiremo sempre», ha denunciato il sindaco della cittadina Torben Hansen. Su una delle lapidi è stato anche incollato un adesivo giallo con la stella di David e la scritta «Jude». Non è chiaro quando sia avvenuto l'atto di vandalismo antisemita ma, sottolinea il quotidiano danese, non sembra del tutto casuale la coincidenza con l'81esimo anniversario della Notte dei cristalli in Germania, quando tra il 9 e il 10 novembre del 1938 centinaia di cittadini ebrei furono uccisi dai nazisti e furono distrutte sinagoghe, cimiteri, negozi e case.

Orrore in Danimarca, profanate oltre 80 lapidi in un cimitero ebraico. Il grave episodio è avvenuto nel cimitero di Randers, città della penisola dello Jutland. La polizia invita i testimoni a collaborare. Gabriele Laganà, Domenica 10/11/2019, su Il Giornale. Grave profanazione in un cimitero ebraico di Randers, una tranquilla cittadina danese della penisola dello Jutland. Secondo quanto riporta il giornale locale Randers Amtsavis, oltre 80 lapidi sono state vandalizzate da ignoti. Le pietre sepolcrali sono state dipinte con graffiti verdi e scritte antisemite mentre alcune sono state rovesciate. Su una delle tombe sarebbe anche stato incollato un adesivo giallo con la stella di David e la scritta “Jude”. Non è chiaro quando sia avvenuto l'atto di vandalismo antisemita ma, sottolinea il quotidiano danese, non sembra del tutto casuale la coincidenza con l'81esimo anniversario della “Notte dei cristalli” avvenuta in Germania tra il 9 e il 10 novembre del 1938. In quella drammatica notte, centinaia di cittadini ebrei furono uccisi dai nazisti che, poi, attaccarono e distrussero migliaia di luoghi simbolo delle comunità ebraiche come sinagoghe, cimiteri, negozi, luoghi di aggregazione e case private. Proprio per ricordare quell’evento è stata celebrata una cerimonia nella piazza del Municipio a Randers. Nel corso della manifestazione, gli oratori hanno condannato il nazismo denunciando, allo stesso tempo, il crescente razzismo in Danimarca. La polizia dello Jutland ha subito avviato un'indagine. Il commissario Bo Christensen, tramite lo stesso quotidiano, ha chiesto aiuto ai cittadini per far luce sul caso ed ha invitato tutti i possibili testimoni a farsi avanti se "hanno visto persone sospette intorno al cimitero o se hanno informazioni sui responsabili". Il commissario afferma che "non ci sono simboli o testi scritti sulle lapidi, ma è stata versata vernice". Sul grave atto di intolleranza si è espresso anche il sindaco di Randers, Torben Hansen, che oltre a condannare lo spregevole atto, ha sottolineato come in città “ci sia uno dei più antichi siti di sepoltura ebraici e lo custodiremo sempre". Il primo cittadino sottolinea come sia “difficile capire un gesto di vandalismo simile, un’azione che ferisce la nostra società. La nostra gente al cimitero di Østre assicura che la vernice sarà rimossa il più delicatamente possibile”. Il cimitero ebraico della città fu istituito nel 1807. A quel tempo, con circa 200 persone, Randers era la più grande comunità ebraica fuori da Copenaghen. Circa 6mila ebrei vivono oggi nel Paese, principalmente nella capitale. Randers, però, non sarebbe l’unica città nello Jutland orientale dove si è registrato un episodio di intolleranza verso gli ebrei. La coppia di sposi Ella e Henrik Chievitz, residenti a Silkeborg, si è svegliata sabato mattina trovando un adesivo con la parola "jude" sulla cassetta delle lettere. Lo stesso tipo usato su una lapide nel cimitero ebraico di Randers.

Annalisa Cangemi per fanpage.it il 7 novembre 2019. La senatrice a vita Liliana Segre, che da bambina è stata rinchiusa in un campo di concentramento ad Auschwitz, riceve ogni giorno almeno 200 minacce e insulti. Per questo da oggi, 7 novembre, vivrà sotto scorta: ciò significa che nelle sue uscite pubbliche, frequenti nonostante i suoi 89 anni, sarà sempre accompagnata da due carabinieri. Dopo le polemiche scoppiate in Parlamento per la proposta di istituire una commissione contro l'odio, che i gli esponenti di centrodestra non a Palazzo Madama non hanno votato, a Liliana Segre, sopravvissuta alla Seconda Guerra mondiale, è stata assegnata la tutela, cioè il livello più basso di scorta. Un provvedimento, stabilito su impulso della ministra dell'Interno Lamorgese, che si è reso necessario a seguito degli ultimi duri attacchi ricevuti dalla senatrice, quando pochi giorni fa, a Milano, uno striscione di Forza Nuova apparso vicino al teatro di via Fezzan, mentre era in corso un evento a cui Segre partecipava, portando la sua testimonianza dell'Olocausto. Matteo Salvini, il cui partito si è appunto astenuto in Senato sul voto per la creazione di una commissione parlamentare per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio, soprattutto quello in rete, ha difeso pubblicamente la senatrice a vita, paragonando l'odio subito dalla Segre agli attacchi che lui stesso quotidianamente riceve: "Anche io ricevo minacce, ogni giorno. Le minacce contro la Segre, contro Salvini, contro chiunque sono gravissime", lo ha detto a margine della manifestazione di Coldiretti a Montecitorio, commentando appunto l'assegnazione della scorta alla senatrice. Due giorni fa l'ex ministro dell'Interno aveva annunciato che presto avrebbe chiesto un incontro alla Segre: "Le commissioni etiche le lascio all'Unione Sovietica. Ma Liliana Segre è una persona che merita tutto il mio rispetto e le chiederò quanto prima un incontro". La parlamentare aveva risposto con un messaggio di apertura: "Certo, perché non dovrei. Se lui mi vuole incontrare, perché no? Se io non odio, perché non dovrei aprire la porta?".

Gianni Santucci per il “Corriere della sera” il 7 novembre 2019. Da oggi, i carabinieri del Comando provinciale di Milano garantiranno la scorta alla senatrice a vita Liliana Segre, deportata nel gennaio del 1944 dal binario 21 della stazione Centrale al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, e sopravvissuta all' Olocausto. La misura di protezione, da tempo sotto esame, è stata disposta nel pomeriggio di ieri, durante il Comitato per la sicurezza e l'ordine pubblico presieduto dal prefetto Renato Saccone e con al tavolo i vertici cittadini delle forze dell' ordine. Tecnicamente, il livello di difesa è una tutela, che prevede la presenza dei carabinieri in ogni spostamento e uscita pubblica della senatrice, contro la quale l' altro ieri Forza Nuova ha esposto uno striscione, nei dintorni del teatro di via Fezzan, a Milano, dove Liliana Segre incontrava assieme a don Gino Rigoldi cinquecento studenti. Proprio l'aumento esponenziale delle minacce, unitamente all' elevato numero di eventi con protagonista la senatrice, che a 89 anni, instancabile, mai si sottrae agli inviti a dibattiti e convegni, ha accelerato la decisione della scorta. Una misura necessaria nei confronti di una donna che, per sua stessa ammissione, attraverso i canali dei social network riceve in media ogni giorno duecento messaggi incitanti all' odio razziale. L' origine della campagna di violenza non è di queste ore: risale (almeno) al 2018, quando era stato aperto un fascicolo in Procura sotto il coordinamento del pool antiterrorismo del magistrato Alberto Nobili, ma è stato l' attuale ministro dell' Interno Luciana Lamorgese a inserire il provvedimento di tutela nelle priorità. Nel corso di un recente seminario allo Iulm, la senatrice, parlando proprio degli haters, aveva detto che «sono persone per cui avere pena e che vanno curate». Del resto, aveva aggiunto, «ogni minuto della nostra vita va goduto e sofferto. Bisogna studiare, vedere le cose belle che abbiamo intorno, combattere quelle brutte e non perdere tempo a scrivere a una 90enne per augurarle la morte. Tanto c' è già la natura che ci pensa». In uno dei suoi ritorni lì dov' era il Binario 21, nel Memoriale della Shoah, Liliana Segre aveva ricordato la cattura, il trasferimento nel carcere di San Vittore, gli ultimi gesti di umanità dal prossimo - poche mele e una piccola sciarpa donate dai detenuti che altro non avevano - , infine la partenza verso la stazione e una lancinante presa di coscienza: quella dei genitori di non poter più proteggere i propri bambini, vista l'impossibilità di fuggire. «Io ero una figlia, e sarò per sempre convinta che non avrei potuto farlo da madre. Mai». Ogni istante trascorso con Liliana Segre, racconta chi le sta vicino, rimane un privilegio raro.

Liliana Segre a braccetto con i carabinieri: «Mai provare vergogna per essere italiani». Pubblicato giovedì, 07 novembre 2019 su Corriere.it da Alessia Rastelli. Il primo giorno sotto tutela della senatrice a vita tra l’affetto dei passanti. «Mi vergogno in questo momento di essere italiana». «No, questo mai». Racconta l’imbarazzo espresso a Liliana Segre e la risposta di amore per il suo Paese che le ha dato, nonostante tutto, la senatrice a vita, la signora Maria Maddalena Maran. È venuta ieri da Padova a Milano per una mostra a Palazzo Reale. Ed è a poca distanza, in Galleria Vittorio Emanuele II, che incontra Liliana Segre, superstite di Auschwitz-Birkenau, vissuta nell’Italia delle leggi razziali e delle deportazioni, costretta in quella di oggi, a 89 anni, ad avere una scorta. «L’ho vista per caso — dice la signora Maran —, è stato un onore e mi è venuto spontaneo esprimerle solidarietà. L’ho incoraggiata a non mollare». Quella di ieri è la prima giornata della senatrice a vita protetta da due carabinieri del Comando provinciale di Milano. Lei li prende a braccetto e, con loro al fianco, non smette di portare avanti la sua agenda sempre fitta di impegni. Alle 10.30 è al Museo della Scala per l’anteprima della mostra sui palchi del celebre Teatro. Siede in prima fila, parla con il curatore Pier Luigi Pizzi, visita l’esposizione che è anche una storia di Milano. In una foto c’è lei. Le viene chiesto che effetto le faccia rivedersi fra personaggi come Toscanini. «In questi giorni — dice — assolutamente niente. Forse qualche anno fa...». Questi giorni. I giorni delle centinaia di messaggi d’odio via social, dell’astensione del centrodestra alla «sua» Commissione contro il razzismo, dello striscione di Forza Nuova apparso a Milano vicino al teatro in cui stava parlando a oltre 500 studenti. «Sono stanca, ho bisogno di riposare», ammette all’uscita dalla Scala. Le ultime settimane sono state pesanti anche per una tenace come lei. Trova comunque la forza per una battuta: «Fotografate le belle ragazze, non me», sorride. La forza in realtà non le manca: Liliana è dolce e fiera allo stesso tempo, un esempio di dignità sempre. «Io l’ho vista la forza dell’impossibile», ha raccontato più volte nelle sue testimonianze: la forza di voler vivere, anche dove l’umanità si era persa. E così eccola ieri, dopo la mostra, fare una breve passeggiata in Galleria, nel cuore della sua Milano. Milano che fu indifferente nel gennaio del 1944, quando da San Vittore Liliana tredicenne fu trasferita al Binario 21 e da lì deportata su un carro bestiame. Adesso in diversi la fermano. Lei stessa fa tappa alla Libreria Rizzoli Duomo. «È una cliente — spiega una dipendente —, siamo più che mai felici di vederla qui in questo momento». In centro, per quanto sia un giorno piovoso, non mancano i turisti. Oltre alla signora Maria Maddalena, stringono la mano alla senatrice Rosario Carbone e Lucia Biondi, marito e moglie in gita da Catania. E per caso è lì Gastone Gal, dell’Associazione nazionale ex internati (Anei). Anche lui dal Veneto, dice: «Ho invitato la senatrice ad Abano e Montegrotto». Verso l’ora di pranzo Liliana torna nella sua casa di Milano. I carabinieri spuntano ogni tanto davanti al portone e sembrano vivere come un’opportunità quel tempo con lei. Si cerca di garantirle per quanto possibile la sua routine, una normalità. Nel pomeriggio la senatrice incontra alcuni giornalisti per un prossimo documentario, poi resta in casa cercando tranquillità. «Il comandante Luca De Marchis ha riservato a mia madre una dedizione straordinaria», racconta Luciano Belli Paci, uno dei tre figli di Liliana Segre. «Non è stata lei — spiega — a chiedere la scorta. È una signora molto indipendente, ma ha preso bene la decisione. Questa tutela è stata organizzata in un modo rispettoso e mia madre ha un bellissimo rapporto con l’Arma: neppure un anno fa oltre cento giovani carabinieri erano venuti al Memoriale della Shoah ad ascoltare la sua testimonianza». «Siamo sollevati e grati per la scorta a mia madre», aggiunge Alberto Belli Paci, primogenito della senatrice: «Ero molto preoccupato. Mia madre, da semplice testimone della Shoah che andava da sola nelle scuole a raccontare la sua storia, è divenuta un vero e proprio simbolo e questo ha comportato inevitabilmente che fosse più esposta. Di recente ho sentito cambiare il clima ed è doloroso vedere lei, che ci ha sempre protetti anche da adolescenti, venire minacciata a 89 anni». Ieri Matteo Salvini ha detto di ricevere anche lui, quotidianamente, minacce. «A maggior ragione — notano i figli della senatrice — è utile la Commissione promossa da nostra madre».

Segre sotto scorta, ora è tentata dal no alla commissione. Salvini: "Le sono vicino". Ma la Lega a Pescara le nega la cittadinanza. La comunità ebraica: "Tutti i nostri vertici costretti a vivere sotto protezione". Ilaria Carra e Emanuele Lauria l'8 novembre 2019 su La Repubblica. Liliana Segre è provata, addolorata, stanca. Segnata dagli insulti e dalle minacce che hanno spinto la Prefettura di Milano ad assegnarle la scorta. Una tutela contro gli odiatori per una donna che ha già conosciuto gli orrori dei campi nazisti. "Forse è troppo", ha detto la senatrice a chi le sta accanto, non nascondendo la tentazione di abbandonare la guida della neonata commissione contro l'antisemitismo, il razzismo, l'odio e la violenza. Ma proprio i familiari, l'assistente della senatrice a vita in queste ore stanno cercando di persuaderla che non si può fare a meno del valore simbolico della sua presenza. Che questo passo indietro significherebbe darla vita agli altri, agli haters. Anche in Parlamento, nella maggioranza, comincia ad alzarsi un muro a difesa della Segre: ieri si è parlato dei dubbi della senatrice in una riunione dei capigruppo della coalizione di governo al Senato. E la preoccupazione è stata unanime. Davide Faraone, capogruppo di Italia Viva, lancia un appello: "Salvini ha commesso un errore gravissimo a dividere il Parlamento. Stavolta tutta la politica sia unita nel chiedere a Segre di non mollare. Sarebbe un rovescio per la democrazia". Ma il clima resta teso, dentro e soprattutto fuori dal Palazzo. L'odio non si è fermato, semmai è cresciuto dopo l'approvazione in Senato della commissione presieduta dalla Segre, con il contorno dell'astensione in blocco delle destre, che in Lombardia è diventata persino contrarietà in alla creazione di un organismo simile. Così il Comitato per l'ordine e la sicurezza sotto il coordinamento del prefetto milanese Renato Saccone e su impulso del ministero dell'Interno ha optato per accelerare sulla tutela della senatrice. Un livello blando di scorta, un'auto e due carabinieri. Ieri i milanesi hanno vista la senatrice, affiancata dagli uomini dell'Arma, andare alla Scala. "Voglio solo guardare la mostra, non rilascio nessuna dichiarazione", ha detto all'anteprima stampa dell'esposizione "Nei palchi delle Scala - Storie milanesi" al museo del teatro prima di essere accompagnata a visitarla da Pierluigi Pizzi, il regista e coreografo che ne ha curato l'allestimento. Ma, paradossalmente, la notizia della protezione per la Segre ha animato ancora di più i "leoni da tastiera": sui social gli insulti hanno avuto un'altra impennata. "È una vergogna per l'Italia che una sopravvissuta alla Shoah di 89 anni sia attaccata in questo modo", denuncia Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme. "Ma tutti i vertici della nostra comunità sono scortati: il Paese ha fallito", dice il vicepresidente di Roma Ruben Della Rocca. Matteo Salvini, ieri, ha prima minimizzato la notizia della scorta per la Segre: "Anch'io ricevo minacce". Salvo poi correggersi nel pomeriggio: "La senatrice ha tutta la mia vicinanza: dirsi antisemiti è da ricovero". I leghisti, la loro posizione, però la ribadiscono: il sindaco di Pescara, Carlo Masci, dice no alla cittadinanza onoraria alla Segre: "Mancano i legami con la città".

Da Corriere.it l'87 novembre 2019. Tentativo di aggressione fisica contro il leader politico della Lega, Matteo Salvini durante la sua visita a Napoli. Un esponente della sinistra italiana ha prima cercato il contatto fisico con l’ex ministro dell’Interno e poi lo ha apostrofato con parolacce e offese personali. L’immediato intervento della scorta del senatore ha evitato ulteriori problemi. Il video è stato pubblicato sui social.

Da it.notizie.yahoo.com l'8 novembre 2019. Tentata aggressione a Salvini durante la sua visita a Napoli. A minacciare il leader della Lega e cercare il violento contatto fisico è stato un esponente della sinistra italiana. Fondamentale l’intervento della sua scorta. Un susseguirsi di parolacce e offese personali contro l’ex ministro degli Interni, poi la tentata aggressione frenata dall’immediato intervento della scorta di Salvini, che ha così evitato lo scontro. Per quanto accaduto a Napoli è stato fermato un esponente della sinistra italiana. Il video è stato successivamente pubblicato sui social, dove presto è diventato virale. Martedì 5 novembre nei pressi di Palazzo Cellammare sono comparse scritte contro la Lega e il suo leader. “Odio la Lega”, “Salvini, Napoli ti schifa” sono tra gli insulti più gettonati. Non è passata inosservata neppure la scritta “Parlaci dei rubli”, che ha sostituito “Parlaci dei 49 milioni”. Matteo Salvini è tornato a Napoli per gettare le basi della campagna elettorale in vista delle elezioni regionali del 2020 in Campania. “Dobbiamo mandare a casa Vincenzo De Luca, che è tanto bravo a chiacchierare quanto incapace a risolvere i problemi dei rifiuti, del lavoro e della sanità”, ha infatti dichiarato in una delle dirette pubblicate sul suo Facebook. Tuttavia, per il momento non è dato a sapere il nome del candidato leghista che scenderà in campo per aggiudicarsi la poltrona di Palazzo Santa Lucia. Potrebbe rinnovarsi, anche in Campania, la coalizione di centrodestra, ma ancora non sussistono informazioni certe in merito.

Fabio Poletti per “la Stampa” l'8 novembre 2019. Sottobraccio a uno dei due carabinieri di scorta, la senatrice a vita Liliana Segre si infila nel Teatro alla Scala per l' anteprima della mostra Nei palchi della Scala, sui milanesi illustri che qui sono stati di casa. «Non voglio rilasciare nessuna dichiarazione, voglio solo guardare la mostra», vola alto mentre il mondo le parla addosso. La decisione di affidarle la tutela è arrivata dopo gli oltre 200 messaggi sul web contro di lei, «colpevole» di essere ebrea e di esser sopravvissuta a 14 anni ad Auschwitz. Tanto odio provoca la reazione indignata del Centro Wiesenthal di Gerusalemme: «Vergogna per l' Italia che una sopravvissuta alla Shoah di 89 anni sia attaccata in questo modo su Internet». Tecnicamente è una tutela quella adottata dal prefetto Renato Saccone, ma i due carabinieri sono inflessibili. Rispondono per lei al telefonino, fanno muro al telefono di casa: «La signora Segre sta riposando e non intende rilasciare dichiarazioni». Il figlio Luciano parla con sollievo della scorta alla madre: «Gli odiatori parleranno di un nuovo spreco di soldi. Ma ora siamo più tranquilli». Scatena polemiche la prima uscita dell' ex ministro dell'Interno Matteo Salvini che azzarda il paragone: «Le minacce contro Segre, contro Salvini, contro chiunque sono gravissime. Anch' io ricevo minacce quotidianamente». Qualcuno lo interpreta come un maldestro tentativo di riavvicinamento, dopo le polemiche innescate dall' astensione in Parlamento di tutto il centrodestra alla commissione Segre che deve monitorare gli episodi di razzismo nel Paese. Le parole di Matteo Salvini che ammicca pure su un contatto diretto con Liliana Segre, non piacciono allo scrittore Roberto Saviano: «Salvini minimizza. I sovranisti usano l' odio antisemita come carburante». Quando è sera il segretario della Lega corregge il tiro: «Non è una bella giornata quella in cui il Paese Italia è costretto a dare la scorta a Liliana Segre che ha tutta la mia vicinanza e la mia comprensione. Negare l' olocausto o dirsi antisemiti nel 2019 è da ricovero urgente». Se il segretario detta la linea, la Lega a Pescara fa sapere attraverso il suo capogruppo che Liliana Segre non merita la cittadinanza perchè «non ha legami col territorio». Fratelli d' Italia proporrebbe come merce di scambio di conferire la cittadinanza anche ai parenti delle vittime delle foibe. Da Milano dove risiede la senatrice a vita arrivano sostegni bipartisan. Il sindaco Giuseppe Sala si schiera: «Le sono vicino, tutto il possibile per sostenerla». Il Governatore Attilio Fontana non è da meno: «Giusto che abbia avuto la scorta, inconcepibile e inaccettabile che sia stata necessaria». Compatta la Comunità ebraica. Il presidente milanese Milo hasbani è amareggiato: «Triste che serva la scorta». Davide Romano, ex assessore alla Cultura, invita a non sottovalutare: «Non dimentichiamo gli insulti alla Brigata Ebraica il 25 aprile o il corteo di arabi che due anni fa urlava morte agli ebrei». Andrè Ruth Shammah, esponente della cultura milanese, si chiede a chi tocchi il dovere della memoria: «Triste segnale la scorta a Liliana Segre, testimone di quello che è successo. Quando toccherebbe a tutti ricordare».

Michele Serra per “la Repubblica” l'8 novembre 2019. Una signora milanese di 89 anni, deportata nei lager come milioni di ebrei d' Europa e scampata, insieme a pochi, allo sterminio, deve girare scortata da due carabinieri perché subissata di insulti e minacce online. Succede in Italia il sette di novembre dell' anno 2019. La notizia non consente di drammatizzare né di minimizzare. Ha una sua definitiva e terrificante eloquenza. È la conferma "ufficiale" che settantacinque anni dopo i campi di sterminio la voce dei carnefici ancora si leva contro le vittime (superior stabat lupus). Imputa loro di essere vivi e per giunta parlanti. È l' odio che l' assassino nutre per il testimone del suo delitto. Liliana Segre è stata nominata senatrice a vita proprio in virtù della sua testimonianza; dunque, trattandosi di Auschwitz, della sua sopravvivenza. Di qui l' ostilità implacabile di chi nega la Shoah come di chi la rivendica. Categoria, questa seconda, tutt' altro che trascurabile e anzi quasi "pop", come dimostra la frequente invocazione sui social, anche da parte di bravi padri e madri di famiglia, anche di consiglieri comunali di ridenti e prosperose cittadine del Nord, a "Hitler che non ha finito il suo lavoro". Chi attacca gli ebrei scampati ai forni lo fa con l'accanimento (satanico, direbbe un credente) dei malvagi. Ma lo fa anche con una baldanza, e una "normalità", che possono essere giustificate solo da un mutamento altrettanto sconvolgente del quadro politico, del quale stentiamo a renderci conto fino in fondo. Perché nazisti, fascisti, razzisti sono sempre esistiti; ma mai come adesso, nella storia europea successiva alla catastrofe della guerra, si sono sentiti nel pieno diritto di esserlo. E così ben rappresentati sulla scena politica. "Normali": è soprattutto questo, nelle costanti apparizioni pubbliche, di piazza e mediatiche, che rivendicano di essere i giovanotti che fanno selfie con la svastica e inneggiano a Mussolini (persecutore e deportatore di migliaia di italiani ebrei. Innocenti, ma ebrei. Uguali a lui, a noi, a loro, a tutti: ma ebrei). Di questi "normali" derisori di Anna Frank, e fischiatori di neri, e linciatori morali e a volte fisici di chiunque non sia dello stesso branco, sono piene le curve di stadio, divenute non si sa perché, non si sa come, calamite dell' istinto di sopraffazione; e ne è piena quella immensa curva di stadio che sono i social, che in queste ore, a quanto pare, stanno rincarando la dose dei "buuuh" alla signora Segre, colpevole di scorta, dunque colpevole di vittimismo da un lato (il vittimismo di una vittima!), di arroganza castale dall' altro: che altro può essere, una senatrice a vita, se non un membro della casta? Il risultato (ovvio, inevitabile dopo anni di assuefazione a tutta la merda di cui sopra) è una signora di 89 anni che altro non ha fatto, nella sua vita recente, che parlare, tra l' altro con pacatezza ammirevole, del martirio di milioni di esseri umani, assegnata alla protezione delle forze dell' ordine: come chi si ribella alla mafia. Non per spirito polemico, nemmeno per puntiglio cronistico, solo per il rispetto dell' evidenza va ricordato che pochi giorni fa quasi mezzo Parlamento italiano - la metà di destra; nella quale è compresa tutta la destra italiana, anche lo sparuto manipolo dei sedicenti moderati - è rimasto seduto e silenzioso di fronte alla senatrice Segre. Astenendosi (perfino fisicamente, grazie alla postura) dall' adesione a un progetto di contrasto all' odio razziale che per quanto "burocratico", per quanto velleitario, avrebbe meritato almeno un poco di rispetto, invece che finire nel calderone becero, indecente, della rivolta contro il "politicamente corretto". Già, perché anche inorridire di fronte alla deportazione degli ebrei, a questo punto della storia italiana, rischia di diventare appena un segmento, tra i tanti, del "politicamente corretto". Nessuno è così stupido, e neanche così pessimista, da pensare che quei parlamentari rimasti con il culo sulla poltrona di fronte a Liliana Segre (dunque di fronte ai cancelli di Auschwitz) siano favorevoli ai lager, o fascisti, o nazisti (anche se qualcuno sicuramente lo è: nei banchi della Lega e nei banchi di Fratelli d' Italia). Ma nessuno è così stupido, e neanche così ottimista, da non capire che il ripudio dell' antifascismo da parte della destra italiana, da Berlusconi in poi, non poteva che avere conseguenze devastanti. L' antifascismo è consustanziale alla democrazia europea: addirittura alla nascita dell' Europa. Non lo è perché così ci piace pensare, così ci piace dire. Lo è perché così la Storia ha stabilito: la distruzione del nazifascismo, la Bestia che scatenò la Guerra, è la condizione stessa della rinascita dei popoli europei. Tanto per capire meglio che cosa significa "sovranismo": distruzione dell' Europa ovvero della democrazia. La destra italiana non è più antifascista da tempo. Senza rendersi conto che questo significa, per lei stessa, perdere orientamento, perdere identità, perdere autonomia. Insomma perdere se stessa. Se l' è mangiata tutta quanta, infatti, quel Capitano che pareva destinato a incarnare solamente i sogni della destra energumena e antidemocratica: un estremista, un curvaiolo, come da autobiografia. Ma l' intero stadio si è arreso alla curva. L' intero stadio è curva. Per questo la senatrice Segre, scampata ad Auschwitz, deve girare con la scorta. Con una grande e comprensibile voglia: abbandonare lo stadio. Abbandonarlo al suo destino.

Lettera di Giampiero Mughini a Dagospia l'8 novembre 2019. Caro Dago, vedo che da più parti si accenna a una sorta di risorgente “antisemitismo” italiano di cui sarebbe un sintomo lampante la monnezza riversata quotidianamente via Internet su Liliana Segre. E’ un’affermazione che non ha né capo né coda. In Italia l’antisemitismo non è mai esistito, voglio dire come sentimento profondo e diffuso in larghi strati della popolazione. Non è mai esistito neppure al tempo delle nefande leggi razziali, a un tempo in cui la predicazione razziale vera e propria era appannaggio di un personaggio miserando quale Giovanni Preziosi e di un paio di fogliacci abietti pagati dal Duce che per motivi di politica internazionale voleva stringere vieppiù i legami con Adolf Hitler. E del resto era impossibile che l’antisemitismo attecchisse in un Paese dove gli ebrei erano sì e no 45mila (in Polonia erano tre milioni e mezzo). Nella orrida giornata del 16 ottobre 1943, quando i nazi rastrellarono tutta Roma a caccia di ebrei, il loro obiettivo era la cattura di 10-11mila ebrei. Ne presero 1200 e questo innanzitutto perché la popolazione romana li protesse tutte le volte che poté, e ne esistono testimonianze a migliaia Il comandante militare del rastrellamento, Herbert Kappler, scrisse a Berlino che l’azione aveva avuto un esito fallimentare: che la gran parte della popolazione, ivi compresi i fascisti, erano stati dalla parte degli ebrei. Così come è un fatto che durante la Seconda guerra mondiale, i soldati italiani a Marsiglia protessero i nazi che stavano braccando gli ebrei. Lo racconta benissimo una storica americana, Suzan Zuccotti, in un libro di molti anni fa. Il vero antisemitismo è tutt’altra cosa, ha tutt’altre radici, ha esponenti di tutt’altro spicco. Basta guardare alla Francia nostra cugina dove, caso Dreyfus a parte, l’antisemitismo è stata una vena costante della più alta cultura francese e di cui trovi le tracce dappertutto, persino in un vecchio libro di un personaggio quale Georges Bernanos o magari nei diari di André Gide, e senza dire scrittori dell’importanza di Louis-Ferdinand Céline o Lucien Rebatet. Trenta o più anni fa comprai un atroce librino, Le péril juif, firmato da uno scrittore francese che amo molto, Marcel Jouhandeau. Se lo leggeste capireste che cos’è l’antisemitismo. Il libro era stato pubblicato poco prima che scoppiasse la Seconda guerra mondiale e che a Parigi arrivassero da trionfatori i nazi e si mettessero a loro volta a cacciare gli ebrei che non avevano la cittadinanza francese. A quel punto Jouhandeau, che era una brava persona, chiese al suo editore di ritirare il libro dalla vendita. Quando mai e dove mai sono stati in Italia i Céline, i Rebatet, i Jouhandeau, gli editorialisti dell’ “Action française”? Sarebbero questi che sputano fiele ora su Liliana Segre ora su Gad Lerner? Ma non diciamo sciocchezze. Gli odiatori di cui è questione sono semplicemente la feccia della società, in un momento della storia degli uomini in cui questa feccia sta crescendo di entità e di aggressività, un momento in cui occupa una latitudine sempre maggiore della comunicazione diffusa. E’ sempre esistita questa feccia, solo che nel buio delle sue stanzette ha oggi a disposizione un’arma prepotente, il poter cliccare sui tasti dell’odio, del rancore sociale, dell’invidia professionale, del cannibalismo ideologico. Ci sono quelli che odiano la Segre e quelli che odiano Salvini, altrettanto feccia. Sono quelli incapaci di un ragionamento, di perlustrare le vie a zig zag percorse dall’umanità, di usare il fioretto e il present’arm anziché l’ascia da macellaio. Li vedi e ne senti l’olezzo dappertutto, non ultimi i set televisivi che tutti noi frequentiamo. La feccia e basta. Altro che Jouhandeau e Charles Maurras. L’antisemitismo di inizio secolo è stato purtroppo una cosa seria oltre che sommamente tragica. C’entra niente con i clic miserandi di chi sa solo eruttare a tutto spiano il veleno che ha in corpo. 

«Milano non odia»: in 5 mila  al presidio per Liliana Segre. Pubblicato lunedì, 11 novembre 2019 su Corriere.it da Pierpaolo Lio. Poesie, canzoni, racconti, frasi: 200 i messaggi di pace e solidarietà letti di fronte al Memoriale della Shoah al Binario 21 della Stazione Centrale. Emanuele Fiano ha letto la poesia di Primo Levi «Se questo è un uomo». Il Checcoro ha intonato «Bella ciao». In tutto sono stati oltre 200 messaggi di pace e solidarietà letti lunedì sera davanti al Memoriale della Shoah al Binario 21 della Stazione Centrale, da cui partirono i treni per i campi di sterminio nazisti. Un modo per stringersi in un abbraccio collettivo alla senatrice a vita Liliana Segre, partita 13enne su un treno per Auschwitz, che oggi sul web riceve più di 200 messaggi di odio e minacce al giorno e alla quale dal 7 novembre è stata assegnata una scorta dei carabinieri. A quanto riferito dal Pd milanese sono stati cinquemila, nonostante la pioggia battente, i partecipanti al presidio «Milano non odia: insieme per Liliana» organizzato dalle associazioni Bella Ciao, Milano!, Anpi e Aned. Al presidio hanno aderito numerose associazioni antifasciste e partiti politici, tra cui Associazione Famiglie Arcobaleno, Comitato Insieme senza Muri, Federazione nazionale dei circoli Giustizia e Libertà, Festival dei Diritti Umani, Gariwo - La foresta dei Giusti e molti altri. Erano presenti anche i figli della parlamentare. «Abbiamo scelto l’immagine del giglio perché il nome di Liliana deriva da “lilium”, giglio - si legge nell’appello sottoscritto dalle associazioni -. Nel linguaggio dei fiori il giglio bianco è simbolo di purezza, innocenza e candore, ma anche di fierezza e orgoglio. Noi donne e uomini del nostro tempo abbiamo ricevuto in dono un giglio: quel giglio è Liliana Segre. Oggi però siamo arrivati al punto che questa donna è costretta a vivere sotto scorta. Dopo aver vissuto sulla propria pelle l’odio nazifascista, deve rinunciare a un pezzo della propria libertà per via delle centinaia di insulti e minacce che riceve ogni giorno. Un’altra pagina triste della nostra Storia. Noi diciamo NO a tutto questo e ci stringiamo a lei, il nostro giglio bianco, per proteggerla e per preservare la sua testimonianza». «Davanti al Memoriale della Shoah, abbiamo voluto stringerci in un abbraccio collettivo alla senatrice, in tanti oltre ogni steccato, per dimostrare che siamo di più e più forti di chi vorrebbe farci ripiombare nell’oscurità del passato, un passato che abbiamo sconfitto con i valori della democrazia e dell’antifascismo, scolpiti nella nostra Costituzione», ha spiegato la segretaria metropolitana del PD Silvia Roggiani, che ha letto dal palco una testimonianza della senatrice Segre sui giorni della Liberazione da parte di americani e russi del campo di Auschwitz. «Nessun passo indietro, non concederemo neppure un millimetro agli spargitori di odio contemporanei. Milano, città Medaglia d’oro alla Resistenza, non si piega. Milano non odia, e le migliaia di cittadine e cittadini presenti questa sera, sono la testimonianza dell’impegno a non arrendersi mai all’intolleranza e agli istinti più biechi», ha aggiunto Roggiani. 

Piero Colaprico per repubblica.it il 12 Novembre 2019. Per il solo anno 2019, non ancora terminato, quanti sono i messaggi sul web contro gli ebrei in Italia? Solo Twitter ne conta oltre 15mila. Non esistono al momento rilevazioni analoghe, che abbiano valore sociologico, su Facebook, Google, Instagram e Vk, dove la propaganda antisemita è frequentissima. Ma gli analisti concordano nel considerare questo fenomeno in crescita da anni nel nostro Paese. Inoltre, sempre in Italia, sono stati censiti oltre 200 profili Facebook antisemiti. Ieri un articolo di Termometropolitico, ripreso da Dagospia, ha messo in dubbio i dati pubblicati da Repubblica il 26 ottobre: ogni giorno Liliana Segre, superstite e testimone dell'Olocausto, riceve in media duecento messaggi d'odio. "Mi chiedo perché non sia crepata insieme a tutti i suoi parenti", è questo il tono degli insulti rivolti quotidianamente alla senatrice a vita. Secondo il sito, che cita il rapporto dell'Osservatorio Antisemita, "gli episodi di antisemitismo sono 197 all’anno, non 200 al giorno". Dunque per Dagospia e per i giornali di destra, Repubblica avrebbe inventato un'emergenza, che poi si sarebbe in qualche modo autoavverata, visto che a causa di questo clima a Liliana Segre è stata assegnata la scorta. Dunque facciamo chiarezza: i 197 episodi di antisemitismo resi pubblici non hanno nulla a che vedere con quanto accade sul web, e dipendono da segnalazioni varie di singoli fatti, che vanno dallo sputo alla scritta sul muro. I nostri dati si riferiscono appunto ai messaggi d'odio sui social network: 200 al giorno sono quelli verificati, e anzi potrebbero essere molti di più. C'è poi il tema di fondo, che non si può sottovalutare o nascondere, e che riguarda l'allarme che c'è in Italia per l'antisemitismo e quanto sia crescente. A Liliana Segre, scampata al campo di sterminio, è stata riservata una valanga, anzi varie valanghe di odio, da parte di gente comune e da parte di organizzazioni neonaziste e neofasciste. Se questo sembra normale, è evidente che più di qualche cosa non funziona nel dibattito politico e sociale di questi tempi.

2. MA ''REPUBBLICA'' QUALI DATI CONFERMA, SE AMMETTE CHE NON CI SONO STATISTICHE? SIAMO BASITI, NOI NON NEGHIAMO L'ODIO, NEGHIAMO CHE I LORO NUMERI SIANO CORRETTI.

DAGO-RISPOSTA il 12 Novembre 2019: Restiamo senza parole di fronte all'ennesimo chiarimento che non chiarisce nulla di ''Repubblica''. Ricapitoliamo: Il 25 ottobre (online) e il 26 ottobre (sul cartaceo) appare un articolo di Piero Colaprico dal titolo: ''Antisemitismo. "Liliana Segre, ebrea, ti odio". La senatrice a vita riceve 200 messaggi online di insulti al giorno''. Nel testo si cita espressamente il rapporto dell'Osservatorio Antisemitismo, che ogni anno raccoglie gli episodi più gravi; il numero dei 200 insulti ''che ogni giorno partono'' verso la senatrice Segre, secondo ''Repubblica'', è nel rapporto.

200 moltiplicato per 365 giorni all'anno fa 73.000. Settantatremila post annuali contro una donna sopravvissuta all'Olocausto che fino a poco tempo fa (e sicuramente fino alla nomina a senatore a vita nel gennaio 2018) era sconosciuta ai più, non ha social network, e per sua stessa ammissione non aveva idea di essere al centro dell'odio online: ''nemmeno lo sapevo, l'ho appreso anche io dai giornali'' (intervista a Paolo Colonnello su ''la Stampa'' del 1 novembre 2019). Un numero che ovviamente ha sconvolto il mondo politico, e scatenato la reazione di tutti, dal Presidente del Consiglio ai presidenti di Senato e Camera, migliaia di giornalisti e persone comuni. che hanno espresso solidarietà e repulsione davanti a una statistica così scioccante. Da lì, inutile ripeterlo, centinaia di dichiarazioni, mobilitazioni, il disegno di legge sulla cosiddetta ''Commissione Segre'' che passa al Senato, Franceschini che ripristina i 25 milioni di euro al Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, infine l'inquietante capitolo dell'assegnazione della scorta. Arriviamo a oggi: un collaboratore di ''Termometro Politico'' ha preso in mano il suddetto rapporto annuale e non ha trovato traccia dei 200 messaggi al giorno. Si parla di 197 episodi (nel 2018) che, nonostante quello che incredibilmente ancora scrive ''Repubblica'', si riferiscono anche al web: 133 tra Facebook, Twitter, Youtube, VK. È chiaro che questo numero non esaurisce l'odio online contro gli ebrei, ma esaurisce quello monitorato dall'Osservatorio, unica fonte citata da Colaprico nel suo articolo. Quindi ci siamo chiesti anche noi: DA DOVE VIENE IL NUMERO 200? Ieri abbiamo ricevuto una risposta bizzarra, in cui per trovare una pezza d'appoggio si citava un articolo del ''Fatto Quotidiano'' su Liliana Segre dell'ottobre 2018 (un anno fa). Ma non era l'articolo a svelare l'arcano dei 200, bensì serviva a dimostrare che su Twitter, sotto all'articolo, c'erano centinaia di commenti, tra cui molti insulti antisemiti. Quindi un dato che si riferisce a un singolo giorno. Decisamente poco per giustificare la campagna scatenata un anno dopo. Oggi, leggiamo su ''Repubblica.it'' una nuova risposta in cui veniamo tacciati di ''negazionismo dell'odio''. Colaprico afferma (senza citare una singola fonte, un rapporto, un dato della Polizia postale, un virgolettato) che su Twitter, ogni anno, appaiono 15mila messaggi antisemiti e ammette che su Facebook, Google, Instagram e Vk NON CI SONO STATISTICHE. Allora di che stiamo parlando? Dove sono i 73mila messaggi annuali SOLO CONTRO LA SEGRE? In Italia ci sarebbero 2,35 milioni di utenti registrati su Twitter. Ipotizziamo che ogni twittarolo antisemita faccia 15 cinguettii all'anno sul tema (e ci teniamo bassi, in genere questi personaggi sono ossessionati), vuol dire che su quei 2,35 milioni ci sono mille antisemiti, lo 0,0016% della popolazione italiana. Ma è un numero rincuorante! Vuol dire che stiamo di fronte a una minoranza talmente piccola da rappresentare un errore statistico, altro che marea nera. Noi non stiamo negando l'odio. Stiamo negando che i numeri scritti da ''Repubblica'' siano corretti, perché al momento hanno citato un solo rapporto, che da nessuna parte parla di 200 messaggi al giorno contro la senatrice Segre. L'unica cosa che sappiamo è che 10 giorni dopo l'articolo di ''Repubblica'', le è stata assegnata una scorta. Al ministero dell'Interno non sono dei pazzi irresponsabili, e possono assegnare una scorta in 24 ore davanti a minacce concrete, dunque vuol dire che un vero pericolo per la signora non è esistito fino a una settimana fa. L'unica cosa che è cambiata, in questi giorni, è l'articolo di ''Repubblica'', che avrebbe fatto uscire dalle fogne i veri odiatori, quelli che fanno scattare l'azione dell'Ufficio centrale interforze per la sicurezza, l'organo che assegna le scorte. Qual è la causa e qual è l'effetto? Aspettiamo altre risposte meno fumose. Ps: una domandina. Dove sono i debunker d'Italia, i Puente, i Butac, le Valentine Petrini, le Valigie Blu, e gli altri sacerdoti del data journalism? Attendiamo verifiche anche tardive sui numeri che hanno monopolizzato il dibattito politico nelle ultime due settimane e che non trovano riscontri in nessun dato.

Aggiornamento: David Puente su Open ha pubblicato un articolo in cui stranamente non è né diretto né chiaro, e fa un lungo giro di parole per evitare di dire quello che abbiamo scritto qui sopra. In ogni caso, è costretto ad ammettere che il numero dei 200 messaggi al giorno NON ESISTE DA NESSUNA PARTE E NESSUNO LO HA MAI CERTIFICATO.

I fattoidi sul caso Segre e i 200 insulti al giorno antisemiti. David Puente su Open.online.it il 12 Novembre 2019. Ci sono o non ci sono questi 200 insulti al giorno? Ecco cosa è successo e cosa ha generato. Di recente Termometro Politico, in un articolo pubblicato l’undici novembre 2019, ha sostenuto che non ci siano mai stati 200 insulti al giorno rivolti a Liliana Segre smontando l’articolo di Repubblica che riportava il dato: Sabato 26 ottobre, su Repubblica, a firma di Pietro Colaprico è uscito un articolo intitolato “Liliana Segre, ebrea. Ti odio” Quegli insulti quotidiani online. All’interno cita un rapporto dell’osservatorio antisemita e sostiene che la Segre riceva 200 insulti al giorno. Il rapporto esce due giorni dopo e dice una cosa diversa; i dati si riferiscono al 2018, non al 2019. Gli episodi di antisemitismo sono 197 all’anno, non 200 al giorno. In tutta questa vicenda, ci sono diversi fattoidi riportati da più parti che vanno spiegati.

La base della verifica. Alla base della verifica c’è la «Relazione annuale antisemitismo in Italia 2018 a cura dell’Osservatorio antisemitismo del CDEC» in cui viene riportato il dato dei 197 episodi rilevati nel corso del 2018. Nello specifico, a pagina 12 della relazione troviamo il riferimento a 36 episodi di diffamazione e insulti contro persone e personaggi pubblici come Gad Lerner, Emanuele Fiano e Liliana Segre: Diffamazione e insulti (36 episodi) contro persone ed enti ebraici. 20 casi colpiscono ebrei oppure fantomatici “sionisti”, 9 riguardano enti ebraici – principalmente l’Ucei e l’Osservatorio antisemitismo della Fondazione CDEC – 7 invece specifiche persone, tra cui un rabbino. Personaggi pubblici come Gad Lerner, Emanuele Fiano, Sandro Parenzo, Enrico Mentana e Liliana Segre sono spesso vittime di invettive antisemite specie sui social. A questo punto si dovrebbe pensare che nel corso di un anno gli episodi di diffamazione e insulti nei confronti di Liliana Segre sarebbero meno di 36 visto che in questo insieme riportato nella relazione ci sono non solo altri personaggi noti, ma anche enti ebraici. Andiamo avanti.

Che cosa ha detto Repubblica. L’articolo di Repubblica del 25 ottobre 2019 riporta nel titolo il dato dei 200: «Antisemitismo: “Liliana Segre, ebrea, ti odio”. La senatrice a vita riceve 200 messaggi online di insulti al giorno». Lo fa anche all’interno del testo: Di messaggi come quelli qui riportati contro Liliana Segre, superstite dell’Olocausto, testimone del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, ogni giorno ne partono duecento. Repubblica cita anche un altro report che non ha nulla a che fare con la relazione pubblicata dall’Osservatorio: L’osservatorio antisemitismo è stato costretto a realizzare un rapporto sugli attacchi e Repubblica ha potuto leggerlo. All’interno di questo ulteriore report ci sono degli esempi con delle frasi ben precise, non riportate nella relazione: Ne sono segnalati due. Uno, Sebastiano Sartori, lavora al celebre istituto alberghiero “Barbarigo” di Venezia: “La senatrice a vita Segre sta bene in un simpatico termovalorizzatore”. È un ex esponente di Forza Nuova, dice anche che “la Costituzione è un libro di merda buono per pulircisi il culo”. Open ha ricevuto dall’Osservatorio lo stesso report, ecco uno screenshot del rapporto inviato a Repubblica con l’esempio del “termovalorizzatore”: C’è un fatto, cioè che all’interno del secondo rapporto non è scritto in chiaro il dato dei 200 insulti al giorno.

Episodi e insulti. «Gli episodi di antisemitismo sono 197 all’anno, non 200 al giorno», riporta l’articolo di Termometro Politico. Bisogna fare una doverosa precisazione perché c’è differenza tra episodi e singoli insulti. L’Osservatorio antisemitismo, contattato da Open, spiega che un singolo episodio – come un post Facebook di un influencer – può generare uno, due, cento commenti antisemiti da parte degli utenti, ma dal punto di vista procedurale nelle relazioni lo racchiudono come un singolo episodio.

Da dove vengono i 200 insulti citati da Repubblica? L’Osservatorio ci conferma che nel documento citato da Repubblica non è presente il dato dei 200 insulti al giorno rivolti a Liliana Segre, ma di essere in possesso di molteplici esempi di attacchi verso la sua persona precedenti all’istituzione della Commissione parlamentare e in particolare cita un articolo de Il Fatto Quotidiano del 25 ottobre 2018, ritenuto corretto e non criticabile, che aveva scatenato insulti nei confronti della senatrice Segre. Quanti? Nel rapporto leggiamo «centinaia di tweet contro Liliana Segre». Risulta probabile che dal dato fornito in questa parte del rapporto Repubblica sia giunta, in maniera personale, al dato dei 200 al giorno. L’Osservatorio, al momento, non è in grado di fornire un numero esatto degli insulti rivolti nei confronti di Liliana Segre che comunque non sono circoscritti all’antisemitismo, siccome in altri casi viene attaccata per la sua età, per il fatto di essere donna e di voler – secondo alcuni – imbavagliare e imporre la censura nel web.

L’Osservatorio ha parlato di 200 insulti al giorno, dove e quando? Solo il 28 ottobre 2019, qualche giorno dopo l’articolo di Repubblica, nel sito dell’Osservatorio compare un pezzo in cui vengono citati i 200 insulti al giorno nei confronti della senatrice Segre. La fonte? I quotidiani italiani, tra questi Repubblica: Fonte: Moked.it, Avvenire, Corriere della Sera, Il Giornale, Il Fatto Quotidiano, Il Manifesto, Il Messaggero, Repubblica.

Odio sui social e nel web, una minaccia a tutta la società. Duecento messaggi di odio al giorno. È un campanello d’allarme angosciante quello lanciato dall’Osservatorio Antisemitismo del Cdec che in questo numero ha quantificato l’ostilità del mondo del web nei confronti della Testimone della Shoah e senatrice a vita Liliana Segre. Molte le reazioni che questa notizia sta suscitando.

L’antisemitismo c’è. Al di fuori delle relazioni e dei report dell’Osservatorio antisemitismo ci sono anche altri studi e ricerche, come quello pubblicato da Vox Diritti ogni anno. Nell’ultimo report, pubblicato il 12 ottobre 2019, nel solo social network Twitter sono stati individuati oltre 19 mila tweet antisemiti.

Considerazioni finali. Bisogna fare dei doverosi chiarimenti. La scorta a Liliana Segre non è la conseguenza degli insulti ricevuti prima dell’articolo di Repubblica e prima della pubblicazione della relazione dell’Osservatorio. Le reazioni riscontrate a seguito dell’istituzione della Commissione hanno portato la senatrice in una posizione simile a quella dei rabini italiani che, a seguito degli attentati terroristici islamici, risultano essere sotto tutela dello Stato. Ricordiamo che la scorta viene assegnata dal comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza in seguito di attente e opportune verifiche, nulla viene lasciato al caso e alla leggera. La senatrice, che da oltre un anno voleva istituire una commissione contro l’odio, è stata trasformata da media e politici in un simbolo e i simboli sono quelli più facilmente identificabili e presi di mira. La diffusione della notizia dei presunti 200 insulti al giorno da parte di Repubblica ha generato non solo una call to action iniziale utile a rafforzare la figura simbolica della senatrice, ma la mancanza di una prova concreta ha fornito un ulteriore impulso agli hater di scagliarsi contro di lei.

Lettera di Maria Giovanna Maglie a Dagospia il 12 Novembre 2019: Caro Dago, Sabato 26 ottobre, su Repubblica, a firma di Pietro Colaprico è uscito un articolo in cui si cita diffusamente un rapporto dell’Osservatorio antisemita e si sostiene che la senatrice a vita Liliana Segre riceva 200 insulti al giorno. Il rapporto esce due giorni dopo, dice una cosa diversa; i dati si riferiscono al 2018, non al 2019. Gli episodi di antisemitismo sono 197 all’anno, non 200 al giorno. Nel frattempo su questi dati fasulli hanno montato un inferno, nel frattempo fanno finta di niente anche oggi che grazie a Dagospia l'imbroglio è stato diffuso. Peggio, alzano il tiro verso il Colle.  Ma sì, sfruttiamola ancora un po', candidiamo la senatrice a vita Liliana Segre, che avrà per allora compiuto gloriosi 92 anni, al Quirinale. È un politico? No, ma ha un'alta visione delle cose della vita, per dirla con Lucia Annunziata e con Nicola Zingaretti da New York, e tanto per allora nei progetti di certi che invece la politica ahinoi la fanno, l'Italia sarà ridotta in modo tale che più che un simulacro, più che un'icona, a occupare la presidenza della Repubblica potrebbe non servire. Figurati la riforma del presidenzialismo, figurati una repubblica presidenziale. La cosa incredibile è che non abbiano capito che non gli crede più nessuno o quasi, che gli italiani vogliono lavoro e sicurezza, e che se continui a rispondere a esigenze sacrosante levando alti e soliti lai di "fascisti razzisti antisemiti", non solo perdi voti e consensi e vai a scatafascio, ma semini l'odio che dici di voler combattere. Dici, perché siccome nel caso degli attacchi a Liliana Segre menti e costruisci bufale, l'odio lo vuoi diffondere come in una orribile pandemia, e meno male che gli italiani sono refrattari a questo morbo. Si sfogano sui social perché rabbia ce n'è tanta e finisce lì. Il bello è che ci cascano tutti o quasi, in un riflesso di conformismo che colpisce anche i più coraggiosi, perché non c'è niente da fare, e l'Italia, bellezza, è l'Italia antifascista, è l'Italia dell'Anpi eterna, è l'Italia della Resistenza molto più forte negli anni di pace che in quelli di guerra, e guai a chi sì prova a scrivere la storia per come avvenne, per chi voglia affermare che la Shoah è una tragedia troppo grande e innominabile per immiserirla e strumentalizzarla ogni giorno, per farne pantomima, da "La vita è bella" in avanti. Guai a chi sostenga che non la puoi celebrare dolente per poi accompagnarla impunemente con i fischi alla Brigata ebraica ogni 25 aprile, non puoi ostentarla ma poi indossare lo straccio e sventolare la bandiera palestinese, non puoi fingere che sia un faro mentre si isola, si insulta, si boicotta Israele. Non dovresti fare ministro della Pubblica Istruzione uno che fu attivo nel boicottaggio dei prodotti made in Israele e nemmeno impunemente proporre per un programma in RAI "perché interessa ai giovani e parla alle periferie" tale Chef Rubio che ogni giorno sui social commette reato di antisemitismo e di istigazione all'odio e all'azione violenta contro Israele. Dovrebbe esserci un minimo di coerenza nel ricordare che nello Stato di Israele ci abitano gli ebrei, dovrebbero rivendicarla gli eredi dei protagonisti e i testimoni ancora vivi del misfatto che fu commesso dall'uomo. Troppo spesso non lo fanno. Ti voglio ringraziare proprio per questo, caro Dago, per aver avuto il coraggio di informazione sulla Grande Bufala degli insulti a Liliana Segre. La bufala in questo caso non solo offende gli italiani accusati di antisemitismo senza né una ragione né un numero, anzi inventandoli i numeri, danneggia e offende la protagonista che si è trovata al centro di un'attenzione non richiesta, che ha rischiato e rischia di diventare un obiettivo di pochi  odiatori, ora sguinzagliati dal clamore mediatico. La verità? Quella scritta dall'Osservatorio Antisemita e correttamente riportata da Nicolò Zuliani per termometropolitico.it , che senza la diffusione che garantisce Dagospia avrebbe forse avuto meno visibilità. Se è per questo, anche ora fanno finta di niente, ma forse non gli riesce. La verità? Liliana Segre non riceveva 200 insulti al giorno, gli attacchi monitorati erano 197 in un anno e rivolti ad ebrei visibili e conosciuti come Gad Lerner, Enrico Mentana, David Parenzo, Emanuele Fiano. Un numero certamente riprovevole in ogni caso ma veramente basso rispetto agli episodi denunciati dagli Osservatori delle altre nazioni europee, quali Francia, Germania, Inghilterra. Poi è arrivato un articolo di Repubblica il cui autore, Pietro Colaprico, ora dichiara di essersi ispirato ai commenti sotto a un singolo tweet di un anno fa. Non ha cifre ufficiali, non ha dati elaborati, non una inchiesta autonoma, eppure i numeri vengono moltiplicati per 365 quanti sono i giorni dell'anno, sono seguiti altri indignati editoriali del direttore, Carlo Verdelli, le prese di posizione dell'Annunziata su Huffington Post, le intemerate di Michele Serra, le manifestazioni, le cittadinanze onorarie, tutte del genere che segue: "Una signora milanese di 89 anni, deportata nei lager come milioni di ebrei d'Europa e scampata, insieme a pochi, allo sterminio, deve girare scortata da due carabinieri perché subissata di insulti e minacce online. Succede in Italia il sette di novembre dell'anno 2019.  La notizia non consente di drammatizzare né di minimizzare. Ha una sua definitiva e terrificante eloquenza. È la conferma "ufficiale" che settantacinque anni dopo i campi di sterminio….". Settantacinque anni dopo i campi di sterminio che cosa? Indignate reazioni obbligate del mondo politico, dal premier Conte alla presidente del Senato Casellati, ultimo dopo la decisione della scorta a Liliana Segre è intervenuto anche il presidente Mattarella, forse il più prudente e accorto di tutti. Nel frattempo guai a chi tentava distinguo, guai a chi si provava a cercare sui social le minacce, e giu' accuse di istigare odio rivolte naturalmente a Matteo Salvini, l'uomo nero da battere, uno che invece le minacce di morte quotidiane anche a mezzo proiettile o immagini che lo ritraggono decapitato o impiccato a testa in giù, se le deve tenere e tacere. Il tutto è stato condito dalla costituzione di una super commissione contro l'antisemitismo, come se non bastassero, e guai se così non fosse, il nostro codice le nostre leggi i nostri tribunali, che in realtà nasconde malamente ma proprio malamente l'intenzione di una censura sulla libertà di espressione, che con l'antisemitismo e la Shoah non c'entra proprio niente, e' invece un codice Boldrini o un codice Scalfarotto che intende controllare, attraverso un organismo politico, la valutazione di ciò che viene considerato odio o viene considerato il nazionalismo o viene considerato razzismo. Volete un esempio? Leggetevi il manifesto "Milano e Torino insieme contro il razzismo", che Il sindaco Sala e la sua collega di Torino, Chiara Appendino, hanno firmato al Palazzo Civico di Torino. Lo chiamano il "Manifesto della comunicazione non ostile", assieme a Rosy Russo, ideatrice e fondatrice di Parole O_Stili. E lo hanno dedicato a Liliana Segre. Il documento prevede la condivisione di 10 principi e "l'impegno a osservarli, promuoverli e diffonderli con l'obiettivo di contrastare l'odio in rete e sostenere un uso consapevole del linguaggio, sia da parte degli utenti, sia da parte di chi ricopre cariche politiche o istituzionali".Brrr. Tradotto? È un vero e proprio bavaglio. Nel frattempo, quasi naturalmente, quegli orribili insulti, pochi, nascosti, sono stati amplificati, enfatizzati, portati quasi ad esempio, e quindi si sono moltiplicati. Ma lo strumento di odio lo ha diffuso per primo la Repubblica. Un esempio per tutti. Dall'articolo del 25 ottobre: "Sulla stessa lunghezza d'onda Marco Gervasoni. È un docente di Storia contemporanea all'università degli studi del Molise e dopo l'intervento della senatrice a vita a sostegno del Governo Conte, si legge nel report dell'osservatorio antisionismo, «ha twittato una serie di malevoli post cui sono seguiti decine di insulti contro Liliana Segre. Qualche esempio: ebrea di professione, stronza, vecchia rincoglionita, sionista pensa ai palestinesi, senatrice senza meriti che lucra sull'Olocausto, vecchia ignorante e in malafede, personaggio squallido, vecchia demente". Ma il professore Gervasoni non ha twittato proprio niente di malevolo, ha espresso solidarietà a Liliana Segre, ribadito la stima e il rispetto per Israele, ha solo criticato l'istituzione di una super commissione che ritiene inutile. Dei commenti sotto i suoi tweet non è responsabile, come fa credere Repubblica.  È proprio questo il meccanismo , arrivare a una decisione solo emotiva, sfruttando a cascata una serie di reazioni tutte emotive che sono partite da una menzogna che aveva lo scopo di suscitare quelle emotività. E credetemi, non c'entrano l'antisemitismo o il razzismo, magari centra l 'ego ipertrofico che i social incoraggiano, Ma chi ha cominciato il gioco al massacro? Se Nicola Zingaretti senza pudore alcuno ha dichiarato il 19 ottobre che Piazza San Giovanni pacifica e festante era "portatrice di rabbia odio e violenza", sentite questo articolo vibrante per l' Huffington del sindaco di Napoli, De Magistris. Così doverosamente comincia "Napoli sarà sempre con Liliana Segre…" Così prosegue e conclude: "Memori dei crimini indicibili che ha subito il popolo ebreo, non si può più accettare l'occupazione brutale delle terre di Palestina da parte di Israele. Non tolleriamo più  governi che mettono i popoli gli uni contro gli altri  perché le nostre infelicità non sono colpa di poveri e oppressi ma di un sistema che ha creato ingiustizie e disuguaglianze". Potrei mai chiudere senza citare il portatore ufficiale dei messaggi illuminati di pace e fratellanza. Chi se non Roberto Saviano? "L’odio verso Liliana Segre è responsabilità di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Liliana Segre è stata testimone dell’inferno, ma continua ad avere negli occhi la luce di chi non ha rancore. A lei vogliamo somigliare e non a chi avvelena l’Italia con messaggi di odio e di violenza". Qualcuno l'ha informato che si tratta di fake news, ovvero bufale? Qualcuno gli ha detto che, stante l'esistenza di una super commissione di controllo su tutte le cattiverie che diciamo, capace che un giorno l'altro tocchi pure a lui rispondere di quel che dice? Figuriamoci. Allora? chi ha perso qualunque capacità di proposta politica e gli tocca far ricorso ai partigiani? Chi istiga odio? Chi viene sempre meno ascoltato? Chi rischia di essere infilzato da un forcone, simbolico si intende?

Caso Segre, tutte le bugie che ci hanno raccontato. Max Del Papa, 13 novembre 2019 su Nicola Porro.it. Le bugie hanno le gambe corte anche se sui social possono fare molta strada molto in fretta. Una delle più mortificanti di questi tempi riguarda la senatrice a vita Liliana Segre, e l’allarme lanciato da Repubblica: riceve 200 minacce al giorno, ogni giorno, compresi i festivi, in ragione della sua tremenda esperienza di sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti. Una tragedia vera serviva a generare la farsa della commissione eponima, inquietante psicopolizia del pensiero ad uso e consumo della sinistra. Solo che non erano duecento attacchi al giorno, erano all’anno (2018) e – oh, la la – non erano affatto per la Segre, erano a vario titolo per qualsiasi figura pubblica, di origini ebree. A confermarlo non è qualche famigerata testata sovranista ma l’Osservatorio antisemitismo della Fondazione CDEC, non sospettabile di parzialità perché la sua missione sta appunto nel controllo e nella verifica delle maligne pulsioni contro esponenti del popolo ebraico in Italia. Dopo giorni e giorni di isteria, dopo una mitopoiesi forsennata, con la stampa di regime a lanciare granate d’allarmi, una figura barbina da paraculi militanti – che fa il paio con l’altra, opportunamente ramazzata sotto il tappeto del silenzio: ad appiccare l’incendio alla libreria antifascista “La pecora elettrica” di Roma, non sono stati truci camicie nere in fez e manganello ma un tunisino irregolare, un migrante (clandestino, per la cronaca e per l’Ordine, non si può più dire, ti vengono a prendere a casa). Tutta roba che non può stupire quelle carogne malfidate dei sovranisti, intanto perché tali sono di default, e poi perché le suddette “merdacce” in senso fantozziano per giorni si sono spolmonate a chiedere su Twitter: “Ma insomma sarebbe possibile vederne anche uno solo, di questi 200 insulti quotidiani a Liliana Segre, visto che sui social lei non ci sta e peraltro ha dichiarato candidamente di non saperne niente?”. “Porco maledetto, fascista, infame, come osi dubitare, se ti troviamo ti appendiamo a testa in giù dopo averti aperto, antisemita schifoso” replicavano amorevolmente i buoni che vigilano senza tregua contro l’odio, genuinamente scandalizzati e aggrappati alle tende come Francesca Bertini antifà: gli stessi che per una vita avevano sposato tutte le cause dell’estremismo palestinese, avevano bollato Israele come stato canaglia, il sionismo come cancro del mondo (vedi alla voce: Chef Rubio, uno al quale i Protocolli dei savi di Sion fanno un soufflè). La inossidabile ottima fede a prova di spranga. Ma adesso una Liliana, benché esponente di quella borghesia ebrea milanese da sempre tenuta in sospetto a un passo dal razzismo dai socialprogressisti, era divenuta icona del censorismo politicamente corretto, dunque si poteva far finta di niente, ancora meglio, si poteva usarla, tornava comoda, troppo comoda. Risultato, scorta fulminea, anche se sarebbe da capire quanto ci sia di razzismo e quanto di esasperazione in questo lavaggio sociale del cervello: un totem e tabù, un ricatto morale vivente. Nessuno ce l’ha con la Segre, e ci mancherebbe: ma che sia vietato accorgersi che la sua sofferenza viene distorta con cinismo, per imporre le stesse cose dalle quali lei si è salvata, è dura da mandar giù; vedere la sua storia imbastardita nell’ipocrisia e nel calcolo, senza potere obiettare, è fisiologicamente fastidioso, almeno per alcuni. A questo punto il giro dei progressisti Repubblicani, idealmente capitanato da Mattarella, ha il problema di trovare specchi da scalare: già si sprecano le medesime giustificazioni a proposito della treccina ossessionata col clima: Greta “è una bambina di 16 anni (sic), è strumentalizzata” (però volevano darle il Nobel). Liliana “è una anziana di 90 anni, è strumentalizzata” (però vogliono darle il Colle). Sì, d’accordo, ma se, eventualmente, qualcuno nella pelle dello strumentalizzato ci si trovasse benone? Sia come sia, inevitabile la scorta per la Segre, perché è sempre meglio esagerare in sicurezza che in disattenzione, sta di fatto che si è avuto un curioso ribaltamento della logica: non le diamo la scorta perché è minacciata, ma è minacciata perché le diamo la scorta. E chi non la beve, chi non riesce a capire da dove arrivasse questa colata lavica di antisemitismo, maledetto in fama di kapò da rieducare con apposita commissione. Dagli apostoli dell’antisemitismo. Max Del Papa, 13 novembre 2019

Giovanni Floris a DiMartedì sulle minacce di morte: "Salvini, capisce la differenza?". Cosa non torna. Libero Quotidiano il 13 Novembre 2019. Una frase grave passata inosservata ai più. E' quella pronunciata da Giovanni Floris mentre si rivolgeva a Matteo Salvini. “Lei comprende - vero? - la differenza di valore simbolico tra le minacce rivolte ad una vittima dell’Olocausto, e quelle rivolte ad un politico?”, ha detto il conduttore di DiMartedì parlando del caso di Liliana Segre. La frase è stata ripresa dal Twitter di @nonleggerlo con toni trionfalistici (mah). Eh no caro Giovanni Floris, avremmo una obiezione. In uno stato di diritto, civile e democratico le minacce di morte sono gravi sia se si rivolgono a una "santa" conclamata che a un politico. Semplicemente, sono una cosa gravissima e inaccettabile. La legge non è uguale per tutti?  Strano, è proprio la sinistra a predicare l'uguaglianza. Strano che Floris, illuminato e politicamente corretto, pesti una popo' del genere. Matteo Salvini osservava semplicemente: "L'ennesimo proiettile che è arrivato indirizzato a Matteo Salvini non ha ricevuto mezza parola di condanna da parte di nessuno, né in politica né sui giornali. E io non vorrei che qualcuno ritenesse che la minaccia a Salvini o alla Lega vale di meno... Eh no, eh no".

Paolo Becchi contro Repubblica sul caso Liliana Segre: "La scorta per una notizia falsa?" Libero Quotidiano il 12 Novembre 2019. Tiene banco il caso Liliana Segre. Tutto nasce da quanto rilanciato lunedì da Dagospia, che metteva in discussione quanto scritto da Repubblica: "200 messaggi online di insulti al giorno". La notizia in seguito alla quale è stata assegnata la scorta alla senatrice a vita. Notizia che, però, sarebbe una fake news di Repubblica, qui vi spieghiamo il perché. Ma il quotidiano di Carlo Verdelli ha rilanciato, confermando la notizia con argomentazioni che sembrano fare acqua da tutte le parti (qui la replica di Repubblica). Dunque la palla è tornata a Dagospia, che contro-replica a Repubblica con un tweet in cui le spiegazioni del quotidiano vengono bollate come "imbarazzanti" e in cui si rimarca come il chiarimento non chiarisce, ma ammette.  A questo punto nella contesa si inserisce Paolo Becchi, che sintetizza su Twitter: "Solo per capire, senza polemica e con tutto il rispetto: noi paghiamo la scorta alla senatrice Segre perché Repubblica si è inventata una notizia falsa". Dunque, il professore ricorda come sia stata creata "una Commissione su un problema inesistente. E poi poiché hanno fatto esistere il problema è stata assegnata una scorta. La profezia che si avvera. Tutto questo grazie a notizie prive di fondamento divulgate da un giornale". Infine, l'amara considerazione di Becchi, contattato da Libero: "E non puoi neppure dirlo, perché se lo dici sei un antisemita. La trappola perfetta", conclude Paolo Becchi.

Nicolò Zuliani per termometropolitico.it l'11 novembre 2019. Liliana Segre non riceveva 200 insulti al giorno… prima. Sabato 26 ottobre, su Repubblica, a firma di Pietro Colaprico è uscito un articolo intitolato “Liliana Segre, ebrea. Ti odio” Quegli insulti quotidiani online. All’interno cita un rapporto dell’osservatorio antisemita e sostiene che la Segre riceva 200 insulti al giorno. Il rapporto esce due giorni dopo e dice una cosa diversa; i dati si riferiscono al 2018, non al 2019. Gli episodi di antisemitismo sono 197 all’anno, non 200 al giorno. “personaggi pubblici come Gad Lerner, Emanuele Fiano, Sandro Parenzo, Enrico Mentana e Liliana Segre sono spesso vittime di invettive antisemite, specie sui social”. Antisemitismo in Italia nel 2018, pg.12. Leggetelo voi e fatevi un’idea, ma non si capisce perché debba prendere solo la Segre o come 197 all’anno siano diventati 200 al giorno.

Il punto, comunque, non è questo: è il risultato. Oggi pubblicare articoli di hatebaiting è la norma. Basta pubblicare belle donne, gente ricca e/o famosa, immigrati, ebrei, perché sotto appaiano due o tre commenti ripugnanti. Sulla pagina Facebook della testata i numeri si possono tranquillamente quintuplicare. Purtroppo o per fortuna per il mio fegato, Facebook non consente la ricerca interna con le parole chiave, ma sul sito dell’osservatorio si possono consultare alcuni campioni. Il motivo per cui questo accade di più sui social e non nei siti d’informazione è da un lato la rapidità – su Facebook sei già loggato, non devi compilare campi e inserire password – e dall’altro la solidarietà della folla. Succede con qualsiasi argomento; uno legge il titolo di una notizia e non va a leggere l’articolo, bensì i commenti. Appena trova un commento che gli piace, lo replica a modo suo. Quello dopo farà lo stesso, raddoppiando il carico per attirare l’attenzione. È impossibile decidere se il proliferare di deiezioni digitali sia competenza più della DIGOS o del reparto di psichiatria, ma di sicuro sta avendo delle conseguenze concrete. La scorta è stata data a Liliana Segre e non a Gad Lerner, a Parenzo, a Mentana o Fiano; eppure la nostra Liliana nazionale non era presa più di mira di Gad Lerner. È stata insomma una decisione emotiva costruita su un articolo emotivo scritto sulla base di commenti emotivi concepiti da scimmie emotive che ora sono ancora più emotive, sono ancora più determinate nella loro crociata farneticante, che non è l’antisemitismo o il razzismo: è l’ego.

Non cambia molto, nel breve termine. Prima dell’articolo Liliana Segre non riceveva 200 insulti e non aveva bisogno di scorta, adesso è finita alla ribalta e non solo li riceve eccome, è pure diventata un bersaglio per tutti quegli animali analfabeto-psicotici che se sentono profumo di cinepresa non esitano a fare le cose più turpi e immonde col sorrisetto ebete. Si potrebbe dire che è procurato allarme, ma ripeto, non è questo il punto. Più passa il tempo, più vedo succedere questa roba, più mi convinco che la rabbia digitale trova radici nell’anonimato, non nella convinzione politica. Nel fatto che i loro autori sono persone frustrate dalla sensazione d’irrilevanza che hanno come unica valvola di sfogo un sacchettino di pietre da tirare a chi vedono come rilevante, ebrei o immigrati, destra o sinistra. Lo so che è difficile da far capire a chi crede nell’immagine e non nella sostanza, per cui un nazista appena si mette un corno in testa e le ali sulla schiena è un unicorno. Ma sotto la parvenza di politica oggi si cela il nemico più sottovalutato e che per questo sta prendendo piede: la solitudine e la mancanza di un confronto coi nostri simili. Ci fa sentire invisibili, ci aliena e alla fine ci fa finire davanti a un giudice che legge i nostri commenti e noi balbettiamo di non sapere cosa ci è preso. E per la cronaca, questo dovrebbe valere anche per chi scrive articoli senza pensare alle conseguenze che avranno sulle persone, esponendole a rischi che prima di reinterpretare a la pénis du chien un report non correvano, e forse non avevano nemmeno bisogno di una scorta.

Repubblica ha gonfiato i dati: il rapporto che inchioda i buonisti. Il rapporto parla chiaro: i dati si riferiscono al 2018, non al 2019 e gli episodi di antisemitismo sono 197 all’anno, non 200 al giorno. Roberto Vivaldelli, Lunedì, 11/11/2019, su Il Giornale. Gli insulti indirizzati alla senatrice Liliana Segre hanno animato il dibattito politico italiano nelle ultime settimane. Secondo quanto riportato nei giorni scorsi dal quotidiano La Repubblica, sarebbero più di 200 i messaggi di odio razziale che riceve ogni giorno la senatrice a vita, sopravvissuta all'Olocausto. Notizia che - giustamente - ha scosso - il mondo politico, che ha subito espresso la sua solidarietà bipartisan nei confronti della senatrice. La presidente del Senato, Elisabetta Alberti Casellati, ha sottolineato che "i messaggi carichi di odio" verso la Segre "sono un insulto alla storia e alle istituzioni di un Paese che sul rifiuto dell'antisemitismo e sul ripudio della violenza ha eretto la sua architettura democratica e ritrovato la pace, la libertà e il progresso". Il segretario del Pd Nicola Zingaretti si è detto "schifato. Non trovo termine più adatto per commentare i continui insulti che la senatrice Liliana Segre riceve ogni giorno in rete". Tutto giusto e doveroso, perché anche un solo messaggio d'odio va segnalato e deve preoccupare. Tuttavia, a qualche giorno di distanza dal report di Repubblica, emerge una notizia che sembra ridimensionare il numero degli insulti - che, a scanso di equivoci, rimangono ingiustificabili anche in numero inferiore. Come sottolineato da Nicolò Zuliani su Termometro Politico, in un'analisi ripresa anche da Dagospia, Repubblica, anticipando i dati contenuti nel rapporto dell’osservatorio ha scritto che la Segre riceveva 200 insulti al giorno. Il rapporto pubblicato due giorni dopo dice però una cosa diversa; i dati si riferiscono al 2018, non al 2019. Gli episodi di antisemitismo sono 197 all’anno, non 200 al giorno. Si parla poi in generale: "Personaggi pubblici come Gad Lerner, Emanuele Fiano, Sandro Parenzo, Enrico Mentana e Liliana Segre sono spesso vittime di invettive antisemite, specie sui social" e non di Liliana Segre in particolare. Come sottolinea Termometro Politico, "prima dell’articolo Liliana Segre non riceveva 200 insulti e non aveva bisogno di scorta, adesso è finita alla ribalta e non solo li riceve eccome, è pure diventata un bersaglio per tutti quegli animali analfabeto-psicotici che se sentono profumo di cinepresa non esitano a fare le cose più turpi e immonde col sorrisetto ebete". Una vergogna, per un Paese civile. La senatrice a vita dallo scorso 7 novembre, infatti, ha la scorta. I carabinieri del comando provinciale di Milano garantiranno la propria presenza al fianco della senatrice a vita a ogni evento pubblico. La misura di protezione - che già da tempo era sotto esame - è stata disposta la scorsa settimana dal Comitato per la sicurezza e l'ordine pubblico presieduto dal prefetto Renato Saccone e al cui tavolo erano presenti anche i vertici cittadini delle forze dell'ordine. Il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese ha inserito il provvedimento di tutela nelle priorità. La decisione è stata presa in seguito sia all'escalation di commenti offensivi e insulti apparsi recentemente sui social nei suoi confronti sia all'intensificazione degli impegni pubblici che la vedono protagonista. Commenti che - paradossalmente - sono aumentati in maniera esponenziale con l'esplosione mediatica del caso.

Francesco Borgonovo per “la Verità” 13 novembre 2019. Quando una fake news proviene da sinistra, a nessuno interessa smentirla e combatterla. La si può tranquillamente ignorare, anzi si continua a sostenerla in modo che possa meglio svolgere la sua funzione politica. L' esempio perfetto è il caso Segre. I «200 insulti» al giorno di cui ha scritto Repubblica giorni fa non ci sono. Il rapporto dell' Osservatorio antisemitismo citato da Piero Colaprico sul giornale progressista il 26 ottobre parla di 197 episodi antisemiti in un anno (il 2018) e non tutti rivolti contro la senatrice a vita. Ieri, per fare chiarezza sui numeri, abbiamo chiamato l' Osservatorio, e con qualche titubanza chi ha curato il rapporto ci ha fatto capire che, in effetti, il dato di 200 attacchi quotidiani non emerge da nessuna parte. «Noi raccogliamo le segnalazioni che ci arrivano dal nostro gruppo di osservatori, poi quello che esce sui giornali», ci ha spiegato Stefano Gatti. «Contiamo come episodio di antisemitismo il commento del singolo Mario Rossi ma anche i forum in cui appaiono centinaia di commenti antisemiti». Del resto districarsi fra le mangrovie della Rete non è semplice. «Di commenti di odio ce ne sono tantissimi, non solo contro la Segre», continua il ricercatore. «Anche Giorgia Meloni ne riceve tantissimi». Così come ne ricevono personalità quali Emanuele Fiano, Gad Lerner e altri.

Resta un nodo da sciogliere: i famosi «200 commenti al giorno» da dove escono? Non si sa. «Forse Repubblica ha ripreso la segnalazione riguardante un articolo del Fatto uscito qualche giorno prima», ipotizzano dall' Osservatorio. In effetti, il Fatto ha pubblicato su Twitter, il 25 ottobre, un pezzo intitolato «Razzismo, la proposta di Liliana Segre: commissione contro odio. Serve lottare contro fascistizzazione del senso comune» . Sotto al post del giornale ci sono parecchi commenti astiosi. Quelli davvero antisemiti, però, sono pochi. I più attaccano l' idea di una commissione contro razzismo e fascismo, non se la prendono con la Segre in quanto ebrea (per fortuna). Ieri, sull' argomento, si è espresso ufficialmente anche il Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec). Nel lungo comunicato si spiega che la relazione dell' Osservatorio «segnala il numero di 197 episodi di antisemitismo che in qualche forma sono stati resi pubblici. Questo numero non ha alcuna relazione con il numero di commenti o espressioni di antisemitismo in rete, che è molto maggiore». E ancora: «L' Osservatorio antisemitismo non è in grado di assegnare numeri ad ogni singolo commento antisemita che si legge in rete. Tuttavia avendo censito -come fa Voxdiritti - 300 siti antisemiti e oltre 200 profili Facebook espressamente antisemiti, è evidente agli osservatori che i numeri con cui si trova a fare i conti la società italiana sono di grande rilevanza». Infine, la fondazione Cdec precisa che «i dati sulla presenza dell' antisemitismo (non solo online) nella società italiana sono allarmanti e non da ora» e «ribadisce la scientificità dei dati raccolti ed è pronta a intraprendere azioni legali contro qualunque azione che possa recare pregiudizio alla fondazione stessa». Di nuovo, non c' è nessun dato che confermi i «200 insulti al giorno». Intendiamoci: il punto non è dimostrare che l' antisemitismo non esista né che non ci sia odio in Rete. Sarebbe grave anche un solo commento antisemita. Il punto è il modo in cui la fake news dei 200 insulti è stata utilizzata. Si è fatta passare l' idea che ogni mattina la povera senatrice fosse tempestata di minacce. In realtà, come ha dichiarato lei stessa, non si era accorta di nulla, anche perché non ha profili social. Tutto ciò ha conferito un carattere di estrema urgenza all' approvazione della commissione Segre, impedendo una serena riflessione sui contenuti, che sono decisamente criticabili. Così si è creato il caso, e si è potuto dare addosso alla destra «che difende i nazisti del Web». Solo che a scrivere insulti contro gli ebrei - come specifica la stessa relazione dell' Osservatorio antisemitismo - non sono solo estremisti di destra, ma pure di sinistra. Altro odio proviene genericamente dai «complottisti» e dai musulmani. Per giunta individuare gli insulti in arrivo dall' universo islamico è difficile, a causa della barriera linguistica. Tuttavia questo odio non interessa a nessuno. Conta solo quello proveniente da destra, perché lo si può sfruttare come arma politica. La conferma l' ha offerta Repubblica ieri. Sulla fake news dei 200 insulti non ha scritto mezza riga. In compenso, sulla prima pagina, appariva un robusto editoriale in cui Gad Lerner se la prendeva con un esponente di Fratelli d' Italia che avrebbe «schedato gli stranieri in nome dell' odio». Occhiello del pezzo: «Nazismo quotidiano». Curioso davvero. Repubblica attacca con rabbia l' iniziativa di Fdi e parla di nazismo, però ha difeso il simpatico Chef Rubio, quello che definisce gli israeliani «esseri abominevoli». Nel pomeriggio di ieri, alla fine, Piero Colaprico ha dovuto pubblicare su Repubblica.it un articolo di spiegazione. Titolo: «Repubblica «conferma i dati».

«Dunque facciamo chiarezza», ha scritto Colaprico. «I 197 episodi di antisemitismo resi pubblici non hanno nulla a che vedere con quanto accade sul Web, e dipendono da segnalazioni varie di singoli fatti, che vanno dallo sputo alla scritta sul muro. I nostri dati si riferiscono appunto ai messaggi d' odio sui social network: 200 al giorno sono quelli verificati, e anzi potrebbero essere molti di più». Ma verificati da chi, e come? Non si sa. Se Twitter ha contato oltre 15.000 insulti nel 2019, significa che sono circa 50 al giorno e non tutti contro la Segre. Invece Colaprico, nell' articolo del 26 ottobre, ha scritto chiaramente: «Di messaggi come quelli qui riportati contro Liliana Segre, superstite dell' Olocausto, testimone del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, ogni giorno ne partono duecento. Ogni giorno si registrano attacchi politici e religiosi, insulti, maldicenze contro una donna di 89 anni, sempre moderata nel linguaggio, testimone dell' orrore, ancora adesso incapace di "sopportare" i fotogrammi di alcuni documentari di guerra». Di più. Il celebre giornalista ha spiegato che «l' Osservatorio antisemitismo è stato costretto a realizzare un rapporto sugli attacchi e Repubblica ha potuto leggerlo». Ma, appunto, nel rapporto quei 200 messaggi al giorno non ci sono. Colaprico ha fatto un conto spannometrico e lo ha attribuito all' Osservatorio antisemitismo. In questo modo ha scatenato il putiferio che ha fatto alzare l' allarme, orientando il dibattito sulla commissione Segre. Se davvero avessero voluto aprire una seria riflessione sull' antisemitismo - che esiste - gli amici progressisti avrebbero potuto limitarsi a dire la verità. Avrebbero potuto e dovuto citare anche il diffuso antisemitismo rosso e quello (molto pericoloso) di impronta islamica. Ma l' unica cosa che volevano fare era attaccare i sovranisti e ribadire, come ha fatto Roberto Saviano, che se partono 200 insulti al giorno contro la Segre è colpa di Giorgia Meloni e Matteo Salvini (i quali sono a loro volta bersagliati da attacchi feroci). Ora cercano di giocare con i numeri per mascherare la figuraccia. E hanno pure la faccia tosta di darci dei «negazionisti». Sapete che cosa hanno ottenuto? Hanno banalizzato un problema serio, strumentalizzandolo. E hanno scatenato una nuova ondata di attacchi, alimentando il clima di tensione. Ma ancora si sentono in diritto di dare lezioni di giornalismo e di vita.

Le bugie sull'onda antisemita che non esiste. Giornali ed opinionisti ci avevano raccontato, a proposito della scorta a Liliana Segre, che in Italia ci sono 200 episodi di antisemitismo al giorno. Dal rapporto però si scopre che sono 200 l'anno. Panorama 13 novembre 2019. Da quando settimana scorsa è stata concessa la scorta a Liliana Segre alcuni giornali (i soliti), opinionisti (i soliti pure quelli) e diversi programmi tv ci hanno raccontato di un Italia invasa da un'ondata antisemita a dir poco preoccupante. Un'ondata, hanno scritto e detto, che porta a raccogliere 200 episodi al giorno di insulti, attacchi, offese. Certo. Anche solo una di queste frasi non è tollerabile, anzi. Si tratta di parole inaccettabili, vergognose. E questo è fuori discussione. Quello che però è altrettanto assurdo è montare un caso nazionale dove caso non esiste. Perché quanto ci hanno raccontato, almeno nei numeri (cioè nei fatti), è semplicemente falso. Una bugia grossa come una casa. Le analisi e gli articoli prendevano spunto dall'ultimo rapporto redatto dall'Osservatorio Antisemita, la principale ed autorevole organizzazione in Italia che appunto si occupa di questi attacchi raccogliendoli, catalogandoli, analizzandoli. Bene. Nel rapporto presentato scrivono che gli episodi sono stati 197 ma non al giorno: all'anno. Aggiungono anche che la tendenza è in crescita e che quest'anno, il 2019, supererà quota 200. Lo ripetiamo: all'anno. Si può definire allarme una cosa che in un paese di 60 milioni di persone (50 milioni di adulti) raccoglie in tutto 200 episodi? No, assolutamente no. Ma a qualcuno per ovvi motivi (politici) fa gioco farlo credere. certo. Potremmo anche pensare che il primo a lanciare l'allarme con un bell'articolo si sia sbagliato inavvertitamente confondendo giorno con anno. Ma, chissà perché, propendiamo per una cosa voluta, pensata perché ad oggi, da quelle stesse pagine dello stesso giornale non abbiamo ancora letto smentite o correzioni al proposito. Molto più comodo creare l'allarme, una bella fake news per cercare di seminare il panico contro Salvini, l'odio, il centrodestra, il ritorno dei fascisti (altra bugia dato che ad ogni elezione non arrivano all'1%). Ogni giorno sul web ci sono centinaia di italiani che cercano droga, armi, contenuti pedopornografici. E nessuno parla di allarme nazionale. Quindi, per cortesia, smettiamola di prendere in giro la gente. Che tanto, stupida non è e sa benissimo leggere gli studi, le parole e soprattutto i numeri. Che non mentono. Mai. 

Segre, la gaffe di Repubblica. Fa aumentare gli insulti on line alla senatrice a vita. Libero Quotidiano l'11 Novembre 2019. Liliana Segre non riceveva 200 insulti al giorno, ma dopo la pubblicazione dell'articolo di Repubblica, sabato 26 ottobre, ha visto aumentare esponenzialmente gli insulti razzisti. Lo ha scoperto  Nicolò Zuliani con un articolo pubblicato sul sito Il termometro politico. L'articolo, a firma di Pietro Colaprico, citava un rapporto dell’osservatorio antisemita sostenendo che la Segre era investita di 200 insulti al giorno. Il rapporto, uscito due giorni dopo l'articolo, invece riportava una cosa diversa: i dati si riferivano al 2018, non al 2019. Gli episodi di antisemitismo sono 197 all’anno e non 200 al giorno. La scorta, scrive Nicolò Zuliani, è stata data a Liliana Segre e non a Gad Lerner, a Parenzo, a Mentana o Fiano; eppure la senatrice a vita non era presa più di mira di Gad Lerner. È stata, conclude termometropolitico.it, una decisione emotiva costruita su un articolo emotivo. Insomma prima del pezzo di Repubblica la senatrice a vita non riceveva 200 insulti e non aveva bisogno di scorta, adesso è finita alla ribalta e non solo li riceve eccome, è pure diventata un bersaglio, conclude Zuliani. 

Maria Giovanna Maglie contro Anzaldi: "Lo dite voi alla Segre che Rubio insulta gli sionisti e va in Rai?" Libero Quotidiano l'11 Novembre 2019. Chef Rubio è stato messo alla porta da Discovery. Il suo Camionisti in trattoria infatti non andrà più in onda, generando l'indignazione di Michele Anzaldi. Il deputato di Italia Viva ha così deciso di prodigarsi a trovare un'altra occupazione per il cuoco più factotum della televisione. L'uomo che non solo cucina, ma insulta e parla anche di politica. "Chef Rubio lascia Discovery: la Rai avrà il coraggio di proporgli un programma - si appella su Twitter Anzaldi, nonché segretario della commissione di Vigilanza Rai - magari che parli di ultimi e periferie e sappia interessare i giovani? Oppure ci sarà un pregiudizio politico per le sue idee? In questa Rai vengono ingaggiati solo biografi e supporter di Salvini?". Ma la sollecitazione a viale Mazzini non ha trovato sostegno in Maria Giovanna Maglie. La giornalista ricorda ad Anzaldi e compagnia bella quanto dichiarato da Rubio sui suoi profili social: "Il deputato di Italia Viva pazzo di Rubio, dice che parla agli ultimi e interessa ai giovani, lo vuole in Rai. Certo, quando Rubio dice che Israele è uno Stato nazista, i sionisti un cancro, è un vero Maestro. Lo dite voi a Liliana Segre?". Una dichiarazione, quella della Maglie, che suona come un "da che pulpito viene la predica". D'altronde la proposta della superstite all'Olocausto (una commissione contro l'odio e il razzismo) aveva dato il via a slogan sinistri contro il trio Lega-Forza Italia-Fratelli d'Italia, "colpevoli" di non aver appoggiato il disegno di legge. 

David Puente per open.online il 13 novembre 2019. Due sono stati gli articoli di Repubblica in risposta alle critiche sui presunti 200 insulti al giorno nei confronti della senatrice Liliana Segre. In entrambi i pezzi – il secondo è il comunicato del CDEC – non è stata fornita una prova che gli insulti a lei rivolti siano stati pari a quel numero, prova che non viene fornita nemmeno dall’Osservatorio antisemitismo. Nell’articolo di risposta da parte di Repubblica si sostiene che i «200 al giorno sono quelli verificati» e che «potrebbero essere molti di più». Poi scrive: Dunque facciamo chiarezza: i 197 episodi di antisemitismo resi pubblici non hanno nulla a che vedere con quanto accade sul web, e dipendono da segnalazioni varie di singoli fatti, che vanno dallo sputo alla scritta sul muro. No! Non è assolutamente vero perché nella relazione dell’Osservatorio il dato dei 197 episodi verificati nel 2018 comprendono ben 133 episodi di antisemitismo nel web. Ecco i grafici: Repubblica ritiene che «200 al giorno sono quelli verificati, e anzi potrebbero essere molti di più» e sostiene che il dato sia confermato dal CDEC: È lo stesso Centro di Documentazione Ebraica Contemparanea in un comunicato a confermare: “Questo numero [197 episodi l’anno, ndr] non ha alcuna relazione con il numero di commenti o espressioni di antisemitismo in rete, che è molto maggiore. L’Osservatorio antisemitismo”, precisa il Cdec, “non è in grado di assegnare numeri ad ogni singolo commento antisemita che si legge in rete. Tuttavia avendo censito come fa Voxdiritti 300 siti antisemiti e oltre 200 profili Facebook espressamente antisemiti è evidente agli osservatori che i numeri con cui si trova a fare i conti la società italiana sono di grande rilevanza. La Fondazione Cdec”, conclude il comunicato, “ribadisce la scientificità dei dati raccolti ed è pronta a intraprendere azioni legali contro qualunque azione che possa recare pregiudizio alla Fondazione stessa”. Il comunicato del CDEC conferma solo che il dato dei 197 riguarda gli episodi e che questi non hanno alcuna relazione con il numero dei commenti, come spiegato da Open. Non conferma, però, il numero associato degli insulti giornalieri nei confronti di Liliana Segre: Nelle ultime settimane, in relazione alla figura della Senatrice Liliana Segre, i dati messi a disposizione dall’Osservatorio sono stati utilizzati in numerose inchieste giornalistiche in Italia e all’estero. L’Osservatorio non intende in alcun modo essere parte di polemiche giornalistiche o politiche. Alla parole «numerose inchieste giornalistiche in Italia e all’estero» Repubblica linka l’articolo del 25 ottobre 2019, ma i dati del secondo rapporto dedicato alla senatrice, che Open ha richiesto e ricevuto dall’Osservatorio, non riporta da nessuna parte un riferimento a «200 insulti al giorno» nei suoi confronti. Da nessuna parte Open ha smentito il problema antisemitismo nel web, citando propriamente lo studio di Vox Diritti pubblicato pubblicato il 12 ottobre 2019. Il problema è che riportare quel dato dei «200 insulti al giorno» senza una prova concreta non fa bene al dibattito e rischia di far male a chi vigila su un fenomeno che va assolutamente contrastato.

Liliana Segre al Quirinale? La senatrice smonta Annunziata, Repubblica e sinistra: "Perché no". Libero Quotidiano il 14 Novembre 2019. I deliri della sinistra smontati da chi viene eletto a simbolo di quegli stessi deliri. La vicenda è la candidatura avanzata in primis da Lucia Annunziata e quindi accolta di buon grado da Repubblica di Liliana Segre come presidente della Repubblica per il dopo-Sergio Mattarella. Senza nulla - nulla - togliere alla senatrice a vita, l'idea è apparsa un poco balzana sin dal principio: sia per ragioni anagrafiche, che argomentavamo qui, sia per il fatto che la Segre, sopravvissuta all'Olocausto, non sembra avere le competenze politiche necessarie per un ruolo del genere, politico se ve ne è uno. Ma tant'è, da sinistra le adesioni si sono moltiplicate di minuto in minuto. Fino a quando la Segre stessa ha voluto fermare questa spirale, con un comunicato stampa in cui chiude la porta, con garbo, adducendo come ragioni proprio quelle che avevano avanzato coloro i quali si erano permessi di dissentire dall'ipotesi di vederla al Colle nel 2022. "Ringrazio le persone che hanno proposto la mia candidatura al Quirinale ma, ovviamente, per motivi sia anagrafici che di competenza specifica tale candidatura va considerata improponibile - ha premesso -. C’è un presidente in carica che sta svolgendo il suo compito di garanzia costituzionale con rigore ed efficacia e che gode di grande popolarità e prestigio in Italia e all'estero", conclude Liliana Segre. Niente da aggiungere.

T.M. per “Libero quotidiano” il 15 novembre 2019. Non se ne parla. Liliana Segre non ci pensa proprio ad "accettare" la candidatura per il Quirinale. «Improponibile», ha fatto sapere ieri sera la senatrice a vita - che attualmente siede nel gruppo Misto di Palazzo Madama - con una nota. A lanciare il nome di Segre per il Colle - sul quale dal 2022 siederà il successore di Sergio Mattarella, eletto il 3 febbraio 2015 - era stata Lucia Annunziata sull' Huffington Post. La giornalista aveva proposto il nome della senatrice a vita - da giorni sotto i riflettori, prima per il varo della Commissione parlamentare sull' odio e l' intolleranza; poi per l' assegnazione della scorta dopo le minacce ricevute - nel corso di un seminario a Milano. «Vogliamo far partire da qui, da questo convegno, la proposta di candidare Liliana Segre - superstite dell' Olocausto - alla presidenza della Repubblica, per togliere il Quirinale dalla partigianeria della politica», aveva detto Annunziata. Idea subito accolta dal direttore di Repubblica, Carlo Verdelli: «Sottoscriviamo all' inizio di questa giornata una proposta alta e nobile. L' idea di Lucia Annunziata e dell' Huffington Post di candidare Segre significa candidare un simbolo che racconta un' altra visione dell' Italia. La notizia della scorta data a Segre, in seguito a minacce subite, ha scosso il mondo. Ci sarà una commissione anti-odio e speriamo che Segre, che ha sempre predicato la pace, resista alle pressioni che sta subendo. So che è turbata». Ma ieri la senatrice a vita si è tirata fuori dalla contesa, sulla quale peraltro i partiti della maggioranza giallorossa hanno già iniziato a fare un pensierino. «Ringrazio le persone che hanno proposto la mia candidatura al Quirinale ma, ovviamente, per motivi sia anagrafici che di competenza specifica tale candidatura va considerata improponibile». Parole che non ammettono retropensieri. Del resto subito dopo Segre tesse le lodi di Mattarella, il capo dello Stato che l' ha nominata a Palazzo Madama il 19 gennaio 2018. «C' è un presidente in carica che sta svolgendo il suo compito di garanzia costituzionale con rigore ed efficacia e che gode di grande popolarità e prestigio in Italia e all' estero». Insomma, chi già pregustava la chiusura della gara per il Quirinale del 2022, dovrà cercare un altro nome.

Daniela Ranieri per “il Fatto quotidiano” il 15 novembre 2019. Della sinistra intellettuale, o di quel che ne rimane, si sottolineano spesso i difetti in termini di "distanza dal popolo", elitarismo, supponenza e complesso di superiorità. Ma non si parla quasi mai della sua tendenza a cadere vittima di vere e proprie ossessioni mistico-religiose per incolpevoli persone trasformate in totem. La cosiddetta e più spesso sedicente intellighenzia possiede un Pantheon che aggiorna quotidianamente con personaggi mediatici per qualche motivo stimabili, autori di gesti lodevoli o portatori di biografie rispettabili, acconciate a icone del Bene, depositari di Verità rivelate, messaggeri di Valori assoluti. È il caso di Carola Rackete, una capitana e marinaia trasformata in intellettuale organica, interpellata ormai su questioni politiche, sociali, artistiche, come se guidare una nave della Sea Watch desse anche la patente per guidare una rivoluzione morale. Il fatto che Carola sia stata insultata da Salvini e dagli sgherri dei social ne ha fatto automaticamente una Santa laica. Più preoccupante è il caso di Greta Thunberg, giovanissima attivista per il clima proposta via social per il Nobel per la Pace, trattata dai media come una profetessa, paragonata a Giovanna D' Arco (quindi vergine contadina già lambita dalle fiamme del rogo), dotata di una particolare Scienza infusa che non passa per la scuola, che non frequenta più (secondo testimoni sarebbe persino in grado di vedere le particelle di CO2 a occhio nudo). Un tale culto irrazionale porta con sé naturalmente il suo contrario: Greta, adorata dal pubblico raffinato come l' oracolo infallibile che sfida i Grandi della Terra (ben felici di ospitarla, peraltro), è presa a bersaglio dagli odiatori con una violenza uguale e contraria alla devozione dei tifosi; la sua piccola persona scatena gli istinti di chi sfoga la sua frustrazione su figure portate in trionfo dai "privilegiati" ecologisti (è un meccanismo di psicologia sociale di brutale semplicità). In un caso così magnetizzato, chiunque contesti la santità e la natura sapienziale di Greta viene messo tra gli odiatori tout court e tra i negazionisti del cambiamento climatico. A proposito di odiatori e della tensione che si genera tra devozione e avversione, la ribalta mediatica di questi giorni è occupata dal cosiddetto "caso Segre", che invece è un caso di insulti online contro una senatrice a vita. Liliana Segre, ebrea sopravvissuta al campo di sterminio di Auschwitz, è oggetto di un certo numero di commenti antisemiti: secondo Repubblica 200 al giorno, non uno di meno; secondo l' Osservatorio Antisemitismo e alcuni debunker (rivelatori di bufale), molti di meno; ma questo non importa. Quel che interessa è che il caso-insulti si è evoluto per superfetazione in un tema mediatico capace di mobilitare fazioni pro e contro Liliana Segre, una vittima del nazismo, finita sotto scorta proprio in concomitanza col montare di questo caso. Se è un segno della follia generale ingrassata dal web che i negazionisti della Shoah rivendichino il diritto di parola, è irragionevole che chiunque non si riconosca in quella nociva follia sia chiamato ad arruolarsi nelle Forze del Bene che issano la figura di Segre tra le icone responsabili della palingenesi morale di un popolo. Infatti su di lei, per fagocitarne l' autorevolezza, si sono subito avventati i propalatori di banalità più famosi d' Italia (Renzi su Twitter: "Chi attacca Liliana Segre non sta attaccando una donna, una sopravvissuta all' Olocausto, un simbolo, una senatrice a vita. No! Chi attacca Liliana Segre sta attaccando se stesso: perché noi siamo tutti Liliana Segre") e si è rovesciata un' oscena strumentalizzazione, con Salvini che si è permesso di paragonarsi a lei per gli insulti che riceve e di dire in un talk-show: "Segre porta sulla pelle gli orrori del nazismo e del comunismo". Proporre Segre come Presidente della Repubblica, come fanno i direttori di Huffington Post e Repubblica, sembra più una reazione emotiva e passeggera che un' azione ragionata. Come se la Presidenza della Repubblica fosse un' onorificenza concessa come risarcimento a chi subisce offese razziste sui social, e non un preciso ruolo istituzionale ricoperto per meriti politici, oltre che biografici e morali. A scanso di equivoci: non stiamo dicendo che la senatrice Segre non meriti di fare il Capo dello Stato; ma che farne una figurina, un hashtag, un volto da t-shirt contro l' odio del web, ha per effetto di esporre lei, una signora ottantanovenne perbene, ironica e intelligente che da anni testimonia l' orrore del nazifascismo, proprio alla incontrollabile ferocia da cui si cerca di difenderla. Rendere Segre un santino pop, seppure di quel pop raffinato che mischia laicismo e misticismo come piace a certa sinistra convenzionale in cerca di idoli, vuol dire depotenziarne il messaggio, che lei è sopravvissuta per raccontare, sulla base dell' insegnamento di Primo Levi.

Liliana Segre: «Io non perdono e non dimentico, ma non odio». Pubblicato venerdì, 15 novembre 2019 da Corriere.it. «Io non perdono e non dimentico, ma non odio. E la trasmissione del non odio e battersi contro l’odio è un ammaestramento utile per i ragazzi e per tutti, perché l’atmosfera dovuta all’ignoranza e all’indifferenza, che è stata la regina del mondo di allora, c’è purtroppo anche oggi». Lo ha detto la senatrice a vita Liliana Segre, parlando alla conferenza «Science for peace», organizzata all’Università Bocconi di Milano dalla Fondazione Umberto Veronesi. Liliana Segre, ripercorrendo la sua storia di deportata nel campo di concentramento, ha ricordato come si è trovata «senza parole» e «stupita» davanti al male che vedeva intorno a lei, a «quell’odio organizzato che vedevo e che poi ho combattuto sempre». Tornata a Milano una volta uscita dal lager, di fronte alle persone vicino a lei che non volevano sentir parlare di quello che aveva vissuto, ha «iniziato prestissimo, già nei primi giorni dopo il mio ritorno, a tacere - racconta - Mi ci sono voluti 45 anni per riuscire ad andare a parlare davanti agli studenti, senza mai nominare la parola odio e vendetta e fare il mio dovere di testimone». A proposito della manifestazione di solidarietà, lunedì al Memoriale della Shoah al Binario 21 della Stazione Centrale, la senatrice a vita ha commentato: «Certo che mi ha fatto piacere. Tutti quegli ombrelli colorati. Era bello». Al presidio, alla presenza dei suoi figli, hanno partecipato migliaia di persone, nonostante la pioggia. L’evento è stato organizzato a caldo dalle magliette gialle del Pd di «Bella Ciao», insieme ad Anpi e Aned, in poco più di tre giorni, via social network e passaparola, dopo che alla Segre è stata assegnata una scorta armata, imposta dal clima d’odio che la circonda.

"Israeliani porci assassini": De Magistris la nomina assessore. Bufera sulla scelta. Mara Carfagna di Forza Italia: "Esempio lampante dell'antisemitismo di sinistra che infanga lo Stato di Israele". Luca Sablone, Giovedì 14/11/2019, su Il Giornale. A pochi giorni dalla nascita della commissione Segre per combattere l'antisemitismo ecco che arriva uno scandalo targato sinistra: Luigi de Magistris ha nominato Eleonora De Majo assessore alla cultura del comune di Napoli. Si tratta di una decisione per la quale la comunità ebraica locale ha voluto esprimere "il proprio sconcerto e preoccupazione" perché in passato la donna si era resa protagonista di alcune assurde posizioni: "Aveva affermato che il 'sionismo è nazismo', paragonato l'allora premier israeliano Netanyahu a Hitler, definito il governo israeliano 'un manipolo di assassini' e gli israeliani 'porci, accecati dall'odio, negazionisti e traditori finanche della vostra stessa tragedia', riducendo il numero degli ebrei assassinati nella Shoah a 4 milioni".

"È un problema della sinistra". Nella nota si legge che la scelta è "estremamente discutibile" perché un assessorato di notevole importanza è stato consegnato nelle mani di chi "ha espresso giudizi tanto superficiali quanto offensivi per quegli ebrei che, sia a Napoli che in tutta la diaspora e in Israele, sono stati testimoni del più grande progetto di genocidio che mente umana abbia mai concepito". E in questo momento storico, "in cui metà degli israeliani è bloccata nei rifugi per l'attacco missilistico che da Gaza punta a colpire indiscriminatamente la popolazione civile di Israele", la nomina in questione è giudicata "un atto inopportuno e tale da non favorire il dialogo interculturale e l'impegno per la pace". Sulla questione è intervenuta Mara Carfagna, consigliere comunale di Forza Italia a Napoli: "De Magistris ha toccato il fondo e lo ha fatto con l’unico scopo di salvare la sua poltrona attraverso l’ennesimo rimpasto di giunta". La vicepresidente della Camera ha concluso sottolineando che siamo di fronte a "un esempio lampante di quell’antisemitismo di sinistra che copre di insulti la brigata ebraica alla commemorazione del 25 aprile e non perde occasione per infangare lo Stato di Israele negandone il diritto all’esistenza e alla sicurezza". Un breve commento è arrivato anche da parte di Matteo Salvini: "A Napoli è appena stata nominata assessore alla cultura una signorina dei centri sociali che ritiene che Israele sia un Paese nazista. Quindi probabilmente il problema dell'antisemitismo sta più a sinistra che altrove". Eleonora de Majo sul proprio profilo Facebook ha subito cercato di difendersi dalle accuse ricevute: "Quello che è accaduto oggi è molto grave. Un attacco mediatico squadrista, immotivato perché partito da un post che pubblicai nel lontano 2015, quando non ricoprivo alcuna carica istituzionale". Il neoassessore ha concluso: "Questa campagna diffamatoria ad armi impari non la vincerete, fatevene una ragione. A testa alta e pancia a terra sono a lavoro per la città che amo".

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 17 novembre 2019. E se lo dice anche lui, vuol dire che non è affatto una campagna di disinformazione dei soliti sovranisti e militanti di estrema destra. Se lo dice Alain Finkielkraut, filosofo francese, intellettuale lucidissimo nonché ebreo (i suoi genitori furono deportati ad Auschwitz), vuol dire che ha ragione chi vede nella cosiddetta commissione Segre una minaccia alla libertà di opinione, al diritto di esprimere posizioni contrarie all' immigrazione, e dunque un pericolo per la nostra democrazia. Intervistato dal Corriere della Sera, il pensatore nota come la commissione che dovrebbe vigilare sui cosiddetti reati di odio si presti in realtà a un grosso cortocircuito: nata per stroncare ogni forma di intolleranza verbale, rischia essa stessa di essere intollerante verso chi la pensa diversamente. «Credo che l' idea di istituire quella commissione», nota Finkielkraut, «possa aver provocato un' inquietudine legittima. Con il pretesto di lottare contro il razzismo, in Europa c' è la tendenza a stigmatizzare se non addirittura criminalizzare ogni cautela sull' immigrazione». Il filosofo non nega che nel nostro continente ci sia un antisemitismo di ritorno e che esso vada contrastato con ogni mezzo. Così come esprime tutta la sua solidarietà alla senatrice Segre, definendo «atroci» e «ignobili» gli attacchi a suoi danni. Allo stesso tempo però avverte che sarebbe un errore strumentalizzare quei casi per fini che nulla hanno a che fare con la difesa degli ebrei. Magari confondendo l' antisemitismo con una lecita contrarietà all' invasione di migranti. «Sarebbe sbagliato», dichiara infatti, «usare questi episodi terribili per proibire ogni critica dell' immigrazione». E qua giunge illuminante l' esempio, da lui citato, del Patto di Marrakech, ossia l' accordo sottoscritto da molti Paesi (ma non dall' Italia) sul Global Compact, un piano globale sull' immigrazione, nato ufficialmente per renderla più sicura e ordinata, in realtà per incoraggiarla e presentarla come un evento benefico. «Il Patto di Marrakech», continua Finkielkraut, «comincia con un inno all' immigrazione, stabilendo una sorta di canone al quale i media devono conformarsi. Posso capire che in Italia qualcuno non veda di buon occhio una commissione fatta con lo stesso spirito del Patto di Marrakech». Qui la parola chiave è «conformarsi»: sia quel patto che la commissione nostrana contro l'odio, è il senso, vorrebbero uniformare le coscienze e le opinioni e adeguarle al Pensiero Unico favorevole all' invasione di migranti. Chi non accetta questa linea, rifiuta di aderire agli accordi o di votare per la commissione politically correct, e continua a ragionare con la propria testa si guadagna di diritto la patente di «odiatore». Un marchio di infamia che rischia - e questo è l' aspetto più inquietante - di avere anche conseguenze penali. Alla faccia della democrazia. Finkielkraut però non si limita a rilevare le aberrazioni di chi vorrebbe combattere il razzismo dimostrandosi in realtà "razzista" contro chi si oppone al politicamente corretto. Compie un passo in avanti e fa notare come in molte parti di Europa, non ultima la sua Francia, il vero antisemitismo sia portato avanti non dalla destra ma proprio dalla sinistra. Lo stesso fronte politico, cioè, che è invece pronto ad assecondare ogni desiderata del mondo islamico. «In questa versione», spiega lui, «l' antisemitismo non è più un volto del razzismo, ma una patologia dell' antirazzismo: per difendere i musulmani, considerati i nuovi dannati della Terra, si attaccano gli ebrei». Lo dimostrano da noi i cortei in cui militanti rossi spalleggiano volentieri gruppi filo-palestinesi e anti-sionisti, e in Francia le manifestazioni contro l' islamofobia in cui i partecipanti addirittura mostrano in maniera irrisoria le stelle gialle usate dai nazisti per marchiare gli ebrei, o casi come quello di cui è stato vittima lo stesso Finkielkraut: lo scorso febbraio dei gilet gialli, in realtà filo-islamici, hanno gridato al filosofo «Sporco sionista, torna a Tel Aviv». Dove l' antisionismo era solo un pretesto per dichiarare il proprio disprezzo verso gli ebrei. Insomma, con poche pennellate verbali il filosofo francese è riuscito a mettere a nudo la coscienza ipocrita della sinistra europea: nel migliore dei casi, essa è intollerante e nega la possibilità di contrapporsi al suo pensiero; nel peggiore, sta addirittura dalla parte degli odiatori per eccellenza, gli estremisti musulmani. Con il paradosso di voler combattere l' antisemitismo appoggiando la causa dei nazi-islamisti.

Daniel Mosseri per “Libero Quotidiano” il 27 novembre 2019. «Il modo in cui la leadership del Labour ha affrontato il razzismo anti-ebraico è incompatibile con i valori britannici di cui siamo così orgogliosi, ossia dignità e rispetto per tutte le persone». A due settimane dalle elezioni anticipate in Gran Bretagna, il rabbino capo del Regno Unito e del Commonwealth, Ephraim Mirvis, ha scritto un editoriale di fuoco al Times per porre una domanda agli elettori britannici: «Che ne sarà degli ebrei e dell' ebraismo britannico se il Labour formerà il prossimo governo?» Entrato a gamba tesa nell' agone politico in piena campagna elettorale, il religioso si è detto ben consapevole delle convenzioni secondo cui il rabbino capo deve stare lontano dalla politica dei partiti «ed è giusto che sia così». Tuttavia, ha anche scritto Mirvis, «affrontare il razzismo non è una questione strettamente politica». Nel suo editoriale, il rabbino ortodosso stila una lunga lista delle situazioni imbarazzanti in cui il partito laburista si è cacciato negli ultimi quattro anni. Da quando cioè il suo leader Jeremy Corbyn, mai citato nell' articolo, è diventato padre e padrone della formazione politica grazie all'appoggio di Momentum, ieri minoranza stalinista del partito e oggi cordata pigliatutto particolarmente insofferente con i dissenzienti. «La comunità ebraica ha assistito incredula alla sistematica cacciata di tutti quei parlamentari e funzionari che abbiano riconosciuto l' esistenza del pregiudizio antiebraico in seno al Labour», ha scritto Mirvis. Pronto alla reazione furiosa del clan di Corbyn, il rabbino ha anche messo le mani avanti: «Abbiamo imparato a caro prezzo che farsi sentire significa essere demonizzati da troll senza volto sui social media che ci accuseranno di essere in malafede». I fatti tuttavia danno ragione al religioso: se Corbyn ha più volte solidarizzato con la peggiore schiuma del terrorismo antiebraico su scala globale, difeso murales antisemiti, definito Israele uno Stato razzista, suggerito di mettere fuori legge la circoncisione maschile e di richiamare i poliziotti che oggi garantiscono la sicurezza delle scuole ebraiche in Gran Bretagna, i suoi compagni nel partito si sono a lungo opposti all' adozione della definizione di antisemitismo della International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) provocando il fuggi fuggi di deputati ebrei e simpatizzanti. «E lo hanno fatto dai banchi dell' opposizione: cosa dovremo aspettarci dal prossimo governo?», ha scritto Mirvis. Il rabbino, che ha chiesto agli inglesi di farsi un esame di coscienza prima di andare a votare il 12 dicembre, vanta fra l' altro un curriculum antirazzista invidiabile. Nato in Sudafrica, è figlio d' arte: suo padre Lionel Mirvis, era un rabbino attivo contro l' apartheid ed era solito visitare i prigionieri politici del regime a Robben Island, il carcere di massima sicurezza dov' era imprigionato anche Nelson Mandela; sua madre, Freida Katz Mirvis, era la direttrice dell' unico college per la formazione di maestre d' asilo nere in tutto il Sudafrica razzista. Diventato rabbino capo del Commenwealth nel 2013, Mirvis si è impegnato nel dialogo interreligioso. E il suo editoriale ha subito incassato il sostegno dell' arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, secondo cui le parole del rabbino capo «dovrebbero farci capire il profondo senso d' insicurezza e di paura provato da tanti ebrei britannici». Molti fra di loro si dicono pronti a lasciare il Paese se il Labour di Corbyn dovesse prevalere. I sondaggi al momento dicono il contrario. Secondo l' ultima rilevazione YouGov condotta, i Tories del premier uscente Boris Johnson dovrebbero ottenere il 42% dei voti contro il 30% dei laburisti di Corbyn mentre l' istituto Opinium per il giornale The Observer indica una differenza di 17 punti percentuali fra i due partiti a favore dei conservatori: il partito del premier Boris Johnson raccoglierebbe il 47% dei voti (+3 punti), fagocitando i voti dei no Brexit di Nigel Farage, in calo vertiginoso, contro il 28 (invariato) dei Laburisti e il 12% dei LibDem. Stessa tendenza nell' inchiesta BMG per The Independent che vede il Partito conservatore al 41%, il Labour al 28%, i LibDem di Jo Swinson al 18%. Labour, Libdem e Verdi insieme si attesterebbero poco al di sotto del 50 per cento.

Alain Finkielkraut: «L’antisemitismo non è affatto morto  (ce ne sono due)». Pubblicato venerdì, 15 novembre 2019 da Corriere.it. «Se il leader laburista Jeremy Corbyn vincesse le elezioni nel Regno Unito, sarebbe la prima volta dopo Hitler che in Europa arriva al governo un uomo politico anti-ebrei».

Corbyn nega di essere antisemita.

«Ma si è spinto molto lontano nel sostegno alle tesi degli islamisti. E il suo partito è infestato dall’antisemitismo. Mi fa ripensare alla frase di Jacques Julliard, secondo il quale oggi ormai si riconosce un uomo di destra dal fatto che difende gli ebrei, e uno di sinistra perché sta con gli islamisti. È un capovolgimento inaudito, ma siamo a questo: c’è una sinistra oggi che per ragioni elettorali ha scelto il partito dell’Islam politico».

Secondo Alain Finkielkraut due antisemitismi percorrono oggi l’Europa: quello che affonda le radici nella tradizione dell’estrema destra europea, presente per esempio in Italia o in Polonia, e quello di sinistra, in Francia o in Gran Bretagna. «In questa seconda versione l’antisemitismo non è più un volto del razzismo, ma una patologia dell’antirazzismo: per difendere i musulmani, considerati i nuovi dannati della Terra, si attaccano gli ebrei».

Nel caso invece delle minacce alla senatrice Liliana Segre, il clima politico nazionalista del «prima gli italiani» può averle favorite? In Italia c’è chi torna a distinguere tra veri italiani e persone che «non lo saranno mai»: per esempio il calciatore Balotelli perché nero, o la senatrice Segre perché ebrea.

«Questo è l’altro tipo di antisemitismo. È atroce attaccare una donna irreprensibile, sopravvissuta all’Olocausto. Questo significa che la nostra vigilanza deve esercitarsi su due fronti: contro l’avanzata di un antisemitismo legato all’immigrazione islamica, e contro un antisemitismo europeo che mostra in Italia di non essere morto. Sarebbe però sbagliato usare questi episodi terribili per proibire ogni critica dell’immigrazione».

Si riferisce alla commissione Segre?

«Sì, penso che l’idea di istituire quella commissione possa avere provocato un’inquietudine legittima. Con il pretesto di lottare contro il razzismo, in Europa c’è la tendenza a stigmatizzare se non addirittura criminalizzare ogni cautela sull’immigrazione. Il Patto di Marrakech, firmato un anno fa da decine di Paesi (ma non dall’Italia, ndr), comincia con un inno all’immigrazione, stabilendo una sorta di canone al quale i media devono conformarsi. Posso capire che in Italia qualcuno non veda di buon occhio una commissione fatta con lo stesso spirito del Patto di Marrakech. Questo ovviamente non legittima gli ignobili insulti a Liliana Segre».

Nel febbraio scorso lei è stato aggredito per strada a Parigi durante una manifestazione dei gilet gialli.

«Sono stato vittima del primo tipo di antisemitismo, quello di estrema sinistra, importato dal Maghreb. Mi hanno urlato “sporco sionista, torna a Tel Aviv”, e altri insulti. In quel caso l’antisionismo è la foglia di fico dell’antisemitismo».

Domenica a Parigi c’è stato un corteo contro l’islamofobia.

«Durante il quale si sono viste le stelle gialle, già usate dai nazisti sugli ebrei destinati allo sterminio, appuntate sulle giacche dei musulmani. Al corteo ha partecipato la sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon, con uno spaventoso cocktail tra idealismo compassionevole e cinico realismo elettorale: gli ebrei in Francia sono 700 mila, i musulmani 6 milioni».

Saverio Capobianco per davidemaggio.it  il 15 novembre 2019. Paolo Del Debbio fa chiarezza. In apertura della puntata di ieri sera di Dritto e Rovescio, il conduttore si sfoga dopo le polemiche sorte a seguito di un episodio avvenuto nella sua trasmissione la settimana precedente, ovvero la rissa sfiorata tra il vignettista Vauro e l’estremista di destra Brasile. “Io di solito non parlo di fatti personali, ma questa settimana è accaduto l’inverosimile per cui devo dei chiarimenti al mio pubblico e soprattutto a chi segue tutti i social, lì si è scatenata una furia di imbecilli che è difficile da contenere nello stadio di San Siro”. Così esordisce Del Debbio che – dopo aver ricostruito il fattaccio – decide di rispondere a chi durante la settimana l’ha pesantemente attaccato. L’episodio in questione, infatti, aveva scatenato reazioni politiche, tra cui quella di Debora Serracchiani del PD, che aveva invitato le sue colleghe di partito a “disertare queste trasmissioni televisive che incitano all’odio e alla violenza.”. Ecco la riposta del giornalista di Rete4: “Una deputata del Pd ha detto alle colleghe di non venire più nella mia trasmissione perchè ‘io incito all’odio’, cioè ha fatto la listina di proscrizione che si fa nei regimi totalitari. Quello, quello e quello no. Succede o per la pelle, o per la religione. (…) E così succede per il mondo dell’informazione (…) Ma io di questo me ne frego, non mi interessa, so che ho il mio pubblico”.

Il giornalista arriva al punto, e replica con vigore alle accuse di fascismo: “Quello che però mi preme dire è la cosa che io, in qualche modo, sdoganerei il fascismo. Io sono figlio di un deportato (…) Mi ha raccontato molto, so qual è la parte sbagliata e quella giusta. (…) Certo, mio padre non era un esaltato come quelli che mi hanno attaccato (…) A me sul fascismo cari giovanotti, giovanotto, PD, non PD, non mi dovete rompere il caz*o. Io so esattamente quello che è giusto e quello che è ingiusto a proposito di quello. Dovete trovare una sola cosa che io ho detto dalla quale si possa evincere quello che dite, (…) che in qualche modo fomenti o sia apologetico nei confronti del fascismo. Non c’è, non la troverete, la inventate, me la attribuite e mi attaccate. Esattamente come fanno i regimi totalitari. Forse siete un po’ fascisti rossi. (…) In coscienza sono tranquillo, voi continuate con la vostra campagna d’odio, io continuo con le mie trasmissioni”.

I radical chic tollerati con i migranti, odiatori con Salvini. Da Chef Rubio a Roberto Saviano, da Gad Lerner a Vauro Senesi: tollerano i migranti e odiano il leader della Lega. Francesco Curridori, Sabato 16/11/2019, su Il Giornale. Cos’hanno in comune lo Chef Rubio, lo scrittore Roberto Saviano, il giornalista Gad Lerner, il vignettista Vauro, il medico Gino Strada e il fotografo Oliviero Toscani? Sì, d’accordo, sono tutti di sinistra, ma non solo. Sono tutti degli hater che disprezzano e odiano Matteo Salvini.

Le insinuazioni di Chef Rubio. Un odio così profondo che, lo scorso maggio, quando il Centro di Smistamento Postale di Roma intercetta un proiettile diretto all’allora titolare del Viminale, il cuoco e conduttore tivù Chef Rubio ne approfitta per insinuare che si tratti di una farsa.“A me ‘sta storia che ogni volta che fai figure di m… con le piazze vuote ti arriva una busta con un proiettile mi puzza. E poi facci sapere come stanno andando le indagini sui casi precedenti. Renditi più credibile”, dice lo Chef in un video riferendosi a una manifestazione che, secondo i media, non sarebbe stata affollata come di consueto. E, quando Salvini accusa un malore mentre si trova a Trieste per la commemorazione dei due poliziotti uccisi, ecco una nuova assurda insinuazione: “Ogni volta che fa una figuraccia il giorno dopo magicamente arriva qualcosa: proiettili in busta, coliche etc etc. Visto che ti fai le foto pure quando te fai le analisi del sangue per far vedere quanto sei bravo, perché non ci fai vedere il referto medico? Non vale postdatarlo". E proprio i continui messaggi di odio verso Salvini, ma anche verso le forze di polizia e lo Stato di Israele sono state fatali per Chef Rubio che, dopo aver offeso la memoria dei due agenti uccisi, è stato prima rimproverato via Twitter dal conduttore Massimo Giletti (col plauso di Salvini) e poi licenziato da Discovery Channel per l’inesorabile calo di ascolti, seguito alle innumerevoli polemiche. "Inammissibile che un ladro riesca a disarmare un agente. Le colpe di questa ennesima tragedia evitabile risiedono nei vertici di un sistema stantio, che manda a morire giovani impreparati fisicamente e psicologicamente. Io non mi sento sicuro in mano vostra", twitta Rubio attribuendo di fatto la colpa della morte dei due poliziotti a Salvini. Una vera ossessione.

Gli insulti del vignettista Vauro. Un’ossessione che negli anni ha colpito anche Vauro Senesi che ha attaccato il leader della Lega in tantissime sue vignette rappresentandolo come un fascista o in versione da migrante denutrito, ribattezzandolo ‘Matteo Scheletrini’ (anche per via degli scheletri che il leghista potrebbe avere nel suo armadio). In televisione, invece, Vauro insulta Salvini dandogli del “fascista” e del “razzista”, mentre quando scoppia il caso ‘Sea Watch’ il ministro dell’Interno diventa uno “sbruffone” e “un mascalzone”. Ma, oltre alle vignette in cui Salvini viene dipinto come il nuovo Mussolini, ce n’è una che spicca più di ogni altra: quella in cui il ‘Capitano’ viene trafitto da un colpo di pistola. In un’altra occasione, poi, il vignettista pubblica sul sito di Michele Santoro sette modi per uccidere l’ex ministro del governo gialloverde, trovando ovviamente la sponda dell’amico giornalista.“Al fine di liberarci da un ministro dell’Interno squallidamente ignorante che dovrebbe garantire la sicurezza di ogni cittadino, indipendentemente dalla sua razza e dalle idee politiche e religiose che professa, offro congrua ricompensa a un killer in grado di mettere in pratica uno dei sette modi indicati da Vauro per ucciderlo. Con la preghiera di contattarmi con la massima urgenza", scrive Santoro sul suo sito.

Per gli intellettuali di sinistra Salvini è il male assoluto. Sempre in campo giornalistico non potevano mancare gli insulti al vetriolo lanciati da Gad Lerner che non ultimamente perde occasione di presentarsi alle varie manifestazioni del Carroccio con la viva speranza d’essere insultato dai militanti leghisti.“Salvini è un gattone che ha bisogno di masticare nemici o di mettere alla gogna le persone. Io sono una piccola preda e il mio bottino risulta essere piuttosto modesto, con altri, come Fazio, si è approfittato del fatto che le cifre erano davvero elevate", disse negli scorsi mesi. Nulla rispetto a quando il giornalista, nel 2016, gli augura la morte: “Esplode bomba all’idrogeno in Corea del Nord e provoca terremoto. Peccato che Salvini e Razzi non si trovassero nella loro patria elettiva”. Per lo scrittore Roberto Saviano, invece, il leader della Lega è stato il “ministro della Malavita”, ma soprattutto era così “pericoloso” da meritare la “galera” per come trattava i migranti. Oggi, invece, deterrebbe, in tandem con Giorgia Meloni, la responsabilità degli attacchi subiti da Liliana Segre. Una sfilza di insulti che, paragonati a quelli pubblicati da Adriano Sofri nella sua rubrica sul Foglio, sembrano dei complimenti. “Senti, brutto stronzo” è il titolo del pezzo scritto dall’ex brigatista che dice in sé già tutto quel che può essere il contenuto dell’articolo, pienamente condiviso da Saviano. Per la scrittrice Michela Murgia, quella che si è inventata il “fascistometro”, il leader del Carroccio è “fannullone”, “codardo” e “disumano”. L’attrice Asia Argento, invece, è stata più diretta e spontanea e, con un tweet, ha sentenziato: “Salvini merda”.

Il cattivismo dei buonisti Gino Strada e Oliviero Toscani. Non meno delicati sono gli epiteti rifilati negli ultimi anni da Gino Strada che, quando è nato il governo giallorosso, ha esultato: "Salvini fuori dal governo è un fattore positivo per gli italiani, a prescindere dalla sua posizione anche di ministro dell’Interno. Di tutto abbiamo bisogno, fuorché di bulletti, di reazionari senza alcuna idea delle istituzioni, di gente che non ha mai lavorato, che non ha nessuna competenza, che non conosce i meccanismi democratici…". Salvini, secondo il fondatore di Emergency, è uno “sbirro”, un “bullo”, un “fascista”, un “razzista” e un “paladino dell’ignoranza”. Dello stesso tenore sono da considerarsi le affermazioni di Oliviero Toscani che, intervistato a La Zanzara poco dopo il voto delle Europee, ha detto: “Uno che ha votato Lega non capisce tanto, capisce fino ad un certo punto, non capisce il futuro. Capiranno, ma ci vuole tempo. Ancora non siamo civili". E sempre dai microfoni de La Zanzara, in seguito, ha rincarato la dose: “Salvini ha 45 anni, ma cosa ha fatto? Un cazzo. Niente, non ha nessun talento. Se non quello per rompere i coglioni. E poi la Lega non è un partito, ma diarrea". I paragoni con “Dracula”, “Hitler” o “Mussolini” si sprecano e le volgarità arrivano all’insinuazione che Salvini, possa avere “complessi da travestito”, dal momento che da ministro usava indossare le divise delle varie forze dell’ordine. Un crescendo di insulti che raggiunge il suo apice quando Toscani tuona: "Gli auguro che succeda a suo figlio di essere su una barca e non gli permettono di sbarcare può darsi che gli succeda".

Bologna, idranti contro i manifestanti del corteo contro Lega e Matteo Salvini: "Vi odiamo". Libero Quotidiano il 14 Novembre 2019. I soliti noti, "sinceri democratici". Siamo a Bologna, dove i centri sociali sono in strada per manifestare contro la sola presenza di Matteo Salvini in città, al PalaDozza la festa della Lega per lanciare la candidatura di Lucia Borzongoni, leader della coalizione di centrodestra, che il 26 gennaio proverà ad esportare la roccaforte rossa. PalaDozza blindato per le minacce di anarchici, centri sociali e compagnia cantante: attorno al palazzetto è stato allestito un presidio delle forze dell'ordine in assetto antisommossa. Il corteo ha creato problemi di ordine pubblico. Ecco i facinorosi dietro allo striscione "Bologna partigiana", in mano i cartelli che recitavano: "Lega e Pd due facce della stessa medaglia" e "Salvini al Paladozza, ingresso 5 rubli". I manifestanti hanno proseguito la propria marcia fino a via Reno, dove si sono trovati la strada sbarrata dalla polizia. A quel punto sono salite le tensioni: lanci di oggetti, pietre, insulti a Salvini e agli agenti, che hanno reagito disperdendoli con gli idranti. Epilogo scontato, per un corteo che si muoveva al grido di "Odio la Lega" e "siamo tutti antifascisti". Circa duemila i partecipanti.

Bologna assalto a Salvini: questa volta i violenti dei centri sociali vanno a processo. Andrea Pasini il 14 novembre 2019 su Il Giornale. Finalmente una bella notizia riguardo l’aggressione che Matteo Salvini subì l’8 Novembre del 2014 proprio in Emilia Romagna. Nel giorno in cui il leader della Lega lancia la candidatura di Lucia Borgonzoni alla presidenza della Regione Emilia Romagna, arriva la prima decisione del gup Alberto Gamberini di rinviare a giudizio Venti attivisti del centro sociale Hobo artefici dell’assalto a Salvini. Proprio loro quei delinquenti dei centri sociali che assaltarono l’auto di Salvini, dove era presente anche la stessa Lucia Borgonzoni . Gli attivisti sfondarono il lunotto anteriore, posteriore e finestrini laterali con caschi e fibbie usati come oggetti contundenti. E poi calci e pugni. Uno salì anche sul tetto dell’auto. Roba da matti! Un vero e proprio assalto criminale. L’aggressione avvenne al termine di una visita al campo nomadi di via Erbosa, a Bologna. A quel punto gli estremisti di sinistra assalirono l’auto del leader delle Lega. I reati contestati, a vario titolo, sono violenza privata, danneggiamento aggravato e lesioni aggravate. Il reato di ingiuria è stato depenalizzato ed è stato prescritto il possesso ingiustificato di oggetti atti ad offendere. Inoltre, in otto rispondono di lesioni aggravate per l’aggressione, avvenuta lo stesso giorno, al giornalista de Il Resto del Carlino Enrico Barbetti, che cadendo riportò la frattura di un gomito. Per l’episodio si sono costituiti parte civile la Poligrafici editoriale e il giornalista stesso. Per quanto riguarda, invece, la contestazione agli esponenti leghisti erano già stati accettati come parti civili la Lega, Matteo Salvini, Alan Fabbri e Lucia Borgonzoni. Il processo inizierà il 13 maggio 2020. Una posizione, la ventunesima, è stata stralciata per difetto di notifica. Sincerante apprendo questa notizia del rinvio a giudizio di questi delinquenti da parte del Gup molto positivamente. Il buon senso dice che chi assalta auto, sfonda lunotti, mette a ferro e fuoco una città, usa metodi violenti e poi si professa Democratico è giusto che paghi e paghi severamente anche con il carcere. Io personalmente sbatterei questa gentaglia che si permette di aggradire, picchiare e spaccare con una violenza inaudita chi non la pensa con loro in carcere e per diversi anni. Solo così probabilmente questi delinquenti capiranno che anche chi non la pensa politicamente come loro vada pestato o insultato. È proprio questa gentaglia che taccia di essere dei fasciati gli altri e poi adotta metodi violenti e criminali nei confronti degli avversari politici. Vergogna! Ho sempre affermato con decisone e ne sono sempre più convinto che i centri sociali rappresentino un serio pericolo per la sicurezza pubblica e per questo credo che debbano essere tutti chiusi al più presto. 

Il volantino shock dei bolognesi rossi: Salvini impiccato a testa in giù. Immediata la risposta del leader della Lega: "Ecco la sinistra violenta che sa solo odiare. L'unica nostra risposta è il sorriso". Luca Sablone, Venerdì 15/11/2019, su Il Giornale. Argomentazioni valide, dati fondati e statistiche? Niente di tutto ciò: gli attacchi rivolti a Matteo Salvini sono esclusivamente di carattere estremamente violento. Il recente caso riguarda una serie di volantini choc creati e distribuiti tranquillamente dalla sinistra bolognese, che ha "civilmente" pensato di ritrarre l'ex ministro dell'Interno a testa in giù con la dicitura "impiccato". La denuncia è arrivata via social da parte dello stesso leader della Lega che ha pubblicato anche le foto della vergogna, dalle quali si vede che le locandine sono state liberamente affisse per le strade della città. Pronta è stata la risposta del segretario federale del Carroccio: "Ieri a Bologna volantini dal titolo "L’'mpiccato" con la mia faccia capovolta, distribuiti dai "bravi ragazzi" della sinistra violenta, che sa solo odiare. L’unica risposta possibile è il nostro sorriso, amici".

Violenza contro Salvini. Non è la prima volta che l'ex premier subisce un attacco del genere: già ad agosto è stato reso protagonista di una vergognosa vignetta tedesca che lo ritraeva appeso a testa in giù, legato a un palo con affissa la bandiera italiana. Il tutto con al di sotto una piazza colma di persone armate di bastoni, martelli e accette. E pochi giorni prima la consigliera comunale del Movimento 5 Stelle Stefania Giovinazzo aveva evocato Piazzale Loreto: "Attento caro Ruspa, la storia ci insegna che passare dall'avere le piazze gremite di persone che applaudono a finire a testa in giù, è un attimo". Nella giornata di ieri gli antagonisti sono andati all'attacco di Salvini, costringendo la polizia a ricorrere all'utilizzo degli idranti contro lanci di bottiglie e fumogeni. Gesti di violenza che avevano l'obiettivo di zittire il leader leghista il quale però è riuscito a conquistarsi il PalaDozza, luogo simbolo storico della Bologna rossa. L'ex ministro, che rappresenta il leader politico più bersagliato dai centri sociali e dagli esponenti della maggioranza giallorossa, ha commentato la vicenda: "Pensate se qualcuno della Lega andasse a disturbare le manifestazioni altrui. Questi 'democratici' signori che odiano le Forze dell'ordine e vorrebbero vedermi appeso a testa in giù sono il peggio che l'Italia abbia da offrire".

Da leggo.it il 23 novembre 2019. La scultura choc. E che crea - invevitabilmente polemica: Salvini raffigurato mentre spara con una pistola a due immigrati-zombie.  Accade a Napoli, dove sabato 23 novembre si innaugura la mostra collettiva Virginem = Partena, curata da Biancamaria Santangelo, nella galleria Nabi Interior Design di via Chiatamone. Come riporta un articolo del Mattino a firma di Giovanni Chianelli, tra le varie sculture una salta agli occhi: Matteo Salvini armato di un'enorme pistola, che spara a due africani in versione zombie. Si chiama, citando proprio il leader leghista, La pacchia è finita! e l'ha creata Salvatore Scuotto, del gruppo della Scarabattola, tra le formazioni di maestri presepiali più creative e solite anche a messaggi forti, come donne nude, diavoli e femminielli nelle natività. Alla collettiva Scuotto partecipa in proprio, e infatti ha adottato un nome d'arte, Morales, per l'esordio di questa sua carriera da solista. Messaggi forti. Scuotto ammette che in alcuni casi «la mano è scappata. Mentre mettevo insieme il mio contributo l'ho guardato e ho detto: che cosa ho combinato? però, invece di fermarmi sono andato fino in fondo all'idea che avevo». Non rinnega quindi la forza contenuta in questa produzione ma ne spiega la metafora: «Quando ho iniziato a creare, Salvini era ancora ministro dell'Interno. Poi si è eliminato da solo. Ho voluto rappresentarlo come un bambinone che gioca a un videogame popolato da fantasmi, come si vede dai dettagli della pistola che è intenzionalmente spropositata. Dico che il suo messaggio politico è infantile, come una costante Play Station in cui bisogna individuare il nemico e abbatterlo». Nella mano l'ex ministro dell'Interno stringe il solito rosario: «Messo così diventa ridicolo: se l'arte riesce a farcelo sembrare tale allora sì che lo ha sconfitto». E quella scritta che campeggia, Game Over? «Identifica la conclusione del videogioco. Chissà cosa indica: la fine di Salvini o quella dei suoi nemici?». Inevitabile aspettarsi che già da oggi la sua opera creerà polemiche.

A Napoli scultura con Salvini che spara agli immigrati. L'ex ministro: "Istigazione all'odio". L'artista: "E' come un bambino che gioca a videogame contro i nemici". Ma è polemica: "Porcherie". La Repubblica il  23 novembre 2019. Matteo Salvini armato di pistola spara a due africani in versione zombie: è l'opera di Salvatore Scuotto che oggi sarà esposta a Napoli nella mostra collettiva 'Virginem=Partena' nella galleria Nabi Interior Design. Ma l'ex ministro replica con decisione: "Cosa non si fa - commenta l'ex ministro - per farsi un pò di pubblicità, che squallore. La "scultura" che mi raffigura mentre sparo agli immigrati è una vera schifezza, è istigazione all'odio e alla violenza, altro che arte. Non vedo l'ora di tornare a Napoli per ammirare i fantastici Presepi tradizionali, non queste porcherie". L'ex ministro ne parla anche in una diretta Facebook: "Non fa ridere una scultura con la mia faccia che spara a due immigrati, non mi fa ridere. E' istigazione all'odio e alla violenza. E' qualcosa di demenziale e criminale e poi trovi qualcuno che pensa davvero che Salvini sia così. Quindi spero che quella pseudo-opera venga ritirata". "Quando ho iniziato a creare, Salvini era ancora ministro dell'Interno - ha raccontato Scuoto al quotidiano Il Mattino - Ho voluto rappresentarlo come un bambinone che gioca ad un videogame popolato da fantasmi, come si vede dai dettagli della pistola che è intenzionalmente sproporzionata. Dico che il suo messaggio politico è infantile, come una costante Playstation in cui bisogna individuare il nemico e abbatterlo". Attaccato alla pistola c'è un messaggio, 'Game over'. "Identifica la conclusione del videogioco. Chissà cosa indica: la fine di Salvini o quella dei suoi nemici?", aggiunge. E poi Scuotto, che questa volta partecipa in proprio ma fa parte del gruppo della Scarabattola - formazione controcorrente di maestri presepiali che nella natività ha inserito anche donne nude e diavoli - precisa anche di non aver creato "questa parodia salviniana perché sono comunista". "Al massimo aspirerei ad essere anarchico, non credo alla sinistra, troppo tiepida - sottolinea - Non voglio esprimere alcuna appartenenza ma so in cosa non credo". Il deputato napoletano della Lega Gianluca Cantalamessa:  "La scultura che vorrebbe raffigurare un Matteo Salvini violento con una pistola in mano mentre spara a dei migranti non è certo arte e definirla tale significa mortificare tutta la storia artistica di Napoli e della Campania. Penso a personaggi di rilievo, De Filippo, Totò, Viviani, Vico, il cui talento ha inorgoglito la città in tutto il mondo e di cui noi italiani andiamo fieri". E aggiunge:  "Non è bastato lo show nel cuore di Napoli del matrimonio tra il neomelodico Colombo e l'ex moglie di un boss camorristico. "Ora anche presunte opere d'arte che mistificano la realtà per esaltare la cultura dell'odio. Tutto ciò - sottolinea Cantalamessa - svilisce il valore inestimabile della cultura napoletana per meri interessi di bottega di pochi, a cominciare dal peggior sindaco che Napoli abbia mai avuto. I napoletani meritano molto di più". La deputata campana della Lega Pina Castiello: "La scultura che ritrae un improbabile Matteo Salvini in versione pistolero sul punto di sparare a due migranti africani, non ha nulla a che vedere con la produzione artistica. Piuttosto essa è la plastica rappresentazione di un espediente volgare, pensato solo per bieche finalità autopromozionali. Spiace che la città di Napoli, capitale dei manufatti in terracotta che rendono famosi in tutto il mondo i presepi partenopei, debba fare i conti con le trovate di pseudo artisti che, pur di guadagnare un attimo di ribalta, non esitano a sfociare nell'istigazione all'odio e alla violenza, gettando peraltro fango su una scuola e una tradizione di grande successo. Mi auguro che la curatrice della rassegna in cui fa bella mostra questo piccolo "monumento all'odio", voglia procedere al rapido ritiro della scultura dall'esposizione. Sarebbe un gesto capace di ribadire la vocazione pacifica e tollerante della città di Napoli. Ad ogni buon conto, Matteo Salvini che, numeri alla mano, grande impegno ha profuso per Napoli e i napoletani nel corso della sua permanenza al Viminale, non mancherà di ritornare in città nel periodo natalizio. Il nostro leader è  infatti desideroso di immergersi nella inimitabile magia dei presepi, quelli si di grande pregio artistico".

Scultura Salvini, Lega all’attacco: "Rimuoverla. Non è arte ma istigazione all’odio". Esponenti della Lega di Napoli hanno chiesto la rimozione della scultura esposta nella galleria Nabi Interior Design. Salvini parla di istigazione all’odio e alla violenza. Gabriele Laganà, Domenica 24/11/2019, su Il Giornale. Continua a suscitare polemiche la scultura esposta nella galleria Nabi Interior Design di via Chiatamone a Napoli che ritrae Matteo Salvini sparare con una pistola a due immigrati in versione zombie. Attraverso un comunicato stampa firmato dal consigliere comunale della Lega Vincenzo Moretto e da diversi consiglieri municipali dello stesso partito, viene richiesta l’immediata rimozione dell’opera dal titolo “La pacchia è finita!”, frase che ricorre spesso nel linguaggio del leader leghista, realizzata da Salvatore Scuotto perché “non è arte ma istigazione a odio”. “La scultura dell'anarchico, come ama autodefinirsi Salvatore Scuotto, indubbio artista napoletano, è frutto di un odio crescente e alimentato ad arte in tutta Italia verso Matteo Salvini e i milioni di italiani che votano o voteranno il leader della Lega”, si legge nel testo dove si rimarca come la città partenopea sia “l'epicentro di questa fomentazione, la città che più di tutte, seconda solo a Genova, è stata messa a soqquadro dagli antagonisti e antidemocratici”. Nel comunicato, inoltre, si sottolinea che ciò avviene nella“città dove l'odio e l'antisemitismo si annidano nelle istituzioni”. Chiaro riferimento questo, ad Eleonora de Majo, volto noto dei centro sociale Insurgencia e neo assessore alla Cultura e al Turismo che in passato ha espresso pesanti pensieri contro Israele. “Basta, siamo stufi di sopportare i soprusi di un'amministrazione che si prende gioco della storia e della cultura napoletana. La scultura raffigurante il leader della Lega che spara su donne e bambini non è arte. E pura alterazione della narrazione storica. Un falso artistico e ideologico degno della peggiore propaganda antisistema”. Per questo, gli esponenti leghisti di Napoli chiedono “la rimozione della raffigurazione. Basta dare spazio a chi fomenta l’odio in città, seppur travestito ad arte, sarebbe complicità”. A realizzare la scultura è Salvatore Scuotto, del gruppo della Scarabattola tra le formazioni di maestri presepiali più creative e definita "controcorrente” perché solita a lanciare messaggi forti. L'artista, a Il Mattino, ha ammesso che “quando mi hanno invitato alla mostra non volevo partecipare, poi ho annunciato che avrei creato volutamente qualcosa di disturbante e la proprietaria dello spazio, Bianca Santangelo, mi ha dato massima libertà". Scuotto ha spiegato di aver dato vita a questa massa di odio quando Salvini era ancora ministro dell'Interno, "poi si è eliminato da solo. Ho voluto rappresentarlo come un bambinone che gioca a un videogame popolato da fantasmi, come si vede dai dettagli della pistola che è intenzionalmente spropositata. Dico che il suo messaggio politico è infantile, come una costante play station in cui bisogna individuare il nemico e abbatterlo". Certo, però, è che condannare odio e violenza attraverso un’opera di questo genere appare un controsenso. Ieri, era stato lo stesso S alvini a rispondere all’artista con un video messaggio su Facebook: "A me non fa ridere una scultura dove una statua con la mia faccia spara a due immigrati. Non mi fa ridere per un ca..o. È istigazione all'odio e alla violenza". Il leader della Lega, poi, ha dichiarato di voler tornare presto a Napoli, magari in prossimità delle festività di Natale, “per andare a vedere gli straordinari presepi degli straordinari artisti napoletani e non qualche schifezza di pseudo opera d'arte di qualche artista in cerca di notorietà". Per Salvini le opere d'arte possono essere irriverenti“ma mettere una pistola in mano a qualcuno non è qualcosa di irriverente, ma è demenziale e criminale. Perché poi magari trovi qualche mente poco lucida che ritiene che Salvini sia veramente pazzo, un criminale pericoloso, un razzista, un fascista, un nazista”. Un concetto ribadito da un foto pubblicata oggi nella sua pagina Facebook nella quale si vede una scritta che incita a sparare contro l’ex ministro. “Ecco i frutti dell’odio di certa sinistra... Avanti, a testa alta e senza paura”, ha commentato Salvini.

Gabriele Carrer per “la Verità” il 18 novembre 2019. Nel Regno Unito 24 intellettuali guidati da John Le Carré hanno annunciato che alle elezioni generali del 12 dicembre non voteranno per Jeremy Corbyn accusandolo di non aver voluto o saputo frenare le tendenze antisemite all'interno del suo Partito laburista. In Francia l'intervista di sabato del Corriere della Sera al filosofo Alain Finkielkraut, che ha parlato di un antisemitismo di sinistra, che «oggi per ragioni elettorali ha scelto il partito dell'islam politico», ha riacceso il dibattito. E in Italia? Ne abbiamo parlato con Ugo Volli, professore ordinario di semiotica del testo all'università di Torino ed ex presidente della sinagoga riformata Lev Chadash di Milano. Dice Volli: «Esistono, nel nostro Paese e in Europa, alcuni isolati ed esagitati neofascisti e neonazisti che fanno cose inaccettabili, dal profanare i cimiteri alla minaccia di compiere stragi. Ma sono pochissimi, residuali e poco organizzati. Folcloristici quando fanno cose un po' nostalgiche come a Predappio. Ma è evidente che non esiste un pericolo per la democrazia».

Neppure per le comunità ebraiche?

«Le comunità ebraiche in Europa sono minacciate principalmente dagli islamisti, che rappresentano una minaccia per motivi sia religiosi sia politici, con l' antisemitismo che si sovrappone all' odio per Israele. La polizia e l' esercito davanti alle sinagoghe ci difendono essenzialmente da questa minaccia.

Che cosa si nasconde dietro a questo allarme fascismo?

«Una speculazione politica da parte di forze che hanno perso capacità di attrazione, non solo in Italia ma in buona parte d' Europa. Molti di loro sono sinceramente preoccupati dai neofascisti. Ma questa paura deriva dalla scarsa comprensione di che cosa sia il fascismo. È il vecchio vizio della sinistra: gli avversari politici sono sempre tutti sbagliati, criminali, ubriachi, donnaioli, mostri e di conseguenza anche fascisti. Ma il fatto che siano sinceri non rende il tutto meno preoccupante. Da qui, il tentativo di creare allarmi sperando di allargare l' elettorato. Ma ci sono due problemi. Il primo: queste grida "al lupo, al lupo" non impressionano nessuno. Il secondo: la sinistra non sa più rispondere su questioni molto concrete come il modo di vivere e l' identità nazionale, per esempio».

È delegittimazione o anche una forma di censura?

«Alla vecchia egemonia della sinistra in Occidente corrisponde un' egemonia che continuano ad avere sulla grande stampa. Ma questa è in grave crisi negli ultimi anni. E così nasce l' idea che la sinistra non venga capita perché il popolo segue altre idee in Rete che subito vengono bollate come fake news. Da qui il tentativo di censurare, di impedire che altre idee circolino sulla Rete».

Hanno perso il controllo del mezzo e cercano di controllare il messaggio?

«C' è un recente libro di Christian Rocca intitolato Chiudete Internet (Marsilio). È solo un esempio della tendenza a pensare che sia stato un grave errore far nascere questa cosa diffusissima che è Internet per via delle cose che circolano su quel mezzo. E poiché non piacciono, vengono definiti discorsi di odio, senza qualunque criterio oggettivo. Anche perché se ci fosse un criterio oggettivo i primi discorsi di odio da proibire sarebbero quelli di Vauro, che ha appena pubblicato Sette modi per uccidere Salvini oppure di questo cuoco, Rubio, che si chiama chef».

E la Commissione Segre come si inserisce in questo contesto?

«Questa commissione, che porta un po' impropriamente il nome della senatrice Liliana Segre, va esattamente nella direzione di creare le basi per rendere possibile la censura. La senatrice è stata usata per proporre un' agenda che mi ricorda quello che Bertolt Brecht proponeva in maniera ironica nel 1953 ai comunisti della Germania Est dopo gli scioperi operai, cioè sciogliere il popolo. Oggi c' è il tentativo di non fare votare, di impedire la libertà di espressione sulla Rete e molto altro perché c' è una profonda diffidenza e un forte disprezzo nei confronti dell' elettorato. E si tratta di un' involuzione pazzesca per i partiti che si proclamano progressisti e al fianco dei più deboli».

Non la stupisce la totale assenza dal dibattito pubblico della minaccia islamista?

«Nelle perversioni mentali della sinistra c' è l' idea che, perso il mondo operaio anticapitalista che oggi vota per altri, si debbano trovare alleati contro l' Occidente. E gli islamici sono gli alleati perfetti. Che poi se la prendano in particolare con gli ebrei e con Israele va anche bene, visto che corrisponde a un profilo di antisemitismo che sta riemergendo a sinistra».

 Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 18 novembre 2019. Lucia Borgonzoni, oltre che  una testa molto ben funzionante - chiedetelo alla gente di spettacolo e cultura, quelli senza fette di prosciutto sugli occhi, che nell'anno di governo l'hanno conosciuta come sottosegretario ai beni culturali - ha un bel culo. Sono fortune elargite non democraticamente da madre natura, a volte aiutate da un po' di attività di palestra, da sane camminate. Prima del "metoo" se ne poteva parlare tranquillamente, credo che siano tempi da rimpiangere e credo anche che le pruderie neo femministe siano da combattere senza quartiere, anche perché, come pure questa vicenda sta a dimostrare, gli alti lai per la dignità offesa delle donne sono spesso messi al servizio di qualche basso proposito.  Guardo la foto incriminata nella quale Lucia Borgonzoni e Matteo Salvini si abbracciano, ripresi di profilo a figura intera e dunque, inevitabilmente, se non campeggia,  il lato b si mostra. La paragono con una foto famosa nella quale di Michelle Obama, tanto amata dai progressisti un tanto al chilo di casa nostra, solo quel lato si vede, e riconosco serenamente che vince Lucia nel confronto. Chissà se Barack Obama nell' esibire il culo  della moglie aveva gli stessi intenti certamente malevoli di Matteo Salvini o dei suoi esperti di immagine. Sono dubbi laceranti. Ciò detto, sarà il caso di rassicurare i Gramellini e i Raimo di quel mondo rancoroso e risentito che della storia del femminismo ha imparato solo a usare le donne come strumento di aggressione politica. Se il 26 gennaio il centro-destra vincerà le elezioni regionali che Gramellini evoca, non farà la valletta, farà il governatore di quella regione, e quel giorno un sistema che si è sempre ritenuto intoccabile, soprattutto dalla democrazia e dalla sua espressione più alta che e' il voto sovrano del Popolo, come sancito dalla Costituzione, sarà scardinato  a vantaggio di tutti. Quando il 27 ottobre in Umbria ha stravinto il centro-destra, demolendo un potere sempre in mano alla sinistra e rivelatosi inefficiente e corrotto, governatore dell'Umbria è diventata una donna della Lega, Donatella Tesei, che non era una rockstar, che sicuramente è stata aiutata, oltre che da se stessa, dalla campagna del centrodestra, dalla campagna della Lega, da Matteo Salvini. Ora da un mese più o meno fa il governatore, non la valletta muta. Non male per i progetti di un macho. Sapete chi ha rischiato invece alla sua veneranda età di fare la valletta muta della causa sfilacciata del progressismo a corto di idee e di programma?  La senatrice a vita Liliana Segre, per la quale è stata inventata una campagna di insulti e di odio  che non c'era – ricordate il numero, 200 l'anno e non 200 al giorno, e non solo contro di lei – un antisemitismo come sentimento nazionale in crescita e dilagante, che non esiste e di cui gli italiani non meritano di essere accusati, una super commissione della quale non si sentiva la mancanza, perché simili iniziative sono state sempre pleonastiche e soprattutto perché dietro il pretesto serissimo dell'antisemitismo da evitare in radice si nasconde malamente un progettino malevolo di eliminare qualunque libertà di espressione, di criminalizzare qualunque amore di  patria che gli italiani dovessero riscoprire. Alla fine le hanno cucito addosso anche la candidatura alla prossima presidenza della Repubblica, e sarebbero andati avanti senza pudore se Liliana Segre non avesse opposto un altolà definitivo. Non mi permetto di interpretare il suo pensiero ma mi piace credere che abbia compreso non solo che stavano strumentalizzando lei e il suo percorso di vita nel ricordo e nella testimonianza di un'infanzia violata nel più crudele dei modi, ma anche la memoria della Shoah. Massimo Gramellini, che a differenza di Matteo Salvini non dice mai nulla di inutilmente scortese sulle donne, chiama il leader della Lega, partito votato dal 34% degli italiani, un capobranco, quindi quegli italiani sono un branco per lui. Si potrebbe dedurre che è  inutilmente scortese con un sacco di gente, uomini e donne. Raimo, un altro che non è mai inutilmente scortese, soprattutto quando esercita censure e stila liste di proscrizione al salone del libro di Torino, scrive "Elettore, non importa la faccia, non importa il nome (che nel post non ti cito nemmeno), è tutta roba mia, tu al massimo guarda il culo". Invece importa la faccia, importa il nome importa soprattutto quel grande e forte abbraccio con il quale viene sancita la scelta, affermata la fiducia, garantito l'appoggio. Io la vedo così quella foto, sicuramente perché sono una faziosa, venduta, neofascista salviniana. Leggo in queste ore frasi surreali come quelle della sardina capo, Mattia Santori. Che spiega a «L’Aria che tira» perché ha organizzato l’evento in Piazza Maggiore come contro manifestazione a quella di Salvini al PalaDozza di Bologna: «L’idea è nata una notte insonne dopo aver visto tutti quei cartelloni della Lega che iniziavano ad invadere Bologna. Non è possibile che una città come la nostra accetti tutto questo". Tutto questo che? Sarà una campagna difficile, Lucia Borgonzoni sa che non la farà da sola.

Adriana Marmiroli per “la Stampa” il 14 novembre 2019. La rivincita del comprimario. Anzi del cattivo. In tempi in cui i buoni non lo sono tanto e in loro dominano grigi che spesso tendono al nero, cinema e teatro riscoprono i cattivi. Complice anche la fame di nuove storie ma non necessariamente di nuovi personaggi. La bellissima Malefica di Angelina Jolie, protagonista di ben due film, è un angelo caduto, una donna ferita e tradita in amore che si vendica in generale sull' umanità e nello specifico sulla ex protagonista Aurora, trasformata in un «evento» quasi collaterale. Il Joker giganteggia senza Batman: è uno psicopatico e agisce in modo compulsivo, cosciente di sé solo quando ormai la rivolta a lui ispirata sta bruciando la città. Presto (ri)vedremo anche Crudelia de Mon: protagonista assoluta in un nuovo «Cruella». La interpreta una ringhiosa Emma Stone che rileva il testimone della capostipite del genere, Glenn Close: e chissà che le faranno fare in Disney. Persino Mangiafuoco ruberà la scena a Pinocchio: protagonista di un nuovo spettacolo teatrale che Roberto Latini si appresta a portare in scena prima a Matera e poi al Piccolo Teatro di Milano. In realtà i cattivi sono da sempre la forza di una storia. Disney, costruttore di archetipi pop, che ha pescato a piene mani nell' immaginario della fiaba tradizionale, lo sapeva perfettamente e, pur nell' inevitabile etica dell' happy end con il bene che trionfa, ha sempre dato il giusto rilievo alla personalità dell' antagonista: migliore il cattivo, migliore la storia (e maggiore il successo). Il male - si sa - affascina. Come non approfittare allora di personaggi già scritti, ben noti e iconici? C' è da stupirsi semmai che non sia stato fatto prima, di sfruttare il cattivo, la sua personalità e storia, renderlo autonomo per costruire nuove narrazioni: i lati oscuri, la genesi, i retroscena. Malefica vittima di un uomo infido, il Joker di una madre che lo ha vessato nell' infanzia... Sono storie già quasi costruite, successi annunciati. Al villain di turno basta dare maggiore spessore e un background e il gioco è fatto. Il pericolo è la banalizzazione. Se è vero che la funzione del cattivo nella fiaba è insegnare ai bambini a combattere e vincere le avversità (la strega, il drago, l' orco), umanizzandoli non ci priveremo di un importante modello comportamentale? A nostra consolazione il fatto che finora non li abbiano anche redenti. Non ancora, almeno.

Dario Del Porto per repubblica.it il 14 novembre 2019. La corte di Assise di Napoli ha assolto tutti gli imputati del processo istruito nei confronti dei militanti del movimento neofascista CasaPound e di altre sigle come Blocco studentesco e H.M.O. Il verdetto, emesso con la formula “perché il fatto non sussiste”, esclude le accuse di associazione sovversiva e banda armata nei confronti, fra gli altri, di Enrico Tarantino, Giuseppe Savuto ed Emmanuela Florino ( figlia dell'ex senatore di An Michele) e Andrea Coppola. Il pm aveva chiesto condanna per tutti i 34 imputati. Accolte le tesi degli avvocati Marcella Angiulli, Giovanni Belleré, Guido Di Maio, Riccardo Cafaro, Carmine Ippolito, Elena Lepre, Sergio Rastrelli, Mauro Tornincasa. Unica pena detentiva sono i tre anni di reclusione inflitti a Enrico Tarantino, a fronte degli otto chiesti dal pubblico ministero, per la detenzione di bottiglie molotov che sarebbero state lanciate all’indirizzo della sede del centro sociale insurgencia nel 2010. Il pm Catello Maresca chiuse con 34 richieste di condanna la requisitoria. Le pene più severe furono proposte per quattro imputati, ritenuti capi e organizzatori: 8 anni di reclusione furono chiesti per Enrico Tarantino, 6 anni ciascuno per Giuseppe Savuto ed Emmanuela Florino (figlia dell'ex senatore di An Michele) e Andrea Coppola. Il pm Maresca chiese anche pene alternative rispetto all'ipotesi d'accusa secondaria di associazione per delinquere "semplice". L'inchiesta partì in seguito a violenti scontri tra gruppi di estrema destra e di antagonisti, a Napoli. Per Maresca erano sussistenti le ipotesi di associazione sovversiva e banda armata perché il gruppo era ispirato da "un'ideologia che cerca lo scontro e si propone di affermare violentemente i propri ideali". Su questi due reati, nella fase delle indagini, si sono registrate decisioni contrastanti: la tesi della Procura è stata accolta dal gip Francesco Cananzi, bocciata dal tribunale del Riesame e riconsiderata invece dalla Cassazione, che aveva ritenuto i fatti al centro dell'inchiesta espressione "di una strategia ideologicamente orientata alla sovversione del fondamento democratico del sistema". Tesi bocciata dalla Corte di Assise.

"Il saluto romano non è reato", assolti due politici nell'imperiese. Esponenti di Forza Nuova avevano alzato il braccio durante una cerimonia in memoria della Repubblica di Salò. La Repubblica il 07 novembre 2019. "Il fatto non costituisce reato": è questa la formula con il quale il giudice monocratico del Tribunale di Imperia Sonia Anerdi ha assolto dall'accusa di apologia del fascismo l'ex assessore del Comune di Diano Castello (Imperia) ed esponente di Forza Nuova Manuela Leotta e il sanremese Eugenio Ortiz. I due il 26 aprile del 2015 avevano fatto il saluto romano e gridato "presente" durante una celebrazione, presso il cimitero di Sanremo in memoria dei caduti della Repubblica sociale italiana. La sentenza con la quale sono stati assolti i due imputati è stata pronunciata sulla base di precedenti verdetti della Cassazione. Il pm aveva invece chiesto una condanna a 3 mesi di reclusione e 300 euro di multa. Sul tema si registrano per altro diversi orientamenti della Cassazione. A maggio con la sentenza 21409, la Corte ha confermato la condanna per un avvocato “nostalgico” del regime che, nel corso di una seduta del Consiglio comunale di Milano, in occasione della presentazione del “Piano Rom” aveva steso il braccio accompagnando il gesto con la frase “presenti e ne siamo fieri”, ma solo pochi mesi prima la Cassazione aveva sentenziato che non è reato il saluto romano se ha intento commemorativo e non violento: in questo senso, può essere considerato una libera "manifestazione del pensiero" e non un attentato concreto alla tenuta dell'ordine democratico. La Cassazione aveva così definitivamente assolto due manifestanti di Casapound, che durante una commemorazione organizzata a Milano nel 2014 da esponenti di Fratelli d'Italia, rispondendo alla "chiamata del presente" avevano alzato il braccio destro facendo il saluto fascista. Il giudice di Imperia si è conformato a questo orientamento.

Imperia, saluto romano non è reato: assolti in 2. Una forma di saluto che fece molto discutere nel corso di un episodio del 2015, durante le celebrazioni funebri in onore ai caduti Rsi a Sanremo: il giudice assolve Manuela Leotta ed Eugenio Ortiz. Marco Della Corte, Giovedì 07/11/2019, su Il Giornale. "Il fatto non costituisce reato": con tali parole Sonia Anerdi, giudice monocratico del tribunale di Imperia, ha assolto Manuela Leotta, assessore del comune di Diana Castello (Imperia) ed esponente di Forza Nuova ed Eugenio Ortiz, residente a Sanremo, dall'accusa di apologia di fascismo. Tutto accadde il 26 aprile 2015, quando i due avevano esibito il saluto romano e gridato "presente" durante una celebrazione in memoria dei caduti della Repubblica sociale italiana svoltasi presso il cimitero di Sanremo. Come si legge dall'agenzia Ansa, la sentenza, con cui sono stati assolti i due imputati in questione, può contare su diversi precedenti da parte della Cassazione. Originariamente, il pm aveva invece chiesto una condanna di 3 mesi di reclusione ed un'ammenda di 300 euro.

Saluto romano non è reato. Il saluto romano non costituisce reato se esibito durante cerimonie come commemorazioni. Basandosi su tale status quo, il giudice Sonia Anerdi ha assolto dall'accusa di apologia di fascismo l'esponente di Forza Nuova Manuela Leotta e il sanremese Eugenio Ortiz. I due avevano salutato con la mano tesa gridando "presente" i caduti della Repubblica sociale italiana nel corso di una commemorazione svoltasi il 26 aprile 2015. La scena era stata filmata da alcuni agenti della Digos presenti tra la folla di nostalgici. Il pm aveva chiesto per i due imputati una condanna a tre mesi di reclusione ed il pagamento di 300 euro di multa. Tuttavia, il giudice Anerdi, prendendo come spunto precedenti verdetti della cassazione, ha dichiarato che quanto attuato da Ortiz e Leotta non costituisce reato. Questo, contrariamente a quanto formulato in una recente sentenza, in cui la cassazione aveva invece confermato la condanna di un avvocato di Milano che aveva fatto il saluto romano nel corso di una seduta del consiglio comunale. Un episodio analogo era avvenuto anche nel corso dei funerali di Antonio Rastrelli, ex presidente della giunta regionale Campania. In quel caso il saluto fascista era stato utilizzato per salutare il feretro del politico. Il caso in questione non era stato scevro di strascichi giudiziari.

A Centocelle in scena solo l’ultima delle balle antifasciste di una sinistra con l’odio nelle viscere. Francesco Storace mercoledì 13 novembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Chi sanzionerà l’antifascismo pallonaro con profumo di odio, dopo l’ennesima balla made in Centocelle? Ci hanno raccontato per giorni di un quartiere assaltato da estremisti neri. Ma la polizia dà la caccia a uno che di nero ha probabilmente solo la pelle, un tunisino. La Pecora elettrica e l’altro locale presi di mira a suon di incendi non c’entrano nulla con la violenza politica e gli immancabili fascisti. Ma con lo spaccio di droga, che nel popolare quartiere romano è purtroppo fiorente. Eppure, si sono scatenati con l’indice puntato contro il nemico. Che era un altro. Razzismo alla tunisina, una nuova marca di una sinistra senza idee.

E chissà chi avrà coraggio di dirlo ad Alessia Morani, la sottosegretaria che usa la ruspa su twitter e toglie di mezzo chi gli sta antipatico. Un amico ci ha fatto leggere che cosa aveva avuto il coraggio di scrivere dopo l’incendio della libreria La Pecora Elettrica. “E c’è chi continua a dire che in Italia non abbiamo un problema di estremisti di destra sdoganati da politici senza scrupoli”, aveva tuonato sul social. Prima o poi qualcuno dovrà scrivere di viceministri nullafacenti più impegnati a scrivere sciocchezze che a lavorare per lo Stato.

Ecco chi inocula odio nella società. Ballisti di professione, potremmo dire. Sono loro a inoculare odio nella società. E volutamente non vogliamo infierire sulla fake news di Repubblica sui duecento messaggi giornalieri di minacce a Liliana Segre. A noi dà fastidio anche una sola minaccia verso di lei. Ma non c’è bisogno di fabbricarne altre, perché poi c’è chi emula i cretini.

Minacce a Giorgia Meloni nei gruppi social di sinistra: “Tr..a da uccidere a bastonate”. Il Secolo d'Italia martedì 12 novembre 2019. Minacce a Giorgia Meloni, via Facebook. La leader di Fratelli d’Italia dà la notizia sui social: “Nei gruppi di sinistra, oltre le offese, ora si passa direttamente alle minacce di morte nei miei confronti. Per i media e i politici di sinistra che accusano me di “seminare odio” tutto regolare?”. Meloni posta poi su Twitter lo screenshot di un hater che la insulta invocando la sua morte. “Tr.. di m… da uccidere a bastonate, punto”, scrive l’utente sotto un’immagine sorridente della Meloni. Non è la prima volta che Giorgia Meloni viene presa di mira dagli haters in modo brutale e violento. A luglio lei stessa aveva pubblicato sul suo profilo Twitter un collage degli insulti ricevuti: «Fascista di merda, ammazzati», scrive un utente. «Puttana fascista, ti devono sbranare i cani». E ancora: «Farai la fine del sorcio topo di fogna Mussolini». «Affondiamo lei con un bel sasso legato al collo». «E poi muori, Giorgia. Hai rotto i c…con la tua demenza». «Meglio che fai tanto yoga così pratichi a stare con la testa in giù». Ma all’epoca i media mainstream erano più occupati a commentare gli insulti via social a Carola Rackete. Giorgia Meloni era finita poi anche nel mirino dell’ex brigatista Raimondo Etro, che le aveva rivolto insulti sessisti e volgari: «Questo individuo è un ex br italiano condannato per concorso nel sequestro e nell’omicidio di Aldo Moro e nell’eccidio della scorta. Invece di passare il resto dei suoi giorni dentro una cella a vergognarsi, questo mezzo uomo passa le sue giornate comodamente a casa – mantenuto da voi con il reddito di cittadinanza – a insultare di qua e di là. Io sono il suo bersaglio preferito. E siccome mi sono stufata ho deciso di querelarlo». Eppure, nonostante questi precedenti, Giorgia Meloni se sente dire di essere lei la responsabile del clima di odio che avvelena la politica italiana. Qualcosa non torna…

«Diffamò Matteo Salvini»: condannato don Giorgio De Capitani. Pubblicato lunedì, 11 novembre 2019 da Corriere.it. Condannato per aver diffamato il leader della Lega Matteo Salvini. Don Giorgio De Capitani, 81 anni, casa a Dolzago, dove ancora celebra le funzioni religiose, ex parroco di Monte a Rovagnate, nella Brianza lecchese, dovrà versare una pena pecuniaria di 7.500 euro, oltre al pagamento delle spese processuali. Il giudice del tribunale di Lecco Nora Lisa Passoni ha disposto inoltre che il sacerdote paghi a Salvini 7 mila euro come risarcimento. Il religioso è stato riconosciuto colpevole per gli insulti rivolti al leader del Carroccio in quattro post pubblicati sul proprio blog tra marzo e ottobre del 2015. «Un’attività diffamatoria reiterata nel tempo. Il dissenso politico è un valore in sé da tutelare nella nostra democrazia, ma la critica deve avvenire nei modi e nei termini previsti dalla legge, senza offese», ha rimarcato il pubblico ministero Paolo Del Grosso. Il sacerdote, tra l’altro, era arrivato a dire in una trasmissione radiofonica che c’era «il diritto di uccidere Salvini». Soddisfatta della sentenza si è detta l’avvocato del leader della Lega, Chiara Eccher, al termine dell’udienza che lunedì ha visto la deposizione di Luca Morisi, responsabile della comunicazione di Matteo Salvini. I legali del sacerdote, Marco Rigamonti ed Emiliano Tamburini, avevano chiesto l’assoluzione. «La legge italiana è ottusa. Ho pubblicato un commento sul ruolo e l’attività del politico, non sulla sua persona. A Salvini non ho fatto alcun danno», il commento di don Giorgio.

Da ilgiorno.it il 18 novembre 2019. «Condannatemi ancora nei tribunali uscirò sempre a testa alta, “onorato” di aver dato per lo meno fastidio al potere, e di aver suscitato qualche allarme tra la massa che pensa solo a campare Spezzatemi pure ma non mi piegherò!». Così ha scritto sul proprio sito don Giorgio De Capitani, condannato a Lecco per diffamazione dopo una querela di Matteo Salvini. «I miei difensori hanno evidenziato che Salvini ha detto il falso sotto giuramento», ha scritto il sacerdote sottolineando che «hanno evidenziato che mi ha accusato di un reato grave, sapendo bene che non avevo istigato nessuno ad ucciderlo». «Né le querele né le condanne mi frenano - sottolinea l'ex parroco di Monete di Rovagnate - anzi servono a stimolarmi con maggiore determinazione». Condannato lunedì scorso a seguito di una querela di Matteo Salvini, don Giorgio ha spiegato che «più gli ostacoli sono tosti, le difficoltà sembrano insormontabili, la politica partitica fuoriesce di strada assumendo personalismi populisti da farmi inorridire, più tiro fuori dal mio essere interiore l'energia che ritengo la "migliore", anche se può assumere talora nel linguaggio toni e vocaboli poco ortodossi alle orecchie dell'opinione pubblica». «Non lotto solo contro un sistema politico corrotto o poco consono al perseguimento del Bene comune - ha aggiunto - ma vorrei che il mio lottare servisse anche per risvegliare la coscienza di qualcuno tra la massa 'dormiente'. Ho più di 80 anni - è la sua conclusione - e per me sarebbe per lo meno da sciocco cedere ora, riponendo le 'armì e lasciando perciò via libera ai prepotenti».

Proietti contro Salvini: "Minacciato come Segre? Parole preoccupanti". L'attore caustico sull'uscita del leader della Lega, che ha detto di sentirsi anch'egli minacciato come la senatrice a vita. Pina Francone, Venerdì 08/11/2019 su Il Giornale. "Anche io, ogni giorno, ricevo minacce. Le minacce contro la Segre, contro Salvini, contro chiunque, sono gravissime". Così, nella giornata di ieri, parlava Matteo Salvini commentando il caso degli insulti e delle intimidazioni subite della senatrice a vita, e superstite dell'Olocausto, dopo l’istituzione di una Commissione per combattere l'antisemitismo e il razzismo. Alla testimone della Shoah, giusto nelle ultime ore, è stata ufficialmente assegnata la scorta, per colpa degli insulti antisemiti ricevuti. Ecco, l'uscita del leader della Lega non è passata inosservata e già ieri, sui social, è impazzata la polemica circa la frase dell'ex titolare del Viminale. Bene, il caso è stato commentato da un volto noto del grande e piccolo schermo italiano, qual è Gigi Proietti. Già, perché l'attore e regista, intervistato dall'Adnkronos, ha commentato a suo modo la vicenda. E lo ha fatto tirando più di una frecciatina del capo politico del Carroccio. Queste, dunque, le sue parole: "Matteo Salvini dice di essere minacciato? Come Liliana Segre? Ok, allora diamo la scorta anche a lui…così è contento!". Dunque il comico, circa la dichiarazione di Salvini, ha sentenziato in modo secco e lapidario: "Certe dichiarazioni sono preoccupanti…". Ma non è tutto, perché l'artista romano 79enne ha affondato il colpo: "Forse ci siamo distratti. E lo dico perché è da tempo che in questo Paese ci sono segnali strani, direi inquietanti". E, ancora, ha aggiunto: "Spesso le dichiarazioni di persone che dovrebbero rappresentare il popolo sono preoccupanti. Io, per esempio, se parlo, parlo per me; mentre i politici parlano per i propri elettori e questa cosa è davvero molto preoccupante...". In ultimo, Gigi Proietti ha voluto commentare l’astensione delle forze politiche di centrodestra nell'Aula del Senato in occasione della votazione sulla mozione avanzata da Liliana Segre e volte, per l'appunto, all’istituzione della Commissione contro l’odio: "Se uno non condanna drasticamente, senza se e senza ma, significa che c'è molta parte degli italiani che vuole questo ed è la cosa che mi angoscia di più. Ci dovrà essere una presa di posizione da parte di un fronte più progressista e democratico per far capire che il paese non è solo questo, è anche diverso da quello di cui si parla continuamente. Di quell'altro Paese però non si parla mai…".

Matteo Salvini, la vignetta estrema del Fatto Quotidiano: "Brutto, sempre tra i coglioni". Libero Quotidiano il 10 Novembre 2019. Alle nefandezze contro Matteo Salvini, Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio ci ha abituato da tempo. L'house organ grillino, infatti, picchia durissimo contro il leghista, "reo" di aver innescato la crisi che pare ormai irreversibile dei pentastellati tanto cari al direttore-capo ultrà. E anche nell'edizione di domenica 10 novembre Il Fatto non si smentisce. E anzi, stupisce per l'asprezza dei toni usati contro l'ex ministro dell'Interno. L'attacco piove nella vignetta pubblicata in prima pagina e firmata da Mannelli. Nel disegno si vede il faccione di un Salvini orribile, più simile a un mostro deforme che a un essere umano. E a corredo del disegno, il commento: "Il brutto non è non avere un futuro. Il brutto è avercelo (e sempre tra i coglione)". Cala il sipario, ma Travaglio continua a non darsi pace...

Saviano & Co, dove soffia davvero il vento dell’intolleranza. Nicola Porro il 15 novembre 2019. A proposito della scorta a Lilian Segre, Roberto Saviano è andato giù duro. “Pensare che un’intellettuale, una donna coraggiosa come Liliana Segre finisca sotto scorta è la prova che siamo diventati un Paese pericoloso”, ha detto lo scrittore in un video su Fanpage.it. Poi l’affondo contro i leader della Lega e Fratelli d’Italia: “Salvini e Meloni ci fate schifo, la scorta a Liliana Segre è colpa vostra. Liliana Segre è odiata perché, in quanto vittima dell’Olocausto, ha deciso di prendere posizione, di intervenire nel dibattito pubblico. È odiata dai populisti, dai sovranisti, dai fascisti, da tutti quelli che usano l’odio per esercitare la loro presenza sui social e nella vita pubblica. Quest’odio verso una donna che ogni volta che si esprime usa grazia, tatto e intelligenza, una donna espulsa dalla scuola, poi deportata, ora odiata porta la firma di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, due dei peggiori politici del nostro tempo, la cui infinita mediocrità non riesce a frenare la loro infinita brama di potere. Parlate di “prima gli italiani”, ma noi non apparteniamo a voi: ci fate schifo”. A Quarta Repubblica, i toni e le parole di Saviano innescano il dibattito: ma il vento dell’intolleranza soffia solo a destra? Ecco una clip tratta dall’ultima puntata.

Toscani delira ancora: "Tra Meloni e Boldrini? Meglio una scimmia". Il fotografo si scaglia contro la leader di Fratelli d'Italia e l'esponente del Pd, durante la sua ospitata a "La Zanzara". Pina Francone, Mercoledì 13/11/2019, su Il Giornale. Altro giorno, altro giro e altro "regalo". Anche quest'oggi, infatti, Oliviero Toscani si è reso protagonista con dichiarazioni, diciamo, sopra le righe. E molto colorite. Ospite della trasmissione radiofonica La Zanzara, su Radio 24, il fotografo radical chic si è lasciato andare a commenti poco felici. Iniziamo con la carrellata. Alla domanda del conduttore Giuseppe Cruciani se preferisse trascorrere una notte di passione con Giorgia Meloni o Laura Boldrini – in seguito di una calamità naturale che lo costringesse su un'isola deserta in compagnia delle due parlamentari – Toscani risponde secco, così: "Mah, direi con la scimmia che c'è sulla palma. Ci sarà un scimmia sulla palma, o no? Una nuova genetica, una nuova scimpanzerotta…". Una battuta (molto) poco riuscita. Ma non è finita qui. Già, perché Cruciani lo incalza nuovamente, chiedendogli se andasse mai a letto con una esponete della Lega di Matteo Salvini. E il fotografo replica con queste parole: "Ma ce l'hai con me, mi mandi sempre a letto con qualcuno. Comunque sì, la f…è la f...". E poi rincara la dose "Anche alla mia età non si smette mai di trombare. Se mi aiuto con qualche cosa per restare in attività? Con l'uccello, sì. Qualche pasticchetta? No, no, assolutamente no". Lo show di Toscani, imbeccato dal giornalista di Radio 24, prosegue con un nuovo capitolo: questa volta il tema è quello dei preti pedofili. "Cosa gli faresti?", gli domanda Cruciani e pronta arriva la replica: "Sono esattamente come qualsiasi altra persona pedofila. Poveretto, già uno che vuol diventare prete, vuol dire che ha già dei problemi. Qualche problema ce l'ha di sicuro…". Infine, ultimo ma non per importanza, il commento al vetriolo contro i due giornalisti Mediaset Paolo Del Debbio e Mario Giordano. "Hai visto per caso la fotografia con Giordano, Del Debbio e Salvini insieme?", l'imbeccata della "zanzara" e Toscani ci casca in pieno, alzando i toni: "Mamma mia. Fascisti? Questo è il minimo, non è neanche più un insulto. Del Debbio e Giordano conducono trasmissioni banali, fanno ridere. Sono dei comici".

Toscani insulta Salvini. Come ben sappiamo, è nota l'"antipatia" di Oliviero Toscani nei confronti del numero uno del Carroccio. Giusto qualche giorno fa, ai microfoni di Morning Show su Radio Café, ha sparato a zero contro l'ex titolare del Viminale e i suoi elettori: "Salvini è stato eletto da una maggioranza di coglioni, di gente che non ha più la sensibilità umana. Il rappresentante di questa maggioranza si esprime in modo disumano. È il rappresentante di una disumanità".

"Mi dicono negro schiavista. Ma questo non fa notizia". Lo sfogo del leghista di colore Iwobi: "Contro di me razzismo di serie C. E non ricevo mai alcuna solidarietà". Carmelo Caruso, Sabato 09/11/2019, su Il Giornale. Sul web gli «sputano» due volte: la prima perché è di colore, la seconda perché è della Lega. «E naturalmente ci sono poi gli stupidi che mi insultano per quello che penso. E loro sì che sono di ogni colore politico». Dato che parliamo di colori: ha mai ricevuto solidarietà dai parlamentari gialli, rossi e rosa, insomma, dai suoi avversari? «Mai, ed è chiaro che mi dispiace, ma credo di conoscere la ragione. Da venticinque anni sono iscritto alla Lega e in questo momento i leghisti sono considerati dei lebbrosi». Da due anni, Toni Iwobi è invece senatore, il primo di origine africana a essere eletto. A candidarlo è stata la Lega tanto che alcuni dicono: «La sua elezione è la più grande operazione di facciata di Matteo Salvini».

È davvero la più grande operazione di facciata mai compiuta dalla Lega?

«Come vede, devo difendermi anche da questa forma di razzismo che è più sottile. Sono stato indicato dal territorio, il mio nome sottoposto a Salvini, poi candidato e infine eletto. Nella mia vita ho fatto mille mestieri, ho superato mille fatiche, prima di arrivare a questo incarico».

E con regolarità, da quel giorno, sulla sua pagina social si riversano offese e si praticano aggressioni verbali, immondizia da caverna.

«E il dolore è tanto. Lo dico con il cuore. L'Italia non è un paese razzista o fascista. È un paese perbene. Chi mi insulta è una parte ubriaca e accecata dal mio colore politico. Prima del mio ingresso al Senato, non ho mai ricevuto tanto odio. Da quel giorno, qualcosa è cambiato».

Adesso le fanno paura e dunque annuncia querela.

«All'inizio ho preferito tacere, ignorare. Non mi facevano né caldo né freddo. Ho sempre pensato che fossero squilibrati in cerca di visibilità. Ho minimizzato, ma adesso siamo al di sopra».

E infatti ha deciso di mostrare i commenti, sezionare gli insulti e denunciare il silenzio dei giornali che «non hanno mai parlato di queste barbarie».

«Mi scrivono negro da cortile, Django, Zio Tom, Negro verde asservito, mi chiamano schiavista. Pensavo che bastasse cancellare i loro commenti e invece la loro furia aumenta e si nutre del silenzio dell'informazione. C'è una informazione scorretta che enfatizza le ingiurie di una parte, ma che chiude un occhio quando le stesse ingiurie vengono scagliate all'altra».

Dicono che ad avere scatenato l'odio sono le politiche di destra e la Lega la mettono in cima.

«E quelli che lo dicono, e lo scrivono, sono gli stessi che dividono il razzismo in serie. C'è ne è uno di serie A, uno di serie B e poi ci sono i leghisti. Nei nostri confronti, il razzismo è di serie C. E però, il razzismo è sempre uno e dilaga proprio a causa di questa meschinità politica, di questa ipocrisia e divisione».

In occasione del voto sull'istituzione della commissione Segre, i leghisti non si sono alzati in piedi. Siete stati accusati di essere tiepidi con i bastonatori. E ieri, su Repubblica, venivate indicati come «destra energumena», «antidemocratica» mentre Salvini come «un curvaiolo, estremista».

«Lo scrivono quei radicali eleganti che da mesi parlando di Salvini come il male assoluto e che ci additano ai lettori come un fenomeno da estirpare. Chiedo: cos'è questo se non razzismo? Io, così come tutti i miei colleghi, abbiamo applaudito la senatrice Segre. Le vogliamo bene e la abbracciamo. Ci accusano per non esserci alzati in piedi, ma nell'accusa c'è la malafede di chi vuole denigrarci a prescindere».

L'accusa finale è: come fa un nigeriano a essere leghista? E gli sputi sono tre.

«E mi rimproverano di dire prima gli italiani, ma quella frase non è una bestemmia. Lo dico da nigeriano venuto in Italia. Quella frase l'ho sentita in America, in Germania. Chi mi conosce, sa che vado pochissimo in televisione e che le mie parole sono moderate. Si è fatta ironia sulle minacce che Salvini ha dichiarato di ricevere. Ma le minacce che riceve sono vere, numerose e ignobili così come è ignobile quanto rivolto alla Segre. Misurare il grado delle offese è il peggiore modo per fare una battaglia che deve essere comune o ancora peggio mobilitarsi. Ma solo per appartenenza».

Liliana Segre incontra Matteo Salvini, faccia a faccia a casa della senatrice a vita. Pubblicato venerdì, 08 novembre 2019 da Stefano Landi su Corriere.it. Liliana Segre incontra Salvini e la figlia: il faccia a faccia a casa della senatrice a Milano. Si sono visti a Milano nel pomeriggio di venerdì nel massimo riserbo. Non erano presenti altri rappresentanti di istituzioni. Si è svolto a Milano l’incontro tra Liliana Segre, memoria storica della Shoah, e Matteo Salvini. Ne ha dato notizia la Tgr della Lombardia. Il leader della Lega ha incontrato la senatrice a casa di quest’ultima, nel tardo pomeriggio: il faccia a faccia si è tenuto nel massimo riserbo. Secondo quanto trapelato dal massimo riserbo che avvolge tutto l’incontro - per evidenti motivi di sicurezza dopo le minacce ripetute che hanno portato il Prefetto di Milano ad assegnare a Liliana Segre una «tutela» - la senatrice e il leader politico si sono incontrati verso le 17. Matteo Salvini si sarebbe presentato con la figlia e non sarebbero state presenti altri rappresentanti di istituzioni. «Certamente non mi aspettavo la scorta, poi essendo una vecchietta...Io non l’ho mai chiesta e non pensavo mai che l’avrei avuta»: lo ha spiegato Liliana Segre in una intervista a Rainews24. «Quando sentivo — ha aggiunto — di personaggi che avevano la scorta li ho sempre visti come importantissimi e che bisognava quindi preservarli». La senatrice a vita ha parlato anche dei motivi che l’hanno spinta a promuovere la creazione di una commissione per combattere l’odio: «C’e’ un’atmosfera di odio che ho vissuto nei fatti oltre che alla parole. Combatterlo, mi aspettavo, doveva avere il plauso di tutti. Pensavo che ci sarebbe stata una specie di gara a proporre cosa fare contro l’odio». «È un fatto triste, che esprime in qualche modo uno spirito di contrapposizione crescente nel mondo in generale, ma anche in Europa, una litigiosità crescente, una contrapposizione pregiudiziale, a volte di incomprensione, a volte di principi». Così l’arcivescovo di Genova, il cardinale Angelo Bagnasco, venerdì sera a Genova a margine di un evento pubblico esprime rammarico per la scorta assegnata alle senatrice Liliana Segre, ebrea ex deportata ad Auschwitz nel 1944, a causa delle minacce ricevute dopo la creazione di una commissione parlamentare per combattere l’odio. Secondo Bagnasco è un fatto che «deve dispiacere a tutti, tutti devono esprimere la giusta stima e vicinanza alla senatrice».

Stefano Landi per corriere.it il 8 novembre 2019. Non si doveva sapere. Eppure nonostante un rimbalzo di «no comment» reciproci, ieri Liliana Segre e Matteo Salvini si sono visti davvero. Da una parte, una donna di 89 anni, costretta da qualche giorno a girare con la scorta, sotto il bombardamento quotidiano di una media di 200 messaggi di odio e minacce. Dall’altra il numero uno della Lega, l’ex ministro dell’Interno, che prima aveva sminuito gli attacchi alla senatrice a vita, paragonandoli a quelli che lui riceve abitualmente, poi correggendo il tiro e dimostrandosi più solidale.

Con la figlia di 6 anni. Con Salvini c’era la figlia Mirta, che ha 6 anni, e nessun altro rappresentante delle istituzioni. Nessun uomo dello staff. Un vero faccia a faccia. Si sono visti che erano da poco passate le 17, a casa di Segre, a Milano. Lei provata. Stanca. Soprattutto perché molto delusa. «Essendo una vecchietta pensavo di essere di nessun interesse, quindi non me lo aspettavo. Di certo non sono stata io a chiederla», aveva detto ieri, poco prima di ricevere la visita di Salvini, in un’intervista a RaiNews. «Un incontro privato che tale doveva restare. Da parte nostra manteniamo un totale impegno alla riservatezza», dice uno dei tre figli della senatrice, Luciano Belli Paci. Impegno che mantiene anche lo staff di Salvini. E sembra che davvero la cosa non sarebbe dovuta uscire da quella stanza. «Se io non odio, perché non dovrei aprire la porta? Chi mi vuole incontrare trova la mia casa aperta e accogliente. Se vuole venire gli offrirò del tè, i biscotti... certo non un mojito», aveva detto martedì Segre in un’intervista al Corriere, dopo che l’ex ministro dell’Interno aveva ventilato l’ipotesi di volerla incontrare.

La piazza di Milano. Venerdì Segre non era uscita di casa. Perché come spiega il figlio Luciano, «ha davvero bisogno di staccare la spina. Cerca la calma e non la piazza. Io e mio fratello in questo senso vogliamo proteggerla». Anche i medici le hanno consigliato di starsene un po’ tranquilla. L’incontro era nato qualche giorno fa. Mentre montavano le polemiche sull’astensione della Lega, oltre che di Fratelli d’Italia e Forza Italia, sulla «commissione Segre». «Ci sono vari modi di chiedere un appuntamento», aveva detto Segre. Non era convinta che la proposta di Salvini fosse vera. L’aveva letta sui giornali. Ma era pronta ad ascoltarlo. E così ieri ha aperto la porta. Chiedeva tranquillità. E non si aspettava nemmeno che già ieri Milano scendesse in piazza. O meglio, in strada, quasi in modo spontaneo davanti alla Sinagoga di via Guastalla. Nonostante la manifestazione di solidarietà, organizzata dall’Anpi e da altre associazioni, già prevista per lunedì davanti al Memoriale della Shoah. «Le cose si fanno a caldo nei posti simbolici», dice Andrée Ruth Shammah. E da un suo scambio di sms è partito il passaparola. Niente striscioni, né comizi. Davanti a quella Sinagoga per un giorno non c’è la comunità ebraica. C’è la gente comune. Ci sono milanesi che passano per lasciare un messaggio su un libro aperto su un tavolino improvvisato sul marciapiede. C’è Stefano Boeri, tra i primi a raccogliere l’appello. Passa Emanuele Fiano, deputato del Pd e figlio di Nedo, anche lui sopravvissuto ad Auschwitz: «Non voglio che papà in questo momento veda quell’immagine». Si riferisce allo scatto in cui Segre passeggia per Milano con due uomini della scorta ai fianchi. «Per me Liliana è come una zia. Vederla costretta a questo è una sconfitta impensabile. È l’unica persona al mondo sopravvissuta all’Olocausto costretta così. Dall’estero mi chiedono se c’è davvero il rischio che torni il fascismo», aggiunge Fiano.

La firma di Veltroni. Arriva Walter Veltroni, prende la penna e firma. Poi mostra sullo schermo del suo telefonino uno dei messaggi di insulti che ha ricevuto sui social dopo aver postato la sua solidarietà a Segre: «Una volta la gente nascondeva la propria ignoranza dietro a una tastiera. Ormai si firmano con nome e cognome. Questo genere di insulto è stato sdoganato. Mi indigna pensare che tutto questo avvenga nei confronti di una donna di 89 anni».

Diventa un giallo l’incontro con la Segre. Salvini smentisce: la vedrò presto. Alessandra Danieli su Il Secolo d'Italia sabato 9 novembre 2019. Si sono incontrati o no a Milano ieri pomeriggio?  La notizia della visita di Matteo Salvini a Liliana Segre, dopo le polemiche dei giorni scorsi sulla commissione, viene smentita dallo stesso leader leghista. Più che una smentita, la sua, è una non conferma. «Io gli incontri che ho li comunico. Gli incontri che non comunico io, per quanto mi riguarda, non ci sono», dice alle telecamere, che lo assalgono al suo arrivo all’Eicma di Rho per le celebrazioni del trentennale della caduta del Muro di Berlino. Insomma un caso nel caso che sa di “giallo” annunciato.

Salvini smentisce l’incontro con la Segre. «L’incontro con la Segre l’avrò più avanti. Lo chiedo io. Quando avverrà? Presto», aggiunge l’ex ministro dell’Interno. A chi gli ha chiesto quali saranno i temi che affronterà con Segre, Salvini ha risposto: «Io ascolto ascolto, è una donna estremamente intelligente. Sono giovane, ho voglia di capire, di imparare e di ascoltare». Eppure tutti i quotidiani e le tv hanno dato la notizia di un incontro pomeridiano in casa della senatrice a vita. Massimo riserbo per un rendez vous in forma privata e che privato doveva restare. «Da parte nostra manteniamo un totale impegno alla riservatezza», dice al Corriere della Sera uno dei tre figli della senatrice.Il leader della Lega si sarebbe presentato con la figlia senza nessun rappresentante delle istituzioni.

A me è appena arrivato un altro proiettile. D’accordo con la scorta alla senatrice a vita Liliana Segre? «Assolutamente favorevole, purtroppo se ce ne è bisogno». È la risposta di Salvini alla domanda sulla misura di tutela nei confronti della senatrice a vita, dopo gli insulti e le minacce via social. «Quando il Viminale assegna una scorta lo fa a ragion veduta. Ogni scorta è una sconfitta – aggiunge l’ex ministro –  perché vuol dire che c’è qualche cretino che vuole sostenere con la violenza quello che invece in democrazia va sostenuto con il pensiero».  Sul clima di intolleranza nel Paese, Salvini aggiunge: «A me è appena arrivato un altro proiettile, non piango. In un paese civile non dovremmo avere paura né io né la Segre».

Anche la Lega in piazza a Milano. oi annuncia che la Lega sarà in piazza il 10 dicembre a Milano per la manifestazione dei sindaci a sostegno dell’ex deportata ad Auschwitz. «Quando c’è qualcosa di democratico che riguarda il futuro lo sosteniamo, invece il dibattito tra fascismo e comunismo che sono sepolti dal passato non mi appassiona». 

Caso Segre, Salvini a sorpresa non conferma l'incontro con la senatrice: "La vedrò più avanti". Il leader leghista a Rho: "Mi è appena arrivato un altro proiettile". E parteciperà alla manifestazione dei sindaci a Milano. Saviano: "Salvini e Meloni, la scorta a Liliana è colpa vostra: ci fate schifo". La Repubblica il 9 novembre 2019. A sorpresa Salvini non conferma la notizia avvalorata da diverse fonti, data da alcuni Tg e oggi da tutti i principali quotidiani nazionali, circa un incontro avuto con la senatrice a vita Liliana Segre ieri a Milano. "L'incontro con Segre l'avrò più avanti", ha detto il leader della Lega: "Io gli incontri che ho li comunico, gli incontri che non comunico io per quanto mi riguarda non ci sono", ha chiarito l'ex ministro. "A me è appena arrivato un altro proiettile. Non piango. In un paese civile non dovremmo rischiare né io né Segre", ha aggiunto Salvini, rispondendo alla domanda se rischi di più lui o la senatrice per le minacce ricevute. Poi ha concluso: "Io ascolto, è una donna estremamente intelligente. Sono giovane, ho voglia di capire, di imparare e di ascoltare. Farà le sue scelte a prescindere da quello che suggerisce Salvini. Ritengo che sia una donna estremamente l'intelligente quindi non ha assolutamente bisogno dei miei consigli". Salvini ha poi annunciato che parteciperà il 10 dicembre a Milano alla manifestazione dei sindaci a sostegno di Segre: "Sì. Quando c'è qualcosa di democratico che riguarda il futuro lo sosteniamo. Il dibattito tra fascismo e comunismo che sono sepolti dal passato, non mi appassiona".

Saviano: "Salvini e Meloni fate schifo". Sul tema della scorta a Liliana Segre interviene anche lo scrittore Roberto Saviano: "Pensare che un’intellettuale, una donna coraggiosa come Liliana Segre finisca sotto scorta è la prova che siamo diventati un Paese pericoloso”, dice in un video su Fanpage.it. ”Liliana Segre è odiata perché, in quanto vittima dell’Olocausto, ha deciso di prendere posizione, di intervenire nel dibattito pubblico. È odiata dai populisti, dai sovranisti, dai fascisti, da tutti quelli che usano l’odio per esercitare la loro presenza sui social e nella vita pubblica. Quest’odio verso una donna che ogni volta che si esprime usa grazia, tatto e intelligenza, una donna espulsa dalla scuola, poi deportata, ora odiata porta la firma di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, due dei peggiori politici del nostro tempo, la cui infinita mediocrità non riesce a frenare la loro infinita brama di potere. Parlate di “prima gli italiani”, ma noi non apparteniamo a voi: ci fate schifo”.

Se la Segre avrà la scorta allora Salvini (e non solo) dovrebbe avere un esercito privato? Emanuele Ricucci il 7 novembre 2019. Esattamente come si combatte l’odio e il razzismo con la scorta a Liliana Segre? E ancor più: precisamente in che modo, i cugini del discount  di Ruggero l’hippy, alter ego verdoniano, pensano di combattere il consueto e suddetto odio, con una miriade di post, commenti, meme sull’originalissima Piazzale Loreto a testa in giù, da applicare al politico di turno o al semplice cittadino in dissenso col vangelo dell’establishment culturale, con gli smiles rovesciati nelle chat, con le scritte sui muri Salvini stramuorto o con un nugolo di insulti, minacce e offese pensatissime?

La battaglia da combattere urgentemente è sempre più, e più che mai, culturale. Poiché quella che abbiamo innanzi appare sempre più come la repressione del dissenso, l’annullamento della differente visione e del diverso modo di ragionare sopra le cose, e non l’autoregolazione di una società votata ad una nuova maturità. Il titolo di questa uscita è irriverente. Certamente. Ma testimonia la genesi di uno stadio periglioso e preoccupante della società italiana: l’essere eletto. L’essere eletto, ovvero colui il quale per elezione, e non certamente quella dovuta alle urne, è eletto, o meglio, autoeletto, principe assoluto del foro e delle menti, della civiltà e del buon senso. L’homo novus che si distingue da l’homo rozzus e ignorantus, ovvero tutti gli altri. L’essere eletto è il nuovo prototipo umano spinto a ogni piè dalle sinistre nazionali, racchiuse nella catalogazione più vaga e meno definibile possibile, ma in tutto ciò che opprime e si oppone a qualsivoglia rinascita nazionale e dell’uomo nazionale, ovvero quello odiante, rozzo e ignorante, a prescindere. Le sinistre nazionali espresse in una mediocrità, che trova, quindi, virtù nella medietà delle definizioni, che mixa populismo e sovranismo, quella che confonde l’odio e la rabbia sociale, quella che fonde, ad cazzum, nazionalismo e bande di neonazisti armati dell’Illinois che occasionalmente vanno al Lucca Comics a dar sfoggio delle mostrine SS giusto per ricordare all’Italia quanto odio scorre sotto questo cielo e che siamo tutti in pericolo e ansia costante, non, certamente, perché non riusciamo a pagare le tasse, ma perché, visto mai, qualche giorno un fascista travestito da Cthulhu ci ucciderà tutti col gas nervino; insomma quella entità che definisce fascismo, razzismo e odio, tutto ciò che non riesce a digerire, si badi bene, non a comprendere, ma a digerire, a mandar giù, a tollerare. In un perverso gioco di tolleranza e intolleranza. Firmato le sinistre tolleranti. O intolleranti? Madonna di Salvini, che confusione! Quel fascismo, che oggigiorno, per le sinistre è una salvifica giustificazione d’esistenza. Tutti quei fenomeni da essa dimenticati, disimparati, lo sono, come la tutela degli ultimi, delle classi sociali più basse, la strenua difesa del proletario, di quella rozza e zozza partiva Iva che ora, “ingrata”, gli scende in piazza contro. “Ma come osano”. Quella sinistra nazionale, per essere coerenti con Pascal Bruckner, che “ha perso tutto: l’Unione Sovietica, il Terzo Mondo che sogna un’economia di mercato e la classe operaia, che si è spostata a destra”, e di cui, “l’Islam è l’ultima speranza. Per questo vorrebbe che fosse intoccabile”. Le sinistre che sono passate dalle periferie, a essere esse stesse periferia del reale, del buon senso, della politica. Le sinistre che giocano il tutto e per tutto misurando il tempo col righello del codice penale, nel tentativo di risvegliare l’orgoglio del proprio elettorale, per meri scopi di marketing, ci mancherebbe, schierando tutto l’esercito sui propri temi identitari (antifascismo in testa), anziché rendersi conto che dovrebbe essere una loro urgentissima priorità la riduzione della distanza con il cittadino (vedasi la rossa Umbria che ai rigurgiti dell’antifascismo ha preferito anteporre gli interessi dei lavoratori e delle famiglie. Pensate che villici…). L’emanazione di editti, in quella che, infatti, possiamo considerare democrazia edittale, mostra solo una robusta confusione. Ben scrive Vittorio Macioce, parlando a proposito della commissione Segre: “Ho sentito in questi giorni molte persone chiedere una legge per sanzionare i linguaggi dell’odio. È uno dei confini più insidiosi del sistema di norme e valori del sistema liberal-democratico. Fino a che punto può estendersi la tua libertà di espressione? C’è un limite? Si, un limite c’è ed è definito in Italia da una legge del 25 giugno 1993. Negli Stati Uniti, per fare un esempio, i confini sono meno ristretti. Il guaio in Italia è che spesso ci dimentichiamo delle leggi. Ci sono, ma di fronte a nuovi fenomeni sociale se ne chiede subito una nuova. Qualcuno dirà: certo, perché nel 1993 non c’erano i social network. La mia idea invece è che la “legge Mancino” sia ancora solida e non sia invecchiata. Dico questo perché temo che il vizio di scrivere leggi su leggi, senza poi magari applicarle, non solo generi confusione, ma finisca per fare danni e allarghi il potere arbitrario dello Stato. La stessa legge nata per tutelare chi subisce discriminazioni razziali diventi uno strumento per delegittimare chi non la pensa come te. Quel confine è già insidioso, aggiungere mattoni può far franare tutto. Non basterebbe applicare la legge Mancino?”. Insomma, da quel ribollente percolato di opere e intenzioni, a sfioro su una nuova adolescenza, in cui se le regole le impongo io possiamo discuterne, altrimenti giù di censure, commissioni, bavagli, certificati antifascisti anche per avere un passo carrabile, riconoscimenti pubblici, da quel brodo di coltura nasce l’uomo, o la donna, autoeletto, l’essere eletto. Ne è gloriosa dimostrazione, nel continuum spazio temporale di questo tempo pirlone, ma pirlone per davvero, la vicenda “scorta Segre”. Alla senatrice a vita sarà assegnata la scorta. Come specifica Ansa, infatti, “In seguito alle minacce via web e allo striscione di Forza nuova esposto nel corso di un appuntamento pubblico a cui partecipava a Milano, il prefetto Renato Saccone ha deciso di assegnare la tutela alla senatrice a vita Liliana Segre, ex deportata ad Auschwitz, che, da oggi, avrà due carabinieri che la accompagneranno in ogni suo spostamento”. Ma la domanda più basilare, più diretta è: se Liliana Segre ha la scorta, a 89 anni, Matteo Salvini cosa dovrebbe avere? Un esercito privato in sua difesa? 150 lance scozzesi e 150 catalane come Rodrigo Borgia? Già immagino la simpatia dei detrattori che apostroferà me come servo del sistema (io che sono rinomatamente testa libera, indipendente, che guadagna col suo lavoro giornalistico e comunicativo, e che se non lavora non guadagna, proprio come tutti, che non ho tessere di partito, non becco quattrini da nessun partito o qualsivoglia movimento) e non vedrà l’ora di gridare alla SS salviniane. Uh LA LA LALASKD2PALALA! Che brio! Quindi, l’essere autoeletto, quello comunemente, pubblicamente accettato. Alla faccia delle sinistre dell’uguaglianza sociale. L’uguaglianza sociale col culo degli altri, possibilmente nero. Altro che élite contro popoli. Qui non vedo aristocrazia contro volontà nazionali, ma solo rozzi feudatari contro servi della gleba sporchi di terra. La guerra totale è culturale. Qual è la consistenza dell’odio? L’odio è trasparente. È così facile certificarne i contorni, ed è francamente stupido isolarne la fonte. In una società che realmente ha raggiunto un grado di libertà e maturità tale da avanzare nel progresso a occhi chiusi, il superamento della faziosità dovrebbe essere regola, in un sistema simile relegare l’odio a una forma originaria ideologica dovrebbe essere un orpello vecchio come il cucco, fuori tempo e fuori luogo. L’odio o è o non è, e prima bisogna distinguere l’odio cieco, dalla calca rabbiosa, che in OGNI TEMPO ha dato manifestazione di sé, a gradi più o meno bassi o alti; l’odio è odio in quanto tale per ognuno o non è. Si punisca l’odio contro la Segre e contro Salvini, col medesimo grado di giudizio; si punisca, allora, l’odio contro i razzisti, quanto contro i cristiani. Punire l’odio contro tutti, come concetto sgradito alla società civile dell’oggi, è la più alta forma di garanzia liberale. Altrimenti è faziosità, tifo, interesse elettorale. Qual è il peso dell’odio? Le minacce online sono il grosso cane virtuale che abbaia ma non morde. Un abbaio che genera frustrazione, ma non morde. Un abbaio, un abbaglio. Ma vedete. Tutta questa provocazione, che poi tale, in fondo, non è, sorge per concretizzare l’idea dell’essere eletto, del prototipo nuovo, socialmente privilegiato, sopraelevato, autoincarnato, staccato dal resto del corpus sociale, resosi Dio, secondo i crismi più basilari della “religione dell’umanità”, con l’azzeccatissima definizione che ne darebbe, Jean Louis Harouel, che le sinistre generano. Un processo che nasce da una logica semplice e commercialmente utile; non occorre cambiare le regole o agire solo di codice penale: per rimanere bisogna scavare a fondo e plasmare gli uomini, le loro abitudini, finanche la dimensione privata del loro pensare, del loro spirito critico, occorre modificare in maniera concreta i ritmi sociali, le abitudini e le certezze etiche. Del resto, solo i cambiamenti antropologici e culturali restano, specie nell’epoca della velocità siderale della politica. E questo le sinistre, lo sanno e lo fanno benissimo da decenni. Mutare il tessuto connettivo più profondo degli uomini, affinché anche se, maledetto il sistema democratico, le urne dovessero tradirti e condannarti alla lunga morte politica, tu avrai sempre uno stargate, un portale da cui controllare il battito del sistema, tramite cui rigenerarti e generare sempre la cultura di massa e stimolare, stuzzicare, plasmare, all’uopo, il sentire comune, che non è solo percezione del reale, ma un più profondo lavoro di smussatura dell’essere eletto perfetto: antifascista (sempre e comunque, trinariciutescamente, a prescindere), globale, senza l’ingombro di un Dio, di una patria e di un’identità, anche nazionale, che ne compongono il volto più profondo, lo legano alla tradizione, alla propria storia, ai propri padri, semplicemente, precario, migrante, canterino, ballerino, Jovanotti. Dalle scuole alle associazioni sul territorio, dalle aule di tribunale, alle riunioni di condominio. Et dunque, poco importa se, oggigiorno, il sentire comune vuole Salvini e la Meloni al governo, il centrodestra alla guida del Paese: la strategia dell’odio è fattore più urgente. Ma visto che ci siamo realizziamo la volontà di risparmio del Movimento Cinque Stelle, nuovo amante delle sinistre, e togliamo la scorta agli imprenditori che collaborano con la giustizia perché si sono ribellati al pizzo. Quelli che hanno davvero la propria vita e quella dei loro familiari appesa al filo di un momento, di uno sparo, di un attimo di terrore, e diamola, chessò, a Chef Rubio, uno che a forza di odiare è odiato tanto. Magari è in pericolo davvero, anche se l’unico pericolo che forse può correre, è quello di trovarsi in una cucina vera a cucinare per davvero. Liliana Segre è parte delle donne, e degli uomini, (auto)eletti. Il resto s’arrangi da sé. Anche a costo di prendere seriamente due mazzate. Attendiamo, con fremiti ovunque sparsi, un impegno concretissimo della signora Segre, a cui va il rispetto del dolore storicamente vissuto e la solidarietà per l’ondata di bava famelica ricevuta da azzannanti individui, nell’estirpare anche altri fenomeni d’odio netto e cieco, contrapponendosi, con la medesima passione, a chi va augurando la morte a Matteo Salvini, agli esponenti politici o a semplici persone del mondo ideale a lei contrapposto.

La Segre dovrebbe arrabbiarsi con chi l’ha usata? Antonio Angelini il 4 novembre 2019 su Il Giornale. Liliana Segre è una donna del 1930 , Senatrice a vita. Testimone diretta dell’ olocausto degli ebrei , una delle pagine più brutte della storia assieme ad altri terribili genocidi. E’ ovvio che nessuna persona di buon senso possa non essere d’ accordo con una mozione che sia contro il razzismo o l’ antisemitismo. Se più di 90 senatori si sono astenuti (ricordiamo che al Senato della Repubblica l’ astensione equivale a voto contrario ) un motivo ci sarà. Oppure credete che ci siano un centinaio di razzisti antisemiti eletti dal popolo italiano alla camera alta? Evidentemente questa mozione per la istituzione di una commissione parlamentare contro il razzismo e l’antisemitismo contiene altro tra le righe . Anzi nasconde altro tra le righe. Così usiamo i termini giusti. Iniziamo a chiederci se davvero sia necessaria una Commissione parlamentare contro il razzismo e l’ antisemitismo? Mi pare che siano valori condivisi da tutti in parlamento e fuori. Inoltre ho letto che una altra mozione contro razzismo e antisemitismo è stata presentata nella stessa giornata da altri e bocciata dalla sinistra e 5 stelle. Perchè? Non è che per caso dietro una facciata giusta si nasconda il desiderio incolmabile di una certa classe dominante che i social , colpevoli secondo il PD di aver fatto perdere consenso ed elezioni, possano essere imbavagliati ? Quando sento contemporaneamente Marattin proporre il documento di indentità per aprire un profilo social e non chiedere invece nessun documento a chi entra in Italia da un barcone , mi viene in mente che per il PD e anche per i 5 Stelle il colpevole delle disfatte elettorali sia stato trovato. Il social media !! Al quale il cittadino ricorrre per informarsi in mancanza di una stampa e tv credibile (e lo dico con il tesserino da giornalista in tasca) . Stampa ormai sempre più sputtanata dai social media e considerata ormai dai più come arma di distrazione di massa. Pensate a quanto debbano essere incavolati i grandi burattinai : ” ma come ci abbiamo messo 20 0 30 anni ad uniformare la quasi totalità dei media al pensiero unico che ci ha permesso di portare avanti la globalizzazione (portatrice di povertà e disoccupazione nel mondo occidentale) e non abbiamo pensato che la globalizzazione ci avrebbe portato i social media che sputtanavano l’informazione tradizionale. E’ come se un virus potentissimo avesse però portato con sè l’ antivirus senza accorgersene. Analizzando la mozione scopriamo che portava con sè la lotta contro l’ odio e l’ hate Speech. Come ci racconta la rivista “left” . (ne ho presa dal web una a caso di sinistra) ”Già lo scorso anno la senatrice Segre aveva manifestato la preoccupazione per le analogie tra l’Italia fascista e quella sempre più razzista di oggi e aveva annunciato l’esigenza di creare una commissione che controllasse il crescente fenomeno dell’hate speech, sia dentro che fuori dalla rete. La Commissione conterà venticinque componenti: Liliana Segre presidente, un vice e due segretari e si occuperà di vigilare e proporre iniziative riguardo al controllo dei fenomeni di intolleranza, razzismo, istigazione all’odio e violenza basati su etnia, religione, provenienza, orientamento sessuale o identità di genere e sui discorsi d’odio, sempre più proliferanti soprattutto nel web, forme di espressioni che diffondono, incitano o giustificano l’odio di cui la stessa Segre è stata vittima”. Appare evidente che la comissione non sia per nulla una commissione parlamentare contro il razzismo , ma che si voglia mettere un bavaglio ai social media. La Segre si è prestata oppure è stata manipolata. Se vi sono insulti su social esistono leggi e tribunali, e non c’ è alcun bisogno di formare un organo (vedrete che il tentativo è quello) che tappi la bocca a chi non è d’ accordo con il pensiero unico. E scommetto che l’ organo che vorranno creare sarà di tipo INDIPENDENTE. Vedrete .. come tutte le cose indipendenti in Italia , che sono indipendenti dalla politica e quindi dipendenti dal PD e da certi poteri. Immaginate quando qualcuno racccontò che i rifugiati non erano rifugiati ma migranti economici clandestini? sarà ancora possibile una cosa del genere? oppure quando un ragazzino di 20 anni scoprì che i clandestini non venivano raccolti nel “canale di Sicilia” ma presi direttamente a poche miglia delle coste africane? Sarà ancora possibile? E quando in un manipolo tanti anni fa raccontammo che l’ Euro non era poi quella meraviglia delle meraviglie che Prodi ci aveva promesso? Con un professore (oggi Presidente della commissione Finanze) che scriveva su un blog e seguito da pochi intimi. Tutto questo sarà ancora possibile oppure quel sito sarebbe stato chiuso con la scusa di una parolaccia o di un insulto? Sarà possibile scrivere su un social o su un sito che si è contrari ad adozioni gay e a reversibilità della pensione per i gay o magari contrari ai matrimoni gay? Oppure tutto questo sarà considerato odio, omofobia etc? Ecco io se fossi la Senatrice a vita Segre e mi accorgessi di essere stata usata come scudo per scopi differenti , mi arrabbierei con la sinistra e con i suoi padroni. Perchè non dovete pensare che tutto questo sia farina del sacco di Zingaretti o Renzi o altri. Questi sono solo servi sciocchi casomai. Ed è questa la reazione che dovrebbe avere a mio avvviso la Segre. Altrimenti le conclusioni tiratele voi. Appare molto strano che una persona che così tanto ha subito dal Nazismo si presti ad aiutare chi vuole tappare la bocca ai social media con metodi da tirannia. Cito Berlusconi , non proprio uno della estrema destra, che io ho spessissimo criticato: ” la mozione della maggioranza conteneva errori tecnico-giuridici dalle conseguenze preoccupanti, prefigurando l’introduzione di nuovi reati d’opinione e quindi sovrapponendosi in modo generico e confuso a norme già esistenti”. Insomma questa sarà una commissione contro razzismo, antisemitismo oppure una commissione per mettere il bavaglio ad alcuni? Lo vedremo. E di questa commissione sentivamo davvero il bisogno? A voi i commenti.

P.S. Una cosa da fare urgentemente quando si riuscirà a votare è eliminare i Senatori a vita.

Meloni: «Ecco qual è la verità sulla mia telefonata alla senatrice Segre». Viola Longo sabato 2 novembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Giorgia Meloni torna sul tema della Commissione Segre, spiegando nuovamente le ragioni dell’astensione così volgarmente strumentalizzata dalla sinistra. E, in una diretta Facebook, spiega anche cos’ha detto davvero alla senatrice a vita, durante quella telefonata fatta “perché ne ho enorme rispetto e meritava una spiegazione diretta e personale”.

L’antisemitismo usato come pretesto. La leader di FdI nel video ripercorre, dunque, le “interpretazioni forzate” dell’astensione. E chiarisce che “noi abbiamo scelto di non votare la mozione perché la commissione è molto molto debole sulla lotta all’antisemitismo”. Questione che è stata anche oggetto di emendamento FdI. “Mai si parla di terrorismo e fondamentalismo islamico. Mai è citato lo Stato di Israele”, chiarisce Meloni, ricordando che durante le manifestazioni del 25 aprile “la Brigata ebraica viene sistematicamente cacciata, perché l’estrema sinistra è reticente verso Israele”. Del resto, la stessa mozione oggi al centro di tante polemiche, non nasce in questa legislatura. Nasce durante la precedente con il nome di Commissione Jo Cox, con la firma di Laura Boldrini.

Meloni: «Un bavaglio per chi non è di sinistra». Oggi della proposta Boldrini viene eredita in toto l’impostazione, che, ricorda Meloni, prevede che la commissione possa “segnalare all’autorità e ai social network chiunque sia responsabile di fatti di antisemitismo, e siamo tutti d’accordo, di razzismo, e siamo tutti d’accordo, ma anche chi è portatore di idee nazionaliste, etnocentriche e chi diffonde stereotipi e pregiudizi.

Dagospia il 10 novembre 2019. Da Un Giorno da Pecora. “Se mi piace la canzone Io sono Giorgia? Tantissimo, la adoro, la canticchio anche io perché ti entra in testa e non ti lascia più. E' un tormentone”. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, ha commentato il 'remix' di un suo discorso che sta impazzando sul web. La Meloni, divertita, ha anche rappato la canzone, come si può vedere dal video del suo intervento.

Massimo Rebotti per corriere.it il 10 novembre 2019. Presidente Meloni, con il senno di poi, non si è pentita dell’astensione sulla commissione promossa da Liliana Segre, a cui pochi giorni dopo è stata anche assegnata una scorta?

«No, il discorso è diverso. Quello che sta accadendo non dipende dal voto sulla commissione. La senatrice Segre non è la prima esponente della comunità ebraica a cui purtroppo viene assegnata una scorta in Europa. E nella maggior parte dei casi il problema riguarda il fondamentalismo islamico».

Non è il caso dell’Italia.

«Nel contrasto all’antisemitismo noi di FdI siamo totalmente a disposizione e non da oggi. Io per prima mi sono fatta portatrice di un pronunciamento unanime, raccogliendo una proposta di Riccardo Pacifici della comunità ebraica. E la senatrice Segre, per la quale ho un enorme rispetto, va protetta da tutta la società italiana, non ci sono divisioni su questo».

Sta di fatto che non avete votato la sua commissione e nemmeno applaudito lei in Aula.

«Su quel mancato applauso c’è stata una chiara mistificazione. Lì veniva applaudito il provvedimento e non certo la senatrice Segre, l’ho detto anche a lei quando ci siamo sentite al telefono. Il problema di quella commissione — che arriva da lontano e prima si chiamava commissione Boldrini — è che si lascia alla discrezione dei politici stabilire quali siano le parole d’odio e quali no. E questo non mi fa sentire tranquilla».

Perché?

«Perché a me, per esempio, alcuni accusano di diffondere parole d’odio. È così? Non mi pare. Ho le idee chiare, certo, ma mi sembra di esporle nel rispetto di tutti. E poi le pare possibile che in quel testo, a proposito di antisemitismo, non si citasse mai Israele? Sa perché? Perché altrimenti la sinistra radicale non l’avrebbe votato».

In Italia in questo periodo il problema riguarda prevalentemente l’estrema destra.

«Il problema dell’antisemitismo è ovunque. Nel radicalismo di sinistra, nel radicalismo islamico…».

E nel radicalismo di destra?

«Certo, esiste un residuo anche in quegli ambienti. E va combattuto».

Quando era ministra è stata allo Yad Vashem, il museo della Shoah. Ha in mente altri gesti di questo tipo?

«Io ho rapporti molto sereni con le comunità ebraiche, mi spiace anche di doverlo precisare in questi giorni».

I sindaci di FdI parteciperanno alla manifestazione del 10 dicembre a sostegno di Liliana Segre?

«Se è una manifestazione aperta, nessun problema».

Cambiando argomento. Il remix «Io sono Giorgia» ha avuto milioni di visualizzazioni sulla rete. Stupita?

«Pure le mie nipoti lo ballavano, diciamo che la cosa è sfuggita di mano…».

Partito come una critica, il video l’ha poi resa un personaggio pop. C’è un significato, secondo lei?

«È un periodo molto particolare per me. Di punto in bianco è come se il mondo si fosse accorto delle cose che dico. Persone che non ti ascoltavano, oggi lo fanno. Se finisco in un remix — anche se montato per contestare le mie idee — in fondo significa che ho qualcosa da dire, no?».

Si sente sulla cresta dell’onda? Attenzione che era successo anche a Salvini dopo il Papeete.

«Io non mi sento gratificata dalla popolarità, forse perché in fondo sono una persona timida. Ma soprattutto perché so che più persone credono in te e più responsabilità hai sulle spalle».

Ora la prendono più in considerazione anche i suoi alleati maschi?

«Beh, intanto Fratelli d’Italia è stabilmente il secondo partito della coalizione. E viene dato in crescita. La considerazione ce la siamo conquistata».

Ma lei personalmente ha dovuto faticare di più?

«Sì. È andata esattamente come diceva la sindaca di Ottawa Charlotte Whitton: “Le donne devono fare qualunque cosa due volte meglio degli uomini per venire giudicate brave la metà. Per fortuna non è difficile”».

Roberto D’Agostino per “Vanity Fair” il 26 novembre 2019. Giorgia Meloni piace per quella vaga aria da "ma vattela a pià in der culo", per dirla alla Ferilli. Con i suoi quarti di faccia tosta in primissima fila, la leader di Fratelli d’Italia ha sempre quell'espressione "impunita", a mandibola sciolta, tendenza pitbull, di chi, alla domanda: ti va di leggere un bel libro?, risponde: no, grazie, ce n'ho già uno. E se qualcuno osa dirle che è indisponente, ribatte pronta: “Ahò, se volevo essere simpatica a tutti nascevo cocaina!”. Protagonista dell'immagine vincente e fiammeggiante della "prolo-star" ruspante, apertamente vitalistica, destrorsa senza infingimenti - dice cose estreme come “Affondiamo i barconi”, “Costruiamo i muri, se servono”, “Cacceremo i rom, uno a uno” -, Giorgia ha sdoganato in politica l'immagine della gioventù "impresentabile", della periferia sommersa, telefiglia di Italia Uno e nemica di Italia Nostra, facendo naufragare le mammolette intellettuali, borghesi psicologicamente abbacchiati dal proprio benessere, insignificanti e insapori come una pastina glutinata, eccitanti come una ninna-nanna della Mannoia. Attenzione, però: coatta non per sfiga ma per sfida. E mentre a sinistra impera il fighettismo del politicamente corretto - vedi “Basta!”, l’ultimo libro della sua antagonista femminista Lilli-Botox Gruber che asfalta il potere del testosterone - ma non si vede traccia di una leader in gonnella, il paradosso vuole che nella destra conservatrice e maschilista, tutta “cazzi & cazzotti” per antonomasia, ha preso il comando di una partito questa vispa 42enne nata e (poco) cresciuta nel quartiere romano della Garbatella. E lo ha fatto spostandosi più a destra di quanto già non fosse: è infatti contraria più o meno a tutto, ai diritti degli ‘’orchi omosessuali che rubano le identità" e a “Genitore uno-Genitore due”, all'Europa e all'euro, all'accoglienza e all'integrazione dei migranti. La forza dell'intestino meloniano ha recentemente raggiunto il suo climax con il caso “Io sono Giorgia”. Tutto ha inizio quando l’influencer Tommaso Zorzi lancia una stories su Instagram con le parole omofobe urlate dalla Meloni, in Piazza San Giovanni lo scorso 19 ottobre (“Io sono Giorgia!!! Sono una donna, sono una cristiana, sono una madre e non me lo toglierete!”). Su internet lo sfottò ha subito successo ma le visualizzazioni milionarie arrivano da un remix ballerino creato da MEM & J (“Musica tamarra e trash, fatta da gente che non sa cantare. Dj quando capita”). Viralissimo, da Nord a Sud, da giovani a meno giovani: oggi se cercate con #iosonogiorgia troverete centinaia di video in cui tutti - dalle ragazze di 'Non è la Rai' a Jennifer Lopez, da Malgioglio a Madonna - ballano sulle note di questo tormentone. Anziché "partire di testa" per la presa in giro (la "craniata" è la minaccia basica dei coatti per regolare i conti con il mondo crudele), la “ducetta” de’ noantri coglie al volo l’occasione di “sposare” lo sfottò, segnalando in un suo post l’effetto di ‘’Io sono Giorgia’’ sui sondaggi di Fratelli d'Italia. Giorno dopo giorno, il tormentone trash declinato in tutti i modi dalla fantasia degli utenti dei social passa così da essere una critica contro qualsiasi forma mal-destra di discriminazione sessuale a diventare il suo inno personale. Convegni, feste di paese, Costanzo Show, apertura di pizzerie, ecco la Gigiona che sale sul palco gigionando il remix-contro. “Se mi piace la “canzone” ‘Io sono Giorgia’? Tantissimo, la adoro, la canticchio anche io perché ti entra in testa e non ti lascia più. Pure le mie nipoti la ballano! Diciamo che la cosa è sfuggita di mano”, ride felice. E Gigiona aggiunge: “Se finisco in un remix – anche se montato per contestare le mie idee – in fondo significa che ho qualcosa da dire, no?”. Una inversione a U di senso che ha fatto il miracolo di trasformarla in un personaggio pop e ha finito, a costo zero, per superare in notorietà Matteo Salvini. Come valutare questo grottesco fenomeno mediatico, da macchietta nera a idolo arcobaleno? Chi la fa, l’aspetti. E buonanotte ai suonatori…

1982, bombe in Sinagoga. «Mio figlio e il dovere  della memoria». Pubblicato domenica, 03 novembre 2019 da Fabrizio Peronaci su Corriere.it.

Signora, in queste ore la politica si divide sulla commissione contro l’antisemitismo proposta dalla senatrice Segre. Se la sente di tornare a quel giorno? Chiuda gli occhi: sono le 11.55 del 9 ottobre 1982. Cosa vede?

«Vedo tanta gente, gli amici di sempre con cui siamo appena usciti dal Tempio e soprattutto vedo i miei due bambini vestiti a festa. Bellissimi, vestiti uguali come faccio spesso. Ad un tratto tutto finisce... Capisco e grido: “Non voglio morire!” Mi arriva qualcosa in testa, cado a terra. Penso a un sasso, ma subito mi rendo conto che si tratta di una bomba a mano miracolosamente inesplosa. Ho schegge in tutto il corpo... Non sono morta nel fisico, ma moralmente, psicologicamente sì... Gran parte del mio cuore ha cessato di battere quel giorno».

Stefano Gaj Tachè, vittima del terrorismo a due anniLa signora Daniela è la mamma di Stefano Gaj Tachè, «vittima del terrorismo a soli due anni», come c’è scritto sulla targa stradale a lui intitolata, inaugurata nel 2007, nello slargo tra via del Tempio e via Catalana, al lato della Sinagoga di Roma. Quello splendido bimbetto dagli occhi grandi e nerissimi morì, con il corpicino dilaniato, nell’attentato di 37 anni fa, rimasto il più grave atto antisemita avvenuto in Italia nel secondo dopoguerra. Bombe a frammentazione e mitra alla mano, un commando di palestinesi seminò orrore e morte al termine della festa di Sukkot, dedicata dagli ebrei al ringraziamento e alla gioia interiore. Donna forte, Daniela. Ma quella ferita sanguina ancora. Suo marito Joseph partecipò ai funerali con una mano fasciata: quando un medico del Fatebenefratelli gli disse che il figlio era morto, scagliò un pugno contro la vetrata, per tentare di contenere la rabbia.

Lei non poté partecipare alle esequie del suo bambino, perché gravemente ferita, come altre 36 persone. Cos’altro ricorda?

«Dopo l’esplosione, sentii delle mani amiche che mi spingevano in una macchina. Persi conoscenza. Mi svegliai in ospedale, dove chiesi subito dei miei bambini. Riuscii a vedere la piccola bara bianca che usciva dall’ospedale, affacciandomi dal terrazzino del Fatebenefratelli. Ero controllata e tenuta fisicamente dai medici, che temevano una mia reazione».

Per due anni lo ha accudito, tenuto, in braccio, amato. Che genere di ragazzo sarebbe diventato Stefano?

«Mi hanno privato della gioia di vederlo crescere, ma sono sicura che sarebbe stato un bel ragazzo, simpatico, intelligente, generoso... Già così piccolo era portato per le lingue. Non so, forse si sarebbe laureato... Non posso sapere che lavoro avrebbe scelto, ma di certo mi avrebbe resa orgogliosa. Stefano era vita, simpatia, meraviglia. Un figlio dolcissimo».

Come sono stati i primi tempi senza il piccolo?

«Terribili. Ero una giovane madre, fiera dei suoi figli. Mi è stato tolto quanto di più caro avessi. Un gioiello di valore inestimabile... il mio piccolo».

Cosa le ha dato forza?

«La forza di andare avanti me l’ha data il primogenito, Gadiel. Le cure di cui aveva bisogno e la consapevolezza che avrei dovuto essere una madre attenta, vigile e forte».

Cosa cambiò l’attentato nella sua e nella vostra vita?

«Tutto. Ogni volta che torno nella Sinagoga rivivo quel terribile giorno. Mi guardo attorno esaminando con attenzione ogni volto che mi circonda. Provo paura, ma non smetto di andarci. Le nostre tradizioni le porto avanti. Naturalmente con Stefano sempre nella mente e nel cuore».

Gadiel, nella ricorrenza dei 30 anni, nel 2012, vinse la timidezza e parlò pubblicamente del vostro dolore, davanti al presidente Napolitano. Poi fu felice, disse, di essere riuscito ad affermare i valori della memoria e della testimonianza civile.

L’incontro del 2015 tra Gadiel Gaj Tachè, fratello di Stefano, e il presidente Sergio Mattarella «Sono fiera di quello che Gadiel ha fatto e continua a fare. Lui trovò la forza di affrontare questa storia quando si rese conto che l’opinione pubblica aveva dimenticato l’attentato alla Sinagoga. Una pagina trascurata nelle scuole e dai libri di storia, purtroppo. I giovani ignorano ciò che accadde. Gadiel si fece carico di ricordare a questo Paese che nel 1982 un bambino italiano, ancora una volta, fu ucciso nel cuore dell’Italia solo perché ebreo. L’effetto più importante dello sforzo di Gadiel fu il discorso che il presidente Sergio Mattarella fece nel suo discorso di inizio mandato».

Era il 3 febbraio 2015. Suo figlio fu l’unica vittima del terrorismo citata dal capo dello Stato.

«Ringrazio ancora il presidente. Le sue parole furono: “Era un nostro bambino, un bambino italiano”. Le custodisco nel cuore».

Qual è stato, dopo la tragedia, il suo rapporto con Roma?

«Roma è stata, è e sempre sarà la mia città. L’attentato in qualche modo ha avvicinato la comunità ebraica alla città. Non da subito, ma col tempo, il rapporto con le istituzioni romane si è rafforzato».

Il cammino verso la pace, in quasi 40 anni, ha dato risultati concreti. Sul fronte del terrorismo, passeggiando al Portico d’Ottava, dovremmo stare più tranquilli, non trova? O potrebbe accadere di nuovo?

«Ormai siamo abituati a vedere polizia e carabinieri davanti al Tempio, che controllano tutta la zona. Sarebbe bello non averne bisogno. Purtroppo l’unica volta che non furono presenti, il Tempio fu attaccato in quel modo... Quindi sì, oggi siamo più protetti. Ne approfitto per ringraziare di cuore le forze dell’ordine e i tanti padri e madri di famiglia che garantiscono la sorveglianza per spirito di volontariato. Ma purtroppo non sono così sicura che non possa accadere di nuovo. L’attenzione siamo costretti a tenerla molto alta».

Cosa pensa delle polemiche di questi giorni sulla commissione Segre?

«Pur condividendo la necessità della formazione di una commissione in tal senso, non vorrei alimentare una polemica e la strumentalizzazione di un argomento come l’antisemitismo, che dovrebbe appartenere a valori universali di tutte le forze politiche, di destra e sinistra, e della nostra democrazia».

Torni a chiudere gli occhi: che immagine le resta del piccolo Stefano?

«Un bambino felice, dolce e sorridente, a cui è stato negato di crescere nella sua famiglia, soprattutto accanto a suo fratello, con cui avrebbe potuto dividere una vita normale».

Ezio Greggio: per rispetto della Segre rifiuto la cittadinanza di Biella. Pubblicato martedì, 19 novembre 2019 da Corriere.it. «Il mio rispetto nei confronti della senatrice Liliana Segre, per tutto ciò che rappresenta, per la storia, i ricordi e il valore della memoria, mi spingono a fare un passo indietro e non poter accettare questa onorificenza che il Comune di Biella aveva pensato per me». Con queste parole Ezio Greggio, popolare conduttore di Striscia la Notizia, ha rifiutato la cittadinanza onoraria di Biella, dopo le polemiche da parte del Pd legate alla circostanza che una settimana fa era stata bocciata la richiesta di dare la cittadinanza onoraria a Liliana Segre. «Non è una scelta contro nessuno - spiega Greggio -, ma una scelta a favore di qualcuno, anche per coerenza e rispetto a quelli che sono i miei valori, la storia della mia famiglia e a mio padre che ha trascorso diversi anni nei campi di concentramento». L’amministrazione leghista di Biella, guidata dal sindaco Claudio Corradino, aveva deciso di offrire il riconoscimento a Greggio in nome della sua carriera, dell’impegno rivolto al sociale e del forte legame mantenuto con la città natale, Cossato (in provincia di Biella). «Si conferisce a Ezio Greggio — è il testo — il titolo di Cittadino Onorario per la popolarità televisiva come conduttore, giornalista, attore e regista; per il suo costante impegno attraverso l’associazione “Ezio Greggio per i bambini prematuri”; per aver contribuito a diffondere in Italia e nel mondo il nome di Biella». Il primo cittadino aveva previsto di conferire il riconoscimento a Greggio il prossimo 23 novembre, dopo l’approvazione ricevuta dalla giunta di centrodestra. Perché la stessa giunta aveva rifiutato l’onorificenza a Segre, invece? La mozione delle liste civiche «Buongiorno Biella» e «Le persone al centro» che chiedeva di conferire la cittadinanza onoraria alla senatrice a vita, «testimone della tragedia dell’Olocausto e interprete dei valori di giustizia e di pace tra gli esseri umani» — da poche settimane sotto scorta — era stata accolta in modo favorevole da Movimento 5 Stelle e Forza Italia. A bocciarla erano stati, invece, Lega e Fratelli d’Italia, definendola «strumentale». «Nulla contro la senatrice Segre — aveva chiarito Alessio Ercoli, capogruppo della Lega — : la mozione presentata credo sia avvilente nei suoi confronti. Biella lo sta facendo solo sull’inutile onda del consenso».

Ezio Greggio: «Mio padre Nereo e i suoi 3 anni nel lager. Rifiuto la cittadinanza da chi la nega alla Segre». Pubblicato mercoledì, 20 novembre 2019 su Corriere.it da Elvira Serra. Il conduttore ha rifiutato la cittadinanza onoraria per rispetto verso la senatrice Liliana Segre, cui la giunta l’aveva negata. Doveva essere una notizia bella. «Il sindaco di Biella Claudio Corradino e la sua giunta conferiranno sabato 23 novembre la cittadinanza onoraria al conduttore tv Ezio Greggio». E poco importa che Cossato, il paese dove il conduttore di Striscia la Notizia è nato il 7 aprile 1954, ai tempi fosse provincia di Vercelli. La cosa bella erano le motivazioni, peraltro meritate: «Per la popolarità televisiva come conduttore, giornalista, attore e regista; per il suo costante impegno con l’associazione dedicata ai bambini prematuri; per aver contribuito a diffondere in Italia e nel mondo il nome di Biella». Meno bello è che una settimana fa la stessa cittadinanza sia stata negata alla senatrice a vita Liliana Segre, perché giudicata «strumentale». «Nulla contro la senatrice Segre — aveva spiegato Alessio Ercoli, capogruppo della Lega, lo stesso partito del sindaco —: la mozione presentata credo sia avvilente nei suoi stessi confronti. Biella lo sta facendo solo sull’inutile onda del consenso». Ne è nato subito un caso, al quale Ezio Greggio ha scelto di replicare rifiutando il riconoscimento e prendendo le distanze da una polemica che non gli poteva essere più estranea, per storia personale e familiare. «Il mio rispetto nei confronti della senatrice Liliana Segre, per tutto ciò che rappresenta, per la storia, i ricordi e il valore della memoria, mi spingono a fare un passo indietro e non poter accettare questa onorificenza che il Comune di Biella aveva pensato per me», ha fatto sapere ieri sera. Aggiungendo che «non è una scelta contro nessuno, ma una scelta a favore di qualcuno, anche per coerenza e rispetto a quelli che sono i miei valori, la storia della mia famiglia e a mio padre che ha trascorso diversi anni nei campi di concentramento». Il papà Nereo, scomparso nel gennaio del 2018 a 95 anni, è sempre stato un motore e un faro nella vita del conduttore, attore e regista. Di lui una volta raccontò: «Soldato in Grecia durante la Seconda Guerra Mondiale, si rifiutò di tornare in Italia per combattere contro i partigiani, tra i quali c’erano i suoi parenti. E fu internato per oltre tre anni in un campo di concentramento in Germania». Diceva che aveva avuto una vita cinematografica, soprattutto in gioventù, e di aver imparato da lui tutto, anche l’ironia, perché l’umorismo lo aveva accompagnato fino all’ultimo giorno. Il conduttore salutava il padre alla fine di ogni puntata di Striscia chiamandolo «Nereus». E solo dopo qualche tempo aveva spiegato ai telespettatori chi fosse quel Nereo a cui deve il secondo nome: era suo padre. Naturalmente il botta e risposta tra centrosinistra e centrodestra è volato sopra la testa di Greggio, che trovandosi in mezzo a una polemica surreale ha voluto prendere subito le distanze, con una dichiarazione composta, ma definitiva. Perché l’idea che si negasse la cittadinanza a Liliana Segre deve essere stata «incredibile» anche per lui e non solo per la sottosegretaria all’Istruzione Lucia Azzolina (Movimento 5 Stelle), che però ha messo in mezzo l’attore: «Incredibile. Il sindaco di Biella nega la cittadinanza a Liliana Segre, sopravvissuta all’Olocausto, ma non esita a darla in pompa magna, con festante annuncio sul sito istituzionale, a Ezio Greggio. Senza nulla togliergli, si fa fatica a capire perché a lui sì e alla Segre no. Il senso delle istituzioni avrebbe imposto altre scelte». È difficile trovare il lato positivo, adesso, provare a smorzare con una battuta, che è quello che fa ogni giorno Greggio davanti a milioni di telespettatori nel nome del padre dal quale ha ereditato «il dono della battuta». Non è diventato bancario, come volevano papà Nereo, direttore di un’azienda tessile, e mamma Luciana, che lavorava assieme a lui. Ma non ha dimenticato la loro lezione di Storia.

Segre, il sindaco di Biella: "Ha subito quello che ha subito 70 anni fa..." Claudio Corradino spiega: "Tutto quello che c'è dietro non mi piace. C'è gente che vuole approfittare delle sofferenze che la signora ha subito". Luca Sablone, Mercoledì 20/11/2019 su Il Giornale. Non si placano le polemiche sul caso Ezio Greggio, che ha rifiutato la cittadinanza onoraria - concessa dalla giunta comunale di Biella - per rispetto nei confronti di Liliana Segre. Il conduttore televisivo ha così spiegato la sua scelta: "Il mio rispetto nei confronti della senatrice a vita per tutto ciò che rappresenta, per la storia, i ricordi e il valore della memoria, mi spingono a fare un passo indietro e non poter accettare questa onorificenza che il Comune di Biella aveva pensato per me". Ma anche verso suo padre "che ha trascorso diversi anni nei campi di concentramento". E ha tenuto a precisare: "Non è una scelta contro nessuno, ma una scelta a favore di qualcuno, anche per coerenza e rispetto a quelli che sono i miei valori". Tra le motivazioni della scelta del Comune soprattutto quella del profondo legame dell'attore con la città natale, Cossato: "Si conferisce a Ezio Greggio il titolo di cittadino onorario per la popolarità televisiva come conduttore, giornalista, attore e regista; per il suo costante impegno attraverso l'associazione "Ezio Greggio per i bambini prematuri"; per aver contribuito a diffondere in Italia e nel mondo il nome di Biella". "Segre strumentalizzata". Il sindaco della città piemontese ha commentato il rifiuto da parte del giornalista: "Non mi ha fatto piacere. È meglio che non parli con Greggio, ha mandato un comunicato ai giornali, io avrei preferito una condivisione. Ma ha fatto quello che era giusto fare, io stesso sarei stato per un rinvio". Claudio Corradino è poi duramente intervenuto su Liliana Segre: "Voglio dire che si tira fuori la signora adesso, evidentemente, perché c'è un tentativo di minare la libertà di espressione. Ma la signora ha subito quello che ha subito 70 anni fa...". E ha fatto riferimento alla commissione Segre: "Il fatto di voler censurare alcune espressioni a me fa pensare al peggior maccartismo". "Tutto l'impianto che c'è dietro la signora non mi piace. C'è gente che vuole approfittare delle sofferenze che la signora ha subito", ha aggiunto. Il primo cittadino di Biella, ai microfoni di Radio Capital, è tornato infine sulla questione: "Sono state messe insieme due cose che non c'entravano niente tra loro. È stato un mio errore di comunicazione. La cittadinanza si dà se c'è un riferimento alla città".

Elena Tebano per corriere.it il 21 novembre 2019. Roger Hallam, co-fondatore del movimento ambientalista radicale Extinction Rebellion, le cui proteste contro i cambiamenti climatici nei mesi scorsi hanno paralizzato Londra, in un’intervista al settimanale Zeit ha criticato l’atteggiamento tedesco nei confronti dell’Olocausto. «La portata di questo trauma può essere paralizzante», e «questo ci impedisce di imparare da esso», ha detto. Hallam, ex agricoltore bio diventato attivista a tempo pieno, ha criticato anche l’idea che l’Olocausto sia un evento eccezionale: «È un fatto che milioni di persone nella nostra storia sono state regolarmente uccise in circostanze terribili», ha affermato il 52enne britannico. «I belgi sono venuti in Congo alla fine del XIX secolo e l’hanno decimato». Per questo, «a voler essere onesti» — ha aggiunto — «si potrebbe dire che è un evento quasi normale» e «solo un’altra stronzata nella storia dell’umanità». Affermazioni che riecheggiano quelle dell’estrema destra tedesca accusata di negazionismo, che attacca abitualmente contro quella che definisce la «cultura del senso di colpa» dei tedeschi, ovvero contro la memoria dei crimini commessi dal nazismo. L’anno scorso Björn Höcke, il leader di Afd in Turingia, era stato accusato di antisemitismo dopo che aveva fatto affermazioni simili. «Questa stupida politica di confrontarci con il passato ci paralizza - non abbiamo bisogno di nient’altro che di un’inversione di 180 gradi sulla politica della memoria» aveva detto. Hallam, che a settembre è stato arrestato due volte in pochi giorni ed è rimasto in carcere sei settimane per aver tentato di far volare un drone all’areoporto di Heathrow, con l’obiettivo di fermare il traffico aereo, è stato subito criticato, anche dai suoi sostenitori tedeschi. La casa editrice Ullstein ha annullato la pubblicazione del libro dell’ambientalista Common Sense - The Nonviolent Rebellion against Catastrophe and for the Survival of Humanity («Senso comune . La ribellione non violenta contro la catastrofe per la sopravvivenza dell’umanità») prevista per martedì 26 novembre. «Le edizioni Ullstein si distanziano in ogni modo possibile dalle affermazioni di Roger Hallam. La distribuzione del libro è stata fermata con effetto immediato» ha dichiarato l’editore. Il ministro degli esteri Heiko Maas è intervenuto con un Tweet: «L’Olocausto è più di un milione di morti e metodi crudeli di tortura. Uccidere e sterminare gli ebrei a livello industriale è inumano. Dobbiamo sempre essere consapevoli di questo, in modo da poter garantire: mai più», ha scritto. Le affermazioni di Hallam sono state infine condannate anche da Extinction Rebellion Germany , che le ha definite «banalizzanti e relativizzanti dell’Olocausto» e ha fatto sapere che Hallam non è più il benvenuto del movimento in Germania.

Elvira Serra per corriere.it il 20 novembre 2019. Doveva essere una notizia bella. «Il sindaco di Biella Claudio Corradino e la sua giunta conferiranno sabato 23 novembre la cittadinanza onoraria al conduttore tv Ezio Greggio». E poco importa che Cossato, il paese dove il conduttore di Striscia la Notizia è nato il 7 aprile 1954, ai tempi fosse provincia di Vercelli. La cosa bella erano le motivazioni, peraltro meritate: «Per la popolarità televisiva come conduttore, giornalista, attore e regista; per il suo costante impegno con l’associazione dedicata ai bambini prematuri; per aver contribuito a diffondere in Italia e nel mondo il nome di Biella». Meno bello è che una settimana fa la stessa cittadinanza sia stata negata alla senatrice a vita Liliana Segre, perché giudicata «strumentale». «Nulla contro la senatrice Segre — aveva spiegato Alessio Ercoli, capogruppo della Lega, lo stesso partito del sindaco —: la mozione presentata credo sia avvilente nei suoi stessi confronti. Biella lo sta facendo solo sull’inutile onda del consenso».

La scelta di Greggio. Ne è nato subito un caso, al quale Ezio Greggio ha scelto di replicare rifiutando il riconoscimento e prendendo le distanze da una polemica che non gli poteva essere più estranea, per storia personale e familiare. «Il mio rispetto nei confronti della senatrice Liliana Segre, per tutto ciò che rappresenta, per la storia, i ricordi e il valore della memoria, mi spingono a fare un passo indietro e non poter accettare questa onorificenza che il Comune di Biella aveva pensato per me», ha fatto sapere ieri sera. Aggiungendo che «non è una scelta contro nessuno, ma una scelta a favore di qualcuno, anche per coerenza e rispetto a quelli che sono i miei valori, la storia della mia famiglia e a mio padre che ha trascorso diversi anni nei campi di concentramento». Il papà Nereo, scomparso nel gennaio del 2018 a 95 anni, è sempre stato un motore e un faro nella vita del conduttore, attore e regista. Di lui una volta raccontò: «Soldato in Grecia durante la Seconda Guerra Mondiale, si rifiutò di tornare in Italia per combattere contro i partigiani, tra i quali c’erano i suoi parenti. E fu internato per oltre tre anni in un campo di concentramento in Germania». Diceva che aveva avuto una vita cinematografica, soprattutto in gioventù, e di aver imparato da lui tutto, anche l’ironia, perché l’umorismo lo aveva accompagnato fino all’ultimo giorno. Il conduttore salutava il padre alla fine di ogni puntata di Striscia chiamandolo «Nereus». E solo dopo qualche tempo aveva spiegato ai telespettatori chi fosse quel Nereo a cui deve il secondo nome: era suo padre.

La lezione dei genitori. Naturalmente il botta e risposta tra centrosinistra e centrodestra è volato sopra la testa di Greggio, che trovandosi in mezzo a una polemica surreale ha voluto prendere subito le distanze, con una dichiarazione composta, ma definitiva. Perché l’idea che si negasse la cittadinanza a Liliana Segre deve essere stata «incredibile» anche per lui e non solo per la sottosegretaria all’Istruzione Lucia Azzolina (Movimento 5 Stelle), che però ha messo in mezzo l’attore: «Incredibile. Il sindaco di Biella nega la cittadinanza a Liliana Segre, sopravvissuta all’Olocausto, ma non esita a darla in pompa magna, con festante annuncio sul sito istituzionale, a Ezio Greggio. Senza nulla togliergli, si fa fatica a capire perché a lui sì e alla Segre no. Il senso delle istituzioni avrebbe imposto altre scelte». È difficile trovare il lato positivo, adesso, provare a smorzare con una battuta, che è quello che fa ogni giorno Greggio davanti a milioni di telespettatori nel nome del padre dal quale ha ereditato «il dono della battuta». Non è diventato bancario, come volevano papà Nereo, direttore di un’azienda tessile, e mamma Luciana, che lavorava assieme a lui. Ma non ha dimenticato la loro lezione di Storia.

Liliana Segre, il sindaco di Biella si scusa: «Sono stato cretino, lei è un patrimonio dell’umanità. Pubblicato mercoledì, 20 novembre 2019 da Corriere.it. «Io sono stato un cretino, lo ammetto, e chiedo scusa alla Segre e a Greggio, però su questa cosa è stata fatta una speculazione indegna da parte di tutti quanti e mi dispiace. Il risultato è stato negativo, ingiustamente. Una grandissima sciocchezza che è diventata una cosa nazionale. La signora Segre non ha bisogno che arrivi il sindaco di Biella a darle la cittadinanza, è un patrimonio dell’umanità e le chiedo ancora scusa. L’ho invitata anche a Biella per la Giornata della Memoria e non c’è nulla contro di lei». Queste le parole pronunciate dal sindaco di Biella Claudio Corradino ai microfoni di “Stasera Italia”, in onda questa sera alle ore 20.30 su Retequattro, in merito alla polemica scoppiata per l’attribuzione della cittadinanza onoraria a Ezio Greggio, da lui rifiutata perché solo una settimana prima era invece stata negata alla senatrice Liliana Segre. 

Perché Sesto San Giovanni, medaglia alla Resistenza, ha negato la cittadinanza onoraria a Liliana Segre. Pubblicato mercoledì, 20 novembre 2019 da Corriere.it. Non è passato in consiglio comunale a Sesto San Giovanni, martedì sera, l’ordine del giorno presentato dal Movimento 5 Stelle per avviare l’iter per la cittadinanza onoraria alla senatrice a vita Liliana Segre. Per il sindaco Roberto Di Stefano (Forza Italia) «Liliana Segre non ha a che fare con la storia della nostra città e darle la cittadinanza sarebbe svilente per lei perché è una strumentalizzazione politica. La inviterò personalmente il 27 gennaio». Come spiega il capogruppo M5S, Vincenzo Di Cristo, «la maggioranza ha bocciato compatta la manifestazione di intenti presentata dal sottoscritto anche a nome di tutta l’opposizione. Il sindaco ha detto che la manifestazione era fatta al solo scopo strumentale. E ovviamente i consiglieri di maggioranza hanno ubbidito compatti, quasi fossero bravi soldatini, compresi i rappresentanti dei “civici” ed alcuni ex o attuali CL», scrive in un post. «Asserire che Liliana Segre non ha alcun legame con Sesto San Giovanni è ridicolo», scrive la consigliera Mari Pagani del Pd. «La Senatrice è iscritta all’Aned, associazione degli ex deportati, attiva sul nostro territorio dagli anni Cinquanta e organizzatrice ogni anno di un partecipatissimo viaggio nei lager con la presenza dell’Istituzione e del labaro comunale insieme a molti istituti scolastici e cittadini. La nostra città è stata insignita orgogliosamente della Medaglia d’Oro alla Resistenza e che la Resistenza non abbia nulla a che fare con la deportazione e con la dittatura nazifascista che imprigionò la Senatrice a Auschwitz è un azzardo troppo ardito anche per il nostro Sindaco. Per ultimo Sesto San Giovanni sino ad ora è sempre stata solidale nei confronti di chiunque subisca discriminazione, aggressioni e insulti violenti. E questo ha molto a che fare con l’idea di inclusione, di confronto e di pace che ha caratterizzato la nostra comunità cittadina. A questo punto ci viene quasi da dire “Senatrice, dovessero invitarla, lasci perdere. Il Sindaco Roberto Di Stefano dice che qui lei è un’estranea”. Pensare che noi del Partito Democratico credevamo che, famosa in tutto il mondo, lei fosse una delle madri della nostra Costituzione». Nella nota del Pd si ricorda anche che «l’Istituto Cervi non ha più ricevuto il contributo annuale a sostegno delle sue attività perché “estraneo alla storia della nostra città” anche se incredibilmente Casapound ha ricevuto in affitto un luogo della nostra città». 

(LaPresse il 21 novembre 2019) - "Io sono stato un cretino, lo ammetto, e chiedo scusa alla Segre e a Greggio, però su questa cosa è stata fatta una speculazione indegna da parte di tutti quanti e mi dispiace. Il risultato è stato negativo, ingiustamente. Una grandissima sciocchezza che è diventata una cosa nazionale. La Signora Segre non ha bisogno che arrivi il Sindaco di Biella a darle la cittadinanza, è un “patrimonio dell’umanità” e le chiedo ancora scusa. L’ho invitata anche a Biella per la Giornata della Memoria e non c’è nulla contro di lei". Queste le parole pronunciate dal sindaco di Biella Claudio Corradino ai microfoni di 'Stasera Italia' - in onda questa sera alle ore 20.30 su Retequattro - in merito alla polemica scoppiata per l’attribuzione della cittadinanza onoraria a Ezio Greggio, da lui rifiutata perché solo una settimana prima era invece stata negata alla senatrice Liliana Segre.

Biella, sindaco indagato  per peculato: usava l’automobile comunale fuori dall’orario di lavoro. Pubblicato sabato, 07 dicembre 2019 da Corriere.it. Nuovi guai per Claudio Corradino, sindaco di Biella. Il primo cittadino è indagato per peculato. L’indagine della Procura della Repubblica di Biella è legata all’uso privato dell’automobile comunale in orario fuori di lavoro. A far partire l’indagine, due consiglieri comunali, avversari del sindaco leghista: Stefano Revello e Roberto Tomat, di Cossato. Già in passato avevano sollevato il caso dell’uso improprio da parte dell’amministratore di mezzi comunali. Per questo giovedì scorso Corradino è stato convocato al terzo piano del tribunale, accompagnato dal suo avvocato, Carlo Boggio Marzet. Ad ascoltarlo il Procuratore capo, Teresa Angela Camelio.

Presente al colloquio anche il luogotenente dei carabinieri della sezione di polizia giudiziaria, Tindaro Gullo, a cui sono stati affidati una serie di rilievi. L’accusa è quella di aver utilizzato fuori dagli orari di servizio mezzi dell’amministrazione. Fatti in parte avvenuti la scorsa estate ma non legati solo a questo mandato nella città di Biella. Gli episodi si erano già verificati, secondo quando contestato dalla Procura, quando era sindaco di Cossato, incarico ricoperto per 10 anni. A provare gli usi impropri anche una serie di fotografie e di documentazioni video in cui si vede la Bmw di colore blu scuro, in luoghi non istituzionali ed in orari non legati al ruolo di sindaco. Nuovi problemi quindi per il primo cittadino già nella bufera nelle scorse settimane per la cittadinanza onoraria negata alla senatrice a vita Liliana Segre e poi offerta allo showman Ezio Greggio.

Dagospia il 21 novembre 2019. Da “la Zanzara - Radio 24”. Joe Formaggio (Sindaco di Albettone, Fratelli d’Italia) a La Zanzara su Radio 24: “Cittadinanza alla Segre? Nel mio comune noi, la darei alla Mussolini”. “Ho proposto di intitolare una via a Ciano, che fu un fascista buono”. “Figli gay? Impossibile che accada, mi dispiacerebbe”. “Meglio gay che comunisti”. Poi annuncia di aver “deveganizzato” il suo ristorante e mangia le sardine con Cruciani: “Sono buone solo così, cucinate”. “Cittadinanza onoraria a Liliana Segre? Ma assolutamente no. Perché non c’entra niente col mio territorio”. E a chi la daresti, a uno che si chiama Mussolini in onore del Duce?: “Sì, perchè no? Alessandra Mussolini la conosco, è una persona simpatica, mi piace moltissimo, il mio consiglio comunale di sicuro approverebbe e quindi potrebbe essere cittadina onoraria di Albettone”. ”Io personalmente - dice ancora Formaggio - ho fatto la proposta di intitolare una via a Galeazzo Ciano, che tutto sommato è quello che ha fatto crollare il fascismo, il fascismo brutto della guerra. Era un grande esponente del fascismo bello che ha costruito tante cose in Italia. Ciano è stato ucciso dai fascisti”. Ma non esistono i fascisti buoni e quelli meno buoni, dice Parenzo: “? Ma chi ve l’ha detto? Esistono comunisti buoni? Si? Allora esistono anche i fascisti buoni. E il comunismo ha fatto molti morti in più rispetto al fascismo”. Poi o fa vedere una targa che metterà dentro il suo locale ad Albettone: “Ristorante deveganizzato”: “Non serviamo cibi vegani. I vegani mangino quello che vogliono, ma non rompano i coglioni a noi”. Ma è peggio essere comunisti o vegani secondo te?: “Sono una roba brutta entrambe. Ma comunisti è senz’altro peggio. Con tutto l’odio che ho per i vegani”. Cosa pensano i tuoi figli del Duce?: “Io li sto tirando su con idee di destra, nel senso della proprietà privata, del lavoro, di alzarsi presto la mattina, l’unità familiare, che un bambino deve andare con una bambina”. E se fossero gay?: “No, è impossibile. Però meglio gay che comunisti”. Essere gay è una disgrazia?: “Insomma, non aprirei una bottiglia di champagne...mi dispiacerebbe un po’. Ma meglio gay che comunista, sicuramente”. Se si può usare tranquillamente la parola frocio?: “Ma si che si può usare. Io ho degli amici gay che dicono tranquillamente: sono un frocio. Detto da loro ha un senso. Come li chiamo io? Finocchi? No, culattoni. Però non lo dico in pubblico. Lo dico quando sono con gli amici”.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 21 novembre 2019. Diciamoci la verità: se un qualunque intellettuale sussiegoso avesse rifiutato una cittadinanza onoraria perché precedentemente negata a un' anziana signora scampata all' Olocausto, nessuno si sarebbe stupito. Anzi, qualcuno ne avrebbe tratto pretesto per l'ennesima disputa ideologica. Invece a compiere la rinuncia è stato un comico, Ezio Greggio, e la vicenda ha subito assunto un tono diverso, persino sorprendente. Ovunque, ma in particolare da noi, le persone che sanno prendersi in giro non vengono prese sul serio. Puoi dire o fare la cosa più profonda del mondo, ma per essere considerato profondo devi aggrottare la fronte e atteggiare il volto a un' espressione che trasmetta gravità e senso di superiorità. Quelli come Greggio, faccia furba e lingua svelta, non sono ritenuti credibili. Alla corte dei tromboni, il comico deve accontentarsi di essere un apostrofo di distrazione tra le parole «m' annoio». Soltanto Shakespeare osava mettere in bocca al «fool» le frasi più importanti della tragedia, e per questo veniva contestato dai critici snob, che a differenza sua non erano geni. Greggio, il battutista Greggio, ha usato un gesto semplice per ricordarci una cosa semplice: il figlio di un soldato italiano internato dai nazisti non può accettare un riconoscimento che è stato negato a una persona, Liliana Segre, che ha condiviso quello stesso destino. Lo ha fatto senza polemiche, con l' aria di chi non vuole impartire lezioni a nessuno, e così ha finito per darne una a tutti.

Giorgio Gandola per “la Verità” il 21 novembre 2019. Il partigiano Ezio. La querelle di Cuneo sarebbe certamente piaciuta a Giorgio Bocca, che nella «segreta e dura provincia» era nato e aveva sviluppato fra sangue e neve la sua spina dorsale «antifa», narrata in quel capolavoro letterario dal titolo, appunto, Il Provinciale. Il no di Greggio alla cittadinanza onoraria, quel rifiuto «al Comune che ha negato la stessa onorificenza a Liliana Segre», diventa improvvisamente un lasciapassare etico. E trasforma un piccolo reprobo postberlusconiano (così era considerato dal progressismo impegnato), nell' ennesimo eroe feriale della sinistra in cerca di volti per il suo casting della biodiversità morale. «Biella ciao» canta lui per motivi famigliari. E spiega che proprio non poteva accettare l' onorificenza dalle mani del sindaco leghista Claudio Corradino al posto della reduce da Auschwitz «perché mio padre Nereo fu internato per oltre tre anni in un campo di concentramento in Germania. Soldato in Grecia durante la Seconda guerra mondiale, dopo l' armistizio si rifiutò di tornare in Italia per combattere contro i partigiani, tra i quali c'erano i suoi parenti». Il Nereus che ha salutato alla fine di Striscia la notizia, ogni sera per 4.000 puntate, era lui. Greggio è felpato nell'argomentare e la sua motivazione è nobile: «Il mio rispetto nei confronti della senatrice Segre per tutto ciò che rappresenta, per la storia, i ricordi e il valore della memoria, mi spingono a fare un passo indietro». Avrebbe volentieri evitato il caso a senso unico scoppiato sui social, dove la sua retromarcia è stata cavalcata da chi conosce solo il rosso e il nero. La ricostruzione della vicenda è perfino elementare. L'amministrazione aveva ricevuto la scorsa settimana la mozione di due liste civiche per la cittadinanza onoraria a Liliana Segre e l'aveva rigettata con doppia motivazione: arrivava sull' onda delle strumentalizzazioni nazionali e riguardava una personalità che mai aveva avuto un rapporto con il territorio. In seguito si era deciso di attribuire l' onorificenza a Greggio, nato a Cossato (che nel 1954 faceva parte della provincia di Vercelli), ma a tutti gli effetti enfant du pays per legami famigliari e perché aveva cominciato come cabarettista a Tele Biella, la prima emittente privata locale italiana. Ezio Greggio aveva accettato la cittadinanza onoraria e aveva pianificato una serie di iniziative nel Biellese per questo fine settimana. La motivazione lo lusingava: «Per la popolarità come conduttore Tv, giornalista, attore, regista; per il costante impegno con l' associazione dedicata ai bambini nati prematuri; per aver contribuito a diffondere in Italia e nel mondo il nome di Biella». Poi su Facebook il segretario regionale del Pd, Paolo Furia, ha scatenato l' inferno mettendo in contrapposizione i due personaggi, parlando di «tempistica da brivido» e di «ridicola provocazione». Frase che lascia trasparire il solito retropensiero snob nei confronti dello storico conduttore di Striscia. Il quale, travolto dalla surreale canea, ha deciso di farsi da parte. Niente onorificenza. In cambio, quella stessa sinistra che fino a ieri lo definiva un personaggio di serie B - il totem del berlusconismo più deteriore, uno degli untori che partendo da Drive In in smoking bianco hanno corrotto il popolo ingenuo con le televisioni del Cavaliere -, ora lo addita ad esempio di rettitudine morale a prova di depravazioni salviniane. Non era un eroe quando girava Il silenzio dei prosciutti e non lo è adesso, Greggio lo sa. Perché ricorda cosa scriveva, per esempio La Repubblica, quando era solo un servitore del male su Canale 5 e Italia Uno. «Il conformismo delle risate in scatola», «un luogo dove non serve la giustizia a riparare i torti, ma la furbizia o al massimo il Gabibbo». C'era anche Greggio nella foto ricordo del Vanzina World (con Christian De Sica, Massimo Boldi, Lorella Cuccarini, le veline di turno) che i dem aborrivano per malintesa superiorità culturale mentre si addormentavano davanti ai film di Sharunas Bartas e Theo Angelopoulos. Allora non si poteva pensarla se non come il sociologo Massimiliano Panarari nel suo L'egemomia sottoculturale. L' Italia da Gramsci al gossip. Dove la sottocultura era rappresentata anche da quel Greggio, massacrato perché abitava a Montecarlo e giustamente criticato per le sue vicissitudini con l' Agenzia delle entrate. Adesso lo yuppie ha fatto il gesto giusto, quindi è redento. Jerry Calà, che l' estate scorsa ha osato dire che «se non sei di sinistra nel cinema non lavori», a differenza sua è rimasto un paria. Ancora per qualche ora Ezio Greggio sarà equiparato a Gianmaria Volonté, poi anche il suo tempo scadrà perché il riflesso condizionato del plaudente democratico ha sempre bisogno di nuovi stimoli. Un po' come le sardine. Ed è già in arrivo un' altra icona da adottare, Jesus Joachin Fernandez detto Suso, che ha risposto alle critiche di Matteo Salvini con la frase: «Pensa al Paese». È un calciatore del Milan, uno degli ultimi acquisti dell' era Berlusconi. Nelle ossessioni della sinistra, sotto sotto c'è sempre il Cavaliere.

Parolin incontra Liliana Segre: "Colpito dall'odio che la circonda". Il rettore Franco Anelli, Liliana Segre e il cardinale Parolin. Il cardinale vede la senatrice a margine dell'inaugurazione dell'anno accademico dell'università Cattolica di Milano: “L’educazione alla pace è uno dei compiti fondamentali che oggi sono richiesti soprattutto nella nostra Europa". Paolo Rodari il 29 novembre 2019 su La Repubblica. Dice di essere rimasto “colpito” perché sa che “è circondata da molto odio”. Il cardinale Pietro Parolin lascia l’Università Cattolica di Milano dopo un pranzo con Liliana Segre e manifesta tutta la sua preoccupazione per quanto capitato nelle ultime settimane alla senatrice a vita. Un tavolo della cripta dell’Aula Magna è stato appositamente apparecchiato ieri, dopo l’inaugurazione dell’ateneo. Tra una portata e l’altra, Parolin dialoga a tu per tu per un’ora abbondante con Segre, dopo aver fatto sapere che la presenza della senatrice era molto gradita. A conti fatti, si tratta di un primo discreto ma importante gesto di ascolto e di appoggio a Segre da parte del Vaticano. L’incontro ha avuto luogo settimane dopo l’astensione del centrodestra alla Commissione sull’antisemitismo, dopo i virulenti attacchi sui social e la decisone di dare una scorta alla stessa senatrice a vita. Da parte vaticana c’era timore che un incontro entrasse nel gioco delle contrapposizioni politiche così inviso nelle sacre mura. Che si volesse insomma tirare il Vaticano da una parte o dall’altra delle fazioni in gioco. Parolin ascolta il racconto che Segre fa della sua vita, la deportazione durante la Shoah fino agli ultimi dolorosi avvenimenti accadutegli. E’ più lei a parlare che lui. Lui domanda, Segre racconta. Al tavolo c’è anche l’arcivescovo di Milano Mario Delpini, il rettore della Cattolica Franco Anelli che poco prima nell’Aula Magna dice di come “il ruolo delle università” sia quello “di rendere possibile il dialogo con le identità altre”, per superare la reciproca accusa di “barbarie”. Anche Parolin insiste sull’università quale ruolo di riscatto e rinascita: “L’educazione alla pace – dice – è uno dei compiti fondamentali che oggi sono richiesti soprattutto nella nostra Europa, dove da tanti anni ormai si sperimenta una situazione se non di pace, perché la pace è un concetto molto più ampio, ma almeno di assenza di guerre e di conflitti”. E ancora: “La tentazione è sempre quella di dimenticare che bisogna lavorare per costruire la pace e che la pace non viene mai data automaticamente, ma è sempre un frutto di Dio per noi credenti ma anche l'impegno di ciascuno per creare le condizioni che possono mantenerla. Questo è fondamentale per i giovani, educarli a questo impegno e a questo sforzo continuo”. Il Papa non ha ancora incontrato Segre dopo gli attacchi che la donna ha subìto. Ma l’incontro con Parolin potrebbe aprire la porta a un successivo incontro con Francesco, anche se nulla ancora sembra essere deciso. Bergoglio, indirettamente, ha parlato delle minacce subite da Segre due settimane fa, intervenendo a braccio durante un’udienza generale del mercoledì: “Oggi incomincia a rinascere qua e là l’abitudine di perseguitare gli ebrei”, ha detto. E ancora: “Fratelli e sorelle, questo non è né umano né cristiano. Gli ebrei sono fratelli nostri! E non vanno perseguitati. Capito?”. Uscendo dall’Aula Magna è ancora Parolin, alludendo agli attacchi di cui Segre è oggetto, a mostrare allo storico Agostino Giovagnoli, anch’egli presente, apprezzamento per i cattolici che si fanno carico della memoria della Shoah in un momento in cui gli ebrei sentono l’isolamento.

Liliana Segre: «Sono pronta a guidare la commissione contro l’odio». Pubblicato venerdì, 22 novembre 2019 su Corriere.it da Alessia Rastelli. La senatrice: «Sono pronta a guidare la commissione anti-odio». L’incontro con Salvini? «Parlarsi è un fatto normale». «La tentazione di abbandonare il campo ogni tanto si affaccia. Se a quasi 90 anni finisci bersagliata da insulti, sotto scorta, senza più la vita semplice e riservata di prima, credo sia normale chiedersi “ma chi me l’ha fatto fare?”. Però dura poco, non sono una che si arrende facilmente».

Quindi, senatrice Segre, sarà presidente della Commissione contro l’odio, nata su sua iniziativa?

«Se me la propongono, sono dell’idea di dire sì. Sono stata in dubbio e certo il calendario degli anni non va indietro. Ma io credo in questa Commissione, dunque spero di reggere».

L’astensione del centrodestra proprio sulla «sua» Commissione lo scorso 30 ottobre. E poi lo striscione di Forza Nuova apparso a Milano vicino al teatro in cui stava parlando, l’assegnazione della scorta, i messaggi d’odio e le polemiche di chi li mette in dubbio, l’incontro con Matteo Salvini trapelato anche se sarebbe dovuto restare riservato. Sono state settimane faticose per Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz-Birkenau, dove fu deportata a 13 anni, senatrice a vita nominata da Mattarella il 19 gennaio 2018. Al Corriere rilascia la prima intervista dopo quasi un mese di silenzio.

Come si sente dopo quello che è successo?

«Sono esausta. Troppa esposizione, troppo odio, troppe polemiche, troppa popolarità, troppo tutto. Alla mia età mi trovo a condurre un’esistenza che non avrei mai immaginato».

La sua vita è cambiata con la scorta?

«Né io né i miei familiari abbiamo chiesto nulla. Il Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico della Prefettura di Milano ha ritenuto di garantirmi una tutela, che è una forma di protezione più blanda della scorta. Naturalmente sono rimasta di stucco: a quasi 90 anni e per la sola colpa di essere una sopravvissuta alla Shoah e di esporre pacatamente i miei convincimenti, c’è bisogno che sia tutelata la mia sicurezza. È certo un condizionamento nella vita privata e mi disturba l’idea di essere un peso per lo Stato, però i carabinieri che mi accompagnano sono ragazzi meravigliosi che mi hanno adottata come una nonna, non solo con professionalità, ma anche con affetto».

Lei ha raccontato più volte nelle sue testimonianze la forza di continuare a vivere, ridotti a scheletri, nel gelido inverno del lager. Nasce da lì la forza di oggi?

«Ho passato quarantacinque anni, dopo la guerra, a macerarmi nel rimorso di non riuscire a parlare. Poi a 60 anni ho trovato le parole per fare il mio dovere. Per decenni ho rivissuto gli incubi del passato pur di testimoniare nelle scuole, nella speranza che anche un solo studente accogliesse il mio doloroso dono. Oggi, grazie alla scelta stupefacente del presidente Mattarella di nominarmi senatrice a vita, posso raggiungere milioni di persone. Se smettessi avrei una vita più serena, ma non sarei in pace. E poi la darei vinta proprio agli odiatori».

Cosa risponde a chi critica la «Commissione Segre»? C’è chi parla di «bavaglio».

«Mi sembra una barzelletta: “Qual è il colmo per un’ebrea sefardita? Diventare il capo dell’Inquisizione spagnola”. Ma figuriamoci! Sono arrivati al paradosso di ribattezzarla con tono demonizzante “Commissione Segre-Boldrini” gli stessi partiti che nella passata legislatura, alla Camera, avevano approvato all’unanimità le conclusioni della Commissione Jo Cox, cioè la vera “Commissione Boldrini”. Siamo seri. La Commissione che ho proposto non può giudicare né censurare nessuno e non può cambiare le leggi. Si tratta di studiare un fenomeno, di avanzare proposte su un problema per cui tutti, anche gli esponenti dell’opposizione quando parlano a telecamere spente, si dichiarano allarmati. L’odio in rete dilaga. La convinzione di agire in una zona franca e nell’anonimato sta producendo un imbarbarimento, una sorta di bullismo su larga scala, che le leggi esistenti non riescono a contenere».

Anche Matteo Salvini e Giorgia Meloni dicono di essere bersagliati.

«Colgo l’occasione per esprimere loro solidarietà. Sarò un’illusa, ma continuo ad auspicare che tutti si uniscano in un impegno bipartisan per prevenire le epidemie dell’odio. Io ho sperimentato i danni che possono produrre».

Da più parti, dopo l’astensione sulla Commissione contro l’odio, il razzismo, l’antisemitismo che lei ha proposto, il centrodestra ha ribadito l’«amicizia per Israele». I due aspetti sono collegabili?

«Sono argomenti separati. Mi ha fatto piacere ricevere il messaggio affettuoso del presidente Reuven Rivlin, anche se non potrò andare in Israele perché i viaggi lunghi mi affaticano. Succede spesso che mi chiedano di prendere posizione sul conflitto israelo-palestinese, ma non lo accetto. Non voglio mischiare temi diversi. Non sono un’esperta ed escludo di dover rispondere, in quanto ebrea, di quello che fa Israele. Il mio disagio fu espresso magistralmente da Clara Sereni in un articolo su l’Unità, La colpa di essere Ebrea, del 16 gennaio 2006. Raccontava di essere stata costretta a esprimersi sulla questione mediorientale e di avere dovuto quasi giustificarsi di essere ebrea. “Non dovrei più farlo”, sottolineava. Fatta questa premessa, anche io ho le mie idee: ho un grande rimpianto per Yitzhak Rabin e ho molto sperato di vedere la pace basata sul principio “due popoli, due Stati”. Ormai posso solo sperare che la vedano i miei figli».

Anche sui messaggi di odio contro di lei sono stati avanzati dubbi.

«Sapevo poco di questi messaggi perché non sono iscritta ai social network e i miei figli avevano deciso di risparmiarmi tali miserie. Dopo il rapporto dell’Osservatorio antisemitismo del Centro di documentazione ebraica contemporanea, ho dovuto occuparmene ed è stato molto sgradevole. Per le oscenità che ho dovuto vedere. Ma anche perché, facendo leva sul numero dei messaggi, “200 al giorno”, scaturito da un’inesattezza giornalistica, si è scatenata una campagna negazionista in cui non solo veniva contestato quel numero, ma l’esistenza stessa delle espressioni di odio. Scopo: far passare tutti per visionari o speculatori».

Come stanno davvero le cose?

«I messaggi non solo esistono, ma sono una valanga. Nessuno può dare numeri attendibili perché occorrerebbe monitorare milioni di pagine Facebook, Twitter, Instagram, siti, blog. Quello che emerge è un campione, la punta dell’iceberg. Sono stati registrati picchi in corrispondenza di una mia maggiore esposizione. Il meccanismo è questo: qualcuno inizia postando un attacco contro di me spesso veemente, non necessariamente di cattivo gusto, ma da lì parte la ridda dei commenti che si trasforma in una gara di esternazioni triviali, truci, immonde: decine, a volte centinaia, sotto ogni singolo post. Abbondano gli auguri di morte, gli insulti, il rammarico perché “i nazisti non hanno finito il lavoro”, l’accusa di essere una vecchia rimbambita e manovrata “dai comunisti”. Poi ci sono quelli più specifici».

Di cosa si tratta?

«Ho ricordato di essere stata clandestina e mi hanno scritto: “Parli così fino a quando non trovi un immigrato che ti stupra vecchiaccia”. Ho ricordato lo sterminio dei rom e mi hanno augurato di avere la casa svaligiata dagli zingari. Poi ci sono i qualunquisti indignati per “un’altra da mantenere”, gli antisionisti fanatici che mi ritengono complice della “Shoah dei palestinesi”, perfino frange animaliste che postano la mia foto di vent’anni fa in pelliccia e dicono che sono come i nazisti perché approverei le torture sui visoni».

Si moltiplicano i Comuni che vogliono darle la cittadinanza onoraria. Ma ci sono anche amministrazioni che si rifiutano.

«Tra le innumerevoli manifestazioni di affetto, ci sono le decine e decine di Comuni, retti da maggioranze di diverso orientamento, che mi vogliono conferire la cittadinanza. Mi dicono che alcune iniziative hanno risvolti strumentali. Io non me ne curo, presumo la buona fede. Così fin qui le ho accolte onorata, preoccupandomi solo — per non apparire maleducata — di avvisare che, alla mia età, non posso andare a ricevere gli attestati. Però anche questo sta diventando un nuovo terreno di battaglia di cui farei a meno».

A Sesto San Giovanni il sindaco ha detto che lei «non ha a che fare con la storia della città». A Biella Ezio Greggio ha rinunciato alla cittadinanza onoraria dopo che era stata negata a lei.

«Avere creato imbarazzo a quelle giunte mi dispiace. Il caso di Biella è stato però l’occasione di ricevere un fiore raro come il gesto di Greggio, che è molto più di una cittadinanza».

A Napoli lei stessa ha fatto un passo indietro...

«In quel caso non c’è stata una proposta dell’amministrazione comunale, ma la strumentalizzazione di un’assessora. Per rispondere alle critiche sulle sue dichiarazioni di odio verso Israele, ha detto: “Allora facciamo la Segre cittadina onoraria”. Io amo moltissimo Napoli, la prima città italiana insorta contro i nazisti, ma non mi presto come scudo umano per levare dall’imbarazzo l’assessora».

Ieri ha accolto Giuseppe Conte al Memoriale della Shoah di Milano. Cosa vi siete detti?

«Il premier ha voluto vedere tutto e ha sforato di almeno mezz’ora sui suoi programmi perché si è fatto spiegare ogni dettaglio».

L’avere votato la fiducia al governo giallo-rosso può aver pesato sulle critiche delle settimane scorse?

«Non faccio parte della maggioranza, sono indipendente e decido volta per volta. Avrei preferito confermare l’astensione come per il primo governo Conte, ma ho sentito dentro di me un campanello d’allarme e ho deciso in coscienza per l’interesse del Paese».

Qual era l’allarme?

«Si era creato un clima parossistico di continue forzature, con le emergenze artefatte a ogni arrivo di poche decine di disgraziati — questioni che oggi la ministra Lamorgese risolve con una telefonata —, con l’invocazione dei pieni poteri, con la preparazione di una specie di crociata. Credo che anche chi ha creato quel clima si sia poi reso conto di avere esagerato. Nella nuova ondata di odio che si è abbattuta su di me, mi hanno anche scritto: “Rispetta la nostra religione!”, quando sono l’Osservatore Romano e l’Avvenire a denunciare che è proprio l’abuso politico dei simboli religiosi a costituire una mancanza di rispetto».

Salvini è venuto a casa sua. Come è andato l’incontro?

«Non voglio dire nulla perché ci siamo impegnati entrambi alla riservatezza per evitare strumentalizzazioni politiche. In ogni caso incontrarsi e parlarsi, a maggior ragione tra due colleghi senatori e concittadini milanesi, più che un gesto di civiltà dovrebbe essere considerato un fatto normale».

È stata proposta la sua candidatura a presidente della Repubblica. Lei ha declinato.

«Ho grande stima per Lucia Annunziata e sono certa che abbia fatto quella proposta per manifestarmi apprezzamento e solidarietà. Tuttavia mi sono trovata, mio malgrado, ad essere già una figura sulla quale si concentrano fin troppi significati simbolici. Non è il caso di aggiungerne altri e di coinvolgermi in ambiti impropri. Alla presidenza della Repubblica deve stare un arbitro che abbia le energie per correre in mezzo al campo e che soprattutto abbia una sopraffina sapienza politica ed istituzionale, come il presidente Mattarella. Non una novantenne arrivata come una marziana sulla scena politica».

Fiamma Nirenstein: “Inutile la Commissione Segre, l’antisemitismo non è di destra”. Monica Pucci domenica 3 novembre 2019 su Il Secolod'Italia. “Nei giorni scorsi il documento di Liliana Segre ha fatto molto discutere: chi scrive l’avrebbe votato perché solleva un tema vero e per amore e rispetto della storia della senatrice. Ma l’antisemitismo teorizzato e organizzato, che ha fatto sei milioni di morti, non c’entra nulla con gli altri problemi legati alla cultura dell’odio. Il documento inoltre implicitamente suggerisce che l’antisemitismo sia di destra. Questo non è vero. Esso è misurabile sulle tre D di Sharansky, delegittimazione, demonizzazione, doppio standard di Israele. E purtroppo la sinistra è campione”. Lo scrive in un commento pubblicato sul Giornale Fiamma Nirenstein dal titolo “La Commissione Segre è inutile: ecco perché”. La giornalista ebrea sostiene gli argomenti utilizzati dal centrodestra per spiegare l’astensione sulla mozione. E spiega come mai la Commissione sarebbe stata strumentalizzata dalla sinistra. “Gli esempi sono eclatanti, da Corbyn ai campus americani a Bernie Sanders che dichiara Israele razzista. Proprio come la famigerata dichiarazione "sionismo uguale razzismo" votata all’Onu nel 1975 – continua -. Poi è stata cancellata ma Israele, si suggerisce, fa parte del nemico collettivo che ogni oppresso deve combattere da un unico fronte”. “Una follia contro il popolo che non solo ieri è stato il più perseguitato del mondo, e che allo stato attuale delle cose subisce la persecuzione antisemita – conclude -. Se il Parlamento italiano vuole combattere la sua lotta contro l’antisemitismo insegni la vera storia di Israele. Costringa l’Ue a abolire il labeling e le risoluzioni che le garantiscono un’unità fittizia e automatica, tolga gli stigma esistenti all’ebreo collettivo. Combatta, finalmente”. Una posizione che va a sommarsi a quella di Riccardo Pacifici, che aveva proposto modifiche al testo.

Delirio leghista contro Liliana Segre: "Una nonnetta mai eletta". Riccardo Rodelli, segretario cittadino di Lecce del partito di Salvini, contro la senatrice a vita sull'astensione del centrodestra a Palazzo Madama sulla commissione. La Repubblica il 3 novembre 2019. Una "nonnetta mai eletta". Una "Mrs Doublfire di Palazzo Madama", una "vecchietta ben educata reduce dai campi di concentramento", attrice "del ricatto", "dell'estorsione perfetta: l'internamento di Matteo Salvini in un solitario campo di concentramento, dove attenti agli altri, molti potrebbero andare a fargli compagnia per un commento su Facebook". Questo delirio è di Riccardo Rodelli, il segretario cittadino di Lecce della Lega Nord, che ieri ha inviato un lunghissimo comunicato stampa per dire la sua (!) sull'astensione del suo partito e del centrodestra a Palazzo Madama sulla commissione Segre. "Le rivoluzioni - scrive Rodelli, che è anche un avvocato - si inaugurano con le nuove parole, le dittature con l'abrogazione, la proibizione, la mutazione delle parole. Ovvio che corra ai rimedi, ovviamente ammantati dei più santi e venerabili principi provvisori che contraddistinguono la loro etica imputridita di doppiopesismo e doppia e magari tripla morale. Usando come avanguardia e maschera un personaggio che non possa essere "attaccato": una vecchietta ben educata, reduce dai campi di concentramento, mai eletta. La Mrs. Doubtfire di palazzo Madama. Ed ecco servito il ricatto, l'estorsione perfetta. L'avvertimento minaccioso e sinistro col quale ti tapperanno la bocca: perché non puoi dire più niente, devi chinare la testa, tacere, accettare di bere sino in fondo il calice dell'amarezza". E allora che significa "Commissione sull'Antirazzismo e l'odio"? La verità è nelle ultime inquietanti parole che la nonnetta, a nome del PD che l'ha redatta, dove per odio, razzismo e intolleranza si intende "ogni forma" di "nazionalismo", "etnocentrismo" e similia. In pratica: il "prima gli italiani" e solo quello. E' Salvini e i salviniani l'unico scopo. Come è Salvini il solo scopo di questo governo. Il suo internamento in un solitario campo di concentramento, dove attenti agli altri, molti potrebbero andare a fargli compagnia per un commento su fb". Accostare le parole "campo di concentramento" alla storia di Liliana Segre ha già creato non poche polemiche on line dove in molti chiedono le sue dimissioni. Ma il segretario leccese della Lega - che mette tutti sull'allerta, segnalando anche un piano di "sostituzione etnica, dove il popolo europeo potrà essere sostituito con un nuovo popolo, dove la libertà diventa un tutto uguale a tutto dove nessuno sa più chi è. E perciò si diventa un esercito a disposizione del primo turbo capitalista che saprà impadronirsene: separati e soli, smemorati e senza punti di riferimento, saremmo la nuova servitù della gleba" - non fa passi indietro: "La commissione Segre, nel suo piccolo - scrive - è una trappola proprio perché vuole accumunare gli antisemiti (non mi risulta che la comunità ebraica sia vittima di forme di violenza in Italia) con chi invece vuole manifestare un proprio pensiero che viene considerato politicamente scorretto, sol perché contrario alla dittatura del politicamente corretto".

Paolo Becchi sul caso Liliana Segre: "Mi costerà la crocifissione...". La verità sulla trappola per Salvini. Libero Quotidiano il 3 Novembre 2019. Il linciaggio che si è scatenato contro la Lega e gli altri partiti del cosiddetto centro destra dopo l' astensione e la contrarietà di fatto alla "Commissione Segre", rivela perfettamente quale sia, nelle intenzioni stesse dei suoi proponenti, la finalità politica di tale Commissione. Una trappola per topi. Intendiamoci: gli insulti e l' odio di cui la senatrice Liliana Segre è stata vittima, sono ignobili. E nessuna manifestazione di antisemitismo dovrà mai essere tollerata nel nostro Paese. Per questo, appunto, abbiamo il codice penale e persino leggi - come quella Mancino - che puniscono chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico. O forse leggi come quelle che già abbiamo non sono più sufficienti? Non sembra si tratti di questo. Che bisogno c' è allora di una Commissione parlamentare che avrà il compito di «contrastare» i «fenomeni dell' intolleranza, del razzismo, dell' antisemitismo e dell' istigazione all' odio e alla violenza»? Di quali fenomeni, in concreto, si sta parlando? La Commissione è stata votata come reazione all' odio antisemita contro una senatrice a vita ebrea. Ci sarebbe però da discutere molto se l'antisemitismo costituisca oggi in Italia un fenomeno sociale diffuso. Ne dubito. Dubito che ci sia un pericolo "antisemita". E comunque se ci fosse una Commissione non servirebbe a niente. A che cosa si riferisce la senatrice Segre quando parla di «razzismo» e «istigazione all' odio»? Davvero alla discriminazione a danno degli ebrei in generale e degli ebrei italiani? Ad attacchi sul territorio a sinagoghe o profanazioni di tombe in cimiteri ebraici? O non, piuttosto, alle politiche contro l' immigrazione clandestina che la Lega vorrebbe portare avanti, al «prima gli italiani», che la senatrice identifica - a nostro avviso del tutto impropriamente - come parole d' ordine «razziste»? «Prima gli italiani» non ha nulla a che vedere con gli ebrei e l' antisemitismo. Né con una ideologia "razzista". È la semplice voglia di nazione che da Nord a Sud la Lega sta incarnando con crescente successo popolare. Qual è dunque lo scopo di questa Commissione? Non altro se non quello di identificare le posizioni politiche tipiche dei sovranisti («prima gli italiani») con il razzismo, la discriminazione razziale, l' antisemitismo. Azione immorale - Funziona? Si, funziona benissimo, quando per realizzare questa operazione politica si utilizza una persona, come la senatrice Segre, che di principio non si può criticare, perché ogni critica politica ad una senatrice ebrea verrebbe automaticamente percepita come una manifestazione di antisemitismo. Non ci si può neppure astenere, perché sull' Olocausto non ci si può astenere. Ecco la trappola, non bastava l' antifascismo, ci voleva l' antisemitismo. Non solo i leghisti sono i fascisti del nuovo millennio, ma sono anche «negazionisti». Vorrei concludere con una ultima considerazione, che mi costerà la crocifissione. La senatrice Segre - consapevole o meno - si è prestata ad una azione che Kant avrebbe definito immorale: quella di usare l' antisemitismo - la vergogna storica di quanto accaduto - in modo del tutto strumentale. Lo scopo, la giusta difesa degli ebrei da ogni forma di discriminazione, si è trasformato in mero mezzo, in un mezzo che con quella difesa non ha nulla a che fare. L' antisemitismo diventa il grimaldello per reprimere, punire e condannare ogni posizione politica che, pur non avendo nulla a che fare con esso, possa essere semplicemente tacciata di essere "politicamente scorretta". Non rendendosi tra l' altro conto che in questo modo è proprio "il male assoluto" ad essere banalizzato. No, senatrice Segre: non ha reso un buon servizio, neppure agli ebrei. Paolo Becchi

Meloni a Fuori dal coro. Debora Faravelli su notizie.it il 31 ottobre 2019. Intervenuta a Fuori dal coro, Giorgia Meloni ha toccato diversi temi tra cui i motivi del suo successo, la prossima presidenza della Repubblica e le persone che schiererebbe in una eventuale squadra di governo con il centrodestra. In merito alla mozione Segre votata oggi, mercoledì 30 ottobre 2019, in Senato, spiega i motivi dell’astensione del suo partito. Pur esprimendo e ribadendo la sua solidarietà a Liliana Segre, destinataria di almeno 200 insulti al giorno, ci sono dei contenuti della proposta da lei non condivisi. Ricorda che quella mozione arriva da lontano, quando a presentarla fu Laura Boldrini. A non convincerla sono i passaggi secondo cui l’organismo istituito debba segnalare all’autorità tutte le persone che si rendono responsabili di episodi di nazionalismo o di diffusione di stereotipi. “A me non pare sia illegale essere nazionalisti. Cosa c’è di istigazione all’odio nelle parole Dio, patria e famiglia? E chi li decide gli stereotipi?“, si chiede. E afferma di voler vivere in una nazione dove anche se la pensi diversamente dalla sinistra hai il diritto di esprimere la tua opinione, senza essere segnalati all’autorità giudiziaria come si farebbe in un regime.

Haters, via libera alla "commissione Segre". Ira Carfagna, pronto l'addio da FI. Affari Italiani Mercoledì, 30 ottobre 2019. E’ giunta ad approvazione, non senza polemiche, l’istituzione della commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all'odio e alla violenza. Fortemente voluta dalla senatrice a vita Liliana Segre che aveva, dall’inizio della legislatura, sottolineato il riemergere di episodi di antisemitismo e di odio razziale e la diffusione nelle piattaforme social del cosiddetto “hate speech” (il linguaggio violento nei confronti delle minoranze) la commissione ha avuto il via libera dall’aula del Senato con 151 voti a favore e 98 astensioni. Queste ultime dal centrodestra, i cui esponenti – Lega in primis – hanno espresso alcune perplessità su alcuni contenuti del dispositivo, lesivi a loro avviso della libertà di espressione. “Non aver voluto trovare punti di condivisione per far nascere la commissione col consenso di tutti – ha osservato la senatrice leghista Stefania Pucciarelli - è stata un'occasione persa. Non per togliere nulla alla senatrice Segre - ha aggiunto - cui va tutta la nostra solidarietà, ma con questi presupposti il gruppo della Lega si asterrà”. Analoga posizione è stata espressa da FdI e FI, mentre un sì convinto è arrivato da tutti i gruppi di maggioranza, con forti accenti polemici da parte dell’esponente di Iv Davide Faraone, che ha attaccato nel corso del proprio intervento gli esponenti del Carroccio, che parlando di “teoria negazionista" della Lega, per la quale “se un insulto lo dice un italiano che ha perso la casa è disagio sociale e se invece lo dice un migrante o un militante di estrema sinistra è un reato”. Una scelta, quella di astenersi, anticipata nei nei giorni scorsi dal leader leghista Matteo Salvini, e ribadita dopo il voto: “Siamo contro il razzismo – ha detto Salvini a Palazzo Madama - la violenza, l'odio e l'antisemitismo senza se e senza ma. Non vorremmo che però che qualcuno a sinistra spacciasse per razzismo quella che per noi è una convinzione, un diritto, ovverosia il 'prima gli italiani'. Siamo al fianco di chi vuole combattere pacificamente idee fuori dal mondo però non vogliamo bavagli, non vogliamo uno stato di polizia che ci riporti a Orwell". Ciò non ha impedito polemiche come quella del deputato dem Emanuele Fiano, che ha parlato di “vergogna inaccettabile” e  “macchia indelebile per la nostra storia parlamentare”. Quanto alla commissione, come spiega la mozione di istituzione, la commissione sarà costituita da 25 componenti e ha compiti di osservazione, studio e iniziativa per l'indirizzo e controllo sui fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all'odio e alla violenza nei confronti di persone o gruppi sociali sulla base di alcune caratteristiche quali l'etnia, la religione, la provenienza, l'orientamento sessuale, l'identità di genere o di altre particolari condizioni fisiche o psichiche. “Essa controlla – si legge nella mozione - e indirizza la concreta attuazione delle convenzioni e degli accordi sovranazionali e internazionali e della legislazione nazionale relativi ai fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e di istigazione all'odio e alla violenza, nelle loro diverse manifestazioni di tipo razziale, etnico-nazionale, religioso, politico e sessuale e svolge anche una funzione propositiva, di stimolo e di impulso, nell'elaborazione e nell'attuazione delle proposte legislative, ma promuove anche ogni altra iniziativa utile a livello nazionale, sovranazionale e internazionale. Entro il 30 giugno di ogni anno, la commissione trasmette al Governo e alle Camere una relazione sull'attività svolta e può segnalare agli organi di stampa ed ai gestori dei siti internet casi di fenomeni di intolleranza, razzismo e antisemitismo e istigazione all'odio e alla violenza, richiedendo la rimozione dal web dei relativi contenuti ovvero la loro deindicizzazione dai motori di ricerca”.

Mozione Segre, Carfagna: la mia Fi mai si sarebbe astenuta. La mia Forza Italia, la mia casa, non si sarebbe mai astenuta in un voto sull'antisemitismo. Stiamo tradendo i nostri valori e cambiando pelle. Intendo questo quando dico che nell'alleanza di centrodestra andiamo a rimorchio senza rivendicare la nostra identità. Se l'unita' della coalizione in politica e' un valore aggiunto, essa non puo' compromettere i valori veri, quelli che fanno parte della nostra storia". Lo scrive in una nota Mara Carfagna, vicepresidente della Camera e deputata di Forza Italia, dopo il voto al Senato sulla cosiddetta mozione Segre.

Giampiero Mughini per Dagospia il 31 ottobre 2019. Caro Dago, stamane sono salito su un bus romano per andare alla mia banca in centro. Eravamo stipati tali e tanti che un grissino in più non ci sarebbe stato su quel bus. Ai miei vicini ho mormorato un “Viaggiamo su un carro bestiame”. Solo che avevo appena pronunciato la frase che subito me ne sono pentito. Carro bestiame il nostro? E allora come chiamare il viaggio durato della quattordicenne Liliana Segre sul Convoglio numero 6 che partì il 30 gennaio 1944 dal binario 21 della Stazione di Milano (c’è ancora) per arrivare ad Auschwitz sette giorni dopo? Quel viaggio la senatrice Liliana Segre lo aveva raccontato una volta a Marcello Pezzetti, direttore del Museo della Shoah di Roma: “C’erano delle fasi in questo viaggio. La prima fase era della disperazione assoluta, era del pianto, la gente piangeva senza ritegno. Era non solo il pianto dei bambini disperati, ma era il pianto di tutti, cadenzato dal rumore implacabile delle ruote che ci allontanavano da casa. Poi molti pregarono. I più pii, i più fortunati, pregarono tantissimo. Pregavano anche per quelli come noi che non sapevano pregare. Io mi ricordo che degli uomini, in mezzo al vagone, si erano riuniti e si dondolavano pregando. Era una visione biblica delle grandi tragedie di cui si poteva aver letto, invece era una tragedia moderna”. All’arrivo ad Auschwitz Liliana venne separata dal padre, destinato alla camera a gas. Lei è sopravvissuta. Non sappiamo su quali criteri, non c’erano criteri netti sulla rampa di Auschwitz-Birkenau. Ieri, in un’aula del Parlamento italiano non è tanto che ci fosse da istituire una Commissione contro l’odio, contro la feccia umana che ogni giorno che Dio porta in terra sommerge di insulti l’ “ebrea” Liliana Segre. Lo sappiamo benissimo che contro la feccia non c’è Commissione che tenga, solo si dovrebbero mandare casa per casa gli uomini della Forza Delta, gli uomini delle forze speciali americane che hanno messo a tacere un criminale del terzo millennio. Ieri, in un’aula del Parlamento italiano c’era solo da esprimere la solidarietà e l’affetto più totale del popolo italiano alla ex quattordicenne scampata ad Auschwitz. Solo quello. Alcuni parlamentari, quelli del cosiddetto “centro-destra”, si sono astenuti dal farlo. In questo modo hanno insultato Liliana e quelli che sul Convoglio numero 6 pregavano piangendo. E c’erano molti bimbi fra loro. Vergogna vergogna vergogna. Ps. Adoro Mara Carfagna

Antisemitismo, Berlusconi zittisce la Carfagna: «Non ti consento di darmi lezioni su Israele». Michele Pezza giovedì 31 ottobre 2019 su Il Secolo d'Italia. Non ci sta Silvio Berlusconi ad essere sospettato di antisemitismo. L’astensione dei senatori del centrodestra, “forzisti” compresa, sulla mozione Segre non può in nessun caso essere strumentalizzata in tal senso. Lo ha detto chiaramente anche Riccardo Pacifici, ex-presidente della comunità ebraica di Roma. A maggior ragione non può essere utilizzata a fini di polemica interna. Berlusconi non fa nomi, ma è chiaro il riferimento alle parole assai critiche pronunciate da Mara Carfagna subito dopo il voto. «Considero profondamente offensivo il solo fatto di mettere in dubbio la nostra coerenza su questa materia», recita una nota vergata di proprio pugno da Berlusconi. «La nostra posizione e il mio personale impegno contro l’antisemitismo e a favore di Israele e del mondo ebraico – vi si legge – sono una costante in 25 anni di storia politica». Una coerenza che l’ex-premier rivendica a tutto tondo. «Il nostro governo – ricorda – è stato quello più vicino ad Israele e di questo mi è stato dato atto in diverse occasioni dal primo ministro di Israele e dalle comunità ebraiche nel mondo». Non solo. I governi del centrodestra sono stati quelli che spesso sono intervenuti in sede europea per «bloccare risoluzioni ostili o non corrette nei confronti di Israele». Lo stesso Berlusconi ne propose l’ingresso nella Ue, «perché – spiega – ritengo che quella nazione e la storia che rappresenta siano parte integrante e radice fondamentale della nostra identità». L’astensione di Forza Italia al Senato, ovviamente, non ha nulla a che vedere con tutto questo. E Berlusconi lo sottolinea con forza richiamando la mozione presentata dagli “azzurri” e bocciata dalla sinistra che «ribadiva con grande chiarezza questi principi». E poi spiega: «Da liberali siamo però contrari all’eccesso di legislazione sui reati di opinione». Esattamente quel che voleva la mozione approvata dal Senato. Per giunta, rimarca il Cavaliere, «con evidenti margini di ambiguità, mancando, per esempio, qualsiasi riferimento ai rischi dell’espansione del fenomeno del radicalismo islamico».

Commissione Segre, Parolin: preoccupa l’astensione del centrodestra. Pubblicato giovedì, 31 ottobre 2019 su Corriere.it da Cesare Zapperi. Dal Segretario di Stato vaticano critiche al centrodestra: sui valori bisogna essere uniti. Mattarella: non sottovalutare i rischi di riscrivere la storia. Il voto (e soprattutto l’astensione del centrodestra) sulla commissione contro il razzismo e antisemitismo continua a far discutere e provoca interventi autorevoli come quello del Segretario di Stato vaticano, cardinal Pietro Parolin. Interpellato a margine di un evento all’università Lateranense.«Mi preoccupa, nel senso che su alcune cose, su valori fondamentali dovremmo essere tutti uniti. Ci sono cose su cui dovremmo convergere. Io penso che l’invito sia a riflettere sui valori fondamentali. Ci vogliono basi comuni. Poi naturalmente anche qui c’è il pericolo di politicizzare tutto ciò e dovremmo davvero uscire da questo». Anche se non c’è stato un riferimento diretto al «caso Segre» anche il presidente della Repubblica è intervenuto con parole che riguardano il tema del rapporto con i grandi drammi della stroia: «Non bisogna mai abbassare la guardia e non si devono «sottovalutare i tentativi che negano o vogliono riscrivere la storia contro l’evidenza allo scopo di alimentare egoismi, interessi personali, discriminazioni e odio». Lo ha spiegato intervenendo alla Cerimonia di consegna delle insegne dell’Ordine militare d’Italia in occasione del giorno dell’unità nazionale e giornata delle forze armate. «L’antidoto a queste immani tragedie è soltanto nella memoria, nel dialogo, nel rispetto, nell’inclusione e nella comprensione reciproca» ha aggiunto il Capo dello Stato che ha ricordato «gli orrendi episodi accaduti settantacinque anni or sono lungo quasi tutta la penisola. Tante vite spezzate nei crudeli eccidi perpetrati dalle truppe e milizie nazifasciste, spesso compiuti nella più agghiacciante violenza e spregio della vita persino dei bambini. A quegli eccidi si sono aggiunte le aberranti vicende ad opera di alcuni reparti delle forze Alleate che come talvolta accade in guerra, avevano smarrito ogni senso di umanità». Sul tema è intervenuta anche la presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello a margine dell’inaugurazione della targa toponomastica «Via Elio Toaff» a Roma. Dureghello ha parlato di «un momento complicato per gli ebrei in Europa». «La commissione Segre è un grande risultato istituzionale per il nostro Paese, di grande valore. Certo sconcerta un po’ l’astensione di alcune forze politiche, una scelta che riteniamo sbagliata e pericolosa. In questo momento c’è bisogno di unità e non bisogna lasciare adito ad alcuna ambiguità». «Non so cosa c’è scritto nella mozione. Da quello che leggo, bisogna stare attenti agli "e". Uno dice: c’è una mozione contro l’antisemitismo, e fin qui siamo tutti d’accordo, ma ci sono degli `e´. Sono perplesso quando si parla di linguaggio d’odio. Cos’è il linguaggio d’odio? È linguaggio d’odio anche quello contro Salvini?», si chiede Claudio Borghi, presidente leghista della Commissione Bilancio della Camera, in un’intervista a Circo Massimo, su Radio Capital, «Su razzismo e antisemitismo siamo tutti d’accordo, ma non vorrei che aggiungendo gli `e´ si crei alla censura».

La mozione Segre è il solito festival dell’intolleranza rossa: ecco a che cosa servirà. Francesco Storace venerdì 1 novembre 2019 si Il Secolo d'Italia. Commissione Segre, comitato, tribunale? Che cosa sarà? Che intenzioni hanno? Perché a giudicare dal putiferio scatenato dall’astensione del centrodestra sulla mozione approvata l’altro ieri al Senato c’è da dubitare assai. Non abbiamo avuto dubbi a chiedere pubblicamente agli odiatori che bulloneggiano sui social di dirci “almeno un motivo che vi porta ad insultare Liliana Segre”. Ci aveva colpito la storia dei duecento messaggi al giorno, anche se solo poi ci siamo chiesti dove. Perché non esistono account della senatrice, Facebook, Twitter, Instagram, nulla. Il che comunque cambia poco: se ad una donna deportata venisse rivolto anche un solo messaggio offensivo, una sola minaccia, sarebbe senza dubbio gravissimo comunque. Però, meraviglia lo scalpore sulla mozione. Una commissione parlamentare per scoprire antisemiti, e poi chissà chi. Ma la polizia postale che ci sta a fare? Siamo sicuri che con questa voglia di censura poi non si arrivi al momento in cui sarà qualcuno – che non sia la Legge – a dirci che cosa poter dire e che cosa non dover mai dire secondo l’opinione dominante? Enrico Mentana non avrà certo dimenticato il caso che accompagnò e seguì il suo incontro pubblico nella sede di CasaPound. Non fu censurato da loro, ma dai soliti noti che anche in queste ore gridano vergogna al centrodestra. Eppure, colpisce quello che dice in proposito Riccardo Pacifici, che certo tenero non è, quando invita a “ridisegnare un provvedimento seppur già votato”. Perché – è l’annotazione puntuale dell’ex presidente della comunità ebraica romana – è un’operazione che assume inevitabilmente i caratteri di parte. E così, aggiungiamo noi, non deve essere. Ma la propaganda ha prevalso. La sguaiatezza, l’intolleranza, l’odio, inondano certamente la rete. Poi, ci sono i contagi nelle persone in carne e ossa. Quindi, la faziosità. E’ orrendo attaccare Fiano o Saviano, diventa giusto pubblicare post di Salvini e della Meloni a testa in giù. In questi ultimi casi, non si sente o si legge mai una parola di solidarietà per le minacce che piombano davanti ai nostri occhi. Il problema non è Liliana Segre, la cui sofferenza merita rispetto, ma quelli che la usano per soli fini di accaparramento politico, speculando su una tragedia. C’è un diritto a sostenere le proprie idee, anche se contrarie alle vostre? Lo sapete che cosa succede nel nostro Paese mentre vi svillaneggiate dentro l’aula di palazzo Madama? A Trento c’è voluto il coraggio da leone di Fausto Biloslavo, inviato di guerra, per riuscire a tenere la conferenza a cui era stato invitato dall’Università. Il ministro lo ha ringraziato? La casa editrice Altaforte pubblica libri e non produce pallottole. Ma è messa al bando perché “troppo di destra”. E’ vicina a CasaPound, bofonchiano. Il cervello delle persone vogliono indirizzarlo dove decidono loro. Fatela 'sta commissione, e magari fatevi raccontare storie di ordinaria e intollerante censura. Non può dire di essere “sovranista” nemmeno Lorella Cuccarini. I senatori rossi questo proprio non possono sopportarlo. E magari crocifiggete Gianni Scarpa, il bagnino di Chioggia che volevate affogare per la sua spiaggia eccentrica. Che ci farete con il professor Marco Gervasoni, già redarguito e cacciato dalla Luiss per un tweet che non vi piace sulla Sea Watch? La Luiss, un’università che censura il pensiero! Potreste avere da ascoltare anche qualche membro della famiglia Mussolini, Alessandra, Caio, Edda Negri, Rachele. Facebook li inibisce persino se osano ricordare in un post il loro illustre antenato. Non lasciatevi sfuggire la concessionaria Negro, a cui il social network ha negato la sponsorizzazione perché “razzista”. E i simboli, dei simboli che ne farete in quella commissione? L’intolleranza contro il Crocifisso, il Presepe, la famiglia…Vi aspettiamo. Siamo curiosi.

Fabrizio Caccia per il “Corriere della sera” il 31 ottobre 2019.

Senatore Giovanbattista Fazzolari, non prova un po' d' imbarazzo?

«Fratelli d' Italia si è astenuta per rispetto della Segre».

Cosa? Ma ha presente gli insulti antisemiti a Segre sulla Rete?

«Alla senatrice va tutta la nostra solidarietà, Giorgia Meloni la chiamò subito quando seppe. Ma qui non stiamo parlando di una commissione contro antisemitismo e totalitarismi, che ci avrebbe visto d' accordo, ma di una struttura liberticida, in mano alla maggioranza, col potere di chiedere la censura su Facebook delle idee non gradite. Il ministero della Verità di Orwell...».

Non starete strizzando l' occhio a quelli di Forza Nuova e di CasaPound, che di recente si son visti oscurare le pagine?

«Che sciocchezza! Chi attacca una donna come la Segre non solo è un vigliacco, è un idiota. Qui però non c' era da votare la mozione Segre, ma la mozione Boldrini: ricordate la commissione Jo Cox alla Camera? Il gruppo di saggi col potere di cen-surare? Ecco, al Senato la stessa cosa: così io pure sarei un odiatore».

Davvero?

«Sì, perché oltre all' odio razziale e alla xenofobia, si condannano pure il nazionalismo e l'etnocentrismo. Lo trovo opinabile. È una battaglia di libertà».

COME FUNZIONA LA COMMISSIONE SUL RAZZISMO [… ]la Commissione può segnalare agli organi di stampa ed ai gestori dei siti internet casi di fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all'odio e alla violenza nei confronti di persone o gruppi sociali sulla base di alcune caratteristiche, quali l'etnia, la religione, la provenienza, l'orientamento sessuale, l'identità di genere o di altre particolari condizioni fisiche o psichiche, richiedendo la rimozione dal web dei relativi contenuti ovvero la loro deindicizzazione dai motori di ricerca.

Dagospia il 31 ottobre 2019 da Circo Massimo - Radio Capital. Il Senato ha detto sì alla commissione sul razzismo voluta da Liliana Segre. Ma nell'aula di Palazzo Madama ci sono stati 98 astenuti, tutti del centrodestra. "Non so cosa c'è scritto nella mozione. Da quello che leggo, bisogna stare attenti agli 'e'. Uno dice: c'è una mozione contro l'antisemitismo, e fin qui siamo tutti d'accordo, ma ci sono degli "e". Sono perplesso quando si parla di linguaggio d'odio. Cos'è il linguaggio d'odio? È linguaggio d'odio anche quello contro Salvini?", si chiede Claudio Borghi, presidente leghista della Commissione Bilancio della Camera, in un'intervista a Circo Massimo, su Radio Capital, "Su razzismo e antisemitismo siamo tutti d'accordo, ma non vorrei che aggiungendo gli 'e' si crei alla censura. Probabilmente questo è stato uno dei motivi dell'astensione. È il solito discorso: si prende qualcosa su cui siamo tutti d'accordo e poi in cauda venenum, si mettono dentro delle cose che servono a limitare la libertà di espressione oppure si utilizza una cosa come strumento di lotta politica". La commissione, gli fa notare Massimo Giannini, potrebbe a questo punto essere utile anche a Salvini, se oggetto dell'odio della rete: "Il problema è che è una commissione politica. Non stiamo facendo una legge che presuppone nuovi reati. Quindi: chi decide cos'è l'odio? Vedrete che chi la commissione la fa medita di utilizzarla per fini politici, altrimenti si sarebbe parlato di una fattispecie di legge", ribatte Borghi. Quando gli si ricorda che è una proposta di Liliana Segre, il deputato leghista risponde: "Una proposta di Liliana Segre deportata ad Auschwitz non è differente da quella di un'altra persona: la proposta è quello che c'è scritto. E io ho dei dubbi. Quelle sono cose in cui uno cerca di limitare le libertà di espressione. Le leggi ci sono. Io sono una persona tranquillissima, ma se mi appioppano cose non fatte querelo. È una cosa che mi dà fastidio fare perché si ingolfa la giustizia, ma per la tutela del buon nome querelo. In questi giorni stanno arrivando diversi pronunciamenti in mio favore. Se uno odia viene punito. La rete è un ambiente cattivo". E la Lega partecipa attivamente a questa cattiveria? "Non credo proprio. Salvini usa toni forti? Perché ha idee forti", chiude Borghi.

Segre, il centrodestra si astiene sulla commissione: "Antirazzisti, ma no alla censura". Salvini ha voluto motivare la sua scelta: "Siamo al fianco di chi vuole combattere pacificamente idee fuori dal mondo, però non vogliamo bavagli e stato di polizia che ci riportano a Orwell". La commissione si farà ma non è stata votata all'unanimità. Lavinia Greci, Mercoledì 30/10/2019, su Il Giornale. Alla fine, la proposta dalla senatrice Liliana Segre di istituire una commissione straordinaria contro odio, razzismo e antisemitismo è stata accolta, ma non all'unanimità. L'aula del Senato ha approvato la mozione con 151 voti favorevoli, nessun voto contrario e 98 astensioni, che corrispondono a tutti i parlamentari del centrodestra, cioè Lega, Forza Italia e Fratelli d'Italia.

Salvini: "Noi contro razzismo, ma non vogliamo bavagli". L'ex ministro dell'Interno e leader leghista, Matteo Salvini, ha voluto motivare la scelta del suo partito e ha dichiarato: "Siamo contro razzismo, violenza e antisemitismo senza se e senza ma. Tuttavia non vorremmo che qualcuno a sinistra spacciasse per razzismo quello che per noi è convinzione e diritto, ovvero il 'prima gli italiani'. Siamo al fianco di chi vuole combattere pacificamente idee fuori dal mondo, però non vogliamo bavagli e stato di polizia che ci riportano a Orwell".

FdI: "Questa è in realtà una commissione Boldrini". Anche il seantore di Fratelli d'Italia Giovanbattista Fazzolari, ha fatto riferimento alla censura e ha spiegato l'astensione del suo gruppo così: "Fratelli d'Italia non ha votato a favore dell'istituzione della commissione perché non è una commissione sull'antisemitismo, come volevano farci credere, ma una commissione volta alla censura politica. Purtroppo la mozione Segre è in realtà la mozione Boldrini, perché ricalca fedelmente la commission Jo Cox, istituita dall'allora presidente della Camera, con la finalità di creare un gruppo di 'saggi' con il potere di censurare chi non rispetta i canoni del politicamente corretto". Al termine del voto, però, tutti i senatori presenti si sono alzati in piedi e hanno rivolto un applauso alla senatrice a vita e prima firmataria della mozione. Segre, sopravvissuta ai lager nazisti e rimasta orfana di padre durante le persecuzioni naziste, nei giorni scorsi ha dichiarato di ricevere quotidianamente circa 200 messaggi di odio e per questo motivo aveva proposto la commissione.

Il centrodestra non vota mozione Segre “Censura travestita da antisemitismo”. Ilvaloreitaliano.it  31 Ottobre 2019.  Il trucchetto di imporre altra censura a chi non è coperto e allineato sulle posizioni pd-sinistra giallofucsia radicalchic in genere non ha funzionato. Non ha ottenuto l’unanimità la mozione per istituire una commissione straordinaria contro odio, razzismo e antisemitismo, proposta dalla senatrice a vita Liliana Segre. Con una smaltata di lotta all’ antisemitismo che ci sta sempre come cavallo di Troia in realtà la mozione Segre era stata strumentalizzata per proseguire sulla pista della censura senza limiti intrapresa da qualche tempo su social e gruppi. L’aula del Senato l’ha comunque approvata con 151 voti favorevoli, nessun voto contrario e 98 astensioni. Un lungo applauso e senatori in piedi al termine del voto. “Fratelli d’Italia non ha votato a favore dell’istituzione della commissione perché non è una commissione sull’antisemitismo, come volevano far credere, ma una commissione volta alla censura politica. Purtroppo la mozione Segre è in realtà la mozione Boldrini, perché ricalca fedelmente la commistione Jo Cox istituita dall’allora presidente della Camera, con la finalità di creare un gruppo di ‘saggi’ con il potere di censurare chi non rispetta i canoni del politicamente corretto. Insomma, la commissione approvata oggi riesce dove aveva fallito la Boldrini”. Così il senatore di Fratelli d’Italia Giovanbattista Fazzolari. “E’ impensabile parlare seriamente di contrasto all’antisemitismo e ai totalitarismi senza fare alcun riferimento all’integralismo islamico – ha aggiunto – visto che il pericolo deriva proprio dal fondamentalismo e dall’immigrazione musulmana, e senza recepire la risoluzione del Parlamento europeo di condanna delle dittature nazista e comunista. Purtroppo con il pretesto del contrasto all’antisemitismo, il Senato ha approvato l’istituzione di una struttura liberticida che avrà il potere di stabilire chi ha il diritto di dire cosa e di chiedere la censura in rete delle idee non gradite. Di fatto l’istituzione del ministero della verità di orwelliana memoria”, ha concluso Fazzolari.

No al razzismo ma niente censura. Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 31/10/2019, su Il Giornale. In Italia, evidentemente, abbiamo un grosso problema di razzismo. Un'emergenza nazionale. Anzi, a giudicare dalla solerzia del governo, combattere l'odio è la priorità, il primo punto nell'agenda dell'esecutivo. Seguito a un'incollatura dall'innalzamento delle tasse, come dimostrano le cronache politiche di questi giorni. Ieri il Senato ha approvato la mozione Segre sull'istituzione di una «Commissione straordinaria per il contrasto ai fenomeni dell'intolleranza, del razzismo, dell'antisemitismo e dell'istigazione all'odio e alla violenza». Il centrodestra si è astenuto. La mozione parte dai vergognosi attacchi antisemiti alla senatrice a vita Liliana Segre. Ma siamo sicuri che il miglior modo per arginare l'odio razziale sia una commissione straordinaria? Perché è sempre pericoloso misurare le opinioni altrui con il righello del codice penale. L'ombra del bavaglio si affaccia sempre quando si vuole recintare con il filo spinato la libertà di parola. Nel caso Segre non v'è dubbio: si tratta di antisemitismo e, come tale, va perseguito. Ma, in tutti gli altri casi, chi deciderà se siamo di fronte a critiche legittime o a razzismo e istigazione all'odio? Sia chiaro: arginare l'odio è sacrosanto, comprimere la libertà di espressione è diabolico. E troppo spesso, in questo Paese sempre pronto a trasformare il confronto in tifoseria, con la scusa del politicamente corretto si è cercato di silenziare le voci fuori dal coro, cioè tutto quello che non va a genio alla sinistra. Potremo ancora dire la nazionalità di chi commette un reato o verremo bollati come seminatori di odio? Salvini potrà ancora dire prima gli italiani o verrà zittito come un pericoloso razzista? Le incognite sulla strada della commissione sono tante, troppe. Perché, purtroppo, i politici non sono tutti come Liliana Segre, ed è facile immaginare che ci sia già qualcuno pronto a silenziare l'avversario con l'accusa infamante di razzismo. E questo governo sembra particolarmente propenso alla censura, basti pensare al caso Radio Radicale. Due giorni fa Luigi Marattin, deputato di Italia viva, ha proposto l'obbligo di registrazione con la carta d'identità per chi vuole aprire un profilo Facebook. Un'ennesima schedatura che, nelle intenzioni del suo promotore, servirebbe a debellare la piaga delle fake news. E anche qui siamo nello stesso vicolo cieco: chi decide cosa si può scrivere e cosa no? Chi stilerà la lista nera di coloro i quali non hanno libera circolazione sui social? (Il paradosso è che la proposta è stata giudicata illiberale dai grillini, che con la loro piattaforma Rousseau sono gli alfieri della profilazione e della schedatura). Il dibattito sulla libertà di parola e sul confine tra critica legittima e odio illegale durerà a lungo. Ma il razzismo (qualora si tratti effettivamente di razzismo) non si ferma con le commissioni straordinarie, le censure o gli algoritmi. Si ferma con la cultura e la buona politica. Due elementi che sembrano scarseggiare in questo esecutivo. Bavagli e lacci servono solo ad avvelenare il clima e incattivire il Paese. Francesco Maria Del Vigo

Vauro, l'antirazzista a giorni alterni. Disegna gli ebrei con il nasone ma aggredisce chi non omaggia la Segre. Carmelo Caruso, Sabato 02/11/2019 su Il Giornale. Gli ha ordinato di alzarsi in piedi per omaggiare Liliana Segre («questa donna eccezionale»), ma si capiva sin da subito che l'omaggio non era omaggio e che gli applausi che chiedeva, a nome della senatrice sopravvissuta alla shoah, erano quelli che lui non riusciva a prendere. Invitato alla trasmissione L'Aria che tira - ma è da giorni che sbuca dal video, occupa studi e sempre per fare le boccacce all'ospite avversario - il vignettista Vauro ha voluto dare ad Alessandro Morelli, deputato della Lega, ripetizioni di antifascismo. Ce l'ha fatta. Il più sobrio è infatti sembrato Morelli che in silenzio lo ascoltava mentre irrispettoso è apparso proprio Vauro che prima si è alzato in piedi, poi ha alzato la voce come i podestà e infine sanzionato: «Non avete avuto neppure la decenza di alzarvi di fronte a una donna che sulla sua carne ha la storia dell'antifascismo». In pratica era lui che bastonava l'altro rimproverandogli di essere un bastonatore senza memoria. Al centro della polemica c'era la senatrice Segre che ha proposto l'istituzione di una commissione straordinaria per contrastare i fenomeni di intolleranza, antisemitismo, odio e violenza, spazzatura che tutti i partiti vogliono eliminare, compresa la Lega, ma senza per questo recintare l'opinione, anche matta, irregolare, al limite dell'offesa, proprio quella che Vauro, da vignettista, maneggia sulle pagine dei giornali. Era per questa ragione che più Vauro dava dell'antisemita a Morelli e più diventava la parodia del cacciatore di antisemiti. Facendo ironia e difendendosi sempre dietro la satira, suo parafulmine, Vauro ha in passato disegnato la giornalista israeliana, ed ex parlamentare del Pdl, Fiamma Nirenstein con naso adunco, la stella di David e il fascio. La vignetta ha indignato tutta la comunità ebraica che ha memoria ancora e non è intermittente come quella di Vauro. Insomma, non era solo una vignetta venuta male ma si può dire oggi che era paccottiglia antisemita, la stessa che, da disegnatore, Vauro utilizza mentre, in televisione, castiga. E sempre con la sua matita ha disegnato cecchini israeliani che fucilano Cristo. La didascalia era questa e la voce quella di un palestinese: «Palestina, pasqua di resurrezione. Te l'avevo detto occhio ai cecchini israeliani». E poi Topolino con i baffi da Hitler... C'è tutto un catalogo, un album, di vignette inclassificabili e senza sensibilità nei confronti del popolo israeliano e dunque della Segre, della sua origine, che Vauro, anche ieri, non onorava, ma semplicemente sgorbiava per convenienza.

Vauro insulta due politici di FdI: "Sono dei pezzi di m..." Il vignettista, ospite di Paolo Del Debbio a Dritto e Rovescio, apostrofa pesantemente Galeazzo Bignami e Marco Lisei, protagonisti della querelle bolognese sui citofoni delle case popolari abitate da extracomunitari. Pina Francone, Venerdì 22/11/2019, su Il Giornale. Galeazzo Bignami e Marco Lisei, secondo Vauro Senesi, non sono "fascisti", ma "due pezzi di m…". Il vigettista toscano è un fiume in piena contro l'onorevole e il consigliere comunale di Bologna, entrambi di Fratelli d'Italia. La vicenda che riguarda i due politici di FdI è nota. Nelle scorse settimane si sono recati alla Bolognina, mostrando in un video in diretta Facebook i citofoni di qualche casa popolare del quartiere felsineo, leggendo ad alta voce i nomi degli inquilini stranieri. Ecco, la stragrande maggioranza dei nomi e cognomi scanditi dalla voce di Galezzo Bignami è di extracomunitari. L'iniziativa dei due esponenti del partito di Giorgia Meloni era volta a denunciare tutte le storture dei criteri di assegnazione degli alloggi popolari in città, sottolineando come il sistema attualmente in vigore penalizzi i cittadini italiani, favorendo appunto gli immigrati. La loro video-denuncia ha sollevato un polverone a livello nazionale e si è mosso addirittura il Garante della Privacy, che potrebbe prendere provvedimenti contro i due di FdI. Nel mentre, Vauro si è scatenato in occasione della sua ospitata a Dritto e Rovescio, la trasmissione condotta da Paolo Del Debbio su Rete4. In puntata si discute – con Emanuele Fiano e Giuseppe Cruciani in studio – del possibile rischio di un ritorno al Fascismo. E quando viene interpellato dal conduttore, che gli chiede un parere sul caso di Bologna, il toscano apostrofa pesantemente Bignami e Lisei: "Quello che penso è ovvio: l'azione lì di andare a filmare i citofoni, come si fa a dire che non è un'istigazione alla violenza e al razzismo? È questione di buonsenso, non di destra o di sinistra. La risposta che c'è stata, ovvero il fatto che siano andati sotto i loro uffici "qui lavorano i fascisti" io non l'avrai fatto, però è vero: lì lavorano i fascisti. Perché quel comportamento lì è da fascisti". Prende dunque la parola la "zanzara" Cruciani. Il giornalista etichetta come "politicamente sprovveduta e sbagliata" l'azione dei due politici di FdI, ma placa le ire di molti benpensanti: "Non condivido assolutamente quello che hanno fatto. Evocare però il Fascismo, come Vauro e tanti altri, è offensivo nei confronti di chi ha vissuto il Fascismo sulla propria pelle. Perché il Fascismo è un'altra cosa…". Ma Vauro si vuole prendere l'ultima parola, rincarando la dose: "Non sarà da fascisti, ma è da stronzi! Cruciani, io stasera mi sento buono, anzi buonista: non chiamiamolo Fascismo, ma allora li vogliamo chiamare ‘pezzi di merda? 'Questi due signori non sono fascisti, ma due pezzi di merda".

Rissa in tv tra Vauro ed estremista di destra, il Pd: "Mai in trasmissioni che incitano all'odio".  Ieri sera, su Rete 4, scontro quasi fisico tra il vignettista e un ospite, definito fascista dai social della stessa trasmissione, che ha minacciato una giornalista. La reazione dei dem: "Non andremo più in questi programmi". Fratoianni: "Mediaset intervenga". La Repubblica l'8 novembre 2019. Lo scontro è stato quasi fisico. Ieri sera nel programma Dritto e rovescio, condotto da Paolo Del Debbio su Rete 4, c'è stata una rissa tra il vignettista Vauro Senesi e un ospite della trasmissione: Brasile, che nello stesso account social di Dritto e rovescio viene definito "fascista" (il vero nome è Massimiliano Minnocci, estremista di destra del quartiere romano di Pietralata). In realtà Vauro provava a difendere la giornalista Francesca Fagnani, che era stata minacciata da Brasile: "Li faccio vedere io i film a lei, se viene nella mia borgata", ha detto con il tono dell'avvertimento. E Vauro l'ha affrontato fisicamente. Gli si è piantato davanti e ha gridato: "Queste sono minacce, fammelo vedere a me, fascio di merda. Minacce a una donna, siamo pazzi". Del Debbio è rimasto equidistante: "O vi riprendete o vi butto fuori tutti e due". "Ma come - ha obiettato il vignettista - ha minacciato una donna". Replica caduta nel vuoto. Il tutto in una trasmissione dedicata ai cori fascisti negli stadi e ai casi di violenza e intolleranza in città. L'episodio, che si colloca in un contesto di odio e intolleranza crescenti in Italia, ha scatenato reazioni politiche. "Noi non accettiamo questi toni e queste minacce nei confronti degli ospiti - ha detto la deputata dem Debora Serracchiani - per questo ho proposto, assieme alle colleghe del Partito democratico, di disertare queste trasmissioni televisive che incitano all'odio e alla violenza. È ora di finirla". Frase scritta in un tweet e rilanciata dal segretario dem Nicola Zingaretti. E Nicola Fratoianni di Sinistra italiana-Leu: "Mi auguro davvero che quello che i telespettatori hanno visto ieri sera su Rete4 non si ripeta mai più. Vedere una giornalista esser pesantemente apostrofata e minacciata da un figuro, famoso solo per i suoi arresti e i suoi tatuaggi di Hitler, senza che ci fosse una reazione degna di questo nome da parte del conduttore (eccetto la generosa reazione di Vauro) dà il segno del livello a cui siamo arrivati in questo Paese". E ancora: "Mi auguro che anche i vertici di Mediaset se ne siano resi conto, e trovino i dovuti accorgimenti perché non si ripetano scene così disgustose. Cosi come gli organi di garanzia dei giornalisti prendano i dovuti provvedimenti."

Luana Rosato per ilgiornale.it l'8 novembre 2019. Momenti di grande tensione durante la puntata del 7 novembre scorso di Dritto e Rovescio, programma di approfondimento serale di Rete 4. Il confronto tra uno dei personaggi tra il pubblico in studio, introdotto da Paolo Del Debbio come originario della Capitale, e la giornalista Francesca Fagnani, ha fatto alterare il vignettista Vauro Senesi che, davanti alle parole rivolte alla donna, ha affrontato a muso duro l'uomo. L’argomento affrontato durante la serata è uno dei più caldi degli ultimi tempi. Quando si parla di razzismo e discriminazione il popolo italiano si divide in due fazioni e, ciò che spesso accade nella quotidianità, si è verificato anche negli studi di Rete 4. Paolo Del Debbio, che stava trattando la discussione insieme agli ospiti di Dritto e Rovescio, ha chiesto ad uno dei presenti tra il pubblico, tale “Brasile”, di dire la sua a riguardo. “Il grande ritorno di “Brasile...”': con queste parole il volto Mediaset ha presentato il giovane, senza nascondere una certa ironia. “Ci mancava Brasile...”, ha aggiunto Francesca Fagnani, immediatamente ripresa da quest’ultimo che ha iniziato ad inveire contro di lei in malo modo. “Partiamo dal presupposto che Roma non è fascista, Roma è casa mia e a casa vige ordine e disciplina. Devi fare quello che ti dico io”, ha spiegato “Brasile”, mentre la Fagnani si domandava in “quale film” le cose funzionassero in questo modo. “In quale film? Te li faccio vedere io i film! Se viene nella mia borgata...”, ha continuato il romano, ma davanti a queste esternazioni il vignettista Vauro è scattato in piedi. Andandogli incontro a muso duro, gli ha urlato: “Queste sono minacce! Fammelo vedere a me, fascio di merda! Vergognati! Minaccia una donna, ma siamo pazzi?!”. Immediato l’intervento di Paolo Del Debbio che, onde evitare che la situazione degenerasse, ha invitato Vauro a sedersi al suo posto e intimato a lui e “Brasile” di ridimensionarsi. “O vi riprendete, o vi butto fuori tutti e due – ha sbottato il conduttore, sostenendo che la Fagnani non avesse alcun bisogno di essere difesa - . Non ha minacciato niente. La Fagnani si difende da sola, è abituata ai clan Spada, si figuri se gli fa paura “Brasile”’.

Le deputate Pd attaccano: "Mai più in trasmissioni tv con personaggi di destra". In una nota, le deputate del partito democratico spiegano che quello che è accaduto durante la puntata di Dritto e Rovescio è "incredibile e inaccettabile". Roberto Vivaldelli, Venerdì 08/11/2019 su Il Giornale. L'episodio della rissa sfiorata fra il vignettista Vauro e Massimiliano Minnocci, soprannominato "Brasile", durante la puntata del 7 novembre scorso di Dritto e Rovescio, programma di approfondimento serale di Rete 4 condotto da Paolo del Debbio, diventa oggetto dell'ennesima polemica politica. Il confronto tra uno dei personaggi tra il pubblico in studio, introdotto da Del Debbio come originario della Capitale, e la giornalista Francesca Fagnani, ha fatto alterare il vignettista Vauro Senesi che, davanti alle parole rivolte alla donna, ha affrontato a muso duro l'uomo, esponente dell'estrema destra romana. Fuori dallo studio, divampano le polemiche. Le deputate del Partito democratico insorgono e in una nota riportata dall'Agi osservano che "quello che è accaduto nel corso della trasmissione Dritto e Rovescio su Rete4 dove un personaggio inquietante di estrema destra si è permesso di lanciare gravi minacce agli altri ospiti, in particolare in questo caso contro una donna coraggiosa e contro i carabinieri, usufruendo di una vetrina nazionale è incredibile e inaccettabile" spiegano. "In trasmissioni come queste - affermano - dove invitano personaggi del genere, il Pd non deve mandare più nessuno dei suoi rappresentanti". "Noi non accettiamo questi toni e queste minacce nei confronti degli ospiti. Per questo ho proposto, assieme alle colleghe del Pd di disertare queste trasmissioni televisive che incitano all'odio e alla violenza. È ora di finirla" afferma Debora Serracchiani, vicepresidente Pd. Su Twitter gli hashtag #DelDebbio e #Vauro sono diventati presto di tendenza. Durante la trasmissione il vignettista e Minnocci, noto esponente dell'estrema destra romana, arrivano quasi allo scontro fisico quando Vauro lo raggiunge tra il pubblico e arriva a pochi centimetri dal suo volto. In trasmissione si parla di nuovi fascismi, e interviene Minnocci: "Partiamo dal presupposto che Roma non è fascista. Roma è casa mia. Nella borgata mia devi fare quello che ti dico io", mentre la Fagnani si domandava in "quale film" le cose funzionassero in questo modo. "In quale film? Te li faccio vedere io i film! Se viene nella mia borgata...", ha continuato il romano. Esternazioni che hanno fatto infuriare Vauro: "Queste sono minacce. Fammelo vedere a me, forza, fascio di merda. Vergognati, minacci una donna, ma siamo pazzi".

Attacchi alla trasmissione di Del Debbio arrivano anche da Il Primano Nazionale, testata giornalistica vicina a Casapound. "Quella che è andata in onda ieri nel pollaio di Dritto e Rovescio è una ridicolizzazione della rabbia delle periferie, mostrificata attraverso lo scontro teatrale (palesemente cercato) tra il fascista coatto e tatuato e il vecchio compagno avvinazzato".

L’imbruttita tra “er Brasile” e Vauro. Del Debbio è la fogna della tv italiana. Davide Romano su Il Primano Nazionale, 8 Novembre 2019. Abisso per abisso, Kali Yuga per Kali Yuga, tanto vale a questo punto guardarsi roba come Tu si que vales o gli Amici vip di Maria De Filippi. L’onestà del voler fare trash in maniera palese va premiata. Bisogna invece biasimare Paolo Del Debbio e le sue trasmissioni spazzatura, che fingono di occuparsi di temi pseudo sociali (questa volta titolo della trasmissione “il nuovo fascismo che cresce nelle periferie“, roba che manco una tempesta di cervelli tra Berizzi e la Murgia) per fare spettacolo di bassa lega (siamo pur sempre su Mediaset). E se sul fronte dello spettacolo Maria De Filippi è più onesta di Del Debbio, stessa cosa accade sul fronte politico, dove una Serena Bortone di Agorà, limpida nel suo antifascismo e anti sovranismo, è senza dubbio più autentica del conduttore di Rete Quattro, che compie la stessa operazione mascherandola con toni “populisti”.

Un pollaio chiamato “Dritto e rovescio”. Quella che è andata in onda ieri nel pollaio di Dritto e Rovescio è una ridicolizzazione della rabbia delle periferie, mostrificata attraverso lo scontro teatrale (palesemente cercato) tra il fascista coatto e tatuato e il vecchio compagno avvinazzato. Lui, Vauro, si erge a difensore della lesa dignità delle donne (in questo caso Francesca Fagnani, giornalista e fidanzata di Enrico Mentana), affrontando viso a viso “il fascista di merda”. Che, giustamente, lo liquida con un “puzzi de vino lèvate”. Il tutto si conclude con Del Debbio che salomonicamente dice “o vi riprendete o vi butto fuori a tutti e due”. E scatta l’applauso.

La lite tra Er Brasile e Vauro, tutto a tavolino. Il teatrino insomma ha rispettato il copione preventivato da Del Debbio. Massimiliano Minnocci aka “er Brasile” ha fatto la parte del fascistone, che nonostante esordisca nel suo intervento con un “Roma non è fascista”, in realtà conferma l’approccio “fascio-mafioso” (secondo il lessico buonista) sostenendo che “nella mia borgata vige ordine e disciplina perché comando io”. Al che la Fagnani segna il gol a porta vuota della giornalista impegnata che non accetta le minacce del fascio-coatto, che l’aveva invitata ad andare nella “sua” borgata. Del Debbio la spalleggia tutto tronfio “eh lei non ha paura degli Spada e dei Casamonica, figuriamoci del Brasile”. E poi appunto c’è Vauro poveretto che fa il reduce rosso da anni ’70. Se questa è informazione.

Dagospia l'8 novembre 2019. Da la Zanzara- Radio 24. Alla fine di una telefonata drammatica a La Zanzara su Radio 24 Massimiliano Minnocci, alias il Brasile, un estremista ultras della Roma, accetta l’invito del vignettista Vauro per un incontro di riconciliazione dopo il duro scontro durante la trasmissione di Rete4 Dritto e Rovescio: “Vi giuro su mia madre ragazzi, ma ho la pelle d’oca. Vauro lo incontro quando vuole. Ci sto. Lo incontro per stringergli la mano”. Poco prima, mentre ancora la lettera di Vauro pubblicata su Facebook non era diventata di dominio pubblico, il Brasiliano lo aveva duramente attaccato per quanto successo durante la trasmissione condotta da Paolo Del Debbio: “Non è stata colpa mia. Ho parlato per quattro secondi, ho preso parola e poi quella (Francesca Fagnani, ndr) ha cominciato a ride e a dire mò ce manca solo il Brasile. Ma che mi hanno invitato a fare? Se mi invitano parlo”. Poi attacca Vauro: “Questo è venuto faccia a faccia perché stavamo in televisione perché altrimenti per strada gli faccio fare una cagarella a fischio che se la ricorda pe’ tutta a vita…Io gli ho  detto aspetta che finisce la pubblicità che ti strappo la testa ed è scappato. Capito che ti voglio dire? Gli ho detto: aspetta che finisce la puntata, ti strappo in due, è scappato con la sicurezza”. Ma è una roba da criminali, dice Parenzo: “Io sono un criminale, Parenzo, un criminale, io sono un criminale, non uno di destra, ma un criminale, lo vuoi capì o no? Lo vuoi capì o no? Io sono un fascista, lo volete capire o no?”. “Io non minaccio nessuno – dice ancora – ma tu non puoi fare una cosa del genere. E’ stato quello che puzzava de Tavernello, ha fatto la sparata, gli davo una pizza e lo rimettevo a sede, gli davo una cinquina e lo rimettevo a sede”. L’istinto era quello, no?: “Ho pensato: mò gli do un mozzico in faccia gli strappo la faccia, ma come faccio? Facevo la fine de Roberto Spada”. “Io non sono un personaggio normale, posso avere tutti i difetti del mondo, sono tatuato, sono un estremista di destra, ma dentro lo studio sono stato aggredito io. Vauro? Quell’eroe che si era bevuto quattro litri di Tavernello, stava ‘umbriaco fradicio, quella merda…Un pupazzo fatto di Tavernello. Puzzava de Ronco. Mi querela? Me fa na pippa”. Poi, quando Cruciani e Parenzo gli leggono la lettera di Vauro, si scioglie.  

Da liberoquotidiano.it l'8 novembre 2019. E ora, sui social, Vauro scrive una lettera aperta al Brasile: "Non ti chiamo Brasile, ma Massimiliano che è il tuo nome", premette. Dunque il vignettista aggiunge: "Svastiche effigi di Mussolini... tutto quello che ti sei tatuato sul corpo rappresenta per me (e non solo per me) orrore, schifo, disprezzo". Eppure poi aggiunge: "Ma ti ho guardato negli occhi e oltre l'odio ho visto solitudine, rancore, disperazione e fragilità". E ancora: "Ho pensato a chi non sfoggia orridi tatuaggi ma si presenta in giacca e cravatta. Ho pensato a quanto sia comodo per loro che ci siano persone come te, per nasconderci dietro il loro cinismo, per scaricarle quando è opportuno e gridare al pazzo fanatico e coprire così le loro responsabilità". Secondo Vauro, er Brasile è un "nemico", ma "un nemico facile grosso, brutto e cattivo. Sei lo spauracchio dei mostri veri, quelli che ti usano". Infine, l'appello del vignettista: "Allora ti dico vediamoci. Potrai spaccarmi la faccia, la tua stazza te lo permette. O potremmo parlare cenando assieme, così poi puzzeremo di vino tutti e due". Dunque, la conclusione: "Questa lettera è pubblica come lo è stato il nostro scontro. Ma il nostro incontro, se vorrai, sarà privato, senza telecamere né conduttori, io e te. Non è una sfida, è un invito", conclude un sorprendente Vauro.

Giampiero Mughini per Dagospia il 9 novembre 2019. Caro Dago, se fosse per me inviterei a casa mia e alla presenza di un vino 98 punti Maroni i due contendenti televisivi in favore di camera, ossia il fascista “Brasile” e il mio amico Vauro. Ancora una volta la televisione costringe chi sta in un set a dare il peggio di sé, una finta rissa. Laddove invece ci si può confrontare, si può discutere, si possono analizzare le ragioni dell’avversario anziché bestemmiarle sin dall’inizio come tutte assurde e sbagliate. Soprattutto ci si può allontanare le mille miglia dal tentativo psicotico di bissare la guerra civile del 1943-1945. Appartengo a una generazione cui quel tentativo riuscì in pieno. Ne morirono a decine da una parte e dall’altra. Qualcuno della mia parte - e io li consideravo degli imbecilli - ritmavano che “uccidere un fascista non è reato”. Il mio amico Giusva Fioravanti mi ha raccontato che a quel punto lui e i suoi sodali pensarono “Dato che per voi uccidere un fascista non è un reato, provate a uccidere noi”. Innanzi a una sezione romana del Msi furono uccisi tre “camerati” il più vecchio dei quali aveva 20 anni, due da terroristi rossi arrivati in motocicletta muniti di una mitraglietta Skorpion, un terzo dalla polizia che aveva sparato ad alzo zero e che morì nelle braccia di Francesca Mambro. Giusva e i suoi si attrezzarono alla bisogna, arrivò loro la notizia che i terroristi provenivano da un centro sociale romano al Tuscolano. Ci andarono in otto, l’intero gruppo dei Nar. Trovarono i locali sprangati. Si misero a girare tutt’attorno e finché videro un gruppo di ragazzi che avevano l’aria di essere dei “compagni”. Uno di loro si mise a correre a zig-zag. Giusva gli sparò e lo ferì a una spalla, poi lo raggiunse e gli tirò il colpo di grazia. Si chiamava Roberto Scialabba. Una storia atroce tra le tantissime. C’è qualcuno che vuole rinnovare quelle gesta, da una parte e dall’altra? Io spero di no. A proposito del sindaco di Predappio che non vuole autorizzare una spesa comunale a sostegno di studenti che vadano a visitare Auschwitz-Birkenau e questo con la scusa che gli studenti devono andare a visitare anche le foibe dove i partigiani titini scaraventarono vivi italiani e italiane, Mattia Feltri ha scritto che sarebbe una ben misera cosa apprestare un gara a chi sia stato più ”vittima” tra Primo Levi e Solzgenitsin e non si poteva dir meglio. Auschwitz è una cosa - terribile, spaventosa, forse la più atroce dell’intero Novecento - e le foibe un’altra, un crimine su cui il senso comune italiano ha taciuto per quarant’anni e questo in ragione della dominanza culturale dell’italocomunismo. Al sindaco di Predappio vorrei dire che io ci sono stato nel suo paese e che sono andato giù e ho sostato innanzi alla tomba del Duce, stazione drammaticissima della via crucis italiana del Novecento. In tutta naturalezza porto rispetto alle vittime del fascismo. Trovo ributtante che un paio d’anni fa l’Anpi savonese si sia opposto a che venisse messa una targa a rammemorare il martirio subito da una ragazzina tredicenne, Giuseppina Ghersi, pestata, violentata e uccisa dai partigiani, e che è sepolta da 72 anni nel cimitero di Zinola. “Era una fascista” dicono quelli dell’Anpi. Vergognatevi, era una ragazzina di 13 anni che s’è trovata nel bel mezzo della tragedia per antonomasia della recente storia italiana. E sono arrivato al dunque. Studiare di più, capire di più, non dividere gli eventi storici in un bianco e un nero, da una parte quelli che avevano sempre ragione e dall’altra quelli che avevano sempre torto. Leggere tutti i libri - a cominciare da quelli di Giorgio Pisanò e Giampaolo Pansa - leggere tutte le testimonianze. Imparare a “vivere” con il diverso da te. Ragionare. Stringersi la mano dopo lo scambio di opinioni pur profondamente diverse. E’ talmente difficile?

Vauro a «Er Brasile» dopo la rissa in tv: «Vediamoci». E lui accetta: «Gli stringo la mano». Pubblicato sabato, 09 novembre 2019 da Corriere.it. Dopo la rissa sfiorata giovedì sera tra Vauro Senesi e «Er Brasile» — l’estremista di destra romano Massimiliano Minocci — nella trasmissione Dritto e Rovescio, condotta da Paolo Del Debbio su Rete 4 e dedicata ai «Riflussi di fascismo», il vignettista satirico ha scritto una lettera aperta a Minocci su Twitter, invitandolo a un confronto: «Non ti chiamo Brasile ma Massimiliano che è il tuo nome. Ti scrivo perché ci siamo trovati muso a muso con rabbia e con furore. Svastiche, effigi di Mussolini... Tutto quello che ti sei tatuato sul corpo rappresenta per me (e non solo per me) orrore, schifo, disprezzo. Con tanta rabbia, certo, ma ti ho guardato negli occhi e oltre l’odio ho visto solitudine, rancore, disperazione e fragilità».

La lettera aperta e l'invito a cena. «Sei un “nemico” ma un nemico facile “grosso brutto e cattivo” — continua Vauro nel suo appello —. Sei lo spauracchio dei mostri veri, quelli che ti usano. Allora ti dico vediamoci. Potrai spaccarmi la faccia, la tua stazza te lo permette. o potremo parlare cenando assieme, così poi puzzeremo di vino tutti e due. Questa lettera è pubblica come lo è stato il nostro scontro. Ma il nostro incontro, se vorrai, sarà privato, senza telecamere né conduttori, io e te. Non è una sfida, è un invito».«Sei un “nemico” ma un nemico facile “grosso brutto e cattivo” — continua Vauro nel suo appello.

Minocci — sentito da «La Zanzara», su Radio 24 — ha accettato l'invito: «Vi giuro su mia madre ragazzi, ma ho la pelle d’oca. Vauro lo incontro quando vuole. Ci sto. Lo incontro per stringergli la mano». Poco prima di sapere del twett di Vauro, però, l'estremista di destra aveva parlato così dello scontro in tv: «Non è stata colpa mia. Ho parlato per quattro secondi, ho preso parola e poi quella (la Fagnani, ndr) ha cominciato a ride' e a dire mo' ce manca solo il Brasile. Ma che mi hanno invitato a fare? Se mi invitano parlo. Vauro? Questo è venuto faccia a faccia perché stavamo in televisione perché altrimenti per strada gli faccio fare una cagarella a fischio che se la ricorda pe’ tutta a vita…Io gli ho detto aspetta che finisce la pubblicità che ti strappo la testa ed è scappato. Capito che ti voglio dire? Gli ho detto: aspetta che finisce la puntata, ti strappo in due, è scappato con la sicurezza». Al commento del conduttore David Parenzo — «Ma è una roba da criminali» — Er Brasile ha replicato: «Io sono un criminale, Parenzo, un criminale, io sono un criminale, non uno di destra, ma un criminale, lo vuoi capì o no? Lo vuoi capì o no? Io sono un fascista, lo volete capire o no?. Io non minaccio nessuno ma tu non puoi fare una cosa del genere. È stato quello che puzzava de Tavernello, ha fatto la sparata, gli davo una pizza e lo rimettevo a sede, gli davo una cinquina e lo rimettevo a sede'. Ho pensato: mo' gli do un mozzico in faccia gli strappo la faccia, ma come faccio? Facevo la fine de Roberto Spada». In trasmissione, giovedì sera, l’estremista di destra stava discutendo animatamente con Francesca Fagnani. «A casa mia vige ordine e disciplina, devi fare quello che ti dico io», diceva e quando la giornalista ha replicato «Ma in che film?» lui ha attaccato: «Glieli faccio vedere io i film a lei». A quel punto Vauro era scattato: «Queste sono minacce, fammelo vedere a me, pezzo di m...», aveva urlato alzandosi e andando verso Minocci. I due si sono ritrovati faccia a faccia — «Puzzi di vino», gli aveva detto Minocci, «Fascio di m..., vergognati» la risposta di Vauro — ma poi erano stati divisi da Del Debbio: «O vi riprendete o vi butto fuori tutti e due». «Non tutti e due — aveva urlato ancora Vauro — ha minacciato una donna!». «Non ha minacciato niente — la replica del conduttore — la Fagnani si difende da sola». La rissa in tv è stata molto commentata in Rete e la trasmissione criticata. La dem Debora Serracchiani ha postato un tweet — condiviso dal segretario Nicola Zingaretti — in cui ha proposto a tutte le parlamentari dem di non andare più in trasmissioni che incitano l’odio: «Noi non accettiamo questi toni e queste minacce nei confronti degli ospiti. Per questo ho proposto, assieme alle colleghe del Pd di disertare queste trasmissioni televisive che incitano all’odio e alla violenza».

Vauro Senesi contro Matteo Salvini: "Omuncolo, a Milano lo sanno tutti che ti compravi il fumo". Libero Quotidiano il 16 Novembre 2019. Vauro non si smentisce mai. Ancora una volta il vignettista più schierato di sempre non perde l'occasione per insultare Matteo Salvini definendolo "un omuncolo offensivo, un opportunista" e chi più ne ha - per la sinistra - più ne metta. Intervistato dall'Adnkronos il toscano punta il dito contro il leader della Lega: "Salvini non crede a un cazzo, a nulla, se non alla sua rincorsa del potere. Se ci fosse un'onda stalinista starebbe con i baffoni e la stella rossa in testa". Poi Vauro, non sapendo a cosa appigliarsi, pensa bene di citare i trascorsi politici dell'ex ministro dell'Interno. "Comunista padano? Un'altra presa per il c**o, quando andava ai centri sociali, andava per comprarsi il fumo, lo sanno tutti. A Milano se lo ricordano". Ma Vauro vede un piccolo barlume in quella che è la destra moderata: "Ci sono anche anticorpi nella società, anche individuali, a volte che arrivano da schieramenti politici che non ti aspetti, come nel caso di Mara Carfagna. Forse un anticorpo nella società contro il fascismo c'è ancora, ma questo anticorpo va potenziato". Se l'anticorpo sono i benpensanti alla Vauro maniera siamo messi bene. 

Vauro affonda ancora: "Salvini? Omuncolo offensivo e fascista ignorante". Il vignettista toscano attacca i sovranisti e la loro "assunzione di disvalori, come la mancanza di solidarietà, che loro chiamano buonismo, l'avversione alla cultura, l'attacco ai professoroni, ai radical chic", sbandierando ancora una volta il fantasma del fascismo. Federico Garau, Sabato 16/11/2019, su Il Giornale.  Intervistato da "AdnKronos", Vauro Senesi prosegue imperterrito con la sua battaglia anti-Salvini, sbandierando ancora una volta il fantasma del fascismo. "Il fascismo si nutre di un conformismo ignorante e io vedo il rischio del fascismo, lo vedo endemico, è un virus sopito", spiega il vignettista, che poi trova il modo di collegare il leader della Lega alle sue considerazioni. "L'ignoranza di Salvini è la sua forza, il suo è un messaggio micidiale: 'Sono come voi, sono ignorante e voi rimanete ignoranti'. Qualsiasi governo va bene, basta che tenga fuori Salvini". Arrivano poi le considerazioni del vignettista sulle posizioni dei cosiddetti sovranisti, dipinti come i fascisti del nuovo millennio, e la loro "assunzione di disvalori, come la mancanza di solidarietà, che loro chiamano buonismo, l'avversione alla cultura, l'attacco ai professoroni, ai radical chic", aggiunge ancora, "parole che dimostrano come ci sia addirittura un linguaggio costruito ad hoc". Ma in fondo al tunnel c'è una luce, e la dimostrazione arriva dalle posizioni assunte da alcuni politici in odore di uscita dal centrodestra. "Ci sono però anche anticorpi nella società, anche individuali, a volte che arrivano anche da schieramenti politici che non ti aspetti, come nel caso di Mara Carfagna. Forse un anticorpo nella società contro il fascismo c'è ancora, ma questo anticorpo va potenziato", dice Vauro, che lancia l'ennesimo allarme accorato per mettere in guardia dagli avversari politici, specialmente Fratelli d'Italia e la Lega. "Una parte della politica sottovaluta la questione fascismo e la riduce a folklore. Un'altra parte, invece, addirittura sdogana il fascismo, ne sdogana il linguaggio, ne sdogana i contenuti, l'intolleranza, una parte politica che ha la concezione della maggioranza uguale a quella di una clava". Ma l'attenzione torna a concentrarsi su Salvini, persona vuota e unicamente, secondo Vauro, dedita all'acquisizione di potere e consensi. "Salvini non crede a un cazzo, a nulla, se non alla sua rincorsa del potere. È un opportunista. Se ci fosse un'onda stalinista starebbe con i baffoni e la stella rossa in testa", attacca ancora il vignettista toscano, che poi sbeffeggia i trascorsi politici del leader del Carroccio. "Comunista padano? Un'altra presa per il culo, quando andava ai centri sociali, andava per comprarsi il fumo, lo sanno tutti. A Milano se lo ricordano. Non c'è una dichiarazione che questo omuncolo offensivo non faccia contro non dico qualcuno, ma contro il buon senso", attacca ancora. La manifestazione inscenata giovedì sera a Bologna contro Salvini invece fa gonfiare il petto a Vauro. "Segno finalmente di reazione collettiva, perché di reazioni individuali ce ne sono già state tante, non solo al rischio che l'Emilia possa cadere in mano leghista, ma un segno di riscossa rispetto all'imbarbarimento civile che il paese sta vivendo".

Emanuela Fiorentino per ''Panorama'' il 26 novembre 2019. La gioia va strappata a viva forza perché il mondo non è stato attrezzato per l’allegria. Quando parla di rivoluzione, perché lui ci crede ancora, Vauro cita Majakóvskij. E un po’ anche se stesso, che cerca strappi e provocazioni di continuo. Lo ha fatto anche con Massimiliano Minnocci detto Brasile, l’ultrà della Roma tatuato di svastiche, con cui si è scontrato da Paolo Del Debbio, su Rete4. «Quando gli sono andato sotto il muso a dargli del fascio di merda, ho visto umanità in fondo ai suoi occhi». È finita, anzi è iniziata, in trattoria. Vauro è così, crocifigge Bettino Craxi, poi va ad Hammamet e si commuove con lui. In cielo, in un posto che per lui certamente non esiste, Vincino e Don Gallo lo proteggono dagli insulti quotidiani, che lui cerca come gli orsi il miele, e dalle minacce che arrivano, racconta, «dal variegato mondo grillino».

Dopo la sua lite con Brasile, il Pd ha puntato il dito contro la trasmissione Dritto e rovescio, ha rispolverato l’odio in tv e invitato a disertare la trasmissione. Il Pd, invece di disertare le trasmissioni, dovrebbe andarci, così come dovrebbe andare nelle borgate, nelle periferie, nei luoghi di lavoro dove la sinistra, se ancora si sente di sinistra, è assente. In uno spazio di informazione si va, sempre se si ha qualcosa da dire. Lei, che ha militato nel Pci, ha paragonato la sinistra a un suicida che si getta dal quarantesimo piano. E ora che il Pd governa, seppure con un alleato che lei non ama, pensa ancora al suicidio politico?

«Premesso che faccio fatica a definire il Pd di sinistra, appoggio tra virgolette questo governo, ma solo perché non c’è più Matteo Salvini.

Lo ammette, quindi...Certo, e poteva essere un’occasione per tutti, dovevano dirlo chiaro: questo è un Cln, un Comitato di liberazione, ma lo hanno fatto capire con timidezza, senza richiamare i valori di cui questo governo poteva farsi garante».

Quindi appoggia o non appoggia?

«Tra virgolette. Perché i Cinque stelle sono ex contrattisti, mai stati alleati. Giuseppe Conte, che adesso tutti considerano un grande statista, per me resta un re travicello. Ex premier subordinato di Salvini del governo più a destra di sempre e ora premier che dovrebbe arginare Salvini. Poi c’è sempre Di Maio...»

Perché detesta Luigi Di Maio? Lo ha appena disegnato traballante, vestito da danzatrice.

«Non lo detesto, è semplicemente una nullità politica. Vede, Salvini non è un genio, ma è l’unico che comunica, anche se a slogan trucidi. Di Maio non fa nemmeno quello».

Vauro che difende Salvini?

«Non scherziamo, lo considero un cinico disposto a qualsiasi cosa, anche a cavalcare malumori pericolosi».

Insomma a cena con Brasile sì, ma con il leader della Lega no.

«Mai. Massimiliano è un ragazzo di borgata, vive in una realtà che conosco bene, fatta di ragazzi che hanno sbagliato, ragazzi con la rabbia, lasciati soli anche dalla mia sinistra. Ho scritto che è fragile e se lui fosse davvero come lo dipingono dovrebbe considerarlo come il peggiore insulto. Un vero cinico, non se lo tatua Mussolini sul braccio. Salvini, al contrario, potrebbe essere uno stalinista perfetto se l’onda fosse quella stalinista».

Ci sarà un politico meno peggio degli altri dall’altra parte della barricata.

«Io non sono tra quelli che pensano che la destra sia tutta merda. Giancarlo Giorgetti (numero due della Lega, ndr) è il più pericoloso di tutti perché è intelligente. Giorgia Meloni forse sarebbe migliore di Salvini come presidente del Consiglio perché un po’ di preparazione politica le va riconosciuta. È sempre un bene che siano le donne a crescere. Anche Mara Carfagna...»

L’ha sempre attaccata...

«Vero, la dipingevo come la soubrettina di Silvio Berlusconi, invece è riuscita a prendere delle posizioni precise anche sulla vicenda Segre, non solo sulla deriva sovranista di Forza Italia. Ha un’autonomia di pensiero».

Le manca Michele Santoro? Esiste un altro come lui?

«Non mi manca perché lo vedo quasi tutti i giorni. Oltre a una grande stima nei suoi confronti, ho maturato un’amicizia profonda. Se esiste uno come lui non lo so, ma di sicuro non ci sono gli spazi perché emerga. E mi chiedo come mai, in un Paese come il nostro, un giornalista che ha fatto la storia della televisione sia di fatto estromesso. Qui la genialità è vista come un rischio».

Non saranno contenti i tanti giornalisti che conducono programmi di successo...

«Non dico che gli altri non siano bravi, dico che in questo momento non può emergere uno come Michele... Ci ho lavorato tanti anni e quelle trasmissioni non erano mai supine a nessuno».

Con Marco Travaglio, compagno di importanti avventure televisive con Santoro, collabora anche oggi.

«Non lo sento più. Mando le mie vignette a Il Fatto Quotidiano. A volte le pubblica, a volte no, a volte a pagina 20, ma va bene così».

Ha disegnato Nicola Zingaretti, Di Maio e Conte con un bernoccolone in testa dopo le elezioni in Umbria. Pensa che la stessa scena si ripeterà in Emilia Romagna?

«Quando un partito che si definisce di sinistra diventa solo una macchina che amministra il potere e non è più un luogo di incontro dove si producono idee e sogni, capita quello che è successo in Umbria. Si è fatto strame dell’eredità del Pci, la parola sinistra è stata nascosta come una vergogna, l’hanno tolta pure dalla sigla del partito. Ecco, in Emilia Romagna auspico un esito diverso, ma non ci scommetto neanche 20 centesimi».

Il segretario del Pd, in questo momento, ha bisogno più che mai di unità e sostegno.

«Zingaretti è così trasparente che non so dire per adesso se mi piace o non mi piace. Sarà una brava persona, ma non ci bastano le brave persone, quella dovrebbe essere una precondizione. Hanno fatto un movimento che è arrivato al 34 per cento con lo slogan onestà come se l’onestà potesse essere monopolio solo di qualcuno e questo movimento adesso è al 15. Quindi, forse, ci vuole qualcos’altro. Del resto, Zingaretti è quello che dice: «Facciamo un partito divertente» quando siamo con la merda fino al collo...»

Il radicalchicchismo fa male alla sinistra?

«Mi viene in mente Joseph Goebbels che disse: quando sento la parola cultura metto mano alla pistola. Se essere radical chic significa saper leggere e scrivere e avere voglia di studiare, non esprimersi solo a rutti, allora viva i radical chic».

Ma lo ha detto lei che la sinistra deve tornare nelle borgate, a sporcarsi le mani tra i dimenticati delle periferie.

«È una categoria priva di senso, come la parola buonista, che viene usata come una clava per disprezzare il valore della solidarietà che deve essere trasversale».

Preferisce rivoluzionario?

«Durante un reportage in Ucraina per la guerra del Donbass conobbi un generale dei cosacchi che mi disse: le rivoluzioni le pensano i geni, le fanno i fanatici, ne godono i farabutti. Lui poi fu ucciso. Quello che va salvato della rivoluzione è il pensiero del genio. E io ho avuto la fortuna di conoscere un sacco di geni: Alex Zanotelli, don Gallo, Gino Strada, Vincino. Ho conosciuto anche Beppe Grillo, ci ho fatto un libro insieme prima che nascesse il Movimento. Poi sono stato tra i primi a finire nella lista di proscrizione del suo blog, ci sarà un motivo».

Il Paese reale da che parte sta?

«È disorientato, lo dimostra sul piano politico. In poco più di cinque anni il famoso 40 per cento ce lo hanno avuto Berlusconi, poi Matteo Renzi, poi Grillo, poi Salvini. Questa è la dimostrazione di come il Paese reale sia un po’ disperato. E lo sono anche io».

Ma lei per chi vota?

«Non ho mai votato Pd, sono un vecchio comunista. Ora non so...»

C’è una vignetta di cui si è pentito?

«Nessuna, anche se a volte ho comunicato ciò che non pensavo. Ma la satira è così. Ti pesa perché a volte fai cose in disaccordo con quello che pensi. Ma mai fare autocensura, se la matita parte, qualcosa dentro di te la muove».

Chi sono stati gli snob, a sinistra, che più hanno fatto male alla causa?

«Mi dispiace dirlo perché sembra di sparare sulla croce rossa, ma mi viene in mente Fausto Bertinotti. Le racconto un episodio. Ero in Afghanistan quando è partita l’offensiva Achille. Dall’ospedale di Emergency, dove c’erano feriti e sangue ovunque, presi il satellitare e chiamai Bertinotti, all’epoca presidente della Camera. Gli telefonai con grande emotività perché era in discussione il rifinanziamento della missione italiana. Gli dissi: qui è un massacro. E lui: «Cavo Vauvo, devi capive che in Afghanistan si costruisce l’Euvopa». Gli risposi: caro Fausto, devi capire che l’Afghanistan è in Asia minore. E buttai giù».

Chi erano i suoi intellettuali di riferimento?

«Antonio Gramsci, Noam Chomsky, Pier Paolo Pasolini».

E adesso?

«Sono tutti morti».

L’odio sinistro. Augusto Bassi il 7 dicembre 2019 su Il Giornale. Ieri ho scelto l’ironia per fotografare il reale, oggi userò la fotografia per ironizzare sulla realtà. Il dibattito pubblico italiano è così composto: da una parte i sovranisti psichici, populisti, razzisti, sessisti, omofobi, xenofobi, antisemiti, islamofobi, leghisti… che odiano, o così pare. Dall’altra i progressisti, i pacifisti, gli antifascisti, i democratici, i tolleranti, i più umani, le anime belle… in missione contro l’odio degli odiatori. E quest’ultimi come manifestano la propria superiore natura e cultura, come prendono le distanze dall’inciviltà degli odiatori? Abbracciandoli, dirozzandoli, integrandoli? No. Odiandoli. Misurano la propria estraneità all’odio odiando i sovranisti psichici, i populisti, i razzisti, i sessisti, gli omofobi, gli xenofobi, gli antisemiti, gli islamofobi, i leghisti tutti… con vauro livore e afrore, con la scialorrea agli occhi, con il pepe all’ano. Quindi, sfogata la violenza repressa dei pavidi contro la vittima sacrificale, l’abietto, l’inferiore, il dago destrorso, schiacciato il diversamente ascoltabile come un insetto fastidioso, messe le campane al collo del populista come si faceva con gli ebrei, segregato il subumano leghista come si usava con i negri… i progressisti, i pacifisti, gli antifascisti, i democratici, i tolleranti, i più umani, le anime belle… iniziano a cacare il fallo sulle note di Bella ciao nelle piazze, nei teatri, alla radio, sui giornali, al cinema, in televisione, sui social… manifestando contro l’odio. E proprio per questo non possiamo fare a meno di amarli. In definitiva, l’odio nei confronti dell’odio mi pare veramente odioso. Fosse per me, lascerei amare e odiare in santa pace. Tanto più che amore e odio sono sentimenti involontari e reciprocamente necessari. Chi non lo comprende è stupido e io odio la stupidità, quantunque gli stupidi siano così amabili. A tal proposito e in conclusione, giova riportare un dialogo tratto da “Il maestro e Margherita” di Michail Bulgakov, fra il Satanasso e il fariseo, la cui potenza è imperitura e universale, benché il sovranista e sessista autentico si sceglierebbe una fidanzata madrelingua per farselo leggere in russo, dopo averla intiepidita con un po’ di latin love:

– Toh! – esclamò Woland, guardando il nuovo venuto con aria di scherno. – Sei proprio l’uomo che mi sarei aspettato di vedere qui! A che cosa dobbiamo l’onore della tua visita, ospite non invitato?

– Son venuto da te, spirito del male e signore delle ombre – rispose il nuovo venuto guardando Woland di sottecchi, con ostilità.

– Se vieni da me, perché non mi hai salutato, ex pubblicano? – disse severo Woland.

– Perché non voglio che tu goda salute – rispose l’altro insolentemente.

– Eppure dovrai metterti l’animo in pace, – replicò Woland, e un sorriso beffardo distorse la sua bocca. Non hai fatto in tempo a comparire sul tetto che hai già detto una sciocchezza, e ti dirò io in cosa consiste: nel tuo tono. Hai pronunciato le tue parole come se tu non riconoscessi l’esistenza delle ombre, e neppure del male. Non vorresti avere la bontà di riflettere sulla questione: che cosa farebbe il tuo bene, se non esistesse il male? E come apparirebbe la terra, se ne sparissero le ombre? Le ombre provengono dagli uomini e dalle cose. Ecco l’ombra della mia spada. Ma ci sono le ombre degli alberi e degli esseri viventi. Vuoi forse scorticare tutto il globo terrestre, portandogli via tutti gli alberi e tutto quanto c’è di vivo per il tuo capriccio di goderti la luce nuda? Sei stupido.

– Non intendo discutere con te, vecchio sofista. – rispose Levi Matteo.

– Non puoi neanche discutere con me per il motivo che ho già detto: sei stupido.

La sinistra e il monopolio del bene. Giancristiano Desiderio, 2 novembre 2019 su Nicolaporro.it. La politica italiana mi mette tristezza, angoscia, noia. Spero, però, che nessuno voglia istituire una commissione parlamentare per lenire gli stati d’animo che necessariamente accompagnano ogni nostra condizione, ora di letizia, ora di mestizia. Dopotutto, questo stato d’animo di latente depressione non si cura né con farmaci né con analisi ma con la santa laicità. Il “male oscuro” della politica italiana è la sua invincibile ritrosia alla laicità. Norberto Bobbio amava ripetere che in una democrazia (liberale) il monopolio della forza non può e non deve coincidere con il monopolio della verità. Aggiungo, con modestia, che l’idea stessa dell’esistenza del monopolio della verità è comica. Le funzioni della Commissione Segre – che prende il nome dalla senatrice Liliana Segre alla quale porto il mio affetto e il mio rispetto e il mio ascolto, come altre volte ho fatto con Sami Modiano sopravvissuto come la senatrice Segre al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau e ospitato varie volte alla Biblioteca Melenzio di Sant’Agata dei Goti – pur avendo lo scopo di contrastare i fenomeni di intolleranza, razzismo e antisemitismo si sovrappongono a leggi già esistenti e, soprattutto, prefigurano l’introduzione di nuovi reati d’opinione. Ma – ed è qui il punto dolente – chi sarà in grado di porre la differenza tra opinione e reato? Chi avrà la capacità di dimostrare che una cattiva idea è un atto violento? Chi avrà la facoltà di distinguere tra sentimento, risentimento, odio, amore, intenzione e azione? Potrà farlo solo chi riterrà di avere o solo chi riunirà nella sua autorità proprio i due monopoli della forza e della verità. Ma far coincidere il monopolio della forza con il monopolio della verità è, come ammoniva Bobbio, proprio ciò che non si può e non si deve fare se si vuole vivere in una democrazia (liberale). È, in altre parole, il classico rimedio peggiore del male. Dispiace ricordare concetti che sono l’abc non solo del liberalismo ma anche della decenza e del buonsenso. Se accade è perché in Italia la cultura politica non ha mai fatto realmente i conti seriamente con la storia del Novecento. Nella cultura politica italiana è sempre in servizio permanente effettivo il paradigma dell’antifascismo, ma la lezione che ci viene impartita da “il secolo delle idee assassine” è che essere antifascisti non basta per vivere civilmente. Ancora Bobbio ci ha detto che tutti i democratici sono antifascisti ma non tutti gli antifascisti sono democratici. Per essere democratici a tutto tondo è necessario essere anti-totalitari ossia tanto antifascisti quanto anticomunisti. Invece, questo tasto in Italia non lo si vuol mai toccare con sincerità e con rigore e così la politica non maturando una vera cultura anti-totalitaria è sempre esposta al rischio del meccanismo totalitario che si ripresenta in varie versioni in cui qualcuno pensa di poter incarnare il monopolio del bene. In fondo, tutta la storia repubblicana ricade in questo meccanismo che, per paradossale che possa sembrare, si è espresso al meglio nel periodo della cosiddetta Seconda repubblica, quando la sinistra con la “gioiosa macchina da guerra” già pregustava la vittoria elettorale e, invece, arrivarono Forza Italia e Silvio Berlusconi a rovinare la festa e la presa per via elettorale del Palazzo d’Inverno e tanto bastò per far scattare subito la scomunica con l’uso del paradigma del fascismo/antifascismo. La sinistra da quale momento ha cambiato tanti nomi – Pci, Pds, Ds, Pd, Dem –  ma ha sempre avuto la pretesa di detenere il monopolio del bene, impedendo così non solo la sua stessa evoluzione verso un sano riformismo, ma fortemente ostacolando anche il passaggio dalla “repubblica dei partiti” della Prima repubblica alla “democrazia dell’alternanza” della Seconda. Proprio i sentimenti e i risentimenti di odio e di livore, che giustamente si desidera sconfiggere, hanno la loro prima radice in questa sub-cultura totalitaria in cui la sinistra dividendo l’anima italiana a metà come una mela tiene per sé il Bene e indica negli altri il Male. Ma il bene e il male non sono un sistema, una società, una chiesa, un partito, un governo, una commissione, un parlamento. Il bene e il male sono le nostre singole azioni con cui ora operiamo e ora pecchiamo. Sono la legge della nostra coscienza morale che nessuno Stato può “comandare”. Ma della natura libera della vita morale abbiamo perduto persino il ricordo, immersi come siamo nella cultura dell’odio con cui desideriamo delegittimare l’avversario usando le leggi di Stato. Che Dio ci perdoni l’uso immondo che facciamo della libertà. Giancristiano Desiderio, 2 novembre 2019.

Franco Bechis: "Perché la mozione di Liliana Segre è una trappola politica per il centrodestra". Libero Quotidiano l'1 Novembre 2019. Parla di "malafede" e di "ideologia politica" Franco Bechis in riferimento al linciaggio collettivo subìto dal centrodestra per essersi astenuto in aula al Senato sulla mozione di Liliana Segre per istituire una commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all'odio e alla violenza. Il direttore nel suo editoriale su Il Tempo sostiene che "c'è il rischio" "di farsi prendere la mano e con la scusa dell'odio o del razzismo limitare severamente libertà di espressione più che consentite dalla nostra Costituzione". Un linciaggio "inaccettabile", "scientifico", "ben più grave di qualche scemata urlata anche in aula" come quando è stato insultato Emanuele Fiano perché ebreo. Questo è un "atto illiberale che getta ombre pesanti su chi ha controfirmato e dato sostegno alla mozione della Segre. Gli slogan anche buonisti che debbono andare bene per tutti esistono nelle dittature, non nelle democrazie liberali, ed è dittatura imporre con tanta violenza il pensiero unico a chicchessia, poi linciandolo perché non vi aderisce".Infine è "segno di malafede" perché se si fosse voluta davvero quella commissione, si sarebbe "cercato un accordo con le minoranze (si rispettano anche quelle parlamentari) per giungere a un testo condiviso, se questo era l'obiettivo politico". Non è andata così proprio "perché c'era un intento muscolare che non vedeva protagonista ovviamente la senatrice a vita Segre, ma chi l'accompagnava. Non volevano una scelta condivisa, ma accusare di razzismo le minoranze impiccate a qualsiasi loro distinguo". Eppoi, si chiede Bechis, perché "non hanno votato la mozione di Forza Italia", inappuntabile. "Temo che ci sia dietro un' operazione ideologica che si ripara dietro lo schermo falso dell'antisemitismo per limitare libertà di pensiero".

Franco Bechis per iltempo.it il 2 novembre 2019. Ritorno sulla vicenda del voto sulla mozione per istituire una commissione di controllo sull'hate speech a prima firma Liliana Segre dopo un giorno in cui ho ricevuto molti insulti sui social per essermi differenziato dal pensiero unico. Secondo la maggioranza parlamentare dovrei segnalare gli odiatori che hanno preso di mira il mio dissenso a questa fantomatica commissione, perché si prendano provvedimenti come da anni vorrebbe l'ex presidente della Camera, Laura Boldrini. Frequentando i social sono abituato a reazioni un po' pesanti di quelli che chiamano gli odiatori. Posso assicurare che sono tutte identiche nei toni e persino nelle allocuzioni in reazione a interventi diversissimi fra loro. Se critichi il Pd, ti insultano i loro odiatori. Se critichi una cosa fatta dal M5s, ecco partire i grillini. Se obietti a qualche leghista o fratello di Italia, ti lincia qualcuno che viene dalle loro truppe. Spesso ti linciano per sbaglio perché non hanno capito bene cosa dicevi, e in realtà stavi difendendo uno dei loro beniamini. Ma pazienza. Sono in un paese che mi garantisce di esprimermi con libertà, e mi prendo in nome della stessa libera espressione anche un dissenso piuttosto colorito. Tutti tanto quando non piace quello che scrivi ti danno del "pennivendolo", o del "giornalaio" (che loro considerano un insulto, io no, perché i giornalai oltre a fare una nobile professione, contribuiscono a dare da mangiare a chi fa il mio mestiere). Qualcun altro è più sprezzante o colorito, mi dice che sono venduto al nuovo editore (ho cambiato più giornali, ma negli ultimi dieci anni l'editore è sempre stato lo stesso). Ci sta, che in poche parole ne scappi qualcuna più rozza o violenta. C'è chi obietta in modo più argomentato e offre spunti di riflessione, e lo preferisco. Ma non denuncerò mai a meno che mi mandino minacce di morte o peggio chi si limita a qualche espressione verbale colorita a nessuna fantomatica commissione di giustizieri del bon ton vogliano mai creare. La libertà riguarda anche loro. Rispondo- nel caso della commissione Segre- solo a chi mi apostrofa "antisemita", spiegando che quello proprio no: sono ebreo fiero delle tradizioni e della storia della mia famiglia e antisemita come dicono loro non posso proprio essere. Trovo un po' triste che vogliano chiudermi la bocca in quel modo, e che debba sempre ripetere quel "sono ebreo" per fare muro. Anche questo però è elemento indicativo di quanto inutile fosse il varo di quella commissione che invece verrà fatta. In questo video in meno di dieci minuti spiego perché io- lo ripeto, ebreo- non solo non mi sarei astenuto, ma avrei votato no alla mozione a prima firma Segre (dubito però che il testo lo abbia vergato lei). In sostanza perché preferisco tutelare la libertà di espressione garantita a tutti dalla Costituzione italiana che mettermi lì a inseguire qualche idiota del web. Per le cose serie c'è già il codice penale, che persegue reati a prescindere dal luogo o dal mezzo con cui siano compiuti. Quando vogliono magistrati e polizia postale incastrano qualsiasi nickname o anonimo li abbia eventualmente compiuti. Ricordo un caso di cui avevo svelato il finale qualche tempo fa: quello di Beatrice Di Maio, pseudonimo arguto e pungente che spesso infilzava in modo anche colorito (ma sempre ironico) il Pd. Quelli la presero assai male. Prima fu fatta circolare l'ipotesi, sposata con errore professionale pazzesco anche da media importanti, che quell'account fosse la piramide di una centrale di disinformazione orchestrata dalla Casaleggio and partners e dal Movimento 5 stelle in combutta con i russi di Vladimir Putin (li infilano sempre in mezzo quando vogliono fare fuori qualcuno). Poi fu presentata denuncia da parlamentari del Pd. Si mosse la polizia postale, scoprì l'indirizzo internet (Ip) del computer usato da Beatrice Di Maio che portava non in Russia, non alla Casaleggio, non al M5s, ma banalmente a casa di Renato Brunetta, dove si divertiva in quel modo la moglie Titti (penna arguta e straordinaria). Come evidenzia quel caso, non c'è bisogno di alcuna commissione per inseguire chi è ipotizzato violare le norme già previste dal codice penale. Aggiungere altro a quel che c'è ha un sapore diverso e inquietante, espone al rischio di perseguire più che reati, idee dissonanti. Che oggi saranno quelle di Matteo Salvini, Giorgia Meloni con il loro sovranismo, o magari quelle di semplici cittadini che non ce la fanno più con il campo nomadi sotto la porta di casa e tutto quel che porta in quel quartiere. Domani a parti invertite i poliziotti del web faranno l'operazione opposta, e inseguiranno una per una le firme degli sceriffi di oggi, i firmatari della mozione Segre e i sostenitori del pensiero unico. Mi verrebbe da dire: "magnifico, sarà la pena del contrappasso". Ma non lo dico, perché invece è importante qui e subito difendere la libertà di espressione di tutti e sventare questo bavaglio che si vorrebbe mettere. Nobile, politically correct, a la pàge. Ma sempre bavaglio.

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 3 novembre 2019. La sinistra esulta perché si è data una commissione che procederà contro i razzisti, specialmente gli antisemiti, come se gli italiani fossero in numero elevato nemici degli ebrei. Vedremo in quale modo agirà il nuovo organismo, poi lo giudicheremo. Intanto poniamoci alcune domande. Se uno dice o scrive che gli africani gli stanno sul gozzo va punito? E quale punizione gli sarà inflitta? I progressisti predicano da anni che non bisogna fomentare l' odio, e avrebbero ragione se non fossero i primi a insultare con espressioni violente gli avversari politici. Ne sanno qualcosa Salvini e la Meloni che, essendo considerati di destra, possono tranquillamente essere vilipesi come non fossero esseri umani degni di rispetto. Parliamo dei fascisti. Per quelli del Pd e similari essi costituiscono il pericolo pubblico maggiore. In realtà sono una risibile minoranza: alle elezioni periodiche i signori di CasaPound non superano mai lo 0,5 per cento, la prova che non contano nulla e nulla da loro si deve temere. Eppure un giorno sì e un giorno no si scatena una lagna tesa a enfatizzare il ritorno preoccupante delle camicie nere (inesistenti). Gli ex comunisti ad ogni consultazione politica e amministrativa perdono, ma non perdono il vizio di suonare il piffero antifascista, nella convinzione che ciò porti voti. Non è così. Anzi i cittadini ho l'impressione che siano disgustati da un tipo di propaganda noiosa e ripetitiva. Tanto più che a tutti è noto un fatto: di solito i disordini sono provocati dai centri sociali, i quali per altro sono tollerati se non addirittura protetti dagli enti locali, che ad essi concedono immobili gratuitamente dove svolgono attività spesso illegali. Non solo. Si dà il caso che i giovanotti estremisti rossi siano in massima parte filopalestinesi inclini a dare alle fiamme le bandiere israeliane in occasione di ricorrenti manifestazioni. È evidente che la succitata commissione parte col piede sinistro e servirà prevalentemente allo scopo di perseguire chi non è stato ingoiato dal conformismo dei compagni.

Liliana Segre, l’abbraccio dei 600 sindaci: «Siamo noi la sua scorta». Pubblicato mercoledì, 11 dicembre 2019 su Corriere.it da Stefania Chiale, Pierpaolo Lio e Maurizio Giannattasio. Corteo nel cuore di Milano e tanti cittadini stretti alla senatrice. «Insieme contro l’odio», hanno gridato, tra striscioni, applausi e Bella ciao intonata in Galleria. «Cancelliamo le parole odio e indifferenza». Poi l’Inno. Il sindaco Sala: «Esiste il pericolo antisemitismo». È uno scudo di carne e ossa contro l’odio virtuale. Un popolo che si fa scorta, a difesa di Liliana Segre, la senatrice a vita sopravvissuta alla Shoah e diventata bersaglio delle minacce da tastiera. Silenzioso, ordinato, variegato ma senza bandiere, questo esercito pacifico di tremila persone si mette in marcia da piazza Mercanti, a due passi dal Duomo, guidato dai pretoriani in fascia tricolore dietro allo striscione «L’odio non ha futuro». C’è il partito dei sindaci, fiaccola alla mano, chiamato a raccolta da Beppe Sala e Matteo Ricci, primi cittadini di Milano e Pesaro, supportati da Anci, Upi e Lega autonomie. Alla fine i sindaci sono oltre seicento, di ogni colore e da ogni angolo d’Italia: da Giorgio Gori (Bergamo) a Dario Nardella (Firenze), Leoluca Orlando (Palermo), Chiara Appendino (Torino), Virginio Merola (Bologna), Federico Pizzarotti (Parma), Claudio Scajola (Imperia). Si stringono alla testimone dell’orrore, a una delle ultime voci della memoria. I primi passi sono difficili. L’incrocio con un altro popolo, quello dello shopping, all’inizio è traumatico. Il corteo fatica a farsi largo in piazza Duomo. E ancor di più nel budello della Galleria. Ma i passanti indaffarati nelle compere natalizie si trasformano in curiosi prima, in partecipanti poi. Applaudono al passaggio della marea tricolore, si affacciano dalle finestre ai piani alti dei negozi, si uniscono a quel «Bella Ciao» intonato al momento dell’abbraccio alla senatrice Segre sotto la volta stellata dalle luminarie dell’Ottagono, cantano l’inno che chiude la marcia. Vogliono essere monito agli odiatori, ai razzisti, agli ignoranti che attaccano, offendono, minacciano, nascosti dietro a un monitor. «Siamo noi la scorta civica a Liliana Segre». «Siamo pronti a tornare in marcia se il clima non cambierà», avverte dal palco in piazza Scala il sindaco Sala, che percepisce nel Paese il «rischio» di un razzismo dilagante. Per questo chiede la linea dura: «A volte è un problema come il sistema giudiziario tratta i casi evidenti di un comportamento teso al razzismo o al fascismo». Mentre Oltremanica il tifoso che ha mimato la scimmia è stato subito arrestato: «Vorrei vedere una cosa simile anche in Italia». Spiega Antonio Decaro, sindaco di Bari e presidente Anci: «Siamo qui per dire con forza che non accettiamo nessun tipo di fanatismo, l’unico che i sindaci accettano è quello per la libertà, la democrazia e il rispetto».

Ricordare le vittime del nazismo è diventato "divisivo". Così è stata definita la visita ad Auschwitz dal sindaco di Predappio o le pietre d'inciampo in provincia di Vicenza. Siamo al delirio. Sofia Ventura il 13 dicembre 2019 su L'Espresso. “Divisivo: che crea divisioni o contrapposizioni, impedendo di preservare o di raggiungere un’unità di punti di vista e di intenti” (Treccani). Il sindaco di Predappio qualche settimana fa aveva considerato divisiva l’iniziativa di finanziare il viaggio di uno studente ad Auschwitz. Il comune di Schio di recente ha rifiutato di installare pietre di inciampo in memoria dei suoi cittadini deportati ad Auschwitz considerando la proposta anch’essa divisiva. Quale unità avrebbero incrinato la visita ad Auschwitz e le pietre di inciampo? Qualcuno si sarebbe sentito offeso da un ricordo di amore e pietà per le vittime e condanna per i carnefici? A Predappio e a Schio forse si ritiene che esista una parte che si richiama ai carnefici, che questo richiamo sia legittimo e che non si debba offendere questa parte. Già, perché a rigor di logica è questa la conclusione alla quale si giunge riflettendo su quelle decisioni. Naturalmente chi le ha assunte naviga in un brodo di pensiero confuso, banalizzante e vuoto di conoscenza e negherebbe una tale deduzione. Eppure lì si arriva. Perché sostenere che ricordare le vittime dello sterminio nazista degli ebrei senza ricordare vittime di altri totalitarismi e ideologie sarebbe “divisivo”, oltre a essere insensato (in questo modo non si ricorda più nulla, perché c’è sempre qualcos’altro da ricordare), presuppone che il nostro Paese sia diviso in due parti che si sentono legate l’una al fascismo e al nazional-socialismo, l’altra al comunismo, e dunque ricordare gli orrori degli uni e degli altri deve procedere sempre di pari passo per non urtare le sensibilità di nessuno. Un puro delirio. Figlio di meccanismi pavloviani azionati da un’incultura che si sta diffondendo e che non è più in grado di riconoscere la differenza tra il bene e il male e fa strame di quei fragili e imperfetti confini tra ciò che è accettabile e ciò che non lo è, che dalla Seconda guerra mondiale in poi, con fatica, tra riconoscimenti tardivi e ipocrisie non sempre facili da superare, abbiamo cercato di costruire. 

Liliana Segre e Olga Misik sono le persone dell'anno dell'Espresso. La senatrice a vita sopravvissuta ai campi di concentramento e l'attivista russa sono le due donne scelte dalla nostra testata per il 2019. Insieme sono una corda tra la generazione che ha conosciuto direttamente il male e l'altra che vuole combatterlo nel nuovo secolo. L'Espresso il 12 dicembre 2019. Liliana Segre, nata nel 1930, è la persona dell’anno che L’Espresso ha scelto per il 2019.  «Io sono rinata due volte», dice di sé. Rinata dopo essere stata esclusa dalle scuole, tradita dagli amici, deportata ad Auschwitz, strappata dal papà che non rivedrà più. Sergio Mattarella l’ha nominata senatrice a vita nel 2018 per significare che la Repubblica non rimuove la vergogna delle leggi razziali e la complicità nell’Olocausto degli italiani e non dimentica che nel rifiuto di ogni forma di razzismo e fascismo affonda le sue radici, nel segno dell’unità e della memoria condivisa. E invece, da più di un mese la senatrice Segre vive sotto tutela, minacciata e insultata dopo il voto del Senato sulla sua proposta di istituire una commissione sull’odio. Insieme a lei, Olga Misik, russa, 17 anni. Il mondo l’ha conosciuta nella scorsa primavera quando si è seduta per terra davanti alla polizia di Vladimir Putin in tenuta anti-sommossa con un gesto semplice e rivoluzionario, la lettura degli articoli della Costituzione russa del 1993, in particolare l’articolo 29 sulla libertà di pensiero e di stampa («A ciascuno è garantita la libertà di pensiero e di parola. Non è ammessa la propaganda o l’attivismo che inciti all’odio ed all’ostilità sociale, razziale, nazionale o religiosa. Nessuno può essere costretto ad esprimere le proprie opinioni e convinzioni o a rinunciare ad esse. È garantita la libertà dell’informazione di massa. La censura è proibita»), simile all’articolo 21 della nostra Carta. Liliana e Olga, ritratte per la nostra copertina da Maki Galimberti, sono due volti del tempo che ci è dato da vivere e di questo ultimo anno del secondo decennio del secolo, in Italia e nel mondo. Una testimone degli orrori del Novecento e della possibilità di rinascere e un’attivista del Duemila. Un’anziana signora, amante della sua famiglia, di figli e nipoti, che porta stampato sulla pelle quel numero di matricola 75190, Auschwitz, lo sterminio degli ebrei pianificato dal nazismo. E una giovane donna che riassume nel suo gesto di rivolta contro un potere autocratico la grande novità del 2019. Il ritorno del protagonismo dei giovani, la richiesta di politica che si esprime con il dissenso personale, o tutti insieme, nelle piazze.

Segre: «Io sono una cittadina, lasciamo il Nobel a chi lo merita». Pubblicato sabato, 14 dicembre 2019 da Corriere.it. «Bisogna dare i premi Nobel a chi li merita veramente, non a una cittadina molto più semplice come sono io. Lasciamo i Nobel ai Nobel». La senatrice a vita Liliana Segre commenta così la proposta di candidarla al Nobel per la Pace arrivando al teatro sociale di Alba (Cuneo) dove riceverà il riconoscimento Tartufo dell’anno 2019, nel 70esimo anniversario dell’assegnazione della medaglia d’oro al valore militare della cittadina cuneese simbolo della Resistenza. La proposta di candidare la senatrice Segre al Nobel è arrivata dal sindaco di Pesaro e presidente di Legautonomie, Matteo Ricci, che ha invitato tutto il Parlamento italiano a prendere posizione: «Ho inviato ai gruppi politici del Parlamento italiano e ai Presidenti di Camera e Senato questa importante richiesta: Candidiamo Liliana Segre Nobel per la Pace». Il presidente della Camera Roberto Fico ha commentato così: «Liliana Segre rappresenta una figura di riferimento per tutta l’Italia e tutto il Parlamento. Parliamo di una donna che porta avanti i valori più sani per una società: il dialogo e il confronto contro ogni forma d’odio. Non è solo una custode della memoria ma una vera e propria artigiana di pace, che si impegna quotidianamente per tenere vivi i principi di tolleranza e rispetto per l’altro». Anche la presidente del Senato Elisabetta Casellati si è detta d’accordo: «Accolgo con convinzione e apprezzamento la richiesta del sindaco di Pesaro di sostenere la candidatura della senatrice Liliana Segre al Premio Nobel per la Pace. Ritengo sia un giusto e doveroso riconoscimento per ciò che la senatrice Segre rappresenta, per la sua storia e per il suo impegno in favore della custodia della memoria dell’Olocausto e contro l’odio, l’intolleranza, l’indifferenza».

Sono i professionisti dell’odio “democratico”. Da sempre si chiamano comunisti. Niccolò Silvestri sabato 2 novembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Più faccia tosta di così. Leggete che cosa scrive su Fb il governatore della Toscana, Enrico Rossi: «”Costituzione sovietica”, “commissione Segre sovietica”. Berlusconi e Salvini tacciano come sovietico quello che odiano. Noi amiamo la Costituzione e la chiamiamo democratica e antifascista; noi siamo d’accordo con la commissione Segre che è contro il razzismo e contro l’odio». Detto da uno che definisce “fascista” non solo tutto quel che odia ma anche quel che politicamente non gli torna, ricorda il bue che dà del cornuto all’asino. Il massimo della faccia tosta. Già, è davvero una strana pretesa, questa dei comunisti – e Rossi lo è -, di detenere il monopolio dell’odio e dell’insulto.

I comunisti pretendono il monopolio dell’insulto. Per loro è un gioco da ragazzi: basta aggiungere l’aggettivo democratico e tutto – fosse anche uno sputo – si nobilita, si depura, si sterilizza. Chiedere per conferma a Lilly Gruber, detta la Rossa per il colore dei capelli e della passione politica. Tutte le sere, dal salotto di Otto e mezzo, predica contro l’odio. Degli altri, s’intende. Il suo, invece, riesce a malapena a trattenerlo. Tracima infatti come un fiume rigonfio appena parla di Salvini e della destra. I comunisti – ex, post e neo – sono fatti così. Ti lisciano non appena intravedono la breccia in cui infilarsi per andare a portare scompiglio tra il nemico di classe. Ora è il turno di Mara Carfagna, per anni brutalizzata dagli stessi che ora la blandiscono come la paladina della riscossa liberale di Forza Italia.

La destra che li sconfigge è fascista. Quella che perde, liberale. Sì, perché dimenticavamo di dirvi che l’altra grande passione dei comunisti – di ieri e di oggi – è quella di definire l’avversario sulla base delle loro convenienze. Se lo battono nelle urne, è moderno, democratico e liberale. Diversamente, è rozzo, razzista e fascista. Inutile rimarcare che in settant’anni di storia repubblicana tutti gli avversari appartenevano alla seconda categoria, salvo poi beatificarli a babbo morto. È accaduto con De Gasperi, sta accadendo con Craxi a accadrà con Berlusconi. È il solito vizietto dei comunisti: amano definirsi progressisti, ma viaggiano con almeno vent’anni di ritardo sulla storia.

La vignetta shock di Ellekappa: Salvini e leghisti come dei maiali. Salvini replica: "Se questi sono gli argomenti della sinistra, abbiamo già vinto". Le reazioni dai social: "Questo è vero odio". Luca Sablone, Domenica 03/11/2019 su Il Giornale. La campagna contro Matteo Salvini in vista delle elezioni Regionali in Emilia-Romagna è iniziata. Non un attacco da parte degli avversari, ma da Ellekappa. Nella vignetta di Laura Pellegrini pubblicata su La Repubblica è stato disegnato un maiale con un bavaglio verde che dice: "Oink". Poi in allegato la vignettista ha provato a spiegare i motivi per cui il leader della Lega sta riuscendo a ottenere un record di successi: "Perché Salvini è già così popolare in Emilia? Perché parla alla pancia della gente".

"Abbiamo già vinto". Subito dopo la pubblicazione della vignetta, è arrivata la secca replica di Salvini. "Se questi sono gli argomenti della sinistra, abbiamo già vinto!", ha scritto l'ex ministro dell'Interno su Twitter. Appaiono piuttosto srani gli attacchi agli elettori emiliani che storicamente hanno sempre votato a sinistra. Ora, con l'ombra della possibile vittoria del centrodestra alla prossima tornata elettorale, potrebbero vengono già accusati dai progressiti di un "errore fatale". Secondo stime elaborate nei giorni scorsi dal direttore generale di MG Research, Roberto Baldassari, per il sito Affaritaliani, il Pd e i suoi alleati sarebbero nove punti percentuali dietro al centro-destra. Anche con un accordo con il Movimento 5 Stelle la vittoria non è affatto scontata.

Filippo Facci contro Repubblica: "Chi vota Lega è un maiale? Ecco cosa sbaglia la sinistra". Libero Quotidiano il 3 Novembre 2019. Messaggio: Salvini è un maiale, oppure i leghisti sono dei maiali. Varianti: gli emiliani sono dei maiali, gli emiliani ragionano con la pancia (ma solo ultimamente) dopodiché le possibili associazioni sono finite: e sono Salvini, leghisti, pancia, maiali, Emilia. La vignetta troneggia al centro della pagina 8 di Repubblica di ieri (guardatela) e s' intende che trattasi di satira, firmata Ellekappa. Non c' è scritto «satira», anzi, la vignetta sostituisce una qualsiasi fotografia che non renda la pagina una colata di piombo: non c' è scritto che è satira, mai, sarebbe didascalico, e la satira si fa, è normale, ci mancherebbe che ora ce la prendiamo con la satira. Fossimo dei seriosi, diremmo che il problema non è che la satira è accasata nelle cose della politica (l' articolo di Repubblica parla di Salvini, ovviamente) ma che la politica ormai è accasata definitivamente nella satira, il problema quindi è che tanta «gente» (quella che ragiona con la pancia, secondo Repubblica) non coglie più le differenze anche perché il personale politico è una rassegna satirica; la «gente» evocata da Repubblica, cioè, non distingue tra una caricatura di Crozza e il personaggio caricaturato: ecco perché non cercano più la caricatura ma direttamente la somiglianza, la copia. Discorsi complicati: resta che non da oggi - anzi, da una trentina d' anni - Repubblica parla alla sua, di «gente», e mostrifica il nemico. Ed è libera di farlo, ma poi è anche libera di vederne i risultati nelle urne. E questi risultati premiano i mostri, il più delle volte. È così, e da una vita lo dicono e ripetono sociologi, sondaggisti, tabaccai e netturbini: la demonizzazione esasperata (Berlusconi insegna) induce a consenso per il demonizzato, che perciò gongola. Gli articoli - quelli dove troneggia una vignetta di satira - magari sono seri, parlano di scambi dialettici, di luoghi istituzionali, di coreografie tradizionali della politica: ma la gente guarda prima la vignetta perché è immediata, è come un titolo, è una scorciatoia del pensiero e meglio una sua mancanza, un cedimento. E allora Salvini maiale, fascista eccetera, che si fa prima. Nel tempio del politicamente corretto hanno passato gli anni a dipingere un fantomatico partito dell' odio (fantomatico mica tanto: intendevano sempre Salvini) e poi l' odio lo fomentano loro, o questo direbbero di una vignetta speculare. Poi c' è il discorso della «gente», se non pare complicato anche questo; la vignetta mostra un maiale (che non è chiaro se rappresenti Salvini o il suo elettorato emiliano: ma fa lo stesso, l' ambiguità fa gioco) e dovremmo credere che Salvini «parla alla pancia della gente» mentre una vignetta del genere parlerebbe all' intelletto dei lettori. Dovremmo pensare che gli elettori della Lega, oggi, possano essere come quelli dei primi anni Novanta, i lumbàrd arroccati nei loro ranch e pronti a sparare a ogni anima sotto Bergamo. Di chi parliamo, poi? Degli elettori emiliani, gente che storicamente votava a sinistra ma d' un tratto s' è tramutata in maiali, come Lucignolo si trasformò in un somaro: è cambiato il mondo, e quindi è cambiato persino il triangolo rosso Emilia Romagna-Toscana-Umbria, è tramontata persino l' ombra lunga del Partito Comunista, persino il voto popolare, soprattutto è cambiata l' Italia del primario e del secondario che è riuscita a tenere il passo dei mercati mentre la sinistra diventava rifugio per i garantiti, i ceti medio-alti e i sedicenti intellettuali: quelli che dicono «maiale» o «ragiona con la pancia» a chiunque si sia accorto che il mondo è cambiato, appunto. In effetti si può votare con la pancia oppure col portafoglio: l' altitudine è la stessa, si vota comunque in zona culo. Tranquilli, è satira. di Filippo Facci

L’odio dei “buoni”. Max Del Papa, 3 novembre 2019 su Nicolaporro.it. Se c’è una cosa che i regimi autoritari e totalitari ci hanno insegnato è che le parole risuonano. Hanno una eco, il più delle volte (di) sinistra. Prendiamo “commissione”, ad esempio: già evoca foschi scenari, controlli, guardie in divisa che ti bussano alla porta, ti portano via, verso un processo kafkiano. Se poi una commissione la si battezza col nome di chi queste esperienze ha vissuto davvero, la faccenda si fa oltremodo sgradevole: “Commissione Segre”, davvero non si può sentire, almeno per chi certi spettri li rispetta, non li inflaziona, non si tira per il lenzuolo. È troppo lugubre, è perfino offensiva – quella sì. Per cui salviamoci con un pizzico di ironia, che non fa mai male, buttiamola in ridere, tanto per alleggerire, e chiamiamola “Kommissione Doubtfire”, dal personaggio del film che secondo qualcuno somiglia irresistibilmente alla senatrice a vita; per scherzo, non per odio, sia chiaro. Ebbene, la Kommissione Doubtfire appena inaugurata è sembrata sdoganare una sorta di furioso furore per chi non si è affrettato a votarla all’unanimità, scetticismo rimarcato dall’interessata con una frase inconsapevolmente agghiacciante: “Sono rimasta stupita, io facevo una operazione etica”. Ecco, già l’etica per via parlamentare è qualcosa di preoccupante, specie se ad incarnarla è uno solo. Ma andiamo avanti. Chi non ha fatto la ola a Liliana subito in fama di nazista, inchiodato dai giornali dell’amore, messo all’indice (a senso di marcia invertito, si potrebbe parlare tranquillamente di odio, ma si sa che odiare un “fascista” non è reato, anzi è doveroso in quanto tutela democratica). Tra gli effetti collaterali: il vignettista Vauro, strenuo difensore delle frange palestinesi più esagitate contro Israele, che con gli occhi fuor dalle orbite ordina a un parlamentare leghista di alzarsi in piedi al nome della Segre; blocchi e censure sui social per quanti in odore di sovranismo o di critica alla Kommissione, come l’editore Francesco Giubilei, misteriosamente bloccato su Facebook, e la giornalista del Primato Nazionale Francesca Totolo, bersaglio di una virulenta campagna su Report, un cui sgradevole consulente si vanta su Twitter, tra un insulto e l’altro, di poter censurare chi vuole; sempre la Totolo subisce ambigue situazioni di boicottaggio telematico, con il profilo semioscurato e la perdita arbitraria di follower; stessa sorte per il sito satirico Arsenale K. Quanto a Giubilei, contestualmente alla sua ospitata a LineaNotte fioriscono appelli a sfasciargli la testa con una mazza, memori del trattamento riservato a Sergio Ramelli quasi 45 anni fa (pessimo sangue non mente); su Repubblica, d’altro canto, l’altra vignettista organica, ElleKappa, raffigura l’elettore medio di Salvini come un porco, mentre Erri de Luca impartisce lezioni di economia globalista: “La rinuncia all’impiego di manodopera immigrata a basso costo è atto di autolesionismo” (esterrefatti i lettori, o a Erri gli è scappata o era su di giri); fino al parossismo dell’ebreo Franco Bechis, linciato in fama di ebreo dai difensori dell’ebrea Liliana Segre. A contorno, le solite effervescenze all’università di Trento se appena si azzardano a invitare il cronista del Giornale Fausto Biloslavo, le immancabili escandescenze dell’Anpi a 360 gradi, dove c’è casino ci sono gli arzilli nonnetti, tra i quali possiamo annoverare senz’altro Natalia Aspesi, la serena vegliarda di Repubblica che sogna di mitragliare con precisione, come nella canzone di Finardi: “Pian piano, ho maturato la fantasia di sparare a loro (…) Nessuno può più negarmi di imbracciare un kalashnikov. Sono vecchia. Sono sola. Sono gravemente turbata dalla condizione disperata degli italiani. Ho tutto il diritto di fare una strage”. Se non altro a parole, visto che dà della kapò alla Meloni, dei bugiardi patentati ai vari Porro, Capezzone, Belpietro, eccetera. Il tutto nel giro di pochissime ore dal varo della Kommissione Doubtifre (“Capovaro, vadoooo? Vadi, senatrice, vadiii!”). Di materiale, ce ne sarebbe. Ma, dalla Kommissione, finora neanche un fiato. Forse Mrs Doubtfire non ha saputo niente, non l’hanno informata, del resto lei stessa confessa candidamente di avere appreso per conto terzi dei fatidici “200 insulti al giorno” che la bersagliano sui social: “Nemmeno io lo sapevo, l’ho appreso dai giornali, io non frequento i social”. Ma chi li frequenta, viceversa, si spolmona nel chiedere prova di questi 200 insulti a tassametro e non ottiene risposta. Qualcuno non volendo produce smentite boomerang, ne citiamo uno alla lettera: “Volevo dire a Liliana Segre e ai suoi cialtroni a rimorchio che gli unici che mi hanno attaccato con i bastoni chiamandomi ebreo di merda, mentre sfilavo con la Brigata Ebraica a Roma, sono stati quelli dei centri sociali e dell?Anpi. Quelli che lei difende: gli antifa-propal!”. Dove facilmente si evince che, tuttalpiù, l’invettiva è non per la Segre, ma per i cialtroni a rimorchio. Ma forse è la sostanza a offendere, e su quella è dubbio che la Kommissione Doubfire interverrà, posto che è stata concepita per tutt’altri motivi: controllo delle idee, di pensieri e parole, messa all’indice di tutto quanto non si allinei al pensiero unico di stampo politicamente corretto progressista. Basta leggerlo, il documento che la insedia, questa insidia per la libertà. All’osso, il varo della Kommissione “sugli stati d’animo”, come la definisce Giancristiano Desiderio, pare avere impresso, come primo effetto, una accelerazione all’amore di chi vuole appendere gli odiatori a testa in giù, ovviamente dopo avergliela spaccata con una mazza. Ma, come si diceva nel ’68, “è solo l’inizio”: come potrà finire, lo scopriremo solo morendo. Max Del Papa, 3 novembre 2019

Pietro Senaldi: "E' la sinistra che fomenta sempre il razzismo. I picchi si sono avuti con D'Alema e Prodi". LIbero Quotidiano l'1 Novembre 2019. Il Pd esulta per la commissione parlamentare contro il razzismo, approvata mercoledì con i voti della maggioranza e l' astensione del centrodestra, ma ha poco di cui rallegrarsi. Se la commissione lavorerà bene infatti non potrà che giungere alla conclusione che i principali responsabili del razzismo in Italia sono proprio i sinistri. Come certificato dall'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, secondo il quale in Italia i picchi di avversione agli immigrati si registrano non quando Salvini siede al Viminale bensì allorché governa la sinistra. Ottobre 1999, novembre 2007, settembre 2017: D'Alema, Prodi e Gentiloni, sono loro i premier dell'odio, quelli sotto il cui regno sono aumentati razzismo e xenofobia. C' è poco da stupirsi. Gli italiani non sono un popolo razzista. Semplicemente chiedono che il fenomeno migratorio sia affrontato e regolato seriamente dallo Stato. Se questo succede, si sentono protetti dalla legge e compresi dalla classe politica, e pertanto sono accoglienti. Quando invece non accade, i cittadini si preoccupano, si impauriscono e si chiudono. Se ne è avuta la riprova nei 14 mesi della Lega al ministero dell' Interno: pugno duro, meno sbarchi e meno allarme sociale si sono tradotti in un crollo degli episodi di razzismo. Gioco sporco - Sono il buonismo, l' apertura indiscriminata delle frontiere, l' equiparazione truffaldina di persone da aiutare a risorse, il foraggiamento dei professionisti dell' accoglienza a incattivire gli italiani, che non si ritengono compresi nei propri timori e nei propri bisogni. La sinistra degli attici filosofeggia, vola alto, predica, non capisce; pertanto il cittadino si sente solo contro tutti e vede l' immigrato come un nemico, e più i progressisti glielo incensano, più lo detesta. Il concetto è semplice, ma da Bersani a Fratoianni, da Zingaretti a Fico, fino a Renzi, tra progressisti e compagni non ce n' è uno che lo afferri. Non è stupidità ma calcolo politico sbagliato. La sinistra alimenta l' odio non regolamentando l' immigrazione e poi ci specula sopra accusando la destra di xenofobia. Salvini e Meloni subiscono le accuse ma, anziché pagare dazio, ne risultano i beneficiari, in quanto finire sul banco degli imputati perché chiedono di privilegiare gli italiani rispetto ai clandestini consente loro di guadagnare voti. Intanto la xenofobia sale e gli immigrati finiscono per essere vittime della sinistra, la quale al solito è vittima di se stessa. Quando si parla di razzismo, i progressisti giocano spesso sporco. È il caso delle polemiche sulla senatrice Liliana Segre, novantenne sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti, la cui sofferenza viene strumentalizzata in questi giorni dalla maggioranza. La signora è vittima di insulti su internet in quanto ebrea, anche se non professa la fede dei rabbini ma è stata battezzata presso le suore Marcelline. Per i compagni però, come per i nazisti, l' ebraismo non è una religione, e pertanto questione di culto, ma attiene ai natali, e quindi è affare di razza. La cosa non stupisce, visto che in Italia antisemitismo e avversione verso Israele stanno da sempre di casa a sinistra. Chi stabilisce cosa è odio - Gli attacchi alla Segre, come detto, sono stati presi dalla maggioranza a pretesto per istituire la commissione anti-odio, e fin qui poco male. Quel che non si può accettare è che l' organo parlamentare si dia compiti che esondano dalla lotta al razzismo e arrivano fino al potere di stabilire chi può dire una cosa e chi no e di chiedere la censura delle opinioni non gradite. In altre parole, il neonato organismo parlamentare potrebbe decidere che un partito che si dà lo slogan trumpiano «prima gli italiani» o che un giornale che specifichi la nazionalità extracomunitaria di un assassino o uno stupratore istighino all' odio razziale. Per questo il centrodestra non ha votato a favore della Commissione Segre, la cui natura morale anziché investigativa getta le premesse per un controllo politico dell' attività dell' opposizione e dei suoi sostenitori. Nazionalismo, tetti agli ingressi di immigrati, scetticismo nei confronti dell' Europa da domani potrebbero essere considerati preludio di razzismo, la qual cosa non sarebbe un progresso per la democrazia. Pietro Senaldi

Vittorio Feltri e la sentenza tombale: "Ecco la differenza tra i fascisti e i centri sociali". Libero Quotidiano il 3 Novembre 2019. La sinistra esulta perché si è data una commissione che procederà contro i razzisti, specialmente gli antisemiti, come se gli italiani fossero in numero elevato nemici degli ebrei. Vedremo in quale modo agirà il nuovo organismo, poi lo giudicheremo. Intanto poniamoci alcune domande. Se uno dice o scrive che gli africani gli stanno sul gozzo va punito? E quale punizione gli sarà inflitta? I progressisti predicano da anni che non bisogna fomentare l' odio, e avrebbero ragione se non fossero i primi a insultare con espressioni violente gli avversari politici. Ne sanno qualcosa Salvini e la Meloni che, essendo considerati di destra, possono tranquillamente essere vilipesi come non fossero esseri umani degni di rispetto. Parliamo dei fascisti. Per quelli del Pd e similari essi costituiscono il pericolo pubblico maggiore. In realtà sono una risibile minoranza: alle elezioni periodiche i signori di CasaPound non superano mai lo 0,5 per cento, la prova che non contano nulla e nulla da loro si deve temere. Eppure un giorno sì e un giorno no si scatena una lagna tesa a enfatizzare il ritorno preoccupante delle camicie nere (inesistenti). Gli ex comunisti ad ogni consultazione politica e amministrativa perdono, ma non perdono il vizio di suonare il piffero antifascista, nella convinzione che ciò porti voti. Non è così. Anzi i cittadini ho l' impressione che siano disgustati da un tipo di propaganda noiosa e ripetitiva. Tanto più che a tutti è noto un fatto: di solito i disordini sono provocati dai centri sociali, i quali per altro sono tollerati se non addirittura protetti dagli enti locali, che ad essi concedono immobili gratuitamente dove svolgono attività spesso illegali. Non solo. Si dà il caso che i giovanotti estremisti rossi siano in massima parte filopalestinesi inclini a dare alle fiamme le bandiere israeliane in occasione di ricorrenti manifestazioni. È evidente che la succitata commissione parte col piede sinistro e servirà prevalentemente allo scopo di perseguire chi non è stato ingoiato dal conformismo dei compagni. Vittorio Feltri

Il rettore denuncia e pubblica le foto dell'occupazione "Noi lasciati soli". Alberto Giannoni, Lunedì 04/11/2019, su Il Giornale. Uno «scempio», una «sopraffazione» che si è compiuta senza resistenze e che rischia di ripetersi. L'università Statale, in via Festa del Perdono, è stata violata dai soliti noti e il rettore Elio Franzini è letteralmente infuriato, e reagisce con una denuncia formale già pronta, ma anche con la pubblicazione delle foto sul sito dell'ateneo e con un intervento durissimo, sulla «occupazione non autorizzata» avvenuta giovedì sera in occasione della festa di Halloween. I centri sociali, con la solita incredibile faccia tosta, li chiamano «momenti di aggregazione e sfogo» o «spazi di libertà». La Statale invece definisce scempio e occupazione illegale. E denuncia: «La festa si è svolta tra le 22 e le 5 del giorno successivo e a essa hanno partecipato centinaia di ragazzi, molti dei quali minorenni e in gran parte forse inconsapevoli del contesto di illegalità in cui tale evento è maturato». Il rettore spiega: «Ogni misura precauzionale non è bastata. Dopo le 16, siamo rimasti soli, testimoni di un reato che si compiva senza nulla poter fare, ad assistere alla preparazione dello scempio che vedete e che soltanto per un caso non ha avuto conseguenze peggiori, come quelle che si sono di recente verificate, in contesto del tutto analogo, presso un'altra università italiana». «La difesa pacifica e condivisa della legalità - aggiunge - è compito arduo al quale non ho intenzione di sottrarmi: richiede tuttavia un'assunzione di responsabilità da parte di tutti, dentro e fuori l'Università, in primis dalle autorità deputate alla nostra sicurezza, alle quali rivolgo un appello a nome di tutto il nostro Ateneo».

Federica Cavadini e Gianni Santucci per il “Corriere della Sera” il 5 novembre 2019. Il rettore della Statale giovedì pomeriggio è davanti all' ingresso dell'università, accanto a lui il direttore dell' ateneo. Vedono scaricare casse di birre e alcolici e tutti i materiali che servono per una festa con centinaia di ragazzi. «Non autorizzata. Illegale. Una sopraffazione che non si deve ripetere», spiega Elio Franzini che domenica sul sito dell' ateneo pubblica le immagini del giorno dopo e una lettera aperta con un appello alle forze dell' ordine: «Siamo rimasti soli, testimoni di un reato che si compiva senza nulla poter fare, ad assistere alla preparazione dello scempio che vedete». E va avanti il rettore, ieri ha incontrato il questore Sergio Bracco. E ha depositato una denuncia contro ignoti, un fascicolo è aperto in Procura. Cerca «soluzioni ispirate a una pacifica ma ferma assunzione di responsabilità». «Le immagini che vedete si commentano da sole - scrive -. Sono il risultato dell' ennesima occupazione illegale avvenuta giovedì sera». Nei dieci scatti pubblicati ci sono cumuli di bicchieri e bottiglie, nell' atrio, davanti all' aula magna: lì centinaia di ragazzi la notte del 31 hanno ballato fino all' alba. E in Rete ci sono anche le immagini della festa, gli spazi dell' ateneo come una pista da ballo, sullo scalone il palco per il dj, scatti e video sono sulle pagine dei collettivi che hanno lanciato la Halloween Night: «Festa senza Perdono», dalle 22 alle 5 del mattino, tre euro l' ingresso. «Queste feste abusive sono state tollerate per molti anni ma sono convinto che un atteggiamento di rassegnazione sia sbagliato», dice il rettore. «Solo per caso non ci sono state conseguenze peggiori come quelle che si sono recentemente verificate, in contesto analogo, presso un' altra università italiana». Il riferimento è alla festa alla Sapienza, lo scorso giugno, con un ragazzo morto dopo aver provato a scavalcare per entrare. «Serve un' assunzione di responsabilità, dentro e fuori l' università, in primis delle autorità deputate alla nostra sicurezza, alle quali rivolgo un appello», continua la lettera. Ed ecco il punto: «L' auspicio è che si possa garantire la sicurezza senza essere costretti a scegliere tra due estremi, le cariche della polizia o una posizione di passività», spiega il rettore. «Serve una via di mezzo, azioni dissuasive», è la sua linea. «Le forze dell' ordine erano disposte a entrare in università ma non ho chiesto questo intervento, non era il caso, si rischiavano scontri, sarebbe stato rischioso per le persone e anche per il luogo. Devono esserci vie alternative, spero che saranno esplorate». Era possibile una terza via? Dal Sessantotto le forze dell' ordine non entrano in un' università senza la richiesta del rettore. E quando Franzini giovedì pomeriggio chiede di impedire la festa la risposta è semplice: «Per intervenire in università serve una richiesta formale». La questura potrebbe dover impiegare il Reparto mobile, per far uscire gli occupanti, per impedire gli accessi. Il rettore nella lettera scrive che «ogni misura precauzionale non è bastata» e racconta del suo tentativo di evitare «lo scempio». «Avevamo allertato le forze dell' ordine e nel pomeriggio agenti in borghese erano davanti all' ateneo per un "vigilanza passiva". Dopo le quattro siamo rimasti soli». Quindi aggiunge: «Avevamo deciso una chiusura anticipata dell' ateneo alle 16. Siamo riusciti a chiudere i due portoni principali, non quello pedonale, una decina di studenti ci ha impedito di farlo ed è rimasta all' interno. Così fino alle otto di sera hanno lavorato per preparare la festa. Sono arrivati in centinaia». Ieri hanno risposto al rettore gli studenti dei collettivi che hanno organizzato la serata. Ed è un altro racconto. «La organizziamo da sei anni senza ostacoli o rimostranze. È uno straordinario momento di condivisione - scrivono -. Non vi sono stati incidenti e abbiamo ripulito parzialmente la sala. La risposta a tutto questo sono le migliaia di ragazzi arrivati».

Se l'Università di Milano minaccia di morte Salvini. Panorama il 10 maggio 2019. "Sparate a Salvini, Salvini a testa in giù" recitava uno striscione appeso alla Statale e firmato dagli studenti. "Salvini muori, Salvini crepa, Salvini infame, sparate a Salvini, Salvini a testa in giù". A leggere questo striscione comparso ieri a Milano (in seguito a quest'ultima moda della protesta con il lenzuolo) in realtà non c'è nulla di nuovo, di già letto o che spaventi per il suo contenuto. Di minacce di morte il leader della Lega ne riceve diverse, ogni giorno. Quello che stupisce è la firma ed il luogo dove lo striscione è stato creato ed esposto. Non stiamo infatti parlando di un centro sociale o la sede di qualche partito antagonista, no no. Lo striscione è firmato "Gli Studenti e Le Studentesse dell'Università Statale di Milano" ed è stato esposto dalla sede storica e simbolica dell'ateneo in Via Festa del Perdono. E questa è una cosa grave. In casa propria, sul balcone o sulla finestra, ognuno ha il diritto di esporre lo striscione che vuole. Ma se la cosa viene fatta sulle mura di uno dei più prestigiosi luoghi di Milano dedicati alla cultura, al pensiero, ai giovani allora la cosa diventa davvero grave. Siamo arrivati al punto che nelle aule dove si insegna la letteratura, la filosofia, la storia, dove si formano i professori e gli insegnanti di domani venga preparato ed esposto un cartello con una ripetuta minaccia di morte (e poco, anzi niente, importa a chi sia stata diretta). Arriviamo da una settimana in cui la vicenda della prof sospesa a Palermo per un video in cui ragazzi di 14 anni paragonano le leggi razziali del 1938 al Decreto Sicurezza del Governo Conte. Oggi questo (e sarebbe bello sapere cosa ne pensi il Rettore di quanto successo). Questa campagna elettorale, trasformata in una caccia all'uomo, rischia di essere la peggiore di sempre senza contenuti ma piena di odio e paura. Nelle piazze, in tv, e nelle università. Per fortuna tra 5 giorni è tutto finito.

Da bologna.repubblica.it il 9 novembre 2019. Cancellati dal precedente governo, sono stati ripristinati oggi dal Mibact con 25 milioni di euro i finanziamenti per il Meis, il museo dell'ebraismo di Ferrara: lo annuncia il ministro della cultura Dario Franceschini. "Lo dobbiamo a Liliana Segre - dice - a lei personalmente e a quello che rappresenta. La conoscenza è il migliore antidoto contro odio e intolleranza". Fu la stessa Liliana Segre, la scorsa primavera, la prima firmataria di una interrogazione urgente al governo Conte 1, in cui si sottolineava come il museo sia un'opera "di valore internazionale" in riferimento alla storia e alla presenza degli ebrei nel nostro Paese, "sebbene il Governo non lo voglia riconoscere o lo voglia addirittura occultare". L'allora ministro Alberto Bonisoli aveva replicato accusando l'allora giunta di centrosinistra di Ferrara di "strumentalizzazione": Questi soldi - si apprende da fonti dal Collegio Romano - non sono del Mibac e sarebbero andati persi. Invece il ministro ha garantito che quando sarà possibile aprire un cantiere, e questo avverrà solo in concomitanza con il termine dei lavori del secondo lotto che stanno per cominciare, i soldi ci saranno e partirà il bando". Franceschini ricorda oggi come "Il Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah è stato istituito con una legge dal Parlamento nel 2003. Durante lo scorso governo era saltato il finanziamento di 25 mln di euro necessario per il completamento del Museo. Ma un'idea così importante non si può lasciare a metà ecco perché attraverso una rimodulazione dei Fondi per lo Sviluppo e la Coesione del Ministero, abbiamo recuperato il finanziamento che era stato cancellato".

La memoria corta di Franceschini. Domenico Ferrara il 9 novembre 2019 su Il Giornale. “Lo dobbiamo a Liliana Segre, a lei personalmente e a quello che rappresenta. Il Mibact ha finanziato oggi con 25 milioni di euro il completamento del Meis, il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, voluto dal Parlamento con una legge del 2003. Durante lo scorso governo era saltato il finanziamento necessario per il completamento del Museo. Ma un’idea così importante non si può lasciare a metà ecco perché attraverso una rimodulazione dei Fondi per lo Sviluppo e la Coesione del Ministero abbiamo recuperato il finanziamento che era stato cancellato”. Dario Franceschini ha rivendicato così l’azione del suo ministero. Un’azione che permetterà la realizzazione di altre quattro strutture in vetro e alluminio previste nel giardino per completare il richiamo ai cinque libri del Pentateuco. Tutto molto bello, per carità. Viva la cultura. Viva il rispetto per ogni religione. Viva la sete di conoscenza. Ma ci sono due interrogativi che mi ronzano in testa.

1) Franceschini guida il ministero dal 5 settembre 2019. Come mai ha annunciato lo sblocco dei fondi soltanto oggi?

2) Visto che ha dato la colpa di aver bloccato i finanziamenti al precedente governo, come mai fino a oggi non si era mai registrata alcuna sua dichiarazione pubblica, intervista, tweet o post sullo scandalo o contro l’esecutivo precedente?

Non sarà che il ministro ha deciso di iscriversi in fretta e furia alla corsa a chi dimostra più vicinanza a Liliana Segre e a chi si dimostra più amico degli ebrei?

L’odio comunista. Nino Spirlì su Il Giornale. Sabato 9 novembre 2019. (Il muro dell’odio comunista). Esiste, l’odio comunista! Eccome, se esiste! Nacque con la prima parola scritta da Karl Marx; con la prima pronunciata da Lenin e successori, da Krusciov a Breznev e oltre; con il primo gemito della prima vittima di Stalin, Tito, Mao, Castro, Guevara, Pol Pot; con i silenzi complici di Togliatti – detto Il Migliore (e figuriamoci i peggiori) – e dei comunisti italiani ed europei…  ed è ancora vivo e palpitante nei loro eredi!  I quali, pur rincoglioniti dai comodi agi capitalistici di cui si sono ingrassati e unti, pur ricchi dei risparmi  furbescamente e mafiosamente fottuti a una mezza dozzina di generazioni di rimbambiti proletari proni e asserviti, ancora continuano a giocare la commedia dei democratici comunisti difensori del popolo e della libertà. Nulla di più falso, in realtà. Ma la grande bugia contenuta in quel mortifero manifesto del comunismo li autorizza a presentarsi ancora oggi alla grande platea ignorante del pianeta ormai virtuale come arcangeli atei difensori dell’unica verità che conoscono: nessuna. Con gli occhi iniettati di sangue, le tonsille gonfie di bile, i polmoni impregnati di veleno, sfiatano ululando nei salotti televisivi – il loro unico regno – contro chiunque non si faccia mettere collare, guinzaglio e museruola. Benedetti, si fa per dire, da un folle vecchietto di periferia, che si dice vicario di Cristo, dopo averlo spogliato, il Divino Nazareno, della Consustanzialità al Padre Eterno e al Santo Spirito, per come ci avevano insegnato i suoi veramente santi predecessori e averlo ridotto ad un operaio senza tetto delle favelas sudamericane (quando, in realtà, secondo i Sacri Testi era di STIRPE REALE, Figlio di Davide!)…Legalizzano la colpa di odio, gli odiatori seriali di Sinistra, accaparrandosi il Palazzo con un golpe massomafiopolitico, e cercano di ammutire l’Umanità, con la speranza di renderla attonita e passiva. Stendono al sole morto della loro terminale esistenza politica sgualciti spauracchi di fascisterie morte e sepolte, di razzismi e classismi pallidi come antichi tisici ricordi di sanatorio. Ma tacciono. Tacciono sulle onde di odio puro che distillano, sprizzano, spruzzano, vomitano, spalmano, estraendo da sé e dai propri malsani pensieri.

Odiano, i sinistri Sinistri. Fino a prova contraria e oltre.

Odiano senza ammettere. Odiano e chiamano giusto il proprio odio.

Lo giustificano. Lo allevano. Lo coccolano. Lo allattano. Lo confezionano. Lo spargono.

Odiano senza possibilità di recupero. Di ritorno.

Odiano. Perché non amano. Perché l’Amore viene da Dio. E loro, a Dio, PadreFiglioSpiritoSanto, non credono! Anzi…

PS: Piena solidarietà a #MatteoSalvini per le minacce e i proiettili ricevuti negli ultimi giorni, mesi, anni

Piena solidarietà a tutti i sopravvissuti ai lager nazisti, ai gulag sovietici, ai campi di concentramento comunisti, ai laogai maoisti, alle carceri islamiche… Nel ricordo perenne e doloroso di tutti i Martiri dei lager, delle foibe, dei gulag, dei campi di concentramento, dei laogai, delle carceri senza fede…

"Il Treno della Memoria è di parte", il Comune di Predappio nega i fondi per la visita ad Auschwitz. Niente contributo per due studenti. L'ira della minoranza, il sindaco: "La storia va conosciuta tutta, ci sono associazioni che strumentalizzano le tragedie". L'Anpi: "Ma visitare il lager è proprio il minimo sindacale". Micol Lavinia Lundari su La Repubblica l'8 novembre 2019. Il Comune di Predappio ha negato un contributo di 370 euro per la partecipazione di due studenti al progetto "Promemoria Auschwitz - Treno della Memoria" perché per il sindaco di centrodestra Roberto Canali "questo treno va in un’unica direzione, cioè solo verso Auschwitz". Precisa di ritenere questi progetti "encomiabili", ma "quando saranno organizzati treni anche per il muro di Berlino o le Foibe o i gulag, allora la nostra amministrazione contribuirà all’iniziativa. Io dico che la storia va conosciuta tutta, a 360 gradi, e non solo quella di parte: bisogna sapere anche cosa ha fatto il comunismo per 50 anni. Ci sono associazioni che strumentalizzano le tragedie per ragioni di parte". A sollevare il caso sono stati l'associazione GenerAzioni in Comune e il gruppo consigliare di minoranze dell'omonima lista. "E' preoccupante - scrivono - che l'Amministrazione comunale di Predappio, città che più delle altre dovrebbe sentire forte il dovere di impegnarsi per tenere viva la memoria", in quanto terra di nascita di Benito Mussolini, dove ogni anno, nell'anniversario della marcia su Roma, si ritrovano centinaia di nostalgici, "non abbia ritenuto importante dare questo segnale: ci auguriamo che possa ripensarci, altrimenti sarebbe un atto molto grave". Ma passi indietro non sembrano essere all'orizzonte. Così è l'associazione a coprire le poche decine di euro negate dall'amministrazione comunale perché i due studenti possano partecipare, unendosi al contributo già versato dall'Anpi di Forlì-Cesena. "A me sembra di sognare. Un incubo", commenta il presidente provinciale dell'Anpi Miro Gori, "e non me l'aspettavo da un sindaco che comunque reputo moderato, non certo un facinoroso. Ma cosa significa che il Treno della Memoria 'è di parte? Lo sterminio di sei milioni di ebrei è una questione di parte? Allora dovremmo buttare i libri di storia", si chiede. "Il Comune sbaglia due volte: visitare Auschwitz è un atto normalissimo di convivenza civile e di conoscenza, è proprio il minimo sindacale; inoltre che sia proprio Predappio a negare questa visita, un luogo simbolico che si ritrova invaso da negozi con oggetti del duce, nostalgici che fanno il saluto romano è assurdo". Il sindaco Canali vuole che anche le Foibe siano oggetto di memoria. "Bene, ma allora facciamo tappa anche presso gli sloveni e i greci massacrati dai fascisti, e dai libici gasati", replica Gori. "Quando ero sindaco di San Mauro Pascoli", ricorda il presidente Gori, "facevo di tutto per mandare il maggior numero di studenti ad Auschwitz, e quando tornavo a casa li facevo intervenire alle iniziative del 25 Aprile. Impossibile non avvertire la loro notevole presa di coscienza. Non son diventati mica tutti comunisti, sa?", ma cosa è stato Auschwitz l'hanno capito. La Regione Emilia-Romagna condanna fortemente la scelta del sindaco di Predappio. "In un Paese - scrivono il presidente Stefano Bonaccini e la numero uno del Consiglio regionale Simonetta Saliera - dove la senatrice Segre è costretta a muoversi sotto scorta a causa delle minacce ricevute e un sindaco, a Predappio, nega i fondi per il viaggio della memoria", dall’Emilia-Romagna "vogliamo dare un segnale forte e chiaro, con un obiettivo solo: far partire ancora più studenti, ragazzi e ragazze". I due ricordano che la Regone ha approvato "una legge sulla Memoria del Novecento e negli ultimi cinque anni la Regione ha quintuplicato i fondi (oltre 500mila euro nel 2019) proprio per i viaggi della memoria nei campi dello sterminio nazista, nei luoghi dell’orrore delle foibe e della pulizia etnica nei Balcani, perché i ragazzi coltivino il senso della storia diventando portatori di valori – pace, democrazia, contrasto a odio, razzismo e xenofobia – che non possono né potranno mai essere cancellati dall’ignoranza o dal rancore politico". A intervenire è anche il ministro dell'Istruzione Lorenzo Fioramonti, che rivolge a Canali un invito: "Venga con noi ad Auschwitz il prossimo gennaio. Il Ministero si impegna a coprire le sue spese e quelle per il viaggio negato allo studente. Il sindaco potrà viaggiare con gli altri duecento studenti delle scuole finaliste del bando di concorso sulla memoria che saranno premiati al Quirinale dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella". Il Viaggio della Memoria "ha permesso a migliaia di studenti di vedere, conoscere e ascoltare dalle parole dei sopravvissuti ciò che è stato Auschwitz. Una parentesi buia e incancellabile della storia europea. Una lezione contro ogni forma di odio, discriminazione e violenza". La presa di posizione del Comune di Predappio viene condannata anche dal segretario del Pd Nicola Zingaretti, che la reputa "il frutto avvelenato prodotto da questa destra che condanna l'antisemitismo solo a parole. Orgoglioso di Emanuele Fiano, deputato del Partito Democratico che pagherà il viaggio per gli studenti. Io, da amministratore, ho organizzato più di 10 viaggi della Memoria con piu' di 6 mila studenti e prepariamo il prossimo Viaggio di aprile per più di 500 ragazze e ragazzi. Un progetto che continueremo a portare avanti, con ancora più decisione". E la sindaca 5stelle di Roma, Virginia Raggi, invita "gli studenti delle scuole di Predappio a partecipare al prossimo Viaggio della memoria organizzato da Roma capitale", poiché, scrive su Twitter, "senza memoria non c'è futuro". La prima cittadina solo mercoledì è tornata dal Viaggio della Memoria sui luoghi della Shoah insieme alla comunità ebraica di Roma, alla fondazione Museo della Shoah e a 145 tra studenti e insegnanti romani. Due consiglieri pentastellati del M5S in Emilia-Romagna, Andrea Bertani e Raffaella Sensoli, il Pd di Forlì e dell'Emilia Romagna si sono offerti di pagare il contributo agli studenti di Predappio.

Da corrieredibologna.corriere.it l'8 novembre 2019. Il Comune di Predappio ha negato i fondi per permettere a una studentessa di un istituto del comune romagnolo che diede i natali a Benito Mussolini di visitare Auschwitz nell’ambito di un viaggio di istruzione a bordo del «Treno della Memoria» che ogni anno trasporta migliaia di studenti nel campo di concentramento nazista per permettere loro di conoscere da vicino gli orrori della Shoah. La studentessa in questione salirà comunque sul treno, la quota di 370 euro verrà infatti finanziata dall’associazione «GenerAzioni in Comune», che in Municipio occupa i banchi di minoranza in consiglio con l’omonima lista.

Il sindaco: «I viaggi delle memoria sono a senso unico». Ma le polemiche sono già divampate, ed è a spiegare le ragioni dell’amministrazione è lo stesso sindaco eletto a maggio con una lista civica di centro destra Roberto Canali: «Finchè quei treni non fermeranno anche vicino alle Foibe – spiega il sindaco - ai gulag o al Muro di Berlino la nostra posizione rimane questa. La memoria non può viaggiare a senso unico. Noi siamo i primi a reputare fondamentali i viaggi di istruzione ad Auschwitz, ma, ripeto, vogliamo che anche le altre disgrazie non vengano considerate da meno». La ragazza in questione, sarebbe per altro una parente acquisita dal primo cittadino.

L’Anpi: «Siamo esterefatti». «Dopo aver appreso la notizia della scorta concessa a Liliana Segre, ho appreso quella di un fatto inquietante allo stesso modo», spiega Miro Gori di Anpi Forlì Cesena. «Dal Comune di Predappio ci si aspetta maggiore sensibilità, visti i negozi pieni di gadget fascisti, le marce e le adunate dei neofascisti». Per la cronaca, l’associazione dei partigiani ha finanziato il viaggio di un secondo studente iscritto in una scuola locale. Anche la lista GenerAzioni, che ha segnalato pubblicamente il caso è intervenuta: «È preoccupante che l’Amministrazione comunale di Predappio, città che più delle altre dovrebbe sentire forte il dovere di impegnarsi per tenere viva la memoria, non abbia ritenuto importante dare questo segnale».

La condanna del Pd: «La memoria non è di parte». Sul caso è intervenuto anche il deputato del Partito Democratico Andrea De Maria. «I segnali si susseguono – ha attaccato - a livello nazionale l’astensione sulla mozione Segre (ora sotto scorta per le minacce ricevute sul web), in Emilia-Romagna il Sindaco di un luogo simbolo come Predappio che definisce “di parte” il treno della memoria per Auschwitz e nega il contributo del Comune. Nella memoria della tragedia del nazismo, dell’antisemitismo, della soluzione finale ci sono le radici della democrazia europea. Così come la nostra Costituzione nasce dalla ccomune lotta antifascista. Senza questa consapevolezza, senza queste radici condivise, la nostra democrazia sarà più debole per affrontare le sfide che ha di fronte».

I luoghi del terrore rosso che la sinistra finge di non vedere. Tanti i memoriali e musei che ricordano il sacrificio di cento milioni di persone. Fausto Biloslavo, Sabato 09/11/2019 su Il Giornale. I 100 milioni di morti del comunismo sono ricordati in tutta Europa e nel mondo fino in Cambogia martoriata dal genocidio ordito dai khmer rossi. Non occorre andare lontano per visitare i luoghi della memoria delle atrocità comuniste. Sull'altopiano carsico, che domina Trieste, sorge la foiba di Basovizza diventata monumento nazionale nel 1992. Un ex pozzo minerario, luogo simbolo della pulizia etnica dei partigiani di Tito, che a guerra finita hanno gettato migliaia di italiani nelle cavità carsiche. A Budapest si può visitare la «Terror Haza», la casa del terrore ricavata nell'edificio che fu sede della polizia segreta del regime comunista ungherese. E ancora prima dei nazisti e dei loro alleati locali. In Croazia, nella Dalmazia settentrionale, rimane com'era il lager di Goli Otok, l'isola Calva. Un altro terribile luogo della memoria dove venivano internati, torturati e speso uccisi i comunisti fedeli a Mosca, non in linea col maresciallo Tito. A Tirana gli albanesi hanno voluto ricordare lo spietato regime di Enver Hoxha con il «museo della sorveglianza segreta» ricavato in un edificio che era stato sede della Gestapo e poi della sicurezza dello Stato comunista. Non poteva mancare a Berlino il museo della Stasi, in una delle sedi originarie della polizia segreta della Germania Est, con tanto di celle e sistemi di ascolto e intercettazione. Varsavia non dimentica il massacro di massa degli ufficiali polacchi nelle fosse di Katyn. Fino all'arrivo di Gorbaciov studiavamo sui testi di storia al liceo, che la strage era nazista e non ordinata da Stalin. In tutti i Paesi dell'Est che hanno aderito all'Europa unita sorgono luoghi di ricordo dei crimini del comunismo, ma le scuole non li inseriscono nei percorsi della memoria. I paesi baltici sono i primi a non dimenticare gli orrori del Novecento. A Vilnius, la capitale della Lituania, c'è il «museo delle occupazioni» ricavato nell'ex quartier generale del Kgb, ma ricorda anche la repressione nazista. In Lettonia si ricordano i crimini dei due totalitarismi nell'edificio costruito dai sovietici per il centesimo anniversario della nascita di Lenin. In Estonia hanno aperto al pubblico le celle nella prigione del Kgb. La Russia, nonostante le stelle rosse sulle torri del Cremlino e il mausoleo di Lenin, non dimentica i milioni di morti del comunismo. A Mosca «il muro del dolore» le vittime dello stalinismo. Alla periferia della capitale, il poligono di Butovo era disseminato di fosse comuni al 1938 al 1950. Nel 1931 Stalin fece saltare in aria la maestosa cattedrale di Cristo salvatore. Il 19 agosto 2000 la cattedrale è stata riedificata com'era all'inizio e viene visitata ogni giorno dai turisti come simbolo di rinascita dai crimini di Stalin e del comunismo. Dall'altra parte del mondo, a Phnom Penh, è impossibile dimenticare i campi della morte dei khmer rossi, che hanno sterminato tre milioni di persone. Il genocidio viene ricordato nell'ex Ufficio sicurezza S 21, la punta dell'iceberg dei lager cambogiani. Il museo è inserito dall'Unesco nell'«Elenco delle Memoria del mondo».

L'altro fascismo. Mentre si grida al clima, d'odio, al paese razzista e fascista. L'esatto contrario della verità. Maurizio Belpietro l'11 novembre 2019 su Panorama. volte ritornano. Il lettore si starà chiedendo a chi io mi riferisca. Ai fascisti ovviamente, i quali ogni anno puntualmente si ritrovano sulle pagine dei giornali e sui monitor delle tv con i loro labari e i loro saluti romani. A farli riapparire però sono gli stessi antifascisti, quelli che li temono e ne denunciano la pericolosità, non perdendo  occasione per lanciare l’allarme di un prossimo ritorno a un’Italia in camicia nera. Non lo facessero, non ci sarebbe naturalmente alcun bisogno di loro, degli antifascisti. I quali trovano legittimazione proprio dall’esistenza del fascismo. Non esistesse quest’ultimo, per logica conseguenza non ci sarebbe bisogno neppure dei primi. L’Associazione nazionale partigiani e i comitati antifascisti apparirebbero per quel che sono: organizzazioni anacronistiche, tenute insieme da qualche gruppetto di nostalgici, che per interesse o per ricerca di visibilità si agitano oltre misura. A questo proposito mi viene in mente un libretto di poche pagine firmato da Umberto Eco, frutto di una lezione tenuta alla Columbia University nel 1995 e rieditato di recente. Il celebre semiologo, parlando di fascismo, avvertiva gli studenti, invitandoli a vigilare perché il fascismo può sempre tornare. Non vestito in orbace e nemmeno a passo marziale: no, spiegava l’autore de Il nome della rosa, può riproporsi in abiti civili. Un fascismo sotto mentite spoglie, dei fascisti in tenuta mimetica. In realtà, ripensando a quelle parole, mi ritorna alla memoria anche un commento di Pier Paolo Pasolini, uno di quegli «scritti corsari» per il Corriere della Sera. Lo spunto erano i settanta giorni di digiuno di Marco Pannella, uno sciopero della fame per rivendicare il diritto di parola delle minoranze. In quel caso si trattava della Rai tv, che non concedeva spazio a non ricordo quale iniziativa radicale. L’intervento si può ritrovare ancora in una raccolta edita da Garzanti, con il titolo Il fascismo degli antifascisti. Ecco, è ciò di cui voglio parlare nel giorno in cui Panorama dedica la copertina al profilo di Mussolini chiedendosi, con la firma di Bruno Vespa, perché l’Italia sia diventata fascista (e perché non potrà tornare a esserlo). Vespa ripercorre la storia e le ragioni dell’avvento del Duce, ricostruendo le condizioni politico-economiche del momento e rivelando gli appoggi di cui usufruì il regime. Condizioni e appoggi che certo oggi non si ritrovano e che dunque non rendono possibile il ritorno a una dittatura. E tuttavia, mentre chiunque conosca la storia e abbia un minimo approfondito il fenomeno non può che giungere alla conclusione di Vespa, in Italia c’è ancora il «fascismo degli antifascisti», ovvero la dittatura del pensiero unico o, per dirla meglio, la voglia di bavaglio che Pannella per protesta indossò in tv. Eco, nel libro Il fascismo eterno racconta il giorno della caduta del regime, quando correndo all’edicola e comprando un giornale fresco di stampa scoprì l’esistenza di altri partiti diversi da quello fascista. Lì, quel giorno, comprese il valore della libertà: il diritto di parola e di manifestare e rappresentare le proprie idee politiche. Ecco, in questi giorni, coloro che si proclamano antifascisti si sono dimostrati fascisti impedendo a un giornalista libero come Fausto Biloslavo, collaboratore di Panorama, di tenere una lezione all’Università di Trento. Un mio conoscente, presente ai fatti, mi ha raccontato l’episodio: un manipolo di facinorosi, al grido di «fuori i fascisti dall’università», ha negato a Biloslavo il diritto di parola. Insultandolo, battendo i pugni fino a rompere una porta. Una gazzarra indecente. La colpa di Biloslavo? Non essere di sinistra, ma di destra e forse anche di essere finito in una prigione afghana ai tempi dell’Unione sovietica, la patria del comunismo. Eco aveva ragione: bisogna vigilare, perché il fascismo si presenta con gli abiti più insospettabili, anche quelli civili degli antifascisti. Vigilate gente, vigilate. Perché il fascismo non può tornare, ma l’antifascismo fascista sì. 

Marco Pasqua per ilmessaggero.it il 14 Novembre 2019. Allontanato dall'aula professori occupata, all'interno della facoltà di Scienze Politiche, alla Sapienza, perché “leghista” e, quindi, "fascista". La vicenda viene denunciata in queste ore da un militante della Lega Abruzzo, che, la scorsa mattina, si trovava all'interno dell'aula professori che, ormai da anni, è occupata dai collettivi del più grande ateneo d'Europa. Uno spazio che sfugge al controllo dell'Amministrazione universitaria. «Mentre visionavo su Google delle immagini sui caduti di Nassiriya – ha raccontato su Facebook lo studente, Bryan Perfetto, coordinatore della Lega Giovani a Pescara - sono stato interrogato insistentemente su cosa stavo visionando. Ho più volte detto che stavo studiando e non volevo essere disturbato. La risposta è stata: “lo sappiamo che sei un coordinatore della Lega" e altri frasi del tipo "a me del tricolore non me ne frega niente"». I ragazzi, presumibilmente legati agli stessi collettivi, hanno continuato ad offenderlo, dandogli del “fascista” e "razzista”. «Io ho controbattuto che essendo in un'aula studenti autogestita e libera, ritenevo che ogni studente avesse il diritto di accedervi e studiare a prescindere dalle proprie idee politiche e che con questo atteggiamento si stavano dimostrando antidemocratici loro – continua Perfetto - Mi hanno ripetuto più volte, e varie persone, che uno della Lega non deve entrare in un aula politicamente schierata quando mi risulta che sia libera per gli studenti essendo un'università pubblica». Alcuni ragazzi sono intervenuti in sua difesa, ma non c'è stato verso di sedare i protagonisti di questa aggressione: cosi, alla fine Perfetto ha preferito uscire e andare via. Sulla vicenda è intervenuto Luca Troccalini, coordinatore Lega Giovani, che chiederà un incontro al Rettore: «Un'istituzione libera non può permettere l'esistenza di aule occupate o di #centrisociali in cui si fa politica a spese dello Stato. Un'istituzione libera non può permettere questo clima di terrore. Un'istituzione libera non può permettere la censura a cielo aperto. Ci riferiamo ad episodi come questi quando denunciamo la presenza di un'allarmante egemonia culturale in questo Paese».

"Tricolore ci fa schifo, è fascio". Leghista minacciato in aula alla Sapienza. Nell'aula autogestita guarda immagini sulla strage di Nassiriya. Viene insultato e cacciato: "Nel 2019 uno della Lega deve stare attento". Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 13/11/2019, su Il Giornale. "Mi hanno cacciato da un'aula dell'Università, solo perché guardavo alcune fotografie sui caduti di Nassiriya". In tempi di commissioni contro l'odio e lezioni (improprie) di democrazia, succede anche questo: che uno studente venga invitato ad abbandonare uno spazio "autogestito" della Sapienza di Roma solo perché nella sua vita ha avuto la malaugurata idea di sposare le battaglie politiche della Lega. I fatti risalgono a ieri mattina. Sono circa le 10 al dipartimento di Scienze politiche. Bryan Perfetto, studente e coordinatore della Lega giovani a Pescara, entra nell'aula professori autogestita. "Sono andato lì per prendere degli appunti con un'amica", racconta al Giornale.it. Niente di politico dunque. Normale amministrazione studentesca. A un certo punto, però, Perfetto prende in mano il cellulare per condividere una storia sulla strage di carabinieri in Iraq. In fondo ieri era l'anniversario dell'attentato terroristico. A quel punto "si avvicina uno dei centri sociali" e lo "interroga insistentemente" sul contenuto delle fotografie. "Mi dice: ''Quella è roba da fascio, a me il Tricolore fa schifo, non me ne frega un c... del Tricolore'", racconta il leghista. L'atmosfera si scalda. Alcuni dei presenti sanno che Perfetto ha un ruolo nel Carroccio e non glielo perdonano. "Lo sappiamo che sei un coordinatore della Lega - afferma qualcuno - Voi fate morire la gente e ti permetti di venire qui dentro?". L'aula autogestita non è nuova ad episodi discutibili. Nei giorni scorsi i media avevano rivelato slogan e insulti ("Merde") contro la polizia appesi sui muri della stanza "occupata". In un post del 27 ottobre sulla pagina ufficiale dell'aula professori dell'ateneo romano, i responsabili rivendicano che "gli spazi autogestiti" servono "per incontrarsi, discutere e sviluppare sapere critico e collettivo". Sono insomma luoghi "liberi e inclusivi", ma evidentemente non per tutti. È esclusa ogni forma di "pensiero razzista e suprematista" e, a quanto pare, pure agli esponenti del Carroccio. Lo spazio è talmente "solidale" e "inclusivo" che nel mezzo della discussione tra Perfetto e i suoi accusatori, c'è anche chi velatamente lo minaccia. "Una delle ragazze che era lì dentro - spiega il leghista - mi ha detto: 'Tu devi stare attento: nel 2019 uno della Lega deve stare attento'". Per evitare che la situazione degeneri, Perfetto se ne va, non prima però di ribattere che "essendo in un'aula studenti autogestita e libera" in teoria ogni studente dovrebbe avere "il diritto di accedervi e studiare a prescindere dalle proprie idee politiche" e che "con questo atteggiamento si stavano dimostrando antidemocratici". Anche altri studenti provano a spiegarlo ai colleghi anti-Carroccio, ma neppure la logica li fa demordere. "Mi hanno ripetuto più volte che 'uno della Lega non deve entrare in un aula politicamente schierata'". Il motivo? Chi appoggia Salvini "è per forza fascista e razzista". Alla faccia dell'inclusività e della libertà di espressione. Al fianco dell'esponente abruzzese "insultato, minacciato e cacciato" si è schierato anche l'onorevole Luca Toccalini, coordinatore federale della Lega giovani. "Chiederemo un incontro al Rettore - dice - L'università è di tutti, non di qualche gruppetto politicizzato che la confonde troppo spesso per un centro sociale". Dopo le tensioni contro Fausto Biloslavo a Trento, la storia si ripete. "È inammissibile che nel 2019 uno studente non possa sentirsi libero di esprimere le proprie idee politiche e personali in un'università dello Stato italiano".

Studenti di destra aggrediti. Il rettore Franzini alza la voce. «L'università è un luogo di dibattito, non di violenza» Martedì l'ennesimo agguato, a novembre il rave party. Marta Bravi, Venerdì 13/12/2019, su Il Giornale. Statale, il rettore alza la voce. Dopo l'ennesimo episodio di violenza, un'aggressione contro i ragazzi di Azione universitaria, avvenuto all'interno dell'ateneo, Elio Franzini ha preso carta e penna per ricordare a tutti gli studenti che frequentano via Festa del Perdono dove si trovano: in università «luogo di stimolo alla nascita di nuove idee, palestra di libero e costruttivo, talvolta anche acceso, ma sempre pacifico, confronto tra esse, e non di scontro né di sopraffazione delle idee altrui e diverse». Potrebbe sembrare banale, ma non lo è: dal rave party non autorizzato all'aggressione contro un banchetto informativo di azione studentesca, all'occupazione di un'aula di Scienze politiche in nome di un microonde si stanno susseguendo in Università una serie di episodi che nulla hanno a che fare con l'«antifascismo e la democrazia», parole dietro cui si nascondono i collettivi studenteschi. «In riferimento ai momenti di tensione che si sono verificati martedì in Statale, il rettore Franzini - si legge nella nota - richiama tutta la comunità studentesca, e in particolare coloro che si sono assunti la delicata responsabilità della rappresentanza, al rispetto delle regole di civile convivenza e alla adozione di modalità di relazione che garantiscano un clima sereno, inclusivo, condannando ogni atteggiamento intollerante, violento o atto a diffondere in Statale un clima di continua e sterile contrapposizione». «Tralasciando le sempre più fragili definizioni che costantemente ci vengono rivolte (fascisti, xenofobi, omofobi) - scrivono i rappresentanti di azione universitaria su facebook - ci colpisce che i criminali antifascisti ci descrivano come scortati dalla polizia in tenuta antisommossa, quando il banchetto si è svolto per oltre due ore con la sola scorta degli studenti che, interessati, ci chiedevano volantini». Secondo le loro ricostruzioni cinquanta ragazzi dei Collettivi studenteschi di sinistra avrebbero aggredito gli otto studenti cacciandoli dall'ateneo. «Un'aggressione che non ha precedenti né motivazioni, se non l'odio cieco e pensiamo una certa mancanza di alternative con cui occupare il proprio tempo attacca Azione universitaria -. Al confronto, anche aspro e aggressivo, non ci siamo mai sottratti. Altro no le sopraffazioni di chi ha nella violenza la sola arma». Collettivi studenteschi che ultimamente con la prepotenza e la violenza credono di poter spadroneggiare per i corridoi di via Festa del Perdono, come hanno fatto al rave di Halloween, devastando l'università. Lo stesso rettore «facendo un appello alle autorità deputate alla nostra sicurezza, per un'assunzione di responsabilità da parte di tutti» ha sporto denuncia e la Procura ha aperto un'indagine per violazione delle norme di sicurezza e invasione di edificio pubblico. Un paio di settimane dopo, il collettivo di Scienze politiche ha avuto il coraggio di occupare un'aula di via Conservvatorio «con la scusa della mancanza di un forno microonde all'interno del dipartimento». Questa volta l'assessore alla Sicurezza regionale Riccardo De Corato ha presentato un esposto alla Procura e alla Corte dei Conti per danni erariali all'aula.

Biloslavo fuori dall'Ateneo: "Via i fasci dall'università". Nella facoltà di Sociologia torna il clima degli anni di Piombo. Il cronista, invitato da un gruppo studentesco di sinistra: "Bloccato dai nipotini di Curcio". Fausto Biloslavo, Giovedì 17/10/2019, su Il Giornale. A Trento si aggirano gli spettri degli anni di piombo, quando alla facoltà di sociologia studiava Renato Curcio e all'orizzonte si profilava il terrore delle Brigate rosse. Non mi hanno sparato, per fortuna, com'è capitato al fondatore di questo giornale, Indro Montanelli, ma forse il vulnus brucia ancora di più. Un gruppo di facinorosi di estrema sinistra è riuscito a impedire che prendessi la parola alla facoltà di sociologia. Da giorni facevano cagnara e hanno appeso uno striscione all'ingresso con lo slogan «fuori i fascisti dall'università». La firma è del Cur, Collettivo Universitario Refresh, che ieri ha postato tranquillamente su Facebook una frase di Ulrike Meinhof, eroina della Raf, i terroristi tedeschi durante la guerra fredda. La mia colpa? Essere un uomo «nero» come dimostrerebbe la militanza nel Fronte della gioventù di Trieste, 40 anni fa, quando portavo i calzoni corti, fino agli articoli sul Giornale. L'aspetto più grave è che la stessa università ha deciso di piegarsi alla violenta minoranza trovando un cavillo formale e vietando l'accesso all'Aula Kessler del Dipartimento di sociologia. Ovviamente all'ultimo minuto mentre stavo arrivando in treno dopo ore di viaggio. L'aspetto tragicomico è che a invitarmi era stato un gruppo studentesco di centrosinistra, che voleva parlare della crisi in Libia. E proprio loro sono stati «incolpati» di non avere compilato correttamente le carte. Alla fine un funzionario dell'università che neppure si è fatto vedere, mi ha confermato al telefono, un'ora prima della conferenza, che era saltata. Nonostante i costernati ragazzi che mi avevano invitato fossero nati ben dopo il crollo del muro di Berlino mi sembrava di non essere più nel 2019 in un paese libero, ma di avere fatto un salto nel tempo tornando al buio e alle prevaricazioni degli anni settanta. A sociologia non sono neppure potuto entrare perché giravano picchetti di balordi giunti anche da fuori. La Celere e la Digos schierate poco lontano non erano in grado di fare nulla di fronte al calabraghismo dell'università, che si era piegata ai nipotini di Curcio e compagni. Nel delirante volantino che hanno fatto circolare ero tacciato come fascista con allusioni false e tendenziose alla strage di Bologna. Per non parlare delle bugie sulla collaborazione con la casa editrici Altaforte, che in ogni caso non costituirebbe un reato. Un altro grave indizio di fascismo è avere presentato un fumetto dedicato a Norma Cossetto, la martire istriana delle foibe, decorata alla memoria dal presidente Ciampi con la medaglia d'oro al valor civile. Il filo centrale della trama nera è scrivere sul Giornale articoli critici sulle ong. Alla fine del volantino hanno pubblicato la mia faccia doverosamente a testa in giù con questa frase: «Biloslavo non deve entrare in università». E così è stato. Per sgombrare il campo da qualsiasi dubbio sul fascismo penso che sia morto e sepolto nel 1945 con Mussolini a piazzale Loreto. Nato nel 1961 guardo sempre avanti e mai indietro, punto e basta. L'amico triestino, Maurizio Manzin, professore ordinario di filosofia del diritto nella vicina facoltà di giurisprudenza, mi ha offerto coraggiosa ospitalità nell'aula dove svolgeva la sua lezione. Si è parlato di giornalismo di guerra e libertà d'espressione, che sociologia non ha saputo garantire. L'unico conforto di una giornata da anni di piombo è stata la mail arrivata dal Rettore dell'università di Trento mentre rientravo a casa in treno. Paolo Collini, che era all'estero, è mortificato da quanto accaduto e ha parlato di pignoleria dei funzionari. Senza peli sulla lingua ha ammesso che a sociologia ci sono degli studenti e pure personaggi estranei all'Ateneo, che vivono nella nostalgia di una stagione che non esiste più. Il Rettore ha ribadito che l'università rimane un luogo aperto e libero, anche se al sottoscritto questa libertà è stata negata. E mi ha invitato a tornare a Trento per la conferenza vietata dagli estremisti di sinistra. Accetto volentieri a patto che si tenga a sociologia nell'aula negata dall'Ateneo per timore dei violenti. Di tutta questa storia rimane la profonda amarezza per un Dipartimento universitario, che dovrebbe essere tempio del sapere e della tolleranza, ma per quieto vivere o semplice pavidità si è piegato agli intolleranti. E soprattutto non è stato in grado di difendere fin dall'inizio, a spada tratta, la libertà di parola.

Trento, gazzarra dei centri sociali ma Biloslavo li sfida e parla fino alla fine. Il Secolo d'Italia mercoledì 30 ottobre 2019. Non è bastato l’appello di Fausto Biloslavo alla pacificazione. Contro gli estremisti, contro chi voleva avvelenare la sua conferenza, il suo ritorno alla facoltà di Sociologia di Trento una settimana dopo la “violenza” della censura di sinistra. I centri sociali, purtroppo, sono entrati nuovamente in azione, come minacciato. I provocatori del collettivo Hurriya hanno bloccato con una catena una delle porte d’ingresso della facoltà per protestare contro l’incontro tenuto dal giornalista Fausto Biloslavo sulla situazione in Libia. Il primo, due settimane fa, era stato annullato per proteste da parte di una parte degli studenti universitari. I dimostranti hanno occupato anche la sala dove doveva tenersi la conferenza, e con fischi e slogan hanno impedito finora l’incontro. Ma l’incontro di Biloslavo è poi proseguito regolarmente, nonostante la caciara dei ragazzotti di sinistra. Nel pomeriggio, i Giovani della Lega Trentino avevano effettuato un volantinaggio ed un sit-in davanti alla facoltà di Sociologia dal tema «Fuori i brigatisti da UniTN», come spiegano in un comunicato stampa.

La lettera di Biloslavo. “Domani torno con piacere a Trento, alla facoltà di Sociologia, a ristabilire la libertà di parola sancita dalla Costituzione. E ringrazio il rettore dell’Università, Paolo Collini, che fin dall’inizio di questa brutta storia mi aveva rinnovato l’invito, subito accettato, per la conferenza sulla Libia2. Biloslavo ringrazia anche gli studenti di Udu, che non si sono tirati indietro. “Se tutto andrà bene sarà la dimostrazione che la discriminazione ideologica nei mie confronti, stile anni Settanta, peraltro infondata, non è più un sistema”. Lo annuncia vain una lettera al Corriere del Trentino Fausto Biloslavo giornalista di guerra, triestino, classe 1961, scrive per i quotidiani Il Giornale, Il Foglio ed il settimanale Panorama. Oggi, purtroppo, qualcuno non lo è stato a sentire.

Biloslavo ancora contestato: urla e violenza all'università. Il reporter è stato preso di mira dai collettivi di sinistra dell'Università di Trento. Scontri con chi difendeva il giornalista. Renato Zuccheri, Mercoledì 30/10/2019, su Il Giornale. Trento, 30 ottobre 2019. Anche se la lancetta potrebbe tornare tranquillamente indietro di almeno 40 anni, perché il clima è quello teso degli anni Settanta. In via Verdi, di fronte alla Facoltà di Sociologia, si sono raggruppati già dal pomeriggio gli studenti del collettivo di estrema sinistra ReFresh, che nei giorni scorsi aveva minacciato di interrompere la conferenza sulla Libia della firma de il Giornale Fausto Biloslavo. Dall’altra parte di via Verdi, un gruppo di studenti che ha organizzato un sit in in difesa del giornalista, distribuendo un volantino in cui campeggia la scritta “Fuori i brigatisti dall’Università, basta con le minacce”. A favore quindi della libertà di parola e della democrazia. I due gruppi, poco prima della conferenza, si sono scontrati e sono volati ombrelli, schiaffoni e pugni. Un momento tesissimo, che ha costretto la polizia a intervenire e sedare gli animi. La conferenza di Biloslavo inizia con mezz’ora di ritardo, vista la grande tensione. Tuttavia, il collettivo non demorde e fuori dall’aula Kessler di Sociologia divampa con la protesta. L’obiettivo è quello di disturbare e interrompere i relatori battendo i pugni sulle porte e grida di ogni tipo e insulti. E in parte ci riescono perché i relatori, Biloslavo compreso, fanno fatica a parlare e la conferenza prosegue con grande difficoltà per via dei disturbatori. “Merde, fuori i fascisti dalle università” i loro slogan. Uno slogan vecchio e che dimostra come la tolleranza e il rispetto della libertà di parola non siano mai stati appanaggio di una certa ideologia politica che preferisce sempre far tacere il dissenso. Anche quando queste parole in realtà dovrebbero rispecchiare quello che la sinistra predica da anni, ad esempio le durissime condizioni dei migranti nei centri di detenzione libici.

Gli estremisti rossi urlano e minacciano, ma nell'aula di Curcio ora vince la libertà. Il nostro giornalista è riuscito a parlare all'università di Trento. Fausto Biloslavo, Venerdì 01/11/2019, su Il Giornale. Violenza, intolleranza, insulti, cagnara hanno trasformato una conferenza sulla Libia alla facoltà di Sociologia a Trento in un caos. Alla fine nessuno ha piegato la testa davanti agli squadristi rossi, che volevano, ancora una volta, cacciarmi dall’ateneo. L’unica etichetta che riconosco è quella di giornalista “libero”, ma per i nipotini di Curcio sono un pericoloso fascista iscritto oltre quaranta anni fa al Fronte della Gioventù e critico delle Ong sulle colonne del Giornale. Questa volta, seppure con grande difficoltà, ha vinto la libertà di parola. Una vittoria, però, triste, di Pirro, dove i finti democratici, in gran parte estremisti di sinistra estranei all’università, hanno potuto fare quello che volevano dentro l’ateneo “delle porte aperte” in totale impunità. La neonata Commissione per il no all’antisemitismo e al razzismo si batterà contro “l’intolleranza, l’istigazione all'odio e alla violenza” si spera senza distinzione di parte. Lo farà a Trento dove una banda di squadristi rossi mi ha impedito di parlare la prima volta e ha reso un caos la seconda con urla e messaggi di odio, intolleranza e violenza? Mercoledì sera sono tornato a Sociologia su invito del rettore, Paolo Collini e di un gruppo di studenti di centro sinistra, nonostante collettivi minoritari si ostinassero a non volere che parlassi nell’aula Kessler, da sempre chiamata “rossa” dove Curcio teneva i suoi sermoni negli anni settanta. Quando ero ancora in viaggio è scoppiato un tafferuglio fra opposte fazioni all’ingresso di sociologia. Gli squadristi rossi hanno addirittura sostenuto che lo scontro, sedato subito dalla polizia, di cui non sapevo e non c’entravo nulla, conferma la mia “appartenenza all’estrema destra”. Per essere chiari la conferenza di un giornalista non vale, in nessun caso, un solo punto di sutura sia per un ragazzo di sinistra, che uno di destra. Però la libertà, compresa quella di parola, non ha prezzo e per questo non ho girato i tacchi trovandomi di fronte alla prevaricazione e intolleranza di chi continuava a volermi negare un diritto sancito dalla Costituzione. Una quarantina di squadristi rossi, solo 15 dell’università e meno di 5 studenti di sociologia hanno cominciato a sbattere i pugni contro le porte dell’aula Kessler urlando slogan e insulti. Ad un certo punto hanno rotto anche un’anta e il rettore, stoicamente in prima fila, ha rischiato di beccarsi un ombrello in testa lanciato come un dardo mentre cercava di calmare i facinorosi. Diversi giovani sono rimasti fuori grazie al caos e pure un generale degli alpini in congedo, che ha scritto in un messaggio: “Trento tornata agli anni ’70… è stato impossibile entrare…Alla faccia della libertà di parola!”. All’inizio mi sono lanciato nella mischia cercando di convincere gli squadristi a entrare, ascoltare e intervenire anche duramente, ma sempre in maniera civile. Niente da fare, sembrava di parlare ai sordi. Allora si è deciso di tenere lo stesso la conferenza cercando di urlare al microfono più forte dei nipotini di Curcio. Il direttore dell’Adige, Alberto Faustini, che faceva da moderatore e l’altro relatore, Raffaele Crocco, giornalista della Rai, responsabile dell’Atlante dei conflitti, sono stati eroici. Nonostante le urla, gli insulti, l’assordante battere dei pugni sulle porte di legno non ci hanno tolto la parola. Ovviamente la conferenza si è trasformata in un caos. Gli intolleranti non hanno neanche avuto il buon gusto di smetterla per vedere e ascoltare i video reportage che avevo realizzato in Libia sulle sofferenze dei migranti nei centri di detenzione. Gli stessi migranti di cui si fanno paladini. In questo clima da anni di piombo qualcuno di destra in sala ha preso a male parole un ragazzo di sinistra su una sedia a rotelle. E l’assessore provinciale della Lega, Mirko Bisesti, che aveva studiato a Sociologia è entrato indenne per miracolo. Alcuni facinorosi l’hanno riconosciuto cercando di prenderlo per il collo. Follie, che sembrano non interessare i giornaloni, ma pensiamo cosa poteva accadere se un gruppo di estrema destra avesse fatto tutta questa cagnara per un giornalista di Repubblica appiattito sulla linea delle Ong. Come minimo sarebbe stato chiesto l’intervento dei caschi blu. Il dorso trentino del Corriere ha addirittura cercato di derubricare il fatto come banale scontro fra opposti estremismi puntano sulla paiuzza nell’occhio. Peccato che la trave sia l’enclave dei nipotini di Curcio a Sociologia totalmente impuniti, che volevano negarmi la libertà di parola e sono riusciti a provocare il caos. Nella foto impaginata sembrava quasi che fossi io il brutto e cattivo, che urlando assalivo i poveri agit prop di estrema sinistra. Il rettore ha scelto, a torto o ragione, di non fare intervenire la polizia dentro l’università che dovrebbe essere il tempio del sapere, della tolleranza e della libertà. Forse si poteva trovare almeno il modo di evitare l’ingresso a chi non aveva nulla a che fare con l’ateneo diminuendo la confusione. L’importante è che gli studenti che hanno partecipato civilmente all’incontro, nonostante la gazzarra, il rettore, i docenti schierati in prima fila, noi giornalisti che ci siamo sgolati, non abbiamo piegato la testa. Il messaggio di odio e intolleranza trasmesso da un gruppetto minoritario che fa quello che vuole è il contrario di un sano e normale dissenso. Purtroppo significa solo prevaricazione ideologica, che in un’aula universitaria lascia doppiamente l’amaro in bocca. L’ateneo ha fatto bene a ricordare con uno striscione appeso fuori Sociologia una frase di Norberto Bobbio valida per tutti: “Ho imparato a rispettare le idee altrui, a capire prima di discutere, a discutere prima di condannare”.

Università, la mappa dell'odio. Così soffoca il pensiero libero. Da Trento a Bologna, da Padova a Roma. Le voci di docenti e studenti: "Noi vittime dei collettivi di sinistra". Fausto Biloslavo, Domenica 20/10/2019, su Il giornale. L'enclave dei nipotini di Curcio alla facoltà di Sociologia di Trento sono la punta più eclatante di un iceberg. Dopo il 15 ottobre quando i violenti di estrema sinistra mi hanno negato il diritto alla parola sono arrivate diverse segnalazioni di situazioni estreme anche in altre facoltà a Padova, Ferrara e Roma. E sono famosi gli episodi di intolleranza a Bologna nei confronti di Angelo Panebianco, che insegna all'ateneo, per i suoi articoli sul Corriere della sera. Oscar Giannino fu accolto con uova e pomodori alla Statale di Milano. Lo scorso anno a Padova non è stato possibile presentare un fumetto sulle foibe, presso una sede universitaria, per le violente proteste degli antagonisti. E lo stesso Benedetto XVI venne costretto a rinunciare all'inaugurazione dell'anno accademico alla Sapienza di Roma. Luca Erbifori, oggi consigliere comunale a Bardolino, in provincia di Verona, è stato rappresentante degli studenti al dipartimento di Sociologia a Trento per una lista di centro destra dal 2014 al 2016. «Mi hanno minacciato di morte e venivo scortato all'ingresso della facoltà dalla polizia, che mi consigliava di non andare al bagno da solo o di portarmi dietro lo spray al peperoncino» spiega l'ex studente al Giornale. Fra le tante minacce la scritta «Erbifori con una chiave inglese tra i capelli come Ramelli», lo studente di destra ammazzato a sprangate a Milano negli anni settanta. A Sociologia gli estremisti del Cur, il Collettivo Universitario Refresh che non mi hanno fatto parlare, continuano ad agire da padroni soprattutto in una specie di aula autogestita. «L'aula occupata è una stanza situata al piano interrato del Dipartimento, che vede al proprio interno fornelli, divani dove si riuniscono studenti e non studenti per organizzare atti criminali che poi mettono in pratica dentro e fuori l'Università» è la pesante denuncia di Erbifori. I nipotini di Curcio hanno fatto togliere il Tricolore e lo scorso anno si sono distinti contro l'adunata degli alpini a Trento. Secondo Erbifori «i bagni erano spesso luogo di spaccio da parte di non studenti». Non è chiaro se la situazione sia ancora a questi livelli, ma i violenti e facinorosi imperversano, con il tacito avallo dell'Università, che fa ben poco per sradicare il bubbone. Gli stessi studenti dell'Udu, gruppo di centro sinistra, che mi aveva invitato a parlare della Libia, sono finiti nel mirino degli estremisti. «Salutiamo infine chi negli scorsi giorni è arrivato persino a minacciare personalmente alcuni dei nostri ragazzi a Sociologia - spiegano gli studenti in un comunicato - Non abbiamo paura di voi». Un docente universitario con 36 anni di carriera alle spalle spiega al Giornale «che ci sono tanti dipartimenti, e non solo Sociologia di Trento, dove chi non sposa ideologie comuniste è emarginato e vessato». Nella capitale, alla Sapienza, esiste un enclave di estremisti di sinistra simile a quella trentina. «I collettivi minacciano fisicamente i ragazzi di destra che vogliono presentare le liste alle elezioni universitarie - scrive un testimone - Tollerati dai vertici dell'Università e dalle altre istituzioni. Lì, come a Trento, il tempo si è fermato agli anni di piombo». A Ferrara un capo dipartimento esponeva dietro la segreteria la mitica foto di Che Guevara. E diceva senza peli sulla lingua: «Non ho mai perso le vecchie abitudini: Che e pugno chiuso». Un rettore del Sud ammette che «qualche collega tollera sacche di intolleranti e violenti fuori dal tempo per quieto vivere, comprese occupazioni delle aule». Padova è un'altra enclave dove i centri sociali ed i collettivi universitari hanno mano libera. Lo scorso anno una sede dell'ateneo si piegò ai violenti che negarono la presentazione di Foiba rossa, il fumetto dedicato alla martire istriana Norma Cossetto, che aveva studiato all'università di Padova.

Rissa in aula e minacce. Vietato parlare dei crimini comunisti. Sì alla mozione che equipara i totalitarismi. Ostruzionismo Pd, i centri sociali scatenati. Alberto Giannoni, Mercoledì 30/10/2019 su Il Giornale. Vietato parlare dei regimi comunisti. La Milano della sinistra impone un'autocertificazione di antifascismo a chiunque chieda contributi, patrocini e spazi pubblici. Impone di dichiararsi contrari al fascismo, insomma, eppure qualcuno non accetta che la stessa cosa per tutti i totalitarismi. Paradossale, soprattutto ora che questa equiparazione fra nazismo e comunismo è stata sancita da una risoluzione approvata a larga maggioranza del Parlamento europeo con il voto di moltissimi eurodeputati del Pd e socialisti, fra cui anche l'ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia. In Zona 7 l'altra sera è scoppiato il finimondo su questo, con insulti e minacce. L'ostruzionismo è partito subito ma il caos è scoppiato coi centri sociali al momento di discutere la mozione - poi approvata - presentata dalla presidente del Consiglio, Norma Iannacone (Fdi) e sottoscritta dal tutto il centrodestra. La mozione chiede al Comune di «eliminare la procedura di dichiarazione antifascista», o «in subordine», di modificarla col rifiuto di «ogni ideologia totalitaria e liberticida». Il documento, insomma, vuole riallineare Milano al Parlamento europeo. Ma la sinistra non ci sta. Il consigliere del Pd Lorenzo Zacchetti la considera «scellerata». Ha presentato «per protesta» 707 emendamenti: «Trovo grave - spiega - che una maggioranza regolarmente in carica grazie alle regole democratiche non si riconosca nei valori fondanti della nostra democrazia. La Resistenza - prosegue - non deve essere patrimonio solo della sinistra e mi meraviglio degli esponenti di Forza Italia, alcuni dei quali di cultura socialista, che si sono prestati a questo ennesimo tentativo di riscrivere la storia, mettendo tutto sullo stesso piano». Iannacone sintetizza: «Per loro la dittatura comunista va bene, quella fascista no. Io invece dico: condanniamo tutti i totalitarismi». Il presidente del Municipio Marco Bestetti, di Fi, sottoscrive e definisce «sacrosanta» la mozione. E ne rivendica «con assoluta convinzione la ragionevolezza». Bestetti definisce la dichiarazione antifascista imposta dal Comune «una ridondante forzatura ideologica, perché il rispetto delle leggi e della Costituzione italiana è prerequisito implicito per chiunque, che non necessita certo di autocertificazioni in carta bollata». «A pochi giorni dal 30° anniversario del Giorno della Libertà, che celebra la caduta dell'odioso muro di Berlino - prosegue il presidente - consigliamo al Pd di rassegnarsi alla storia e di non aggrapparsi ad inutili scartoffie burocratiche per cercare di riscrivere il corso degli eventi». Ma se il Pd ha voluto scaldare la seduta, sono stati poi i centri sociali presenti in Aula a renderla incandescente. «Hanno insultato con appellativi come fascista nazista me e altri miei colleghi - racconta il leghista Francesco Giani - Mentre inneggiavano a rivoluzioni comuniste e altre follie antidemocratiche. Infine mentre me ne stavo andando dal municipio mi è stato detto che per i fascisti come me c'è ancora spazio in piazzale Loreto. Vergognosi. Io sono fiero di credere nella democrazia e nella dialettica politica, dove ci sono avversari ma mai nemici». «Mi auguro che arrivi una presa di distanze del centrosinistra» dice Giani , che rivendica: «Sono democratico, antifascista e anticomunista, quello che è successo è inaccettabile. Il Comune pensi ai problemi veri, come i centri sociali» conclude. L'assessore regionale alla Sicurezza Riccardo De Corato, manifesta solidarietà a Iannacone al centrodestra di Zona: «Mi auguro che le altre facciano la stesa cosa - dice - il Comune è stato strabico. Il fascismo ha fatto cose da stigmatizzare ma lo stesso vale per i regimi comunisti, per non aprire il tema dell'islamismo, su cui a Milano ci sarebbe da dire». «Io - aggiunge - non ho mai visto il Pd celebrare la caduta del Muro. Dopo 70 anni c'è questa dichiarazione di antifascismo ovunque ma del comunismo non parla mai e il Muro è caduto nell''89. Mi meraviglio che Sala che era con noi direttore non avvia conoscenza dei misfatti del comunismo».

L’insopportabile fondamentalismo dell’Anpi. Dino Cofrancesco, 30 ottobre 2019 su Nicolaporro.it. Una delle più nobili figure della cultura italiana del ‘900, il democratico e marxista Rodolfo Mondolfo, ne La libertà della scuola (in Libertà della scuola, esame di stato e problemi di scuola e di cultura, Ed. Cappelli 1922), scriveva: «io non ho mai ammesso nella mia at­tività di insegnante, in materia (la filosofia), quant’altra mai campo di contrasti e fertile di dogmatismi e intolleranze, di esercitare alcuna coercizione e compressione sullo spirito dei discepoli. Siano essi seguaci di indirizzi affini o antitetici a quello dell’insegnante, ho sempre creduto che questi possa e debba chieder loro una cosa sola: la consapevolezza del pro­prio orientamento, delle premesse e delle conseguenze; la netta coscienza, insomma, e, quindi la piena responsabilità mentale del proprio pensiero. Il principio di libertà questo appunto esige: l’educazione alla responsabilità, nel pensiero non meno che nell’azione. Ma questa educazione, dal suo canto, esige il rispetto all’in­dipendenza ed all’autonomia». Credo che raramente si sia reso un omaggio più convinto alla “pedagogia liberale”. Pensando alle parole di Mondolfo, ci si chiede che senso abbia il Protocollo d’intesa tra il MIUR e l’Anpi rinnovato lo scorso anno e fino a tutto il 2019. In base ad esso, l’Anpi s’impegna a “promuovere studi intesi a mettere in rilievo l’importanza della guerra partigiana ai fini del riscatto del Paese dalla servitù tedesca e della libertà”; a “promuovere eventuali iniziative di lavoro, educazione e qualificazione professionale, che si propongano fini di progresso democratico della società”; a “battersi affinché i principi informatori della Guerra di liberazione divengano elementi essenziali nella formazione delle giovani generazioni”; a concorrere alla piena attuazione, nelle leggi e nel costume, della Costituzione italiana, frutto della Guerra di liberazione, in assoluta fedeltà allo spirito che ne ha dettato gli articoli. Altresì l’Anpi è fortemente impegnata ed interessata a valorizzare la storia e le vicende della seconda guerra mondiale, la Resistenza e la Guerra di liberazione, a far conoscere a fondo la Costituzione, e contribuire alla formazione dei giovani non solo sul piano culturale, ma anche sotto il profilo del civismo e dei sentimenti concretamente democratici». L’Anpi, in altre parole, dovrebbe coltivare nei giovani i valori della Resistenza (fare, in parole povere, del catechismo repubblicano) e contribuire alla conoscenza della tormentata storia contemporanea nel nostro paese. Sennonché, al secondo compito, non provvedono già le Università, gli Istituti Storici della Resistenza, le Scuole di formazione istituite dallo Stato? E per quanto riguarda il primo, non ci troviamo di fronte alla cancellazione dei principi ai quali si richiamava Mondolfo quando imponeva il rispetto di quei discenti, «seguaci di indirizzi affini o antitetici a quello dell’insegnante»? L’educatore designato dall’Anpi in cosa si differenzierebbe dal pedagogo inviato nelle scuole dal partito per la celebrazione del sabato fascista? Certo in regime totalitario, la scelta viene dall’alto, in democrazia occorre un accordo tra MIUR e Anpi: la differenza è grande ma in fondo ai due percorsi sta l’indottrinamento, l’imbottitura dei crani come si diceva un tempo, ovvero l’atto di fede in valori che non nascono da quella «educazione alla responsabilità, nel pensiero non meno che nell’azione» che «esige il rispetto all’in­dipendenza ed all’autonomia» di coloro ai quali ci si rivolge. Nessuno vuol limitare la libertà dell’Anpi di vedere nella vulgata antifascista – su cui ironizzava il più grande storico del regime, Renzo De Felice – una sorta di vangelo repubblicano, di tuonare contro la Dichiarazione di Strasburgo che equipara nazismo e comunismo, di denunciare in Matteo Salvini il nuovo fascismo, di gettare l’allarme SOS fascisme!, di denunciare l’esaltazione che si è fatta, alla sua morte, di Giorgio Albertazzi – Un bastardo che ci lascia, «un feroce rastrellatore di partigiani e civili, dal Grappa alla Valcamonica» -, di chiedere pene ancor più severe per l’apologia di fascismo, di intervenire nelle grandi questioni politiche che dividono l’opinione pubblica – dal taglio dei parlamentari al tema dell’accoglienza – quasi esercitasse un magistero morale non dissimile dalla Conferenza episcopale. Quello che non si spiega, invece, è perché l’Anpi eretta in ente morale (fin dall’aprile 1945), continui ancora oggi, in un’epoca in cui i pochi partigiani sopravvissuti hanno doppiato il capo dei novanta, ad essere circondata da un inspiegabile “carisma d’ufficio”. Ente morale, in una democrazia che si rispetti, è l’associazione o l’istituto che si fa depositario di valori realmente comuni (e non tali solo perché iscritti in una Costituzione che pochi hanno letto e in cui tanti di quei pochi non si riconoscono), che intende rimarginare antiche ferite storiche, far sentire i vinti e i vincitori di una guerra civile appartenenti a una stessa comunità politica, come in certi circoli Usa di ex combattenti in cui si trovano unite la bandiera del Vecchio Sud e quella dei vincitori di Gettysburg. L’Associazione, presieduta da Carla Nespolo, è il contrario di tutto questo: è la paladina di una guerra civile ever green, la centrale di un fondamentalismo partigiano, che si mobilita spesso e volentieri per togliere la parola a quanti vengono marchiati come fascismo, che eleva alti lai se un politico onesto ed equilibrato come Antonio Tajani, dichiara a La Zanzara, che «non si può dire che il fascismo non abbia realizzato nulla ||….| si può non condividere il suo metodo. Io non sono fascista, non sono mai stato fascista e non condivido il suo pensiero politico però se bisogna essere onesti, ha fatto strade, ponti, edifici, impianti sportivi, ha bonificato tante parti della nostra Italia, l’istituto per la ricostruzione industriale”. In realtà, cose altrettanto poco politically correct disse pure Giorgio Amendola a Piero Melograni nell’Intervista sull’antifascismo (Ed. Laterza 1976) ma attaccare il comunista Amendola non conveniva: si sarebbe corso il rischio di non avere più i soldi destinati ai gelosi monopolisti della memoria storica . E di finanziamenti associazioni come l’Anpi ne ricevono tanti, come documentava Il Tempo nell’articolo 25 aprile 2016, Ecco tutti i soldi ai nuovi partigiani. Dino Cofrancesco, 30 ottobre 2019

Massimiliano Parente per “il Giornale” il 26 settembre 2019. Oggi viviamo in un’epoca in cui la censura sembra superata. Si pubblica tutto, i libri non vengono più messi all’indice, tantomeno si bruciano, nelle librerie troviamo tranquillamente testi estremi, dal marchese De Sade al Patrick Bateman di Bret Easton Ellis che fa a pezzi donne e uomini con accuratissime, crudissime descrizioni (mi riferisco a American Psycho, un capolavoro). L’unico posto dove vige ancora la censura è Facebook, dove non solo non potete postare una Venere di Tiziano perché è un nudo (neppure la Chiesa è mai arrivata a tanto, a parte mettere i mutandoni ai nudi di Michelangelo), ma neppure delle righe di letteratura, come è accaduto ieri a Isabella Santacroce, che si è vista la pagina bloccata perché ha postato l’incipit del suo ultimo, bellissimo romanzo, La divina. Adesso la sua pagina rischia di essere definitivamente chiusa. Incipit tra l’altro di una grande forza espressiva: «Quando un uomo si innamora di me vorrei tagliargli la gola, vederlo crepare davanti ai miei occhi, dargli fuoco. Il potere di una donna è nel disprezzo». È letteratura, ma questo Facebook non lo sa. «Mi hanno bloccato anche su Instagram, e su Twitter» mi dice Isabella Santacroce, «dove non posso più scrivere, per la stessa ragione, ma non mi sorprende, sono abituata, per i miei libri molte persone mi hanno anche minacciato di morte, e Fazi ritirò il mio V.M. 18 dal commercio sebbene vendesse molto». Anche su Twitter. Dove ci sono profili di pornostar, come Valentina Nappi, che postano foto e video porno tranquillamente (e a me sta bene, chi vuole seguirle le segua) ma se posti una pagina di letteratura no. È probabile che non ci sia neppure una persona umana dietro queste scelte, ma un algoritmo. Un algoritmo che non distingue un romanzo da una dichiarazione di violenza. Un algoritmo a cui è stato insegnato a aver paura delle parole, decontestualizzandole. Un algoritmo ignorante, come però sarà ignorante chi lo ha programmato. Insomma, è l’ultima censura rimasta (per un editore che ti censura ne trovi un altro che ti pubblica, o come la Santacroce ti pubblichi da solo), quella degli algoritmi cretini concepiti da cretini. Isabella Santacroce mi mostra il messaggio con cui è stata bandita, per incitazione alla violenza e pornografia. È come censurare la Giuditta che decapita Oloferne di Artemisia Gentileschi per incitazione alla violenza. L’origine del mondo di Courbet non postatela perché vi bloccano subito, come è successo anche al sottoscritto (e mi hanno bloccato anche per la copertina di un mio libro, perché c’erano delle svastiche sullo sfondo). Non potreste postare neppure moltissime pagine di Pier Paolo Pasolini, tantomeno di Doestoevskj, perché molti passaggi di Delitto e castigo sarebbero presi per istigazione all’omicidio, così come Pavese o Morselli hanno scritto molte istigazioni al suicidio. Figuriamoci il premio Nobel Samuel Beckett, che in un libro scrisse «Uccidere un bambino è stroncare un disastro sul nascere». Ma la lista sarebbe lunga, la maggior parte della letteratura è per Facebook impubblicabile. Hanno bloccato Casa Pound perché fascista, ma i veri fascisti sono loro. Caro Mark Zuckerberg, va bene tutto, ma almeno chiamala Fasciobook.

Francesco Giubilei per Nicola Porro.it l'1 luglio 2019. Ci risiamo. Per l’ennesima volta scatta la censura rossa nei confronti di pensatori, giornalisti, professori, uomini di cultura non allineati al pensiero progressista, questa volta a farne le spese è Marco Gervasoni, professore di Storia contemporanea all’Università degli Studi del Molise, editorialista de Il Messaggero e volto noto del mondo conservatore italiano. Il gravissimo crimine di cui si è macchiato Gervasoni è aver espresso sul suo profilo Facebook una personale opinione sul caso Sea Watch scrivendo: “Ha ragione Giorgia Meloni la nave va affondata” per poi aggiungere provocatoriamente “quindi Sea watch bum bum, a meno che non si trovi un mezzo meno rumoroso”. Il post non è passato inosservato e ha suscitato la reazione di Loreto Tizzani, presidente dell’Anpi Molise, che ha definito le parole di Gervasoni indicative “di una visione del mondo e dei diritti umani a dir poco sconcertante” per poi aggiungere “ciò che li rende assolutamente vergognosi è il fatto che ad usarli sia un docente universitario, e per di più un docente di storia: la categoria cioè di coloro che avrebbero l’alto compito di educare le giovani generazioni instillando in loro conoscenza, competenza, etica. Senza dimenticare il rigore di analisi e di acquisizione di dati che dovrebbe costituire il necessario bagaglio operativo di chi si avvicini allo studio della storia”. L’attacco dell’Anpi nei confronti di Gervasoni è grave per due motivi: anzitutto perché vuole colpire le legittime opinioni personali di un professore espresse al di fuori del contesto universitario, in secondo luogo perché, se a esprimere opinioni politiche è un docente con idee progressiste (cosa che avviene quotidianamente), è considerato non solo giusto ma anche doveroso, se a farlo è un conservatore scatta la censura. Gervasoni non ha manifestato il suo pensiero sul caso Sea Watch all’interno di un’aula universitaria, in quel caso sarebbe stato giusto intervenire (anche se quando la politica viene portata nelle aule universitarie dai professori di sinistra nessuno dice nulla) ma lo ha fatto sui propri social network esprimendo un’opinone che si può non condividere, si può definire sopra le righe, ma rientra nell’ambito della normale dialettica democratica. Un “affronto” ritenuto sufficiente per mettere in discussione le sue capacità didattiche: “ci si chiede dunque cosa e come potrà insegnare ai propri studenti”. Non credo sia necessario conoscere il curriculum di Gervasoni per rendersi conto della sua preparazione, basterebbe leggere un qualsiasi suo libro o articolo ma la stessa attenzione dell’Anpi a indignarsi, chiedere dimissioni o licenziamenti, non viene dedicata a leggere e conoscere la produzione editoriale dei conservatori. Ci chiediamo cosa sarebbe accaduto se Gervasoni non fosse un professore ordinario ma un ricercatore o un associato? Per il semplice fatto di aver espresso un’opinione personale non allineata, ne avrebbe risentito la sua carriera accademica nell’ambito di una visione dell’università basata sul concetto di egemonia culturale della sinistra teorizzato da Gramsci che, come scrive lo stesso Gervasoni, sembra “avere come modello di libertà l’Urss”. Arriviamo così alla richiesta di provvedimenti contro Gervasoni: “comportamenti così gravi, soprattutto per i possibili effetti negativi sugli studenti dal punto di vista umano e didattico, siano adeguatamente valutati dall’Università”. Nelle Università italiane martoriate da occupazioni abusive, scandali sui concorsi e le nomine, strutture carenti e insufficienti, qualità della didattica sempre più bassa, il post di Gervasoni di certo non avrà nessun effetto dal punto di vista umano (!?) e didattico sugli studenti mentre da ormai molti anni le conseguenze di atteggiamenti censori sono devastanti per la libertà di pensiero di professori e studenti nelle università che alcuni non vorrebbero come un luogo di confronto, dialogo e scambio di opinioni ma di indottrinamento al pensiero unico.

Da Adnkronos il 22 settembre 2019. Un professore silurato per un tweet sovranista. E' la vicenda che racconta il quotidiano La Verità nell'articolo firmato da Daniele Capezzone. Protagonista, si legge, è "il professor Marco Gervasoni, storico, saggista, e titolare alla Luiss del corso di Storia comparata dei sistemi politici (Gervasoni insegna anche in un ateneo pubblico, l’Università del Molise)". Il docente durante l'estate "si è espresso in modo ruvido sul tema dell’immigrazione illegale e del traffico di esseri umani, rilanciando una proposta di Giorgia Meloni e twittando in modo chiaramente provocatorio: “Ha ragione Giorgia Meloni, la nave va affondata. Quindi Sea Watch bum bum, a meno che non si trovi un mezzo meno rumoroso'". Secondo l'articolo, Gervasoni "è stato convocato in fretta e furia il consiglio di dipartimento che, a maggioranza fabbrinesca, ha defenestrato Gervasoni, sollevandolo dal corso".

Dagospia il 23 settembre 2019. Riceviamo e pubblichiamo: In riferimento alla campagna alimentata in queste ore sui social media, a proposito del Prof. Marco Angelo Gervasoni, l'Università Luiss Guido Carli riafferma il proprio carattere pluralista, indipendente e liberale, che rispetta le opinioni più diverse, scevre però da ogni radice intollerante, razzista o sessista nutrita di odio verso gli altri, così come sancito dai valori e dal codice etico dell’Ateneo. Ribadiamo che tutti gli incarichi dei docenti a contratto hanno durata limitata e giungono, dunque, a scadenza come nel caso in questione. Parlare di “epurazione” è, pertanto, del tutto strumentale, dal momento che la scelta di non rinnovare il contratto d’insegnamento annuale con il Prof. Gervasoni era stata presa dagli Organi competenti nella propria più piena autonomia (già con delibera del Dipartimento di Scienze Politiche del 16 luglio e del Senato Accademico del 23 luglio scorsi). Abbiamo conferito ai nostri legali il mandato di verificare le affermazioni diffuse, per valutarne il potenziale diffamatorio. Università Luiss Guido Carli

IL GIOCO DELLE PARTI. DAGONOTA il 24 settembre 2019. Zero a zero. Il professor Marco Gervasoni, docente ordinario all’Università del Molise rimosso da una cattedra alla Luiss, è diventato una piccola celebrità su Twitter e in tv per le sue opinioni controcorrente che, per l’Università di Confindustria, evidentemente hanno oltrepassato il limite. È suo diritto sentirsi vittima del politicamente corretto, e pure sospettare che dietro la decisione ci sia il cambiato clima politico. Da Viale Pola fanno sapere che la decisione era stata presa il 16 luglio e non dopo il ribaltone di governo. Ma allora perché fino a una decina di giorni fa, sul sito della Luiss compariva l' indicazione dell' inizio del corso? Mistero. Detto questo, un’università privata ha tutto il diritto di non rinnovare il contratto a un docente che dice che “Conte è una battona”, che parla di “merde rosse che urlano come troie sgozzate” eccetera. Semmai, è da vedere se altri docenti, magari più fedeli alla linea del momento degli industriali, facciano apertamente politica in aula, cosa che - dice Gervasoni, che fino a qualche settimana fa scriveva editoriali anche sul Messaggero - lui non ha mai fatto.

Fausto Carioti per “Libero Quotidiano” il 24 settembre 2019. C'era una volta, tanti anni fa, la facoltà di Scienze politiche della Luiss. Nella quale il sociologo socialista Luciano Pellicani, uno che saliva sul palco delle convention uliviste, scambiava aule e studenti con l' economista liberista Antonio Martino, tessera numero 2 di Forza Italia. Un' altra Italia, un' altra università. Oggi l' ateneo di Confindustria è quello da cui Marco Gervasoni, storico apprezzato, ordinario all' Università del Molise e dotato di una lunga bibliografia (Storia d' Italia degli anni Ottanta, La Francia in nero, La rivoluzione sovranista), è stato rimosso dalla cattedra di Storia comparata dei sistemi politici. Il 26 giugno, nei giorni della Rackete-mania, aveva scritto su Twitter «Sea Watch, bum bum», condividendo così la linea di Giorgia Meloni, favorevole all' affondamento della nave (s'intende: senza nessuno a bordo). Parole che gli sono costate il rinnovo del contratto. La Luiss che sostiene di avere «la diversità culturale» tra i propri «valori fondanti» non ha potuto sopportare tanta vicinanza alle posizioni sovraniste. Quando la Meloni, pochi giorni fa, ha raccontato la vicenda ed i social media sono insorti, l' università ha fatto sapere di essere un' istituzione «pluralista» che rispetta tutte le opinioni, purché «scevre da ogni radice intollerante, razzista o sessista nutrita di odio verso gli altri». Accuse su cui Gervasoni ha qualcosa da ridire.

Professore, che rapporto la legava alla Luiss?

«Quello di professore a contratto. In questi casi la prassi prevede che, intorno a maggio, il docente riceva una mail in cui gli si comunica che il consiglio di dipartimento lo ha confermato per l' anno seguente. Poi, a settembre, c' è la firma».

E lei questa mail l'ha avuta? Era stato confermato per l' anno accademico 2019-2020?

«Sì. Infatti, fino a una decina di giorni fa, sul sito della Luiss compariva l' indicazione dell' inizio del corso, con il mio nome. Gli studenti mi contattavano per avere informazioni sui libri. Tutto sembrava normale».

Il 26 giugno, però, lei aveva pubblicato quel tweet su Carola Rackete. Che aveva fatto insorgere l' Anpi del Molise. E non solo.

«Qualche giorno dopo mi era arrivata una mail del direttore del dipartimento, Sergio Fabbrini, indirizzata anche ad altri docenti e al rettore. Mi chiedeva conto di quel tweet e, in generale, del modo in cui scrivo sui social network, sostenendo pure che vi era stata qualche lamentela, non meglio specificata, da parte dei genitori di alcuni studenti».

Fabbrini è quello che va in televisione a dire che «i sovranisti non capiscono nulla quando parlano d' Europa».

Lei ha risposto alla sua lettera di richiamo?

«Certo. Ho spiegato che ovviamente non mi riferivo alla distruzione della nave con le persone a bordo e che quello dei social network è un linguaggio sintetico e goliardico. In ogni caso, facevo sapere che comprendevo lo spirito del richiamo e che mi sarei attenuto a quanto mi veniva chiesto. Mi dichiaravo pronto, inoltre, a dare di persona altre spiegazioni al dipartimento, al rettore e a chiunque altro».

Le hanno risposto?

«No».

In un mondo normale la vicenda si sarebbe chiusa qui, con questa sua dichiarazione di disponibilità.

«Invece due settimane dopo venivo a sapere, in modo informale, che il consiglio di dipartimento aveva deciso di revocarmi l' incarico. Con le stesse contestazioni, a quanto mi risulta, che mi erano state avanzate in quella mail inviatami dopo il tweet. Sono rimasto molto sorpreso».

Eravamo a luglio. Quando le hanno comunicato formalmente che l' avevano cacciata?

«Pochi giorni prima dell' inizio del corso, che era previsto per il 15 settembre. Me lo hanno detto per telefono. Sino ad allora, il mio corso risultava confermato per il nuovo anno accademico».

Facile il sospetto: per rendere ufficiale il suo allontanamento hanno aspettato l' uscita della Lega dal governo e l' insediamento del Conte bis.

«È un sospetto che ho pure io. Curiosamente, la telefonata mi è arrivata dopo che era stata votata la fiducia al governo. Non ho prove, però, per dire che le cose siano collegate. Di sicuro la procedura è stata molto affrettata: hanno dovuto trovare all' ultimo istante un collega che mi sostituisse, senza nemmeno il tempo di fare un bando per il contratto».

Alla Luiss, come in tutti gli atenei, la didattica dei docenti viene valutata. Lei che giudizi ha avuto? C'erano stati problemi?

«Nessun problema. Non ho mai avuto modo di vedere la mia valutazione, ma per quanto ne so era stata molto positiva. Avevo un numero elevato di laureandi, e anche questo indica che il corso era apprezzato. Nel comunicato della Luiss sulla mia vicenda, infatti, non si fa alcun riferimento a tale aspetto, sotto il quale sono inattaccabile».

Si riconosce in quegli aggettivi che si leggono nella nota dell' ateneo di Confindustria? Intollerante, razzista, sessista...

«Chiaro che no. Ma sappiamo che se uno, su Twitter, fa una battuta ironica sulle femministe, è facile trovare chi lo accusa di sessismo. Il problema è sempre quello: chi decide quale è il confine del razzismo, del sessismo, dell' odio verso gli altri? Il comunicato della Luiss si guarda bene dal definirmi razzista e tutto il resto, però fa capire che certe posizioni non sono tollerate».

Queste posizioni lei le ha mai espresse dalla cattedra d' insegnamento?

«Mai. Ho allievi di ogni orientamento politico, ai quali non ho mai fatto percepire quali fossero le mie opinioni su Carola Rackete e altre vicende del genere».

Crede che Confindustria abbia avuto un ruolo in questa storia?

«La decisione è stata presa dal dipartimento, che è un organo accademico. Non ho elementi per pensare a un intervento di Confindustria. Con la quale, peraltro, non ho mai avuto rapporti».

Intende dare un seguito legale alla vicenda?

«No, per ora».

Charlotte Matteini per Tpi.it il 24 settembre 2019. Facebook chiude la pagina Socialisti Gaudenti. Come anticipato da TPI, la piattaforma di Mark Zuckerberg nelle ultime ore ha preso di mira la pagina satirica e ha iniziato a bannare una serie di vecchi post contenenti parole considerate vietate, ad esempio “Mussolini”, “Casapound”, “Forza Nuova” e “Negroni”. Già nella sera di ieri, lunedì 23 settembre, gli admin dei Socialisti Gaudenti avevano iniziato a ricevere una serie di notifiche relative alla rimozione di post considerati non conformi agli standard di comunità, tutti post satirici e risalenti anche a parecchi mesi e anni addietro. A nulla sono valse le proteste e i difficili tentativi di dialogo che gli amministratori della pagina, Raffaele Boninfante e Angelo Cappuccia, hanno cercato di instaurare con i moderatori di Facebook per far capire loro che i post incriminati non contenevano altro che frasi satiriche o commenti a dichiarazioni di esponenti di governo o del parlamento europeo. La piattaforma di Menlo Park pare non voglia sentire ragioni e a distanza di qualche ora dai primi avvertimenti ha deciso di nascondere la pagina satirica, che al momento non è più rintracciabile dalla ricerca Facebook. Cercando su Facebook la pagina Socialisti Gaudenti, ora compare la scritta “Spiacenti, questo contenuto non è al momento disponibile. Il link che hai seguito potrebbe essere scaduto o la pagina potrebbe essere visibile soltanto a un pubblico del quale non fai parte”.

Pagina satirica sospesa per errore da Facebook  «Ci scusiamo». Pubblicato mercoledì, 25 settembre 2019 da Corriere.it. È successo tutto in 24 ore. Lunedì 23 settembre, in serata, gli amministratori della popolare pagina Facebook di satira politica “Socialisti Gaudenti” (oltre 180mila “mi piace”) si sono visti recapitare alcune notifiche relative a loro vecchi post che, secondo il social, erano in violazione degli «standard della comunità». Poi la pagina è stata oscurata. Infine, martedì, intorno alle 19, “Socialisti Gaudenti” è tornata online. Nel messaggio inviato agli amministratori, Facebook ha definito la rimozione «un errore» e si è scusato «per l’inconveniente». I Gaudenti hanno festeggiato il ritorno online con la consueta ironia («I vostri ban», si legge in uno dei loro post più recenti, «non fermeranno i nostri negroni!», un riferimento al drink simbolo della pagina), ma senza rinunciare a una riflessione sul funzionamento della piattaforma: «Il nostro caso è emblematico di come sia un metodo fallace quello di far decidere ad un algoritmo — che ha una trasparenza prossima allo zero — di cosa si può discutere in Rete. Dare il potere di censura ad una corporation semi-monopolistisca senza alcun controllo di un ente terzo solleva potenziali dubbi su come esso possa diventare in futuro (in realtà già nel presente) un problema per il pluralismo online». «Facebook si è mostrato disponibile», spiega al Corriere Angelo Cappuccia, uno degli amministratori della pagina, «dopo l’oscuramento abbiamo fatto un reclamo e la situazione è stata risolta. Anche perché del nostro caso si è parlato abbastanza: sono usciti alcuni articoli e persino Matteo Orfini, che pure è stato al centro di molte nostre battute, gli ha dedicato un post. Crediamo però che questa storia dimostri che il processo di moderazione di Facebook sia da migliorare». Anche perché, se “Socialisti Gaudenti” è stata ripristinata in tempi rapidi, lo stesso non si può dire — almeno per ora — di altre pagine nell’universo social di Mark Zuckerberg che nelle ultime 48 ore sono state oscurate: il profilo Instagram “Hipster Democratici” (altro collettivo satirico molto popolare) risulta ancora inaccessibile, ad esempio. I post dei “Socialisti Gaudenti” finiti nel mirino di Facebook hanno quasi tutti qualcosa in comune: contengono riferimenti a Casa Pound e Forza Nuova. L’oscuramento temporaneo sarebbe stato dovuto a un errore di interpretazione del contenuto dei post, che erano satirici (la pagina, tra l’altro, è in finale nella sezione satira al premio Macchianera) e quindi non violano la policy del social in materia di incitamento all’odio, né le regole sulle persone e organizzazioni pericolose (quelle in virtù delle quali sono state chiuse, a inizio settembre, le pagine Facebook di Casapound e Forza Nuova, misura contro cui il movimento di estrema destra guidato da Roberto Fiore ha annunciato un ricorso). Per certi versi, questa è una storia come tante: non è la prima volta che Facebook sospende una pagina per errore e poi torna sui suoi passi (un anno fa, volendo fare un solo esempio, è successo a “Roma fa schifo”, che raccoglie segnalazioni sul degrado nella Capitale). Il caso dei “Socialisti Gaudenti” ricorda che la moderazione dei contenuti social è una questione delicata (e complessa), in cui si intrecciano algoritmi, interventi umani (a volte risolutivi, a volte errati) e segnalazioni. Il social di Mark Zuckerberg monitora i contenuti costantemente. Ci sono algoritmi che intercettano in automatico post e foto potenzialmente problematici e poi li dirottano a un team di moderatori umani, sparpagliati in tutto il mondo: l’ultima parola spetta a loro. Accanto al sistema automatico, ci sono poi le segnalazioni degli utenti: anche quelle vengono poi vagliate dai moderatori umani. Ci sono quindi diversi profili potenzialmente problematici. Primo: l’algoritmo non è infallibile, anzi, può spesso indicare per errore contenuti legittimi come contrari alla policy. Basta pensare ai numerosi casi di opere d’arte erroneamente censurate in quanto «nudi» (l’ultimo caso in ordine di tempo riguarda le sculture del Canova). Secondo: i moderatori possono fraintendere un contenuto, magari scambiando la satira per incitazione all’odio, come sembra essere successo nel caso dei “Socialisti Gaudenti”. Terzo: le segnalazioni possono essere usate in modo strumentale per bersagliare una pagina sgradita, esponendola al rischio di essere sospesa. Basta pubblicare un appello su gruppi (pubblici o privati) chiedendo ai propri sostenitori di segnalare in massa un account per attirare su di esso l’occhio dei moderatori. Potrebbe essere successo anche a “Socialisti Gaudenti”? «Non lo sappiamo, ma è una delle spiegazioni che mi sono dato: le segnalazioni pilotate da qualche gruppo di estrema destra potrebbero aver attirato l’attenzione di Facebook, poi una moderazione frettolosa ha fatto il resto», commenta Cappuccia. «Mentre la nostra pagina era sospesa», aggiunge, «qualcuno ha scritto che non si poteva festeggiare la chiusura dei profili di Casa Pound e poi stracciarsi le vesti per i Socialisti Gaudenti, ma sono due cose molto diverse. Le pagine di estrema destra sono state chiuse per un motivo preciso: violano gli standard di Facebook. Noi siamo stati temporaneamente sospesi per un fraintendimento di fondo. Noi ridicolizziamo chi incita all’odio. La pulizia fatta da Facebook nelle ultime settimane secondo me non è da condannare, il paradosso però è che ha provocato un danno anche a chi non ha violato le regole, come noi».

Quella brutta aria di censura. Ma che sta succedendo? Marcello Veneziani, La Verità 24 settembre 2019. La Luiss, l’università della Confindustria, non rinnova il contratto al professor Marco Gervasoni, docente ordinario e autore di molti saggi, per un suo tweet “sovranista”. È ancora recente la “retata” con la generica accusa di istigare all’odio nei confronti non di una pagina precisa o di una persona, ma di varie persone legate a vario titolo a vari movimenti di estrema destra. È recente la censura alla pagina facebook che pubblica i miei scritti e la sospensione di Marco Di Eugenio, il curatore, per aver pubblicato 14 mesi prima un mio articolo ironico-politico tutt’altro che razzista, dal titolo Il prossimo segretario del Pd sarà negro. Dicono, ma è l’algoritmo che blocca automaticamente alla parola negro. Peraltro è un’offesa alla negritudine, a Leopold Senghor, a chi rivendica di essere negro e un modo di censurare ignorando i contenuti e il senso dei testi. Ma non è questione di algoritmi. Censurare quattordici mesi dopo, e per giunta appena cambia un governo, non è un algoritmo ma è una deliberata censura. E che provenga da una delazione, rende ancora più sinistra l’opera dell’Ovra (oggi sta per Opera Vigilanza Repressione Antifascista). Mi ferma un signore sul lungomare di Sanremo e mi dice che ha cercato ripetutamente di condividere un mio scritto apparso su La Verità e ripreso nella pagina facebook in cui si parla della sinistra come di un’associazione di stampo mafioso (lo diceva Pasolini a proposito della Democrazia Cristiana) e lo scritto è stato rimosso subito e sistematicamente. Analoghi riscontri ha avuto e ho avuto altrove. Ricevo ripetute segnalazioni di lettori, anche non politicamente schierati ma – guarda caso – di orientamento vagamente “sovranista”, che come è notorio allo stato attuale comprende un’infima…maggioranza del paese, che hanno ricevuto in vari luoghi, a partire dai social, censure, blocchi, oscuramenti. Ma che sta succedendo? No, non siamo in dittatura, non esageriamo, non c’è carcere, e il fatto che io ve ne scriva lo può confermare. Non scherziamo col fuoco. Però la caccia al dissidente, ribattezzando razzista, fascista, nazista, sessista, xenofobo, omofobo, e via dicendo è aperta, e spesso viene istituzionalizzata in commissioni, osservatori e pressioni. E diventa minacciosa se si considera l’introduzione surrettizia di reati d’opinione, a livello nazionale e spesso a livello europeo; si comincia dalle frasi più sguaiate e dementi, tanto per gettare un po’ di fumo negli occhi ma poi si arriva alle opinioni divergenti, alle idee, alle culture non allineate al catechismo corrente. Qualche fesso che si autodefinisce liberale, dice: ma i social sono gratuiti (ma sono poi veramente gratuiti, credete davvero che siano social di beneficenza?) e soprattutto sono privati, dunque possono ammettere ed escludere chi vogliono. No, signori, se voi entrate in qualunque esercizio privato, un negozio, un taxi o altro, non potete essere esclusi perché la pensate in modo diverso dal gestore o dal proprietario; tanto più se quel negozio è come i social, fondato sulla libera espressione e circolazione di opinioni. Se un social decide di schierarsi, come un giornale, lo dica espressamente e riconosca che è finita la sua missione social, universale, asettica, puramente tecnica ed è espressione di parte. In secondo luogo, affidare a un gestore privato il compito giudiziario e ideologico di stabilire chi è nel giusto e chi no, è assai pericoloso. Zuckerberg annuncia di volerlo fare e riceve il plauso, guarda caso, del mondo progressista, liberal, radical. Ma un’azienda privata ha come suo primario, legittimo interesse il profitto e il vantaggio del proprietario o degli azionisti e dunque nel nome del profitto e dei suoi azionisti può ritenere conveniente o sconveniente secondo i governi e i poteri, valutando i casi in questione su quella base e magari nominando commissioni di vigilanza gradite ai potenti, che abbiano un orientamento prevalente anziché un altro o nessuno in particolare. E poi i social sono sotto tiro dei governi e dei parlamenti nazionali che chiedono più tasse, controlli, limitazioni; dunque possono anche pensare a un baratto e non è da escludere che queste minacce politiche servano proprio a tenerli sotto schiaffo: noi chiudiamo un occhio ma voi addomesticate i vostri social, tappate la bocca ai dissidenti. Si chiama ricatto. In passato abbiamo sentito anche da presidenti delle camere, parlamentari con ruoli significativi, auspicare commissioni, filtri, inquisizioni, insomma censura e “vigilanza democratica” contro il pericolo nero, artatamente mischiato con le fake news, per le quali non c’è bisogno di leggi speciali: se offendono qualcuno e sono infondate, ci sono i codici, c’è il reato di diffamazione, di calunnia, di notizie false e tendenziose atte a turbare, c’è la smentita… Non c’è bisogno di leggi speciali e connotate ideologicamente in modo unilaterale. Le leggi speciali in tema di opinione sono sempre restrizioni di diritti e libertà e anticamere di risvolti più inquietanti. Dopo aver marcato un suo territorio virtuale, dopo aver emesso una sua moneta, ora il social annuncia che istituirà una corte, un suo tribunale, per dirimere questi casi. Non vi preoccupa che si crei uno Stato parallelo e sovrastante al nostro Stato, che non risponde pienamente a nessuno Stato e alle sue leggi, nel nome della sua extraterritorialità, del suo status sovranazionale e multinazionale? Ogni singolo episodio non preoccuperebbe se non si inserisse in un contesto, un’escalation e una convergenza di poteri. Non sostengo affatto che le sparse denunce e limitazioni siano figlie di un Complotto ordito dall’alto e poi diramato. C’è però una preoccupante sintonia, uno squallido allinearsi, un pericoloso conformismo che mette in fila l’università pubblica e quella privata, l’ateneo della Confindustria, i social, i poteri mediatici e il mondo di sinistra, fino ai tribunali. Dai lib ai dem, dai padroni ai compagni, l’arco è vasto e variegato, ma quando si tratta d’impedire la circolazione di messaggi differenti, s’accodano, s’intruppano. È necessario suonare l’allarme, non abbiamo altra difesa che la denuncia aperta e mirata. A noi senza potere non resta che gridare tutte le volte che accade, finché la voce, il microfono e la salute ci accompagneranno. MV, La Verità 24 settembre 2019

P.S. La lista dei censurati da Facebook si allunga. Il giorno seguente la pubblicazione dell’articolo, giunge notizia che anche il profilo Facebook di Caio Mussolini è stato bloccato. “Non conosco il motivo per cui Facebook mi ha sospeso l’account personale per 7 giorni”, dice il Responsabile nazionale del laboratorio tematico Difesa di Fratelli d’Italia. “Questa polizia del pensiero è inaccettabile. Il grande fratello preconizzato da George Orwell ha preso forma con le big tech, che si sentono padrone delle nostre vite, dei nostri dati e delle nostre idee”. 

Facebook «punisce» Veneziani. Luigi Iannone il 3 settembre 2019 su Il Giornale. Non si placano mai le purghe facebookiane. Sono sempre attive e ”sul pezzo”. Questa volta è toccato a Marcello Veneziani il cui profilo è stato bloccato per tre giorni. E ormai, non so nemmeno come definire questo tipo di vicende perché non si tratta più di attingere alle pluricitate contorsioni kafkiane ma a tristi presagi orwelliani. In verità, verrebbe voglia di utilizzare un turpiloquio da osteria (”quello” si meriterebbero!) ma, finché resisto, cercherò di non cadere nel tranello. A me, qualche mese fa, cancellarono (e per sempre) due profili. Ho fatto fatica a rimettere insieme i cocci di relazioni e amicizie internettiane, e con rabbia e maggiore lena sono ripartito. Lo so! Non è la fine del mondo! Lo scrissi allora, e lo ripeto con convinzione oggi. Tuttavia, la ferita rimane perché il divieto attiene alla sfera delle libertà. E chi ha visto cancellare il proprio profilo o subire delle limitazioni sulle pubblicazioni dei ‘post’ capisce perfettamente di cosa io stia parlando. Perché una cosa è scrivere bestialità, essere blasfemi o augurare la morte fisica di un avversario politico, un’altra è fare la propria parte nella battaglia delle idee e vedersi ugualmente censurare. Ma, come scrivo spesso, questa è la libertà dei LIBERALI. Costoro, infatti, si riempono la bocca di liberalità, di diritti, di tolleranza e in nome di tutto ciò praticano la censura.

Massimo Fini per “il Fatto quotidiano” il 18 settembre 2019. Giovedì scorso, per presentare il mio libro Storia reazionaria del calcio. I cambiamenti della società vissuti attraverso il mondo del pallone, ho partecipato alla Festa nazionale di CasaPound che si teneva in un bell'agriturismo (il meglio della dolcezza delle colline venete) ma parecchio fuori mano e lontano da Verona dove i militanti di questo gruppo hanno una certa consistenza. Evidentemente si era ritenuto opportuno tenerli il più possibile alla larga. C'era moltissima pula. L'ambiente era misto, insieme a giovani che si tatuano da capo a piedi c'erano famigliole con bambini. Il mio intervento si è svolto nella massima tranquillità e alla fine mi sono salutato molto cordialmente col presidente di CasaPound Gianluca Iannone. Non è la prima volta che accetto gli inviti di CasaPound, sono stato tre volte a Roma dove hanno la sede nazionale e ho potuto notare che fanno un buon lavoro sociale in aiuto alle famiglie disagiate. Naturalmente le teste di cazzo non mancano nemmeno qui, ma quando esorbitano dalla loro ideologia e compiono atti violenti vengono giustamente messi al gabbio come ha deciso anche di recente una sentenza della Cassazione. Ma questo non vale solo per CasaPound ma per chiunque compia atti di violenza. La targa della mia automobile è stata fotografata da agenti in borghese. Ora la mia domanda è questa. Se decidessi di aprire un profilo Facebook per i fatti miei - non ci penso neanche - incorrerei nelle sanzioni che la società di Zuckerberg ha comminato a CasaPound e Forza Nuova? Facebook - che se vogliamo metterci nella sua ottica, che non è la nostra, è uno dei peggiori seminatori di odio e di istigazione alla violenza come la cronaca ha ampiamente dimostrato - è una società privata che può darsi i regolamenti che vuole. Lo Stato italiano no, deve sottostare alla Costituzione che all' articolo 21 garantisce la libertà di opinione e di espressione. E non per nulla sia CasaPound e Forza Nuova, i due gruppi messi fuorilegge da Facebook, si sono regolarmente presentati alle elezioni sia pur prendendo percentuali bassissime. Per legittimare l'intervento censorio di Facebook nei confronti di CasaPound e Forza Nuova ci si è richiamati alla legge Scelba del 1952 che vieta "la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista" e che dà attuazione all' articolo XII delle "Disposizioni transitorie e finali" posposte alla Costituzione. Sia la legge Scelba che la disposizione a cui questa legge dà attuazione avevano un senso al momento in cui furono emanate. Uscivamo da una gravissima sconfitta militare e da una sanguinosa guerra civile fra chi al fascismo si opponeva e chi il fascismo ancora difendeva. C'erano quindi ancora ferite aperte. Ma sono passati tre quarti di secolo da allora e proprio per questo i nostri padri costituenti definirono "transitorie" quelle disposizioni e sta in re ipsa che una disposizione transitoria non può andare avanti all'infinito (altrimenti si chiamerebbe in altro modo) e prima o poi deve decadere. Insomma queste leggi liberticide avevano un senso 75 anni fa, oggi lo hanno perso. Io voglio potermi dire fascista, anche se non credo di esserlo, è un mio diritto di libertà come è un mio diritto di libertà riconoscere le cose buone che il Fascismo pur fece ("Gli anni del consenso", De Felice) come è un altrettale diritto di libertà vederne solo il peggio. Queste sono le regole della democrazia, di ogni democrazia, dove la libertà di esprimere le proprie idee e opinioni, per quanto possano essere ritenute aberranti dalla maggioranza, è sacra. Altrimenti non di democrazia si tratta ma di un totalitarismo democratico. Che non è meno totalitario di ogni altro totalitarismo.

Se Facebook censura le opinioni. Marcello Veneziani il 10 settembre 2019. La censura ideologica ha fatto un altro passo avanti verso l’abisso. Non bastavano la manipolazione e la falsificazione mediatica in grande stile di tg e giornali, l’omertà e il silenzio su fatti del passato e del presente, le leggi liberticide approvate o in via d’approvazione nel parlamento, l’identificazione tra opinioni e reati, la via giudiziaria al conformismo. Ora, ci si mette anche Facebook e il meraviglioso mondo dei social. Lo chef Rubio, l’ex terrorista Etro, il giornalista Rai Sanfilippo fomentano l’odio contro Salvini e Meloni ma Facebook e Istagram fanno una retata e chiudono solo le pagine d’estrema destra ritenendo solo quelle e in generale fomentatrici d’odio. Sentivo parlare di censure, dopo il piccolo episodio capitato nella mia pagina e dopo la censura ideologica alle pagine e ai profili di casa Pound e Fronte Nazionale, e non relativamente a uno specifico episodio ma in generale, il discorso prende una piega preoccupante. La censura si nasconde dietro l’impermeabile degli algoritmi, ma colpisce opinioni, idee, dissenso. È una piega bruttissima, potremmo chiamarla la boldrinizzazione dell’informazione, la confusione di social con soviet, la dittatura del politically correct. È davvero pericoloso che la censura si accanisca indistintamente su chi offende, insulta, falsifica la realtà e chi esprime idee e opinioni difformi dal conformismo imperante. È un precedente pericoloso, anzi un ennesimo segnale di quella riduzione di libertà che prende spunto dalle fake news e da piccoli gruppi radicali o nostalgici per fare carne da porco di tutto ciò che risulta sgradito e difforme al Potere. Non abituiamoci, e tantomeno rassegniamoci, a questo andazzo, alzando le spalle e dicendo: fatti tuoi. A uno a uno, come sempre succede nei sistemi di Polizia Culturale (vera traduzione del politically correct), si procederà per mutilazioni, intimidazioni, eliminazioni successive. Fino a che si proverà, orwellianamente, a espiantare ogni seme di dissenso e di pensiero critico. Sui social sta cominciando il trattamento Orwell, magari ottenuto dal potere anche tramite minacce fiscali: attenti, cari social, allineatevi al catechismo dell’establishment, altrimenti poi veniamo a vedere se pagate le tasse o variamo leggi restrittive della vostra sfera. Se nessun presidente, nessun leader esprimerà sconcerto e solidarietà per questo attacco alla libertà, potrà essere considerato secondo i gradi di coinvolgimento complice, mandante o ispiratore di quest’aria fetente di censura che si respira in giro e che alimenta, anzi caldeggia, reazioni estreme delle menti più deboli per poter così allargare la criminalizzazione a tutti i pensieri difformi. E non distinguere tra fake news e idee difformi, tra opinioni e insulti, grida scomposte e simboli “proibiti” con argomentazioni e polemiche civili. Vietato pensare; chi pensa avvelena anche te, digli di smettere.

Casapound e Forza Nuova rimossi da Facebook e Instagram: «Diffondono odio». Pubblicato lunedì, 09 settembre 2019 da Martina Pennisi su Corriere.it. Le pagine nazionali e locali e i profili degli esponenti di Casapound e Forza Nuova sono stati rimossi definitivamente da Facebook e Instagram. Lo scrivono alcuni militanti dell’organizzazione di estrema destra su Twitter e lo conferma il social network: «Le persone e le organizzazioni che diffondono odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono non trovano posto su Facebook e Instagram. Per questo motivo abbiamo una policy sulle persone e sulle organizzazioni pericolose, che vieta a coloro che sono impegnati nell’”odio organizzato” di utilizzare i nostri servizi. Candidati e partiti politici, così come tutti gli individui e le organizzazioni presenti su Facebook e Instagram, devono rispettare queste regole, indipendentemente dalla loro ideologia. Gli account che abbiamo rimosso oggi violano questa policy e non potranno più essere presenti su Facebook o Instagram» scrive un portavoce di Facebook in una nota inviata al Corriere. «Casapound azzerata sui social. Bloccati i profili su Facebook e Instagram. Che succede? È un fatto molto pesante, non può essere un caso, all’origine del quale devono esserci ragioni gravi. Vogliamo capire», ha commentato su Twitter il deputato Pd Emanuele Fiano. Oggi, lunedì 9 settembre, il movimento era in piazza a Montecitorio alla manifestazione promossa da Fratelli d’Italia contro il governo Pd-M5s. «Si tratta di un attacco senza precedenti. Siamo schifati» ha commentato presidente di Casapound Italia, Gianluca Iannone. «Stanno chiudendo tutti i profili, provinciali, regionali, nazionali e quelli ufficiali, sia del movimento che del blocco studentesco - spiega Iannone -. Stanno arrivando le notifiche a tutti, anche ai responsabili del Primato Nazionale (il quotidiano del movimento, ndr)», ha aggiunto. Risale allo scorso aprile la rimozione definitiva dei profili di Iannone e altri esponenti da Facebook. In quel caso, il colosso aveva parlato di una reiterata violazione delle sue policy, che vietano — per esempio — di sostenere un’organizzazione o un gruppo violento e o criminale, esprimere minacce verosimili a terzi, diffondere discorsi inneggianti all’odio o di discriminazione verso le persone per la loro razza, etnia, nazionalità di origine, religione, sesso, orientamento sessuale o manifestare l’intenzione o il supporto ad atti di violenza fisica. Per l’apologia di fascismo serve invece un intervento delle autorità: è vietata per la legge italiana, ma non per Facebook, che interviene su contenuti di questo tipo solo se allertato dalle forze dell’ordine.Articolo in aggiornamento...

Casapound e Forza nuova oscurate sui social, cancellate le pagine su Facebook e Instagram: "Istigano all'odio". Le organizzazioni di estrema destra: "Ci discriminano perché eravamo in piazza contro il nuovo governo. Colpiti in un giorno simbolico". Il Pd: "Ci deve essere dietro qualcosa di importante". La Repubblica il 09 settembre 2019. Casapound e Forza Nuova scompaiono dai social proprio durante il dibattito sulla fiducia al governo Conte. Sono stati infatti cancellati da Facebook e Instagram i profili ufficiali dei due partiti e quelli di numerosi responsabili nazionali, locali e provinciali, compresi quelli degli eletti in alcune città italiane. Oscurate le pagine di Gianluca Iannone, Simone Di Stefano e Roberto Fiore. Spariti dagli schermi decine di account vicini alle due organizzazione di estrema destra. A cominciare dalla pagina principale, "CasaPound Italia", "certificata" da Fb con tanto di spunta blu: ha 280 mila follower. Restano attivi invece i profili di Twitter. Facebook ha subito spiegato: "Le persone e le organizzazioni che diffondono odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono non trovano posto su Facebook e Instagram. Candidati e partiti politici, così come tutti gli individui e le organizzazioni presenti su Facebook e Instagram, devono rispettare queste regole, indipendentemente dalla loro ideologia", Secondo un portavoce, "gli account che abbiamo rimosso oggi violano questa policy e non potranno più essere presenti su Facebook o Instagram". La società spiega che da sempre Facebook caccia individui o organizzazioni che incitano all'odio e alla violenza o che sono coinvolti in azioni violente. Questo indipendentemente dall'ideologia o dalla motivazione. E lo fa dopo un lungo processo dove si considerano una serie di segnali. In particolare si accerta se certe organizzazioni o soggetti hanno promosso o esercitato direttamente violenze sulla base di fattori come la razza, l'etnia, la personalità. Facebook controlla se questi gruppi si autodefiniscono o si identificano come seguaci di un'ideologia di odio. E se usano discorsi di odio o insulti nella loro sezione 'Informazionì su Facebook, Instagram o su un altro social media. E infine nel giudizio pesa anche se se hanno gestito pagine o gruppi che sono stati rimossi da Facebook o account rimossi da Instagram, per aver pubblicato contenuti che non rispettano le policy contro l'incitamento all'odio dell'azienda. In base a questi principi, a maggio erano state 'bannatè le seguenti organizzazioni: Generation Identify (Pan-Euro), Inferno Cottbus 99 (Germania), Varese Skinheads (Italia), Ultras Sette Laghi (Italia), Black Storm Division (Italia), Rivolta Nazionale (Italia), Scrofa Division (Olanda), Chelsea Headhunters (Gran Bretagna), White Front (Bulgaria), Boris Lelay (Francia), Beke Istvan Attila (Ungheria), Szocs Zoltan (Ungheria) e Varg Vikernes (Norvegia). "Ci cancellano perché eravamo in piazza contro il governo - reagisce Casapound - Siamo di fronte ad un attacco discriminatorio dal parte dei colossi del web" dice. "Si tratta di un attacco senza precedenti. Siamo schifati", atttacca Gianluca Iannone. "Stanno chiudendo tutti i profili, provinciali, regionali, nazionali e quelli ufficiali, sia del movimento che del blocco studentesco - spiega Iannone - Stanno arrivando le notifiche a tutti, anche ai responsabili del Primato Nazionale (il quotidiano del movimento, ndr). Una situazione che rispecchia la situazione attuale del governo della poltrona. Intenteremo una class action urgente contro un atto di una prevaricazione vergognosa". Secondo, Simone Di Stefano, segretario di Casapound, si tratta di "un abuso, commesso da una multinazionale privata in spregio alla legge italiana. Uno sputo in faccia alla democrazia. Un abuso commesso in un giorno simbolico. Un segnale chiaro di censura che per ora colpisce noi, ma indirizzato a tutta l'opposizione al governo PD/5Stelle. Questo è solo l'inizio, chissà di cosa saranno capaci". "La Polizia politica di Zuckerberg vuole impedire che ci sia opposizione al governo di estrema sinistra e Bruxelles. Sintomatico che una cosa di questo genere accada il primo giorno di governo: tutto assolutamente pretestuoso, considerato che non c'è alcun casus belli", commenta il leader di Forza Nuova, Roberto Fiore. In mattina Casapound aveva partecipato alla manifestazione contro la nascita del nuovo governo: "Sono in piazza anche io. Non è il momento di dividere, ma di unire. E costruire con ogni mezzo una rivolta popolare, culturale e democratica a questo osceno governo di usurpatori - aveva scritto Simone Di Stefano. - Dobbiamo portare i nostri temi e le nostre idee, perché questa opposizione ha bisogno di un'anima e di una visione chiara dello Stato e della Nazione che vogliamo. Non solo immigrazione e tasse, ma anche la casa, il lavoro, i figli, i salari, lo Stato Sociale devono essere al centro di questa visione". "Casapound azzerata sui social. Bloccati i profili su #Facebook e #Instagram. Che succede? È un fatto molto pesante, non può essere un caso, all'origine del quale devono esserci ragioni gravi. Vogliamo capire", commenta a caldo in un tweet Emanuele Fiano, esponente del Pd, da sempre impegnato contro le organizzazione di estrema destra e padre di un disegno di legge contro l'apologia del fascismo. E la stessa domanda la pone anche Alessia Morani, altra deputata dem. "Bene Facebook. Un altro passo verso l'archiviazione della stagione dell'odio organizzato sui social network", scrive sul social l'ex Presidente della Camera, Laura Boldrini. "Per la prima volta @facebook e @instagram chiudono decine di pagine e profili di #Casapound. Chi sparge odio e violenza non ha più campo libero sui social network. Adesso andiamo avanti con una normativa complessiva di prevenzione e sanzione dei linguaggi d'odio sul web", aggiunge Valeria Fedeli su Twitter. E il capogruppo dem al Senato Andrea Marcucci conclude: "L'apologia di fascismo è un reato anche sui social. Chissà magari ora se ne accorge anche Salvini". Interviene anche il segretario dem Nicola Zingaretti:"Quella di Facebook è una motivazione esemplare a sostegno di una scelta giusta e coraggiosa. Dobbiamo condividere e diffondere queste parole importanti per mettere fine alla stagione dell'odio. Ci sono persone che se vincessero negherebbero ad altre persone il diritto di esistere. Non bisogna mai dimenticarlo".

CasaPound e Forza Nuova azzerati sui social: chiuse decine di pagine e profili. La decisione di Facebook e Instagram. L'ira dei militanti: "Ci cancellano perché siamo contro il governo". E preparano la class action. Sergio Rame, Lunedì 09/09/2019, su Il Giornale. Facebook e Instagram hanno staccato la spina a CasaPound e a Forza Nuova. Black out. È bastato un click e decine di pagine e profili sono stati oscurati dai due social network più diffusi al mondo. "È un atto discriminatorio", tuona Gianluca Iannone annunciando una class action contro i due colossi del web. "Ci cancellano perché oggi eravamo in piazza contro il governo Conte bis". "La polizia politica di Zuckerberg vuole impedire che ci sia opposizione al governo di estrema sinistra e a Bruxelles. È sintomatico che una cosa di questo genere accada il primo giorno di governo", fa eco Roberto Fiore annunciando "più piazza e più manifestazioni". A sorpresa oggi pomeriggio, come rilancia l'agenzia Adnkronos, sono scomparse sia da Facebook sia da Instagram tutte le pagine "istituzionali" del movimento guidato da Iannone, a cominciare dalla pagina principale, "CasaPound Italia", che era stata "certificata" dalla piattaforma di Mark Zuckerberg con tanto di spunta blu e oltre 280mila follower. "Sono state colpite tutte le realtà che si rifanno a CasaPound", ha spiegato Iannone elencando, in particolar modo, gli account del Blocco Studentesco, della onlus Solid e degli amministratori della pagina del Primato nazionale, una rivista sovranista che non appartiene al movimento. Nel mirino sono finite anche svariate decine di profili personali che appartenevano non solo ai militanti della tartaruga frecciata ma anche a consiglieri comunali democraticamente eletti. Lo stesso è successo a Forza Nuova. Fiore parla di "migliaia di pagine oscurate" in modo "assolutamente pretestuoso, considerato che non c'è stato alcun casus belli". Un portavoce di Facebook motiva la decisione del colosso di Menlo Park spiegando che "le persone e le organizzazioni che diffondono odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono non trovano posto" sui loro social network. Quindi ricorda la "policy sulle persone e sulle organizzazioni pericolose" che "vieta a coloro che sono impegnati nell'odio organizzato' di utilizzare" entrambe le piattaforme. "Candidati e partiti politici, così come tutti gli individui e le organizzazioni presenti su Facebook e Instagram - ha, poi, concluso - devono rispettare queste regole, indipendentemente dalla loro ideologia". Gli account che sono stati rimossi oggi avrebbero, quindi, violato questa policy e, come annunciato dallo stesso portavoce, "non potranno più essere presenti su Facebook o Instagram". Non è la prima volta che la scure dei social network si abbatte su CasaPound. Già durante la scorsa campagna elettorale erano state oscurato diverse pagine dal movimento. Su Twitter, l'unico social che non ha cancellato le pagine del movimento, Simone Di Stefano parla di "sputo in faccia alla democrazia". "Questo - tuona - è un abuso commesso da una multinazionale privata in spregio alla legge italiana". Per Luca Marsella, consigliere nel X Municipio di Roma, l'azzeramento di oggi è legato alla loro presenza alla manifestazione di oggi contro il nuovo governo giallorosso. "Qualcuno ha dato l'ordine di farci fuori", accusa. "Si tratta di un attacco inspiegabile - conclude - siamo un movimento riconosciuto e ci siamo presentati alle elezioni democraticamente". Per il Partito democratico, invece, la decisione di Facebook e Instagram deve essere motivata da "ragioni gravi". I dem non nascondono la propria soddisfazione per la decisione dei due social network. "Meglio tardi che mai", esultano. Il presidente dei senatori piddì, Andrea Marcucci, tira addirittura in ballo Matteo Salvini sottolineando che "l'apologia di fascismo è un reato anche sui social". "Chi sparge odio e violenza non ha più campo libero sui social", fa eco l'ex ministro dell'Istruzione Valeria Fedeli annunciando "una normativa complessiva di prevenzione e sanzione dei linguaggi d'odio sul web". Al fianco di CasaPound si schiera invece Vittorio Sgarbi che parla di censura. Spero solo che l'improvviso oscuramento sia dovuto a problemi tecnici e non alle sue idee politiche", commenta il critico d'arte.

L’oscena faccia della democrazia: Facebook censura CasaPound e chiude gli account sul social. Lavocedeltrentino.it il  9 settembre 2019. L’era della dittatura digitale è alle porte. Cancellati su Facebook e Instagram gli account ufficiali di CasaPound, Blocco Studentesco, Solid, di centinaia di militanti e dei maggiori rappresentanti del movimento a livello locale, provinciale e nazionale. Già dal primo pomeriggio i profili ufficiali del partito non erano più raggiungibili e via via, come in un tragicomico domino, tutti gli altri. Dal Brennero a Pachino. Nel mirino, pare ci siano anche profili di alcuni appartenenti a Forza Nuova. In una dichiarazione del tardo pomeriggio, Gianluca Iannone afferma “Con l’avvento del nuovo governo, la democrazia mostra la sua vera, oscena natura. Facebook e Instagram ci cancellano perché oggi eravamo in piazza contro il Governo. Un atto vergognoso che ha un precedente: già in campagna elettorale ci avevano cancellato decine di pagine. Per assurdo sono stati disabilitati anche i profili di amministratori della pagina del Primato nazionale, una rivista sovranista libera, non di Cpi”. “Facebook ha chiuso la mia pagina 140.000 iscritti– protesta Simone Di Stefano – e quella di CasaPound, 250.000. Ha chiuso le pagine dei nostri consiglieri comunali democraticamente eletti. Un abuso, commesso da una multinazionale privata in spregio alla legge italiana. Uno sputo in faccia alla democrazia. Facebook è uno strumento ormai sostanzialmente pubblico, usato da milioni di persone, nel quale però non valgono le regole dello Stato ma la legge che fa Mark Zuckerberg. E’ agghiacciante e mi sembra un comportamento fuorilegge: noi ci siamo candidati, abbiamo consiglieri eletti e Facebook deve attenersi alla legge italiana”. Così come in quasi tutta Italia, anche a livello regionale sono stati oscurati i profili di molti esponenti della tartaruga frecciata, compresi quelli del coordinatore regionale Andrea Bonazza, del consigliere comunale bolzanino Sandro Trigolo e dei consiglieri di circoscrizione a Oltrisarco e Don Bosco a Bolzano Massimo Trigolo e Michael Sini. L’attacco non ha risparmiato nemmeno il Trentino, dove non ci sono rappresentati comunali ma una nutrita e attiva schiera di militanti del movimento. “Difendere il tricolore è diventato eversivo per la dittatura dei sinceri democratici. Ancora una volta tali “sinceri democratici” colpiscono chi non si allinea al loro pensiero. Dopo aver definito “eversivi” quegli italiani scesi in piazza per chiedere elezioni, colpiscono con una censura senza precedenti chi come noi difende il tricolore. Ma noi non ci arrendiamo”, commenta il responsabile provinciale di Casapound in Trentino Filippo Castaldini. Per nulla sorpreso Sandro Trigolo, secondo il quale non è la prima volta che si assiste ad episodi di questo tipo, anche se di portata minore in passato. “Devo dire che quasi me l’aspettavo questa censura, l’ennesima. Era capitato in campagna elettorale per le comunali, per le Provinciali, per le politiche del 4 marzo e per le Europee. Probabilmente il nuovo Governo si è spaventato nel vedere le migliaia di partecipanti alla festa nazionale di Cpiappena trascorsa a Verona e le centinaia di militanti di Cpi a manifestare questa mattina sotto Montecitorio, armati di tricolore”.

Secco e tagliente, Bonazza affonda la lama: “Si installa il governo #PDM5S e Facebook disinstalla centinaia di pagine e profili di CasaPound. Una censura ad orologeria che sta già facendo discutere i social e tutto il mondo politico, da destra a sinistra, da Sgarbi che grida allo scandalo antidemocratico, a Fiano(PD) che giustifica l’azione censoria suggerendo di fare chiarezza sulle motivazioni che hanno spinto fb a questo boicottaggio di massa. Sul fronte di CasaPound invece, già collaudato a questi infami attacchi del sistema mediatico, si stanno cercando soluzioni per intraprendere nuove battaglie legali, magari trascinando in tribunale i dipendenti italiani di Zuckerberg. Per anni ci hanno martellato i testicoli con le “colpe del Fascismo” in materia di censura e democrazia, ci hanno inculcato le presunte privazioni di libertà di espressione dei “regimi” russi, mediorientali, sudamericani, nord coreani etc, ma alla fine stanno facendo molto peggio loro e sapete perché? Perché mentre negli altri Stati lo ammettono, qui hanno la faccia come il culo, quella delle peggiori incxxxte“. Una vera ecatombe da social quella a cui si sta assistendo dunque in queste ore, con un attacco unicamente mirato a coloro che vengono tacciati di “neofascismo”, anche se potremmo dire che oggi il vero fascismo, nell’accezione negativa generalmente utilizzata dagli avversatori del pensiero libero, pare risieda altrove. Il colosso di Zuckerberg dal canto suo si difende. In una dichiarazione rilasciata all’Ansa e alle maggiori testate  nazionali afferma che “Sono state violate le regole basilari e gli standard della Comunità. Partiti politici e candidati, così come singoli individui e organizzazioni presenti su Facebook, devono attenersi a queste norme. Le persone e le organizzazioni che diffondo odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono non trovano posto su Facebook e Instagram. Candidati e partiti politici, così come tutti gli individui e le organizzazioni devono rispettare queste regole indipendentemente dalla loro ideologia. Gli account che abbiamo rimosso oggi violano questa policye non potranno più essere presenti su queste piattaforme”.

Facebook e Instagram censurano CasaPound: cancellati centinaia di profili e pagine. Ilaria Paoletti il 9 Settembre 2019 su  ilprimatonazionale.it. La mannaia della censura: eliminati centinaia di profili Facebook riconducibili a CasaPound Italia. Oltre ai profili privati di militanti, sono stati rimosse dal social network anche le pagine riconducibili a Cpi e alle attività di solidarietà e beneficenza ad essa connesse. Nuova allucinante censura quindi, dopo quella di aprile scorso, quando decine di esponenti del movimento politico videro disabilitare il proprio account per presunte “violazioni” alla policy del social network: Facebook ha ora cancellato sistematicamente gli account personali dei maggiori esponenti di CasaPound Italia e anche la pagina principale, che contavano centinaia di migliaia di followers, oltre alla pressoché totalità delle pagine relative alle comunità delle varie città italiane. Eliminata la pagina di CasaPound Roma, Ostia, Parma e molte altre. Stesso dicasi per le pagine di Gianluca Iannone, Simone Di Stefano e dei principali esponenti di CasaPound presenti su Facebook. Fatte fuori anche le pagine del Blocco Studentesco, organizzazione giovanile di Cpi.

Un attacco vergognoso. Decine di militanti, gestori delle pagine, hanno visto comparire una pagina bianca al primo tentativo d’accesso. Stessa sorte per i profili Instagram: eliminati tutti quelli ufficiali di CasaPound, nazionali e regionali. Vittime della mannaia della censura, anche in questo caso, numerose pagine personali dei militanti della tartaruga frecciata. Si rende ancor più evidente, quindi, quanto già visto ad aprile: vi è un disegno ben preciso che mira a cancellare le voci dissonanti rispetto alla narrazione dominante.

E accade proprio oggi, quando migliaia di persone sono scese in piazza a Roma per contestare il nuovo governo giallofucsia. E’ un caso che accada proprio adesso, quanto il bis premier Giuseppe Conte ha invocato, nel suo discorso al Parlamento, l'”uso responsabile dei social-network, che non di rado diventano ricettacoli di espressioni ingiuriose e di aggressioni verbali”. Ma il punto è sempre il medesimo: chi controlla i controllori? Le motivazioni di Facebook per questo nuovo attacco a CasaPound risultano del tutto pretestuose. Un autentico e barbaro attacco alla libertà di pensiero. Ilaria Paoletti

Tribunale di Roma ordina a Facebook  di riattivare CasaPound. Pubblicato giovedì, 12 dicembre 2019 da Corriere.it. Articolo in aggiornamento... Il Tribunale Civile di Roma ha accolto il ricorso presentato da CasaPound in seguito alla disattivazione della pagina Facebook ufficiale dell’associazione avvenuta il 9 settembre scorso. È lo stesso partito di estrema destra a diffondere, tramite una nota, la notizia. «In conclusione il ricorso va accolto e va ordinato a Facebook l’immediata riattivazione della pagina dell’Associazione di Promozione Sociale CasaPound», si legge nella sentenza a firma della giudice Stefania Garrisi. In una nota inviata al Corriere, un portavoce di Facebook ha commentato: «Siamo a conoscenza della decisione del Tribunale Civile di Roma e la stiamo attentamente esaminando». La pagina risulta ancora offline. Secondo la nota di CasaPound, la giudice ordina anche la riattivazione del «profilo di personale di Davide Di Stefano, quale amministrazione della pagina», fissa una «penale di 800 euro per ogni giorno di violazione dell’ordine impartito, successivo alla conoscenza legale dello stesso» e condanna il social al pagamento di «15 mila euro» di spese legali. Le motivazioni: «È evidente il rilievo preminente assunto dal servizio di Facebook (o di altri social network ad esso collegati) al punto che il soggetto che non è presente su Facebook è di fatto escluso (o fortemente limitato) dal dibattito politico italiano, come testimoniato dal fatto che la quasi totalità degli esponenti politici italiani quotidianamente affida alla propria pagina Facebook i messaggi politici e la diffusione delle idee del proprio movimento. Ne deriva che il rapporto tra Facebook e l’utente che intenda registrarsi al servizio (o con l’utente già abilitato al servizio come nel caso in esame) non è assimilabile al rapporto tra due soggetti privati qualsiasi in quanto una delle parti, appunto Facebook, ricopre una speciale posizione: tale speciale posizione comporta che Facebook, nella contrattazione con gli utenti, debba strettamente attenersi al rispetto dei principi costituzionali e ordinamentali finchè non si dimostri (con accertamento da compiere attraverso una fase a cognizione piena) la loro violazione da parte dell’utente». Si parla dunque solo di Facebook e non di Instagram, che era stato ugualmente coinvolto nella decisione del settembre scorso.

Moriranno pazzi. Fuorilegge è Facebook e non CasaPound. Le opinioni non si censurano. Francesco Storace venerdì 13 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia.  Moriranno pazzi, perché non sapendo come liberarsi di CasaPound avevano mandato avanti Facebook. Ma gli è andata male. La legge sta con la Tartaruga e non con Zuckerberg (nella foto con la maglietta adatta all’occasione). E quindi si può tornare a cliccare “mi piace” su una pagina tanto indigesta ai nemici della libertà di opinione. Se si registrassero i boati, la rete ieri era abbastanza tumultuosa. A sinistra i Fianistei che lacrimavano attoniti con tante di quelle imprecazioni che il buon Bergoglio dovrà faticare assai a non trasformarle in peccati mortali. Dall’altra parte, la gioia di chi è palesemente stufo di una censura a senso unico.

Libertà in tutte le lingue. Libertà. Freedom. Liberté. Freiheit. Libertät. Sbizzarriamoci come vogliamo, ma è una parola con le sue varianti in tantissime lingue. Libertà. Potrà adottarla anche CasaPound, che è pure facilmente traducibile. E’ il tribunale di Roma a stabilire un principio che sembrava evidente solo a destra: la libertà di opinione è un valore che non puoi negare solo perché lo decidi tu. E se un social network delle dimensioni di Facebook comprime quel diritto addirittura nei confronti di un’associazione che è stata presente in diverse competizioni elettorali, la cancellazione di una pagina diventa abnorme. Certo, poi ci sarà il giudizio nel merito, perché finora è stato accolto il ricorso cautelare di CasaPound contro l’incredibile decisione di Facebook, ma sicuramente siamo di fronte ad una svolta. Che non farà piacere ai centri sociali che affollano le redazioni. Ai tastieristi da contumelia che straboccano in un Parlamento dove hanno poco da fare. A quelle sardine figlie di buoni uomini e di buone donne. Oppure a chi si nutre di pane e antifascismo persino sotto l’Albero di Natale.

CasaPound e il diritto negato da Facebook. Quasi tre miliardi di persone nel pianeta scrivono ogni giorno su un social prepotente le loro opinioni. Precluderle ad un movimento che ha raccolto trecentodiecimila voti alle elezioni politiche in Italia sarebbe una bestemmia. Non sono milioni, ma neppure un’inezia. Ha scritto il giudice nella sentenza: quel soggetto politico sarebbe di fatto “escluso (o fortemente limitato) dal dibattito politico italiano, come testimoniato dal fatto che la quasi totalità degli esponenti politici italiani quotidianamente affida alla propria pagina Facebook i messaggi politici e la diffusione delle idee del proprio movimento”. Ma ancora più importante è un altro passaggio, che troppo spesso si sottovaluta. L’iscritto di un partito, di un movimento, di un’associazione, ha un comportamento che la magistratura vuole sanzionare? Oppure la pubblica opinione contesta? Che c’entra il suo partito, il suo movimento, la sua associazione? “E’ appena il caso di osservare che non è possibile sostenere che la responsabilità (sotto il profilo civilistico) di eventi e di comportamenti (anche) penalmente illeciti da parte di aderenti all’associazione possa ricadere in modo automatico sull’Associazione stessa”, scrive ancora il tribunale. Non può, per questo motivo, “essere interdetta la libera espressione del pensiero politico su una piattaforma così rilevante come quella di Facebook“. Chi ha brindato alla cancellazione dei profili, lo ha fatto troppo presto. Da domani si pensi di più – se si vuole – a contrastare nel merito le idee che non si condividono, senza pretese censorie. Che non appartengono al dibattito democratico. Lo ha spiegato per sentenza chi è chiamato dalla Costituzione ad applicare le leggi.

Casa Pound Italia vince la causa contro Facebook. Emanuele Ricucci il 12 dicembre 2019. C’è vita oltre il muro dell’ideologia. Evviva la libertà d’espressione! La libertà di espressione è ancora aggrappata a un filo. Lo Stato di diritto è ancora aggrappato a un filo, mentre si incarna la dimostrazione che la realtà prevale sulla narrazione e che, forse, ancora ci si può salvare dall’asilo ossessionato di tanta sinistra oltranzista e di un sistema cieco. Censori, trinariciuti d’assalto, limitatori, negatori, ossessionati: annatevela a pija…con il giudice, stavolta davvero. Anche Facebook deve rispettare le leggi poste e la Costituzione. Non lo dico io, ma un giudice. Mai pensato ad una diretta collusione di Facebook con i piccoli pittori del conformismo più strillato e becero delle sinistre d’Europa. Per quanto potenti nella creazione e manipolazione del sentire comune, della cultura di massa, esse non hanno la forza di indirizzare Facebook, come multinazionale tra le più importanti del mondo, in maniera coatta. Eppure Facebook, in quanto “brand”, per parlare con il reggente delle sardine, è attento a tutte le mutazioni del dna del sistema mondo. Capta i proseliti, le onde che vanno per la maggiore affinché si concretizzi efficacemente lo studio di mercato e dia frutti. Se il mondo, in un plausibile annodamento cerebrale, visti i tempi, volesse solo uomini in grado di mangiare le banane con le orecchie, perché eticamente corretto, perché tutela della diversità, perché non può esistere solo chi mangia le banane con la bocca, discriminando gli altri, e i governi mondiali si prodigano affinché questo accada, Facebook darà il suo contributo: pecunia non olet. I fantastici intrecci tra spessore dell’anima e profumo dei soldi, tra società civile e mercato, tra idea e profitto, del resto, portano anche a questo. Insomma non bastano i pistoleri della segnalazione perché la pagina di un movimento politico giuridicamente riconosciuto, tanto da potersi candidare alle elezioni ed eleggere democraticamente e a norma di legge propri rappresentanti nei consigli comunali, venga cancellata di colpo, assieme a centinaia di profili di aderenti e rappresentanti di quel movimento. Blitzone nascente da una precisa scelta di politica aziendale, lecito averne una, del resto.  Facebook deve fare di più: deve intercettare ciò che la gente vuole per offrirgli il luogo in cui si vuole esattamente sentire. Banale ma reale. Ecco la policy. Preesistente policy, che, così pare, va modellandosi sul comune e attuale sentire, tanto da chiudere pagine all’improvviso ed effettuare un’operazione che per celerità, estensione e focus sull’obiettivo, sembra a tutti gli effetti censurante. Operazione che ha condotto alla masturbazione collettiva di quell’asilo acefalo e acritico che tanta parte dell’oltranzista sinistra nostrana rappresenta. Quella secondo cui non esiste dialogo, non esiste pensiero divergente, né dirimpettai o, addirittura, per cui non esiste neanche “diritto all’ascolto” (aspetta, chi viene in mente parlando di questo?…). E se la gente vuole antifascismo, ad ogni costo, Facebook darà loro antifascismo, o meglio si adopererà affinché la policy, già di per sé delineata, tutte quelle regole aziendali di un privato che, però, compone uno spazio sempre sottoposto ai dettami generali delle leggi, trovino la giusta sensibilità in quella determinata situazione. È un gioco di sensibilità, al momento. Anche a costo di veder spuntare sul naso di Zuckerberg la terza narice guareschiana. Ma in fondo, al social più bello che ci sia, cosa potrebbe interessare delle crisi isteriche, dell’andromenopausa e delle vampate di regime degli antifascisti italiani? È il mercato baby! Casa Pound vince contro Facebook. Ecco la notizia, impazienti seguaci di questo chiacchierone. Non si vince niente, se non la dignità, la giustizia e quel lieve sapore di godimento nel mostrare a ognuno che la narrazione del reale è diversa dal reale e che, forse, siamo ancora in un Stato di diritto. Nel mondo delle fiabe per adulti italiani, Casa Pound Italia, la sua organizzazione, i suoi pensieri, le sue proposte, i suoi candidati eletti, i suoi dibattiti, convegni, ragionamenti sopra le cose, non dovrebbero esistere. Neanche provare a respirare. Strano per un movimento di pensiero, quale quello che la sinistra nei suoi vari rivoli incarna, che si sente superiore a qualsiasi cosa si muova, che inquadra nel leghista basic il nemico numero uno e che, proprio per la sua natura magnificamente colta e magnanima, dovrebbe concedere libertà di espressione a chiunque, vigente il sistema democratico, limitandosi al divertimento di annichilire, con la propria potenza culturale cosmica, la sciatteria altrui, anziché metterci anima e corpo per tentare di cancellarla a norma di legge. Preoccupa così tanto il pensiero di uno stolto, nell’Italia del Mes? Nel corso di una guerra (in)civile mai terminata in cui l’assalto è all’uomo e non alle idee. Lombrosianesimo puro e cupo, inquietante pochezza di chi o ha finito le idee (la sinistra italiana a cento anni dal PCI e da Gramsci docent) o non le ha mai avute (sardine docent) o ha esaurito se stesso la propria utilità ed esperienza nella storia o di chi si tappa le orecchie, strizza gli occhi e comincia a urlare “Bella ciao”, a prescindere, per rassicurarsi come il gatto quando fa le fusa, come quando hanno detto all’establishment che Casa Pound Italia ha vinto la causa contro Facebook. Con l’Ordinanza dell’11 dicembre 2019 su ricorso di Casa Pound Italia, rappresentata e difesa dal Prof. Avv. Augusto Sinagra e dal Prof. Avv. Guido Colaiacovo, il Tribunale di Roma, in accoglimento totale del ricorso, ha condannato Facebook Ireland Limited all’immediata riattivazione della pagina di CasaPound Italia e del profilo personale di Davide Di Stefano in qualità di amministratore della pagina.

Ha fissato la penale di 800,00 euro per ogni giorno di violazione dell’ordine impartito.

Ha infine condannato Facebook Ireland Limited al pagamento delle spese di giudizio che ha liquidato in 15.000 euro, oltre spese generali e accessori come per legge.

Non bisogna essere degli ultras di partito per capire quanto sia importane e meritevole di menzione, in un bombardamento ideologico perenne e in questa orrida bulimia d’informazione, questo evento. Non è necessario essere tesserati di Casa Pound ma semplici amanti della libertà e della giustizia. Non bisogna tifare, bisogna capire che il reale non corrisponde alla narrazione. E le geometrie del reale non sono come le sinistre perverse e ossessionate vorrebbero raccontarci, ovvero quelle di un’Italia in emergenza fascismo, con un giovane e rampante Benito Mussolini che in diretta Facebook chiede alle casalinghe italiane di dare l’oro alla Patria per fare l’impero. E facciamolo st’impero, sempre che le partite Iva, con i loro 400 euro mensili in nero, senza garanzie, né tutele, gli operai mandati a cagare dalla multinazionale che delocalizza o che viene venduta, nel peggior colonialismo di sempre, i disoccupati cronici, i genitori costretti a scegliere se pagare i libri dei figli o le bollette di luce e gas, gli ultimi delle periferie, siano d’accordo. “Una sentenza destinata a fare giurisprudenza. In questo passaggio si evidenzia come l’ormai ruolo pubblico svolto da Facebook non consente al social di Zuckerberg di fare il bello e il cattivo tempo. Quello tra CasaPound e il gigante social “non è assimilabile al rapporto tra due soggetti privati qualsiasi in quanto una delle parti, appunto FACEBOOK, ricopre una speciale posizione”. E deve dunque rispettare i principi costituzionali”, specificano dal Primato Nazionale. “Ecco il passaggio della sentenza. ‘È infatti evidente il rilievo preminente assunto dal servizio di Facebook (o di altri social network ad esso collegati) con riferimento all’attuazione di principi cardine essenziali dell’ordinamento come quello del pluralismo dei partiti politici (49 Cost.), al punto che il soggetto che non è presente su Facebook è di fatto escluso (o fortemente limitato) dal dibattito politico italiano, come testimoniato dal fatto che la quasi totalità degli esponenti politici italiani quotidianamente affida alla propria pagina Facebook i messaggi politici e la diffusione delle idee del proprio movimento. Ne deriva che il rapporto tra FACEBOOK e l’utente che intenda registrarsi al servizio (o con l’utente già abilitato al servizio come nel caso in esame) non è assimilabile al rapporto tra due soggetti privati qualsiasi in quanto una delle parti, appunto FACEBOOK, ricopre una speciale posizione: tale speciale posizione comporta che FACEBOOK, nella contrattazione con gli utenti, debba strettamente attenersi al rispetto dei principi costituzionali e ordinamentali finchè non si dimostri (con accertamento da compiere attraverso una fase a cognizione piena) la loro violazione da parte dell’utente. Il rispetto dei principi costituzionali e ordinamentali costituisce per il soggetto FACEBOOK ad un tempo condizione e limite nel rapporto con gli utenti che chiedano l’accesso al proprio servizio”. Non è come sembra. Sì può ancora scardinare il regime dei pensieri comuni, la giustizia respira ancora, la libertà di espressione, anche. Questa è la vittoria più grande.

La censura virtuale non fermerà la battaglia reale contro le follie del progresso. Scordatevelo! Emanuele Ricucci il 9 settembte 2019 su Il Giornale. Censurano i Torquemada, nel loro saio unto di disgrazia. Censurano alle porte della fiducia al nuovo governo Conte. Mentre la piazza di Roma, in cui ero questa mattina per vivere il disagio del mio Paese e documentare, s’infiammava tra le urla, con migliaia di persone imbufalite che affollavano i varchi che danno accesso alla piazza del Parlamento, bloccati dalla Polizia. Neanche l’attimo di ragionare sopra le cose di questa immondizia presente, popolata dalla miseria, dalla decomposizione umana, di tradimenti, giravolte, odio, rinnegamenti, che segna la fine palese di una classe politica al servizio della credibilità, dell’istituzione e nel legame indispensabile con il corpo elettorale, di una classe di uomini, fatto ben più grave dell’alternanza storica delle idee al potere. Neanche il momento di chiedersi, “quanto durerà questa motivazione? Per quanto questo morso?”, se non vive nella quotidianità, nei giusti luoghi e nei giusti modi, nel tessuto più prossimo sulla pelle d’Italia, nella militanza continua, come forma di partecipazione del presente ed espressione della propria identità, che si manifesta in vari modi, si allenta inesorabilmente, lasciando alla sinistra la possibilità di rigenerare continuamente il suo stargate, che gli permette di generare la cultura di massa e il sentire popolare anche quando è cadavere politico. Neanche qualche istante per osservare quella marea di individui e tricolori, per dirsi “pare essere giunto il momento di unire e non di dividere”, con le destra unite in piazza, superato l’atavico odio interno, gli antichi vizi, il brutale vizio dell’incastellamento, la coltivazione dell’ego sociale, i cerchi magici. Neanche il tempo di ammettersi che non si tratta di mettere in scena una rivoluzione, gli italiani di oggi non ne sarebbero capaci per molti motivi, ma di offrire un segnale concreto di contrasto al governo, riempiendo il senso del vuoto che intercorre tra Paese reale e Paese dei balocchi parlamentari e governativi. Neanche il momento di ragionare sull’accaduto, in un frastuono che, da un mese, offende e umilia l’integrità di ognuno, come un moto ondoso spaventoso, che la censura, subdola e bastarda, colpisce e cancella. Che curioso modo di fare democrazia, di praticare la libera espressione del pensiero. Decine di pagine di Casa Pound Italia, su Facebook, sono state cancellate in un secondo e tutte insieme. Senza motivo e, a quanto pare, lontano da ogni casualità. Compresi i profili privati dei principali dirigenti di Cpi, dei consiglieri comunali eletti in quota Cpi, di molte altre associazioni, di editori, dei membri della redazione del Primato Nazionale e di numerose altre figure certamente non allineate con il culto del momento contingente, provenienti dal mondo comunitario, sovranista. Il blitz degli sfascisti è compiuto. Curioso caso di libertà, che logora chi non ne ha. E il più delle volte chi non ne ha è chi la professa, per bluffare e fregare, per colmare il vuoto spinto e manifesto della slealtà, evidentemente. La professione di libertà nell’epoca della miseria umana, quella che chiude il precedente ciclo storico e ne apre uno nuovo (con la dignità dei cambiamenti epocali, anche se non percepiti), quello che non parla solo di politica e governi, di vicende e ministri, di manovre e programmi, ma di un’intera classe umana, su cui camminano gli esecutivi, le idee, che nutrono il presente di carne, non di solo spirito e immaginazione del futuro, che è andata al macero e ora si sta decomponendo, quella per cui, come ebbi modo di scrivere di recente sempre qui sul Giornale, ogni credibilità viene meno, in maniera plateale, rispetto al proprio posizionamento. L’assenza degli uomini e delle loro dimensioni, della loro formazione, della loro profondità sarà il gran male del tempo venturo. Masse furenti. Questa la grande battaglia, quella degli uomini sovrani contro gli uomini replicanti, striscianti. Tornano i Torquemada. Casa Pound, nel proprio agire quotidiano, pare offrirci l’idea di popolare il reale e la prossimità, tra gli ultimi, nei quartieri, tra i senza diritti, i lasciati fuori, avendo sostituito le sinistre che dalle periferie sono diventate periferie del reale, e questo non è censurabile, oltre ogni segnaposto virtuale che si ingozza gaudente di illusione della partecipazione e del potere. Casa Pound si nutre di un’identità certa, reale, storica e ragionata, da cui si può anche dissentire, talune volte, ma che è tale, manifestata, che non si genera nella virtualità e non ha bisogno di essa, tanto più di altri movimenti nell’epoca dell’idolatria e della estrema personalizzazione della politica, morbo in primis salviniano. E questa è la vittoria più grande e antimoderna di chi non prolifera come batterio inservibile alla storia, nella social-democrazia. Poco male eliminare un residuo di virtualità. Che rinascerà comunque. Grave, gravissimo per quanti strillano, nella loro cravattina di rappresentanza o nella loro folta chioma da libertino a casa propria, che la libertà di ognuno è sacra, ma sempre col culo degli altri. Grave, gravissimo per tutti. Anche per chi ha perso il senno mordendosi d’ira ogni giorno, tifando e non ragionando più sopra le cose; anche per chi ha perso il senso dell’oggettività, della libertà superiore a ogni condizione politicamente imposta, come fine umano e basilare. Questa è una frattura scomposta, spaventosa e insanabile anche se avesse colpito in altre direzioni ideali e politiche. Oltre alla demenziale esultanza di parte, dovrebbe far riflettere ognuno. Mala tempora currunt per gli uomini integri, che forse, in questo momento, dovrebbero compiere un vero gesto eroico: superarsi. Superare la comodità e le priorità della propria dimensione per offrirne gran parte alla serrata dei ranghi, in una vera battaglia di depurazione civile contro la democrazia edittale in atto e a venire. Chissà che un domani non tocchi ai profili della Lega, di Fratelli d’Italia, di giornalisti indipendenti, di opinionisti liberi. “Un giorno vennero a prendere me”, com’era che finiva, “ma non c’era più nessuno a protestare”…

E il camerata Zuckerberg censura i nuovi fascisti. Francesco Maria Del Vigo Martedì 10/09/2019, su Il Giornale. Chiusi. Bannati. Cioè messi al bando. Reclusi in una specie di confino digitale. Spenti. Ieri i profili Facebook e Instagram di Casa Pound e Forza Nuova sono stati bloccati. Decine di pagine di esponenti dei due movimenti sono stati oscurati. Compresa la pagina ufficiale di Casa Pound, che conta più di 280mila iscritti. «Le persone e le organizzazioni che diffondono odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono non trovano posto su Facebook e Instagram. Candidati e partiti politici, così come tutti gli individui e le organizzazioni devono rispettare queste regole, indipendentemente dalla loro ideologia», spiegano fonti dei social network. Tappare la bocca a due movimenti che si sono presentati alle elezioni (raccogliendo peraltro pochissimi voti) è uno strano modo di esercitare la democrazia. Vagamente totalitario. Facebook è una azienda privata e può fare quello che vuole, ma combattere le idee mozzando le lingue non è mai una buona idea. Non è con una censura fascista che si ferma il fascismo. E soprattutto: possiamo permettere che una delle principali infrastrutture della nostra comunicazione, anche politica, possa scegliere unilateralmente chi può avere agibilità sociale? I contenuti di odio devono essere bloccati, ovvio. Ma è molto preoccupante che vengano silenziate le voci che non piacciono a sua maestà Mark Zuckerberg e alle vestali del politicamente corretto. Un sovrano che, se indossassimo gli occhiali dell'antifascismo militante e ossessivo, non esiteremmo a definire fascista.

Le purghe di Mister Facebook. Andrea Indini su Il Giornale il 10 settembre 2019. A Mark Zuckerberg è bastato un clic per spegnere tutto. Decine e decine di pagine sono state oscurate in un nanosecondo dopo che la polizia politica di Facebook ha emesso il proprio verdetto contro CasaPound e Forza Nuova. Profili ufficiali, politici, militanti, riviste e persino onlus sono rimasti vittime di questa purga senza precedenti. È, infatti, la prima volta che il colosso del web decida senza diritto di appello di bannare due partiti e chiunque sia a loro (anche lontanamente) legato. Si tratta di una presa di posizione profondamente illiberale che colpisce due realtà politiche che vengono regolarmente ammesse alle elezioni e la cui unica colpa è di essere di estrema destra. La purga, ieri pomeriggio, è arrivata senza preavviso. La sentenza è stata emessa soltanto dopo. Un portavoce del colosso americano ha, infatti, accusato pubblicamente CasaPound e Forza Nuova di essere “impegnati nell’odio organizzato” e, per questo motivo, di non poter trovare spazio sulle piattaforme di Facebook e Instagram. “Candidati e partiti politici, così come tutti gli individui e le organizzazioni presenti su Facebook e Instagram – ha spiegato – devono rispettare queste regole, indipendentemente dalla loro ideologia”. In nome di una policy, che colpisce arbitrariamente solo chi la polizia politica del gruppo decide che deve essere colpito, sono quindi stati spazzati via semplici militanti, politici democraticamente eletti, gli amministratori della pagina del Primato nazionale (rivista sovranista che non appartiene nemmeno a CasaPound) e Solid, una onlus umanitaria che porta aiuti in diverse parti del mondo. È difficile pensare che tutti questi soggetti siano stati giudicati nel merito dei post pubblicati. Credo piuttosto che sia stata fatta pagare loro la propria appartenenza politica. E in ogni caso, anche se gli sgherri di Zuckerberg li abbiano bannati per le idee espresse su Facebook, sarebbe comunque un attacco alla libertà di espressione e per esteso alla democrazia italiana. Parliamo, infatti, di due forze politiche che si sono regolarmente presentate alle elezioni e non certo di pericolosi gruppi eversivi. Parliamo di politici che sono stati regolarmente eletti e non certo di temibili terroristi neri. Certo, Facebook è un’azienda privata e, quando più le fa comodo, può schermarsi dietro le clausole inserite in una artefatta policy, ma ospitando oltre 2,7 miliardi di utenti attivi al mese ha anche degli obblighi deontologici. Un conto è combattere l’istigazione all’odio, un altro è azzerare forze politiche che la pensano diversamente. Schiacciare le idee non è mai democratico. Ma ai “democratici” piace tanto farlo.

Fascisti che non ti aspetti. Mattia Feltri per "la Stampa" il 10 settembre 2019. Facebook e Instagram hanno deciso di spegnere le pagine di CasaPound e Forza Nuova, movimenti neofascisti, e dei loro dirigenti. È successo ieri pomeriggio, di colpo, e dopo anni durante i quali da quelle pagine sono state diffuse idee piuttosto repellenti e al limite della legalità, almeno secondo i canoni di una stagione tremula e liberticida (la libertà d' opinione serve a tutelare specialmente le idee cattive ché a tutelare quelle buone sono capaci tutti). Il problema non si esaurisce qui. Anzi, di problemi se ne aprono parecchi. Anzitutto è ignota la colpa specifica di CasaPound e Forza Nuova, se non quella generica di avere «diffuso l' odio», capo d' imputazione accettabile forse nei tribunali di Stalin e applicabile, ben oltre l' estrema destra, a metà della popolazione attiva online. Niente, la condanna è pronunciata e inappellabile per editto del Re Sole, ossia Mark Zuckerberg, padrone dei social. Così, siccome il Re Sole ha chiuso CasaPound e Forza Nuova, che sono bande di brutti ceffi, chi se ne importa: toccherà riparlarne quando per identico capriccio si dovessero tumulare pagine più socialmente presentabili. Soprattutto si coglie, stavolta lampante, il paradosso di Facebook e Instagram, aziende private - ormai evolute a servizio pubblico per l' uso quotidiano di partiti, sindacati, associazioni - che dichiarano inaccettabili pagine espressione di consiglieri comunali, dunque accettabili per la Repubblica. Sulla legge dello Stato troneggia una legge privata, opaca e sovranazionale con cui si separano i giusti dagli ingiusti: se ne sono viste poche di robe più fasciste.

Da Libero Quotidiano il 10 settembre 2019. La notizia è di qualche ora fa: i "democratici" Facebook e Instagram hanno cancellato un gran numero di pagine che fanno riferimento a CasaPound e Forza Nuova. Troppo di destra. Anzi, "fasciste". Peccato che CasaPound e Forza Nuova non siano movimento politici clandestini o fuorilegge, anzi CasaPound in taluni casi è ormai entrata nelle istituzioni. Ma tant'è, ai due social più importanti in assoluto tutto questo non interessa granché. E sulla vicenda, su Twitter, interviene Vittorio Feltri, il quale punta il dito: "CasaPound e Forza Nuova espulsi da Facebook e da Instagram. Finalmente un provvedimento fascista". Un cinguettio tagliente, che corre sul sottile filo del paradosso.

Dal profilo Facebook di Flavia Perina il 10 settembre 2019. Consiglierei equilibrio sulle questioni della libertà di pensiero e di manifestazione, che fare il governo dei miti e poi titolare "la rabbia nera" su un raduno di protesta non mi torna tanto, così come non riesco ad associare l'esultanza per la chiusura di alcune pagine politiche su Fb con gli allarmi per la deriva antidemocratica. Fare i libertari quando si sta all'opposizione e i manettari quando si va al governo non va bene (non andava bene manco prima).

Anpi e Pd in coro: "Ora chiudiamo i partiti fascisti". Partigiani, Zingaretti, Boldrini e Fratoianni plaudono a Facebook per aver chiuso i profili di CasaPound e Forza Nuova. Ma ora vogliono di più. Pina Francone, Mercoledì 11/09/2019, su Il Giornale. CasaPound e ForzaNuova sono stati praticamente azzerati sui social, visto che nella giornata di ieri sia Facebook che Instagram (entrambi di proprietà di Mark Zuckerberg) hanno cancellato decine e decine di pagine e di profili dei due partiti di estrema destra. Qualche click e i movimenti fondati da Gianluca Iannone e Roberto Fiore – puff! – spariti dal radar dei social network. E i diretti interessati hanno tuonato per la messa al bando subita. Ma Menlo Park non ne ha volute sentire di ragioni e ha così motivato l’azione: "Le persone e le organizzazioni che diffondono odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono non trovano posto su Facebook e Instagram. Candidati e partiti politici, così come tutti gli individui e le organizzazioni devono rispettare queste regole, indipendentemente dalla loro ideologia". Ecco, oggi l'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia plaude all'iniziativa del colosso, ma alza l'asticella, chiedendo che vengano chiusi i partiti fascisti. Carla Nespolo, presidente dell'Anpi, a Repubblica, dice: "Ribadisco, si sciolgano le organizzazioni fasciste". Perché? Perché – dice – "calpestano le Costituzione". E ancora: "Mi appello al governo e alla magistratura: basta tentennamenti, stop ai partiti e ai gruppi neofascisti. Applichiamo fino in fondo la Carta". Nella giornata di ieri, nelle ore susseguenti al ban operato da Facebook, anche Nicola Zingaretti ha preso posizione, dicendosi soddisfatto della cancellazione di CasaPound e Forza Nuova dai social, etichettandola come "scelta giusta e coraggiosa". Il segretario del Pd, dunque, ha aggiunto: "Dobbiamo mettere fine alla stagione dell'odio, perché ci sono persone che se vincessero le elezion negherebbero ad altre persone il diritto di esistere".

Una posizione, questa, condivisa ovviamente dalla sinistra italiana, quella di Laura Boldrini e di Nicola Fratoianni, che hanno rilanciato la proposta di sciogliere i partiti di estrema destra. "Per arginare la politica dell' odio, si deve procedere al loro scioglimento, visto che si dichiarano apertamente fascisti, ponendosi fuori dal perimetro costituzionale", il commento dell’ex presidente della Camera, con il leader di SI che le fa eco: "Politica e magistratura facciano la loro parte: i gruppi fascisti vanno sciolti".

Se la censura non basta per tacitare. Ci pensa la violenza. “OGNI VOLTA CHE CI SONO I CENTRI SOCIALI IN PIAZZA C’È CASINO”. Da “Rtl 102.5” il 24 maggio 2019 (Dagospia). "Vicinanza al collega giornalista, ma ogni volta che ci sono i centri sociali in piazza c'è casino. C'è gente che va in piazza col casco e il bastone e ci sono poliziotti che eroicamente sono lì a prendersi sputi, insulti, monetine. Ringrazio questi eroi in divisa". Risponde così il ministro dell'Interno, Matteo Salvini a Pierluigi Diaco che gli legge in diretta su Rtl 102.5 il titolo della prima pagina di Repubblica in merito alla vicenda del giornalista Stefano Origone, rimasto ferito in una carica della polizia durante gli scontri con gli antifascisti scoppiati nel centro di Genova per un comizio di Casapound.

Da Repubblica il 24 maggio 2019. Stefano Origone, giornalista di Repubblica, è stato picchiato a Genova dalla polizia durante scontri con gli antagonisti, a pochi passi da piazza Marsala, dove era in corso un comizio del candidato alle Europee per Casapound Marco Mori. Nelle immagini il momento della carica e i soccorsi al giornalista. La Direzione di Repubblica esprime la solidarietà al collega Stefano Origone colpito senza motivo dalle Forze dell’ordine a Genova. Stefano ha fatto il suo lavoro di cronista, è andato sul luogo degli incidenti semplicemente per raccontarli. Ne è uscito ferito, ricoverato in un Pronto soccorso. A lui va il nostro abbraccio. Allo Stato la nostra denuncia contro la mancata sicurezza in cui vengono a trovarsi giornalisti come Origone, la cui unica “colpa” è quella di continuare, ostinatamente, a fare il proprio mestiere.

Pietro Barabino per Il Fatto Quotidiano il 24 maggio 2019. Una giornata di disordine pubblico come non se ne vedeva dai tempi del G8 a Genova, con oltre 300 operatori di polizia in tenuta anti-sommossa per garantire la sicurezza del comizio conclusivo di Casa Pound in Liguria che alla fine vedrà la partecipazione di non più di una ventina di attivisti. Sei feriti tra i quali il giornalista di Repubblica Stefano Origone, pestato a sangue da un gruppo di poliziotti che gli hanno procurato un trauma cranico, due costole fratturate e due dita rotte, lividi e segni di manganelli e anfibi su tutto il corpo, due fermati tra gli antifascisti per gli scontri con le forze dell’ordine e molte denunce in arrivo. Ma il giorno dopo torna a far discutere la scelta di piazza Marsala, piccola e trafficata, in pieno centro, luogo palesemente inadeguato per ospitare un evento del genere, come dimostrano le richieste insistenti di evitare l’evento arrivate nei giorni precedenti da residenti, commercianti. Per riservare la piazza alla chiusura della campagna elettorale di Casa Pound i quattro ingressi dello slargo sono stati blindati con delle grate di ferro fin dal primo mattino, mentre gli esercizi commerciali sono stati invitati ad abbassare le saracinesca. Come se tutti si aspettassero che l’evento del partito di estrema destra a Genova, a pochi passi dalla sinagoga dove, nel 1943, i fascisti della Repubblica Sociale aiutarono i nazisti nel rastrellamento e nella deportazione degli ebrei genovesi avrebbe potuto creare disordini vista la presenza annunciata di centinaia di manifestanti antifascisti. Tra i circa tremila manifestanti pacifici anche una minoranza più aggressiva che ha provato in tutti i modi, per oltre due ore, a entrare in contatto con i militanti di Casa Pound, venendo respinta dagli operatori di polizia con lacrimogeni e cariche di alleggerimento. Una situazione che rammarica ma purtroppo non stupisce Roberto Traverso, segretario del Siap, sindacato con il maggior numero di iscritti nella Questura di Genova, che già aveva denunciato in occasione dei disordini per una recente iniziativa analoga quella che ritiene essere una “pericolosa gestione di eventi a così alto tasso di tensione”. Se il sindaco di Genova Marco Bucci si era tirato fuori da giorni rispetto alla possibilità di esercitare una forma di pressione politica per far quanto meno spostare la sede del comizio, ribadendo che la responsabilità sulla sicurezza delle piazze è esclusivamente del Prefetto, quello che viene contestata dal Siap è la gestione emergenziale e sempre improntata sull’ordine pubblico con la quale vengono gestite diverse ‘partite’ dell’amministrazione cittadina: “Quello che avevamo chiesto alle istituzioni preposte – spiega Traverso ai microfoni de ilfattoquotidiano.it – era di trovare un luogo idoneo che potesse prevenire le tensioni e gli scontri, perché l’esperienza del G8 fa ancora male e ci ha insegnato che per intervenire in queste situazioni serve la prevenzione”.

Comizio Casapound a Genova, scontri tra antifascisti e polizia. Un gruppo di antifascisti ha attaccato le forze dell'ordine lanciando sassi e bottiglie: feriti due carabinieri. Angelo Scarano, Giovedì 23/05/2019, su Il Giornale. Scontri tra manifestanti e polizia davanti alla zona blindata per il comizio di Casapound in piazza Marsala a Genova. Alcune persone, in testa al corteo al grido di "Genova è solo antifascista", hanno lanciato bottiglie, fumogeni e dato bastonate agli scudi della polizia, che ha reagito prima suonando le sirene e poi lanciando lacrimogeni. Ci sono stati contatti fisici tra agenti e manifestanti. In piazza un migliaio di persone. I manifestanti hanno tentato di accedere in via Assarotti, parallela della via cui si accede in piazza Marsala, dove si sta svolgendo il comizio di Casapound. A fermarli un cordone di poliziotti in tenuta antisommossa e mezzi blindati. Anche in questo caso sono stati lanciati lacrimogeni per disperdere i manifestanti, che hanno ripiegato su piazza Corvetto e via Santi Giacomo e Filippo. Persiste il presidio con almeno un migliaio di persone in piazza, mentre sono poche decine i partecipanti al comizio di Casapound. Anpi, CGIL, Arci, movimenti antifascisti e centri sociali si sono mobilitati per protestare contro la decisione della prefettura di autorizzare il comizio di chiusura della campagna elettorale di Casapound, previsto in piazza Marsala. Le due piazze sono molto vicine fra loro. Un giornalista di Repubblica Genova di 51 anni è rimasto ferito negli scontri in piazza Corvetto tra polizia e manifestanti. Il cronista ha raccontato di essere stato colpito dai poliziotti che stavano cercando di disperdere il presidio. "Ho detto di essere giornalista, ma hanno continuato a colpirmi", ha riferito ai colleghi il cronista, che ha le dita di una mano tumefatte e lamenta dolori al costato. Il giornalista è stato portato via in ambulanza. Due persone sono state fermate dalle forze dell'ordine. Gli scontri sono partiti quando da una frangia di antagonisti un gruppo diretto verso il cordone di polizia a presidio della piazza ha iniziato una sassaiola, lancio di bottiglie fumogeni e oggetti per forzare il blocco. All'aggressione ha risposto la polizia con lancio di lacrimogeni per disperdere i manifestanti. Ad una seconda sassaiola, questa volta sul cordone di via Assarotti, sono partite diverse cariche della polizia verso la zona di via Serra e sotto i giardini dell'Acquasola. Durante le cariche della polizia per disperdere i manifestanti sono stati sparati anche alcuni lacrimogeni ad altezza d'uomo in direzione della piazza, dove si trovavano anche le frange pacifiche del presidio. Negli scontri sono rimasti feriti anche due carabinieri. 

Matteo Salvini, per Repubblica i suoi elettori sono degli zoticoni: roba da ridere. Libero Quotidiano il 23 Maggio 2019. Immaginate le pacche sulle spalle per il compiacimento che si sono dati a Repubblica quando è arrivato l'ultimo sondaggio che analizza l'elettorato della Lega. Dai numeri della Emg Acqua pubblicati proprio sul quotidiano di largo Fochetti emerge che, citiamo testualmente il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari: "Prevalgono le posizioni conservatrici. L'istruzione media non è elevata". E se il messaggio non fosse ancora chiaro, ci hanno pensato sul sito del quotidiano, dove hanno titolato chiaro e tondo come la metà degli elettori delle Lega abbia la terza media. Tutte le conferme alle convinzioni più profonde della sinistra salottiera emergono prepotenti in quel sondaggio: chi vota Matteo Salvini non deve aver studiato granché, non certo quanto gli elettori di Emma Bonino o di Nicola Zingaretti, che possono andare in giro con orgoglio da laureati. La discriminazione è la solita, figlia anche delle generalizzazioni che, si sa, lasciano il tempo che trovano. Così come gli elettori della sinistra, ormai scappati a gambe levate. Anche, anzi soprattutto, quelli che non hanno potuto studiare, perché magari hanno cominciato a lavorare molto giovani e oggi, bontà loro, sono più preoccupati per le tasse che aumentano e la concorrenza sleale dall'Asia, che dell'invasione fascista dei quattro gatti di Casapound.

Il giornalista manganellato? “Danno collaterale” della campagna d’odio diffusa da Repubblica. Cristina Gauri il 24 Maggio 2019 su Il Primato Nazionale. Come testimoniano i molti video diffusi sui social, la solita, vergognosa manifestazione di violenti a firma di centri sociali, Anpi, sindacati e Arci genovesi – che ieri hanno cercato di impedire lo svolgimento del comizio di CasaPound, regolarmente concesso dalle autorità – è stata repressa dalle forze di polizia, che hanno risposto con fumogeni e cariche a lanci di oggetti e sprangate. Purtroppo, tra i “danni collaterali” di detti scontri ieri si è registrato anche il ferimento di Stefano Origone, giornalista di Repubblica, che, trovatosi tra incudine e martello, è stato manganellato da un gruppo di agenti, ignari del fatto che fosse un cronista. Risultato: due dita rotte, una costola fratturata, trauma cranico ed ecchimosi per le manganellate. Stamattina, Origone racconta su Repubblica la propria esperienza, non senza una punta di melodrammaticità: “Ho pensato di morire, non mi vergogno di dirlo. Non smettevano più di picchiarmi, vedo ancora quegli anfibi neri, che mi passavano davanti al volto e, nella testa, mi rimbomba ancora il rumore sordo delle manganellate”.

Benvenuti nel vostro mondo. Benvenuto nel mondo che nel tuo piccolo hai contribuito a costruire, Stefano Origone. Benvenuto nel ritorno dell'”effetto farfalla” che il giornale per cui scrivi, (ma siete in buona compagnia) ha concorso a plasmare nel tempo. Una fake news dopo l’altra, un articolo fazioso e inesatto dopo l’altro, gli allarmi sull’inesistente “pericolo fascismo”, le scodellate di odio con le quali avete imboccato i vostri lettori e seguaci e di cui vi siete sempre beati. Voi e tutti i vostri sodali avete alimentato un mostro a più teste, una per ogni sigla “antagonista”; avete legittimato e giustificato ogni loro violenza, il loro odio verso l’Italia, gli italiani e chi li difende, minimizzato – quando non taciuto – ogni attentatoalle sedi di CasaPound, ogni assalto ai banchetti, ogni scritta infamante, ogni oltraggio a vittime e martiri, ogni esaltazione dei carnefici. Avete demonizzato e disumanizzato i vostri avversari. Avete preso le immagini di ragazzini viziati, figli di papà vestiti da straccioni ma con il bancomat gonfio, sicuri dell’impunità mediatica e gli avete messo in testa l’aureola di disobbedienti, antagonisti, senza mai chiamarli con il loro vero nome. E adesso quel mostro è diventato ingestibile, e vi ha risucchiato nel suo stesso vortice di violenza. E se per caso – e non lo diciamo con compiacimento, perché a differenza vostra noi non sogghignamo quando accadono questi episodi spiacevoli – vi ci ritrovate in mezzo, e ne venite travolti, è davvero colpa della “repressione”? Credevate che giocando sporco, prima o poi non vi sareste sporcati?

Genova, delinquenti antifascisti vogliono impedire il comizio di CasaPound, violenti scontri.  Giovanni Trotta giovedì 23 maggio 2019. La solita tolleranza antifascista. Lancio di oggetti, bottiglie, fumogeni da parte della testa del corteo dei manifestanti contro il comizio di CasaPound in piazza Marsala a Genova. I manifestanti al democratico grido di “Genova è solo antifascista” hanno tentato di sfondare le barriere di mezzi e alari della polizia che chiudono la piazza. Da dietro le grate gli agenti hanno reagito dopo alcuni minuti prima suonando le sirene e poi facendo partire lacrimogeni. In piazza un migliaio di esagitati. Il traffico è praticamente paralizzato in tutta la città. Il punto della questione è perfettamente riassuno da Gianni Plinio, storico esponente del Msi ora in Casapound: «Siamo qui non certo per radunare folle in piazza ma per affermare un principio della Costituzione, cioè la possibilità di radunarsi liberamente per un comizio elettorale. Nostalgici? I veri nostalgici della guerra civile e degli anni di piombo sono in quell’altra piazza, noi vogliamo solo esprimere le nostre idee». Un giornalista genovese di Repubblica è rimasto ferito negli scontri tra un gruppo manifestanti del presidio antifascista e la polizia in piazza Corvetto, durante una delle cariche per disperdere i militanti da parte degli agenti a presidio della vicina piazza Marsala dove è in corso il comizio di CasaPound. Il cronista, che ha riportato ferite alle mani e al torace, ha dichiarato di essere  un giornalista ma è stato colpito dagli agenti. E stato portato via in ambulanza pochi minuti fa. Vi sarebbero altri due feriti e alcuni fermati. I manifestanti continuano a tirare oggetti contro la polizia e la celere effettua altre cariche di alleggerimento. Per presidiare l’area dove si tiene il comizio del gruppo di estrema destra sono impiegati oltre 300 tra poliziotti, carabinieri e guardia di finanza, con i mezzi e gli alari, per chiudere gli accessi alla piazza, a pochi metri dalla quale dalle 16.30 è prevista una doppia contromanifestazione antifascista. Nelle ultime ore la scritta apparsa in piazza Marsala, “Genova è solo antifascista”, è stata cancellata. Per lo svolgimento dell’evento di oggi CasaPound ha scelto la piazza e non, come da tempo accade nel capoluogo ligure, una sala privata. In piazza per la contromanifestazione, in presidio sotto la prefettura, oggi pomeriggio ci sono Cgil, Anpi, Arci, Libera e Comunità di San Benedetto al Porto, insieme a Genova Antifascista.In piazza oggi ci saranno anche il collettivo Non una di meno e Liguria Rainbow. In mattinata a Genova hanno manifestato anche i portuali, in adesione allo sciopero nazionale indetto per la giornata di oggi sui temi della portualità: due giorni fa le segreterie di Filt Cgil Fit Cisl Uiltrasporti Genova, venute a conoscenza del comizio previsto nella stessa giornata da CasaPound, si erano dette pronte a scendere in piazza per manifestare il proprio dissenso all’organizzazione dell’evento del gruppo di estrema destra a Genova.

Genova, scontri tra polizia e antifascisti alla commemorazione del missino Venturini.  Viola Longo sabato 4 maggio 2019 su Secolo D'Italia. Scontri in centro a Genova tra la polizia e gli antifascisti, che hanno tentato di assaltare la commemorazione di Ugo Venturini, militante del Msi colpito a morte durante un comizio in città di Giorgio Almirante, il 18 aprile 1970, e morto dopo quasi due settimane di agonia il 1° maggio, all’età di 32 anni. Gli antifascisti tentano l’assalto. Il comitato “Ugo Venturini”, composto da varie sigle del mondo di destra, si era dato appuntamento in piazza della Vittoria alle 11, per poi spostarsi ai Giardini di Brignole dove c’è una targa commemorativa dell’operaio assassinato, che per altro negli anni è stata più volte imbrattata e distrutta. È stato alla fine della commemorazione, quando i partecipanti stavano andando via in ordine sparso, che gli antifascisti hanno tentato l’aggressione, arrivando anche a distruggere il finestrino della macchina di uno dei partecipanti, che sarebbe un militante di CasaPound. Alla commemorazione erano presenti, tra gli altri, il leader di CasaPound Gianluca Iannone, l’ex consigliere regionale Gianni Plinio e il consigliere comunale di FdI Antonino Gambino.

Violenti anche contro il ricordo dei morti. Durante il tentativo di assalto la polizia ha lanciato una carica di alleggerimento, riuscendo a disperdere il gruppo di violenti del presidio organizzato da Genova antifascista, Anpi, Cgil e associazioni e partiti di sinistra. Un poliziotto e un manifestante sarebbero caduti, ma non si ha per ora notizia di feriti. «Questo tipo di manifestazioni andrebbero vietate perché non si tratta di commemorazioni bensì di manifestazioni di carattere politico che celebrano il fascismo e che non dovrebbero avere spazio di agibilità», ha sostenuto il presidente dell’Anpi Liguria, Massimo Bisca, ripetendo il refrain con cui gli antifascisti tentano sempre di vietare il ricordo delle vittime innocenti della loro violenza, esattamente come avvenuto a Milano qualche giorno fa per Sergio Ramelli. Una tesi che, vale la pena ricordarlo, è stata più volte smentita dalla Cassazione, che in diverse sentenze ha ribadito che quel tipo di commemorazione non ha alcun carattere apologetico, tanto da ritenere lecito anche l’uso del saluto romano nella cerimonia finale del “Presente”.

Il “Presente” senza saluto romano. Sentenze che fanno giurisprudenza, ma che non sembrano essere arrivate né all’orecchio di Anpi & co né a quello dei diversi pm che hanno comunque continuato ad aprire fascicoli contro chi commemorava i morti della violenza antifascista. Stavolta, però, di motivi per accanirsi ne avranno uno in meno: i manifestanti hanno fatto il “Presente”, ma non hanno levato il braccio, limitandosi a portare il pugno sul cuore. Una scelta di responsabilità, volta a sottrarre il ricordo dei morti alle peggiori strumentalizzazioni, senza togliere nulla alla forza di queste cerimonie.

Lecce, assalto a gazebo Lega in centro Identificati da Digos 8 presunti autori 17enne contusa. Salvini: «Vergogna». Alcuni assalitori, presumibilmente del gruppo antagonista, hanno cercato di danneggiare lo stand: nella confusione una ragazza ha avuto necessità di cure mediche. La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Maggio 2019. Sarebbero stati tutti identificati gli autori dell’assalto al gazebo della Lega avvenuto ieri mattina nella centralissima piazza Sant'Oronzo a Lecce. Si tratterebbe di sei uomini e due donne appartenenti all’area dei centri sociali. Durante il raid la struttura è stata divelta e scaraventata per terra, sono stati strappati volantini e vessilli e nel parapiglia è rimasta contusa ad un occhio una ragazza di 17 anni che i sanitari hanno giudicato guaribile in otto giorni. Agenti della Digos sono riusciti ad identificare gli otto attraverso i filmati delle telecamere di videosorveglianza della zona. Dalla immagini si vede che il gruppo arriva in piazza da vicolo Dei Fedeli, raggiunge il gazebo dalla parte retrostante e coglie di sorpresa i militanti leghisti. La Digos ha inviato l'informativa al pm di turno del Tribunale di Lecce, Donatina Buffelli. I FATTI - Assalto al gazebo della Lega ieri mattina a Lecce, nella centralissima piazza Sant'Oronzo. Alcune persone, presumibilmente appartenenti a gruppi antagonisti, hanno danneggiato lo stand, aggredendo alcuni sostenitori, tra cui il coordinatore cittadino Mario Spagnolo. Nella confusione che si è creata, una ragazza è rimasta contusa a un occhio e ha avuto bisogno di cure mediche. Guarirà in otto giorni. «E' vergognoso. Un grande abbraccio alla ragazza di 17 anni aggredita e ferita ad un occhio oggi a Lecce al gazebo della Lega». Lo scrive su Twitter il ministro dell’Interno Matteo Salvini in merito a quanto avvenuto in Puglia. «Noi avanti con il sorriso - aggiunge Salvini - con la forza delle idee e con la voglia di cambiare e sognare». Immediate le reazioni dei due principali candidati alla poltrona da sindaco. Erio Congedo, sostenuto dalla Lega, ha manifestato la sua piena solidarietà: «È ferma la mia condanna nei confronti di degenerazioni infami e violente come questa, in cui è addirittura rimasta ferita una minorenne, costretta a ricorre alle cure in ospedale. Non è oltretutto la prima volta che esponenti dell’antagonismo leccese si rendono protagonisti di azioni inaccettabili come questa. Credo che il livello di guardia sia ormai stato raggiunto, se non superato. Sono certo che le nostre forze dell’ordine e la magistratura sapranno assicurare alla giustizia, in tempi rapidi, i teppisti responsabili di questa aggressione». Non è mancato neanche l'appoggio del candidato sindaco Carlo Salvemini, che ha citato Pertini: «Quando lo spazio pubblico diventa il luogo della violenza politica ad essere colpiti sono tutti coloro che si riconoscono nella libera espressione delle idee, indistintamente. Per questo esprimo la mia solidarietà ai giovani che questa mattina in piazza Sant’Oronzo sono stati vittime di una violenta aggressione, augurando alla ragazza che ha dovuto ricorrere alle cure mediche un prontissimo ritorno all'attivismo politico. La mia solidarietà va anche ai rappresentanti territoriali della Lega e a tutti gli iscritti al loro movimento politico, con i quali condivido in questi mesi lo spazio di una campagna elettorale nella quale i toni e il confronto non sono mai andati sopra le righe. Ogni volta che si consuma un episodio di violenza politica ripenso all'intervista di Sandro Pertini su Democrazia e Fascismo, nella quale egli si dichiarava fedele al precetto di Voltaire: "Io compatto la tua fede che è contraria alle mia ma sono pronto a battermi sino al prezzo della mia vita perché tu possa esprimere sempre liberamente il tuo pensiero" Io non sono credente ma rispetto la fede dei credenti – diceva Pertini - Io sono socialista ma rispetto la fede politica degli altri. Discuto e polemizzo con loro ma ciascuno deve essere sempre padrone di esprimere liberamente il proprio pensiero”».

LA PREOCCUPAZIONE DI SASSO - «Noi siamo preoccupati di un altro tipo di attacchi che ormai da tre settimane, quotidianamente, a tutte le ore, piove contro Salvini che però ha uno scudo fondamentale, meraviglioso, che è quello del consenso popolare. Mi riferisco agli attacchi da parte di parlamentari, partiti e poteri più o meno forti». Lo ha detto il parlamentare pugliese della Lega, Rossano Sasso, commentando l’aggressione di ieri a Lecce ai danni di un gazebo della Lega. Sasso ne ha parlato oggi a margine della presentazione della due giorni in Puglia, domani e mercoledì, di Matteo Salvini che sarà impegnato in cinque appuntamenti elettorali. «È stato il gesto di alcuni teppisti - ha proseguito Sasso - nei confronti di un gazebo dove c'era una ragazza di 16 anni. Certo lo condanniamo, ma non abbiamo nessun timore perché per quanto riguarda la presenza di Salvini a Bari a Lecce ci sarà un dispositivo di sicurezza tale che limiterà qualsiasi malintenzionato». Alla presentazione del programma dei cinque comizi sono intervenuti anche altri esponenti locali del partito, tra cui gli parlamentari Nuccio Altieri e Anna Rita Tateo, e il vicesegretario regionale Giovanni Riviello. 

Un migliaio in piazza contro il comizio di Fiore a Bologna: scontri tra centri sociali e polizia. Gli attivisti hanno tentato di forzare il blocco al grido di "Via i fascisti": lanci di bottiglie e manganellate. Poi il corteo lungo in viali. Lanciati due ordigni rudimentali contro la caserma dei carabinieri. Denunciata una studentessa. Il leader di Forza Nuova: "Le nostre idee al governo, Salvini lo conferma". Il Comune aveva negato il permesso. Giuseppe Baldessarro e Rosario Raimondo il 20 maggio 2019 su La Repubblica. Lancio di bottiglie e manganellate. Tensione tra centri sociali e polizia a Bologna per il comizio di Roberto Fiore in vista delle Europee. Circa un migliaio i manifestanti che si erano radunati in piazza Maggiore nel tardo pomeriggio per un presidio antifascista contro Forza Nuova e il suo leader. Gli antagonisti hanno poi cercato di rompere il blocco verso piazza Galvani, dove era atteso Fiore. Il luogo, in pieno centro storico, era difeso da grate di ferro e blindati che impedivano l'accesso alla strada, via dell'Archiginnasio. "Fuori i fascisti" le grida, poi i bastoni dei cartelli e le mani contro le grate. E lì è partita la carica, molto violenta. Un colpo di sirena e gli agenti in tenuta antisommossa, usciti dal portico, hanno cominciato a respingere gli attivisti. Devastati durante gli scontri i tavolini di un bar che alcuni manifestanti hanno poi cercato di rialzare e sistemare per aiutare il gestore del locale. Dopo i tafferugli si contano alcuni contusi e una studentessa, Ilaria, è stata fermata poi rilasciata con una denuncia per resistenza a pubblico ufficiale. Il corteo dei centri sociali è ripartito lungo via Rizzoli, via Castiglione e poi i viali dietro allo striscione: "Bologna antifascista". Traffico bloccato. Gli attivisti cantano Bella ciao e gridano: "Liberiamo la città dai fascisti".  L'unico ulteriore momento di tensione è stato quando due ordigni rudimentali sono stati fatti scoppiare uno davanti alla caserma dei carabinieri di viale Panzacchi e uno nel cortile. Le esplosioni non hanno provocato né danni né feriti. La manifestazione si è conclusa in piazza Galvani, già liberata e resa accessibile poco dopo le otto e mezza di sera, al canto, di nuovo, di Bella ciao. I militanti di Forza Nuova - qualche decina appena - si sono radunati in piazza Galvani intonando "Boia chi molla" e sventolando bandiere dell'Italia e del movimento di estrema destra. Roberto Fiore è arrivato verso le sette e mezza con quasi un'ora di ritardo. E ha usato parole provocatorie: "Le cose stanno cambiando. Una volta l'antifascismo contava il 90% della società italiana, oggi il 7-8% al massimo. Nessuno ci può allontanare da strade e piazze". E ancora: "Molte delle idee che circolano a livello governativo nascono da Forza nuova: la sovranità monetaria, il blocco dell'immigrazione, la Russia nell'Europa, la tutela della famiglia tradizionale. Salvini da politico intelligente dice quello che la gente vuole sentire e conferma che le nostre idee stanno vincendo". Fiore, del vicepremier, ha anche apprezzato "l'invocazione alla Madonna, che ha un significato particolare per noi italiani. Mi ci riconosco, anche lì abbiamo preceduto i tempi". Le tensioni erano cominciate nel primo pomeriggio. "No pasaran. Contro tutti i fascismi l'università si oppone" era lo striscione di una trentina di studenti dei collettivi che si sono mossi da piazza Verdi in corteo verso le due. Gli universitari hanno tentato di forzare il blocco in via dell'Archiginnasio: qualche spinta, la polizia li ha tenuti a distanza. Tra gli striscioni anche uno sulla strage alla stazione: "La strage del 2 Agosto oggi grida ancora più forte". Poi il presidio in piazza Maggiore: un migliaio si sono ritrovati verso le cinque e mezza tra partigiani, sindacati, femministe, tutte le sigle dei centri sociali (Tpo, Làbas, Crash, Vag61) e collettivi. "Perchè Fiore per il processo del 2 agosto è irreperibile e invece qui non lo notifica nessuno?", si chiede intanto Emily Clancy, consigliera comunale di Coalizione civica, presente in piazza. Sono seguiti gli scontri e il corteo per le vie della città. "Non è con la violenza che si contrastano le provocazioni di Forza Nuova - il commento del parlamentare Pd Andrea De Maria - Al contrario le si amplifica e le si legittima. La violenza politica va sempre condannata ed è nemica della dialettica democratica". L'iniziativa di Fiore e dei suoi sostenitori era stata anticipata da polemiche per la concessione della piazza. Il Comune di Bologna, tuttavia, ha negato il permesso di montare il palchetto per il comizio perché, nella richiesta di occupazione del suolo pubblico, Fn ha cancellato a penna la frase che impegna a non richiamarsi all'ideologia fascista. E questa mattina Anpi, Cgil, Cisl e Uil di Bologna, hanno condannato la presenza "per l'ennesima volta" in città di Forza Nuova. "Bene ha fatto il Comune a negare l'utilizzo del suolo pubblico presente nel regolamento comunale che impone a chi ne fa richiesta, ad impegnarsi a non porre in essere attività o richiami all'ideologia fascista. Questo però non vieterà di svolgere l'iniziativa di Forza Nuova - scrivono partigiani e sindacati - quindi facciamo appello al ministero dell'Interno affinché vengano impedite tutte le manifestazioni e le iniziative di chiaro stampo fascista". La questura ha dato l'ok al comizio "ben sapendo i rischi che corre Bologna" sottolinea Simona Lembi, consigliera comunale e componente della direzione provinciale del Pd, intervenendo in consiglio comunale a poche ore dalla doppia manifestazione annunciata per stasera: Forza Nuova e il presidio antifascista. Per Simona Lembi, in vista di questa serata ad alta tensione si può già parlare di "scontri annunciati". Perchè "l'esito è certo", afferma la democratica: "se si mette una mano nell'acqua bollente ci si ustiona, non c'è bisogna di una prova, è una certezza".

Milano, scontri tra polizia ed estrema destra al corteo per Ramelli: due feriti. Poi trattativa e passeggiata autorizzata. Il Fatto Quotidiano il  29 Aprile 2019. Scontri a Milano tra manifestanti dell’estrema destra e la polizia. Il gruppo, circa 300 persone e poi ingrossatosi fino a circa 1000, attorno alle 20.45 ha deciso di sfidare i divieti imposti dalla prefettura, e ha lasciato il presidio organizzato in ricordo di Sergio Ramelli per dirigersi verso il corteo antifascista, organizzato da alcune sigle della sinistra milanese. È stato però bloccato dagli agenti di polizia e carabinieri in assetto antisommossa a circa 300 metri da Piazzale Susa, punto di ritrovo dei militanti, con una carica di alleggerimento. Un manifestante è crollato a terra, probabilmente per un malore, ed è stato soccorso dall’ambulanza. Mentre altri due sono rimasti contusi negli scontri. Il corteo è stato bloccato su viale Romagna per oltre due ore. Finita l’emergenza legata ai feriti lievi, si è cercato di evitare la prosecuzione del confronto faccia a faccia con il cordone di polizia trovando una soluzione per far proseguire la commemorazione. A chiederlo ai vertici dell’ordine pubblico sono stati i tre deputati di Fdi presenti, Carlo Fidanza, Marco Osnato e Carla Frassinetti, oltre al consigliere regionale della Lega Max Bastoni. Dalla folla alcuni manifestanti hanno urlato: “Fateci andare a onorare il nostro morto“. Alla fine è stato trovato un compromesso: i manifestanti non hanno marciato in corteo ma si sono limitati a una “passeggiata” sul marciapiede per approdare in via Paladini, sotto casa di Ramelli, assassinato 44 anni da alcuni esponenti di Avanguardia Operaia. Lì, attorno alle 23, i mille – molti dei quali appartenenti a CasaPound, Forza Nuova e Lealtà Azione – hanno commemorato il giovane con la deposizione di una corona di fiori ed eseguendo il saluto romano durante il rito del “presente”. Pochi minuti prima, da piazzale Loreto, era partito il corteo antifascista promosso da centri sociali come Cantiere e Lambretta, dal comitato Milano antifascista, antirazzista, meticcia e solidale. Ad aprire la manifestazione lo striscione: “Milano 29 aprile, nazisti no grazie“. Il percorso del corteo è stato cambiato per volere della Questura, che ha motivato la modifica con la “troppa vicinanza” con il raduno di estrema destra, come hanno spiegato i promotori della manifestazione. Il 29 aprile “non deve diventare una data contraltare del 25 aprile, i neo fascisti non hanno diritto di parola – ha scandito al megafono uno dei promotori della manifestazione -. Il problema sono anche i partiti istituzionali che legittimano le forze neo fasciste. Come Salviniche ormai interpreta tutte le parole d’ordine della destra estrema. Noi diciamo no al 29 aprile come celebrazione del fascismo che in Italia è reato”.

Ramelli, Fratelli d’Italia a Salvini: «Ora ci spieghi chi ha deciso la carica contro i manifestanti». Stefania Campitelli martedì 30 aprile 2019 su Il Secolo D'Italia. Un epilogo vergognoso (e forse annunciato) complice una gestione dell’ordine pubblico a senso unico con tanto di carica della polizia al pacifico e composto corteo in memoria di Sergio Ramelli, lo studente massacrato a colpi di chiave inglese nel 1975 da un commando di Autonomia operaia solo perché appartenente al Fronte della Gioventù nella Milano violenta e antifascista degli anni di piombo. Due la cariche di “allegerimento” della polizia «per far rispettare» il divieto di sfilare deciso dal prefetto nel corso della commemorazione. L’intervento degli agenti si è concluso con il ferimento di alcuni ragazzi presi a manganellate e un manifestante lasciato a terra svenuto, trasportato d’urgenza in ospedale. Da una parte il divieto della prefettura, annunciato da giorni, della pacifica fiaccolata in ricordo di Sergio Ramelli, dall’altra il via libero autorizzato dal prefetto, su indicazione del sindaco Giuseppe Sala, a un corteo antifascista promosso dall’estrema sinistra e dai centri sociali al grido di “mai più fascismo”, che da piazzale Loreto ha potuto sfilare per le vie della città inneggiando alla violenza dopo una vigilia di oltraggi alla memoria di Ramelli. All’indomani degli scontri, con la polizia schierata in assetto antisommossa e la stampa che punta i riflettori sul pericolo dell’estrema destra definendo uno “sfregio” la cerimonia del presente, Fratelli d’Italia chiede il conto al prefetto che ha impedito il ricordo dell’omicidio del giovane di destra ma anche al ministro dell’Interno, Matteo Salvini, in altre occasioni molto “autorevole”, che non ha saputo garantire il legittimo ricordo a una comunità che da oltre quarant’anni commemora un “fratello” vittima dell’odio comunista, per il quale gli estremisti di sinistra ancora oggi nutrono una grande nostalgia, coccolati dai media e da quegli esponenti politici “sinceramente democratici” che si fanno scudo dietro il presunto pericolo fascista, razzista, sovranista. «Migliaia di persone in un pacifico corteo per ricordare Sergio Ramelli, ragazzo ucciso dall’estremismo politico di sinistra, vengono malmenate dalla polizia in assetto antisommossa a Milano. Solidarietà ai manifestanti, fra cui sono presenti numerosi feriti», ha denunciato Federico Mollicone, deputato di Fratelli d’Italia che ha presentato un’interrogazione al ministro dell’Interno Matteo Salvini per chiedere chiarezza «su questa gestione pessima dell’ordine pubblico. Siano accertate immediatamente le responsabilità», ha detto l’esponente del partito di Giorgia Meloni. 

Milano, scontri al corteo dei centri sociali. Roma, anche Gentiloni con l'Anpi. Città blindate da Nord a Sud. Ben cinque le manifestazioni nella capitale. A Milano sgomberati studenti che erano saliti sul monumento di piazza Cairoli. Minniti: "Oggi confermata la forza della democrazia". Il Quotidiano.net  il 24 febbraio 2018. Sabato ad alta tensione per le 119 manifestazioni che si sono tenute in tutta ltalia nella giornata di oggi e che hanno visto impegnate circa 5.000 unità delle forze dell'ordine. "A conclusione di una giornata decisamente impegnativa per l'ordine e la sicurezza pubblica si conferma, ancora una volta, la forza della democrazia italiana", ha affermato il ministro dell'Interno, Marco Minniti. 

MILANO - Le prime avvisaglie si sono avute già in mattinata a Milano, dove le forze dell'ordine sono intervenute per sgomberare una trentina di studenti che si era arrampicata sul monumento di piazza Cairoli. L'azione dimostrativa con tanto di striscione contro il comizio di CasaPound si è conclusa con qualche contuso, visto che i ragazzi hanno opposto resistenza passiva agli agenti. Schermaglie anche in via Padova durante la manifestazione di Fratelli d'Italia con Giorgia Meloni: alcuni residente hanno intonato 'Bella ciao' in risposta all'Inno di Mameli cantato dai dimostranti. Cariche della polizia e gas lacrimogeni in largo La Foppa contro alcune centinaia di manifestanti dei centri sociali che hanno tentato, senza successo, di superare lo schieramento delle forze dell'ordine messo in campo per evitare che entrassero in contatto con manifestanti di estrema destra. La questura ha autorizzato un presidio, ma i manifestanti hanno cercato di superarlo schierando in prima linea un paio di gommoni, simbolo di quelli utilizzati dai migranti. 

L'ATTACCO DI BERLUSCONI - Il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi ha commentato gli scontri a Milano a Tgcom24: "Credo, dopo quello che è successo, che bisognerebbe pensare di fare delle indagini sui singoli centri sociali e pensare di chiuderne qualcuno". "Era da tanto tempo che non vedevamo di queste cose, sono tornate ad esserci queste dimostrazioni di piazza dei centri sociali" e "le vittime sono i nostri ragazzi della polizia e dei carabinieri", ha aggiunto l'ex premier.

IL COMIZIO DI SALVINI - Sempre a Milano, piazza Duomo è stata transennata nel primo pomeriggio per la manifestazione della Lega 'Prima gli italiani. Ora o mai più'. Assente il presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni. "Non vedo l'ora che arrivi il 4 marzo per mandare a casa Renzi e i suoi amici e per mantenere tutte le promesse che lui non ha mantenuto", ha detto il leader della Lega, Matteo Salvini. "'Coerenza, onestà e altruismo erano anche alcuni dei valori di Sandro Pertini", ha sottolineato il leader del Carroccio, che ha aggiunto: "Cancellare la legge Fornero sarà il primo atto del governo Salvini". Il segretario della Lega ha 'giurato' fedeltà alla Repubblica, fingendo di essere nominato premier al Quirinale, chiudendo il comizio in piazza Duomo. "Mi impegno e giuro - ha detto - di essere fedele al mio popolo, a 60 milioni di italiani, di servirlo con onestà e coraggio, giuro di applicare davvero la Costituzione italiana, da molti ignorata, e giuro di farlo rispettando gli insegnamenti contenuti in questo sacro Vangelo. Io lo giuro, giurate insieme a me? Grazie, andiamo a governare e a riprenderci questo Paese".

ROMA - Alta l’attenzione anche a Roma: in campo 3.500 uomini. La prima a iniziare è la manifestazione del comitato ‘Mai più fascismi’, indetta anche dall’Anpi, che è partita alle 13 da piazza della Repubblica per arrivare in piazza del Popolo, dove in concomitanza con il corteo è arrivato anche il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni.  Subito dopo aver accolto con un abbraccio l'arrivo di Matteo Renzi, il premier ha lasciato il retropalco di Piazza del Popolo. Qui ha ricevuto molte strette di mano dei manifestanti, qualcuno ha chiesto di fare un selfie e c'è stato anche chi ha applaudito. Un'anziana con il cappellino della Cgil sindacato pensionati l'ha addirittura voluto baciare e gli ha sussurrato: "Mi raccomando presidente, pensiamo ai nostri giovani". Alcune bombe carta sono state lanciate nell'area archeologica dei Fori Imperiali da manifestanti del corteo contro il Jobs Act organizzato dal sindacato Cobas. Si sono tenute anche una manifestazione statica dei No vax contro l’obbligatorietà vaccinale in piazza di Porta San Giovanni con 10mila persone, un’iniziativa al Cie di Ponte Galeria degli antagonisti contro la normativa vigente in materia di immigrazione e infine, dalle 18 alle 20, una manifestazione da Fratelli d’Italia nei giardini ‘Calipari’ di piazza Vittorio Emanuele II.

BOLOGNA - Nessun problema, invece, a Bologna: il comizio del leader di CasaPound, Simone Di Stefano, si è svolto senza intoppi a differenza di quanto accaduto venerdì scorso in occasione del comizio del leader di Forza Nuova, Roberto Fiore.

Bari, aggressione al corteo antirazzista contro Salvini: “Picchiati dai fascisti”. Due feriti. Casapound: “Noi provocati”. L'episodio nel quartiere Libertà, alla fine della manifestazione. Nel gruppo anche l'europarlamentare Eleonora Forenza. "Aggrediti da 20 persone con mazze e cinghie, venivano dalla sede di Casapound". I militanti di estrema destra: "Volevano assaltarci". Il Fatto Quotidiano il 22 Settembre 2018. Aggrediti con cinghie, mazze e tirapugni, davanti a dei bambini, mentre tornavano a casa dopo aver preso parte a un corteo antirazzista. Lo denunciano cinque persone che avevano partecipato alla manifestazione  “mai con Salvini“, organizzata a Bari nella serata di venerdì 21 settembre. Tra loro l’europarlamentare della lista Tsipras Eleonora Forenza. L’episodio è avvenuto nel quartiere Libertà, nelle vicinanze della sede di Casapound, che si trova in via Eritrea. In due sono rimasti feriti: uno è Antonio Perillo, assistente dell’europarlamentare, che è stato medicato con nove punti di sutura alla testa alla clinica Mater Dei; l’altro è Claudio Riccio, di Sinistra Italiana, già candidato alle politiche di marzo, che è stato portato al Policlinico. I due sono stati entrambi dimessi in mattinata. In Questura, la Polizia sta raccogliendo le denunce di alcuni degli aggrediti: a breve sarà trasmessa alla Procura un’informativa con i nomi dei circa trenta militanti di Casapound identificati nella notte, almeno otto dei quali avrebbero partecipato attivamente all’aggressione. In corso di acquisizione i filmati dello scontro. Secondo gli investigatori, un primo gruppo di manifestanti, dopo il corteo, è passato davanti alla sede del movimento di estrema destra urlando “fascisti di merda“. Il pestaggio è nato da questa provocazione, ma i militanti di estrema destra hanno reagito attaccando un secondo gruppo di manifestanti, tra cui, appunto, la Forenza, Riccio e Perillo, che passavano di lì nel tragitto verso casa. “Quando la manifestazione è giunta in piazza del Redentore, mentre ancora erano in atto il concerto e la cena sociale, alcuni manifestanti che si erano allontanati alla spicciolata sono stati aggrediti da un gruppo di 20 fascisti con mazze e cinghie”, si legge sulla pagina Facebook di Mai con Salvini – Bari. “I fascisti venivano dalla sede di Casapound in via Eritrea, già presidiata dalla polizia dalle quattro del pomeriggio, e che pure si è lasciata “sfuggire” un aggressione fascista di questa gravità, proprio al termine della manifestazione, quando i primi partecipanti cominciano a tornare a casa”. “Ancor più grave è stato l’atteggiamento della polizia, che fin dall’inizio sembrava sapesse quello che stava per accadere”, continuano i manifestanti. “Quando i primi compagni hanno avuto notizia dell’aggressione e sono sopraggiunti sul luogo dell’accaduto, sono stati circondati da polizia e carabinieri e caricati tre volte”. E Antonio Perillo, uno dei feriti, attacca direttamente il governo: “Il ministro Salvini è il mandante politico di questo clima in cui i fascisti si sentono coperti dalla sua figura come ministro degli Interni, e si sentono incoraggiati ad agire in questa maniera”. “Ieri – ha detto Perillo – abbiamo subìto una brutale aggressione fascista: io sono stato aggredito alle spalle, ho una ferita di otto centimetri sulla testa. Hanno colpito per fare male, e si sentono protetti dal governo nazionale”. Del tutto opposta la versione dei fatti fornita dai militanti di Casapound: “Dopo le promesse di assalto già preannunciate nel corso della settimana sui vari social network, un gruppo sostenuto di persone che avevano preso parte alla manifestazione, a corteo terminato da tempo ha aggirato i controlli delle forze dell’ordine sbucando nella via dove è ubicata la sede di Casapound Italia Bari, con il chiaro intento di assaltare la sede ed i suoi militanti. Fortunatamente sono stati respinti dai nostri militanti, che presidiavano per evitare vandalismi. Dopo le aggressioni recenti a Lega e Fdi continua il clima violenza di questi impuniti dei centri sociali”. “A Bari non c’è stata nessuna aggressione squadrista, ma un tentativo di assalto alla nostra sede da parte dei manifestanti anti-Salvini”, dichiara ancora Casapound Italia in una nota. “Come mostrano chiaramente le foto che abbiamo diffuso, il corteo era finito da tempo in un’altra zona della città, ma gli antifascisti invece di disperdersi hanno cercato di arrivare in via Eritrea, dov’è la nostra sede, per assaltarla. Non stupisce che in mezzo a loro ci fosse l’europarlamentare di Potere al Popolo Eleonora Forenza, da sempre vicina ai centri sociali, come esponenti dei centri sociali sono i suoi collaboratori. Quello di cui possono accusarci è solo di aver difeso il nostro diritto a esistere di fronte a chi ci vorrebbe cancellare dalla faccia della terra”, conclude la nota. “Credo che sia inaudita un’aggressione di una squadra fascista in pieno centro a Bari, un fatto che riporta questa città e questo Paese ai tempi più bui. Eravamo in piazza per manifestare contro il razzismo e il fascismo ed è evidente che ce ne sarà ancora bisogno”, ha detto l’europarlamentare Forenza, mentre si trovava alla clinica Mater Dei in visita al suo assistente. E da Atreju, dove partecipa alla festa di Fratelli d’Italia, interviene sulla vicenda il capo del Viminale Matteo Salvini: “Da ministro dell’Interno ho la fortuna di non dovermi basare solo sui giornali, ma sulle informazioni delle forze dell’ordine, altrimenti quest’estate avrei dovuto inseguire dei lanciatori di uova che lanciavano uova a caso. Se uno pesta un altro essere umano, può essere giallo, rosso o verde, il suo posto è la galera. Poi da ministro dell’interno devo andare oltre la notizia“, ha detto. “La violenta aggressione fascista di ieri sera a Bari non può essere minimizzata in nessun modo. E il ministro dell’Interno dovrebbe pretendere che i colpevoli siano immediatamente individuati e puniti. Invece si diletta con le battute“, replica a Salvini il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni.  “Evidentemente è forte l’imbarazzo di chi, come lui e il suo partito, soffia quotidianamente sul fuoco dell’intolleranza e dell’odio e strizza l’occhio a movimenti e organizzazioni neofasciste e razziste. Comunque – prosegue il deputato di LeU – verrà a chiarire il suo pensiero in Parlamento, perché il governo dovrà rispondere alla nostra interrogazione sul perché è stata permessa l’aggressione, su quali provvedimenti verranno assunti affinché non si ripetano fatti e aggressioni fasciste di questo genere, e quali iniziative assumerà il governo M5S-Lega per lo scioglimento delle organizzazioni neofasciste in evidente contrasto con Costituzione del nostro Paese”.

Così "fascista" è diventata parola vuota. Ormai è un insulto per zittire l'avversario. In America lo è il pensatore "scorretto". E nessuno ricorda che all'inizio il termine era quasi sinonimo di "sinistra". Paolo Guzzanti, Venerdì 24/05/2019, su Il Giornale. Fascista! Ecco un aggettivo che ha subito una mutazione dei significati originari legati al partito creato da Benito Mussolini, riacclimatandosi come una lucertola in situazioni, ambienti, comportamenti che non hanno quasi mai a che fare con la storia e un elemento di arredo in ogni lingua, come se fosse nato per conto suo in tutte le lingue. L'inglese, specialmente americano, è la lingua che lo usa di più, ed è in grande continuo uso per tutti, applicato come insulto a Trump e al partito repubblicano intero, compresi i neri che si dichiarano conservatori. Nelle università, qualsiasi oratore non di sinistra che voglia parlare agli studenti deve superare un cordone di militanti vocianti che inalberano sui loro cartelli l'aggettivo «fascista», un termine prêt-à-porter spendibile in ecologia come nel femminismo radicale, o nella politica transgender per cui non si va a fare pipì secondo un bagno per chi ha il pisello e uno per chi non ce l'ha, ma secondo come uno si sente nell'anima, se non sei d'accordo devi prenderti il marchio di fascista e portartelo a casa. E poi, ancora, è fascista chi è ordinato nei cassetti, chi chiede ordine e sicurezza sulle strade e nelle scuole, e chi pretende fascista! - proprietà di linguaggio e rispetto tassativo per grammatica e sintassi. Pochi sanno che il Fascist Party of America (fascio littorio bianco in campo azzurro sulla bandiera nell'area delle stelle) fu fondato nel 1907 da oltranzisti democratici del Sud vicini al Ku Klux Klan, quando Benito Mussolini in Italia era un sovversivo rosso, cosa che oggi agli americani come anche agli italiani sembra una provocazione. Come sarebbe a dire che Mussolini era «di sinistra»? E allora bisogna spiegare che il futuro dittatore «di destra» usava il termine «compagni», era ricercato da molte polizie, faceva sdraiare le operaie sui binari delle tradotte per sabotare la guerra di Libia del 1912 ma più che altro odiava a morte i borghesi, i ricchi capitalisti e per un po' la Chiesa e i preti. Il disordinatamente avido Mussolini smunto, gli occhi allucinati, i baffi e la barba di chi non ha tempo per il rasoio, occupava lo spazio immaginario dei ribelli di tipo guevarista, specie nel periodo austriaco trentino o quello ginevrino quando condivideva cibo e sale riunioni con Lenin, che lo teneva a distanza anche se poi Mussolini si vantò di un rapporto speciale con il leader russo, dicendo che i comunisti erano «tutti miei figli». Se oggi prevalesse l'intelligenza e si avesse l'orgoglio patriottico di appartenere a una fortissima democrazia, sarebbe utile dichiarare decadute le norme ideologiche di guerra contro il fascismo per assenza dell'oggetto e finalmente permettere che se ne parli al passato, visto che la guerra è finita. La cronaca ci dice che avviene l'esatto contrario e che si seguita a far finta che ci sia un pericolo fascista, basandosi su quella manciata di carnevalanti runici con simboli nibelungici e attrezzeria di altri Walhalla che non ha mai fatto parte della storia e Dna italiani. Del fascismo com'è stato, con tutte le sue canagliaggini e ridicolaggini, enfasi e trasporti emotivi collettivi, nessuno sa più nulla. Ha fatto più Federico Fellini con Amarcord (1973) che la scuola italiana dove, per prudenza, è stata abolita la Storia come materia d'esame, mantenendo però in allerta emozionale Bella ciao a tutta birra - l'antifascismo militante che ha bisogno dei suoi demoni. «Fascista», l'aggettivo, prospera in proprio anche a causa delle mutilazioni inflitte alla storia che passa in televisione, che sta alla base dell'ignoranza comune. Una delle mutilazioni più indecenti è quella che riguarda l'alleanza non solo militare ma anche ideologica fra Hitler e Stalin uniti dal settembre 1939 al giugno 1941 nella spartizione dell'Europa, con parate militari nazi-comuniste, bevute e abbracci e baci a Brest Litovsk. Il tema è tuttora interdetto (si deve alludere vagamente a un certo «trattato di non aggressione», va poi a sapere cos'è) perché quella storia cancellerebbe l'accredito dei partiti comunisti come protagonisti primi e intransigenti della guerra contro il nazismo. Nella Francia occupata i comunisti francesi riempivano i muri di manifesti di benvenuto al Camrade allemand venuto a combattere la borghesia capitalista. E poi, l'altra questione spinosa: i «fascisti» erano davvero gli sgherri degli agrari assoldati per picchiare gli operai, o erano invece parte di una rivoluzione di sinistra? Come si fa a sistemare uomini come Indro Montanelli, Giorgio Bocca, Eugenio Scalfari ma anche Pietro Ingrao e tutti i futuri comunisti, che non erano fascisti per caso ma per convinzione? Eugenio Scalfari incontrato in una libreria del centro di Roma mi ha detto con cipiglio: «Io nel 1943 (l'anno della caduta del fascismo, del bombardamento di Roma e dell'otto settembre, ndr) non ero fascista: io ero fascistissimo». Il punto oggi è che questo aggettivo «fascista» è cresciuto divorando gli aggettivi contigui come «nazista». Chi dà più, oggi, del «nazista»? Nessuno. È fuori moda e imbarazza i tedeschi, mentre l'aggettivo «fascista» è una coperta leggera e arlecchinata che copre tutto, è multimediale, multinazionale, pratica ed elastica per tutti gli usi. Così, sono oggi bollati come fascisti gli antiabortisti afroamericani che parlano di un genocidio perpetrato dalla Planned Parenthood Federation of America, una creatura democratica che stermina l'ottanta per cento delle gravidanze nere, e sono chiamati fascisti i poliziotti in genere, ma in particolare quelli che pattugliano Chicago quando le comunità afroamericane cominciano a spararsi. Anche qui: non importa se i poliziotti sono neri. Fascisti anche loro, e non se ne parla più. Discutere con gli americani su che cosa sia fascista (specialmente se sono Democrats) è tempo perso perché i loro parametri sono indipendenti dalla Storia e dalla memoria. Gli adolescenti bianchi americani delle scuole superiori abbandonano le discussioni razziali, perché appena aprono bocca sono accusati di essere fascisti anche dai latinos e da molti asiatici pakistani. In Europa oggi perfino i nativi di lingua tedesca hanno privilegiato l'aggettivo fascista, perché più leggero e planetario, sempre in grado di offrire l'effetto notte, quando tutti gli aggettivi, come i gatti, sono grigi e uno vale uno. In Italia, in occasione della vicenda al Salone del Libro di Torino, abbiamo sentito il presidente della Camera dei deputati Roberto Fico decretare che dichiararsi fascisti è di per sé reato da punire, a prescindere dalle azioni e che - quanto ai libri - sarebbe il caso di adottare l'abitudine hitleriana del rogo. Si tratta di un atteggiamento paragonabile all'«aggravante mafiosa» che, da aggravante applicabile alle pene sui delitti commessi in ambito mafioso, si è trasformata in delitto in sé. In maniera analoga, chiunque cada nel delitto di banalità ricordando la bonifica delle paludi Pontine (Canale Mussolini di Antonio Pennacchi) o per i treni che «quando c'era lui» arrivavano in orario, secondo la dottrina Fico, è da punire. In Italia lo spettro del fascismo resta uno spettro, o meglio una giungla in cui devi sempre stare attento a dove metti i pedi e a quel che dici perché i confini sono scivolosi e i trabocchetti sono troppi per non farsi prima o poi male. I repubblicani americani, paradossalmente, hanno preso la questione del fascismo con maggior serietà: ideologi come Denish D'Souza e molti contribuenti del Washington Times affermano che il fascismo italiano va considerato come socialismo di Stato poiché risponde a tutti i requisiti di un socialismo autoritario. In primo luogo, secondo il vero ideologo del fascismo Giovanni Gentile, tutto deve essere nello Stato e nulla al di fuori dello Stato. Secondo: un regime socialista statalista scoraggia la concorrenza scegliendo una o più aziende private da mantenere al proprio servizio come la Fiat. Terzo, i socialismi nazionali statali (italiano, tedesco, russo) produssero il primo vero welfare statale: tutti i figli del popolo alle colonie marine e montane, sport per tutti, pensioni sociali, l'Iri, l'Inps e tutte le sigle dello Stato provvidente messe in funzione con il massimo vigore. Si può dire che ogni «aspetto buono» del fascismo era un'applicazione del socialismo, dalle case popolari (che a Roma ancora chiamano «le case di Mussolini») ai treni per la neve e il mare per un Paese ancora rurale e in gran parte analfabeta: caratteristiche «di sinistra» e non di destra. E così furono percepite in tutto il mondo occidentale, specialmente di lingua inglese, perché due erano le rivoluzioni che avevano affascinato e scosso l'umanità, quella bolscevica e quella fascista. Vedere, leggere per credere.

·         Politica e media: tu chiamale se vuoi emozioni…

Politica e media: tu chiamale se vuoi emozioni…Il saggio di William Davies “Stati nervosi”. Siamo passati dal dominio della ragione alla supremazia dei sentimenti. Ma secondo l’autore è sbagliato contrapporre queste due dimensioni. Angela Azzaro il 13 Settembre 2019 su Il Dubbio. Nel 1994 lo studioso francese Pierre Lèvy diede risalto al concetto di “intelligenza collettiva” legata al cyberspazio. L’affermazione delle nuove tecnologie di comunicazione doveva servire a favorire la connessione tra gli esseri umani potenziandone le possibilità di comprensione e di saper fare. A circa 25 anni da quella definizione più che di intelligenza collettiva dobbiamo parlare di “follia collettiva”, di un impazzimento generale in cui la ragione è stata completamente oscurata. È in questo perimetro che si collocano l’hatespeech, le fakenews e una politica fondata non sui fatti concreti ma sul “sentiment”. È la famosa Bestia, il sistema di monitoraggio dell’opinione pubblica che consente ( consentiva?) a Matteo Salvini di mettersi in connessione sentimentale con il suo popolo sulla base dell’umore dominante. Da Trump a Putin, passando per il nostro ex ministro dell’Interno, le forze populiste e sovraniste si caratterizzano per questa capacità di sfruttare al massimo le caratteristiche della rete. Siamo oltre il Grande Fratello di George Orwell: il controllo è un sistema che non agisce dall’esterno, ma determina un mutamento profondo delle caratteristiche stesse dell’essere umano. Non c’è un’imposizione vissuta come obbligo, ma un diktat che i cittadini agiscono ed esercitano in prima persona. Per questo è difficile. Non basta buttare giù il despota, perché il tiranno rappresenta spesso, meglio di chiunque altro, quello che le persone pensano e vogliono. È proprio quel pensiero che va modificato. Ma per modificarlo va intanto studiato. È quello che fa William Davies nel saggio Stati nervosi. Come l’emotività ha conquistato il mondo ( Einaudi, pp. 362, euro 18.50). Davies, che insegna sociologia ed economia politica a Londra, cerca di capire perché si è passati dalla supremazia della ragione alla sua totale inflazione. Come possibile, si chiede, che il “cogito ergo sum” di Cartesio oggi valga poco o nulla e le élite che rappresentano la conoscenza nei diversi settori abbiano così scarso appeal e successo? Per rispondere a questa domanda il sociologo fa un’attenta disamina del pensiero occidentale dal 1600 ad oggi e parla di “democrazia delle emozioni”. Due più due non fa più quattro perché è saltato il meccanismo della democrazia della rappresentanza che regolava i rapporti e la logica prima dell’avvento di internet. Ma Davies, che si sofferma a lungo su Hobbes, non cade nella trappola di contrapporre in maniera netta ragione e sentimento. E cerca di individuare una strada che sia un’uscita dal populismo senza perdere di vista le paure delle persone. «Internet – scrive l’autore – si è rivelata molto efficace nel minacciare le istituzioni democratiche stabilite, molto meno quando si tratta di costruirne di nuove. È in grado di abbattere i vecchi sistemi di rappresentazione, ma resta da vedere se ( e quali) nuove strutture li sostituiranno. In questo discorso rientrano gli attacchi ai “media tradizionali”, che con il loro supposto impegno nei confronti di “imparzialità” e “oggettività” sono facilmente oggetto di scherno e denuncia a causa dell’ipocrisia o dei privilegi dei singoli giornalisti». La parte più interessante del libro, ma per paradosso anche la più debole, è quella in cui Davies sostiene che «i fatti da soli non ci salveranno». Cioè non serve invocare oggettività e ragione per uscire dalla crisi mondiale che stiamo attraversando. Anzi. Per l’autore di Stati nervosi questa situazione potrebbe essere un’occasione. «Quale speranza ci resta – scrive – nel momento in cui la frontiera del controllo tecnologico sulla natura continua a spostarsi e una prospettiva di allungamento della vita è sempre più personale e riservata a una minoranza? Per la mente razionalista, progresso significa soltanto avere di più… Ma la paura, il dolore e il risentimento non sono mai stati eliminati del tutto, né possono essere messi a tacere nel lungo periodo. In un periodo in cui queste caratteristiche intrinseche degli esseri umani sembrano di nuovo avere invaso la politica, dobbiamo cogliere l’occasione per ascoltarle e capirle, in alternativa a una contrapposizione tra più fatti da una parte e più bugie dall’altra». L’intuizione di Davies è giusta e richiama molte analisi che da Freud arrivano al pensiero femminista sia sul rapporto mente e corpo, sia sugli elementi di irrazionalità che spesso muovono le scelte politiche. Ma oggi cosa vuol dire ascoltare e capire le pulsioni della folla? Senza cadere in banali contrapposizioni la sfida resta sempre quella di ridare valore e significato alle istituzioni e alle conoscenze della cultura democratica. Di meglio non abbiamo ancora trovato nulla. Di peggio abbiamo purtroppo sperimentato tantissimo.

·         Gruber & Company. I compagni propaganda.

Alessandra Menzani per “Libero quotidiano” il 9 dicembre 2019. Francesca Fagnani, 41 anni, romana, conduttrice di Belve su Nove, opinionista politica e giornalista della carta stampata, non ha paura ad avere idee controcorrente rispetto a donne, politica, ambiente e alla morale comune. Per ora la sua trasmissione di interviste dedicata alle donne forti è in stand by ma lei non si piange addosso. È troppo concreta per farlo. Compagna di Enrico Mentana dal 2013, la sua storia più lunga, allieva di Minoli e Santoro, recentemente ha fatto un' intervista bomba a Francesca Pascale, donna quanto mai ricercata e discussa.

Che opinione ha di Lady Berlusconi?

«Ha una forte personalità, ha deciso di condurre una vita fuori dal comune. Ha scelto come compagno un uomo potente e di 49 anni più grande di lei: significa accettare di esporsi per tutta la vita a pregiudizi sulla sua sincerità. Ne deve valere la pena, altrimenti non reggi. È una donna libera e coraggiosa. Quante nella sua posizione avrebbero detto, come ha fatto nell' intervista che mi ha concesso, "non voglio definirmi né etero né gay"?».

E proprio in queste ore, per giunta, la Pascale ha detto di voler scendere in piazza con le "sardine".

«Ecco, appunto, ha il coraggio di prendere posizioni politiche non sempre ortodosse rispetto al verbo di Forza Italia».

Lei che alle donne ha dedicato una trasmissione cult, Belve, pensa che ancora siano tenute fuori dalle stanze del potere, come sostiene ad esempio Lilli Gruber?

«Se si riflette sul fatto che le donne hanno avuto diritto di voto solo nel 1946 è incredibile quanti passi avanti siano stati fatti e così rapidamente negli ultimi decenni. Le femministe hanno scritto pagine fondamentali per la conquista dei diritti di genere. Ora dobbiamo essere all' altezza di quelle conquiste senza giocare a fare per posa le vetero femministe da una parte e senza perdere credibilità nelle derive del Metoo dall' altra.

Dobbiamo lottare per ottenere quello che davvero ci manca: la parità salariale. Ho incontrato molte donne nei centri anti-violenza. La maggior parte di loro ha subito per anni prevaricazioni e violenze in casa perché banalmente non avevano i soldi per andarsene. L' indipendenza economica è fondamentale».

Nei talk show politici, dove spesso è ospite, le donne sono sufficientemente rappresentate? Abbiamo notato che da Lilli vanno pochino

«Ritengo che il criterio di scelta parta da un presupposto sbagliato. Spesso si invita una donna nel parterre non per un preciso contenuto che porta, ma per rispettare un minimo sindacale di quota rosa. Sbagliato. Cos' ha da dire la Fagnani su questo tema? Ci serve, sì, no? Sono contro ogni forma di quota rosa, nei talk, nella società civile e nella politica. Mi piacerebbe che un ministro o un sindaco fosse scelto per merito e non per altre forme di garanzia. La parità passa per il merito e basta».

Pensa che la politica, oggi, sia governata dal testosterone, sempre per dirla alla Gruber?

«Se la sente Giorgia (Meloni, ndr) le se magna...».

Quanto dura il governo giallorosso, secondo lei?

«È un governo in cui si sommano le debolezze di tutti, proprio per questo potrebbe durare.Questo esecutivo potrebbe avere una pessima salute di ferro».

Cosa pensa della giovane Greta Thunberg?

«Greta ha avuto la straordinaria capacità di contagiare i suoi coetanei, portandoli nelle piazze di mezzo mondo. Ha portato al centro dell' agenda politica internazionale il tema dell' ambiente. La sua impresa è stata sbalorditiva. Detto questo, spero che Greta non venga utilizzata come figurina per mettersi a posto la coscienza e come alibi per non fare nulla di concreto. Il ministro Fioramonti aveva proposto di giustificare l' assenza per i Friday4future. Ma non sarebbe stato più utile ed educativo introdurre un' ora di educazione civica ed ambientale in classe?».

E le sardine che impressione le fanno?

«Mi sembra che il meglio lo esprimano con i numeri che riescono a fare nelle piazze, la presenza bulimica nei talk invece non credo stia facendo bene, soprattutto perché non mi sembra abbiano ancora chiari gli obiettivi da raggiungere e i contenuti da veicolare. Aspettiamo di vedere come evolverà questo movimento».

Parliamo della sua trasmissione, Belve. Tornerà sul Nove?

«Perché no? Il materiale umano non manca».

Avevamo letto che l' arrivo di Daria Bignardi sul Nove fosse la causa dello stop.

«L' ho letto anche io, ma non so altro e nemmeno quale sia realtà dei fatti, ma sono troppo pragmatica per fare la complottista. Sono cose che capitano, non finisce mica il mondo».

È più Belva Lilli Gruber o Daria Bignardi?

«Lilli Gruber! Le chiesi di venire ospite a Belve, ma ahimè senza successo».

Altri progetti?

«Qualcosa bolle in pentola, datemi tempo...».

Le intervistate che non dimenticherà?

«Cristina Pinto e Adriana Faranda, un' ex camorrista e un' ex brigatista, due storie diverse ma ugualmente drammatiche. Entrambe non hanno subìto il loro destino, lo hanno scelto».

Pochi giorni fa è stato il suo compleanno: cosa le ha regalato il suo compagno Enrico Mentana?

«Un cucciolo di cane, Nina. È una piccola Cavalier King sui toni dell' arancione. Un batuffolino che porta tanta gioia in casa. Anche Enrico l' ha voluto tantissimo. Così il mio altro cane, Duccio, avrà una sorellina. Duccio è un Jack Russel di undici anni scatenato che adesso tiene mio padre, un santo».

Ultimamente va molto di moda fare una trasmissione con il proprio partner. Lei con Enrico Mentana lavorerebbe?

«Ho avuto il privilegio di avere due grandi maestri, due giganti: Giovanni Minoli e Michele Santoro. Mi hanno insegnato tutto, mi hanno messo un mestiere nelle mani, sono loro profondamente grata. Credo che si sentono così i ragazzi che si sono formati con Enrico. Detto questo, sono innamorata, ma mica kamikaze, lo vedo già abbastanza, maratone permettendo". (Ride)

Dagospia il 3 novembre 2019. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, Non c’è nulla che certifichi il successo di un libro come la stroncatura feroce firmata dal “nemico”. Ammetto che, per sublimare le vendite del mio “Cazzaro verde”, un po’ quella stroncatura mi mancava. E adesso eccola, per giunta da pubblicata da Libero, il quotidiano che si prende e ci prende per il culo sin dal nome: la perfezione. Vedo che le firme (si fa per dire) più note (si fa sempre per dire) che “scrivono” su quel “giornale”, in qualità di soldatini mosci e ciabatte rotte di Salvini, hanno preso benissimo la fortuna di un libro che zimbella con agio il loro Capitan Reflusso. Lo si intuisce anche dai dettagli nascosti in quella prosa così garbata e mai sguaiata: “Il livello di Scanzi è quello del buco del culo”. Daje e vai col vino, ragazzi! Fa poi piacere che il pezzo sia stato firmato dall’agente Betulla Torda, uomo (parola grossa) di spiccata integrità morale nonché ingiustamente vilipeso dalla natura: in tutta onestà lo credevo morto, in galera o in ospizio, ma evidentemente nei suoi confronti ero stato persino troppo ottimista. Il pezzo che mi ha dedicato vanta la prosa dei disagiati neuronali, la lucidità di Feltri al settimo shottino (quindi alle 10 del mattino) e tradisce il rosicamento comico dei castori inviperiti. Alti livelli. Per tutta la giornata ho ricevuto messaggi di colleghi, amici, parlamentari e umanità varia il cui tono era questo: “Cazzo, ti invidio più gli attacchi in prima pagina su Libero che non l’intervista a Roger Waters!”. Non arrivo a tanto, ma in effetti è un’altra medaglia: di latta, anzi forse di concio o sugna, ma pur sempre una medaglia. Son soddisfazioni. E soprattutto sono altre vendite: quindi grazie amici, e soprattutto bacioni! Andrea Scanzi

Renato Farina per “Libero Quotidiano” il 3 novembre 2019. È uscito un libretto intitolato "Il cazzaro verde - Ritratto scorretto di Matteo Salvini", di Andrea Scanzi, PaperFIRST. In teoria sarebbero 134 pagine, ma l' inchiostro latita, ce n' è una macchia qui e una là, parecchi fogli sono in bianco, e quelli fittamente scritti riproducono testi spaventosi e chilometrici di Giuseppe Conte e di Pietro Grasso (sì, loro) usati come gladiatori spompati contro il capo della Lega. L'operetta più immorale che immortale si legge in un' oretta, 12 euro rubati, poi dicono della casta politica. Eppure questo volumetto è molto istruttivo. Mostra la pochezza del frullato di teste d' uovo che costituisce il bacino di pensieri, ideali, sentimenti, prosa, gaglioffaggine della classe intellettuale che pretende di far da mosca cocchiera adesso, domani e per sempre al governo giallorosso. I veri cazzari sono loro, e la loro punta ottusa è il Cazzaro principale della banda d' Affori, proprio Scanzi. Rubano anche le parole degli altri. Cazzaro non è una espressione che appartenga a questa schiera di untorelli che non saranno certo loro a spiantare Salvini. La prima volta fu sui muri di Roma, trentacinque anni fa. Apparve questa scritta gigantesca: «ARGAN CAZZARO». Da sganasciarsi. Era il 1984. Dei ragazzi avevano tirato uno scherzo micidiale all' intellighenzia progressista, compita e sussiegosa. Fecero ritrovare nel Fossato Reale, a Livorno, teste di pietra ben tornite ma primitive, che parevano la trasfigurazione in pietra dei dipinti di Modigliani dal collo lungo. Le avevano create loro con un Black & Decker. Il grande professore comunista di storia dell' Arte, Giulio Carlo Argan, allora pure sindaco di Roma, non ebbe dubbi. Modigliani sicuro. Un vero cazzaro. Il modello del cazzaro era quella roba lì. Quelli che bevono il vino in bottiglie polverose e gli fai credere sia uno Chateau d' Yquem del 1870, annata rivoluzionaria della Comune di Parigi, e schioccano le labbra, fanno andare su e giù un prodotto con le polverine e dicono: ambrosia, oro puro. Sono loro, sono gli Argan, sono gli Scanzi e le Gruber, e tutti quelli che alzano il ciglio con sprezzatura snob davanti all' onda crescente del centrodestra. Cazzari di piccolo calibro sono poi quelli che delibano entusiasti il prodotto del loro cazzarone preferito. Ci troviamo davanti a suo modo a un capolavoro. È il manuale del perfetto idiota grillino, un prototipo esemplare di economia circolare della cacca. Nel senso che ogni pagina è la riproduzione di un mezzo articoletto, di una nota su Boniface, tagliata e copiata, ed è bagnata dalla rugiada mentale ma anche anale dello scrittore - giornalista - esteta di riferimento del ceto intellettuale del Movimento 5 Stelle: Andrea Scanzi appunto. Il livello di Scanzi è, anche se se la tira molto, quello del buco del culo, in tema con gli orizzonti sorgivi del M5S. Scrive a proposito di una fotografia di Salvini mentre nell' orto raccoglie fiori di zucca: «...una trasposizione visiva dell' Inno del corpo sciolto di Benigni: accovacciato sul prato, con lo sguardo non troppo intelligente, Salvini pareva infatti intento a defecare. La trovo tuttora una foto oltremodo emblematica». Anche noi. La pagina seguente, Scanzi, attraversato dalla medesima ossessione scatologica, ci informa: «Renzi & Salvini sono imperdonabili bugiardi. Le due facce della stessa medaglia stitica». Per lui le medaglie sincere cacano? Ohibò, che cultura. Al club di Scanzi appartengono quelli della piattaforma Rousseau ma anche no. Non la base-base, non la gggente (si trova pure questa parola spregiativa nel libercolo), ma quelli che si sono elevati. Sono passati al livello di gioco superiore rispetto al flipper linguistico di Marco Travaglio. Quelli che adorano l' Andrea sono i veri fighi del movimento Cinque Stelle, ma anche con un piedino un po' fuori, non si sa mai. Gialli ma con sfumature rosse, scetticismo di alta classe, che trova sicurezze solo nell' appendere per i piedi il cazzaro verde, e il cazzaro rosé, che avete capito chi sia: Renzi. Sono soggetti laureati, più post grillini che grillini originari, comunque disincantati, caratterizzati da negligente entusiasmo, che fa più fino. Mai troppo esposti, evitare rischi, muoversi sul sicuro, legati a corda doppia per evitare cadute. Ad esempio: cazzaro verde è un' espressione per la quale Matteo Salvini, sbagliando, querelò Travaglio. Il gip negò il reato e archiviò. È satira, si può usare questo concetto. Era luglio. E così, tranquillo di cavarsela, Scanzi vi ha messo insieme un libro. L' espressione «cazzaro» è ripetuta nel libro 42 volte. Capitan Reflusso (si noti il genio gastrico, ma almeno è salito sopra il colon, bravo Andrea) 30. Il fatto che l' attività di Salvini si concentri tutta in «rutti» o «ruttini» è un concetto ribadito in 11 casi. E questo li fa ridere. Capitan Riflusso, oh oh, trattenetemi che scoppio. Come storpia i nomi e dà i nomignoli Scanzi non c' è nessuno. Altro che Travaglio. Eh sì, costoro considerano Travaglio un monumento venerabile, ma lo ritengono troppo pop, è un po' il loro Claudio Baglioni, sempre con la maglietta fina che si vedeva tutto, e un po' ha stancato. È una vecchia gloria, è il Facchinetti che guida gli altri Pooh e cioè Peter Gomez e il perenne riciclato Massimo Fini. A leggere le definizioni di sé che Scanzi dà - vedi Wikipedia - uno dice che Leonardo da Vinci era solo un precursore. Ecco, lui è l' eroe di tutte le arti, a condizione di non eccellere in nessuna, ma capace di essere stupendamente banale in tutte. Fa sentire i suoi fan ganzi, inseriti nel giro che ascolta le canzoni giuste, assapora tennis squisito, gusta vini un po' scorretti, dunque idonei a far sentire quelli del clan di un' altra levatura rispetto ai banali grillini. Scanzi è il loro maestro inarrivabile. Sa essere crudele, ma con furbizia, picchia duro, ma con il martello di gomma. I suoi adoratori invidiano le avventure del suo cerchio ristretto. Vede che questi quattro amici fanno soldi e diventano popolari andando insieme in tivù, litigando e poi spedendosi tweet taglienti, con significati sotterranei che i seguaci si divertono a interpretare, confrontando una analogia di Scanzi con la risposta sarcastica di Selvaggia Lucarelli, girano letti e donne, con totale devozione per il proprio ombelico (ben tornito, ovvio). Osservate lo spettacolo che insieme forniranno di sicuro molto presto, Andrea Scanzi e Lilli Gruber: lei è la cazzara rossa, lui è il cazzaro giallo sì, ma come un quadro di Rotko, non come il risotto che è troppo banale. Osservate le posture. Impressiona la loro testa, essa se mai ce l' avessero, è nascosta da una lingua che ciondola e gira come un criceto sulla ruota del nulla. Cazzari.

Di Matteo infanga Berlusconi. Ira di FI: "In Rai è inaccettabile". Le dichiarazioni choc del pm: "Patto tra clan e Berlusconi". Insorgono gli azzurri: "Quello di Di Matteo un vaniloquio da mitomane". Angelo Scarano, Domenica 03/11/2019, su Il Giornale. Ancora una volta bufera sulla Rai. E questa volta tocca a Rai Tre e all'Annunziata. A scatenare una vera e propria bufera sono state le parole del pm Di Matteo ospite a In Mezz'Ora. Nel corso del suo intervento, il magistrato ha parlato anche del processo Dell'Utri lasciandosi andare a commenti che non hanno alcun fodnamento giudiziario. Di Matteo ha affermato: "Evidentemente questo paese sconta deficit di memoria su questi fatti. Voglio riferirmi alla sentenza di Cassazione che ha condannato il senatore Dell'Utri per concorso in associazione mafiosa. In quella sentenza viene consacrato un dato: nel 1974 venne stipulato un patto tra le più importanti famiglie mafiose palermitane e l'allora imprenditore Berlusconi, questo patto è stato rispettato almeno fino al 1992 da entrambe le parti. Dell'Utri è stato condannato come intermediario di quel patto che ha visto protagonista anche l'allora imprenditore Berlusconi". Parole molto pesanti che di fatto hanno scatenato l'immediata reazione di Forza Italia. Il primo a criticare fortemente l'intervista andata in onda sul servizio pubblico è Andrea Ruggieri, deputato di Forza Italia e membro della Commissione di Vigilanza Rai che all'Adnkronos afferma: "Oggi su Rai Tre è andato in onda un vaniloquio da mitomane, protagonista il dott. Nino Di Matteo, sedicente magistrato, di sicuro membro del Csm con l'ossessione per Silvio Berlusconi, che cita a casaccio dati giudiziari e si duole -a che titolo, non si sa- della presunta superficialità degli italiani. È la prova (televisiva), che chiunque a casa ha potuto per fortuna apprezzare, di quanto male possano intendere il loro delicatissimo e rispettabile lavoro alcuni magistrati vanitosi, a caccia di protagonismo personale e politico. Non solo inventano processi ridicoli e squalificanti persino per uno studente di giurisprudenza (figuriamoci per un magistrato) ma pretendano pure che diventino, per tutti gli italiani, unico elemento di discriminazione politica verso chi, evidentemente, qualificano loro avversario politico. Fossi un magistrato, mi guarderei la puntata di Mezz'Ora in più, prenderei appunti per capire come non ci si comporta se si vuol bene alla magistratura, e poi chiederei a Di Matteo i danni d'immagine". Poi è intervenuto anche il portavoce dei gruppi alla Camera e al Senato, Giorgio Mulè: "Oramai in Rai siamo all’anarchia informativa: oggi pomeriggio è stato il turno di Rai Tre di incaricarsi di lordare impunemente Silvio Berlusconi attraverso un’intervista a un magistrato nella trasmissione di Lucia Annunziata. Accostare il presidente Berlusconi e Forza Italia addirittura alle stragi di Cosa Nostra degli anni Novanta - aggiunge - merita solo un’espressione: fa schifo. Perchè significa bestemmiare la storia e l’impegno di Berlusconi, dei governi a sua guida e di Forza Italia per fare in modo di arrestare i boss e far pagare ai mafiosi in carcere ogni loro responsabilità. Un impegno straordinario che oggi non ha trovato spazio in Rai, neanche sotto forma di dubbio, durante l’inginocchiamento davanti al magistrato intervistato. Questa Rai delle marchette al governo e della crocifissione dell’opposizione merita la stessa espressione dell’intervista di oggi: fa schifo".

Striscia la Notizia, Lucia Annunziata e il lapsus contro Salvini? Il terribile sospetto di Ezio Greggio. Libero Quotidiano il 10 Dicembre 2019. Anche Striscia la Notizia torna su uno dei momenti televisivi più impensabili e divertenti probabilmente dell'anno, ovvero quando Lucia Annunziata a Mezz'ora in più ha chiesto a Matteo Salvini perché indossasse un "coglioncino a collo alto". Il punto è che il leader della Lega aveva indosso un curioso lupetto nero, e l'Annunziata domandava: "Sono state scritte molte parole per il fatto che ha cambiato look: ci spiega perché si è messo il coglioncino, il maglioncino a collo alto?". La gaffe è servita, tanto che anche Salvini ride evidentemente imbarazzato. E nel servizio confezionato sulla gaffe a Striscia la Notizia, la voce fuori campo di Ezio Greggio rimarca: "Massì, praticamente gli ha dato del coglioncino". E ancora, sempre Ezio Greggio avanza un terribile sospetto: "Ma una giornalista che pensa che Salvini abbia un coglione sotto al mento pensa che il leghista sia una testa di cazzopitano?", conclude.

Lucia Annunziata nel mirino di FI: la puntata di Mezz'ora in più con il pm Di Matteo è un processo al Cav. Libero Quotidiano il 3 Novembre 2019. Dopo le accuse di Daniela Santanchè alla Rai, rea di fare una televisione di parte, viale Mazzini torna a scatenare la bufera. Questa volta nel mirino è Lucia Annunziata e il suo programma Mezz'ora in più, dove si è assistito a un vero e proprio processo contro Berlusconi. Ospite della trasmissione è il pm Nino Di Matteo il quale - senza ragione - si è sbilanciato sul l'udienza Dell'Utri con tanto di commenti privi di riscontro giudiziario.  "Evidentemente questo paese sconta deficit di memoria su questi fatti. Voglio riferirmi alla sentenza di Cassazione che ha condannato il senatore Dell'Utri per concorso in associazione mafiosa. In quella sentenza viene consacrato un dato: nel 1974 venne stipulato un patto tra le più importanti famiglie mafiose palermitane e l'allora imprenditore Berlusconi, questo patto è stato rispettato almeno fino al 1992 da entrambe le parti. Dell'Utri è stato condannato come intermediario di quel patto che ha visto protagonista anche l'allora imprenditore Berlusconi". Ma Forza Italia non è rimasta di certo a guardare: "Oggi su Rai Tre è andato in onda un vaniloquio da mitomane, protagonista il dott. Nino Di Matteo, sedicente magistrato, di sicuro membro del Csm con l'ossessione per Silvio Berlusconi, che cita a casaccio dati giudiziari e si duole - a che titolo, non si sa inveisce Andrea Ruggieri, deputato di Forza Italia e membro della Commissione di Vigilanza Rai all'Adnkronos - della presunta superficialità degli italiani. È la prova (televisiva), che chiunque a casa ha potuto per fortuna apprezzare, di quanto male possano intendere il loro delicatissimo e rispettabile lavoro alcuni magistrati vanitosi, a caccia di protagonismo personale e politico".

Le 10 fake news più lette su Facebook negli Usa: dalla famiglia Trump ai "raggiri" di Nancy Pelosi. Pubblicato lunedì, 11 novembre 2019 su Corriere.it da Francesco Tortora. Da almeno 3 anni le fake news sono il peggiore incubo di Mark Zuckerberg. Facebook, il social network nato nel 2004 e che conta quasi 2 miliardi di utenti, ogni giorno è invaso da notizie false che manipolano il pubblico americano (e non solo). Secondo uno studio presentato dalla società non-profit Avaaz le prime 100 notizie false su Facebook nel 2019 sono state visualizzate oltre 150 milioni di volte: "Abbastanza per raggiungere ogni elettore registrato almeno una volta" ha commentato Avaaz. La società ha stilato la top ten delle fake news più viste sul social network negli Usa. La notizia falsa più popolare prende di mira l'attuale inquilino della Casa Bianca e i suoi parenti più stretti. La bufala dichiara: "Il nonno di Trump era uno sfruttatore di prostitute ed evasore fiscale; suo padre era un membro del Ku Klux Klan". 

I raggiri di Nancy Pelosi. La seconda fake news più letta prende di mira Nancy Pelosi, Speaker della Camera dei rappresentanti e figura di spicco del Partito democratico negli Usa: "Nancy Pelosi sposta 2,4 miliardi di dollari dalla previdenza sociale per finanziare l'inchiesta sull'impeachment" dichiara la notizia falsa pubblicata su Facebook. 

Alexandria Ocasio-Cortez e le moto. Tra i rappresentanti politici più attaccati dalle fake news c'è la 29enne Alexandria Ocasio-Cortez, la più giovane parlamentare donna eletta al Congresso. La terza bufala più letta su Facebook recita: "Alexandria Ocasio-Cortez presenta una legge per vietare la circolazione delle moto su scala nazionale". 

L'impeachment per il vicepresidente Pence. Quarta bufala che va forte su Facebook negli Usa sostiene: "Trump ora sta cercando di mettere in stato d'accusa il vicepresidente Mike Pence".

La deputata musulmana e il terrorismo. Sono tante anche le fake news contro i politici musulmani. La quinta bufala più letta su Facebook prende di mira Ilhan Omar, politica somala naturalizzata statunitense, dal 2019 membro della Camera dei Rappresentanti per lo Stato del Minnesota. La bufala recita: "Ilhan Omar organizza una raccolta fondi segreta con gruppi islamici legati al terrorismo ". 

Il figlio di Nancy Pelosi e gli affari in Ucraina. Uno dei casi più dibattuti negli Usa è l'affaire Ucraina e le promesse fatte da Trump al presidente Zelensky in cambio di indagini sul figlio di Joe Biden. Le fake news insistono sugli interessi economici degli esponenti democratici e dei loro parenti nel Paese dell'Europa orientale. La sesta bufala più letta negli Usa dichiara: "Il figlio di Nancy Pelosi era un alto dirigente presso la società del gas che faceva affari in Ucraina". 

Immigrati  versus veterani di guerra. La settima fake news più letta incolpa i politici del partito democratico di tenere più a cuore gli immigrati che i soldati americani: "I democratici votano per migliorare subito l'assistenza medica ai clandestini, ma bocciano i veterani di guerra che aspettano lo stesso servizio da 1o anni" dichiara la bufala. 

La falsa citazione. L'ottava fake news è la citazione (falsa) dell'attore americano Tim Allen che avrebbe detto: "Il muro del Presidente Trump costa meno del sito di Obamacare (la riforma sul sistema sanitario portata a termine dall'ex Capo di Stato americano ndr)". 

Il suicidio di Epstein e i Clinton. La nona fake news suggerisce che i Clinton siano dietro la morte in carcere di Jeffrey Epstein e che il pedofilo milionario non si sia suicidato : "Il medico legale che ha accertato il suicidio di Jeffrey Epstein guadagnava mezzo milione di dollari lavorando alla Clinton Foundation fino al 2015". 

Joe Biden contro i sostenitori di Trump. Chiude la rassegna la decima fake news più letta su Facebook e che ha come protagonista l'ex vicepresidente degli Usa Joe Biden che in una dichiarazione avrebbe offeso i sostenitori di Trump: "Sono la feccia della società" avrebbe dichiarato l'ex senatore del Delaware. 

Web, Repubblica in testa tra i follower della politica. Boom dei siti di ultradestra. Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Secondo una ricerca, i loro follower rilanciano i due terzi delle bufale in Rete. Una ricerca spiega cosa condividono gli utenti che seguono i leader. Disinformazione, i due terzi delle bufale rilanciate da fan di Salvini e Meloni. Riccardo Luna il 12 novembre 2019 su La Repubblica. Grande è la confusione sotto il cielo dei social quando si discute di politica. Ma c'è una cosa che sembra unire i sostenitori di Matteo Salvini e di Matteo Renzi, di Luigi Di Maio e di Giorgia Meloni: è Repubblica la fonte di informazione più condivisa e rilanciata dai follower di tutti gli schieramenti. Lo afferma una ricerca condotta su Twitter dal 10 ottobre al 9 novembre. Usando un software molto diffuso per l'analisi delle conversazioni social, Matteo Flora (docente di reputazione online) ha esaminato tutti i contenuti ritwittati dai follower di otto fra i principali leader politici. Oltre ai quattro già citati, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il segretario del Pd Nicola Zingaretti a cui sono state aggiunte due esponenti della sinistra molto attive sui social media, Laura Boldrini e Monica Cirinnà. Tutti sommati i follower che hanno postato almeno un tweet nell'ultimo mese costituiscono un campione di tre milioni e 155 mila utenti. Naturalmente qualcuno è follower di due o più politici, ma questo secondo Flora non cambia il senso della ricerca: capire come funziona la macchina del consenso online, misurare il peso di propaganda e disinformazione rispetto alle notizie, e in quale campo politico si muovono meglio. Sul fronte delle testate giornalistiche, il primato di Repubblica è netto: con quasi 550 mila condivisioni, il quotidiano fondato da Scalfari totalizza il doppio delle condivisioni del sito che si piazza secondo, Ilfattoquotidiano. Si tratta di un primato trasversale, che attraversa i follower di tutti gli schieramenti: infatti è al sesto posto fra i seguaci di Salvini, al quarto fra quelli della Meloni, al terzo fra quelli di Di Maio, al secondo fra quelli di Conte, Renzi e Boldrini, e al primo per quelli di Zingaretti. Gli aspetti sorprendenti però sono altri. Intanto il primato assoluto di YouTube: la piattaforma video di Google, con un milione e 700 mila condivisioni in un mese, domina la conversazione politica totalizzando quanto le prime cinque testate giornalistiche sommate assieme. Su YouTube c'è di tutto: informazione, propaganda, eventi e anche una dose di fake news ed hate speech, fenomeni contro cui Google da un po' si sta muovendo con maggiore fermezza. E questo ci porta al cuore della ricerca: quanto pesano disinformazione e propaganda? Sono interessanti alcuni dati. Il primo è che i siti stranieri di informazione più condivisi nell'ultimo mese sono Breitbart e FoxNews, capisaldi dell'informazione sovranista: battono il New York Times e il Guardiansfondando il muro delle centomila condivisioni, generate dai sostenitori di Salvini (prevedibili) e, in misura minore ma non trascurabile, di Conte. Il secondo dato interessante riguarda quel complesso di siti alternativi che a volte non sono testate giornalistiche ma che svolgono lo stesso una funzione nel mondo delle news: il primo posto va a thegatewaypundit, il sito dell'estrema destra americana (circa 120 mila retweet), seguito fra gli altri, da Russia Today e Sputnik News. In questa galassia si muovono i follower di un solo leader: Salvini. Diverso il discorso per i siti notoriamente impegnati a diffondere notizie false con lo scopo di diffondere razzismo e xenofobia. Viene fuori che un po' di questa "spazzatura" è rilanciata (forse anche per stigmatizzarla, come è probabile) persino dai follower di Zingaretti e Renzi. Ma i numeri sono numeri: i follower di Salvini e della Meloni, secondo Flora, sarebbero responsabili di rilanciare oltre due terzi delle bufale. Quanto pesa complessivamente la disinformazione? In un mese genera circa 350 mila condivisioni. Molto ma molto di più di quanto ottengono i siti della gran parte delle testate giornalistiche.

Report, Sigfrido Ranucci colpito dagli hacker: "Sono entrati nel suo conto corrente in banca". Libero Quotidiano il 15 Novembre 2019. Bruttissima sorpresa per Sigfrido Ranucci, il conduttore di Report finito in prima pagina nelle ultime settimane per un paio di puntate durissime contro Matteo Salvini e Giorgia Meloni. La sua banca, spiega un comunicato stampa di Fnsi e Usigrai, ha informato il giornalista "che il suo account bancario è stato violato da un hacker operante in un Paese dell'Est europeo. L'attività di spionaggio sarebbe stata finalizzata ad acquisire dati personali relativi all'identità, alla residenza, ai familiari. Tra i dati violati anche quelli aziendali, in particolare mail e cellulare. Elementi preoccupanti che appaiono ancora più inquietanti se collegati alle polemiche e alle minacce ricevute dalla redazione di Report dopo le documentate inchieste relative proprio alle fabbriche dell'odio e alle multinazionali delle fake news che, non casualmente, hanno la loro sede anche nei paesi dell'Est". "Fnsi ed Usigrai - si legge - condivideranno e sosterranno tutte le iniziative che Ranucci e la redazione di Report decideranno di promuovere in tutte le sedi, compresa quella giudiziaria". 

Report, hackerato il conto del conduttore Ranucci: «Non sono tranquillo». Pubblicato sabato, 16 novembre 2019 da Corriere.it. Un hacker operante in un Paese dell'est europeo ha violato il conto corrente di Sigfrido Ranucci, il conduttore di Report, non per prelevare soldi ma per spiare e acquisire dati sulla sua identità, la residenza, i suoi familiari, e informazioni aziendali come la mail e il cellulare. «Elementi preoccupanti che appaiono ancora più inquietanti se collegati alle polemiche e alle minacce ricevute dalla redazione di Report dopo le documentate inchieste relative proprio alle fabbriche dell'odio e alle multinazionali delle fake news che, non casualmente, hanno la loro sede anche nei paesi dell'Est», denunciano in coro Usigrai, il sindacato della Rai, e Fnsi, Federazione della stampa. In realtà il conduttore è già da dieci anni sotto tutela: è lui stesso a raccontarlo all'Adnkronos, spiegando che casa sua è sorvegliata ciclicamente dai carabinieri «ma ora sapere che c'è chi sa esattamente dove abito con la mia famiglia non è una cosa che mi fa sentire tranquillo». Il punto è capire se, come spera Ranucci, si tratti solo «di un'incursione fatta anche a danno di altri cittadini», oppure se c'è una «coincidenza» col lavoro condotto dalla trasmissione di inchiesta «che deve necessariamente farmi aprire gli occhi», sottolinea il giornalista. «Detto questo, se qualcuno ha tentato di fare questa operazione solamente per cercare di hackerare la dedizione al lavoro, mia e della squadra di `Report´, ha sbagliato. Non ci facciamo infettare da questo virus che punta a minare la nostra passione per il lavoro». «Report – riflette Ranucci - è un nodo nevralgico dove passano dati sensibili, contatti con le fonti, dove arrivano richieste legali, dove scambiamo informazioni con gli avvocati che ci devono difendere. Tutto questo rende molto più difficile l'esercizio di giornalismo di inchiesta per una trasmissione che è continuamente già sotto lo scacco di richieste milionarie di risarcimento danni. Noi abbiamo avvocati che si sono dimostrati integerrimi negli anni, bravissimi a difenderci, ma se un domani qualcuno, conoscendo la nostra rete di legali e consulenti, potesse arrivare a leggere le nostre strategie difensive, sarebbe una situazione rischiosissima per noi e per le fonti». La mail aziendale infatti riconduce a tutti i contatti della redazione, anche alle fondamentali fonti anonime che sono proprio quelle da cui parte il giornalismo d'inchiesta. «Noi riceviamo 75.000 segnalazioni ogni anno di persone che denunciano chiedendo l'anonimato – racconta Ranucci - Se Report, invece, diventasse incapace di preservare il loro anonimato, ci sarà ancora voglia da parte delle persone di continuare a denunciare sulle mail aziendali?». Secondo Ranucci, quanto accaduto testimonia la «vulnerabilità» della democrazia, perché, nonostante sia facile «bucare una banca, ci viene imposto per legge di dare alle banche tutte le informazioni sulla nostra privacy». Secondo Selvaggia Lucarelli, l'attacco non sarebbe riconducibile ad un tentativo di fermare il lavoro di Report: «Considerato che sono stati violati dati a 3 milioni di clienti nella stessa banca del conduttore di Report e di un file generato nel 2015 (anno in cui Ranucci ha aperto il conto in UniCredit) credo serva prudenza prima di parlare di hackeraggio mirato». Ma la security della Rai è al lavoro in queste ore per verificare se ci sono rischi per l'azienda considerato che esistono spyware che possono penetrare attraverso un indirizzo mail o un cellulare nell'intranet di un'azienda. Non solo: essendo Ranucci il responsabile della trasmissione è contestualmente anche il terminale di tutte le informazioni più sensibili. Sulla sua mail, spiegano le fonti, viaggiano file audiovisivi, copioni, inchieste che sono in preparazione, che stanno per andare in onda, documenti legali, testi sensibili. Tutte informazioni, inclusi i numeri telefonici delle fonti e ogni altro numero, che, sottolineano, potrebbero rendere più vulnerabile un'inchiesta giornalistica. Intanto iniziano ad arrivare i messaggi di solidarietà per Ranucci. Fabio Fazio parla su Twitter di «episodio inquietante» dando solidarietà al conduttore e alla sua trasmissione. «Conosco Sigfrido #Ranucci e tutti i colleghi di #Report. Non saranno di certo questi odiosi accadimenti a fermare il loro lavoro e dedizione al giornalismo d'inchiesta. Forza Sig! #serviziopubblico», scrive invece il consigliere d'amministrazione della Rai, Riccardo Laganà. Operativi Fnsi ed Usigrai, pronti a condividere e sostenere «tutte le iniziative che Sigfrido Ranucci e la redazione di Report decideranno di promuovere in tutte le sedi, compresa quella giudiziaria».

AGGIORNAMENTO LA FABBRICA SOCIAL DELLA PAURA Di Giorgio Mottola.

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE La cosa che salta all’occhio è l’unione, gli stessi follower, uguali e identici tra Giorgia Meloni e Trash Italiano.

GIORGIO MOTTOLA Che cosa emerge da questa analisi?

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Emerge che praticamente tra Giorgia Meloni e Trash Italiano i follower a maggio del 2019 erano gli stessi praticamente. Non c’è quasi differenza. Questo è un caso rarissimo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Trash Italiano è una pagina social che si occupa di gossip e di televisione. Dalle analisi di Orlowsky risulta che a maggio l’account twitter di Giorgia Meloni condividesse pressoché gli identici follower con il sito specializzato in meme e gif animate. Una coincidenza più unica che rara. Ma che tipo di account hanno in comune Giorgia Meloni e Trash Italiano?

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Qua hanno in comune più di 237 mila account, in questo momento. Se poi io dico, fammi vedere solo gli account, che non hanno più di 10 follower, vedi che il numero non scende quasi.

GIORGIO MOTTOLA Quindi la maggior parte degli account che seguono sia…

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Sono nati nel lasso di due anni…

GIORGIO MOTTOLA Giorgia Meloni che Trash Italiano hanno meno di 10 follower.

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Hanno meno di 10 follower e sono tutti nati nello stesso lasso di tempo.

GIORGIO MOTTOLA Lei per i suoi account social ha mai comprato dei follower?

GIORGIA MELONI – SEGRETARIA FRATELLI D’ITALIA No.

GIORGIO MOTTOLA E come mi spiega questa stranezza? Guardi. Questo è il numero dei suoi follower e questo quello di Trash Italiano. Praticamente coincidono. Sono…

GIORGIA MELONI – SEGRETARIA FRATELLI D’ITALIA Mai comprato follower in vita mia. Io non so neanche che cos’è Trash Italiano. GIORGIO MOTTOLA Lo sa che questi account invece ritwittano i suoi contenuti e sono tutti anomali perché hanno meno di 10 follower e sono stati creati tutti quanti nello stesso periodo.

GIORGIA MELONI – SEGRETARIA FRATELLI D’ITALIA Non li ho mai comprati in vita mia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dalle ricerche di Orlowsky sui follower della Meloni emerge anche un’altra coincidenza piuttosto singolare. La cantante Francesca Michelin, famosa per la sua voce e non certamente per il suo impegno e le sue posizioni politiche, allo scorso maggio aveva circa il 34 per cento dei follower in comune con la Meloni. E tali profili coincidevano con quelli condivisi dal leader di Fratelli d’Italia con Trash Italiano con il quale Francesca Michelin nega qualsiasi contatto.

GIORGIO MOTTOLA Anche questa è un’altra stranezza.

GIORGIA MELONI – SEGRETARIA FRATELLI D’ITALIA Quindi pure Francesca Michelin si compra i follower?

GIORGIO MOTTOLA Questo non lo so. Coincidono con i suoi e con quelli di Trash Italiano.

GIORGIA MELONI – SEGRETARIA FRATELLI D’ITALIA Ripeto. Io soldi per comprare follower finti non ne ho e la considererei anche un’idiozia francamente. Cioè che me ne faccio? No, non è che c’ho il problema fammi seguire da gente finta perché ringraziando Dio, mi segue la gente vera.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO In questo servizio abbiamo denunciato la presenza di account anomali tra i followers dell’onorevole Meloni. Ecco, i giorni seguenti ci ha accusato di aver detto delle falsità e di aver prodotto un giornalismo spazzatura. La sua versione è stata presa per buona anche da autorevoli giornali, anche perché quando ha presentato una conferenza stampa l’onorevole Meloni è stata particolarmente convincente, ha detto: “smonteremo il castello di menzogne messo su da Report. Portatevi i popcorn”. Ecco, di fronte all’invito di portarsi i pop corn, vi pare che il nostro Giorgio Mottola poteva mancare?

CONFERENZA STAMPA 4 NOVEMBRE 2019 GIORGIA MELONI –PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Quella è spazzatura giornalistica e io mi vergogno di un servizio pubblico che sostiene tesi di questo tipo. E che per creare il mostro che non è in grado di dimostrare falsifica i dati sui social network. Per costruire una teoria, questo è esattamente quello che è andato in onda su Report.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E per smontare i risultati della nostra inchiesta, durante la conferenza mostra questo video.

VIDEO FRATELLI D’ITALIA – CONFERENZA STAMPA 4 NOVEMBRE 2019 Il giornalista di Report afferma che la pagina di Giorgia Meloni e Trash italiano condividerebbero pressoché gli stessi follower presentando un grafico mistificatorio e falso con sovrapposizione quasi completa. Il dato reale è invece che solo il 29 percento dei follower di Giorgia Meloni segue anche Trash italiano.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ciò che non specifica Fratelli d’Italia è che i dati da loro riportati fotografano soltanto la situazione attuale. Gli stessi numeri infatti li avevamo citatati anche noi nel servizio della settimana scorsa parlando di oltre 237mila account condivisi con Trash Italiano al momento delle analisi.

LA FABBRICA SOCIAL DELLA PAURA - 28/10/2019 ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Guarda ti faccio un esempio qua hanno in comune più di 237 mila account, in questo momento.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Invece l’anomalia sui profili, come avevamo detto, si riferiva a maggio 2019 ed era certificata anche da questo report di pochi giorni prima, dello scorso 26 aprile rilasciato da Audiense, che tra l’altro è la stessa fonte usata da Fratelli d’Italia. Ma per analizzare i follower della Meloni, noi avevamo adoperato anche un altro software, Metatron Analytics, accreditato a livello internazionale.

GIORGIO MOTTOLA Ma quanto è attendibile il software Metatron?

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE È attendibile al 100 percento perché si basa sui dati forniti ufficialmente tramite richiesta dalle porte di accesso che si chiamano Api dei social network. Per questo è utilizzato per la lotta alle fake news e per la reputation on line da varie entità governative e non in tutta d’Europa.

GIORGIO MOTTOLA Che cosa si può fare con Metatron?

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Con Metatron si possono fare tantissime cose; passo subito a farti vedere una schermata ad esempio. Questi sono tutti gli account che stanno ritwittando e commentando l’onorevole Giorgia Meloni. Qui abbiamo già fatto una piccola selezione delle applicazioni che stanno utilizzando. Ad esempio Twitter per Android, Twitter per web e poi cominciamo a vedere anche delle cose anche un po’ strane, tipo un software chiamato TM SCBL 56 D.

GIORGIO MOTTOLA Quello che cos’è? Un bot?

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Questo è un bot, ma un bot chiarissimo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E cioè un account automatizzato che pubblica post a raffica.Dopo l’intervista che ci ha rilasciato la scorsa settimana, Orlowsky è stato sommerso da insulti e minacce, lasciati sulle pagine social ufficiali di Giorgia Meloni. C’è chi ha scritto che riaprirebbe i forni crematori per quelli come lui. Chi lo gonfierebbe di botte e chi suggerisce di mettere nome, cognome e indirizzo dello stronzo… poi magari ci pensa qualcuno.

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Ribadisco che voglio che gli italiani conoscano, sappiano, che purtroppo Report non è più affidabile.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E visto che per Giorgia Meloni Report non è più affidabile siamo andati da uno dei cacciatori di bufale on line più autorevoli d’Italia: David Puente, il quale ha analizzato le accuse mosse da Giorgia Meloni contro la nostra trasmissione.

DAVID PUENTE – FACT-CHECKER OPEN.ONLINE Il video che è stato pubblicato on line per rispondere alla vostra trasmissione è molto semplicistico. È più che altro una risposta che dà ai suoi fan: come Trump, c’è una notizia che riguarda lui dice “fake news” e gli utenti rispondono “fake news”.

GIORGIO MOTTOLA Sono fondate quelle accuse?

DAVID PUENTE – FACTCHECKER OPEN.ONLINE Voi parlate delle analisi fatte nel mese di maggio. Mentre quello che è stato usato per raccontare nel video di risposta sono proprio dati odierni. Sono passati parecchi mesi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma c’è un’altra accusa che Giorgia Meloni in conferenza stampa ha mosso nei nostri confronti. GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Secondo Report abbiamo detto che gli account sospetti sono quelli che non avrebbero foto e hanno meno di venti follower. Secondo questi criteri Report avrebbe il 32 per cento di profili che corrispondono a questo identikit e un politico come Nicola Zingaretti il 40 per cento. Però Nicola Zingarelli non gliel’hanno fatta una puntata di Report.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per coincidenza, quelle della Meloni sono le stesse contestazioni che la settimana scorsa hanno mosso contro di noi i neofascisti di Primato Nazionale, l’organo di stampa di Casapound. A loro avviso, buona parte dei nostri follower sarebbero falsi in base all’analisi di Twitter Audit, un software che però analizza solo 5000 account.

DAVID PUENTE – FACT-CHECKER OPEN.ONLINE Non è uno strumento adatto per fare analisi serie. Se voi avete un milione di fan questo tool fa solamente un’analisi degli ultimi cinquemila che hanno fatto following al vostro account. Io ho fatto un account falso, in cui ho invitato gli utenti a seguirlo, in più ho comprato dei follower in maniera tale da vedere se questo tool li individuava come falsi. Non li ha individuati. GIORGIO MOTTOLA Non si è accorto che erano falsi.

DAVID PUENTE – FACTCHECKER OPEN.ONLINE No, non si è accorto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma al di dà di quanti siano gli account reali e quanti i fasulli, che cosa fanno sui social network i follower di leader sovranisti come Meloni e Salvini? Matteo Flora, professore a contratto dell’Università di Pavia, ha analizzato i loro comportamenti on line.

MATTEO FLORA – PROFESSORE CORPORATE REPUTATION UNIVERSITÀ PAVIA Analizzando cosa hanno condiviso più di mezzo milione di persone, ci siamo trovati che, tra i siti più condivisi, sia per l’uno sia per l’altra, ci sono siti notori di disinformazione.

GIORGIO MOTTOLA Quindi i follower di Matteo Salvini e Giorgia Meloni spammano sul web notizie false.

MATTEO FLORA – PROFESSORE CORPORATE REPUTATION UNIVERSITÀ PAVIA Sì. Ne spammano una buona quantità.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel corso dell’ultimo mese i fan di Giorgia Meloni hanno condiviso per 12mila volte contenuti del sito Imola Oggi e oltre 10mila volte materiali di Vox News. Si tratta di siti famosi per aver pubblicato notizie false o manipolate, soprattutto sul tema dell’immigrazione.

MATTEO FLORA – PROFESSORE CORPORATE REPUTATION UNIVERSITÀ PAVIA Il problema è proprio quello: trasformare qualcosa che magari è irreale in qualcosa che la gente percepisce come reale. Joseph Goebbels, ministro della Propaganda del Terzo Reich, diceva che una menzogna, condivisa un numero sufficientemente ampio di volte, diventa una verità.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In soli trenta giorni i follower di Salvini e Meloni hanno condiviso insieme quasi mezzo milione di contenuti provenienti dal mondo della disinformazione.

CONFERENZA STAMPA 4 NOVEMBRE 2019 GIORGIA MELONI- PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA La tesi che Report cerca di dimostrare è che ci sarebbe una specie di regia sovranista occulta, internazionale, tendenzialmente filorussa, ma anche con l’aiuto di Bannon, quindi degli Stati Uniti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Questa è l’altra notizia falsa che secondo Giorgia Meloni avremmo mandato in onda la scorsa settimana. Negli ultimi tempi sia Matteo Salvini che Giorgia Meloni hanno più volte incontrato Steve Bannon, l’ex capo stratega di Donald Trump, che lo scorso anno, a un’iniziativa pubblica di Fratelli d’Italia, ha offerto il suo aiuto.

STEVE BANNON – EX STRATEGA DONALD TRUMP Io vi posso aiutare focalizzandoci sulle prossime europee per vincerle. Vi possiamo fornire e far realizzare sondaggi, analisi di big data, preparare cabine di regia, tutto quello di cui si ha bisogno per vincere le elezioni. Vi aiutiamo in modo gratuito.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per questa ragione, abbiamo approfittato della conferenza stampa per chiarire il ruolo di Steve Bannon in Italia.

CONFERENZA STAMPA 4 NOVEMBRE 2019 GIORGIO MOTTOLA Può chiarire una volta per tutte qual è il rapporto tra lei e Steve Bannon, tra Fratelli d’Italia e Steve Bannon?

GIORGIA MELONI- PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Guardi, veramente tanto rispetto. Perché ci vuole veramente un gran coraggio. Steve Bannon è stato ospite ad Atreju, io ho incontrato Steve Bannon nella mia vita tre volte, non ho alcun rapporto con Steve Bannon che non sia, appunto, quello che lei ha visto pubblicamente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma la parte meno nota è proprio quella privata: qualche mese fa ha partecipato infatti a incontri privati con Bannon e rappresentanti di The Movement, il suo movimento politico europeo. Lo testimoniano queste immagini girate a Venezia da una troupe del quotidiano inglese The Guardian.

GIORNALISTA THE GUARDIAN Fratelli d'Italia è un partito che ha un'eredità vicina al fascismo o post-fascista, giusto?

GIORGIA MELONI Heritage è “eredità”? Siamo il partito della destra in Italia, ma sa cosa? Io sono nata nel 1977, il fascismo è finito 30 anni prima, non ci sono connessioni. Noi non siamo fascisti.

GIORNALISTA THE GUARDIAN Steve, quando mi hai detto che avremmo incontrato Giorgia, mi hai descritto Fratelli d'Italia come un partito neofascista.

STEVE BANNON – EX STRATEGA DONALD TRUMP Quando l’avrei detto?

GIORNALISTA THE GUARDIAN Due volte.

STEVE BANNON – EX STRATEGA DONALD TRUMP Non penso di averlo mai detto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma questo audio che mandiamo per la prima volta in onda in Italia, mostra come Steve Bannon aveva davvero presentato Giorgia Meloni al collega inglese.

AUDIO STEVE BANNON GIORNALISTA THE GUARDIAN Come si chiama?

STEVE BANNON – EX STRATEGA DONALD TRUMP Giorgia Meloni. La donna. GIORNALISTA THE GUARDIAN Fratelli d’Italia è uno dei vecchi partiti fascisti uno dei vecchi partiti di destra.

STEVE BANNON – EX STRATEGA DONALD TRUMP Era fascista. Ma neo.

GIORNALISTA THE GUARDIAN Neo…

STEVE BANNON – EX STRATEGA DONALD TRUMP Ricorda il teorema Bannon: dai un volto presentabile al populismo di destra e verrai eletto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’onorevole Meloni non poteva certo immaginare che Bannon l’avesse presentata al collega inglese come una neo fascista. Ecco, bisognerebbe bacchettarlo, se lo vede, Bannon, ricordargli che la Costituzione italiana vieta in qualsiasi forma la ricostituzione di un partito fascista. Ricapitolando, che cosa è accaduto? Che i tecnici informatici dell’onorevole Meloni hanno analizzato i profili dei follower, gli account, ma nel momento attuale. Hanno fatto una fotografia dell’attualità. Noi invece avevamo denunciato le anomalie degli account nel periodo di maggio, anomalie che confermiamo ancora oggi, che vengono confermate anche da un report del 26 aprile, che è stato elaborato con un software, lo stesso che è stato utilizzato dai tecnici di Fratelli d’Italia nel tentativo vano di smentirci. Poi noi avevamo anche utilizzato un altro software, il Metatron, che è un software specializzato per identificare fake news e account anomali, che si è fregiato anche di un riconoscimento prestigioso internazionale, quello dello Iaf Challenge. E poi il destino ha voluto che il nostro Giorgio, mentre stava facendo le verifiche sugli account anomali, che cosa ha fatto? Dopo le accuse di falso ha beccato un follower che aveva un account automatizzato e sparava a raffica post dal contenuto sovranista. Ecco, siamo andati per capirne di più dal docente universitario a Pavia Matteo Flora, che è esperto in corporate reputation. Lui ci ha messo a disposizione le sue analisi, dalle quali emerge che nell’ultimo mese, mentre ci accusavano proprio di aver detto delle falsità, i follower di Matteo Salvini e Giorgia Meloni avrebbero ritwittato oltre mezzo milione di contenuti presi da siti che producono notoriamente fake news, siti di disinformazione. Ecco, tutto questo per dire cosa? Per rassicurare l’onorevole Meloni. Report è stata, è e sarà ancora, almeno finché ci siamo noi, un presidio di indipendenza, pluralismo, di verità. Non lo diciamo noi, ma è stato sancito in venticinque anni di storia, quasi, in un secolo un quarto di secolo, dai tribunali. Una verità al servizio del pubblico che paga il canone, a differenza delle fake news che vengono propalate attraverso il web. E qui l’onorevole Meloni avrà sempre la porta aperta. Se continua invece a pensare che abbiamo detto il falso ci denunci in un tribunale, perché un’inchiesta giornalistica deve essere valutata per la verità, non se è ruvida al potere politico.

Giorgia Meloni contro Report: "Ma se vi denuncio paga Report o mamma Rai con i soldi degli italiani?" Libero Quotidiano il 12 Novembre 2019. Report continua la propria crociata contro Giorgia Meloni. Dopo l'inchiesta smontata punto per punto per cui la leader di Fratelli d'Italia condivideva "account anomali" con Trash Italiano e Francesca Michelin, il programma di Rai3 ci riprova. Questa volta il conduttore Sigfrido Ranucci, nella puntata andata in onda lunedì 12 novembre, è tornato sull'argomento "dimostrando - così ha detto - la veridicità della tesi". Peccato che per l'ennesima le prove presentate da Report facessero acqua da tutte le parti. O meglio, come la stessa Meloni ha commentato, i telespettatori hanno assistito a "un campionato mondiale di arrampicata sugli specchi". La replica alla leader, come da preventivato, non ha tardato ad arrivare. Lo staff di Report ha approfittato di Twitter per proseguire la fallimentare campagna. "Se la Meloni continua a pensare che abbiamo detto il falso ci denunci in un tribunale, perché un'inchiesta giornalistica deve essere valutata per la verità, non se è ruvida al potere politico". E così la Meloni ha replicato con una domanda: "Caro Ranucci, se denuncio e Report perde, i danni li pagate tu e Report, o li paga mamma RAI coi soldi dei contribuenti? Raccontalo agli italiani". Una richiesta lecita che però non ha ottenuto responso dai giornalisti pro-verità e trasparenza del programma. 

Maria Giovanna Maglie contro Report e Rai 3: gli account falso pro-Pd di cui non hanno parlato. Libero Quotidiano il 29 Ottobre 2019. Nuova puntata di Report, su Rai 3, contro Matteo Salvini e la Lega. Nel mirino del programma d'inchiesta i cosiddetti "sock puppets", ossia gli account social finiti, una sorta di bot, che servono a propagare il messaggio politico di un partito o di un leader. Report ha mostrato diversi casi sospetti che riguarderebbero Salvini, appunto, ma anche Giorgia Meloni. E - toh che caso - a Rai 3 si sono scordati di Paolo Gentiloni. Già, perché ci sono esempi esattamente uguali a quelli proposti da Report che riguardano il segretario del Pd. Esempi rilanciati su Twitter dall'account Arsenale k, e a loro volta rilanciati da Maria Giovanna Maglie, la quale aggiunge un laconico commento: "Tipo questi?".

Giorgia Meloni contro Report e la Rai: "Si difendono con le parole del Pd, questo è servizio pubblico?" Libero Quotidiano il 29 Ottobre 2019. "Ma è normale che una trasmissione del servizio pubblico utilizzi le dichiarazioni degli esponenti del Pd per attaccarmi?". Giorgia Meloni estrae dal cilindro la risposta perfetta contro Report, che su Twitter si rende protagonista di un clamoroso autogol. La trasmissione di Rai3 voleva mettere in cattiva luce la leader di Fratelli d'Italia, ma è inciampata in una discreta figuraccia, pubblicando una nota a firma della segreteria Pd intitolata: "Da Meloni stesso vizio di Salvini, chi si somiglia si piglia". Una caduta di stile non da poco, quella di Report, che getta via la maschera per correre in soccorso dei dem, i quali appaiono disperati all'indomani della debacle in Umbria. Eppure proprio a Rai 3 dovrebbero mostrare un minimo di riconoscenza a Meloni e Salvini dato che, nelle prime due puntate stagionali di Report, ha fatto registrare ascolti altissimi proprio sulla pelle dei due capi politici del centrodestra. La settimana scorsa l'inchiesta su Lega e Russia aveva attirato 2,152 milioni di spettatori, mentre ieri il picco da 2,650 milioni è stato toccato quando sono andate in onda le presunte tecniche di propaganda sovranista, proprio mentre Salvini era da Nicola Porro su Rete4. Intanto, per la Meloni non è finita qui la storia, a giudicare dal tweet che ha preceduto quello di Report in salsa Pd: "Mi hanno dedicato un bambinesco servizio degno di un circolo terrapiattista - scrive - 'gomblotto' sovranista, hacker cosacchi, bot e robot. Zero fatti, solo fango. Raccolgo i dati e faccio una conferenza per deridere questi “giornalisti di inchiesta”, ci sarà da ridere". 

Nanni Delbecchi per il “Fatto quotidiano” il 31 Ottobre 2019. Non sembrerebbe che Report abbia danneggiato più di tanto Matteo Salvini e la Lega nelle elezioni umbre, nonostante le accuse di avere violato la par condicio con l' inchiesta su Russiagate. E poi, perché? Per una vera violazione della par condicio devono esserci pari condizioni di partenza. L'altro giorno, mi racconta un amico professore di latino, ho sorpreso uno studente mentre si faceva suggerire il compito in classe. "Pierino, consegnami subito il compito". Lui si è ribellato. "Perché solo io? Prof, lei sta violando la par condicio." Finché non si scopriranno opache strategie internazionali di tutti partiti, occuparsi di quelle emerse violerà soltanto l'omertà. In effetti, un' altra par condicio viene regolarmente violata dalla trasmissione di Sigfrido Ranucci, ogni lunedì sera su Rai3: quella della fuffa. Nell' oceano di politici, politologi, e tuttologi, le stesse fanfaluche e la stessa fantapolitica sette giorni alla settimana, Report si ostina a occuparsi di fatti nell' unico modo possibile: con massicce documentazioni e inchieste sul campo. Lunedì, dal Russiagate alle connesse ombre della narrazione in Rete, gli account fittizi creati per ingannare gli algoritmi, creare viralità in provetta e costruire consenso (che sempre più spesso è l' altra faccia della paura). Così, mentre le opinioni si sostituiscono ai fatti, il digitale prevale sul reale. Le bugie hanno le gambe lunghe, diceva Eduardo. Oggi hanno addirittura i trampoli, con tanti saluti alla par condicio.

Le inchieste di «Report» e le visioni estreme nell’era dei social. Pubblicato mercoledì, 30 ottobre 2019 su Corriere.it da Aldo Grasso. Dopo le due puntate su «Russiagate» la gente si chiede «ma non succede nulla?». Per anni, dopo una puntata di Report condotto da Milena Gabanelli ho ricevuto lettere, mail e post all’insegna della rassegnazione. Il tono era sempre lo stesso: perché dopo una simile denuncia le forze dell’ordine non sono intervenute? Per anni ho cercato di spiegare che i tempi della magistratura e i tempi della tv sono diversi, molto diversi. Per questo, a fine stagione, la Gabanelli si premurava di farci sapere l’esito di alcune inchieste. Dopo le puntate di Report di lunedì della scorsa settimana e dell’altro ieri su Rai3 è successo qualcosa di analogo, riguardante però l’efficacia della tv. Come saprete, Sigfrido Ranucci ha presentato un’inchiesta di Giorgio Mottola sul presunto scandalo del Metropol di Mosca in cui sono rimasti impigliati Matteo Salvini (seppur non indagato) e il suo ex portavoce Gianluca Savoini, personaggio molto inquietante. Report ha raccontato di trattative della Lega per i soldi e il petrolio russo e della nascita di un asse tra forze estremiste in Russia e negli Stati Uniti: la «Fabbrica della paura». La forza della tv! Secondo alcuni lettori, una simile puntata (rafforzata dalla seconda), avrebbe fatalmente dato inizio al declino di Salvini. Evidentemente le cose non sono andate così, visto il trionfo della Lega in Umbria. Tv, opinione pubblica e magistratura continuano ad avere tempi differenti e, in tutta onestà, non sappiamo come andrà a finire la storia dei presunti finanziamenti russi. Ma l’«istituzione tv», non influenza più nessuno? Il mondo intero è ora iper-connesso e internet, nell’ambito della propaganda, è molto più efficace di altri media. La rete ha fatto saltare la tradizionale gerarchia delle notizie con il risultato che un’inchiesta durata mesi vale quanto un sentito dire su Facebook. In epoca di social, l’indistinta valanga dei social, il controllo delle notizie non pare più necessario: contano di più le visioni estreme e le notizie false.

Un dossier smentisce Report: ecco la verità sui follower Fdi. Fratelli d'Italia è passata al contrattacco e ha confutato punto su punto le accuse mosse dal servizio di Report dal titolo "La fabbrica social della paura". Francesco Curridori, Lunedì 04/11/2019 su Il Giornale. "Da Report sono tutte falsità, i numeri sono sballati. Si tratta di giornalismo spazzatura che falsifica dati che mi riguardano per costruire teorie surreali". Giorgia Meloni, durante una conferenza stampa tenutasi oggi alla Camera, è passata al contrattacco e ha risposto punto su punto al servizio della trasmissione di Raitre dal titolo "La fabbrica social della paura". Nel corso della puntata andata in onda lo scorso lunedì, 28 ottobre, si sosteneva che vi sia un collegamento anomalo tra l’account Twitter di Giorgia Meloni, quello della cantante Francesca Michielin e del canale social specializzato in meme Trash italiano. Secondo Report, l'account del leader di Fratelli d'Italia avrebbe fatto ricorso a follower 'anomali' dietro cui si nasconderebbero degli account “marionetta/Bot”, ossia pagati per portare avanti le idee promosse da una fantomatica “regia sovranista mondiale”. Fratelli d'Italia, usando “Audiense Connect”, lo stesso software adoperato dall'esperto di comunicazione social Alex Orlowski a cui si è rivolta Report, ha confutato le teorie complottiste esposte nel servizio del giornalista Giorgio Mottola. In base a tale servizio l'account Twitter della Meloni e Trash italiano, nel mese di maggio, hanno condiviso gli stessi follower. "Una coincidenza più unica che rara”, se non fosse falsa. Secondo il fact checking effettuato da Fratelli d'Italia, la Meloni ha in comune con Trash Italiano solo 241.000 follower, ovvero il 29% dei suoi follower. Report, inoltre, cita il dato dello scorso maggio e i dati riportati sono aggiornati a settembre, ma considerata la crescita costante dell’account Meloni, secondo FdI, è impossibile che a maggio ci fossero risultati diversi da quelli di settembre. Il 34% di questi fantomatici account 'anomali', definiti anche “marionetta o bot”, seguirebbero sia la Meloni sia la cantante Michielin, ma non vi sarebbe nulla di strano in questo. Basti pensare che la Meloni condivida con il Pd condividono il 35,5%, mentre con Giuseppe Conte il 39% e con il comico Enzo Salvi addirittura il 27%. Ma non solo. La cantante Michielin condivide con l'ex ministro Maria Elena Boschi, certamente non tacciabile di far parte di una qualche cupola sovranistra mondiale, il 34% dei suoi follower. Secondo Report, poi, sarebbero ben 180.000 i follower, “condivisi tra Meloni e Michielin e in gran parte anche da Trash Italiano, quasi tutti account anomali perché con meno di 20 follower e senza foto profilo che retwittano tutti nello stesso istante”. In realtà, i numeri sono ben diversi. I follower in comune, stando al fact checking di FdI, sono 135000, ossia il 16% di coloro che seguono la Meloni e gli account anomali sarebbero 83mila, pari ad appena il 10% dei follower della Meloni. Non i 180mila "sparati" da Report. E, in ogni caso, il fenomeno degli account 'anomali' (senza foto e senza follower) colpisce tutti. Il profilo di Report, fa sapere Fratelli d'Italia,ha ben 416.951 follower sospetti su 1.287.578 (pari al 32%). Nicola Zingaretti ha 187.986 follower sospetti su 471.451 (pari al 40%). Roberto Saviano ha 587.937 follower sospetti su 1.758.028 (pari al 34%), mentre il ministro degli Esteri Luigi Di Maioha 170.496 follower sospetti su 577.061 (pari al 30%). Maria Elena Boschi, infine, ha 276.343 follower sospetti su 637.189 (pari al 38%). Ed è proprio il confronto con la capogruppo di Italia Viva alla Camera che il 'complotto sovranistra' viene smascherato definitivamente. L'ex ministro delle Riforme vanta circa 637.000 follower e ne condivide con Trash Italiano ben 192.175, pari al 30%. Il triangolo Trash Italiano - Maria Elena Boschi- Francesca Michielin condivide 121.562 follower, pari al 19% dei profili che seguono l'ex ministro delle Riforme. "Secondo la teoria di Report, gli account anomali sarebbero 76.424, pari al 12% dei follower della esponente di sinistra. Tutte percentuali superiori a quelle registrate dalla Meloni. Che sia anche la Boschi coinvolta nell’oscuro complotto dell’internazionale sovranista?", si chiedono i meloniani in un video postato su Facebook. Infine il sedicente esperto di marketing politico, Alex Orlowski, non sarebbe altro che una specie di hate' della Meloni, dei sovranisti e persino all'Arma dei Carabinieri, come dimostrano vari suoi tweet contro questi esponenti. "Occhio che la Meloni parla un inglese decente e potrebbe fare la lavapiatti a Londra", ha twittato lo scorso 17 agosto. "Non dovreste cominciare a pulire la merda che avete all'interno", ha scritto in un altro tweet rivolgendosi ai carabinieri."Non sarebbe stato doveroso per il Servizio Pubblico verificare l’attendibilità degli esperti prima di ingaggiarli e verificare i dati prima di rivolgere accuse infondate a un esponente politico, a una giovane cantante e a chi svolge una attività privata, causando evidenti danni di immagine?", ci si chiede ancora nel video. Fratelli d'Italia, infine, precisa che Report non ha mai scritto a Giorgia Meloni per chiedere informazioni sui dati.

Fratelli d'Italia smarchera Report. Meloni contro Report, smaschera Alex Orlowski: "Ecco il loro esperto". Insulti vergognosi alla leader di FdI. Libero Quotidiano il 5 Novembre 2019. Dopo aver risposto alle accuse di Report, Giorgia Meloni prende di mira Alex Orlowski, analista di big data e social consultato dal programma di Raitre per montare il caso dei "followers falsi su Twitter" e "seminatori d'odio" della leader di Fratelli d'Italia. Una figura non esattamente super partes, quella di Orlowski, almeno a giudicare da alcune sue uscite sui social riportate dalla Meloni. "Ecco "l'esperto" che Report ha utilizzato per analizzare il mio account twitter accusandomi di diffondere odio in rete - rilancia la Meloni su Twitter -. È normale che il servizio pubblico si affidi a odiatori di professione per montare un'inchiesta mistificatoria e priva di fondamento contro la sottoscritta?". Tra i post di Orlowski riportati, alcuni piuttosto offensivi nei confronti dei carabinieri ("dovreste cominciare a pulire la merda che avete all'interno", con tanto di hashtag #facciamoresistenza), della Meloni ("Potrebbe fare la lavapiatti a Londra") e di profili a lei vicini come LiberAzione (definiti "merdacce" con tanto di insulti a "la troia di tua mamma" o "volevo scopare tu sorella ma è buzzigona". Sfrizionate a cui il diretto interessato non replica, preferendo rivolgersi alla "spettabile Meloni": "Si ricordi che io non l'ho accusata di nulla, ho fatto il mio lavoro di analisi e big data. Non le va bene mi denunci no?". Poi, un appello: "Senta può dire ai suoi di smetterla di minacciarmi?". 

Dagospia il 4 novembre 2019. La risposta dello staff di Giorgia Meloni a Report. Il 28 ottobre 2019 la trasmissione Report di Rai3 mandava un servizio dal titolo “La fabbrica social della paura” nel quale venivano diffusi una serie di dati relativi all’account Twitter di Giorgia Meloni. Nel corso della trasmissione si afferma che tali dati dimostrano un collegamento anomalo tra l’account di Giorgia Meloni e quelli di Trash Italiano e della cantante Francesca Michielin. Report sostiene, altresì, che l’account di Giorgia Meloni fa un ricorso massiccio di follower “anomali” che nascondono con ogni probabilità account “marionetta/Bot”, presi a pagamento o messi a disposizione da una qualche “regia sovranista mondiale”.

Fact Checking. Si è proceduto quindi a verificare tali dati utilizzando il software “Audiense Connect”, lo stesso utilizzato dall’esperto di Report (tale Alex Orlowski). La conclusione è sorprendente e non si presta a interpretazioni di sorta: Report ha mistificato la realtà. Vediamo i dati nel dettaglio.

Giorgia Meloni e Trash Italiano. Report afferma che Giorgia Meloni e Trash italiano condividono (nel mese di maggio) praticamente gli stessi follower parlando di una “coincidenza più unica che rara”. Certo lo sarebbe stato, se fosse stata vera l’affermazione. Ma non è così. Giorgia Meloni ha circa 830.000 follower, Trash Italiano 750.000. Meloni ha in comune con Trash Italiano 241.000 follower, ovvero il 29% dei suoi follower. Il grafico ottenuto è molto differente rispetto a quello riportato da Report, dove i due cerchi si sovrappongono come fosse un’eclissi. I due profili non condividono affatto gli stessi identici follower, come sostenuto da Report.

NB: Report cita il dato di Maggio 2019 e i dati riportati sono aggiornati a settembre 2019, ma in virtù dei dati riportati e del trend di crescita costante dell’account Meloni (riportato di seguito) non è possibile teorizzare che a Maggio ci fossero risultati diversi da quelli di settembre.

Il presunto acquisto di falsi follower a Maggio 2019. Report sostiene che a Maggio 2019 un elevato numero di account appena creati e reputati “anomali” avrebbero cominciato a seguire contestualmente gli account Meloni, Trash e Michielin. Ciò denoterebbe che si tratterebbe di account definiti “marionetta o bot”, comprati o messi a disposizione da una qualche regia comune. Il grafico seguente, però, dimostra che non c’è stato alcun aumento anomalo di follower (e quindi di un acquisto degli stessi come sostenuto da Report), né nel mese di maggio 2019, né in altri periodi. Il profilo di Giorgia Meloni ha una crescita continua e lineare, senza anomali sbalzi.

Periodo di riferimento: 1 Gennaio 2018 – Oggi. Giorgia Meloni e Francesca Michielin Report cita in modo sensazionale il dato che il 34% di chi segue la Michielin segue anche Giorgia Meloni. Il dato è corretto, ma non è per nulla sensazionale e rientra nella assoluta normalità delle dinamiche di Twitter. Qui alcuni esempi. Meloni – Michielin 34% Meloni – PD 35,5% Meloni – Giuseppe Conte 39% Meloni – Enzo Salvi 27% Michielin – Maria Elena Boschi 30% Gli esempi potrebbero essere infiniti. Nessuna anomalia nel fatto che una giovane donna impegnata in politica condivida il 34% dei follower di una giovane cantante italiana.

La presunta triade Meloni – Trash italiano – Michielin. La triade sospetta secondo Report sarebbe composta dagli account twitter di Giorgia Meloni; Trash Italiano e Francesca Michielin. Report sostiene che esiste un qualche oscuro collegamento tra questi tre account e che ci sarebbero 180.000 followers, “condivisi tra Meloni e Michielin e in gran parte anche da Trash Italiano, quasi tutti account anomali perché con meno di 20 follower e senza foto profilo che retwittano tutti nello stesso istante”. Vediamo come stanno realmente le cose. I tre profili hanno in comune circa 135.000 follower, pari ad appena il 16% degli account che seguono Giorgia Meloni. Gli account anomali secondo Report (perché con meno di 20 follower e privi di immagine di profilo) sono 83.000 e non i 180.000 di cui parla Report. Questi profili anomali, 180.000 o 83.000 che siano, dovrebbero ritwittare automaticamente e nello stesso istante ogni cinguettio di Giorgia Meloni, di Trash Italiano e di Francesca Michielin. Questo dato è facilmente confutabile da chiunque: basta andare a vedere su twitter i vari profili e verificare come i post raccolgano qualche centinaio di retweet o qualche migliaio in quelli di maggiore interesse, e in ogni caso non c’è alcun collegamento tra i ritweet dei tre account. Lontanissimi dai 180.000 ritwitt automatici sparati da Report. Dire che esistano decine e decine di migliaia di bot che retwittano per far alzare lo share di Giorgia Meloni è una grossolana falsità.

I Follower “sospetti”. Secondo Report, gli account sospetti sono quelli che hanno meno di 20 follower e non hanno un’immagine di profilo. In realtà questa è una situazione diffusa per tutti i profili di personaggi famosi. Nessuno escluso. Nel caso specifico del triangolo Meloni-Trash_Italiano-Michielin, gli account “sospetti” sono circa 83.000, pari ad appena il 10% dei follower della Meloni. Siamo andati a vedere quale fosse l’incidenza degli account che Report giudica sospetti in altri profili del panorama politico e giornalistico italiano, di seguito alcuni dati: @reportRai3 ha ben 416.951 follower sospetti su 1.287.578 – 32% @nzingaretti ha 187.986 follower sospetti su 471.451 – 40% @robertosaviano ha 587.937 follower sospetti su 1.758.028 – 34% @luigidimaio ha 170.496 follower sospetti su 577.061 – 30% @meb (Maria Elena Boschi) ha 276.343 follower sospetti su 637.189 – 38%.

Il confronto Meloni – Boschi che smonta il teorema del complotto sovranista. Ma se per Report il triangolo Trash-Meloni-Michielin rappresenta una stranezza “più unica che rara” legata al complotto della pericolosa internazionale sovranista che spazia da Steve Bannon fino agli hacker russi, il triangolo Trash-Boschi-Michielin manda in cortocircuito tutte le originali teorie. Abbiamo preso il profilo di un’altra giovane politica italiana che ha quasi gli stessi follower della Meloni, soltanto che di sinistra: Maria Elena Boschi. Vediano cosa è emerso. Maria Elena Boschi, che ha circa 637.000 follower, condivide con Trash Italiano ben 192.175 follower, pari al 30% del suo pubblico. Di più: il triangolo Trash-Boschi-Michielin condivide 121.562 follower, pari al 19% degli account che seguono la Boschi. Secondo la teoria di Report, gli account anomali sarebbero 76.424, pari al 12% dei follower della esponente di sinistra. Tutte percentuali superiori a quelle registrate dalla Meloni. Che sia anche la Boschi coinvolta nell’oscuro complotto dell’internazionale sovranista? Questo sì che sarebbe uno scoop degno della reputazione di Report! L’esperto di Report Chi è Alex Orlowski, l’esperto al quale si è affidato Report per realizzare il servizio sulla “Fabbrica social della paura”? Non risulta essere conosciuto dalle principali società che operano su internet e sui social media. In compenso il sedicente esperto di marketing politico, sembra avere una vera e propria ossessione per i sovranisti che sfocia spesso in accuse arbitrarie e volgarità che ne denotano l’attendibilità.

Gli insulti e le minacce ai carabinieri. L’esperto interpellato da Report e che sembra essere molto apprezzato dai giornalisti di sinistra non è solo un odiatore contro i sovranisti e chi fa politica a destra, cose che per qualcuno è un merito, ma un odiatore anche nei confronti dei Carabinieri, che si permette di insultare e minacciare.

CONCLUSIONI. La trasmissione Report ha mistificato la realtà per costruire la teoria di un “complotto sovranista su internet”. Report ha accusato Giorgia Meloni, il sito Trash italiano e la cantante Michielin di avere un qualche oscuro collegamento e di fare ricorso ad “account marionetta e Bot”, teoria priva di qualsiasi riscontro. Non sarebbe stato doveroso per il Servizio Pubblico verificare l’attendibilità degli esperti prima di ingaggiarli e verificare i dati prima di rivolgere accuse infondate a un esponente politico, a una giovane cantante e a chi svolge una attività privata, causando evidenti danni di immagine? Il Fact Checking è stato fatto volutamente solo su numeri e dati, che non si prestano a interpretazioni. Ma la stessa faziosità è stata utilizzata da Report per muovere accuse di ogni genere a Giorgia Meloni e al mondo dei “sovranisti”, come il gravissimo accostamento fatto tra Giorgia Meloni ad autori di atti criminali e terroristici, l’insinuazione di opachi rapporti internazionali o ancora l’insinuazione di far parte di un grande movimento contro la Chiesa e il Papa. Compito di una trasmissione di inchiesta sul Servizio Pubblico dovrebbe essere quello di trovare notizie sensazionali, non costruirle a tavolino forzando la realtà dei fatti. Si precisa che Report non ha mai scritto a Giorgia Meloni per chiedere informazioni sui dati.

Dagospia il 4 novembre 2019. Estratto dell’articolo di open.online. Spostandosi invece all’analisi dei follower di Giorgia Meloni, nell’inchiesta di Report sono emersi alcuni dati curiosi, che farebbero intendere che molti dei “seguaci” della leader di Fratelli d’Italia siano profili falsi e, ipoteticamente, acquistati per alimentare il seguito digitale. Questi profili anomali risultano essere stati tutti creati nello stesso periodo e hanno la caratteristica comune di avere meno di 10 follower. Ma la vera curiosità è che più di 237mila di account che seguivano Meloni, secondo il data analyst Alex Orlowsk, a maggio, erano gli stessi che seguivano l’account di Trash Italiano, un blog che crea e condivide gif e meme di spettacolo. Tra Giorgia Meloni, la cantante Francesca Michielin e la pagina "Trash Italiano" i follower a maggio del 2019 sono praticamente gli stessi. Sono anomaili perché hanno meno di 10 follower e sono stati creati tutti quanti nello stesso periodo. Migliaia di questi follower, inoltre, combaciavano con gli utenti che seguono il profilo della cantante Francesca Michielin che, lo scorso maggio, risultava avere il 34% dei follower in comune con la leader di Fratelli d’Italia. E la domanda, in questo caso, sorge spontanea: com’è possibile che un numero così consistente di utenti, tutti creati nello steso periodo di tempo e tutti con meno di 10 follower, possano seguire account così distanti? Giorgia Meloni ha negato di aver acquistato follower, Trash Italiano – in una mail inviata alla redazione di Report – ha negato di averne acquistati per alimentare il proprio seguito social, così come la cantante Francesca Michielin. Ma i dubbi persistono e, al momento, la risposta sembra essere ancora lontana.

Talk e politica, lo spirito moderato di «Quarta Repubblica». Pubblicato martedì, 01 ottobre 2019 su Corriere.it da Aldo Grasso. Dei conduttori di centro-destra, Porro è il meno schierato ma sa come si orienta il convincimento del pubblico. Nello schieramento dei talk politici di Mediaset, «Quarta Repubblica» di Nicola Porro rappresenta il coté più moderato, lo spirito liberale (Rete4, lunedì, ore 21,25). Lontani i tempi in cui Carlo Freccero dichiarava: «Porro ha tutto: è bello, intelligente, mondano, conosce l’economia, ha un’agenda ottima. Ma a differenza di Telese non ha fame di successo. Appartiene alla categoria di quelli che vanno in vacanza a Saint Tropez, e che non sentono dal profondo la pulsione animale». Vediamo la fine che stanno facendo quelli che hanno la pulsione animale! La serata presentava alcuni temi interessanti come le previste limitazioni sull’uso del contante, la sterilizzazione degli aumenti IVA e accise e le misure fiscali a favore dell’ambiente previste dal «Green New Deal». Ospite Pierluigi Bersani, in grande spolvero, bisogna ammetterlo. Ricordarsi questa sua battuta sulla tracciabilità dei pagamenti: «Riconosciamo ad Amazon quello che non riconosciamo allo Stato». Fra i conduttori di centro-destra, Porro è il meno schierato. Le vacanze a Saint Tropez e l’ottima agenda (meno male!) gli impediscono di atteggiarsi a populista, di suonare l’organetto della demagogia. La presenza in studio di Mario Giordano (la Wanda Nara dei talk), Telese o Capezzone immaginiamo riguardi solo le dinamiche del genere e gli ascolti. Ciò non di meno, Porro sa come si orienta il convincimento del pubblico. Per esempio, tutto il capitolo sull’immigrazione — un tema sensibile per l’elettorato — era teso alla dimostrazione che ora gli sbarchi sono aumentati, non essendoci più il cerbero a bloccare i porti (E la cultura liberale? E la conta dei morti in mare?). Porro non sarà fuori dal coro, ma ora calca le tavole del palco con sicurezza. Nota a margine: i talk Mediaset sono appiattiti su Salvini più di quanto lo fossero in passato nei confronti di Silvio Berlusconi.

Il Riformatorio. (pressreader.com) - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 26 Ottobre 2019 – Sopraffatti dalla cronaca, abbiamo trascurato l’evento destinato a terremotare l’editoria e la politica: il ritorno in edicola, minacciato per il 29 ottobre, del Riformista. L’ingloriosa testata, a suo tempo lanciata dal lobbista Claudio Velardi, passata agli Angelucci, diretta da Polito El Drito e ovviamente fallita nel 2012, risorge con un nuovo editore, Alfredo Romeo, e un nuovo direttore. Anzi, due: Piero Sansonetti e Deborah Bergamini. Romeo non è omonimo dell’imprenditore salvato dalla prescrizione ai tempi di Tangentopoli e di nuovo indagato per traffico d’influenze con babbo Renzi nell’inchiesta Consip: è proprio lui. Sansonetti non è omonimo dell’ex inviato dell’Unità (suo il leggendario titolone sulla morte di lady Diana: “Scusaci, principessa”), ex direttore di Liberazione (chiuso), de Gli Altri (mai trovati), di Calabria Ora (fallito), de Il Garantista (fallito) e de Il Dubbio (che l’ha cacciato): è sempre lui. E la Bergamini non è omonima dell’ex portavoce di B., dunque direttore del Marketing strategico Rai e poi deputata di FI da tre legislature: è sempre lei. Il nuovo giornale sarà improntato a un’anglosassone separazione tra giornalismo e politica. Infatti, oltre a un direttore (su due) deputato e un editore imputato, vanta come editorialisti la Maiolo, Cicchitto, Bertinotti, Paolo Guzzanti e la Boschi. Che scriverà “a titolo gratuito” (e ci mancherebbe pure che la pagassero). I titoli dei numeri zero promettono bene: “Fisco, arriva il decreto Travaglio: manette” e “Ergastolo addio: l’Europa civilizza l’Italia”. La linea si annuncia frizzante e soprattutto sintonizzata coi tempi: “Noi – promette Samsonite – vogliamo l’abolizione del carcere”. Infatti il partito di riferimento è Forza Italia Viva (paghi due, prendi uno). Purtroppo i 60 mila detenuti non han potuto assistere alla presentazione, ma alcuni hanno inviato telegrammi di benvenuto e prenotato la prima copia da appendere in cella accanto al calendario del camionista. I lettori dunque non mancheranno. Non solo nei migliori penitenziari, ma anche nella società civile. Ieri, per dire, nei bar di Roma era tutta una protesta contro l’arresto dei due sospetti killer di Luca Sacchi: “Ha sentito, signora mia? Hanno arrestato due presunti innocenti, dove andremo a finire”. “Non me lo dica, guardi, sono indignata: ma quando si decidono ad abolire il carcere?”. “Non vorrei sbagliarmi, ma ho sentito che esce un giornale apposta”. “Ma volesse il cielo, era ora!”. Quando, 17 anni fa, nacque il primo Riformista, l’avevamo ribattezzato scherzosamente “Riformatorio”. Ma, in Italia, guai a fare battute: perché prima o poi si avverano.

Travaglio vuole ammanettare anche i giornali: e ribattezza il “Riformista” in “Riformatorio”. Niccolò Silvestri su Il Secolo d'Italia sabato 26 ottobre 2019. Quante volte avete sentito dire o letto che la nascita di un nuovo giornale è una festa per il pluralismo e la democrazia? Beh, scordatevelo:  non è più così. Il contrordine è partito dalla penna acuminata di Marco Travaglio, uno che ancora porta ancora impresse nelle sue ospitate televisive le stimmate dell’editto bulgaro di berlusconiana memoria. Lo stesso che insieme a Michele Santoro e ad «altri 100mila» si intestò la battaglia per il terzo polo televisivo, allora soffocato dall’abbraccio Rai-Mediaset. Un fallimento. In compenso, gli è riuscito di contribuire a creare quello politico: il M5S, nato come terzo incomodo tra Pdl e Pdmenoelle, è anche una sua creatura.

Travaglio attacca il giornale di Sansonetti. Normale perciò che dalle colonne del Fatto Quotidiano seguiti a coccolarselo anche ora che i Cinquestelle hanno sostituito i perentori “mai con…” delle origini con il più prosaico “Franza o Spagna” seguito al doppio inciucio, prima con Salvini e ora con Zingarenzi. E che soprattutto seguiti a difenderlo ora che le difficili pratiche di governo ne mettono a nudo, un giorno sì e l’altro pure, l’incoerenza e l’inconsistenza. E poiché Travaglio sa che l’attacco è la migliore difesa, eccolo muovere lancia in resta contro la rinascita del Riformista, il giornale che fu di Claudio Velardi e di Antonio Polito, e che ora torna in edicola sotto la direzione congiunta di Piero Sansonetti e di Deborah Bergamini. Il primo ha lavorato all’Unità e diretto Il Dubbio, la seconda è deputata di Forza Italia. Di sinistra lui, di destra lei.

CACCIA AL MERLO. MELONI QUERELA LA REPUBBLICA. Da adnkronos.com il 24 ottobre 2019. "A seguito della pubblicazione dell'articolo 'Meloni la peronista dell'altra destra più amata di Salvini' ho dato mandato ai miei legali di sporgere querela per diffamazione nei confronti del giornalista Francesco Merlo e del direttore del quotidiano Repubblica, Carlo Verdelli. Di rado, nella mia vita, ho letto un articolo così violento, così lesivo della dignità di qualcuno, così palesemente volto a istigare odio verso quella persona e considero gravissimo che molte delle affermazioni a me attribuite per giustificare il disprezzo del giornalista siano totalmente inventate o volutamente manipolate. Il che, chiaramente, va ben oltre il diritto di critica e configura la piena diffamazione. Di questo Merlo e il direttore di Repubblica risponderanno in tribunale". Lo dichiara il presidente nazionale di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni.

MELONI, LA PERONISTA DELL'ALTRA DESTRA PIÙ AMATA DI SALVINI. Francesco Merlo per “la Repubblica” il 24 ottobre 2019. Fisicamente non somiglia alle cattiverie che dice. Dunque non è facile prendere sul serio Giorgia Meloni e anche noi, per troppo tempo, non l'abbiamo fatto. Quando, per esempio, grida che bisogna affondare le navi degli immigrati non fa pensare alla valchiria wagneriana fascista e razzista come la francese Marie Le Pen, alta, imponente e biondissima, ma alla parodia macho dell'Alice disneyana. Gli storici dell' illustrazione sanno come andò: "Non sono bionda, è che mi disegnano così" fece dire alla sua Alice il primo illustratore del Paese delle meraviglie, sir John Tenniel. L'ho pensato anch' io quando ho sentito la Meloni comiziare nelle periferie tra i coatti romani e gli emarginati. Sparava violenze che il suo corpo pareva non sopportare, robe amazzoniche e militari in bocca "a una signorinetta piccola piccola, bionda, pallida, dagli occhi ceruli" proprio come l' Adriana che accoglie a Roma il fu Mattia Pascal. Dev'essere per questo che piace così tanto ed è "la più amata dagli italiani", perché addolcisce l'infamia. E sembra togliere ferocia alla gagliofferia anche quella sua cantilena da suburra, il ritmo ondulato della lingua dell' ozio romano che dubita di quel che dice mentre lo dice. È un ruggito sì, ma della sora Angelina: «Chiudiamo i porti», «spariamo sulle navi», «costruiamo i muri» e intanto «ce famo du spaghi a Garbatella che è er quartiere mio». E prima ti chiama «stellina » e poi, facendoti - come direbbe Arbore - l' occhietto, ti promette: «Cacceremo i rom a uno a uno, stanandoli casa per casa, tenda per tenda». Robaccia forte, insomma, che non si adatta più ai vezzeggiativi del romanesco e neppure alle simpatie trasversali: «Godo di buona stampa, anche a sinistra». C' è stato un tempo in cui Giorgia diceva: «A destra vorrei più attenzioni ai diritti degli omosessuali». E Paola Concia reagiva così: «Altro che Carfagna, il mio tipo di ministra è la Meloni». Adesso invece in piazza San Giovanni parla di «orchi omosessuali che rubano le identità». E da quando in Ungheria a Budapest si è fatta il selfie con Orbán e gli ha pure consegnato la tessera di Fratelli d'Italia teorizza la democrazia illiberale, la dictablanda, la dittatura indebolita da un po' di libertà, da gocce di democrazia. In gara con Salvini ha incanaglito i suoi vecchi modelli, Almirante e D' Annunzio, Longanesi e Jünger, Prezzolini e Pound. «Di Salvini sono alleata e concorrente» dice la Meloni che ora lo ha superato nei sondaggi. E con i sessanta sessantesimi del suo diploma alberghiero, ramo linguistico, la sua aria da Alice peronista, la sua capacità di cavarsela in inglese e in francese, e il certificato che le rilasciò Fiorello - «non ti aspetti che una ministra sia così simpatica » - sfida Salvini citando un altro eroe della destra, Italo Balbo: «Mi tengo da nulla se mi considero; ma da molto, se mi vi paragono». Dunque vola al secondo posto nel gradimento dei sondaggi, che sono, è vero, i fatui oroscopi della democrazia, ma segnalano l'anomalia dell' ascesa personale di Giorgia che trascina il suo partito sino al 8,5 per cento, seminando Forza Italia che scende al 5. Ma, come dicevo, è lei la seconda leader d'Italia. Sta infatti subito dopo Conte, che è però il carro del vincitore, e sta davanti a Salvini, che del selvaggio esibisce anche il fisico rustico e ruvido con lo stile della destra soldatesca e affamata, anche di donne che appaiono e scompaiono come nei romanzacci degli epigoni di D' Annunzio: Pitigrilli e Guido da Verona. Al confronto Giorgia Meloni è invece la Reginetta sì, ma di Coattonia che è appunto la sua Wonderland, la periferia delle meraviglie dove la nostra "peronista scalza" corre ad ogni spasmo di rabbia sociale, come fece a Torre Maura per difendere e organizzare le rivolte contro i Rom: «Altro che razzisti. Razzisti siete voi che li avete esasperati». In quella Las Vegas senza alberghi né casinò che è la Roma- sud da San Giovanni sino a Ostia, la città che 'sente' il mare e frana verso Napoli e la sua camorra di ferocia e guapparia, Giorgia Meloni è stata la nemica dei centri d' accoglienza: Magliana, Trullo, Quadraro, Appio, Quartomiglio, Tuscolano, Torrino, Spinaceto, Tormarancia, Anagnina, La Rustica, Tor Bella Monaca, Don Bosco, Cinecittà, Borghesiana. Sono tanti gli staterelli criminali senza un centro urbano che hanno sostituito le vecchie periferie delle incisioni di Renzo Vespignani e dei suoi gasometri abbandonati, delle baracche dei ragazzi di vita di Pasolini. Qui la destra sociale ha le sue fortezze, e il suo linguaggio d'odio è molto più efficace del milanese di Salvini e degli impiegati del vaffa, ammaestrati pavlovianamente in Rete. Giorgia Meloni dice che «anche la sinistra radical-chic non capisce più le borgate, dove infatti splende l'antica fiamma tricolore», quella stessa della comunità dei "gabbiani" fondata nel 1980 dal suo pigmalione, il camerata Rampelli, che oggi è l'intellettuale organico di Fratelli d'Italia: «Siamo il primo e il solo partito italiano con una leader donna». Ed è tristemente vero. La Meloni vi aggiunse Guido Crosetto, il gigante che nelle foto la teneva in braccio, e Katia Ricciarelli, cinepanettoni e semivip. E i colonnelli che l'avevano sottovalutata ("calmati, bambina") adesso le obbediscono. Sto parlando di Francesco Storace e del mitico La Russa che, ministro della Difesa negli anni del governo Berlusconi, sembrava l'incarnazione della caricatura del gerarca, con le sue divise militari, le sue collezioni di soldatini e i voli dannunziani sopra Kabul. E però Meloni insiste molto: «Come farvi capire che non siamo fascisti?». Anche Le Pen insiste: «Cosa devo fare per non essere razzista? Sposare un nero, magari malato di Aids?». Giorgia Meloni non ha sposato un nero. Ma ha un compagno che dice di avere votato sempre Pd. È il padre di sua figlia Ginevra («come omaggio a Lancillotto»), la bimba che la mamma tira fuori come per caso in tutte le interviste televisive, e prima «è per la poppata» e ora «è per farla stare buona». "La sua maternità dolce batte la paternità virile di Salvini". Ma il papà di Ginevra - lo chiamano "il signor Meloni" - non crede nel matrimonio. Ma Giorgia andò lo stesso al Family day dove annunziò pure che era incinta. Si chiama Andrea Giambruno, è un autore Mediaset, è laureato in Filosofia alla Cattolica, e parla pochissimo. C'è soltanto un'intervista a Luca Telese: «Seguo Giorgia in tutti i comizi. Mi piace mettermi in ultima fila, senza che lei mi veda». E poi: «Io sono favorevole a liberalizzare le droghe, anche quelle pesanti». Ancora: «Svuoterei gli orfanotrofi e darei tutti i bimbi alle coppie arcobaleno ». Si nasconde perché è compagno o è il compagno che lei nasconde? Sembra inventata da un De Amicis di destra la biografia della reginetta di Coattonia. Il padre Francesco, che lei definisce "comunista", è morto di leucemia due anni fa, ma la figlia non è andata al funerale: «Non mi ha dato nessuna emozione. Come se fosse morto un estraneo». Francesco Meloni aveva abbandonato la moglie e le due figlie quando Giorgia aveva 12 anni. Fuggì con un'altra donna su una barca chiamata "Cavallo pazzo" e si stabilì alle Canarie con la nuova compagna. Mamma Anna, aiutata dalla nonna, ha mantenuto la famiglia correggendo bozze e scrivendo romanzetti rosa. Giorgia crebbe disprezzando il padre e si iscrisse, «anche contro di lui», alla sezione del Msi della Garbatella dopo la morte di Paolo Borsellino, che i reduci missini vantano come radice della loro idea di "legge e ordine". Giorgia cantava in un gruppo identitario il repertorio dei fasci degli anni settanta - "Forchette, forchette, forchette nazionali /, per guadagnar miliardi senza pene fiscali"- e oggi compone e canta, sulla musica sigla di Holly e Benji, brani satirici «contro il governo delle poltrone». A quei tempi «dovunque ci fosse un corteo in testa c'era lei», bruciava in piazza i libri della sinistra, e nel mondo di Gasparri e di Alemanno faceva carriera. E intanto lavorava come barista al Piper, cameriera e baby sitter, anche della figlia di Fiorello. E frequentava la nerissima sezione di Colle Oppio vivendo un romanzo di formazione tutto missino, segretaria di Azione Giovani, giornalista al Secolo d'Italia, fidanzati solo di partito, Almirante come campione di democrazia, «siamo ancora oggi i custodi di un patrimonio valoriale che è stata la nostra giovinezza», vibrazioni d' amore ed orgoglio per gli ex picchiatori raccontati sempre come vittime, gli anni Settanta come mito. Sin da bambina ha vissuto di politica, ed è stata allevata come "politica di professione" tra Rauti e Fini. Li ha traditi entrambi perché «sono una che non si mette mai a cuccia». Verso Fini non ha gratitudine: «Tra le ipotesi in campo, quella che si sia rovinato per amore è la più dignitosa». Dio, patria e famiglia, i crocifissi e le scuole cattoliche, la guerra ai gay, ai gender, l'uscita dall' Europa Giorgia è un'estremista naturalmente di destra che considera Berlusconi (la chiamava «la piccolina») la sbandata più liberale della sua vita. E da quando si è incanaglita esibisce gli insulti come medaglie, le piace essere "burina" che le pare un sinonimo di "popolare", ogni tanto tira fuori le tavole di "Ministronza", la serie che le dedicò il vignettista anarchico Alessio Spataro quando da ministro girava in "mini", una biografia a fumetti che comincia con Giorgia che a 5 anni rimproverava i coetanei maschi perché giocavano con le bambole: "A frocio, almeno alla tua pupa faglie fa' er saluto fascista". Ma anche questi disegni invece di offenderla hanno finito con l'esaltare la reginetta di Coattonia, hanno contribuito a costruire il personaggio del momento, come già furono Salvini, Grillo, e tutti gli altri. È lei la nuova inquietudine italiana.

Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 25 ottobre 2019. C'è il fascismo nero, e c'è il fascismo melenso e rosso, che può esser persino peggio. Eccome. Eccolo lì: ieri Francesco Merlo, prima firma di una Repubblica all'ultima spiaggia quella che vuole fermare l'onda lunga della protesta di popolo togliendogli la dignità e magari anche il voto, chissà cominciando dagli anziani, poi dai non laureati, e poi a piacere ha firmato un'articolessa che cola bile, dal richiamo in prima pagina all' ultima inquietante riga, contro la politica «più amata dagli italiani». Che essendo però di destra, nella visione di Merlo e di Repubblica, si può trattare peggio di un uomo: Giorgia Meloni, di Fratelli d' Italia, irrisa come nemmeno fosse sua sorella. Umiliata, strattonata, presa in giro per la sua voce, la sua parlata, la sua provenienza la Garbatella, oddio! la sua vicinanza ai «coatti romani», gli emarginati, la suburra. Non è che certi giornalisti non ci andrebbero a vivere in periferia. È che proprio gli fa schifo. La sinistra schifiltosa, lontana dalle periferie e che ha perso il centro dei propri riferimenti sociali e umani, può dire quello che vuole. Soprattutto ciò a cui la destra - sempre impresentabile, volgare e truffaldina - non ha diritto. Per molto meno, chi ha provato a tratteggiare malignamente - un nome a caso o anche due - l'ex presidente della Camera Laura Boldrini o la paladina della sinistra di lotta e di antileghismo Asia Argento, è finito alla gogna mediatica e deontologica. Il collega Francesco Merlo bravissimo, coltissimo, spalleggiatissimo ha preso la Meloni e ne ha fatto una caricatura grottesca da gettare in pasto al suo pubblico di elettori col senso dell'umorismo ma non quello della reciprocità. L'ha inzaccherata, al meglio di quanto la sua scrittura è capace, del peggio che un giornalista può tirare fuori da 150 righe al veleno: «la sua cantilena da suburra», «aria da Alice peronista», «reginetta di Coattonia», «burina», «incanaglita»... Le ha detto di tutto, che è anche troppo, e alla fine Giorgia Meloni «un'estremista naturalmente di destra» si è incanaglita per davvero e ha querelato per diffamazione sia Merlo sia il direttore di Repubblica. «Di rado - ha detto - ho letto un articolo così violento, così lesivo della mia dignità». Ora, Giorgia Meloni esiste da vent' anni sulla scena politica, romana e no. E se Merlo - ministro all'Intellighenzia di una Repubblica ormai abbandonata persino dal popolo di sinistra che, chiamandolo populista, dimostra di disprezzare - si prende l'astio di sbeffeggiare la «piccolina», è perché ne ha paura. Fino a che pesava il 3%, la Meloni per Repubblica non meritava quattro colonne d'odio. Ma ora che vale l' 8-9, si può investire anche una intera pagina e la firma dalla scrittura più luminosa e mafioseggiante (senza mafia, s'intende!). Ed ecco a tutta pagina, la 10, parole e toni echeggianti lo stesso hate speech che Repubblica di solito condanna fin da pagina uno (se è sugli altri giornali o sul web). Ecco il peggior machismo dei migliori amici del #MeToo. Ecco il disprezzo dedicato a chi abita nelle periferie e agli elettori di Fratelli d' Italia, antropologicamente non solo diversi ma peggiori. Ecco lo svilimento dell'«altro» (l'«altro» è sempre da accogliere se di una nazione diversa, ma da cacciare se di un partito politico differente). Del resto da Repubblica non si può pretendere che somigli, giornalisticamente, alle cose buone che predica: il rispetto del diverso, della donna, della volontà popolare (per Merlo e i suoi colleghi di terrazza è incomprensibile come si possa votare la Meloni). E alla fine quello che resta è un pezzo brillantissimo e osceno da caserma, macchiettistico, livoroso e un po' coatto. Proprio come gli italiani che vivono il disagio delle suburre e, chissà come fanno, votano la Meloni.

Lettera di Giorgia Meloni a “la Repubblica” il 25 ottobre 2019. Gentile direttore, ho letto con grande stupore il fiume rancoroso di insulti, volgarità e falsità che Francesco Merlo mi ha rivolto nel lunghissimo articolo pubblicato da La Repubblica il 24 ottobre. Mi limito a riportare solo le falsità più grossolane.

1. Merlo mi attribuisce questo virgolettato: «Spariamo sulle navi». Mai detto. Io voglio sequestrare e affondare le navi (vuote) che violano la legge italiana sull' immigrazione.

2. Merlo dice che sono andata a Torre Maura, che lì ho difeso e organizzato delle rivolte contro i rom e che avrei pronunciato queste parole: «Cacceremo i rom a uno a uno, stanandoli casa per casa, tenda per tenda». Falso. A Torre Maura non sono mai andata e non ho mai pronunciato le parole che Merlo mi attribuisce. Io voglio semplicemente che ai rom sia applicata la stessa legge di tutti gli altri cittadini.

3. Il giornalista dice, poi, che ho dichiarato guerra ai gay e che in piazza San Giovanni avrei parlato di «orchi omosessuali che rubano le identità». Falso, mai detto. Sono contraria alle adozioni gay, tutto qui.

4. Merlo mi accusa poi di aver bruciato in piazza i libri della sinistra. Falso. Ho regolarmente comprato e poi timbrato, questo sì, con "falso d' autore" quelli che definivano le Foibe «luoghi di suicidi di massa».

Chissà se chi ha scritto l'articolo si è accorto che nel pezzo sono presenti tutti gli ingredienti per una deriva autoritaria e liberticida: la denigrazione e delegittimazione indiscriminata di intere fasce della popolazione, la demonizzazione personale dell'avversario politico, lo scientifico ricorso alla menzogna, perfino il malcelato avvertimento - degno degli agenti della Stasi - nei confronti dei personaggi del mondo dello spettacolo che hanno avuto l'ardire di esprimere, fuori da ogni contesto di natura politica, semplice simpatia umana nei miei confronti. Mi sono chiesta del perché di questo duro attacco a me e a Fratelli d' Italia. Forse la risposta è in una celebre frase di Gandhi: «Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci». Siamo già alla terza fase. Giorgia Meloni

Risposta di Francesco Merlo. Non ho da aggiungere nulla a quel che ho scritto. Chi ha letto il mio articolo sa già la verità che volentieri consegno al giudizio del tribunale. E non infierisco sulle corbellerie citazioniste - la Stasi, Gandhi, la scienza della menzogna - perché l'estremismo di Giorgia Meloni è già caricatura. Ed è così arruffato che anche l' ironia è senza speranza.

La Repubblica prima diffama e poi censura la Meloni. Ecco la verità. Giorgia Meloni, venerdì 25 ottobre 2019 su Il Secolo d'Italia. Repubblica insulta Giorgia Meloni con tanto di di titolo in prima pagina e pubblica di nascosto e tagliandola vistosamente la replica della presidente di Fratelli d’Italia. Noi, invece, la riproponiamo integralmente ai lettori del Secolo d’Italia che vorranno diffondere la risposta di Giorgia Meloni a tutti i loro amici e vedremo chi vince questa partita tra noi e loro. (f.s.)

La risposta integrale di Giorgia Meloni. "Egregio Direttore, ho letto con grande stupore il fiume rancoroso di insulti, volgarità e falsità che Francesco Merlo mi ha rivolto nel lunghissimo articolo pubblicato da La Repubblica il 24 ottobre. Dedicate tempo e spazio a parlare della necessità di combattere le fake news e le “parole d’odio”, soprattutto contro le donne, ma evidentemente questo non vale quando si tratta di attaccare chi ha la grave colpa di fare politica a destra. Tanto livore mi ha fatto tornare in mente una frase di Plutarco: “I nemici sono eccitati dai mali, dalle brutture, dalle sofferenze della vita”. Così Merlo si è voluto lanciare rapace sul mio aspetto fisico, sul mio accento, sulla mia vita, anche privata e familiare, sulle difficoltà vissute; tutte cose che ben poco hanno a che fare con il mio ruolo di donna impegnata in politica e che in buona parte non sono dipese dalla mia volontà, ma piuttosto imposte dalla sorte, che non sempre è generosa e benevola come vorremmo.

La democrazia degli oligarchi. Dovrei vergognarmene? Dovrei vergognarmi di essere cresciuta e vivere tutt’ora in una periferia romana e non in una zona prestigiosa del centro? Di aver dovuto lavorare fin da ragazzina perché a casa non nuotavamo nell’oro? Di aver deciso di fare l’indirizzo linguistico in un alberghiero perché all’epoca non c’era altro modo di imparare lingue straniere nella scuola pubblica? Il filone di pensiero di Merlo che insulta i “coatti romani e gli emarginati” ha precedenti illustri: si va dal socialista Hollande che deride i poveri chiamandoli “sdentati” alla Clinton che li chiama “miserabili”. Dietro tanta cattiveria si cela una finalità ambiziosa: delegittimare il popolo per operare un trasferimento di sovranità dal popolo alle élite. Per la sinistra, come scrisse Scalfari proprio su questo giornale: la democrazia non può che essere oligarchia. Certo che chi invece, come me, sostiene che la sovranità appartiene al popolo, che vuole addirittura l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e l’abolizione dei senatori a vita non può che essere un grande nemico. Ma evidentemente a Merlo gli attacchi personali, la “Reginetta di Coattonia”, le schifose insinuazioni su mia figlia strumentalizzata a fini politici e addirittura il riferimento al funerale di mio padre, devono essere sembrati troppo fragili, e allora si è dedicato a un’altra specialità della sinistra: diffondere falsità sugli avversari politici.

Le bugie di Repubblica sulla Meloni. Mi limito a riportare solo le più grossolane. 1. Merlo mi attribuisce questo virgolettato: «Spariamo sulle navi». Mai detto. Io voglio sequestrare e affondare le navi (vuote) che violano la legge italiana sull’immigrazione. 2. Merlo dice che sono andata a Torre Maura, che lì ho difeso e organizzato delle rivolte contro i rom e che avrei pronunciato queste parole: «Cacceremo i rom a uno a uno stanandoli casa per casa». Falso. A Torre Maura non sono mai andata e non ho mai pronunciato le parole che Merlo mi attribuisce. Io voglio semplicemente che ai rom sia applicata la stessa legge di tutti gli altri cittadini. 3. Il giornalista dice, poi, che ho dichiarato guerra ai gay e che in piazza San Giovanni avrei parlato di «orchi omosessuali che rubano le identità». Falso, mai detto. Sono contraria alle adozioni gay, tutto qui. 4. Merlo mi accusa poi di aver bruciato in piazza i libri della sinistra. Falso. Ho regolarmente comprato e poi timbrato, questo sì, con ‘falso d’autore’ quelli che definivano le Foibe "luoghi di suicidi di massa". Chissà se chi ha scritto l’articolo si è accorto che nel pezzo sono presenti tutti gli ingredienti per una deriva autoritaria e liberticida: la denigrazione e delegittimazione indiscriminata di intere fasce della popolazione, la demonizzazione personale dell’avversario politico, lo scientifico ricorso alla menzogna, perfino il malcelato avvertimento – degno degli agenti della STASI – nei confronti dei personaggi del mondo dello spettacolo che hanno avuto l’ardire di esprimere, fuori da ogni contesto di natura politica, semplice simpatia umana nei miei confronti. Mi sono chiesta del perché di questo duro attacco a me e a Fratelli d’Italia. Forse la risposta è in una celebre frase di Gandhi: “Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci”. Siamo già alla terza fase.

Nicola Porro in difesa di Giorgia Meloni: "Repubblica disgustosa. Ma se il sessismo è contro di lei..." Libero Quotidiano il 25 Ottobre 2019. Zuppa di Porro, laddove Nicola Porro si scatena. Senza peli sulla lingua, senza filtri né lacci, dritto al punto, il conduttore di Quarta Repubblica nella sua rubrica web dice soltanto quel che pensa. E tra i temi trattati nell'appuntamento di venerdì 25 ottobre, anche il vergognoso articolo firmato da Francesco Merlo su Repubblica ieri contro Giorgia Meloni, articolo che gli è costato (e anche al direttore Carlo Verdelli) la querela da parte della leader di Fratelli d'Italia per diffamazione. E Porro, tranchant, commenta: "Disgustoso il pezzo di Merlo dove attacca Giorgia Meloni come persona e come donna". Ma, soprattutto, Porro sottolinea: "Ma se il sessismo viene da Repubblica tutti fischiettano". Già, avete sentito qualcuno indignarsi per il durissimo, vergognoso articolo di Repubblica contro la Meloni? Sì, qualcuno sì. Ma davvero pochi...

Giampiero Mughini per Dagospia il 25 ottobre 2019. Caro Dago, a me (che sono un eccellente lettore) l’articolo di Francesco Merlo sulla “Repubblica” è apparso eccellente, e se fossi suo amico sconsiglierei Giorgia Meloni dal querelare. L’articolo era violento o meglio implacabile, non perdonava nulla e non concedeva nulla. Ma non era in alcun modo diffamatorio. Non attribuiva alla Meloni fatti o comportamenti inesistenti (è questa la diffamazione), solo dava un giudizio spietato di quel che lei è e fa e dice in politica. Quelli di Merlo sono a loro volta giudizi, espressi nella maniera propria a uno scrittore siciliano colto e di esuberante creatività, non sono colpi bassi e alle caviglie. Ne sto parlando con profondo rispetto umano per la Meloni, che ho avuto di fronte più volte e che è persona civilissima. E di cui io non scriverei al modo implacabile di Merlo, e questo semplicemente perché quella avversione talmente spietata non è nelle mie corde. Ripeto, è un consiglio che do alla Meloni che fa politica: lasci perdere la querela. Siamo in un campo diversissimo da quello che invece a me sta molto a cuore, e cioè che vengano abbassati i toni solitamente truculenti della contesa politico-giornalistica, toni il più delle volte aizzati da tweet scritti alla maniera di pseudo-analfabeti. Con quella roba lì, il paginone di “Repubblica” ha niente a che vedere. Pur mantenendo alla Meloni il rispetto umano di cui ho detto prima, non è che lei e i suoi soci quando parlano a viva voce di Gentiloni Monti Renzi hanno alle mani i guanti bianchi. Di guanti bianchi alle mai dei politici in giro non ce n’è. Quel che si vedono negli scontri verbali sono asce da macellaio, non fioretti. E invece l’arma che giostrava ieri Merlo era esattamente un fioretto, o meglio una spada seppure molto puntuta (ma questo è nel suo diritto). Ripeto, un articolo del genere non è nelle mie corde. Come tu sai, caro Dago, e credo ti dispiaccia, io solo scrivere bene, in positivo, di personaggi che ammiro o di libri che ho letto. A tutto il resto, e dunque alla buona parte degli esseri umani miei contemporanei, riservo solo il più profondo disprezzo intellettuale e dunque un silenzio assoluto, un mio totale mutismo. Mai imbrattarsi la bocca con certi nomi e cognomi. Se posso dire così il paginone di Merlo ieri svelava che lui reputa la Meloni comunque una protagonista, comunque una leader di cui tener conto. Da lui abissalmente lontana, questo sì. Ma il radical-chic che qualcuno gli imputa di oggi non c’entra niente. E del resto tutto potrai opporre a uno scrittore siciliano, non di essere un radical-chic. Chi di loro _ Consolo, Verga, Pirandello, Sciascia, Camilleri, Brancati eccetera _ lo è mai stato un solo minuto della loro vita e del loro destino? Giampiero Mughini

IL CASO MERLO-MELONI (E L’INTERVENTO DI MUGHINI) SCATENA I DAGOLETTORI. Dago spia il 25 ottobre 2019. Riceviamo e pubblichiamo:

Caro Dago, la S-Garbatella Meloni risulta poco consona tanto alla bocca artefatta di Gruber, quanto alla Montblanc di Merlo. Saluti, Labond

Caro Dago, Francesco Merlo non è riuscito a replicare decentemente a Giorgia Meloni che aveva ribattuto punto per punto le falsità che il giornalista aveva scritto su di lei in un velenoso pezzo. Una volta, a scuola, gli studenti più furbi quando non erano preparati piuttosto che fare "presenza muta" preferivano non farsi vedere. Ma forse la firma di Repubblica ha frequentato le serali. D.H.

Gentildago, Mughini questa volta si arrampica sugli specchi. Non solo Merlo ha inventato episodi mai esistiti, ma ha anche scritto non da gentiluomo siciliano colto, ma da patetico bastonatore in orbace. La Meloni fa bene a querelare. Il Pesce Giacomo.

Dago, siamo da tempo in una società dove i vecchi manifestano varie sclerosi, dovute da grave esibizionismo cronico; mi riferisco a Merlo che sbrodola sulla piccoletta Meloni, Mughini che convalida la merlata con occhio fiero e rivolto al soffitto, dove alberga il suo noumeno indefesso ed infine Cacciari che corveggia funereo sul futuro dii Renzi. Questo è quanto si legge nelle magiche pagine del tuo sito che riporta i vetusti dicta dei tre prefati, oltre due secoli di immarcescibile presenza tra i modesti viventi, da indottrinare a cadenza fissa. Imperdibili tracce del loro elaborato politico - macchiettistico - filosofico declinato in prospettiva futuribile - trapassata remota. Saluti - peprig

Dagosapiens, dissentendo oggi, insolitamente, da Mughini gli chiedo:

1) Sicuro che nel suo ehm…”eccellente” articolo Francesco Merlo non abbia attribuito “fatti o comportamenti” inesistenti a Giorgia Meloni? (Nella lettera a Repubblica lei li elenca chiaramente). 

2) “Verga, Pirandello, Sciascia, Brancati, Consolo, Camilleri” secondo Mughini non sono da considerare radical-chic. Proprio sicuro anche su Camilleri? Vittorio Smughinato ExInFeltrito

Caro Dago, quanto pesa ancora, nell'Italia del 2019, la solidarietà tra corregionali e concittadini! Non si spiega altrimenti la difesa - poco convincente e forse poco convinta - che il catanese Giampiero Mughini fa dell'odiologia del catanese Francesco Merlo nei confronti di Giorgia Meloni. Un'odiologia, con buona pace di Mughini, che non è né di fioretto né di spada, ma di mannaia; e di mannaia poco affilata, per di più, quindi tale da costringere l'incauto macellaio a cercare di supplire con la cieca violenza ad un taglio assai smussato. Già: perché la cattiveria è accettabile ed efficace se accompagnata dall'ironia e dall'eleganza, come ci insegna, ad esempio, Marco Travaglio; altrimenti - se non si è un Dante Alighieri, e Francesco Merlo non lo è - diventa un'arma a doppio taglio, che ferisce chi la usa. E lasciamo perdere, please, Verga e Pirandello, Sciascia e Brancati, i cui nomi illustri non meritano davvero di essere tirati in ballo in una vicenda del gene re. Federico Barbarossa

Scanzi che mette un insulto come titolo di un libro contro Salvini, che può essere coperto di ogni genere di offese come non sarebbe consentito se si trattasse di fare a pezzi un esponenete di Sinistra, specie se donna; e Francesco Merlo che tratta la Meloni, scrivono sul Giornale, "manco fosse sua sorella", sua del giornalista. Sinistra politica e mediatica schiumano rabbia finché i sovranisti-populisti e con loro, il popolo sovrano non premiano la Sinistra politica, che perde elettori, né più né meno di quella mediatica, che continua a perdere lettori: se la terapia a questa forma di intoleranza cronica è, sul piano politico, votare il meno possibile, togliere il voto ai pensionati e rendere inutile il voto, tanto, decide, lo spread, i lettori la stanno applicando ai giornali per cui scrivono Scanzi & Merlo e grazie a servizi come quelli offerti dai due, che compensano il legerli il meno possibile col piacere di non leggerli affatto. Raider

Caro Dago, colpisce l'imbarbarimento della contesa politico-giornalistica, a proposito degli articoli pubblicati con riferimento alla persona di Giorgia Meloni. Prescindendo dai dettagli, non si può non notare il refuso "giuridico di Giampiero Mughini, nell'articolo per Dagospia. Mughini giornalista ed intellettuale di primissimo livello, scende nell'agone, inciampando però in un improvvido consiglio al Collega Merlo. Egli sconsiglia, disinteressatamente, credo, la Meloni dal querelare il noto e ben collocato giornalista, perchè l'articolo non conteneva nulla di diffamatorio. Testualmente: ......"non attribuiva alla Meloni fatti o comportamenti inesistenti (è questa la diffamazione).........". La diffamazione è anche l'esatto contrario, consiste nello screditare la reputazione altrui, narrando fatti, veri o non veri è irrilevante. Ciò che conta è lo screditamento. Stop. Per il giornalista subentra l'aspetto del modo e altri elementi ora non rilevanti in questa sede. Ottimi giornalista Mughini e Merlo, e quest'ultimo, comunque con la scientifica disinformatia sulle navi da affondare cariche di negri (era Salvini il propalatore di odio!?) non ha molto da temere: "il diritto per i nemici si applica, per gli amici (Rackete e Merli vari) si "interpreta". SDM

Caro Dago, sono uno dei tanti italiani laureati e normali che se ne è andato a lavorare all’estero – ma questo francamente un po’ per caso. Sono uno di quelli che osserva con certo disgusto al dibattito politico e mediatico, occupato (soprattutto quest’ultimo) incessantemente dai medesimi figuri che, nel parlare altrettanto senza sosta, non si rendono conto che la loro presenza stessa (indice delle loro relazioni, e di poco altro – forse un iniziale talento) squalifica qualsiasi messaggio che intendono veicolare. In un recente intervento alla Zanzara, David Parenzo citava Gramsci e la necessità di “educare il popolo”. Vi può essere del vero in questa affermazione, a patto di non scordare che l’educazione, in qualsiasi campo, si dà prima di tutto con l’esempio. O forse che andremmo a prendere lezioni di sci da chi ne sa parlare perfettamente ma non sa sciare? Fatta questa premessa, sento la necessità di scriverti per via della lettere dell’eccellente lettore Mughini sull’eccellente articolo di Merlo (siamo sicuri che Mughini, essendo un eccellente, non abbia certo scritto una cacofonica ripetizione). A parte il sorriso che mi ispira l’intervento di una persona che non centra assolutamente nulla, vorrei puntualizzare alcune cose, che sono secondo me del tutto evidenti per i tanto disgustati come me.

1) Essere fascista, in italia, è legalmente ai limiti. Accusare qualcuno di fascismo non è una cosa da prendere alla leggera. Tale demonizzazione dell’avversario politico, del tutto arbitraria, va giustamente rispedita al mittente con quanta più forza possibile (a meno che non si voglia essere davvero dei fascisti). Di solito è fascista chi non è di sinistra. La demonizzazione di Craxi, Andreotti, Berlusconi o Salvini (e altri) segue sempre il medesimo copione; stesso dicasi per il termine razzista;

2) Il fascismo in Italia ci ha imbarcato in una brutta guerra, con brutti alleati, persa malamente (mi si perdonino queste semplificazioni). Accusare qualcuno di fascismo vuol dire complicare parecchio le nostre eventuali relazioni internazionali;

3) Mancano tuttavia definizioni più o meno formali però di fascismo, quindi (guarda caso) chiunque è più o meno accusabile di fascismo. In tal modo, si accusano e offendono anche tutte le persone (che sono maggioranza) che ad alcuni principi credono. Si mettano direttamente fuori legge i principi a questo punto;

4) L’articolo di Merlo è molto violento, per favore non scherziamo (e Mughini la potrebbe anche smettere di fare vedere che è amico di tutti);

5) Se non la si smette con questa retorica, prima o poi arrivano i fascisti veri, e nessuno li distinguerà dagli altri;

6) È stato detto più volte ma vale la pena di ribadirlo: l’antifascismo in piena e totale assenza di fascismo fa ridere. Non costa nessuno sforzo. Manca anch’esso di definizioni. Vi sono e vi sono state delle guerre negli ultimi anni, criminali e con milioni di morti e non si sono sentite parole dalle anime belle dell’antifascismo. Quello infatti sarebbe stato costoso e un giornalista che si fosse messo a dare notizie e non fare propaganda avrebbe perso il lavoro (o comunque non fatto carriera);

7) Mentre parliamo e discutiamo di chi è fascista, i morti sono già morti, non risorgeranno;

8) Mughini si arrenda al fatto che da personaggio televisivo e mediatico quale è, ha giusto un poco di più di profondità di Belen;

9) Per questa e tantissime altre questioni “obbligatorie” (dall’essere fascista, all’essere razzista, all’esistenza di un global warming causato dall’attività umana) ci domandiamo timidamente, citando non la LePen, ma Popper: che cosa può falsificare queste affermazioni? In assenza di un criterio di falsificazione non si possono considerare vere nemmeno per un momento;

10) Chi scrive ha solo due interessi per la politica: pace e giustizia (possibilmente anche sociale, ma inizierei da David Rossi, non vorrei complicare troppo le cose).

Chiedo scusa per la mancanza di sintesi. Essendo la prima volta che ti scrivo, non posso esimermi dal farti i complimenti per quello che hai fatto con questo sito. E bravo anche per la collaborazione con Cruciani, pur con sensibilità diverse. Daie, che abbiamo un gran bisogno dei Romani in questo mondo. Un saluto da Francoforte, Andrea.

Francesco Curridori per ilgiornale.it il 31 ottobre 2019. Giorgia Meloni sotto l'attacco della sinistra radical chic. Dopo l'articolo infamante apparso su Repubblica in cui Francesco Merlo la definiva "razzista" e "coatta", la leader di Fratelli d'Italia finisce nel mirino di Michela Murgia e di Selvaggia Lucarelli. "Quando lei nomina il crocifisso e il presepe, e lo dico da cristiana, non fa riferimento a dei valori evangelici ma a dei marcatori culturali che lei usa come dei corpi contundenti", dice la scrittrice sarda nel corso dell'intervista rilascia a Daria Bignardi nell'ultima puntata del suo programma, L'Assedio. Parole che lasciano perplessi dal momento che arrivano da una femminista convinta come la Murgia che, sicuramente, non sarebbe entrata nella sfera privata di un personalità di sinistra. Il trattamento riservato alla Meloni, invece, è particolare: "Questa è una donna che - dice la Murgia - nella sua vita personale ha fatto delle scelte che certamente non sono congruenti con l'idea di famiglia cristiana che lei sopra quel palco sembra voler difendere". La scrittrice, forse avendo capito di aver ecceduto, poi corregge il tiro e dice: "Credo che ognuno debba essere libero di vivere la vita come vuole, ma quando tu vuoi imporre agli altri un modello di vita che tu stessa non rispetti capisci che un po' il cortocircuito si sente". Selvaggia Lucarelli, invece, ha firmato sul Fatto Quotidiano un pezzo dal titolo 'Giorgia Meloni è la Bestia'. La giornalista e conduttrice tivù descrive così la competizione tra il capo di Fratelli d'Italia, definita "una leader da discount" e l'ex ministro dell'Interno. "Quella che se Salvini cavalca la paura, lei cavalca il coraggio: il coraggio di dire la prima cosa chele viene in mente, esattamente come le viene in mente. Quella che se Salvini parla alla pancia degli italiani, lei parla all’intestino crasso", scrive la Lucarelli. E ancora: "Quella che se Salvini muove le pedine della sua comunicazione guidato da Morisi e la Bestia, lei è La Bestia". Bestia intesa come donna che ha un "talento istintivo e impetuoso con cui riesce a sintonizzarsi con le piazze dando l’idea di non aver pianificato nulla". Un articolo che ha suscitato inevitabilmente delle polemiche e così la Lucarelli, interpellata dall'Adnkronos, dice: "Non è la prima volta che scrivo di Giorgia Meloni, si scrive di quello di cui si parla e questo è un momento in cui il suo è un partito che sta crescendo, quindi è evidente che sia argomento di cui scrivere". E poi aggiunge: "È un pezzo ironico, e doverlo specificare è come spiegare una barzelletta, non è certo un articolo di Merlo". Al termine dell'intervista la Lucarelli arriva persino a tessere le lodi del politico che il giorno prima aveva offeso:"La Meloni è un politico di razza. Ha anche una certa coerenza. Insomma, ha un talento indiscutibile ma purtroppo lo sfrutta male".

Meloni contro la Parietti: "Nulla di cui scusarmi nella mia vita politica". Giorgia Meloni contro le cinque "sfere" a Live - Non è la d'Urso: "Non sono venuta a fare il pagliaccio". E attacca il governo: "Pd e M5S hanno fregato il voto alla gente". Chiara Sarra, Domenica 06/10/2019, su Il Giornale. "Non ho nulla di cui scusarmi della mia vita politica". Giorgia Meloni "sfida" i cinque personaggi nelle sfere di Live - Non è la d'Urso e ribatte a Alba Parietti che l'accusa di avere legami "coi fascisti" e di essere "fra i più assenteisti". "Non ho rapporti con Casapound", dice la leader di Fratelli d'Italia, "Sono fra i parlamentari più prolifici e ho proposto che le presenze vengano conteggiate non solo sulla base delle votazioni, come fanno i Cinque Stelle, ma sull'effettiva presenza in Parlamento, anche il lunedì e il venerdì. Se gli italiani ritengono che io non lavori abbastanza, lo giudicheranno alle urne. Quando ci consentiranno di tornare a votare". Così come - assicura - "non è che la gente mi deve votare perché sono carina ma perché faccio bene il mio lavoro". Il riferimento è alle presunte foto ritoccate della campagna per le elezioni a sindaco di Roma. "Questa cosa dei photoshop è ricorrente", ha ribattuto lei, "Se dico che le mie foto non erano photoshoppate nessuno ci crede. Alla fine non me ne faccio un cruccio: la brutta notizia è che il mondo pensa che io sia una cozza, la bella notizia è che non c'è più molto da dire sul mio conto, sulla mia storia politica". Replicando a Giampiero Mughini, la Meloni ha anche attaccato duramente il governo: "Repubblica parlamentare non significa fregare il voto della gente", ha tuonato, "Il Pd ha chiesto i voti per sconfiggere M5S e M5S per sconfiggere Pd: hanno fatto il contrario, questo è fregare il voto della gente". Durante la trasmissione spicca anche lo scontro con Aida Nizar, finita nel mirino delle polemiche a suo tempo per i bagni nelle fontane di Roma. "Sono una persona in grado di argomentare. Però me lo dovete lasciar fare, sennò me ne vado: non sono venuta qui a fare il pagliaccio", ha detto la Meloni alla showgirl che la interrompeva. "Lei parla quattro lingue. Possibile che non ha un altro modo per guadagnarsi da vivere, diverso dal farsi il bagno nelle fontane?".

Lilli Gruber ad Amici, porta la politica dalla De Filippi: "Dovete dire basta", affondo contro Salvini. Libero Quotidiano il 15 Dicembre 2019. Lilli Gruber prosegue la sua crociata contro gli uomini. Questa volta, la conduttrice di Otto e mezzo è stata ospite di Amici per presentare il suo nuovo libro (Basta! Il potere delle donne contro la politica del testosterone) dal forte sapore femminista e anti-maschilista. E il messaggio lanciato a tutte le donne è stato chiaro: «Agli uomini che vi negano il potere, il profitto e il piacere dovete dire basta. Dovete pretendere il potere», ha proseguito la giornalista, «non ne abbiate paura, e pretendete pure le rose», ha spiegato la Gruber al pubblico plaudente. Secondo molti, il riferimento alle rose è una allusione anche all' omaggio floreale mai ricevuto da Matteo Salvini. Il leader leghista, in effetti, dopo aver promesso alla conduttrice che le avrebbe fatto avere un mazzo di fiori, pare non abbia ottemperato alla promessa, cosa che la Gruber non avrebbe mai digerito. Intervistata dal Fatto Quotidiano, la conduttrice ha spiegato che l' ex ministro per giustificarsi le avrebbe detto: «Sono un maschietto. Peggio, ha detto "ho i limiti di un maschietto". Sottinteso: non ci si può far niente, è la nostra natura. Con questa scusa la disuguaglianza di genere si è perpetuata nel tempo. Basta». Salvini, insomma, simbolo vivente del maschio a cui dire basta.

Otto e Mezzo, petizione contro Lilli Gruber: "Non può fare la giornalista, La7 la rimuova". Libero Quotidiano il 13 Ottobre 2019. Faziosa, troppo faziosa. Così faziosa da attrarre anche una petizione. Si parla di Lilli Gruber e la petizione chieda che venga rimossa dalla conduzione di Otto e Mezzo, il programma che conduce da anni su La7 in prime-time. Un'iniziativa che si trova ormai da una settimana sul sito change.org. La conduttrice finisce nel mirino per il suo atteggiamento tropo schierato, per il suo anti-salvinismo militante. Nel testo della richiesta si legge: "Lilli Gruber non sembra essere in grado di fare il mestiere della giornalista in maniera obiettiva ed equanime. Il suo stile di giornalismo, giudicato fazioso e strumentale all'agenda politico-finanziaria neoliberista, offende troppe persone per poter continuare ad avere uno spazio importante come quello di Otto e Mezzo". Dunque, il riferimento a quanto recentemente accaduto nel corso dell'intervista, accesissima, con Matteo Salvini, presente in studio: "In una recente puntata della trasmissione, la conduttrice si è permessa persino di offendere un precedente Ministro della Repubblica utilizzando la tecnica del body shaming (offese e bullismo per le condizioni del corpo, non considerato conforme agli standard di bellezza imposti dai media)". Dunque, la perentoria richiesta: "Chiediamo che La7 rimuova Lilli Gruber dalla posizione di presentatrice di Otto e Mezzo, o sostituisca la trasmissione con qualcosa di nuovo ed informativo".

Da corriere.it il 4 ottobre 2019. «Onorevole Meloni, sta dicendo una sciocchezza»; «Io sono stufa di questo atteggiamento. Se dice che io dica delle sciocchezze mi deve rispondere nel merito, perché io sono abituata ad argomentare»: duro scontro in tv tra Lilli Gruber e la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni, ospite a «Otto e mezzo» su La7. A scatenare il litigio, è stata l'affermazione della giornalista sul ragionamento della sua ospite in merito al rapporto tra l'Italia e i Paesi dell'Unione europea: «Dice una sciocchezza» si lascia sfuggire Gruber. «Non si permetta, deve argomentare» replica Meloni parlando di Unione Europea e manovre economiche dei singoli paesi.

Alessandra Menzani per “Libero quotidiano” il 4 dicembre 2019. Lilli Gruber è talmente femminista che invita solo uomini. La conduttrice scrive libri contro la politica al testosterone e contro i maschi che occupano le posizioni di comando a discapito di donne meritevoli ma lei, potendo invitare chi le pare, preferisce avere uomini a Otto e mezzo, il talk show quotidiano su La7. Quello che nota Italia Oggi in un articolo dal titolo «Lilli Gruber è maschilista al 90 per cento» è fondato. Balza all' occhio che se da un lato ci sono personaggi "abbonati" alla sua trasmissione - Marco Travaglio, Paolo Mieli, Alessandro Sallusti, Massimo Cacciari, Massimo Giannini, Alessandro De Angelis, Antonio Padellaro, Beppe Severgnini, Andrea Scanzi e compagnia cantante - dall' altro non ci sia una squadra femminile altrettanto assidua. Laura Boldrini, Marianna Aprile, Annalisa Cuzzocrea, Giorgia Meloni (per farci a botte): poche altre e non tutti i giorni.

QUOTE ROSA. E non ci venga a dire che non ci siano abbastanza politiche o penne del giornalismo valide e spendibili, se no andrebbe contro alle sue stesse granitiche convinzioni. Di signore ce ne sarebbero, e pure agguerrite: Luisella Costamagna, Ilaria D' Amico, Maria Giovanna Maglie, Annalisa Chirico, Myrta Merlino, ma a occhio e croce non si vedono a Otto e mezzo. Ne invita più Giovanni Floris, di donne. Curioso, poi, quello che è successo nella puntata dello scorso 30 novembre raccontato da Sandra Mascherpa. Tanto per cominciare, al dibattito partecipavano tre uomini (il sociologo Domenico De Masi, il costituzionalista Roberto Zaccaria e il direttore de il Foglio Claudio Cerasa) più una sola donna (la scrittrice Maura Gancitano). Dunque le "quote rosa", per usare una espressione bruttissima, erano del 25%. Bene. Quando prendevano la parola gli interlocutori maschi compariva, sempre e immediatamente, il nome e il cognome sul sottopancia accompagnato dal ruolo professionale o la testata. Sotto la Gancitano invece nulla, nessuna scritta, tabula rasa. Per giunta non riusciva mai a finire un discorso. Dice che se ci fossero più donne al governo le cose andrebbero meglio però potrebbe dare per prima il buon esempio. Una battaglia, peraltro non sbagliata, che l' ex giornalista del Tg1 fa da una vita, ultimamente anche con un libro dedicato al tema in cui ha raccontato più di un aneddoto sui soggetti maschili che ha incontrato nella sua carriera. Non tutti molto gradevoli. In una anticipazione del Corriere della sera di "Basta!", spuntano un paio di ricordi. Quando lei, ventenne, stava per intervistare il dirigente di una grande azienda multinazionale per la Rai di Bolzano. Lui le tende la mano ed esordisce: «Prima di tutto, signora o signorina?». E lei: «E lei, signore o signorino?».

NIENTE COMPLIMENTI. Anni dopo, una solfa molto simile. Siamo a Roma. Lilli è a colloquio con un direttore di rete Rai. Stretta di mano e saluto: «Buongiorno, ma che buon profumo!», dice il dirigente alla Gruber. «E lei, che profumo usa?», risponde la giornalista. Di sicuro, non si possono fare complimenti alla giornalista di Otto e mezzo. Ma come mai tanti uomini intorno alla poltrona della più rossa del tele-giornalismo italiano? A pensar male verrebbe da ipotizzare che Lilli non voglia essere oscurata. Una paura che non ha la collega Daria Bignardi, che avrà tanti difetti ma non certo quello di non invitare le donne. Infatti questa sera in prime time avrà proprio lei, la Gruber, ospite all' Assedio sul Canale Nove, in quella che si preannuncia l' intervista del "millennio". Carriera, amori, battaglie, politica e testosterone. Non mancherà nessun ingrediente. Prepariamo i pop corn.

Meloni asfalta la Gruber: "Non si permetta di dire che dico sciocchezze". Duro scontro tra il leader di Fratelli d'Italia e Lilli Gruber a Ottto e Mezzo su La7. E la Meloni non le manda a dire. Roberta Damiata, Giovedì 03/10/2019 su il Giornale. Duro scontro tra Giorgia Meloni e Lilli Gruber, durante la puntata di Otto e mezzo su La7. Dopo l’incontro scontro con l’ex vice presidente del consiglio Matteo Salvini, questa sera l’attacco viene rivolto alla leader di Fratelli d’Italia. A scatenare la reazione della Meloni è stata l’affermazione della Gruber in merito al ragionamento che il leader di FdI stava facendo sul rapporto tra l’Italia e i paesi europei. Secondo la leader di Fratelli d’Italia, l'Unione europea sarebbe stata più comprensiva con altri governi, come quello di Matteo Renzi, rispetto a quello in cui c'era Matteo Salvini. "L’Unione europea ha imposto un deficit all'1,4 per cento adesso vediamo cosa dirà", dice la leader di Fratelli D'Italia. La Gruber la interrompe: “Onorevole Meloni, sta dicendo una sciocchezza” la incalza la Gruber, ma la Meloni non ci sta e replica prontamente: "Io sono stufa di questo atteggiamento. Se dice che io dica delle sciocchezze mi deve rispondere nel merito, perché io sono abituata ad argomentare”. "Guardi io non mi metto a litigare con lei", "Eh no, deve argomentare, sono stufa di sentirmi dire che dico sciocchezze". Continuiamo pure, dice la Gruber, “Sì ma con rispetto” conclude senza peli sulla lingua Giorgia Meloni.

Giorgia Meloni a Otto e Mezzo replica a Lilli Gruber: "Ma che razza di domanda è?" Libero Quotidiano il 13 Novembre 2019. Una delle più imperdibili puntate di sempre, quella di Otto e Mezzo di martedì 12 novembre. La puntata in cui Lilli Gruber è stata distrutta da Giorgia Meloni, che la ha condotta a una sostanziale crisi di nervi dopo un violentissimo duello su La7. E i momenti di tensione, considerata anche la presenza di Marco Travaglio in studio, si sono sprecati. Ad un certo punto, la Gruber con fare beffardo si rivolge al direttore del Fatto Quotidiano: "Marco Travaglio, forse riesci a convincere Giorgia Meloni che sarebbe utile per tutti mettere un tetto al contante?". E lui: "Non voglio spiegare niente a nessuno, dico la mia". A quel punto si inserisce la leader di Fratelli d'Italia: "Il ragionamento funzionerebbe se ci fosse lo stesso tetto all'uso del contante in tutta Europa, perché altrimenti la gente col rotolino di contanti prende quei soldi e li va a spendere in Austria e il problema della criminalità non l'abbiamo risolto". Parole che ovviamente non piacciono a Lilli Gruber, la quale si rivolge alla Meloni: "Conosce tante persone che avranno un problema a spendere più di 2mila euro in contanti?", chiede con fare provocatorio. Strepitosa la risposta della Meloni, che affonda ancora la Gruber: "La politica è una cosa seria, la domanda è malposta. Il limite al contante è una questione serissima ma non serve a combattere l'evasione fiscale e la criminalità. Non esiste tetto al limite al contante nella principale economia europea che è quella tedesca. Non mi sembra una mossa intelligente", ha concluso Giorgia Meloni.

Otto e mezzo, Lilli Gruber sgrida Giorgia Meloni: "Risponda veloce". La risposta è durissima. Libero Quotidiano il 13 Novembre 2019. Clima tesissimo a Otto e mezzo tra la conduttrice Lilli Gruber e la sua ospite Giorgia Meloni. Ad un certo punto la Gruber, in modo veramente maleducato nei confronti della leader di Fratelli d'Italia, la rimprovera: "Deve essere rapida nelle risposte sennò famo tre domande in trenta minuti". La Meloni resta di sasso: "Ma scusi sono temi complessi, non si possono affrontare superficialmente". La conduttrice ormai fuori controllo insiste: "Allora andiamo in un'altra trasmissione". A quel punto la leader di Fratelli d'Italia la gela: "Ma questa non è una trasmissione superficiale". Poco prima c'era stata un'altra accesissima discussione tra la Gruber e Meloni sui rapporti tra governi e Unione europea, la Leader di Fratelli d'Italia.

Lite di fuoco Gruber-Meloni: "Ora le faccio togliere l'audio". Scontro di fuoco in diretta tra Gruber e la Meloni a Otto e mezzo. Nico Di Giuseppe, Martedì 12/11/2019 su Il Giornale. Non è la prima che si scontrano in tv. C'era quindi da aspettarselo che tra Lilli Gruber e Giorgia Meloni sarebbe finita anche questa volta in rissa. E così è stato. Il tutto davanti a un attonito Marco Travaglio. Gli animi si scaldano subito sul tema del razzismo, dell'antisemitismo e del caso Liliana Segre. La Gruber chiede se pensa che nella destra ci sia qualche ambiguità sul tema, ma la Meloni non ci sta, nega che ci siano ambiguità e incalza facendo l'esempio di Chef Rubio che "scrive "sionisti cancro del mondo" e al quale "il Pd vuole dare un programma in Rai" e voi chiedete a me sull'antisemitismo? Chiedete al PD!". La Gruber incassa e non riesce a ribattere se non minacciando di togliere l'audio al leader di Fratelli d'Italia perché "già facciamo tardissimo" e altrimenti "mi licenziano". Le due hanno continuato a parlarsi addosso per qualche altro secondo. Poi Lilli Gruber ha chiuso la discussione lanciando la pubblicità. “Anche stasera volevano togliermi l’audio ma penso di essermela cavata comunque”, ha commentato a caldo sui social la Meloni. "La Gruber stasera ha invitato Giorgia Meloni con l'evidente obiettivo di farle un'imboscata. Ne è uscita asfaltata. La Gruber. #ottoemezzo"' così Francesco Lollobrigida di Fratelli d'Italia su twitter. Neanche un mese fa, c'era stato un altro durissimo scontro tra le due donne. La miccia che allora fece scattare il caos fu il tema dell'Unione europea e l'indulgenza nei confronti del governo Renzi rispetto a Salvini. "L’Unione europea ha imposto un deficit all'1,4 per cento adesso vediamo cosa dirà", aveva detto la leader di Fratelli D'Italia. La Gruber aveva ribattuto: “Onorevole Meloni, sta dicendo una sciocchezza”. A quel punto la Meloni non ha retto e ha replicato: "Io sono stufa di questo atteggiamento. Se dice che io dica delle sciocchezze mi deve rispondere nel merito, perché io sono abituata ad argomentare”. "Guardi io non mi metto a litigare con lei", "Eh no, deve argomentare, sono stufa di sentirmi dire che dico sciocchezze". Continuiamo pure, dice la Gruber, “Sì ma con rispetto” concludeva senza peli sulla lingua Giorgia Meloni.

Otto e Mezzo, rissa tra Giorgia Meloni e Lilli Gruber: "Le tolgo l'audio", la conduttrice all'angolo minaccia. Libero Quotidiano il 13 Novembre 2019. Momenti di altissima tensione negli studi di Otto e Mezzo su La7. Lo scontro è tutto tra Lilli Gruber e Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d'Italia. La conduttrice parla delle polemiche legate a Liliana Segre, parla di odio in rete e antisemitismo. "Io le faccio vedere una cosa e lei mi dice cosa ne pensa", afferma la Gruber. E subito la Meloni schizza: "No, c'è un problema anche a sinistra". E subito la leader di FdI si gioca l'asso: "C'è questo signore che si chiama Chef Rubio e lavora in televisione. E scrive: I vermi sionisti...", dunque passa in rassegna una serie di orrori scritti dal cuoco che sparge odio. Ma alla Gruber, il cui unico obiettivo è dar contro a chi sta a destra, se l'odio arriva da sinistra non interessa. Lo dice chiaro e tondo: "Non mi interessa Chef Rubio. Pessimo". E la Meloni continua con le citazioni: "Israele stato nazista, cancro del mondo". La conduttrice, già messa clamorosamente all'angolo - il suo giochetto è stato smascherato - sbrocca: "Onorevole, la smetta". Ma la Meloni non smette, neppure per idea. Anzi, cita Michele Anzaldi, le sue parole, quelle del piddino che vorrebbe Chef Rubio in Rai, una vera aberrazione: "La Rai avrà il coraggio di proporle un programma?", la leader FdI riporta le parole di Anzaldi. Insomma, tocca il piddino e la Gruber non ci vede più: "Va bene, va bene". Ma la Meloni insiste: "La sinistra vuole dare un programma in Rai a questo signore e lei viene a chiedere da me? Chiedete al Pd. Parlamentari che scrivono queste cose non ne ho". Lilli: "Sì, certo. Io ho il dovere di farle delle domande". Meloni: "Io le sto rispondendo. Combatto l'antisemitismo". Insomma, la Meloni risponde. E questo fa capitolare la Gruber, in piena crisi di nervi: "Mi faccia finire o le faccio togliere l'audio. Già facciamo tardi e mi licenziano. Io faccio le domande sulla destra italiana...". "Le ho risposto". E la Gruber, in stato confusionale: "No, lei ha detto che vanno bene i citofoni", il riferimento è alla denuncia sulle case popolari di Fratelli d'Italia. Sbandata clamorosa di Lilli, e la Meloni attacca: "Ma che c'entrano i citofoni col sionismo?". Game, set, match. "Devo chiudere, no no... benissimo, bravissima. Ha fatto tutto lei". E lancia "il Punto" di Paolo Pagliaro. Già, meglio interrompere quel massacro. Uno scontro televisivo che, alla Meloni, avrà fatto guadagnare il 5% nei sondaggi.

Filippo Facci per “Libero Quotidiano” il 14 Novembre 2019. Noi guardiamo in tv lo scontro Gruber-Meloni (ma anche Gruber-Salvini) e facciamo mediamente ragionamenti da bar, e questo per una semplice ragione: siamo al bar, l ambiente ormai è quello, da briscola, da grappino, da partita guardata alla tv senza cervellotici ragionamenti da dopopartita, ciascuno provvisto dell' armamentario classico, ossia «ladri», «arbitro cornuto», «non era fallo», «era rigore» eccetera. Non c' è, quindi, da richiamarsi al «dovere di informare» e a una presunta equità giornalistica, non c'è da invocare una veridicità delle risposte e un galateo politico-televisivo: c' è una partita, punto, e c'è un pubblico che fa il tifo, con la complicazione che il risultato finale non comparirà sul tabellone perché sarà basato sull' interpretazione di ciascuno. Ogni sera, la Gruber pensa di avere vinto. E, ogni sera, spesso, anche l' ospite più maltrattato pensa di avere vinto. Perché? Da qui la domanda: ma allora che giocano a fare? Chi le obbliga? Che ci guadagnano? Perché Lilli Gruber invita Giorgia Meloni, se le sta sulle balle? Perché Giorgia Meloni va da Lilli Gruber, se sa che verrà maltrattata? Anche qui: la risposta non c' entra niente con presunti «doveri» dei giornalisti o dei politici verso il pubblico verso o «gli italiani». La Gruber se ne fotte, invita chi vuole e non invita chi non vuole, se avesse la pretesa di apparire equa non inviterebbe certe «spalle» faziosissime e prezzolate che tolgono autorevolezza al suo programma. Mentre la Meloni (ma anche un Salvini) se ne fotte a sua volta, perché sa benissimo che in effetti nella trasmissione potrebbe non andare (ce n' è tante altre) ma ci va lo stesso, perché le probabilità di uscirne vincente sono comunque alte: se tutto andrà tranquillo, bene o male, esporrà le sue opinioni, se sarà un caos meglio ancora, i passaggi televisivi saranno moltiplicati e con essi i consensi. È questa la differenza essenziale tra la faziosissima e inconsapevole Gruber e la faziosissima e consapevole Meloni: entrambe pensano di avere vinto, entrambe consolidano o conquistano un proprio e separato pubblico, certo, ma con il fondamentale dettaglio che la Gruber fa crescere solo delle percentuali d' ascolto che giovano al suo contratto e all' inserzionista pubblicitario (sai che ce ne frega a noi) mentre la Meloni fa crescere delle percentuali di consenso politico che, potenzialmente, potrebbero cambiare gli assetti politici. In altre parole, stiamo riscoprendo l' acqua calda: cioè che la demonizzazione porta fortuna a chi demonizza, ma ancora di più ne porta al demonizzato. E in genere, spiace ma è vero, il demonizzato è di destra e il demonizzatore è di sinistra, anche se ufficialmente no, ma che dite, Tizio è equidistante, fa solo domande, lui dalla parte del lettore o dell'ascoltatore o della «verità», le solite cazzate ipocrite. Dietlinde Gruber, detta Lilli, ne è specialista: è stata europarlamentare per l' Ulivo, ma chi se lo ricorda; ha questa sua presenza apparentemente irrilevante, dà sempre l' impressione che senza una scaletta scritta non troverebbe neppure l' uscita, se l' ospite è gradito le sue domande sono solo delle virgole, delle interlinee tra due righe di testo, sono domande che stanno sulla punta della lingua di chi, come un certo pubblico a casa, di un argomento ignora tutto: per questo piace. Poi, per le stesse ragioni, dispiace ad altri: e parecchio. Se fosse lei a intervistarlo, per esempio, a me renderebbe simpatico persino Stalin. Anche perché, in mezzo, c' è il bar. Questo siamo Aborriamo i litigi televisivi: poi corriamo a guardarli. Le homepage dei quotidiani ne ospitano ogni giorno. Gli ascolti televisivi ne escono premiati. A parole condanniamo, poi, catodicamente, homo homini lupus. Peraltro, a forza di dirlo, la comunicazione sta cambiando per davvero: e la popolarità «social» che cresce maggiormente è proprio quella di Giorgia Meloni, i cui profili negli ultimi due mesi hanno superato persino lo specialista Matteo Salvini. Ma, anche in rete, il meccanismo che premia il demonizzato si ripropone, si amplifica. Il remix di «Io sono Giorgia», montaggio rap del comizio che la Meloni tenne in piazza San Giovanni a Roma il 19 ottobre, ha ormai sfiorato i 5 milioni di visualizzazioni, e ha lasciato l' amaro in bocca a chi, con quel remix, voleva solo sfottere la leader di Fratelli d' Italia. Pazienza, gli autori del montaggio ne hanno guadagnato in «click», la Meloni, probabilmente, ne ha guadagnato in consensi. Stesso schema della Gruber. Filippo Facci

Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” il 14 Novembre 2019. Sospeso sette giorni dal lavoro, senza stipendio. Il massimo della sanzione prevista prima del licenziamento. La Rai va giù dura nei confronti del proprio giornalista Fabio Sanfilippo, caporedattore di Radio 1, "colpevole" di aver scritto e pubblicato sul profilo personale di Facebook un post critico nei confronti di Matteo Salvini, lo scorso 4 settembre. «Con la vita che ti eri abituato a fare tempo sei mesi ti spari nemico mio () Mi dispiace per tua figlia, ma avrà tempo per riprendersi, basta farla seguire da persone qualificate», erano i passaggi più contestati del suo commento, relativo alle scelte politiche del leader leghista che aveva da poco fatto cadere il governo di cui era vicepremier. Lo stesso Salvini diede grande risonanza a quel post - opera di un giornalista che non si occupava neanche di politica - apostrofando poi Sanfilippo: «Schifoso». Ma il caso non è isolato: ad un altro giornalista Rai è stata recapitata una lettera firmata dall' ad Fabrizio Salini e dal direttore delle Risorse umane Felice Ventura dove gli si contestano post e tweet contro Salvini, scritti su profili personali, addirittura aperti con un soprannome. Insomma, un cronista che pare quasi vittima di una delazione. «La Rai si riserva di adire le opportune sedi giudiziarie a tutela dei propri diritti e della propria immagine », recita la nota della tv pubblica in riferimento a Sanfilippo. Il quale, così com' era avvenuto a seguito delle polemiche, non indietreggia: sono stato «condannato per aver espresso privatamente una opinione e una critica nei confronti di un potente». Il giornalista si dice «allibito di fronte a una decisione che si basa su presupposto censorio inaccettabile». L' avvocato di Sanfilippo, Vincenzo Iacovino, aggiunge che «ci rivolgeremo al giudice del Lavoro e alla Procura perché accertino eventuali responsabilità in questa vicenda che riguarda la salvaguardia di un diritto garantito dalla Costituzione ». Va detto che la Rai, che sta lavorando ad un codice di regolamentazione per l' utilizzo dei social dei propri dipendenti, non sembra aver utilizzato lo stesso metro di giudizio nei confronti dei propri giornalisti di parere politico opposto. Come ad esempio Angelo Polimeno Bottai, vicedirettore del Tg1 e nipote del gerarca fascista Giuseppe Bottai: contestò il pugno chiuso di Heather Parisi ospite da Fabio Fazio, quindi di una trasmissione Rai, dicendo che rappresentava «un simbolo di sterminio di intere popolazioni e classi sociali»; oppure Anna Mazzone del Tg2 che insultò Carola Rackete («blitz della crucca») con un tweet. Due pesi e due misure?

Tutto quello che la Gruber non ha voluto sentire dalla Meloni su Chef Rubio. Alberto Consoli su Il Secolo D'Italia mercoledì 13 novembre 2019.  Ecco, ora si capisce il motivo per cui Lilli Gruber era adirata. A dire poco. Ecco cosa non voleva che Giorgia Meloni leggesse e facesse vedere nella burrascosa puntata di Otto e mezzo di martedì. “Le tolgo l’audio”, minacciava la conduttrice. La leader di FdI voleva leggere – e ci è in parte riuscita – la vera e propria ‘crociata’ antisionista che Chef Rubio porta avanti sui social. Cara Gruber gli antisemiti non siamo noi, guardi altrove, era il senso dell’intervento della Meloni. Che ha rintuzzato le domande velenose della conduttrice che parlava di “ambiguità” nella destra in materia di antisemitismo. Il cuoco “unto e bisunto”, che i renziani hanno avuto l’ardire di proporre in Rai, sui suoi profili social si definisce filosemita ma antisionista. Un distinguo che si traduce in continui attacchi a Israele, al suo governo e alla sua politica. All’anima dell’ambiguità.

Chef Rubio: “Sionisti cancro del mondo”. Su twitter ci sono tutte le tappe della crociata contro Israele che Chef Rubio ha iniziato il 13 agosto scorso, in un tweet pubblicato in occasione della morte del reporter italiano Simone Camilli a Gaza. Rubio twitta: “Israele ‘nonstato’ nazista. Sionisti cancro del mondo. Rip”. Sempre contro Israele il 25 ottobre scorso Chef Rubio scrive: “Mutilare i civili palestinesi è ciò che riesce meglio all’IDF. Per questo danno lezioni in tutto il mondo: farlo in maniera pulita e letale. È successo in #Guatemala, in #India (maggior acquirente di armi israeliane) per il #Kashmir, e adesso in Chile. Perché non lo dite?”. Ancora. Il 31 ottobre pubblica un altro tweet in cui dice: “I palestinesi vogliono LIBERTÀ, GIUSTIZIA, e UGUAGLIANZA! È inammissibile che non abbiano UGUALI DIRITTI; non cessi la vergognosa occupazione israelo-sionista e che i profughi non possano tornare nella loro terra. Riappropriandosi di ciò che gli è stato tolto!”. Nello stesso giorno, pubblica su twitter l’articolo de ‘Il Foglio‘ dal titolo: ‘E’ ora di portare Israele in Europa’. Rubio polemizza: “E prima col pallone, e poi con le tappe del Giro d’Italia, e poi l’EuroVision, e poi cos’altro? Ma non era la più grande democrazia mediorientale? Poi cosa sarà? La più grande democrazia europea? Come si farà coi crimini di guerra e diritti umani violati?”. E ancora, sulla scia dei diritti violati: “Khalida Jarra è stata incarcerata come migliaia di palestinesi ogni anno da Israele, senza una formale accusa, senza prove e soprattutto senza processo. Questo succede nella più grande democrazia del medioriente, anzi del mondo, anzi dell’universo! Grazie @Giovanipalesti1”. E sempre su Khalida Jarra scrive: “Nessuna indignazione per la deputata, femminista #KhalidaJarrar che si farà il carcere amministrativo’senza processo? Eppure essendo palestinese quindi semita, si tratta di antisemitismo. Per la sua liberazione manifestazioni in città europee, non da noi”. Insomma, la Gruber non voleva che la leader di FdI entrasse nel merito. “La sinistra a Chef Rubio che scrive ‘sionisti cancro del mondo’ gli vuole dare un programma in Rai e voi chiedete a me sull’antisemitismo? Chiedete al Pd”. 

Bernardini de Pace contro Lilli Gruber: «Dovrebbe vergognarsi di essere così faziosa». Il Secolo d'Italia mercoledì 13 novembre 2019. “La Gruber dovrebbe vergognarsi quale giornalista di essere così smaccatamente parziale”. Lo scrive su Twitter il noto avvocato Annamaria Bernardini de Pace, in merito alla lite andata in onda ieri sera, a Otto e mezzo, tra Lilli Gruber e Giorgia Meloni. A far scattare la giornalista, la risposta della leader di Fratelli d’Italia alla domanda: “Non c’è ambiguità nella destra italiana?”. “Forse – ha replicato Meloni – c’è ambiguità nella sinistra italiana, che se ci fosse stata la parola Israele nelle mozione Segre non l’avrebbe votata”. Una risposta fuori tema per Gruber, indispettita dalla mossa di Meloni, che ha anche tirato fuori gli screenshot dei tweet di Chef Rubio contro Israele e di Michele Anzaldi di Italia Viva, che ha chiesto per Rubio un programma in Rai.

Lo scontro tra Lilli Gruber e Giorgia Meloni. “Io penso di avere il dovere di farle delle domande, e siccome oggi ho ospite una rappresentante della destra italiana chiedo delle questioni attinenti…”, ha sbottato Gruber. “Le faccio togliere l’audio! Mi faccia finire che già facciamo tardissimo e mi licenziano, per cui – ha continuato la giornalista – le faccio le domande sulla destra italiana su cui non ha risposto…”. “Su questa cosa mi indispettisco, lei sta facendo delle accuse verso di me, verso la destra italiana”, ha risposto Meloni, facendo battere in ritirata Gruber. “Mi indispettisco io e non sto facendo accuse… ha fatto tutto lei”, si è giustificata la giornalista.

Antonello Caporale per il “Fatto quotidiano” il 14 novembre 2019.

Se la sente di prendere un impegno serio, a cui guardano con fiducia migliaia di italiani, e di onorarlo?

«Esponga».

Rinunci a utilizzare l'avverbio "sommessamente". Lo mette ovunque, un po' come il fascismo.

«Non sento di poterle dare soddisfazione».

Sono Giorgia.

«Vede com'è la comunicazione? Da un anno ripetevo questo refrain. Aveva ritmo».

Sono una donna.

«Racchiudeva in quattro frasi tronche e asciutte la radice della mia azione politica».

Sono una mamma.

«La difesa dell' identità, il valore della patria».

Sono italiana.

«Il successo, diciamo così, è venuto imprevisto e tardivo».

Giorgia Meloni ora è in alto nei sondaggi. Sale, sale, sale. È questo però il tempo che si sale in un attimo e si scende ancor più velocemente.

«Sono cosciente del rischio, e so che il voto degli italiani spesso sia troppo emotivo».

Ma, a differenza di altri partiti, Fratelli d'Italia si è fatto la sua gavetta. Ha conosciuto la povertà, quando battagliava nelle piazze con il due o il tre per cento, poi quelli della minima sicurezza, quando abbiamo superato la soglia del quattro per cento alle Europee. Adesso, che sarebbe il momento del benessere, mi vede esaltata?

«Non è più necessario il cognome. Adesso basta solo Giorgia, come un'icona pop. Finché sei piccola e ti sbatti nella bassa classifica nessuno si accorge del tuo lavoro. Quando però la superi, be' la gente si sente più tranquilla di avvicinarti. Ha presente il supermercato? Se il detersivo è sugli scaffali in bella vista, lei è disposto a fare la prova acquisto».

Lei ormai è dappertutto. Non c'è trasmissione tv dove non sbuchi, giornale che non richieda di intervistarla. Senza fare il conto dei social network che presidia da mattina a sera.

«I social sono insieme disgrazia e fortuna. Riescono a metterti in contatto con gli elettori, senza dover subire mediazioni, ostruzioni, interpretazioni interessate. Però impongono un linguaggio semplificato, a volte persino banale. Rituale, ripetitivo».

A volte lei annoia.

«Anch' io mi annoio, ma ricordo bene la lezione che ci dette Silvio Berlusconi qualche anno fa. Ripetere il medesimo concetto almeno sette volte perché davvero entri nella testa di tutti. Ed essere certi che ciò che per noi è straconosciuto, per la massa resta invece spesso oscuro e vago. Bisogna avere rispetto per le persone e inseguire anche quelli a cui la politica non interessa granché».

A furia di parlare sempre si rischia però di dire castronerie. Le zucchine di mare le ricorda?

«M'impappinai. Avevo in mente la lunghezza della zucchina di terra e il diametro della vongola di mare, oggetto della minuziosa ma insopportabile regolamentazione europea. Ero distratta e coniugai la zucchina con il mare, feci involontariamente una crasi».

L'altroieri ha detto che i citofoni sono pubblici per difendere due suoi esponenti che hanno promosso una vergognosa caccia agli immigrati regolarmente assegnatari di case popolari filmando i loro cognomi.

«Volevano denunciare una stortura delle norme, avevano bisogno di mostrare platealmente come in certi posti il settanta per cento degli alloggi vada a chi non è italiano. È giusto secondo lei?»

Sul suo barcone stanno salendo un po' tutti. Lei seleziona o raccoglie bendata?

«Io faccio l'analisi del sangue. Chiedo, leggo, mi documento».

Il suo assessore regionale siciliano godrà della prescrizione e quindi non vedrà concluso il suo processo per truffa. Lei lo sa?

«Abbiamo una commissione interna che verifica ogni caso. La congruità dei comportamenti, la serietà delle accuse, l'opportunità o meno di avanzare una qualunque decisione. Non mi è stato comunicato nulla di inquietante».

Perfetto. Passiamo ad altro. Giorgia Meloni vorrebbe votare domani.

«Dissi a Mattarella, al tempo della formazione di questo governo, che non si può legittimare una coalizione che ha chiesto il voto su posizioni opposte. Andare alle urne era e resta una necessità».

Lei ha il fisico da opposizione.

«Che dice?»

Al governo rischia di scontentare. Meglio l'opposizione. Sono Giorgia, sono donna, sono italiana eccetera.

«Lo so che se verrà il governo sarà una prova dura. Sono ansiosa di mio e tento sempre di non promettere il paradiso. Se ricorda, faccio solo un esempio, abbiamo proposto la flat tax per la parte incrementale del reddito. Ti detasso solo la quota che hai guadagnato in più rispetto all' anno precedente. Niente pazzie col fisco».

Salvini è un incosciente.

«Non mi permetto. Sto dicendo che ho misura, che sento il rischio di fallire o deludere e prendo le distanze dagli eccessi».

Il suo amico Matteo la ama al punto da aver coniato, così si dice, un nomignolo per lei: nana malefica.

«Lo ha detto a lei?»

Non è un complimento.

«Le donne sono sempre più fastidiose».

Fastidiosa è poco. Lei è arrembante, insidiosa, cattivella.

«Siamo seri: Fratelli d'Italia cresce senza togliere un solo voto alla Lega. Dove sta il problema?»

Giorgia la sa lunga.

«Lealtà estrema, mio caro».

Piazzapulita, Lilli Gruber attacca Salvini: "Zecca? Termine usato contro gli ebrei". Libero Quotidiano il 31 Ottobre 2019. "Trovo intollerabile lo sdoganamento del linguaggio violento". Lilli Gruber a Piazzapulita di Corrado Formigli ce l'ha con tutti ma soprattuto con lui, Matteo Salvini. La conduttrice di Otto e mezzo sostiene che il linguaggio di certi politici sia responsabile del clima di odio. In particolare stigmatizza un episodio. "Quando Salvini ha chiamato Carola Rackete 'zecca'. Voi ricordate come li chiamavano gli ebrei? Zecche". Lilli Gruber ha poi attaccato il centrodestra per non avere applaudito in aula Liliana Segre. Formigli era entuasiasta di avere un'ospite così scatenata: entrambi parteggiavano per la stessa parte politica, se la cantavano e se la suonavano. Che eroi. 

Otto e Mezzo, Lilli Gruber passa all'insulto contro Salvini: "Maleducato, sessista, troppo testosterone". Libero Quotidiano il 26 Ottobre 2019. Lady Otto e Mezzo, ossia Lilli Gruber, si confessa e si racconta in una lunga intervista concessa a Io Donna. Colloquio in cui la conduttrice de La7 presenta il suo ultimo libro Basta! Il potere delle donne contro la politica del testosterone (Solferino), una sorta di pamphlet femminista. "Da tempo covavo l'idea di scrivere qualcosa a tema donne, anche se non mi sarei mai definita femminista, anzi sono stata molto critica nei confronti delle quote rosa", premette Lilli Gruber. E nel corso dell'intervista, chiedono alla Gruber se ha subito episodi sgradevoli nel corso della carriera. Risposta affermativa: "Sì, da giovane, e passavo per acida o aggressiva, mentre se fossi stata un maschio avrebbero detto determinata". Lilli Gruber, dunque, passa in rassegna gli episodi: "L’alto manager di una multinazionale che quando entro per un’intervista mi chiede Signora o signorina? e io gli rispondo E lei, signore o signorino?. L’incontro con il direttore Rai che esordisce con Complimenti per l’ottimo profumo. E io ribatto: Grazie, e lei che profumo usa?. Niente di grave, ma se sei un uomo di potere, e io ancora una giovane precaria, la prima cosa che mi chiedi è il mio profumo? C’è qualcosa che non va. I complimenti si fanno alla moglie o alla fidanzata". L'intervista si trasforma, ovviamente, in un'occasione per attaccare Matteo Salvini: "Per questo mi impressionano i politici maleducati e sessisti che come Salvini fanno campagna elettorale in mutande o come Trump dicono cose come le donne le prendi per la f…. Come si può pensare di affidare il Paese a un uomo che ha detto una cosa simile?". Per inciso, Lilli la rossa aggiunge anche che l'idea di scrivere simile libro le è arrivata proprio dal... leader della Lega. "Mi ha ispirata Salvini - rivela -: basta con tutto questo testosterone, mi sono detta. Ho capito che era il momento giusto per scrivere".

BROMURO, PLEASE! Liberoquotidiano.it l'8 maggio 2019. "Non ho mica voglia ma domani devo andare dalla Lilli Gruber, simpatia portami via". Matteo Salvini attacca la conduttrice di Otto e mezzo, su La7, dove è stato invitato. "Domani (stasera 8 maggio, ndr) mi tocca, che già domenica dovevo andare da Fazio e non sono andato. Mi hanno detto che c'è rimasto male e che non ho risposto. Non è vero che non ho risposto, gli ho detto che andavo se si dimezzava lo stipendio", rincara il vicepremier leghista. E la risposta della Gruber non si è fatta attendere: "Leggo che il ministro Salvini non ha voglia di venire a Otto e mezzo e che ne fa una questione di simpatia. Visto che si è proposto lui e visto che chi viene da noi lo fa volentieri, se ha un problema il senatore Salvini può restare a casa o preferibilmente al ministero".

Otto e Mezzo, Lilli Gruber vs Matteo Salvini: "Maleducato", "Sa perché mi pagano?". Tensione brutale. Libero Quotidiano 9 Maggio 2019. Dopo le tensioni della vigilia, il faccia a faccia. A Otto e Mezzo di Lilli Gruber, su La7, mercoledì 8 maggio, ecco Matteo Salvini. Lo stesso Salvini che il giorno prima aveva detto "dovrò andare dalla Gruber anche se non ne ho voglia, simpatia portami via". Frase che aveva scatenato la conduttrice, la quale aveva replicato con un "se ne stia pure a casa, o al ministero". Ma, come detto, il ministro dell'Interno si è materializzato negli studi di Otto e Mezzo. E il confronto si è subito acceso. La Gruber, dopo aver ricordato come Salvini "ne ha fatto anche una questione di simpatia", ha aggiunto: "Mi aspettavo un mazzo di fiori di scuse". E Salvini le replica, vien da dire con evidente intento ironico: "Io le voglio un sacco di bene anche se non ho molto tempo di guardarla a casa alla televisione. Le voglio un sacco di bene e ritengo che questa trasmissione sia assolutamente equilibrata". Frase che fa ridere la Gruber. E il leghista: "Perché ride?". Lilli: "Perché allora dice sciocchezze in un comizio? Non è stato molto educato". Salvini: "Mi pagano per fare il ministro dell'Interno, non per essere educato". Gruber: "No, la pagano anche per essere educato". "E allora le manderò una piantagione di rose e margherite", conclude Salvini. Già, la tensione si taglia con il coltello...

Otto e Mezzo, Lilli Gruber impazzisce perché Matteo Salvini non risponde come vuole lei sul 25 Aprile. Libero Quotidiano 9 Maggio 2019. L'ultima puntata di Otto e mezzo con Matteo Salvini ha toccato momenti di tensione al limite del nervosismo, soprattutto da parte della padrona di casa Lilli Gruber, già inviperita per la battuta del leghista alla vigilia della puntata. Il vicepremier durante un comizio aveva annunciato che sarebbe stato ospite della Gruber: "Mi tocca andare da lei, simpatia portami via", e giù risate dei presenti. La Gruber ha quindi accolto Salvini con l'arco pieno di frecce avvelenate, imponendo un clima in studio da terzo grado. La giornalista ha sottoposto Salvini a un fuoco di fila di domande serrate, andando a toccare anche il trito e ritrito tema del 25 aprile. Salvini voleva spiegare i motivi che lo avevano spinto a stare a Corleone, anziché in uno dei tanti cortei dei partigiani. La reazione della Gruber è stata sbrigativa: "Sì vabbè... vabbè...". A quel punto Salvini ha cercato di riportare la calma: "Signora, se lei non vuol fare una trasmissione in cui si fa una domanda e si fa una risposta, io sto guardo e guardo il soffitto". Da Rita Dalla Chiesa è partita una durissima critica contro Lilli Gruber e l'atteggiamento tenuto con Matteo Salvini durante l'ultima puntata di Otto e Mezzo, mercoledì 8 maggio su La7. La conduttrice non ha gradito il modo di condurre l'intervista al vicepremier, tesa sin dalle prime battute: "Puoi essere d'accordo con lui o no - ha scritto su Twitter - puoi pensarla in modo diametralmente opposto, ma questa è l'intervista più irritante e meno super partes nella storia di Otto e Mezzo". Il commento della conduttrice ha scatenato decine di reazioni sul social, in tanti le chiedono di spiegarsi meglio. La Dalla Chiesa va giù pesante: "È il modo, la spocchia. Una giornalista deve fare domande e ascoltare riposte. Non bacchettare come una maestrina i propri ospiti. O lo fa con tutti o con nessuno". Puoi essere d’accordo con lui o no, puoi pensarla in modo diametralmente opposto, ma questa è’ l’intervista più’ irritante e meno super partes nella storia.

Otto e Mezzo, Marcello Veneziani massacra Lilli Gruber: "Faziosità isterica da vomito con Salvini". Libero Quotidiano 9 Maggio 2019. Mercoledì 8 maggio, su La7, è andato in scena l'attesissimo faccia a faccia tra Lilli Gruber e Matteo Salvini, a Otto e Mezzo. Attesissimo dopo le tensioni della vigilia, che si sono ripresentate in studio già ai primissimi secondi della trasmissione. Il punto è che alla Gruber, Salvini e la Lega proprio non piacciono e non ha mai fatto nulla per nasconderlo (ovvio, dunque, che il vicepremier del Carroccio alla vigilia avesse manifestato la sua "poca voglia" di andare negli studi di La7). E l'ostilità della Gruber nei confronti di Salvini, per chi ha seguito la puntata, è emersa senza indugi, direttissima, chiara, lampante. La sua ostilità e quella dell'altro ospite in studio, Alessandro De Angelis dell'Huffington Post. E tra chi ha protestato per quanto visto in tv, ecco Marcello Veneziani, che affida il suo sintetico pensiero a Twitter: "Fa vomitare la faziosità isterica della Gruber e della sua spalla nei confronti di Salvini - cinguetta -. Riesce a rendere simpatico Salvini anche a chi non ne aveva per lui", conclude. Parole pesantissime.

''GLI UOMINI VANNO RIEDUCATI''. Danda Santini per ''Io Donna - Corriere della Sera'' il 27 ottobre 2019. Dimenticate per un momento la Lilli Gruber di Otto e mezzo, la giornalista più rispettata (e temuta) d’Italia, sempre equilibrata, indifferente ai potenti di turno, polso fermo quando serve, conduttrice sicura che conosce bene la responsabilità di entrare nelle case di più di due milioni di italiani tutte le sere. Il suo stile giornalistico ha fatto scuola: giacca ben tagliata, posa di tre quarti e i fatti prima di tutto. Oggi, jeans e scarpe basse, c’è lo stesso rigore e la stessa serietà di vent’anni di servizio pubblico in Rai, ma in più c’è la veemenza di Lilli che va alla guerra. Perché il suo ultimo libro, Basta! Il potere delle donne contro la politica del testosterone (Solferino) è un pamphlet ricco di fatti, numeri, nomi, scritto per scuotere l’opinione pubblica.

Da dove nasce questa vena femminista?

«Da tempo covavo l’idea di scrivere qualcosa a tema donne, anche se non mi sarei mai definita “femminista”, anzi sono stata molto critica nei confronti delle quote rosa. Se sei più brava, sceglieranno te, pensavo. Mi ha ispirata Salvini: basta con tutto questo testosterone, mi sono detta. Ho capito che era il momento giusto per scrivere. Non è più tollerabile che così tanti Paesi importanti nel mondo, dagli Usa al Brasile, siano in mano a un’internazionale di bifolchi misogini che fanno danni non solo alle donne, ma a tutti. Per me era anche urgente che le donne capissero che dobbiamo svegliarci, perché sia sul fronte degli equilibri di genere che ambientale, mancano cinque minuti a mezzanotte, come dicono i tedeschi. I maschi al potere stanno lasciando un mondo a pezzi: debito pubblico, tasse, disoccupazione, fuga dei talenti, mancanza di servizi, disuguaglianze, scuole e ponti che crollano, il territorio che si disgrega. La battaglia per il potere alle donne va di pari passo con la battaglia per la sopravvivenza del pianeta».

“Se non ora, quando”, come il nome del movimento femminista del 2011?

«Sì, il momento di cambiare è ora, il pianeta ci interpella, anche se molte donne danno per scontati i diritti acquisiti, che invece non sono mai acquisiti per sempre. Il World Economic Forum spiega che ci vorranno 106 anni per ottenere la parità di genere in qualche Paese del mondo. Serve un altro passo. Le tre “v” maschili, volgarità, violenza, visibilità, risultato di una virilità impotente e aggressiva, devono essere sostituite da empatia, diplomazia, pazienza. Gli uomini devono essere rieducati. Abbiamo letto tanti libri sulle donne che amano troppo o lavorano troppo. Ecco, è ora che anche gli uomini, che amano troppo poco o lavorano troppo poco, riprendano a studiare. Che imparino a essere più femminili».

Qualcosa sta cambiando nelle nuove generazioni?

«Sì, lo vedo anche nella mia redazione, dove è normale che un giovane padre si occupi dei figli quando la mamma lavora. Noi sessantenni siamo più arrabbiate, perché dopo tante chiacchiere vogliamo i fatti, rispetto alle ventenni che hanno un atteggiamento più “friendly”, più diplomatico nei confronti dei loro coetanei. Ma devono aprire gli occhi: se lui è il tuo superiore, e ha più potere di te, non deve permettersi di fare nessuna stupida osservazione. La tolleranza deve essere zero. E le ragazze devono sapere che la vita professionale non è un gioco di seduzione. Mi vestirei sexy se avessi un capo donna?»

Ha subito episodi sgradevoli nella sua carriera?

«Sì, da giovane, e passavo per acida o aggressiva, mentre se fossi stata un maschio avrebbero detto determinata. L’alto manager di una multinazionale che quando entro per un’intervista mi chiede “Signora o signorina?” e io gli rispondo “E lei, signore o signorino?”. L’incontro con il direttore Rai che esordisce con “Complimenti per l’ottimo profumo”. E io ribatto: “Grazie, e lei che profumo usa?”. Niente di grave, ma se sei un uomo di potere, e io ancora una giovane precaria, la prima cosa che mi chiedi è il mio profumo? C’è qualcosa che non va. I complimenti si fanno alla moglie o alla fidanzata. È come se Christine Lagarde o Ursula von der Leyen davanti a un collega giovane e caruccio facessero complimenti alla sua prestanza. Non lo farebbero mai perché rispettano i ruoli, le responsabilità e lo stile. La forma è sempre anche sostanza. Per questo mi impressionano i politici maleducati e sessisti che come Salvini fanno campagna elettorale in mutande o come Trump dicono cose come “le donne le prendi per la f…”. Come si può pensare di affidare il Paese a un uomo che ha detto una cosa simile? Come minimo, maltratterà le donne e i cittadini. L’incontinenza in generale, verbale o sessuale, non può non portare a mala gestione del potere e di tutto il resto».

Usa un’espressione colorita per definire questa incontinenza.

«Il copyright è di mio marito Jacques, femminista convinto, che a proposito degli eccessi sessuali del potente di turno ha commentato: «Dovrebbero imparare a tenere il muscolo centrale nei pantaloni»».

Si definisce solidale con le donne in ansia quando devono avanzare le loro richieste. In che senso?

«Anch’io ho passato una vita in preda a quell’insicurezza insopportabile che ci infliggiamo noi donne: interrompo? intervengo? faccio questa domanda o è una sciocchezza? Ricordo ancora una conferenza stampa ad Amman con re Hussein durante la prima guerra del Golfo. Volevo chiedere al re perché si fosse fatto crescere la barba, ma avevo paura che fosse una richiesta stupida e non ho alzato la mano. Quella domanda l’ha fatta poco dopo un collega e il re sorridendo ha risposto che era per mascherare un’irritazione dovuta allo stress della guerra. Mi sono vergognata del mio autosabotaggio».

C‘è speranza nell’Europa delle donne?

«Sono stata europarlamentare per quattro anni e mezzo e, se non avessimo avuto l’Europa, chissà dove saremmo finiti. Noi donne dobbiamo volere bene all’Europa perché è il primo e per ora l’unico esempio riuscito di pacifica convivenza di nazioni per costruire un progetto di benessere e difesa di valori fondamentali come i diritti sociali e delle donne. Quando Ursula von der Leyen, bella e forte, professionale, sette figli, pluriministro in Germania, oggi prima presidente della commissione europea, ha detto «Voglio che la metà della mia Commissione sia composta da donne», è stato un segnale fortissimo. Il Parlamento europeo vede per la prima volta le donne al 40,4 per cento dei seggi».

Anche in televisione stanno crescendo le opinioniste.

«Per noi a Otto e mezzo è un obiettivo quotidiano: non voglio mai essere sola con tre uomini, e siamo tutti convinti che non è una semplice questione ideologica o televisiva per aumentare l’ascolto (io sono sempre incuriosita quando parla una donna). Fa bene a tutti vedere che ci sono donne in ruoli di potere e responsabilità e con capacità di decidere. Vogliamo il potere proprio per questo: poter decidere, far rispettare i diritti e cambiare le cose».

Per ora in Italia solo Renzi con Italia Viva ha proposto il modello 50:50. Che ne pensa?

«Do atto che è stato un politico contemporaneo. Penso sia un buon inizio e una mossa necessaria, anche se gli ho fatto notare che il 50:50 va rispettato nella sostanza: sia quando stili le liste sia quando dai gli incarichi ministeriali o di partito. Poi sta alle donne votare le donne».

Esiste una leadership al femminile?

«Sì, non perché siamo sante o ci immoliamo, ma perché le donne sono abituate a condurre una vita con responsabilità multiple. Io non ho figli, ma chi li ha lavora, gestisce casa, genitori anziani e bambini piccoli con una organizzazione del tempo incredibile. Da loro dobbiamo imparare, cambiando gli orari della giornata lavorativa. La vita migliora per tutti se si adottano modalità femminili nella gestione del tempo e del potere. Non credo nelle teorie della differenza, ma nell’abitudine concreta alla organizzazione e gestione sì. Se poi si pensa alle guerre, le donne sono le prime vittime ma anche le prime a trovare soluzioni per gestire le conseguenze dei conflitti, la mancanza di cibo, acqua, elettricità e le prime a ricostruire e rimettere insieme i cocci. In fondo anche Nancy Pelosi ha aspettato fino all’ultimo prima di lanciare il suo attacco a Trump, che invece ogni giorno apre un fronte personale».

Perché nel nostro Paese, da Boldrini a Greta, l’attacco alle donne crea così tanto consenso?

«La democratica Alexandria Ocasio-Cortez, americana, dice: «La forza con cui ci combattono indica le dimensioni del potere che stiamo scardinando». In Italia, in più, c’è un senso di impunità: se sei uomo e per di più di potere, sei intoccabile. Le donne non hanno il coraggio di denunciare, o spesso sono più severe con le altre donne, e gli uomini sono perlopiù complici. Abbiamo sperperato decenni in inutili dibattiti, come quello sulle quote. Devi partire dai fatti e dai numeri: laddove le donne sono state inserite, c’è stato un riequilibrio e le aziende sono migliorate. Spesso poi entra in gioco l’autolesionismo di chi non vuole essere giudicata come categoria panda. Ma che tu voglia o no, siamo giudicate e trattate diversamente dai maschi. Ancora una volta, parlano i dati: quelli della violenza sulle donne, sull’accesso al potere o sulla disparità di stipendi. Eppure sono sicura che ancora molti e molte pensano sia meglio, in un momento di disoccupazione, tutelare l’occupazione del maschio che mantiene la famiglia. È difficile rompere le consuetudini di una cultura plurisecolare».

I social non stanno aiutando: su questo lei ha una proposta.

«Io sono attaccata ogni giorno sui social con un sessismo e una volgarità intollerabili. Anche perché il degrado del linguaggio diventa abbrutimento fisico e violenza reale. È grave che non ci sia una sanzione: la violenza verbale – anche quella anonima, ancora più vile – deve essere sanzionata subito, e abbiamo tutti gli strumenti per farlo».

Nel libro usa un termine nuovo: glass cliff. Che cosa significa?

«Precipizio di vetro: quando la situazione è disperata, si chiama al comando una donna. C’è un’altissima probabilità di fallire e vieni subito giudicata e condannata, ma se ce la fai parte il coro: ah be’, non era così difficile allora. È successo alla Lagarde, donna tostissima e affascinante, quando è stata chiamata al Fondo Monetario Internazionale nel 2011, nel momento più cupo della crisi. Anche per Ursula von der Leyen oggi non è facile. Durante le audizioni al Parlamento europeo i candidati vengono messi sul grill, giudicati su fatti, numeri, sottoposti a mille domande. Ursula non era partita bene quando era stata designata, poi ha studiato i dossier dove temeva di essere più debole, si è presentata, ha fatto l’esame ed è passata».

Infatti il suo invito è semplice: fatevi avanti!

«Le donne devono avere più coraggio e assumersi qualche rischio: non puoi stare seduta ad aspettare che qualcuno ti regali il potere. Il mondo là fuori è competitivo, niente è gratis. Non è da tutti essere in prima linea, ma chi ha la forza, l’ambizione, la voglia, deve lanciarsi. E a chi ancora domanda «Una donna può fare il Presidente?», io dico ribaltando la questione: «Una donna può fare altrettanti danni?». L’incompetenza degli uomini di potere sta facendo troppi sfaceli, non dobbiamo più senza chiedere scusa perché esistiamo, siamo più brave e più competenti e chiediamo il potere. La parola fa paura, ma il potere in sé non è una cosa sporca, non è buono né cattivo: dipende da come lo usi. Avere potere significa avere potere di decidere e quindi di poter cambiare. Ci assumiamo già tante responsabilità, perché dovremmo avere paura di prenderci il potere? E una volta che ce lo siamo preso, sia chiaro, vogliamo anche le rose!»

«Forza ragazze, ora mettete la giacca». Lilli Gruber sfida i leader al testosterone. Pubblicato venerdì, 01 novembre 2019 da Corriere.it. Lilli Gruber, ventenne, sta per intervistare il dirigente di una grande azienda multinazionale per la Rai di Bolzano. Lui le tende la mano ed esordisce: «Prima di tutto, signora o signorina?». Prima di tutto, gli sembra naturale verificare a quale categoria appartenga nella vita privata quella giovane giornalista. Lei fa muro: «E lei, signore o signorino?». Sarebbe successo di nuovo, più avanti, ormai a Roma. Colloquio con un direttore di rete Rai. Stretta di mano e saluto: «Buongiorno, ma che buon profumo!». Lilli Gruber, in una frazione di secondo: «E lei, che profumo usa?».

Lilli Gruber, «Basta!» (Solferino, pagine 205, euro 13,90) Fine della ricreazione, scrive l’autrice di Basta! Il potere delle donne contro la politica del testosterone per le edizioni Solferino, la vita professionale non può essere un gioco di seduzione. Sono facezie, galanterie, niente di grave? Probabilmente sì, ragiona Gruber, ma si parte da queste forme e regole squilibrate dall’alto maschile verso il basso femminile e si finisce «dietro il divano o sotto la scrivania». Invisibili, impotenti, sacrificate, mentre «una ciurma di maschi sbracati imperversa nelle stanze dei bottoni da troppo tempo, in tutto il mondo». Perché — alla fine del giorno e all’inizio del terzo millennio — quello che le esperienze personali come le classifiche universali sui divari di genere dimostrano è che «non abbiamo affatto raggiunto l’uguaglianza, non ci siamo nemmeno vicine».

E allora, quando mancano cinque minuti alla mezzanotte (come si dice in tedesco per dare l’idea che tra poco sarà tardi), una delle giornaliste più influenti nella storia d’Italia, rispettata e temuta allo stesso modo, decide di dare alle stampe un pamphlet che in ciascuno dei nove capitoli di cui è composto vibra di furia e sfida, un diario pubblico-privato che si rivela impietoso su un fronte e incoraggiante sull’altro, in una corsa continua tra fatti ed eventi, little e big data, dichiarazioni roboanti di leader internazionali e osservazioni sottili raccolte nelle conversazioni serali con il marito Jacques Charmelot, al quale — nei ringraziamenti finali — viene riservato «un applauso» di cuore e di testa.

La radice di questo libretto rosso è pratica, racchiusa in una domanda essenziale: che cosa fare adesso, subito, si potrebbe dire «prima di cena», spostando sulla rivoluzione femminista la formula dell’urgenza quotidiana che Jonathan Safran Foer ha coniato nel suo ultimo saggio ecologista. Che cosa possono/devono fare le donne — e gli uomini — che desiderano una società più equa per rovesciare lo stato delle cose? Cosa per crepare e poi spaccare il granito della resistenza al cambiamento che negli ultimi anni sembra essersi persino rafforzata (dal 2013, secondo l’autrice, sull’onda populista è partito «un contrattacco duro e immediato» volto a sabotare l’avanzata delle donne nelle istituzioni)?

Le risposte che Gruber vede e racconta sono due. La prima sta nel titolo. Bisogna dire basta e dirlo con un punto esclamativo che faccia da paletto a ogni esitazione. Basta a quel tridente di «visibilità, violenza, volgarità» al maschile che prova a (re)spingere le donne dentro il recinto di un presunto destino genetico di sottomissione, destino inesistente, arbitrario e controproducente per tutte e tutti, al quale una catena di proverbi e stereotipi ha regalato un comodo vestito culturale, ormai logoro, fuori moda e tuttavia ancora buono per ogni stagione. E a proposito di stagioni politico-economiche, la globalizzazione e il liberismo — argomenta Lilli Gruber — non hanno fatto che peggiorare la situazione poiché «le donne oggi appartengono in maggioranza a quello che un tempo si chiamava proletariato».

Basta, dunque, a un club antistorico di uomini di potere che vengono raccontati ciascuno nel proprio antro al testosterone. Trump, Bannon, Erdogan, Xi Jinping, Putin, Bolsonaro, Johnson, Epstein, Weinstein, Salvini (al Matteo leghista è dedicata l’introduzione a tutto il resto e a tutti gli altri).

La seconda risposta è quella che nel libro sembra prendere il sopravvento sulla prima. È tempo di serrare le fila al femminile, perché quando si stringono i nodi degli interessi personali «nessun uomo sa essere femminista quanto una donna, nemmeno Jacques». Qui la lista delle personalità citate è molto più lunga. In ordine decisamente sparso e comunque incompleto: Greta Thunberg, Olga Minsk, Shonda Rhimes, Paola Cortellesi, Luciana Littizzetto, Michela Murgia, Ilhan Omar, Canan Kaftancioglu, Sara Gama, Megan Rapinoe, Michelle Williams, Kristalina Georgieva, Sofia Goggia, Michela Moioli, Serena Williams, Elizabeth Warren, Stefania Bariatti, Angela Merkel, Christine Lagarde, Nancy Pelosi, Kamala Harris, Alexandria Ocasio-Cortez, Ursula von der Leyen, Kirsten Gillibrand, Marianne Williamson, Milena Bertolini... L’altra metà del campo — più che di un cielo immobile — viene invitata dall’autrice ad alzare la voce, a farsi avanti, a rischiare in proprio. Così finalmente far carriera sarà meno facile «da sdraiate», per le ragazze ambiziose e scorrette, e più facile a schiena drittissima, per quelle ambiziose e serie che potranno denunciare ogni abuso contando sulla protezione reciproca.

È a questa seconda categoria di fiduciose che sono rivolte le pagine forse più belle del pamphletto, così definito da Jacques il femminista in una fusione franco-italiana: le pagine dei sette consigli offerti con umorismo e tenerezza a quante cercano una visibilità che faccia rima con responsabilità e credibilità. In sintesi: compratevi una giacca (i primi risparmi di Lilli Gruber sono stati investiti in un tailleur Armani); non mescolate il piano professionale con amicizia e sesso; non abbiate paura del potere, anzi, imparate a gestirlo; esercitatevi a dire no agli uomini; uscite molto, in gruppo e divertendovi, occupate le strade, le piazze, le osterie, a volte un gin&tonic condiviso farà la differenza; misurate il campo di gioco e poi attraversatelo per prendervi ciò che vi spetta; e studiate, sempre, tutto, un sacco. Anche perché «il buono di questi tempi lassisti è che troverete uomini impreparati, autocompiaciuti, rilassati».

Non basterà dire «basta!»: quello è solo l’inizio dell’opera di Lilli Gruber e della marcia delle ragazze giustamente ambiziose che l’autrice sprona a reclamare la sciabola come le rose. Non resta che sciogliere un dubbio: è questo un libro contro gli uomini? No, è un libro contro il maschilismo. Che, si sa, non è il gemello azzurro del femminismo.

Lilli Gruber presenta il suo libro «Basta!» a Milano il 17 novembre (ore 20) al Mudec con Beppe Severgnini nell’ambito di BookCity. A Modena sabato 23 novembre Lilli Gruber presenterà il suo libro all’auditorium Marco Biagi (ore 17.30) nel quadro di un ciclo sulla violenza contro le donne.

Francesco Borgonovo per ''la Verità'' il 27 ottobre 2019. Mi capita, talvolta, di essere invitato come ospite a Otto e mezzo, il programma condotto da Lilli Gruber su La7. E devo riconoscere che, rispetto ad altri colleghi schierati a sinistra, la Gruber mi tratta sempre con un certo rispetto: se non altro mi concede di parlare, cosa che non è sempre scontata in alcune trasmissioni. Dunque sono rimasto abbastanza sorpreso nell' apprendere che Lilli mi vuole rieducare. Non scherzo: dice proprio così. La giornalista ha appena dato alle stampe per l' editore Solferino un pamphlet intitolato Basta! Il potere delle donne contro la politica del testosterone. Trattasi di un attacco parecchio feroce agli uomini, sia quelli che fanno politica sia i comuni cittadini. La Gruber ha presentato il volume concedendo una lunga intervista a Io Donna, rivista del Corriere della Sera che questa settimana le ha dedicato la copertina. Nel corso della conversazione, si leggono affermazioni un po' inquietanti. «I maschi al potere stanno lasciando un mondo a pezzi», spiega Lilli. «Debito pubblico, tasse, disoccupazione, fuga dei talenti, mancanza di servizi, disuguaglianza, scuole e ponti che crollano, il territorio che si disgrega. La battaglia per il potere delle donne va di pari passo con la battaglia per la sopravvivenza del pianeta». Ecco, diciamo che incolpare gli uomini persino del riscaldamento globale e del crollo dei ponti appare vagamente esagerato. Soprattutto, non si capisce per quale motivo un mondo governato da sole donne dovrebbe essere più pacifico e radioso. Se al posto di Donald Trump ci fosse, per esempio, Hillary Clinton, probabilmente gli Stati Uniti sarebbero più bellicosi che mai. Quanto al nostro Paese, non è che i ministri donna ci abbiano risparmiato - nel recente passato - lacrime, sangue e perdita di posti di lavoro, anche se hanno finto di essere solidali con i poveracci finiti sul lastrico. Ma l' idea della Gruber è granitica: «Le tre "v" maschili», dice, «volgarità, violenza, visibilità, risultato di una virilità impotente e aggressiva, devono essere sostituite da empatia, diplomazia, pazienza». Ed ecco la frase di fuoco: «Gli uomini devono essere rieducati. Abbiamo letto tanti libri sulle donne che amano troppo o lavorano troppo. Ecco, è ora che anche gli uomini, che amano troppo poco o lavorano troppo poco, riprendano a studiare. Che imparino a essere più femminili». In realtà, il vero pericolo per il nostro Paese è che nel prossimo futuro a non lavorare più siano tanto gli uomini quanto le donne. Come spiega Luca Ricolfi nel bel saggio La società signorile di massa (La Nave di Teseo), oggi in Italia «il numero di cittadini che non lavorano ha superato il numero di cittadini che lavorano». Semmai, il problema è creare più posti di lavoro per tutti, maschi e femmine, e le battaglie sui diritti che contrappongono i sessi non fanno altro che distrarci dal reale obiettivo (anche per questo vengono tanto alimentate).

Quanto alla violenza «intrinseca» del maschio, beh, si tratta di un altro pregiudizio. Vediamo di fornire qualche dato. Marzio Barbagli (uno dei più autorevoli studiosi italiani) e Alessandra Minello, nel 2018, hanno pubblicato un articolo su Lavoce.info intitolato «Quando a uccidere sono le donne». «Per molto tempo», spiegano i due esperti, «uccidere era un atto confinato all' interno della popolazione maschile. Dal 2000, però, gli omicidi tra uomini sono calati drasticamente, mentre le uccisioni di donne da parte di altre donne sono rimaste stabili o leggermente cresciute». Non solo negli ultimi 40 anni, nei Paesi occidentali «vi è stata una (moderata) tendenza alla convergenza fra la criminalità femminile e quella maschile». Ma negli ultimi 25 anni, in Italia «anche il divario di genere fra gli autori di omicidio è diminuito». Ed ecco il dato sconcertante: «La quota delle donne sul totale delle persone arrestate o denunciate per questo delitto è più che raddoppiata, passando dal 3,9% nel 1992 al 9,1% nel 2016, superando però anche l' 11% nel 2014». Insomma. La violenza in aumento è - in verità- quella delle donne. Certo, non esistono soltanto gli omicidi. C' è, per esempio, pure la violenza verbale. La Gruber invoca sanzioni pesanti per gli odiatori del Web. «Sono attaccata ogni giorno sui social con un sessismo e una volgarità intollerabili», dice. Non stentiamo a crederlo. Ma il problema riguarda il mezzo, cioè Internet: chiunque abbia un minimo di notorietà viene sommerso di insulti, anche scritti e pronunciati da donne. Laura Boldrini sostiene di essere la politica più insultata della storia repubblicana. Ieri Repubblica spiegava che Liliana Segre riceve ogni giorno 200 insulti online. E i maschi? Sarebbe interessante contare gli insulti vomitevoli che riceve Matteo Salvini. La stessa Lilli, durante una puntata di Otto e mezzo, si è permessa una brutta battuta sulla pancia del leader leghista. Se un conduttore maschio avesse detto una cosa analoga a una donna, probabilmente lo avrebbero linciato. E allora forse è il momento di superare i luoghi comuni sui maschi cattivi che maltrattano tutti, no? Tra l' altro, tocca sempre notare una strana disparità di trattamento. Gli uomini prepotenti e feroci, guarda caso, sono sempre «sovranisti», «populisti» o «di destra». Francesco Merlo, un paio di giorni fa, ha firmato su Repubblica un ritratto di Giorgia Meloni pieno di insulti gratuiti. Va rieducato anche lui? Lo spediamo in un Laogai femminista? Quanti attacchi riceve la leader di Fdi senza che nessuno - presunte femministe in primis - si scandalizzi? Curioso davvero: Repubblica che ieri lanciava l' allarme per gli insulti subiti dalla Segre è lo stesso giornale che può sbertucciare la Meloni per il suo modo di parlare. Il fatto è che il fronte progressista, così sensibile riguardo a odio e violenza, è sempre il primo a invocare (e spesso a mettere in pratica) la mordacchia per chiunque osi esprimere un pensiero diverso. Forse, allora, il problema non è «di genere», ma politico.  La rieducazione del maschio è una idea sbagliata e pericolosa, perché nasconde una tentazione ancora più terribile: quella di rieducare - definendolo odiatore, razzista, fascista, maschilista, omofobo - chi non si allinea al politicamente corretto imperante. Uomo o donna che sia.

Otto e Mezzo, Nicola Porro dileggia Lilli Gruber: "Clamoroso scoop, al mare si va in costume". Libero Quotidiano il 3 Ottobre 2019. Non smette di far discutere la "performance" di Lilli Gruber contro Matteo Salvini, nella puntata di Otto e Mezzo di martedì 1 ottobre, in onda su La7. Scatenata come non mai, ha chiuso anche la puntata con quello che potrebbe essere definito un insulto sessista: rimproverando il leader della Lega per il fatto di andare in costume in spiaggia (sic), gli ha dato del ciccione. "Magari senza pancia", ha chiosato la Gruber riferendosi alla prossima volta in cui si mostrerà in costume da ministro. E ora, contro Lilli la rossa, piove l'affondo anche di Nicola Porro, che le dedica un passaggio della sua consueta "Zuppa di Porro", la rubrica in cui commenta i fatti di attualità. Lo sfottò di Porro è palese sin dal rilancio su Twitter della rubrica: "Il clamoroso scoop di Lilli Gruber a Otto e Mezzo: al mare si va in costume!". Touchè.

Da “Un Giorno da Pecora - Radio1” il 28 ottobre 2019. “Per Feltri io sarei così di sinistra da non usare la destra nemmeno per impugnare la forchetta? Veramente io sono mancina... a questo poveretto in andropausa grave gli dice proprio malissimo”. Lilli Gruber, giornalista e conduttrice, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, ha risposto alle domande dei conduttori su di diversi argomenti, da Feltri a Salvini, dagli spinelli alla sua "passione" per Cristiano Ronaldo. Matteo Salvini dopo qualche screzio con lei aveva assicurato che le avrebbe mandato delle rose. Lo ha fatto? “No, non mi ha mai mandato nulla. Sarebbe stato galante. Certo se le sue promesse politiche sono tutte così farlocche come quelle fatte per i fiori...” Lei ha mai regalato dei fiori al suo uomo? “Certo, a mio marito, per il suo ultimo compleanno: gli ho regalato due dozzine di rose rosse”. Nel suo ultimo libro suggerisce alle sue amiche di passare meno tempo in casa ed andare a bere un gin tonic. Le capita mai di bere questo drink? “Si, in estate molto volentieri. Perché durante la settimana, quando lavoro, sono come una suora”. Ha mai fumato una canna? “Si, certo, ho provato, quando ero ragazza. Ma non mi piace: ti rincoglionisce un po' mentre io sono per la lucidità”. Qual è la tipologia di uomo ideale per Lilli Gruber? “Non saprei. Se vedessi a torso nudo Cristiano Ronaldo - ha detto la Gruber a Un Giorno da Pecora - non potrei dire che non sarebbe un bel vedere. Sarebbe un gran bel vedere...” Dunque le piace l'uomo muscoloso. “Sì, non quelli mingherlini. Già sono piccolina io...” Cosa preferisce: i bicipiti o gli addominali? “Tutto. Anche il di dietro”. Ma come ha fatto a vedere il "lato b" di CR7? “Beh si vede dai...” 

Dagospia il 28 ottobre 2019. Da “Un Giorno da Pecora - Radio1”. “Se mi piacerebbe scendere in politica per esser l'anti Salvini? No, faccio un altro mestiere, non mi piacerebbe affatto”. Lo dice a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, Lilli Gruber, giornalista e conduttrice di "Otto e Mezzo", che oggi è stata ospite della trasmissione di Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Restando nel c.destra, da donna a donna, cosa ne pensa di Giorgia Meloni, con cui ogni tanto, nel suo programma, avete avuto qualche screzio. “E' molto aggressiva, ma trovo che stia facendo un lavoro straordinario, è una donna giovane che fa politica da tanti anni. Ha fatto tanta strada e ne farà ancora molta”. Crede che una come Teresa Bellanova di Italia Viva potrebbe esser la sfidante di Matteo Salvini? “Si, è' una donna molto determinata e tostissima”, ha detto a Rai Radio1 la Gruber.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 28 ottobre 2019. Mi riferiscono che l'attempata Lilli Gruber, seccata per un articolo dedicatole da Libero circa la sua propensione in tv a pendere sempre a sinistra, invitando al programma da lei diretto, Otto e mezzo, quasi esclusivamente compagni amici suoi, mi ha ricoperto di insulti alla radio (Un giorno da pecora), il che conoscendola non mi sorprende né mi addolora. Le critiche anche aspre mi lasciano indifferente se riguardano il mio personale lavoro. Si dà il caso però che in questa circostanza il pezzo che l' ha infastidita non sia opera firmata da me bensì della collega Costanza Cavalli, la quale per altro ha una penna incisiva ma delicata, e si è limitata a registrare alcuni tic della famosa o famigerata conduttrice. Rilevo quindi che la giornalista sudtirolese pure stavolta, come le accade spesso, ha sbagliato mira e ha colpito me scambiandomi per l'autore del testo, scritto benissimo dalla redattrice Costanza. Succede a una certa età di fare confusione e di dire scemenze, per cui concedo a Lilli le attenuanti geriatriche. Sarebbe assurdo prendersela con una signora invecchiata precocemente, e tuttavia non rassegnata al trascorrere degli anni, al punto da nascondere la propria decadenza con la squallida chirurgia plastica che le sfigura il volto rendendolo ridicolo. La Gruber mi definisce un poveretto in andropausa grave, ignorando che la citata andropausa non è una patologia bensì un fenomeno naturale molto meno accentuato della menopausa, di cui lei è vittima innocente da lustri, senza che nessuno abbia avuto il cattivo gusto di rammentarglielo. Provvedo io a rinfrescarle la memoria, non potendo rinfrescarle la mente offuscata e il corpo in disfacimento fisiologico.

Da “Libero quotidiano” il 28 ottobre 2019. Lilli Gruber insulta Vittorio Feltri via radio, a Un giorno da pecora. “Per Feltri io sarei così di sinistra da non usare la destra nemmeno per impugnare la forchetta? Veramente io sono mancina... a questo poveretto in andropausa grave gli dice proprio malissimo”. Su Rai Radio1 la conduttrice di Otto e mezzo ha risposto alle domande dei conduttori su di diversi argomenti. Le sue doti dialettiche sono così fini che lei, donna di sinistra, utilizza direttamente l'insulto. Domani martedì 29 ottobre su Libero, il direttore Feltri risponderà alla giornalista. Da non perdere. Intanto su Twitter scrive: Lilli Gruber alla radio, Un giorno da pecora, mi insulta per un articolo non scritto da me su di lei. Dice che sono affetto da andropausa grave ignorando peraltro che non si tratta di patologia. Le concedo attenuanti geriatriche vista la sua età". Lilli poi parla del leader della Lega. Matteo Salvini dopo qualche screzio con lei aveva assicurato che le avrebbe mandato delle rose. Lo ha fatto? “No, non mi ha mai mandato nulla. Sarebbe stato galante. Certo se le sue promesse politiche sono tutte così farlocche come quelle fatte per i fiori...” Lei ha mai regalato dei fiori al suo uomo? “Certo, a mio marito, per il suo ultimo compleanno: gli ho regalato due dozzine di rose rosse”.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 3 ottobre 2019. Ho stima di Lilli Gruber, capace di dirigere un programma brutto con grande abilità. Otto e mezzo ha molto successo meritato perché di obiettivo non ha neanche la sigla, che per altro fa schifo. Se lo segui e non sei di sinistra spinta ti vengono le convulsioni poiché la signora che conduce riceve quattro ospiti, tre progressisti e uno sfigato di destra o di centrodestra, per esempio un leghista che lei odia senza requie. Il dibattito consiste nel fatto che il suddetto sfigato non appena apre bocca per dire le sue bischerate, viene sommerso dagli insulti degli "avversari" e dagli sfottò di colei che mena il torrone della chiacchierata, la quale pertanto prosegue a senso unico, quello da costei prediletto. Risultato, trionfano immancabilmente gli ex comunisti e derivati, mentre i padani e similari rimediano sovente una gigantesca figura di merda. Ciononostante la Gruber ottiene buoni ascolti e Cairo, il padrone de La 7, gongola. Giusto. Ovvio, i talkshow sgangherati da sempre vanno bene giacché alimentano l' odio politico, che è il sale della televisione. Il problema è un altro. La faziosità funziona, ma senza esagerare. Lilli un paio di sere fa ha affrontato Salvini come fosse un suo avversario personale, e gli ha perfino contestato di indossare il costume in spiaggia, quando è noto che qualunque bagnante si tuffa in mare in mutande. Così fan tutti, donne e uomini. Dov' è il problema? Per la Gruber Matteo è un marziano che non ha il diritto di mettere a mollo le chiappe tra le onde, è solo un burino indegno di esibirsi sulla battigia. Addirittura lo ha rimproverato di avere un pancione da non esibirsi in pubblico, come se tutti i suoi colleghi fossero viceversa sdutti e fisicamente ammirabili. E sorvoliamo sui rimproveri politici rivolti dalla giornalista al leader della Lega. Qualcosa di disgustoso e fuori dalle elementari regole del giornalismo. La trasmissione non è stata una seduta dedicata al confronto delle idee, è sembrata piuttosto una specie di lotta senza esclusione di colpi. Insomma Otto e mezzo si è trasformato in un ring dove non vince il più forte bensì il più cafone. E i cafoni sono parecchi.

Salvini bullizzato per la pancia. Domenico Ferrara il 2 ottobre 2019 su Il Giornale. Non c’è più il sessismo di una volta. E anche Lilli Gruber non è più la stessa. Lei, regina di eleganza, osannata per il suo stile, per la raffinatezza con la quale intervista i suoi interlocutori, alla fine è caduta sulla pancia. Per di più quella di Matteo Salvini. Sarà stata la stanchezza o forse l’impotenza dinnanzi alle ribattute del leghista, fatto sta che ai titoli di coda la conduttrice di Otto e mezzo ha deciso di puntare sul fisico dello “sporco, brutto e cattivo, fascista”. “È contento di non girare più per le spiagge italiane da ministro dell’Interno in mutande con la pancia di fuori come ha fatto quest’estate? (…) Un ministro dell’Interno con lo slippino non l’avevamo ancora visto”, domanda la rossa giornalista. “E io ho questo difetto. E quando tornerò a fare in ministro dell’Interno tornerò in spiaggia in costume da bagno”, ribatte l’ex vicepremier. “Sì ma magari senza la pancia”, rilancia la Gruber. Ma come? Se qualcuno osa criticare la mise della Boldrini, il costume della Boschi, il vestito blu elettrico della Bellanova viene investito da un vagone di critiche, se invece a farlo è una donna nei confronti di un politico tutti tacciono. Nessuno grida alla gogna. Nessuno osa puntare il dito contro la conduttrice. Però, a mio avviso, questa volta la Gruber dovrebbe chiedere scusa, non tanto a Salvini, bensì a quelle donne che lottano da anni contro il sessismo, che cercano di conquistare giorno per giorno il rispetto che meritano e di cui hanno diritto. Perché o il sessismo vale in qualunque caso (senza differenze di genere o di status sociale) oppure non vale in nessun caso. È semplicemente una questione di coerenza.

Rita Dalla Chiesa punge la Gruber: "Battuta a Salvini? E se l'avesse fatta a una donna?" Rita Dalla Chiesa non usa giri di parole e così sui social mette nel mirino la Gruber per una battuta "sessista" a Salvini. Angelo Scarano, Venerdì 04/10/2019, su Il Giornale. Rita Dalla Chiesa mette nel mirino Lilli Gruber. Dopo il battibecco in diretta tra la conduttrice di Otto e Mezzo e l'ex ministro degli Interni, Matteo Salvini, arriva la presa di posizione dell'ex conduttrice di Forum. Lo sfogo della Dalla Chiesa arriva su Twitter con un cinguettio al vetriolo contro la Gruber. A scatenare l'ira della Dalla Chiesa è stato qualche commento di troppo da parte della Gruber per la "panza" di Salvini. Le parole della Gruber hanno scatenato parecchie polemiche soprattutto per il "trattamento" riservato all'ex titolare del Viminale. E così la Dalla Chiesa senza usare giri di parole ha attaccato la Gruber: "E se la battuta della Gruber a Salvini l’avesse fatta un giornalista uomo ad una politica donna?". Parole queste che hanno fatto scattare in poco tempo la reazione dei social che hanno condiviso le parole dell'ex conduttrice. Non è certo la prima volta che la Dalla Chiesa prende posizione contro la Gruber. Infatti a maggio scorso l'ex conduttrice di Forum aveva puntato il dito contro la padrona di casa di Otto e Mezzo sempre per un'intervista a Salvini. La Dalla Chiesa in quell'occasione non aveva usato perifrasi per definire le parole della Gruber e l'atteggiamento durante l'intervista: "Irritante, non super partes, rivelatrice di una spocchia da maestrina". Sono passati alcuni mesi ma la musica non è cambiata e così la Dalla Chiesa è tornata a pungere la Gruber. Una mossa che è stata accompagnata da una valanga di "like" sui social da parte dei follower della Dalla Chiesa. L'intervista della Gruber a Salvini infatti è stata aspramente criticata sul web e la frase sul ministro in costume ("in mutande" per citare la giornalista) ha scatenato una raffica di critiche. La crociata della Gruber contro i commenti sessisti a quanto pare vale solo a senso unico...

Francesco Bonazzi per “La Verità” il 6 ottobre 2019. Brutalizza gli uomini, ma ormai non si tiene più neppure con le donne. Basta che siano di destra e osino discutere il sacro eurodogma ed ecco che Lilli Gruber scatta in diretta tv come se stesse giocando Partizan-Stella rossa, il derby di Belgrado che di solito richiede i caschi blu dell' Onu. E lei, la Stella rossa dell' informazione di La7, giovedì sera, a Otto e mezzo, è entrata di nuovo sugli stinchi del proprio ospite. La telegiornalista con il cuore a sinistra e il cervello al gruppo Bilderberg aveva tra le grinfie Giorgia Meloni, accusata di «dire sciocchezze» e degradata al rango di persona con la quale «non vale la pena di litigare», semplicemente perché non la pensa come lei sulla profonda bontà dell'Unione europea e sulla grande magnanimità di Francia e Germania. Due sere prima, sempre all' insegna di un bizzarro concetto di ospitalità, aveva accusato Matteo Salvini di aver trascorso l' estate a girare per le spiagge «in mutande» da ministro dell' Interno. «Ma lei ci va in smoking, in spiaggia?», le aveva risposto divertito il capo del Carroccio, senza sapere che Lilly Botox, come la chiama Dagospia, negli stabilimenti balneari non ci va proprio, perché ha una splendida villa in Sardegna dalle parti di Villa Simius. Il problema è che non ha più pazienza, Lilli Gruber, 62 anni dei quali 35 passati sul piccolo schermo con il piglio volitivo di sempre e una sola interruzione forzata, quando fece il deputato europeo per l' Ulivo tra il 2004 e il 2008. Ed è quando si parla male dell' Europa, che l' ex allieva modello delle Marcelline di Bolzano, figlia di un grosso industriale della zona, perde il suo gelido contegno. «Lei sta dicendo una sciocchezza», sbotta la mezzobusta quando la leader di Fratelli d' Italia osa dire che la Francia «deve smettere le sue politiche colonialiste» e che insieme alla Germania spadroneggia sul resto dell' Unione, «imponendo i propri interessi». La Meloni, ovviamente, non si fa mettere i piedi in testa e dopo che Frau Gruber le impartisce una seconda lezioncina («Lei sa benissimo che la macchina europea è un po' più complicata»), risponde secca: «Non si permetta, sono stufa di sentirmi dire che non capisco niente». Un' infanzia difficile o ha sottovalutato la sovraesposizione all' amianto dei salotti radical chic? Che un tempo, almeno, erano chic, ma ora sono rimasti solo radical. In collegamento, in rappresentanza del sesso forte, c' era anche un pallido Beppe Severgnini, che ha rischiato grosso anche lui in principio di trasmissione, quando sostanzialmente ha avallato la ricostruzione della Meloni, per la quale i dazi di Donald Trump sono una risposta agli aiuti Ue al consorzio franco-tedesco Airbus, mentre Euro-Lilli addebitava anche questa guerra commerciale al grande cancro dei «sovranismi«. Si vede che alle riunioni del gruppo Bildeberg, alle quali partecipa assiduamente insieme al suo grande amico Franco Bernabè, nelle ultime edizioni erano assenti i manager dell' aerospazio. Ma giovedì sera la Gruber, con il suo sorriso talmente tirato con l' elastico da sembrare l' unica teleconduttrice che va in onda indossando la propria maschera, ha infierito su quel che resta di Silvio Berlusconi, dicendo che nel 2011 «fece un grande deficit« e portò l' Italia «sull' orlo del precipizio». «E infatti l' hanno mandato a casa con una manovra voluta», le ha risposto la Meloni. Che poi è passata al contrattacco, sapendo quanto La7 amò Matteo Renzi: «È vero o non è vero che, quando c' era il governo Renzi, la Ue ha autorizzato una manovra col 2,5% di deficit e, quando è arrivato il governo Conte uno, ha preteso che il deficit fosse all' 1,4%? E oggi Conte avrà una manovra che parte da un deficit del 2,2% perché è amico della Ue. Questo a casa sua come lo legge? È vero o non è vero?». La Gruber, in difficoltà sui numeri, se l' è cavata con un «Ma erano diversi tutti i parametri», ricordando solo che con il governo Renzi la crescita «era al +1,7%». Poi, tanto per gradire, un po' di sana puzza al naso da gauche caviar: «Senta, io non mi metto mica qui a litigare con lei». Il suo problema è tutto in quel «qui», inteso non come uno spazio di confronto a beneficio dei telespettatori, dove magari il giornalista fa le domande e incalza chi svicola, ma come il tinello di casa propria dove o si mangia la minestra o si salta dalla finestra. Ne sa qualcosa anche Matteo Salvini, obiettivamente il grande sconfitto dell' estate 2019 per come la crisi di governo gli è un attimo scappata di mano. La Gruber, naturalmente, ha inferito con il suo tacco nero. Alla fine della trasmissione, lo ha morsicato alla giugulare: «È contento che non deve girare più da ministro dell' Interno in mutande per le spiagge italiane come ha fatto questa estate?». Poi, ha insistito sul fatto che «un ministro dell' Interno con lo slippino non l' avevamo ancora visto» e lo ha preso in giro per i chili di troppo. Che se l' avesse fatto un uomo a una donna, sarebbe stato «allarme sessismo». Però, il momento migliore della trasmissione con la Meloni è stato quando la Gruber, dovendo ricordare che quel giorno era stato rinviato a giudizio Luca Lotti del Pd, ha parlato con fastidio di una certa «vicenda Consip e tutto eh», senza curarsi di spiegare che roba fosse. Del resto riuscì a bucare anche gli arresti dei genitori di Renzi, sempre perché questa misteriosa vicenda Consip ancora non deve aver avuto il tempo di approfondirla un minimo.

Migranti, sessismo... e Salvini: torna la solita litania di Fazio. Che tempo che fa riparte da Rai2 dopo le polemiche su ascolti e cachet. Ma resta l'ossessione per il leader della Lega. Chiara Sarra, Domenica 29/09/2019, su Il Giornale. Da Gino Strada a Michela Murgia, per chiudere con il tradizionale e irriverente monologo della Littizzetto. Fabio Fazio riparte da RaiDue nella "Giornata mondiale del migrante e del rifugiato" - come ripete più volte sottolineando il suo "trasloco" sul secondo canale -. E lo fa dagli "idoli" della sinistra, a partire proprio dal fondatore di Emergency. "È opportuno parlare dell'accoglienza", ha detto il conduttore accogliendo Gino Strada nel suo salotto. Il medico ha quindi bollato come "una stupidaggine" la distinzione tra migranti economici e rifugiati con diritto d'asilo. "Ci sono 70 milioni di persone in fuga nel mondo e da noi ne sono arrivati in un anno circa 23mila per cui lasciamo stare la propaganda politica dell'invasione", spiega il fondatore di Emergency, "Queste persone sono il risultato delle politiche dei loro governi e anche delle nostre, che molto spesso sono in combutta. In 25 anni di attività Emergency ha aiutato a casa loro più di 10 milioni di persone e ha speso, anzi gli italiani hanno speso, perché i nostri fondi sono quasi esclusivamente da italiani, qualcosa come mezzo miliardo di euro". Ad aprire la puntata vera e propria dopo il Tg è però Michela Murgia. La scrittrice ripete la "litania" ormai cara alla sinistra: gli insulti sessisti sui social. "Questa idea che non ci sia un filtro tra la pancia e la bocca è un grande inganno", dice, spiegando di aver preso parte alla campagna che coinvolge anche Carola Rackete per denunciare chi si nasconde dietro a un monitor per ricoprirla di offese. "Basta fare i superiori con chi ti insulta", ha detto, "Tutte le donne che non hanno rispettato le regole nella storia, oggi sui social verrebbero insultate". Il riferimento? Ovviamente a Salvini: "La deriva sui social è recente, negli ultimi 14 mesi, diciamo", sottolinea infatti la Murgia. Stoccate a Matteo Salvini arrivano anche quando Fazio si collega al telefono con Pier Luigi Bersani ("Non è vero che la destra è maggioranza. Abbiamo visto che tempo ha fatto, dobbiamo darci una mossa per riorganizzarsi e allargarsi", dice l'ex segretario Pd, "Il popolo della Lega non lo sento lontanissimo, perché c'è un popolo buono anche lì e vorrei parlare ancora a quel popolo"), ma soprattutto quando nello studio di Che tempo che fa arriva Giovanni Tria. Dalla presunta spinta a uscire dall'euro a Flat tax e Quota 100, l'ex ministro dell'Economia non perde occasione per bacchettare la Lega (che pure sosteneva il governo di cui faceva parte). E poi c'è Luciana Littizzetto. La comica racconta - a modo suo - l'estate dei politici italiani, si esibisce nell'imitazione delle capogruppo di Forza Italia, Anna Maria Bernini e Maria Stella Gelmini, e non risparmia certo Matteo Salvini. "È l'unico politico che si è trombato da solo", dice. Poi mostra una foto dell'ex ministro al mare: "Qui era al terzo mojito e chiedeva pieni poteri". Insomma, dopo le polemiche su ascolti e stipendio, Fabio Fazio avrà pure ricominciato da RaiDue. Ma a quanto pare l'ossessione buonista è rimasta la stessa. Così come quella per il leader della Lega...

QUANDO È TROPPO È TROPPO. Giorgia Meloni querela Repubblica: "Pensano che quelli di FdI siano corruttori o analfabeti". Libero Quotidiano il 4 Ottobre 2019. A Giorgia Meloni scappa una querela. A Repubblica si sono spinti troppo oltre, e per questo la leader di Fratelli d'Italia ha deciso di adire alle vie legali contro il quotidiano diretto da Carlo Verdelli. "I militanti di FdI, secondo Repubblica, oltre a essere degli analfabeti, a non sapere cosa sia la cultura, sono anche gente che normalmente parcheggia l'auto in doppia fila, lancia i rifiuti dal finestrino e cerca di corrompere i pubblici ufficiali. A nome dei militanti, degli elettori di Fratelli d'Italia, di chi ha le nostre opinioni, per difendere la loro onorabilità, adesso Fratelli d'Italia querela Repubblica perché siamo stufi di gente che, non sapendo rispondere nel merito sulle cose impresentabili che propone, pensa di cavarsela insultando l'avversario, senza entrare nel merito".

Per annunciare l'iniziativa legale la Meloni ha scelto una diretta Facebook, durante la quale ha letto alcuni passaggi del pezzo del quotidiano romano dedicato alla raccolta di firme del suo partito contro lo Ius culturae. "Rispondeteci su cosa è la democrazia, su cosa è il rispetto del popolo, nel merito, sul tema della cittadinanza, se siete culturalmente attrezzati. Invece è tipico della sinistra dire che i propri avversari sono corruttori di pubblici ufficiali, e questo non ha a che fare con la cultura, ma con l'ignoranza. È tipico della sinistra che quando non sa cosa dire o scappa o insulta. Misuratevi con noi sulle idee e sulla cultura. Meriterebbero di essere inondati di querele da parte di tutti gli elettori di destra e da tutti gli elettori di FdI stanchi di essere trattati, per il fatto di non essere d'accordo con il mainstream, corruttori analfabeti, incapaci e impresentabili".

Repubblica insulta di nuovo Giorgia Meloni: “kapò laziale in preda a maschilismo guerriero”. Il Secolo d'Italia venerdì 1 novembre 2019. Repubblica dedica nuovamente parole ingiuriose a Giorgia Meloni. E’ la seconda volta dopo l’articolo di Francesco Merlo che parlava di Giorgia Meloni come “regina di Coattonia”. E la leader di Fratelli d’Italia non manca di sottolinearlo in un post sui social. “Repubblica stamane mi dedica l’ennesimo insulto, stavolta definendomi addirittura kapò laziale!. Non molto diverso il trattamento per Nicola Porro, Del Debbio, Giordano e Capezzone. Tutto normale per la sinistra?”. Repubblica, l’autrice dell’articolo è Natalia Aspesi. L’autrice dell’articolo in cui Meloni viene citata è Natalia Aspesi. Che così scrive: bisogna risvgliare “gli italiani che si affidano agli urli di una fatina sconsiderata e alle chiacchiere nebulose di un negromante insidioso”. E ancora Aspesi afferma di seguire sconsolata la propaganda su Facebook: “un fiume di invenzioni, bugie, promesse insensate prese in giro, discorsi di Del Debbio, Porro, Capezzone, Giordano e quelli della kapò laziale in preda a un maschilismo guerriero e del generale lumbard”. Per concludere che “chi si dichiara popolo” non vuole la realtà, ma la finzione. “Queste sarebbero le lezioni di bontà e eleganza di Repubblica?” si chiede Daniele Capezzone. Una domanda importante in queste ore in cui si discute di incitamento all’odio e degli strumenti per combattere lo hate speech sui social. Anche Nicola Porro commenta le sferzanti parole di Natalia Aspesi: Commissione Segre, spero indagherà sulla Aspesi che dà della Kapò alla Meloni e più modestamente del bugiardo e inventore anche al sottoscritto. Che istighi all’odio chi non la pensa come lei e il suo salottino di fenomeni? Toc Toc Aspesi che problemi hai?”. Sembra proprio che le due cifre conquistate da Fratelli d’Italia in Umbria abbiano mandato in tilt il circolo degli intellettuali progressisti. La reazione è l’invettiva, la stilettata, la delegittimazione. Tutte tecniche note e che tornano in primo piano quando la sinistra si sente accerchiata e avverte la distanza dal Paese reale. Vale la pena di ricordare, infine, che quando fu Silvio Berlusconi a paragonare a un kapò nazista Martin Schulz nel 2003 si levarono critiche sdegnate. Lo stesso criterio vale anche per Giorgia Meloni presa di mira da Repubblica?

Fratelli di Giorgia Meloni. Il partito sta crescendo nei consensi ed ora in molti vogliono salire sul carro del vincitore. Antonio Rossitto il 31 ottobre 2019 su Panorama. Oplà. Dal cilindro sono sbucati i Fratelli d’Italia. «Ci dicevano che non saremmo mai usciti dal Raccordo anulare, adesso siamo il quarto partito italiano» gongola il proconsole di Giorgia Meloni. È passata, nel giro di pochi mesi, da residuale a determinante. «La Marine Le Pen della Garbatella», sfottevano gli avversari. Ora riceve il baciamano del premier ungherese Victor Orban, vessillifero dei sovranisti europei, accorso un mese fa ad Atreju, incontro meloniano per eccellenza. A cui, in verità, ha partecipato anche Giuseppe Conte, presidente del Consiglio italiano. Dettagli, ma sintomatici. Corroborati da sondaggi in crescita, successi elettorali e profferte di parlamentari. Alla Camera si sono fatti avanti in dieci. «Ma il tempo dello scouting è finito: ora c’è selezione all’ingresso» maramaldeggia il maggiorente di Fratelli d’Italia. Gli interessati s’avvicinano e sibilano: «Cosa ci sarebbe per me?». Non sono solo forzisti, allarmati dalla dissoluzione azzurra. Ma anche grillini, che malvedono la virata a sinistra. Non a caso, l’ultimo innesto alla Camera è proprio un ex onorevole pentastellato: Davide Galantino. Prima era stato il turno del presidente del Potenza calcio, Salvatore Caiata, pure lui eletto con il Movimento. Mentre dalle file azzurre, a fine agosto, è arrivato il deputato bolognese Galeazzo Bignami, pedina decisiva per le elezioni in Emilia Romagna. Grillini e forzisti, insomma. Non a caso i due bacini da cui attingere. Ma si spera anche in un travaso leghista. «Matteo Salvini potrebbe pagare i suoi tentennamenti agostani» gongola l’accorto consigliere. Può darsi. Per adesso però il Capitano sembra non aver pagato lo scossone estivo, che l’ha disarcionato dal governo. O meglio, il pegno è stato lieve. Di certo la crescita degli alleati ridisegna il centrodestra. La «signora Meloni», come la chiama Silvio Berlusconi malcelando supponenza, nelle rilevazioni ha ormai staccato la debilitata Forza Italia. Perfino Alessandra Ghisleri, sondaggista di fiducia del Cavaliere, ha certificato il sorpasso. E Cambiamo, nuova creatura del governatore ligure, Giovanni Toti? Non sembra per adesso destinata a far sfracelli: 0,8 per cento. Così, i delusi tifano Giorgia. La famigerata forchetta balla tra l’8 e il 10 per cento. Quasi il doppio ripetto alle Politiche del 2018, che comunque ha portato in dote una cinquantina di arcigni parlamentari. Per non parlare delle precedenti elezioni del 2013, qualche mese dopo la nascita del partito: un irrilevante 1,97 per cento. Già. Quella di Meloni sembrava l’ennesima traversata nel deserto. Tutto comincia nel 2009, quando il Pdl fagocita Alleanza nazionale. Il «che fai mi cacci?» dell’allora leader Gianfranco Fini scatena una guerra termonucleare. I suoi seguenti inciampi sembrano sancire la fine degli orgogliosi eredi dell’Msi di Giorgio Almirante. Alla fine del 2012 nasce però Fratelli d’Italia. Alla guida s’affaccia un triumvirato. C’è una vecchia volpe, come Ignazio La Russa. E poi ci sono «il gigante e la bambina»: Guido Crosetto e, appunto, Meloni. «Una ragazzina» sghignazzano gli ex finiani. «Si schianterà». Errore. Sono loro a essere spariti. E adesso quel drappello punta a eguagliare i frangenti più fastosi di An. Ovvero, attestarsi attorno al 12 per cento. L’ascesa è cominciata lo scorso febbraio, con le elezioni regionali in Abruzzo. Il senatore Marco Marsilio viene eletto governatore. Il partito sfiora il 7 per cento. Poco meno di quanto inaspettatamente raccolto alle seguenti alle elezioni europee, a fine maggio. Quando si celebrano anche le amministrative. I sovranisti ottengono due sindaci. Ad Ascoli. E a Cagliari, dove vince Paolo Truzzu. Cosi i primi cittadini due anni fa erano appena una trentina, adesso sfiorano i cento. Tra i più in vista ci sono quelli dell’Aquila e di Pistoia. Il centroattacco è però Salvo Pogliese, alla guida di Catania. Un acchiappavoti forzista, classe ’72, per mesi corteggiato dalla Lega. Ma quest’estate Pogliese, ex missino e annino, torna all’ovile: ora è coordinatore regionale del partito. La stessa parabola di Bignami, un altro figliol prodigo. Pure lui è stato un attivo dirigente di Azione giovani, il movimento dei virgulti di An, già guidato da Meloni. Viene da lì quasi tutta la classe dirigente. A partire dai fedelissimi degli esordi: l’europarlamentare Carlo Fidanza, il deputato Andrea Delmastro e il capogruppo alla Camera, Francesco Lollobrigida. Così come Giovanni Donzelli, responsabile organizzativo e uomo macchina delle campagne per le regionali. Tornate elettorali che potrebbero riservare altre soprese. Le trattative con gli alleati, al di là di qualche refolo di tatticismo, sono chiuse. Meloni ha ottenuto la candidatura a governatore in due regioni. In Puglia si prepara a schierare l’eurodeputato Raffaele Fitto. L’ex forzista ha guidato la Regione fino al 2005. Il ritorno al passato non sembra entusiasmarlo, viste le beghe giudiziarie da cui è uscito indenne e l’amato ruolo di vicecapogruppo dei Conservatori a Bruxelles. Ma alla fine sarà costretto a immolarsi alla causa pugliese. E potrebbe beneficiare delle tenzoni giallorosse. Con gli alleati romani che tentano di far desistere dalla ricandidatura l’attuale presidente Michele Emiliano, dem ingombrante e malvisto dai grillini. Nelle Marche il prescelto è invece un ex An: Guido Castelli, per dieci anni sindaco di Ascoli, ora responsabile nazionale delle Autonomie locali. Ma il partito è alle grandi manovre pure in Umbria, dove si vota tra qualche giorno, il 27 ottobre. Due mesi fa sono arrivati due consiglieri regionali. Tra cui l’ex capogruppo leghista, Emanuele Fiorini, il principale artefice della crescita del Carroccio in Umbria. Anche in Veneto, che andrà alle urne nella prossima primavera, si registra un significativo approdo: l’ex forzista Elena Donazzan, assessore all’Istruzione e al lavoro della Regione. Insomma, si punta tutto sui mitologici «territori»: da sempre l’Eldorado della politica italiana. Le elezioni nazionali d’altronde sono rinviate a data da destinarsi. I giallorossi restano incollati al potere, come i ricci ai fondali. E l’elezione del presidente della Repubblica, prevista nel 2022, allontana il giorno del giudizio. I meloniani ci scherzano su: «Dopo sette anni d’inferno, possiamo passare anche qualche anno di purgatorio prima d’arrivare al paradiso». La verità è più sfaccettata. «Il potere è tentatore, ma solo l’opposizione è gratificante» diceva quel politico francese. L’aforismo s’attaglia a Fratelli d’Italia. Hanno fatto dell’isolamento virtù. Mai al governo, a differenza di Forza Italia e Lega. Coerenza e arcitalianità: ecco i valori da rivendere all’elettorato. E una leader che si lascia alle spalle il ruolo da urlatrice di destra. Adesso sfodera sarcasmo e nervi saldi. L’ultimo duello con la madama più indisponente e schierata della tv l’ha consacrata: «Lei dice sciocchezze» rintuzzava Lilli Gruber, vestale della sinistra. E lei, pronta: «Non si permetta. Sono stufa di quest’atteggiamento». Segue pressante invito ad argomentare. Ma la conduttrice abiura. «Giorgia la burina» che asfalta «Lilli la rossa». Per lei nulla sarà più come prima.

Sul fascismo siete insopportabili. E noi ce ne freghiamo, siamo liberi e patrioti. Francesco Storace martedì 1 ottobre 2019 su Il Secolo d'Italia. Cari colleghi giornalisti, sul fascismo state diventando davvero insopportabili. Alla Rai, in particolare, sembra essere tornati ad un format che andava di moda tanti anni addietro e si ricomincia con la solita solfa. Sei di destra? E subito scatta il riflesso condizionato: “Sei fascista?”. Quasi come se ci fosse una tessera da prendere, una camicia da indossare, tacchi da sbattere. C’è solo Berlusconi che ogni tanto se ne esce male…Non ci stiamo alla caricatura e pretendiamo serietà anche dai giornalisti del servizio pubblico. Perché sembra che vogliano ridurre tutto a barzelletta e trapela il rifiuto, comodo, di leggere una storia complessa. Certo, con luci e ombre, ma comunque ricca di realizzazioni. “Sei fascista?”, chiede a Fabio Rampelli Serena Bortone ad Agorà su RaiTre. E ha fatto bene il vicepresidente della Camera a rispondere “Me ne frego”. Con quell’affermazione Rampelli ha detto che siamo patrioti e uomini liberi, liberi anche di non cadere nel tranello di una retorica vecchia come il cucco.

Non c’è un partito fascista all’orizzonte. Oggi non c’è un partito fascista all’orizzonte, ma idee da discutere. Una storia da analizzare, semmai. Ha mai provato la Rai a fare il conto di quante strade sono intitolate ancora oggi in tutta Italia a criminali comunisti? Eppure in Europa si è paragonato nazismo e comunismo, ma non sentiremo mai un giornalista chiedere a Nicola Zingaretti se è comunista o se rimpiange l’Unione Sovietica.  Ci state, dopo il voto di Strasburgo, a sostenere una proposta di legge – per la dodicesima disposizione transitoria bis della Costituzione – che è vietata la ricostituzione del Partito Comunista? Una bella trasmissione sui crimini della resistenza nel triangolo rosso ce la farete vedere in tv? Quando avrete tolto ogni piazza, strada o vicolo intestate a despoti sanguinari potrete chiederci quel che vi passa per la mente.

Provate a invitare Davide Casaleggio. Domandategli se è un democratico. Vi risponderà di sì, eppure qualche dubbio ci resterà. Lui sceglie ministri e sottosegretari. Sempre lui incassa 300 euro ogni trenta giorni da senatori e deputati eletti con il simbolo dei Cinquestelle, infligge penalità a chi molla il Movimento, fa come gli pare con la piattaforma Rousseau. Sicuri che sia democrazia?

Quel giudizio storico sul fascismo e le sue realizzazioni Essere uomini liberi significa poter avere un giudizio storico sulle opere e le realizzazioni del fascismo differente dal vostro e nessuno potrà toglierci mai questa libertà. Di questi tempi, semmai si deve considerare come anticamera della dittatura quella del potere finanziario che opprime i popoli come quella del pensiero unico che si espande fino alla cancellazione dei profili sui social. Dittatura è anche umiliare la scelta democratica di un popolo, infischiandosene  del voto che ha relegato – e più volte – il Pd all’angolo. Lo portate al governo e dite che è consentito dalla democrazia parlamentare. E avete la faccia tosta di chiederci se i fascisti siamo noi. Basta, mille volte basta, con il conformismo che dilaga e porta acqua al mulino di un regime che vediamo formarsi giorno dopo giorno. Chi pensa di metterci all’angolo con un dibattito datato – il problema non è la domanda di Serena Bortone, ma le mille stesse domande di tutti i giorni – è fuori dalla realtà. Perché gli italiani non li fermerete con la demagogia.

Omofobia e immigrati: il cortocircuito della sinistra. In un nuovo saggio intitolato Occidente Infedele edito da Leg Edizioni, il giornalista francese Jean Birnbaum spiega le contraddizioni della sinistra su omofobia e islam. Roberto Vivaldelli, Domenica 29/09/2019, su Il Giornale. Sulla tema dell'omofobia o del rispetto verso le donne e dei diritti umani in generale, la sinistra va in costante cortocircuito ideologico. Soprattutto se a dimostrare intolleranza verso gli omosessuali o altri atteggiamenti sono gruppi di immigrati, magari di fede islamica. Come spiega sull'autorevole Foreign Affairs Rafaela Dancygier, professoressa presso la Princeton University, il problema centrale per la sinistra europea è questo: i gruppi di elettori immigrati più grandi e in rapida crescita provengono da paesi a maggioranza musulmana e spesso portano con sé le tradizioni socialmente conservatrici delle loro terre d'origine. Questo avviene, spiega Dancygier, "proprio quando i partiti di sinistra si sono proclamati campioni di laicismo, cosmopolitismo e femminismo appellandosi alla loro base della classe media sempre più liberal. Il risultato è uno scontro di valori, che si svolge più spesso nelle città, dove le comunità musulmane hanno replicato i legami del villaggio, le strutture patriarcali e le pratiche religiose dei loro paesi d'origine accanto a enclave laiche e progressiste della classe media". Basti pensare che a Bruxelles, per fare solo un esempio, oltre l'80% dei musulmani pensa che le donne dovrebbero lavorare meno "per il bene della propria famiglia", mentre solo il 37% dei non musulmani è d'accordo. La sinistra dunque è finita in una trappola ideologica: vuole i voti delle minoranze e degli immigrati per sopravvivere, ma questi ultimi sono tendenzialmente conservatori - spesso in senso islamico - o comunque portano in Europa le tradizioni dei loro Paesi di origini che non hanno nulla a che fare con l'ideologica liberal, pro-Lgbt e cosmopolita della sinistra progressista moderna. In un nuovo saggio intitolato Occidente Infedele edito da Leg Edizioni, il giornalista francese Jean Birnbaum - già autore di Musulmani di tutto il mondo, unitevi! La sinistra di fronte all'islam - ha raccontato in maniera efficace tutte le ipocrisie della sinistra liberal su questo tema. Gli uomini che attaccano l'Occidente per distruggerne l'imperialismo opprimente, si legge nella scheda del libro, le democrazie ipocrite, i costumi decadenti, se la prendono con istituzioni e valori che anche noi abbiamo spesso criticato, a volte duramente. Ma colpiscono anche, adesso è chiaro, qualcosa a cui teniamo, un insieme di libertà, costumi e gesti inventati nel corso dei secoli. Come spiega lo stesso Birnbaum su La Verità, secondo l'intellighénzia di sinistra, le campagne Lgbt causerebbero le esasperazione dei giovani immigrati che finora avrebbero ignorato l'omofobia, mentre l' attivismo delle femministe provoca la loro radicalizzazione machista, opinione condivisa anche da Houria Bouteldja in una nota riassuntiva: "Le società del Sud rispondono all'internazionale gay scatenando un odio contro gli omosessuali che prima non esisteva o facendo riemergere una preesistente omofobia, al femminismo imperialista rispondono con un inasprimento del patriarcato e una recrudescenza delle violenze contro le donne, all'umanesimo bianco e alle lobbies dei diritti umani con un rifiuto dell'universalismo bianco alle forme d' ingerenza da parte dell'Occidente, così numerose che sarebbe noioso elencarle tutte, rispondono con una crescente ostilità. Ecco perché nei quartieri popolari si reagisce all' omorazzialismo con un machismo identitario e un' omofobia crescente. Per quanto brutte siano le reazioni, hanno un motivo comune: una feroce resistenza all'imperialismo occidentale e bianco..". Insomma, la musica è sempre la stessa: per la sinistra se esiste l'intolleranza verso gli omosessuali, è solo colpa dell'Occidente bianco. Se le donne non hanno gli stessi diritti degli uomini, è colpa del colonialismo. Addirittura, come spiega Birnbaum, secondo Joseph Massad, professore alla Columbia, è stato l' Occidente a inventare l' opposizione binaria tra sessualità "normali" e sessualità "devianti", tra "eterosessualità" e "omosessualità"; queste categorie, secondo il professore, non significavano nulla nel mondo arabo e musulmano tradizionale, dove gli abbracci tra uomini e le esperienze omoerotiche erano comuni, senza che fosse necessario etichettarle. In buona sostanza, se in Oriente esiste l'omofobia, è perché l'Occidente l'ha creata. Come nota Federico Rampini nel suo La notte della sinistra (Mondadori), c'è un vizio che perseguita noi occidentali: quello di credere che siamo l'ombelico del mondo. "Ovverosia, nella versione politically correct, dal dogma per cui ogni sofferenza dell'umanità contemporanea si deve ricondurre alle colpe dell'Occidente, dell'uomo bianco. Basta scavare bene, seguire le piste giuste, rispolverare le dietrologie adeguate, e alla fine spuntiamo sempre noi, il nostro colonialismo, il nostro imperialismo, il nostro capitalismo. Solo espiare le nostre colpe può appagare una sinistra che non apre mai i libri di storia"...Questo spiega l'ipocrisia della sinistra politicamente corretta su questi temi: estremamente tollerante e accondiscendente nei confronti dei migranti o del mondo islamico - ignorando i pericoli dell'islamismo radicale - inflessibile verso l'uomo bianco occidentale. I campioni di cosmopolitismo e diritti umani cambiano atteggiamento a seconda di chi si ritrovano davanti.

Francesca Paci per “la Stampa” l'1 ottobre 2019. A Massimo Cacciari l' identità europea importa eccome. Tanto che prima di ragionarne ci tiene a ricordare, senza falsa modestia, di aver scritto tre o quattro libri sulla metafora del vecchio continente come arcipelago di diversità quando l'idea era al di là da venire.

Sostiene il filosofo francese Finkielkraut su La Stampa che l'identità europea si indebolisce se rinuncia ad imporsi sui nuovi venuti. Cos'è l' identità europea?

«Se esiste un'identità europea sta nella considerazione della complessità del reale, nell'unità di realtà diverse e distinte. L’identità europea è l'arcipelago, non esiste nessuna possibile identità riducibile all'uno. La lezione della razionalità europea è far conoscere la complessità, è l'odio per le semplificazioni e per chi cerca di interrare l' arcipelago nella pianura. L'Europa è federale nella sua essenza: il logos europeo è la negazione del pensiero unico, è così che è diventata il centro del mondo e la sua cultura è diventata dominante».

Eppure, come dice Yascha Mounk a questo giornale, con l'identità giriamo un po' intorno al tema dei migranti. Non è che l' Europa cerca di ritagliarsi un'identità in modo difensivo, Noi diversi da Loro?

«L'Europa è andata avanti accogliendo i diversi, anche talvolta in modo violento, con le guerre. L'Europa nasce con colossali fenomeni migratori, un meticciato continuo, un'idea profondamente romana, nel senso che mentre la polis greca si basa sull'identità della terra e del sangue la città romana deriva dal suo opposto».

Ha l' impressione che l'egemonia culturale sia passata a destra, parlano secondo le categorie del Novecento?

«Ci sono sempre state correnti che nelle fase critiche dell'Europa hanno serrato i ranghi e si sono inventate identità senza alcun logos. È inevitabile. Il problema è se dall'altra parte c'è una cultura in grado di rispondere in modo dialettico. E non c'è. È tremendo. L'Europa invecchia laddove invece il logos europeo era quello di un continente che cresceva, città giovani, curiose, aperte. L'egemonia culturale nel segno dell'identitarismo è il sintomo di questo invecchiamento economico e culturale, l'Europa non è più il centro del mondo e non si mescola più».

Esistono faglie politiche nuove, l'ecologia o la magari addirittura la religione, su cui ricostruire questa dialettica tramontata con le idee "old-fashion" di destra e sinistra?

«È possibile che questa idea di arcipelago rinasca. I temi ecologici hanno due aspetti. Da un lato sollecitano la rinascita di quella dialettica perduta invitano per esempio un consumo limitato, dall'altro però non si può nascondere che nascono in Paesi rei di aver inquinato fino al minuto prima d'intimare agli altri di non farlo».

I Verdi, nuovamente vittoriosi in Austria, possono essere un'alternativa ai populismi?

«II movimento verde ha in sé quel logos europeo originario, l'idea di trasgredire sistemi esistenti. Ma c'è anche l'altro, l'auto-assoluzione. E poi mi pare che ancora manchi una visione d'insieme, quali sono le vie d'uscita dalla distruzione del pianeta? Quanto costano? Quanti posti di lavoro sacrificheranno?».

Su Greta Thunberg gli europei sono tutti d'accordo, da Macron a Orban. Quando è profonda su tutto il resto la distanza tra l' Europa occidentale e quella centro-orientale?

«Basta parlare di Greta! Lei è il sintomo di un possibile tema ma il suo messaggio è nettamente semplificato, come quello di Salvini sui migranti. Con i Paesi dell' ex blocco sovietico c' è un problema reale perché si portano dietro immagini ultra-semplificate, sono i figli di una dittatura votata alla riduzione all' uno, conoscono solo il bianco e il nero».

Non offre molte speranze. La socialdemocrazia è morta, la liberaldemocrazia annaspa, e l'Europa, quanta vita ha ancora davanti?

«Cerchiamo una exit strategy. La mia idea è che l'Europa debba essere coerente con il suo passato considerando che l'invecchiamento è inarrestabile: o troviamo un'unità politica o saremo presto piccole province litigiose».

Parla di unità politica ma in questo momento per gli elettori suona come burocratichese. Come si esce dalla tenaglia tra burocrazia centralizzata o sovranismo?

«Innanzitutto restituiamo dignità alla tecnica e alla burocrazia, servono grandi piani strutturali per l'unità politica. Poi bisogna darsi un assetto federale che rappresenti i popoli, combinare i due aspetti, anziché contrapporli come burocrazia vs politica della gente».

Immagina una repubblica europea, come propongono alcuni intellettuali tra cui Ulrike Guerot e Piketty?

«Si ma una repubblica europea federale, l'opposto del centralismo».

Il paradosso della stampa italiana che inneggia al “plebliscito” di Rousseau. Se domani affidano a Rousseau di dire sì o no al sabato pentastellato, che cosa fai: aspetti l’esito? Iuri Maria Prado il 5 Settembre 2019 su Il Dubbio. Ieri le prime pagine di pressoché tutta la stampa quotidiana erano invase da titoli pressoché tutti uguali sul “Sì di Rousseau” al nuovo esperimento di governo. Titoli, cioè, che salutavano il governo di imminente costituzione avendo registrato il risultato positivo di quella balorda consultazione. Pressappoco: “Ha vinto il sì, nasce il nuovo governo”. E davanti a titoli come quello che cosa si deve pensare? Che si trattava di iniziative giornalistiche spiritose, confezionate per denunciare l’oscenità dell’operazione e, soprattutto, la spaventosa irresponsabilità di quelli che la accreditano? Tipo: “Cari lettori, pensate un po’ in che condizioni siamo messi se i meccanismi di attivazione del potere che dovrà dare indirizzo politico al Paese sono subordinati a una simile cialtronata”. Macché. Quella rappresentazione e quei titoli erano serissimi. Pace se è inaudito che in un assetto costituzionale di tipo parlamentare come il nostro gli avvicendamenti al potere nelle istituzioni repubblicane siano affidati ai maneggi di una “piattaforma” costituita non si sa come e che opera in dichiarato conflitto con il sistema di rappresentanza del consenso popolare. Pace se, per soprammercato, almeno un paio di volte le autorità di controllo competenti hanno sanzionato l’opaca inaffidabilità di quel dispositivo di voto. E pace se anziché assistere inerti, se non compiaciuti, alla formazione di questa stortura civile, politica e istituzionale bisognerebbe piuttosto indicarla al lettore per quel che è, vale a dire una protuberanza malata e inguardabile cresciuta dal tronco marcio di un’informazione che fa finta di descrivere e in realtà celebra il corso desolante di questi avvenimenti. Tutto questo non conta nulla. Siccome Rousseau deve dire la sua, allora tu non solo ci fai l’apertura del giornale ( e passi), ma proponi lo schema come se si discutesse di una faccenda con una sua bella plausibilità istituzionale. Attenzione: è quasi inutile precisare che alla scelta di titoli come quelli può cospirare anche una specie di candore. Poiché mi piace l’idea del nuovo governo ma temo l’esito di quel pasticcio digitale, ecco che davanti all’ottanta per cento di clic positivi io rigurgito quei timori in forma soddisfatta e capovolta e me ne vengo fuori con quel titolo: Rousseau ha detto sì, e dunque c’è il nuovo governo. Ma l’idea che in questo modo tu rendi istituzionale, cioè elevi al rango delle cose pubblicamente accettabili, la pratica di condizionare lo scioglimento di una riserva governativa e lo sviluppo della vicenda politica del Paese a quella documentata e pericolosa truffa; l’idea che i cittadini, i lettori, gli elettori possano apprendere senza nessuna perplessità, perché tu non gliela prospetti, che quel presunto voto appartiene in modo ineccepibile all’insieme degli elementi che organizzano la vita del nostro ordinamento democratico; insomma l’idea che quel titolo non dovresti farlo nemmeno se ( e anzi proprio perché) naturalmente sei portato a farlo, proprio non ti viene? Se domani affidano a Rousseau di dire sì o no al sabato pentastellato, che cosa fai: aspetti l’esito?

Gustavo Bialetti per ''la Verità'' il 20 settembre 2019. Domanda: «Lei è a La7 dal settembre 2011. Ha mai avuto nostalgia della Rai?». L' interrogato è Corrado Formigli, conduttore di Piazzapulita, il programma in partenza sulla televisione di Urbano Cairo, e l' intervista avviene sul Corriere della Sera di Urbano Cairo. È l' ultima domanda della conversazione, pubblicata a pagina 9. Nella prima Formigli ha annunciato come uno scoop l' intervista in diretta, «per la prima volta in una tv italiana», a Carola Rackete, di fronte alla quale sbiadisce anche l' interesse per la scissione dal Pd di Matteo Renzi. Due settimane prima era stata Myrta Merlino a rivelare sempre sul Corriere di Urbano Cairo il ritorno anticipato sulla tv di Urbano Cairo: «Ho avvertito l' urgenza di affrontare un momento politico irripetibile». L' 8 settembre, alla vigilia dell' esordio stagionale sulla medesima rete del medesimo editore, era toccato a Giovanni Floris pontificare dalle colonne del medesimo quotidiano. Il giorno dopo, invece, parola ad Andrea Salerno, direttore dell' emittente di Urbano Cairo sul giornalone di proprietà di Urbano Cairo. Titolo vertiginoso: «La politica accetti il confronto. La7 è pronta, serve al Paese». Merlino, Floris, Salerno, Formigli: tu chiamale, se vuoi, sinergie. Le stesse, forse, che presiedono alle critiche (?) di Aldo Grasso ai programmi della solita rete del solito editore («Mentana e la crisi, un vero leader della maratona in diretta», 29 agosto), o al silenzio sul buco preso da Otto e mezzo sul nuovo partito di Renzi, causa preregistrazione dell' ennesima puntata anti Lega. Manca Massimo Giletti, ma c' è tempo, parte domenica. Nell' attesa, un dettaglio rimasto in sospeso: che cos' avrà risposto Formigli alla domanda sulla nostalgia della Rai? «Sono felicissimo di lavorare qui e assaporo ogni giorno la libertà editoriale». Sinergie saporose.

 MA DOVE CAZZO LI NASCONDO 60 MILIONI DI DOLLARI?”Da corriere.it il 9 ottobre 2019. "Mi scusi Floris, ma dove c... li nascondevo questi soldi che avrei preso dalla Russia, ne giardino?". Matteo Salvini prova a scherzare sulla questione fondi russi ma Floris lo incalza: "Bello che ci rida, riderà anche davanti ai magistrati...".

Antonio Socci punta il dito contro i "talk-show scandalosi e ributtanti de sinistra". Libero Quotidiano il 5 Settembre 2019. Ora trova terreno fertile chi, da sinistra, va in televisione a pontificare sullo scampato "rischio democratico" che sarebbe incarnato da Matteo Salvini. O meglio, alla luce del governo Pd-M5s, sarebbe stato incarnato: l'appuntamento col fantomatico "rischio democratico", ora, è quantomeno rimandato. E contro chi si riempie la bocca a sproposito vaneggiando su futuribili dittature, su Twitter, punta il dito Antonio Socci. "Ma sono solo io che trovo scandalosi i talk show, pressoché tutti 'de sinistra', con ospiti 'de sinistra' che se la cantano e se la suonano dicendo che 'gli altri' (quelli che non vengono fatti parlare) sono pericolosi per la democrazia? Solo io trovo ributtante tutto questo?", conclude interrogandosi Antonio Socci. Di nomi, di riferimenti evidenti non ne fa. Eppure, si può ipotizzare che tra i talk-show di cui parla Socci possa esserci quell'In Onda di David Parenzo, baluardo estivo dell'ultra-sinistra dove la destra si preferisce dileggiarla o, ancora meglio, non farla parlare.

David Parenzo insultato per un'ora e mezza da Spatalino e Mauro da Mantova: scattano i licenziamenti. Libero Quotidiano il 21 Settembre 2019. "Ho dato mandato al mio avvocato di denunciare l'emittente veneta Telecittà e il conduttore Enzo Spatalino per l'ignobile trasmissione contro di me. Il ricavato andrà interamente al finanziamento di una borsa di studio per giovani giornalisti". Alla fine, David Parenzo, ha - per una volta giustamente - sbottato. Il giornalista, voce della Zanzara, ha deciso di replicare alla trasmissione andata in onda sull'emittente padovana, dove il conduttore Enzo Spatalino ha offerto microfono e visibilità a “Mauro da Mantova”, ascoltatore protagonista di interventi deliranti alla Zanzara. Da Telecittà, Mauro ha preso a male parole il conduttore di In Onda, accusandolo "di essere un cretino". "Non per la sua razza" ha tenuto a precisare. Ma non solo. Un inaccettabile diluvio di insulti per il fatto di essere ebreo, dunque insinuazioni sulla sua sessualità, sul fatto di essere raccomandato. Addirittura Mauro Da Mantova sosteneva che i genitori di Parenzo procacciassero sponsor a La7, e che solo per questo Urbano Cairo lo mandasse in onda. Un delirio diffamatorio, insomma. Totale e terrificante. Tanto che per una volta anche a noi viene da parteggiare per "Topo Gigio" Parenzo. "È una roba indegna", ha immediatamente replicato Parenzo, che lo ascoltava sbigottito in diretta alla Zanzara. Parenzo, alla fine, è riuscito ad intervenire telefonicamente e a parlare con il duo: "Vengono i carabinieri a prendervi, siete due criminali. È tutto registrato, mi avete offeso pubblicamente e io vi querelo. Vi porto via tutto". L'intervento ha avuto non poche conseguenze: Spatalino è stato licenziato in tronco, addio programma dopo il circo diffamatorio mandato in onda. Il giorno successivo le lacrime 'coccodrillesche': "Sono distrutto, ho perso il lavoro per una banalità. Sono stato a parlare con l'editore, una ragazza che ho visto nascere. L'hanno messa in croce. Non mi ha licenziato, abbiamo preso la decisione di comune accordo", ha assicurato.

Le dirette Facebook dei politici e il ruolo dei telegiornali. Pubblicato giovedì, 05 settembre 2019 da Aldo Grasso su Corriere.it. Sempre più spesso nei telegiornali appaiono i cosiddetti Facebook Live di qualche politico, soprattutto di Matteo Salvini. Molto attivi sono anche Giorgia Meloni, Matteo Renzi, Alessandro Di Battista, Luigi Di Maio (che ora, per forza, dovrà fare un corso accelerato di rudimenti diplomatici). Sono filmati autoprodotti, frutto della cultura della disintermediazione: non più il giornalista (spesso anche «amico») che fa domande, non più un’operazione di montaggio, ma una comunicazione diretta, «spontanea». Non è facile fare questi video: l’inquadratura, la durata, lo sfondo sono pieni d’insidie e rischiano di provocare effetti perversi (molti avranno presente il video di Daniela Santanché dal Twiga: nessuno ricorda cosa ha detto ma tutti ricordano il signore sullo sfondo che si sta facendo un lungo e accurato bidet). Tuttavia, nell’universo dei social, questo tipo di comunicazione è molto efficace ed esalta la natura stessa della rete: immediatezza, informalità, usabilità. Come si dice, è una comunicazione peer-to-peer, da pari a pari. Diverso il discorso quando i Facebook Live finiscono in un telegiornale e vengono riproposti così come sono. A parte la qualità dell’immagine, è come se il telegiornale dichiarasse una propria sconfitta, come se i giornalisti fossero inutili, come se una «velina» andasse direttamente in onda. In passato c’è stato il caso di Silvio Berlusconi che mandava ai telegiornali una cassetta preconfezionata, ma qui l’impatto è ben diverso. Le cose stanno così e non c’è nulla da fare? La tecnologia fa il suo corso ed è impossibile fermarla? In parte sì, ma se un telegiornale decide di mandare in onda il filmato autoprodotto dal politico ha altri mezzi per ristabilire una mediazione. Pensiamo agli ultimi filmati di Salvini: la bocca dice alcune cose ma tutto il resto della faccia (e in parte del corpo) contraddice quelle affermazioni. Basterebbe farlo notare…

Facebook «punisce» Veneziani. Luigi Iannone su Il Giornale il 6 settembre 2019. Non si placano mai le purghe facebookiane. Sono sempre attive e ”sul pezzo”. Questa volta è toccato a Marcello Veneziani il cui profilo è stato bloccato per tre giorni. E ormai, non so nemmeno come definire questo tipo di vicende perché non si tratta più di attingere alle pluricitate contorsioni kafkiane ma a tristi presagi orwelliani. In verità, verrebbe voglia di utilizzare un turpiloquio da osteria (”quello” si meriterebbero!) ma, finché resisto, cercherò di non cadere nel tranello. A me, qualche mese fa, cancellarono (e per sempre) due profili. Ho fatto fatica a rimettere insieme i cocci di relazioni e amicizie internettiane, e con rabbia e maggiore lena sono ripartito. Lo so! Non è la fine del mondo! Lo scrissi allora, e lo ripeto con convinzione oggi. Tuttavia, la ferita rimane perché il divieto attiene alla sfera delle libertà. E chi ha visto cancellare il proprio profilo o subire delle limitazioni sulle pubblicazioni dei ‘post’ capisce perfettamente di cosa io stia parlando. Perché una cosa è scrivere bestialità, essere blasfemi o augurare la morte fisica di un avversario politico, un’altra è fare la propria parte nella battaglia delle idee e vedersi ugualmente censurare. Ma, come scrivo spesso, questa è la libertà dei LIBERALI. Costoro, infatti, si riempiono la bocca di liberalità, di diritti, di tolleranza e in nome di tutto ciò praticano la censura.

Giuseppe Brindisi contro Luca Telese: "I somari restano somari". E lui: "Quando torna Veronica poi..." Libero Quotidiano il 2 Settembre 2019. La competizione si sa, è competizione e in televisione si fa ancora più pesante. L'ultimo battibecco proviene dai due conduttori che, in prima serata, intrattengono gli italiani con la politica del giorno. Si tratta di Giuseppe Brindisi e Luca Telese, il primo alla guida di Stasera Italia su Rete 4, il secondo alle redini (assieme a David Parenzo) di In Onda, su La7. Le due trasmissioni, quasi alla stessa ora, non sono esenti da un briciolo di senso di sfida. Proprio Brindisi ha pubblicato i risultati del suo Stasera Italia Estate: "Programma d'informazione leader dell'access prime-time: 1^parte 1.038.000 am (5.90% sh),2^parte 1.297.000 am (7.14% sh)", commentato così i risultati: "Perché poi la verità è sempre la stessa. Quando non c'è il traino... i somari restano somari. Altro che trippa e pastrami". Immediata la replica di Telese: "1) Il somaro è un animale splendido 2) e comunque non disperare: quando torna Veronica potrete essere di nuovo competitivi" scrive su Twitter generando così una vera e propria rincorsa allo share.

In Onda, Luca Telese e David Parenzo come Totò e Peppino. Il duo si è ritrovato un po' a sorpresa catapultato nella crisi politica estiva e macina ascolti record. Che cavalca con i tempi e i modi di un'irresistibile coppia comica. Beatrice Dondi il 2 settembre 2019 su L'Espresso. Tra le tante rivoluzioni compiute da Totò si annovera anche quella di aver rovesciato il cosiddetto ruolo della “spalla”, che da soggetto chiamato a riequilibrare l’inadeguatezza del comico, imbranato, debole, un po’ sciocco, diventa al contrario quello che nel duo è costretto a subire un rapporto di angherie e prevaricazioni. In tal modo la risata nasce non più dal contrasto tra il folle e il razionale ma dal racconto di una realtà che è essa stessa portatrice di ridicolo. Stanlio e Ollio, Gianni e Pinotto, i fratelli De Rege, Franchi e Ingrassia, rispettavano puntualmente il dualismo tradizionale, dove il personaggio maldestro veniva compensato e spesso sgridato dal compagno più forte. Quando Totò e Peppino scrivono la celebre lettera alla Malafemmina si capisce in un lampo come i rapporti di forza tra comico e spalla siano diventati un’altra cosa. La subordinazione scompare, il copione si accantona e in un attimo luminoso nasce la coppia. Tipo Telese e Parenzo. Dopo anni di onorata, quanto ordinaria carriera, i due giornalisti sono stati catapultati all’improvviso nel tornado della crisi di governo come unici testimoni televisivi in una stagione generalmente sopraffatta da repliche. Erano partiti convinti di condurre “In Onda” come un calesse nei placidi sentieri di campagna per tirare qualche sasso al vicino ma senza preavviso alcuno si sono ritrovati su un rapido per Milano da cui sono scesi armati di colbacco. A quel punto l’entusiasmo gli ha preso la mano, e con la testa al solito posto, cioè su quel collo a cui sono annodate impeccabili cravatte, sono venuti a dirvi una parola. Quella che con una gioia malcelata, li ha fatti seguire, increduli di tanta manna una cronaca politica bruciante fatta di rovesciamenti di campo, ricerca di alleanze e intrighi di Palazzo. Che lo spettatore, gioco forza vista la moria delle vacche da palinsesti in vacanza, si è bevuto avidamente sera dopo sera, regalando al programma ascolti da urlo e invidie generalizzate. Così, abbondandis in abbondandum, nel triste teatrino della politica è salito sul palco a sorpresa un irresistibile ping pong di comicità involontaria purissima, dove uno ammicca e l’altro occhieggia, uno sgrida e l’altro borbotta, uno ride e l’altro ride ancora di più. Sino ad arrivare, da capocomici navigati, a rubarsi la scena, anticipando il copione ed esultando prima della battuta, con la camicia stirata e la riga da una parte fatta col pettine bagnato. E alla fine di ogni puntata la sensazione che resta è che potrebbero pensare di rinunciare al cognome per presentarsi semplicemente come Luca e David, un nome d’arte che non farebbe una piega, tipo Ric e Gian. Punto, punto e virgola, punto e un punto e virgola.

La gara a darsi del fascista tra Giuliano Ferrara e Pigi Battista. Alessandro D'Amato su Next quotidiano il 16 Agosto 2019. Il Ferragosto ci ha regalato ieri qualcosa di meraviglioso: la spettacolare litigata estiva tra Giuliano Ferrara e Pigi Battista che fanno a gara a darsi del fascista. Tutto parte da una provocazione del giornalista del Corriere della Sera, il quale fa notare che oggi la linea del Foglio e la linea del Fatto convergono sul governo PD-M5S e questo, per due quotidiani politicamente agli antipodi, è curioso solo per chi non conosce quanto può essere da manicomio la politica italiana. Arriva Ferrara a rispondere dicendo che quello di Battista che si mette con Salvini è uno spettacolo molto triste, e Battista risponde evocando la buonanima di Toninelli al governo. Si noti che nell’occasione entrambi sfoderano la tecnica di polemica che li ha resi famosi (si fa per dire) in tutta Italia: la risposta a cazzo di cane che non c’entra nulla con quanto ha detto l’avversario. Anche nella replica e controreplica successiva la tecnica è la medesima: non rispondere nel merito ma cercare di buttarla in caciara. Si tratta, per entrambi, della dimostrazione che c’è un precedente antesignano alle dirette su Twitter in cui i politici di oggi fingono di parlare al popolo per evitare di confrontarsi con l’opinione pubblica e dicendo solo quello che vogliono evitando di rispondere alle domande: gli editoriali sui giornali italiani. La litigata prosegue e spunta a quel punto il fascismo: Ferrara accusa Pigi di essere un Liberale per Salvini, come se invece essere un Liberale per Berlusconi (no, anzi, Comunista… no, anzi, Socialista… no, anzi…) non facesse ridere ugualmente, ma con una punta di ridicolo in più. Battista, uno che a parole si è sempre detto stufo delle “menate” di fascismo e antifascismo, risponde ricordando che Ferrara con i fasci ci è andato al governo (come ministro per i rapporti con il parlamento all’epoca del primo triumvirato Berlusconi-Fini-Bossi, per essere precisi). La lite a quel punto si sposta sul profilo di Ferrara, dove l’Elefantino che era al governo con Berlusconi, ha retto il moccolo a Renzi e ha sdoganato – insieme al Corriere – la Fallaci – su cui oggi si basano le sciocchezze di Salvini sugli islamici e sul piano Kalergi – accusa Pigi di essere un cerchiobottista, con un gioco di parole sul suo cognome che Grillo potrebbe rubare per inserirlo nei suoi monologhi con nomignoli che l’hanno reso famoso come le torte in faccia di Buster Keaton. L’apice arriva quando Pigi rinfaccia al Foglio (e al Fatto) di vendere poche copie, e l’altro gli risponde, come se fosse un’offesa, di essere “un bravo impiegato del giornalismo”. Auspicando a breve una convergenza tra Travaglio e Ferrara sul giudizio positivo nei confronti della Giunta Raggi. Speriamo che questa crisi duri un altro po’, chissà quanti altri spettacoli potrebbe regalarci.

Scambio di tweet tra Giuliano Ferrara e Pierluigi Battista. Da Dagospia il 16 agosto 2019.

Giuliano Ferrara: A Pigi Cerchiobattista, io nella vita ho fatto delle cose e non mi porto via niente. Tu, Franza o Spagna, sei un piccolo arruffone che cerca di cancellare le tracce. Ora sei un Truciolo  #stattezittocheèmeglio.

Pierluigi Battista: Quando fate testata comune a duemila copie, salutami il nuovo compagno Travaglio.

Giuliano Ferrara: Quando capirai che sei un bravo impiegato del giornalismo, con un carrierino dei piccoli, sarà sempre troppo tardi. Vedi de cancella' le tracce, vedi  #mohairotto.

Pierluigi Battista: Tu e Marcolino, già vi adoro mentre direte insieme che la Roma della Raggi è pulita.

Giuliano Ferrara: Voglio che quelli del 32 per cento governino, e l'opposizione democratica e costituzionale dia loro la fiducia tecnica e consegni il Truce alla sua irrilevanza del 17 per cento  #nonèchiaro.

Pierluigi Battista: E così, il Fatto e il Foglio che finiscono per sostenere lo stesso governicchio di salvezza nazionale sono il meraviglioso spettacolo del Paese più ridicolo del mondo.

Giuliano Ferrara: Gli editorialisti del Corriere 5 stelle che si mettono con Salvini sono uno spettacolo molto triste  #votosubitodopo.

Pierluigi Battista: Salutami Toninelli, in due fate due grandi statisti insieme al governo.

Giuliano Ferrara: Ti vedo bene al Papeete con Siri, Savoinov e il resto dei fasci sudaticci  #bravofesso.

Pierluigi Battista: Io voglio solo andare a votare, tu vai con quelli che negano lo sbarco sulla Luna.

Giuliano Ferrara: Hai già votato gli antisbarco lunatici, chi vuoi perculare, Pigi. Sei solo un liberale per il Truce. Niente di male, ma non bluffare  #prossimovotoil2023.

Pierluigi Battista: La tua ennesima stronzata alcolica. Tu con i fasci ci sei addirittura andato al governo. Ma per te Franza o Spagna purché al governo. E mo basta che ho da fare

Giovanni Floris, la gaffe con la moglie del ministro Castelli: "La faccia smettere", caos in studio. Libero Quotidiano il 4 Agosto 2019. Una lunga intervista, quella concessa da Giovanni Floris a Il Fatto Quotidiano. Il conduttore de La7 ripercorre la carriera, dai tempi in cui mandò il curriculum ad Enrico Mentana. Poi parla del suo editore, Urbano Cairo, affermando che "mi sembra molto difficile che un imprenditore di successo possa pensare all'impegno in politica, se non richiesto dal Paese". Dunque un divertente aneddoto, quando George Bush lo scambiò per un cameriere messicano. E infine si parla dei mitologici applausi in studio a DiMartedì, il talk-show del giovedì sera su La7: come è noto, tutti applaudono tutti, e con grande passioni. Sul punto, Floris si sbottona. Quando gli fanno notare che a DiMartedì il pubblico applaude sempre, Floris risponde: "A Ballarò le gradinate erano composte da persone che chiedevano di partecipare, e ai tempi di Berlusconi erano quasi tutti 'anti', così per pareggiare cercavamo gruppi di centrodestra (ride, ndr). Una sera, Castelli ospite, c'era una signora dietro di lui che esagerava tra applausi e smorfie: durante la pubblicità mi avvicino all'allora ministro e con garbo gli esprimo un'esigenza: Per favore, questa la tranquillizzi. E lui: È mia moglie". Una strepitosa gaffe. Dunque, parlando degli applausi a DiMartedì, spiega: "La gente non segue più tanto la politica e i talk si sono moltiplicati: i volontari saranno una cinquantina, poi riempiamo e il problema è che non hanno una posizione e si aggregano a ogni applauso, da qui l'inflazione. È una questione che dobbiamo affrontare", conclude.

Alessandro Ferrucci per “il Fatto quotidiano” il 6 agosto 2019. Telefonata a Giovanni Floris, oggetto della conversazione: l' intervista della domenica.

"Ma no, meglio di no".

Perché?

"Non mi sembra il caso, non mi piace apparire sul piano personale". "Evitiamo di andare (troppo) sul personale". "No, ma grazie".

Cortese, pacato, deciso. Floris.

Il giorno dopo Marco Travaglio chiede conto del "no". Sorride per la motivazione, prende il cellulare, e chiama proprio Floris. Trattativa serrata, il conduttore di DiMartedì accetta. Squilla il mio cellulare, è Floris, e la prima frase, pronunciata con voce squillante e ridanciana, è: "'Tacci vostra". Ecco l' appuntamento. Floris quando parla, non cambia quasi mai il tono della voce, è gentile, sorride, ma non offre appigli, sembra un giocatore di poker professionista, uno di quelli che in gara vestono con il cappuccio della felpa perennemente sulla testa: stizzito o concentrato, ridanciano o rilassato, mantiene il medesimo passo, al massimo incrocia le braccia quando una domanda non lo convince, oppure se la fa ripetere, come ai tempi delle interrogazioni di scuola. Ci tiene alla riservatezza, scinde il pubblico dal privato, la professione da amici e famiglia, e sa qual è il valore del dubbio, e con lui le sfumature non sono sempre tali. A casa i libri arredano le pareti.

"Però ora leggo solo su Kindle e prendo molti appunti a parte".

Non le piace venir intervistato.

"Sembra strano parlare di se stessi, se non per ciò che uno pensa della professione o della politica. Piuttosto, perché me l' ha chiesta?"

Perché no?

"Chi è in televisione non è per forza un personaggio".

Non lo è?

"Sono solo uno che si prepara e ha una trasmissione".

Chi è in televisione diventa personaggio.

"Ciò non obbliga a esporsi".

Da ragazzo si esponeva?

"In che senso?"

Rappresentante di classe? D' istituto? Assemblee?

"Sì, sempre. Ma anche a DiMartedì mi espongo e volentieri, questo lavoro mi piace moltissimo, poi separo i due mondi: quello privato e quello della professione".

Ha mai rivisto le prime puntate di "Ballarò"?

"Ieri per la prima volta: ho chiamato il mio gruppo per preparare questa intervista".

Gruppo storico.

"Nato al G8 di Genova del 2001: eravamo lì per Radio anch' io".

Insomma, come si giudica?

"L' approccio è simile ad adesso; è differente la trasmissione, differente il contesto: nel frattempo è accaduto di tutto. (sorride) Mi ha colpito rivedere Berlusconi mentre mi sposta, le telefonate in diretta, Di Pietro leader, lo scontro tra D' Alema e Cofferati; poi ero più giovane e più magro".

D' Alema mandò in crisi Cofferati.

"Sposto la questione: c' è un tratto che unisce la mia carriera ed è il confronto tra principio di realtà e principio di volontà; in quel caso a coprire i ruoli erano D' Alema e Cofferati".

Al giornale radio di cosa si occupava?

"Di economia".

Gli anni di Dini e Ciampi.

"Ciampi è stato un' alta espressione della politica: aveva senso di responsabilità, competenza, appartenenza. E forse con lui si sono fuse realtà e volontà.

Differenza tra "Ballarò" e "DiMartedì".

"I leader venivano in trasmissione e si confrontavano; oggi il pubblico preferisce le interviste, d' altronde, spesso, persino i leader sono persone ignote ai più e il telespettatore li vuole conoscere".

I leader sono presenti.

"È una generazione ben disposta: in passato non era così facile intervistare il premier, e poi oggi nessuno si alza e se ne va, accettano le domande e non delegittimano".

La hanno delegittimata molto?

"L' accusa più frequente dalla destra era di filocomunismo, e quando le domande non piacevano alla sinistra, puntavano sul "ti sei allineato"".

È mai stato comunista?

"La mia formazione è liberal socialista, ho studiato con Dario Antiseri, laureato con Luciano Pellicani, e ho avuto la fortuna di lavorare con Gino Giugni".

Che Guevara, kefiah, eskimo.

"Mi sono formato negli anni 80, non c' era quella politica, eravamo de-ideologizzati. Mi interessava la filosofia, la sociologia e la letteratura".

Lei negli anni 80.

"Giocavo a pallone, mi piaceva studiare, gli amici, e poi l' iscrizione a un' università privata, ma senza mettermi l' orologio sopra il polsino della camicia".

In quanti anni ha chiuso l' università?

"Poco più di quattro con in mezzo il servizio militare".

Veloce.

"Dovevo sbrigarmi, costava molto".

Voto.

"110 e lode a Scienze Politiche".

Bocciato, mai.

"Alcuni esami li ho tentati: per l' ultima prova avevo come professore Antonio Martino (poi ministro con Berlusconi). Ero in divisa e non un preparato. Lui simpatico e intelligente, mi rassicura: "Vedo che è alla fine dell' università, non la boccio, ma le assegno il voto più basso che ha sul libretto"".

Era convinto fosse un 18  E invece?

"26. E lui: "E ora?". "Professore, lo ha detto". "Va bene, sono un gentiluomo"".

Lei bluffa?

"Può capitare però cerco di non caderci, perché significa mettersi nelle mani altrui".

Come mai militare e non obiettore?

"All' epoca non era una scelta ideologica".

Mica tanto.

"Non ci ho mai pensato ed è stata un' esperienza formativa".

Assegnato?

"All' ufficio movimento, dentro un garage, dove studiavo, e per riposarmi dormivo dentro i copertoni".

I commilitoni la prendevano in giro?

"(Ride) Mica siamo in un film di Alvaro Vitali".

Li conosce?

"Ho una grande cultura di pellicole horror e B-movie".

Fenech o Bouchet?

"Bellissime entrambe. Ah, ho visto tutti i Vacanze di Natale almeno due o tre volte l' uno, e per tradizione vado il 25 dicembre; per Vacanze sul Nilo due proiezioni lo stesso giorno, la terza il 27, giorno del mio compleanno".

"Febbre da cavallo"?

"Lo so a memoria (e inanella una serie di citazioni). Però in generale sono un appassionato di cinema e grazie a mio padre: con lui ho visto tutta la grande commedia italiana, da Mario Monicelli a Dino Risi, e mi è rimasto il gusto del riflettere per ridere".

Ha mai recitato?

"Sono amico d' infanzia di Paolo Genovese, e fino a Ballarò ho partecipato, da comparsa, a diversi suoi film. In un periodo della nostra vita lui voleva diventare giornalista e io regista e in un' altra fase mi ha convinto a vestire i panni dell' animatore in un villaggio vacanza della Calabria".

Andava dagli ospiti e li invitava: "Dai, questa sera si balla"?

"Organizzavo i giochi da spiaggia, quelli di carte, lo spettacolo serale".

Rimorchiava?

"Ma che domanda è? (e qui parte una lunga discussione su qual è la risposta meno narcisistica). Dopo un po' mi hanno mandato via perché avevo chiesto una pausa per andare in paese e acquistare del gel da capelli. Pausa negata. E io: "È un diritto!" E il capo villaggio: "Non vogliamo sindacalisti"".

Ha un' immagine molto posata ed equilibrata.

"E lo sono, o almeno penso. Ma con tutte le sfumature del caso, dipende dalle situazioni, dal periodo, dal contesto; è difficile descrivere una persona".

Quanto impiega per capire chi ha di fronte?

"Mi costruisco subito un' idea, ma sono pronto a smontarla e le domande servono proprio a ribaltare, ma è fondamentale dare per scontata la buonafede dell' interlocutore. (Si alza e va a prendere l' acqua in cucina. Respira)"

Tra soldi e potere, cosa conta?

"Anche qui, non riesco a leggere la realtà in chiave duale. Se invece uno parla di rappresentanza politica e ricchezza economica, in questo momento, e probabilmente, pesa più quella politica".

Frequenta i salotti?

"Siamo giornalisti e se trovare fonti vuol dire entrare in certi ambienti, lo capisco. Io sto sempre con le stesse persone: festeggio il compleanno con il solito gruppetto".

Di quanti?

"Di base quattro".

Torniamo al G8 : chi è stato lì ce l' ha sulla pelle.

"È vero, giorni impressionanti in cui ti trovavi a dover raccontare vicende che mai avresti pensato fossero possibili in Italia: nel ricordo di quell' esperienza, Paolo Ruffini mi ha richiamato da New York per condurre".

Si immaginava in tv?

"Mi immaginavo giornalista ma non pensavo di riuscirci: a quel tempo la professione era chiusa dai figli di, e mio padre lavorava in banca, mamma professoressa d' Italiano e Latino".

L' appoggiavano?

"Molto e quando ho finito l' università, la laurea alla Luiss mi garantì un paio di colloqui che passai: uno alla Banca di Roma, l' altro all' Unione industriali. Scelsi i secondi. Ma la notte prima di firmare non ho chiuso occhio e a colazione mi sfogai con i miei: "Non vado". E loro: "Bravo"".

Solidali.

"Sì, e ho riniziato a collaborare con i giornali, mi sono iscritto alla scuola di giornalismo di Perugia, ma alla fine del biennio la Rai non ci chiamava. E così rimedio il numero di Enrico Mentana: "Direttore, le interessa il mio curriculum?".  E lui, gentile e spiritoso: "Ti forma la Rai e ti devo prendere io a Canale5? Va bene, manda"".

Faccia tosta.

"Era necessario".

Non timido.

"A un chirurgo uno domanda se è timido?"

Il chirurgo non deve per forza parlare in pubblico.

"Allora, come giornalista non lo sono, nella vita a volte".

Ha mai letto una poesia in classe o per Natale?

"Per l' amor di dio, no. Ma non è timidezza, è dignità! E cerco di evitarlo ai miei figli. La televisione è nata per necessità: l' 11 settembre ero a New York e in redazione una formazione ridotta composta solo da Borrelli e Angelini. Gli aeroporti chiusi. E mia moglie bloccata nell' area a rischio".

Paura per lei?

"È una tosta".

Quando si è reso conto della portata del dramma?

"Dopo due o tre ore: ho vissuto scene terribili, che ineriscono alla Storia, non alla cronaca".

E cinicamente non è il sogno del giornalista?

"No, è solo spaventoso; in quei momenti l' unico obiettivo è di non farti trascinare dall' emotività. Ricordo la prima reazione dei newyorkesi: portare cibo alle Torri Gemelle, anche se inutile, c' erano montagne di merendine e panini, lasciati davanti la zona transennata."

Quanti giornali legge?

"Sei o sette".

Cattolico?

"No, laico. Agnostico".

Le religioni la incuriosiscono?

"Insieme alla filosofia è il mio più grande interesse".

Tra odio e indifferenza?

"Rispetto".

Cairo in politica.

"Qual è la domanda?"

Cosa ne pensa della possibilità di Cairo in politica?

"Scelta sua; come imprenditore ha dimostrato capacità e come editore è l' ideale: lascia libertà e chiede responsabilità".

Insomma?

"Nè lo spero nè lo temo, mi sembra difficile che un imprenditore di tale successo possa pensarci, se non richiesto a gran voce dal Paese".

Il governo regge?

"Non credo, non può, perché nasce su un malinteso culturale, un infingimento".

Quale?

"Non si può rifiutare la distinzione tra destra e sinistra".

Questo governo è?

"Di destra".

Differenza tra destra e sinistra.

"La destra difende le opportunità che si hanno, la sinistra vuole che se ne creino di nuove per chi non ne ha. (Entra la moglie, Beatrice Mariani, compagna d' università, lavora a La Sapienza e scrive anche lei: "Tutto bene?". E Floris: "Sì, sono scivolato solo sull' animatore". "Non stavamo insieme, puoi rispondere")".

A "DiMartedì" il pubblico applaude sempre, anche tesi opposte.

"A Ballarò le gradinate erano composte da persone che chiedevano di partecipare, e ai tempi di Berlusconi erano quasi tutti "anti", così per pareggiare cercavamo gruppi di centro destra (ride). Una sera, Castelli ospite, c' era una signora dietro di lui che esagerava tra applausi e smorfie: durante la pubblicità mi avvicino all' allora ministro e con garbo gli esprimo un' esigenza: "Per favore, questa la tranquillizzi". E lui: "È mia moglie" Andiamo a DiMartedì. La gente non segue più tanto la politica e i talk si sono moltiplicati: i volontari saranno una cinquantina, poi riempiamo e il problema è che non hanno una posizione e si aggregano a ogni applauso, di qui l' inflazione. (ci pensa) È una questione che dobbiamo affrontare".

Quanto dorme?

"Se posso molto, e ovunque: quando ho cambiato redazione, la prima richiesta, è stata quella di un divano: sono in grado di appisolarmi anche per dodici minuti. (Ha davanti dei fogli bianchi, rigirati)".

Cosa sono?

"Appunti. Mi ero preparato".

Vediamoli.

"No, (sorride). Sopra c' è la storia con Bush".

Cioè?

"Ero a cena al Watergate di Washington , vedo entrare Bush con Condoleeza Rice, esco per beccarlo, i camerieri si mettono in fila, erano tutti messicani, io concludo la sfilata. Attenzione: sono piccolo e scuro. E Bush arriva a me: "Voi camerieri messicani siete l' orgoglio della nazione", o qualcosa del genere, con annessa stretta di mano".

E poi?

"Ho intervistato la Rice".

Va spesso allo stadio.

"La Roma è una passione nonostante gli errori di Pallotta".

Allora è passione forte.

"Quando mi sono sposato i tavoli avevano i nomi dei calciatori giallorossi".

Sua moglie contenta.

"Anche lei è romanista, il nostro tavolo si chiamava "Totti", per i laziali c' era "Paolo Negro" (con un suo autogol la Roma ha vinto un derby)".

Totti lo conosce?

"No, però una volta gli ho chiesto un selfie e quando si è dimesso dalla Roma sono andato, di nascosto, alla conferenza stampa. Per fortuna non mi hanno riconosciuto".

(E sul pallone non ci sono virgole, precisazioni, sfumature perché, come canta Antonello Venditti in "Grazie Roma": "Dimmi cos' è che ci fa sentire amici, anche se non ci conosciamo")

Rai, Marrazzo sospeso da sede di Gerusalemme per presunte irregolarità. Pubblicato giovedì, 25 luglio 2019 da Corriere.it. Nuovi problemi per il giornalista ed ex presidente della regione Lazio, Piero Marrazzo. Rai ha, infatti, deciso di sospenderlo dalla sede di Gerusalemme per presunte irregolarità - secondo quanto si apprende - nella gestione dell’ufficio di corrispondenza. Sarebbe stato inoltre licenziato il producer della stessa sede. Dopo una lunga carriera in Rai, come conduttore e inviato del Tg2 e conduttore di diversi programmi (dall’ottobre del 1998 al 2004 con Mi manda Raitre), aveva interrotto la sua attività giornalista a seguito della candidatura e della successiva elezione alla carica di presidente della Regione Lazio. Dopo essere stato coinvolto nel 2009 nello scandalo dell’incontro con una transessuale, ha presentato le sue dimissioni dalla carica di governatore. Il 19 aprile 2010 la Corte di Cassazione ha dichiarato Marrazzo vittima di un complotto, escludendo ogni addebito nei suoi confronti. Nel 2012 torna in onda in Rai e nel 2015 diventa corrispondente da Gerusalemme.

Giovanna Casadio per “la Repubblica” il 26 luglio 2019. «Sono un dipendente, sto aspettando che parli l'azienda, perché spetta all'azienda chiarire». Piero Marrazzo è cauto. Sulla testa del giornalista, ex governatore del Lazio - incarico da cui fu costretto a dimettersi per uno scandalo di sesso e ricatti - è arrivata un'altra tegola: la rimozione dall' ufficio di corrispondenza della Rai a Gerusalemme per presunto omesso controllo delle spese. In pratica una gestione allegra dell' ufficio di corrispondenza, per cui è stato individuato un colpevole nel produttore esecutivo italo-israeliano della sede di Gerusalemme, che è a tutti gli effetti il responsabile amministrativo. Ma l' indagine interna aperta dalla Rai deve stabilire se nei costi gonfiati e nelle spese non giustificate ci sia stato un concorso oppure no, se cioè Marrazzo è stato a sua volta vittima o ha distratto anche lui soldi. Per ora l' azienda ha licenziato in tronco il producer e ha congelato la situazione di Marrazzo che non è più il corrispondente della Rai da Gerusalemme, dove si trovava dal 2015, ed è stato sospeso dallo stipendio. La vicenda è stata resa nota ora, ma la sospensione risale all' inizio del mese di luglio. Marrazzo e la sede Rai israeliana, importante finestra d' informazione su tutto il Medioriente, sono sotto osservazione da mesi. Tra marzo e aprile infatti arriva ai piani alti della Rai una lettera anonima. C' è scritto: provate a verificare cosa sta succedendo a Gerusalemme, mancano i soldi in cassaforte: sono spariti circa 15 mila euro. Scatta quindi un' inchiesta interna. Anzi una istruttoria che è in capo all'Internal Audit, guidato da Delia Gandini e che risponde direttamente nella sua funzione al presidente Rai, Marcello Foa. A una verifica a Gerusalemme in cassa tuttavia non mancavano soldi: se mai erano davvero scomparsi, i 15 mila euro erano stati rimessi al loro posto. Ma è cominciata un' analisi delle spese e relative pezze d' appoggio: scontrini, viaggi, costi di lavoro. Il risultato è stato un giudizio assai duro: la gestione è stata quantomeno opaca. La Rai ha deciso di vederci chiaro e di andare fino in fondo. E del resto già informata dei fatti, è la magistratura. Passa quasi per intero la giornata di ieri, prima che uno stringatissimo comunicato aziendale semplicemente ricostruisce: «La Rai, in seguito a una verifica, ha risolto il contratto del senior producer di Gerusalemme per responsabilità dirette relative ad irregolarità nella gestione amministrativa. In tale ambito nella sua qualità di caposede, il corrispondente capo, Piero Marrazzo è stato momentaneamente sospeso dalle sue funzioni in attesa degli esisti del procedimento disciplinare attualmente in corso». Al suo posto come corrispondente andrà Raffaele Genah. Per Marrazzo, 61 anni, un' altra bufera, dopo essere uscito da una vicenda che nel 2009 aveva scosso la Regione Lazio e la politica italiana. Era stato infatti candidato a governatore nel novembre del 2004 dal centrosinistra, forte anche della popolarità televisiva in particolare con "Mi manda Raitre". Quindi a uno dei volti tv più noti, il centrosinistra aveva affidato la sfida contro Francesco Storace. Marrazzo vince nell' aprile del 2005. Quattro anni dopo, scoppia l' affaire di trans e cocaina in cui viene coinvolto e ricattato. Quattro carabinieri filmano un suo incontro con un transessuale. Deve aspettare il 2010 perché i giudici in modo definitivo dichiarino Marrazzo vittima di un complotto organizzato dai carabinieri infedeli. Il giornalista viene scagionato da ogni accusa, inclusa la cessione di droga che era presente nel filmato del ricatto ma ritenuta di uso personale. Torna Rai e riprende a lavorare conducendo un programma su Rai2 fino alla nomina di corrispondente da Gerusalemme. La Lega presenta un' interrogazione in commissione di Vigilanza sul caso.

Rai, Marrazzo sospeso dalla sede di corrispondenza di Gerusalemme. Dopo un'indagine durata alcuni mesi per presunte irregolarità sulla gestione della sede Rai di Gerusalemme, il responsabile Piero Marrazzo è stato sospeso. Raffaello Binelli, Giovedì 25/07/2019 su Il Giornale. Nuovi guai per il giornalista Piero Marrazzo, ex governatore della Regione Lazio. La Rai lo ha rimosso dall'incarico di corrispondente da Gerusalemme. A quanto si apprende la decisione di sospenderlo dall'incarico è scattata dopo una verifica dell'organismo di controllo interno, da cui sarebbe emersa una gestione "opaca" in fatto di amministrazione della sede di corrispondenza. Il principale responsabile delle irregolarità sarebbe un produttore esecutivo, un italo-israeliano, nel frattempo già allontanato dalla Rai. La decisione è dei primi di luglio ma solo ora è filtrata. Nominato un responsabile ad interim della sede, si tratta di Raffaele Genah. A far partire l'indagine è stata una lettera anonima arrivata alla sede centrale della Rai, tra marzo ed aprile, presa in carico dall’Internal Audit guidato da Delia Gandini, che risponde direttamente al presidente Rai, Marcello Foa. E' stata condotta un’istruttoria che ha portato ai due provvedimenti, uno dei quali appunto di sospensione di Marrazzo.

La Rai e poi la politica. Figlio del giornalista Giuseppe Marrazzo, dopo la laurea in giurisprudenza entra in Rai lavorando, come conduttore, al Tg2, e poi come responsabile della sede Rai della Toscana. Chiamato da Minoli, passa alla Cronaca in diretta e ad altri programmi di approfondimento. Dal 1998 al 2004 conduce "Mi Manda Raitre", divenendo uno dei volti noti più conosciuti della tv di Stato. Nel novembre 2004 decide di candidarsi per il centrosinistra alla guida della Regione Lazio, vincendo le elezioni nell'aprile 2005. Il 23 ottobre 2009 scoppia lo scandalo che lo riguarda: viene ricattato da quattro carabinieri che lo filmano durante un incontro con un transessuale, con uso di droga. Dopo pochi giorni, travolto dal clamore, si dimette. Nel 2010 la Cassazione dichiara Marrazzo vittima di un complotto organizzato da "carabinieri infedeli". Marrazzo viene scagionato da ogni accusa, compresa quella relativa alla cessione di droga, ritenuta di uso personale. Marrazzo torna a lavorare in Rai: il suo primo documentario, dall'Armenia, va in onda a gennaio 2012. nel novembre 2013 torna a condurre un programma ("Razza umana", su Rai2), mentre nell'estate 2015 diventa corrispondente da Gerusalemme per la Rai.

Gad Lerner per “il Venerdì di Repubblica” il 6 luglio 2019. Laura Boldrini NON piace alla gente che piace. L'aver trascorso un quarto di secolo all' interno delle strutture istituzionali delle Nazioni Unite, viaggiando in lungo e in largo per il mondo, non fa curriculum nei palazzi romani dove anzi è considerata tuttora una parvenue, neofita, dilettante della politica. Aggiungeteci la voce un po' stridula, il tono assertivo, una certa qual goffaggine se si mette a ballare con le femministe in corteo, la pignoleria con cui bacchetta chiunque deragli da un linguaggio politicamente corretto Il risultato, ormai, lo conoscete tutti. Poco considerata nei gruppi dirigenti disuniti della sinistra, perlopiù snobbata dal giornalismo d' opinione progressista, in compenso Laura Boldrini detiene il poco invidiabile primato di bersaglio numero uno del qualunquismo destrorso e misogino. La più grave delle colpe che le vengono addebitate, naturalmente, è la difesa dei diritti dei migranti. Ciò che le è valso migliaia di volte l' augurio -via social- che i medesimi immigrati, ribattezzati per l' occasione ironicamente "le risorse della Boldrini", provvedano a stuprarla. Del resto, la fantasia sulla ex presidente della Camera -divenuta tale in giovane età e senza aver fatto la gavetta in un partito, quindi doppiamente odiosa- riducibile a oggetto di violenza sessuale, fu rilanciata per primo da Beppe Grillo cinque anni fa, tramite la celebre domanda sul blog: «Cosa succederebbe se ti trovassi la Boldrini in macchina?». Non si contano più, a seguire, i fantocci della Boldrini bruciati o insanguinati, la bambola gonfiabile della Boldrini esibita da Salvini, la valanga di minacce e ironie che lo squadrismo mediatico somministra oggidì al posto dell' olio di ricino. Ora di seguito vi propongo un sommario, lacunoso promemoria: la candidata sindaca di Colonia, in Germania, accoltellata da un estremista di destra nel 2015 perché troppo accogliente con i migranti; la deputata laburista Jo Cox, oppositrice della Brexit, assassinata con tre colpi di pistola alla vigilia del referendum nel 2016 da un neonazista inglese; il sindaco di Danzica, Pawel Adamowicz, ucciso con una pugnalata al petto nel gennaio di quest' anno dopo una prolungata campagna ostile per le sue posizioni pro-Lgbt e pro-migranti; e un mese fa l' omicidio con un colpo di pistola alla testa del democristiano tedesco pro-migranti Walter Luebke, presidente della provincia di Kassel. Sono arciconvinto che Laura Boldrini goda nella realtà di un consenso popolare sottostimato dall' establishment della maldicenza. Guai, però, ad assecondarne l' isolamento. P.S. Come si sarà capito, ammiro la Boldrini e le voglio bene. Anche se, per sua fortuna, che io le abbia fatto da consulente per l' immagine è solo l' ennesima accusa falsa inflitta a suo carico.

Fausto Carioti per “Libero Quotidiano” il 6 luglio 2019. Il dio dei barconi li fa e poi li accoppia. Chi ieri non ha letto il Venerdì di Repubblica si è perso qualcosa: la struggente dichiarazione di Gad Lerner per la sua Laura Boldrini. Non per la corrispondenza di amorosi sensi, scontatissima tra i due, ma per l' altezza dell' elegia. Tutti noialtri pennivendoli siamo capaci di fare marchette agli amici, però solo i maestri raggiungono simili vette. C' è da prendere appunti e imparare. Il primo strumento, ci insegna il Vate, è la franchezza. Il sentimento si ostenta, non si nasconde. A partire dal titolo, «Boldrini ti voglio bene», per finire col post scriptum finale: «Ammiro la Boldrini e le voglio bene. Anche se, per sua fortuna, che io le abbia fatto da consulente per l' immagine è solo l' ennesima accusa falsa inflitta a suo carico». Insomma, Lerner vuole dirci che non è stato pagato, né ora né mai, per svolgere certi lavori. Messaggio ricevuto: è tutto gratis, nel senso che al bonifico provvede Repubblica. Ma lo strumento più potente è l' altro, la finzione. È la prima regola di ogni narrazione epica: per fare risultare eroico un personaggio devi dipingerlo come un nuotatore controcorrente, un lottatore ostinato che ha il fegato di dire ciò che nessun altro dice, pagandone le conseguenze sulla propria pelle. Nessuno s' innamora di chi ripete il solito birignao, per di più costruendoci sopra una ricca carriera. Ovviamente sono proprio i riciclatori di luoghi comuni quelli che più smaniano per apparire come spericolati bastian contrari. È un meccanismo che Federico Rampini, altra firma di Repubblica, mette bene a nudo nel capitolo del suo libro dedicato alle star della cultura e dello spettacolo: «Oggi, quando una celebrity decide di prendere una posizione "scomoda, coraggiosa, provocatoria", dice qualcosa su cui il 99 per cento dei suoi fan è già d' accordo, a priori». Vale anche per i politici: il grillino Alessandro Di Battista, noto spacciatore di banalità terzomondiste, ha titolato il suo libro Politicamente scorretto. Ed è proprio qui, quando si tratta di maneggiare l' arte dell' invenzione, che Lerner dà una pista a tutti. Il giornalista innamorato lascia il posto al consulente che, a sua insaputa, vive dentro di lui. Lo spin doctor d' alto bordo, quello capace di imbellettare un politico-merluzzo facendolo apparire come un guizzante salmone selvaggio. Bisogna leggerlo, per capire: «Laura Boldrini non piace alla gente che piace. L' aver trascorso un quarto di secolo all' interno delle strutture istituzionali delle Nazioni Unite, viaggiando in lungo e in largo per il mondo, non fa curriculum nei palazzi romani. () Poco considerata nei gruppi dirigenti disuniti della sinistra, perlopiù snobbata dal giornalismo d' opinione progressista...». E via così, con la giaculatoria della santa laica tanto audace da risultare scomoda ai compagni e odiata dal fascismo risorgente. La coscienza ingombrante della sinistra, una Pasolini dei nostri tempi, con la differenza che quello stava con i celerini e lei sta con i centri sociali. Ecco, occorrono qualità non comuni per mettere la firma su certe frasi. Per scrivere che quanto fatto dalla Boldrini per difendere l' immigrazione dentro l' Onu e l' Alto commissariato per i rifugiati non è stato apprezzato negli infidi palazzi della politica romana, quando solo per quei trascorsi la sinistra, sulla fiducia, le ha regalato la presidenza della Camera appena entrata in Parlamento. Per sostenere che la carta stampata progressista la snobba, quando negli ultimi dodici mesi risultano essere state fatte alla ex terza carica dello Stato venticinque interviste riguardo ogni argomento possibile, dal caso Regeni a Mimmo Lucano, da parte di testate come Corriere della Sera, Repubblica, Fatto, Manifesto e persino Avvenire. Per il resto è il solito Lerner, convinto che ogni cattiveria sia commessa da chi vota per Salvini e Marine Le Pen. Per suscitare empatia nel lettore ricorda la candidata sindaca di Colonia, accoltellata perché troppo accogliente con i migranti, e le altre vittime simili alla Boldrini. Per completezza d' informazione avrebbe dovuto aggiungere l' olandese Pim Fortuyn, ucciso da un ecologista di sinistra, il regista Theo van Gogh, ammazzato da un fanatico islamico, e magari anche la povera italiana Desirée Mariottini, trucidata nel più barbaro dei modi da quelle che la Boldrini chiama «risorse», e gli altri martiri di un' immigrazione senza controllo. Ma l' elenco si sarebbe allungato troppo e l' agiografia, forse, non sarebbe venuta altrettanto bene.

Berlusconi punge Berlinguer "La tv non si fa così..."Berlusconi al termine dell'intervista a "CartaBianca" bacchetta la conduttrice: "Mi ha interrotto spesso". Angelo Scarano, Mercoledì 15/05/2019, su Il Giornale. Silvio Berlusconi "bacchetta" Bianca Berlinguer. Il Cavaliere, ospite a CartaBianca su Rai Tre, di fatto punge la conduttrice al termine dell'intervista sui temi caldi della campagna elettorale in vista del voto delle Europee. Subito dopo la chiusura dell'intervista, il leader di Forza Italia si rivolge verso la conduttrice e afferma: "Lei mi ha interrotto troppe volte. La tv non si fa così". Nel corso dell'intervista infatti la Berlinguer ha più volte interrotto il l'ex premier mentre esponeva le sue idee e il suo programma in vista del voto. La Berlinguer dopo aver incassato il colpo replica: "Me l'aspettavo, ma abbiamo tempi davvero strettissimi". Un siparietto questo che di fatto non è rimasto inosservato. I telespettatori infatti l'hanno segnalato sui social. Il piccolo battibecco tv si è chiuso rapidamente e la Berlinguer ha chiuso l'intervista col Cav con un sorriso.

Anna Montesano per il Sussidiario.net il 5 settembre 2019. La nuova ospite di Pierluigi Diaco nella sua trasmissione Io e Te, in onda su Rai1, è la giornalista e conduttrice di Cartabianca Bianca Berlinguer. Con lei si inizia parlando proprio di lavoro e del mestiere della giornalista televisiva: “Non scrivo mai niente a tavolino. Chiaramente mi preparo per le trasmissioni, mi documento, però poi bisogna anche lasciare tutta una parte di quello che succede alla diretta, a quello che può accadere in quel momento. Anche perché se uno si costruisce una parte, il pubblico se ne accorge.” Parlando proprio di interviste, si riporta alla mente quella saltata con Barbara d’Urso. In merito, la Berlinguer svela: “La d’Urso da me? Io spero di si. Mi piace l’idea di averla ospite nella nostra trasmissione e spero che questa intervista presto si possa fare.”

Bianca Berlinguer: “Mia madre? Determinante nella mia vita”. Si parla poi di famiglia e Bianca Berlinguer, oltre al noto papà, parla del rapporto con sua madre: “La presenza di mia madre è stata fondamentale nella mia formazione perché è stata sì una donna che ha rinunciato alla carriera per crescere 4 figli – ammette la conduttrice di Cartabianca, che aggiunge – ma ci ha insegnato che bisogna lavorare per la propria indipendenza. Lei e papà sono stati uniti tutta la vita con dei valori comuni che hanno permesso loro di trascorrere tanti anni difficili insieme.” 

Poi parla del suo compagno: “Non siamo sposati, sono 22 anni che stiamo insieme e abbiamo una figlia di 20 anni, Giulia. Lei? Non le importa nulla del fatto che io e suo padre siamo personaggi pubblici.”

Da Blastingnews.com il 5 settembre 2019. (…) "Corona ci sarà come ospite?" ha chiesto Diaco alla Berlinguer verso la fine della lunga intervista. "Sì, ci sarà" ha risposto la conduttrice e giornalista, confermando la presenza dello scrittore e alpinista noto per le sue stravaganze.

Mentana contro Salvini: "Critichi i tg? Non ci fai paura". Salvini al comizio: "I tg dicono solo fesserie". E Mentana replica in diretta: "Le critiche del vicepremier ci fanno un baffo, non cambiamo modo di lavorare". Chiara Sarra, Martedì 14/05/2019, su Il Giornale. "Non ci fai paura". Enrico Mentana ha aperto il TgLa7 di ieri sera con un messaggio a Matteo Salvini, secondo cui "i telegiornali, Tg1, Tg5 o La7" parlano "solo di fesserie di cui non importa nulla a nessuno". "Salvini tanto per cambiare ha scelto un nuovo obiettivo, i telegiornali", ha detto il direttore del tg, "È segno che in questo momento lui, o chi gli indica gli obiettivi comunicativi, ritenga faccia gioco prendersela con i telegiornali. Con tutto il rispetto, a noi ci baffo una critica come questa". Poi ha tirato fuori il concorso "Vinci Salvini" finito nella bufera nei giorni scorsi e le "famose centinaia di migliaia di rimpatri promessi un anno fa in campagna elettorale, e che non ci sono stati affatto". "Ma sicuramente il ministro ne avrà parlato nel suo comizio", ha ironizzato Mentana, "Col sorriso sulle labbra però ricordiamo a Salvini che abbiamo criticato anche chi ha governato prima di lui, con più titolo e per più lungo tempo, prima per queste scelte inconsulte e di offesa all'informazione. Certo, queste cose non fanno paura e non modificano il nostro modo di lavorare che sarà comunque sempre sine ira et studio - anche Salvini ha fatto il classico con noi - nei suoi confronti".

Lucia Annunziata sotto accusa. Troppa faziosità nella sua trasmissione domenicale. Francesco Storace, mercoledì 15 maggio 2019 su Il Secolo d'Italia. Speriamo che sia gratis. Il pluralismo in Rai adesso è stato affidato – ma non lo sapeva nessuno – ad “un gruppo di lavoro aziendale”. Lo hanno fatto sapere il presidente Foa e l’amministratore delegato Salini alla commissione di vigilanza sul servizio pubblico. Ed è al “lavoro” dal 25 marzo scorso per “monitorare la programmazione e le trasmissioni radiotelevisive alfine di verificare la concreta e uniforme osservanza della normativa in materia elettorale”. Di grazia, ci fate sapere quanti minuti al giorno lavorano questi signori? Se hanno mai dato uno sguardo alle delizie domenicali di Lucia Annunziata? Se casualmente si sono imbattuti proprio domenica scorsa nel processo della compagna conduttrice a Giorgia Meloni che ha respinto ogni insinuazione solo perché è brava? Il “monitoraggio” prevede anche che cosa succede se chi ha un programma in mano esprime opinioni personali per contrastare faziosamente le posizioni di chi ospita?

Nessuno controlla il controllore. Lo show personale dell’Annunziata è arrivato ieri in commissione di vigilanza, grazie al lavoro dell’on. Federico Mollicone, che però non intende fermarsi lì. Ma anche lo stesso vertice della nomenclatura di viale Mazzini è chiamato a rispondere. Perché le firme in calce al documento inviato alla vigilanza Rai, non sono di due passanti: Foa e Salini parlano di un oggetto misterioso quale il “gruppo di lavoro” e bisogna sapere che cosa fa, chi lo compone, quali sono stati i risultati e le osservazioni. Altrimenti sono le solite chiacchiere per giustificare la permanenza del canone.

Il processo alla Meloni. La notizia è che è stato istituito un organismo di controllo. Ma non si sa se controlla alcunché. Perché nessuno controlla il controllore. Sembra un gioco di parole ma è l’essenza della democrazia. Altrimenti diventa anarchia dove ognuno fa quello che gli pare. Ma non con i soldi dei cittadini. “Ho denunciato in ufficio di presidenza della commissione di Vigilanza Rai la violazione della par condicio da parte di Lucia Annunziata durante l’ospitata di Giorgia Meloni. Presenterò un quesito scritto a cui la Rai dovrà rispondere e non solo: per noi è stata una conduzione indecente e faziosa, in palese contrasto con la neutralità che i conduttori dovrebbero mantenere in periodo elettorale”. Alle parole di Mollicone dovrà seguire la precisa risposta dell’azienda. Che non potrà certo riguardare una sola puntata, anche se già sufficiente a mostrare il livello di faziosità della conduttrice. Ma basterà esaminare già l’ultimo trimestre di “Mezz’ora in più” per verificare direttamente la sfacciata partigianeria di una trasmissione ad uso e consumo della sinistra. E dalla Rai del cambiamento ci si aspetta ben altro che una noiosa continuità con quella del passato. Di solito dovrebbe funzionare così. La vigilanza Rai detta le regole e il servizio pubblico si adegua. Se non accade scattano richiami, diffide, sanzioni. Ed è sotto gli occhi di tutti lo sconcertante andamento dei programmi di informazione. Anzi, disinformazione a spese del cittadino contribuente. Basta.

Meloni zittisce Lucia Annunziata: “Basta domande sul fascismo. Chiedi a Zingaretti del comunismo”. Carlo Marini domenica 12 maggio su Il Secolo d'Italia. Giorgia Meloni, ospite della trasmissione di Lucia Annunziata, ha risposto per le rime alla conduttrice di Raitre, che ha posto alla leader di Fratelli d’Italia le solite domande su Mussolini e sul fascismo. «Il fascismo non sta ritornando– ha tagliato corto la leader di Fratelli d’Italia –  Il fascismo scatta quando scatta la par condicio. Appena finirà la campagna elettorale, il problema non ci sarà più. Trovo abbastanza ridicolo e triste che ogni volta che vengo intervistata dal servizio pubblico mi si chiede della storia e non dei programmi del mio partito. Chieda a Zingaretti del comunismo e dei morti che ha fatto, deve valere per tutti…». “In mezz’ora in più” su Rai 3 la presidente di FdI a un certo punto ha perso la pazienza: «Mi faccia almeno finire, non si può fare un’intervista così, non mi fa parlare…». La conduttrice ha replicato: «Lei sta parlando, l’abbiamo invitata a posta…»  Ad accendere il faccia a faccia i temi caldi dell’immigrazione clandestina, le periferie, la sicurezza. ‘«Se si ferma un attimo e mi fa dire le cose, questa cosa che devo parlare sopra non funziona, non va bene’», rimarca Annunziata.

Meloni intervistata su CasaPound anziché sul programma elettorale. Il dibattito si surriscalda quando si parla di fascismo, del ruolo della destra in Europa e dei rapporti con CasaPound. Meloni non ci sta: «Mi chiede di CasaPound, io sono un’altra cosa… Ci sta tanta gente non ideologizzata, non potete far finta di nulla. Lei ha fatto 40 puntate senza mai parlare di fascismo, ora che c’è la campagna elettorale ne riparliamo e mi fa la domanda senza chiedermi nulla sul mio programma elettorale…»’. Nel corso della trasmissione Mezz’ora, la leader di FdI  è riuscita a ritagliarsi qualche spazio per qualche ragionamento politico che esulasse dalla solita querelle sull’antifascismo. «Io ambisco a costruire un’alternativa – ha detto la Meloni a proposito del governo gialloverde – Non ho mai detto “Salvini stacchi la spina” ma il mio ruolo è che gli italiani abbiano un governo che non litighi su tutto. Penso siano fondamentali le elezioni del 26 maggio. Non devo convincere io Salvini, ma gli italiani…».

Simona Voglino Levy per Rollingstone.it l'8 luglio 2019. Lilli Gruber – all’anagrafe Dietlinde Gruber – è uno dei volti femminili più inconfondibili che l’informazione televisiva abbia portato nelle nostre case. Appassionata, severa, determinata: con il suo Otto e mezzo, la trasmissione dell’access prime time di LA7 in onda subito dopo il tg di Enrico Mentana, la conduttrice altoatesina è riuscita a regalare all’emittente ascolti invidiabili (ha superato l’8% di share, circa 3 punti sopra la media del prime time). E a imporsi spesso nel dibattito politico. Ora che ha il tempo per riposarsi un po’, le abbiamo chiesto di raccontarci cosa ha visto (e pensato) durante questa sua lunga stagione televisiva. 

Otto e mezzo va alla grande e ha tra il suo pubblico anche tante donne, solitamente meno interessate alla politica. Il tuo segreto?

«Cerchiamo di stare sulla notizia, prepariamo le domande che il pubblico si aspetta e sollecitiamo risposte esaurienti. Invitiamo i politici solo quando hanno qualcosa da dire, diamo voce a tutte le opinioni, evitiamo risse e linguaggio triviale, badiamo alla forma che secondo me è sostanza. Questi sono gli intenti, non è detto che sempre ci si riesca».

A sfidarti ogni sera Barbara Palombelli e Francesca Romana Elisei: quale hai temuto di più?

«Mi hanno stimolato entrambe a far meglio. Per fortuna alla concorrenza siamo abituati da sempre».

La tua scelta è di avere opinionisti fissi. Come li scegli?

«Gli opinionisti rappresentano punti di vista diversi, ma hanno in comune la capacità di proporre un pensiero originale e non banale. Trovo che siano adatti a un programma di approfondimento».

E non hai paura che il pubblico si stufi di vedere sempre le stesse facce?

«I dati sugli ascolti ci dicono che il pubblico non si stufa. Al contrario, si affeziona».

Gli ospiti vengono selezionati dalla sua redazione, ma talvolta, si sa, arrivano richieste “speciali”. Quali è giusto accettare e quali no?

«Sono benvenute le richieste che corrispondono alle nostre esigenze di approfondimento e di contraddittorio. Ma devo dire che non sono molto frequenti».

Hai ospitato spesso esponenti del Movimento 5 Stelle, di recente hai stigmatizzato una sorta di “rivendicazione” dell’impreparazione da parte di Alessandro Di Battista. È difficile sostenere un confronto con un interlocutore poco preparato?

«Non mi permetto di dare giudizi sulla preparazione dei miei ospiti, quella la giudica il pubblico. Devo dire che i 5 Stelle da noi vengono poco per loro scelta. Seguitano ad avere con la tv un rapporto strumentale, che sa molto di vecchia politica».

I 5 Stelle sono la classe dirigente più impreparata che hai incontrato nella tua carriera?

«Hanno l’energia della giovinezza ma certo non li sostiene l’esperienza. Si faranno».

Ti sei ritrovata a fare domande “private” a leader politici, da Salvini a Di Maio. Il gossip condiziona la politica e nessuno può farne a meno?

«Il privato dei politici ha un interesse pubblico, soprattutto quando sono loro stessi a sbandierare i fatti più intimi attraverso i social». Inoltre in tutte le democrazie, a cominciare da quella americana, se uno mente sul suo privato che razza di politico potrà mai essere? 

Hai lasciato il parlamento europeo per tornare al giornalismo. L’informazione è più efficace della politica per cambiare il mondo?

«Informazione e politica sono due pilastri delle nostre democrazie. Essendomi brevemente accostata alla politica, ho capito che non era la dimensione adatta a me».

Perché?

«Probabilmente per limiti miei. E comunque ho rinunciato al vitalizio...»

Ormai si parla di Europa solo per i conti pubblici. Ma è davvero solo questo l’Europa o può essere qualcosa di più importante per la nostra vita?

«L’Europa va “aggiustata”, ma non distrutta. Per mille motivi, non ultimo perché garantisce pace e democrazia, due cose che troppo spesso noi smemorati diamo per scontate. L‘ultimo sondaggio ci dice che 8 giovani italiani su 10 si sentono cittadini europei. E questo mi rassicura».

Sei un membro del vituperato Bilderberg: ci spieghi una volta per tutte che cos’è?

«Un punto di vista sul mondo che vale la pena conoscere, avendone la possibilità. Il punto di vista di una rappresentanza significativa delle cosiddette élite.  A me questa possibilità è stata offerta e io l’ho colta con un interesse che è prima di tutto professionale. Al Bilderberg ci si scambiano opinioni e biglietti da visita. Di vituperevole non c’è proprio nulla».

Conosci bene le dinamiche interne alla Rai: ti spaventa la direzione imboccata?

«Non è cambiato nulla. Quelli che prima si scandalizzavano per la lottizzazione, adesso lottizzano con la stessa ingordigia degli altri. D’altra parte oggi la novità è che si rivendica il primato della politica – cioè la sua ingerenza – un po’ in tutti i luoghi che eravamo abituati a considerare neutrali, dalla Banca d’Italia al Csm. Perché dovrebbe salvarsi la Rai?»

Cosa pensi di questo Tg2?

«Va in onda quando vado in onda anch’io. Dunque non lo vedo. Non penso nulla».

Ma in Rai ci torneresti?

«Sto benissimo dove sono. Con il mio editore, la mia squadra, il mio pubblico».

Cosa resta della sinistra italiana?

«L’idea che sia necessaria. Sembra poco, ma è moltissimo. Se scompare anche questo bisogno, allora la sinistra è morta davvero».

Zingaretti può già essere considerato una delusione per le tante ambiguità nelle quali continua a inciampare?

«Presto per dare giudizi. Ho l’impressione che stia pagando un prezzo alto, in termini di chiarezza e determinazione, pur di tenere unito il suo partito».

E se dico “Bella ciao”, cosa rispondi?

«Che nell’ultimo album di Madonna c’è un omaggio a questo inno dei partigiani, che i giovani cantano ancora. Buon segno».

Che musica ascolta Lilli Gruber?

«Venendo da tradizioni austro-ungariche, tutti nella mia famiglia suonano uno strumento. Io ho studiato pianoforte, mio fratello è architetto e musicista jazz e mio padre aveva un grande talento musicale. Ascolto da Mozart a Miles Davis, da Tina Turner a Patricia Kaas, da Umm Kulthum a Paolo Conte. Sono cresciuta con la musica classica e i Beatles, i Rolling Stones, Janis Joplin, Lucio Battisti… potrei continuare»

Un’ultima curiosità: dopo il tuo scontro con Matteo Salvini, gliel’ha mandata la piantagione di rose e margherite?

«Non ho ricevuto né fiori, né rosari, né bacioni. Tagliata fuori».

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” l'1 luglio 2019. Troppo bello Otto e mezzo dello scorso sabato sera, condotto da Lilli Gruber, una talmente di sinistra da non usare più la destra neanche per impugnare la forchetta. Erano presenti in studio Eugenio Scalfari, campione mondiale dei progressisti, e Paolo Mieli, mio caro amico, uomo intelligente e giornalista di alta qualità, però succube evidente del carisma opaco del fondatore de la Repubblica, cosicché nella circostanza ha svolto il ruolo per lui inconsueto di gregario. Ho seguito il programma dal primo all' ultimo minuto vincendo la noia dei colloqui tra gli ospiti e la conduttrice. Il tema della serata era di tipo gaberiano: cosa è la sinistra, cosa è la destra? La sinistra è pulita, Veltroni è il padre del Pd, Zingaretti è bravo anche se non è in grado di sfondare; mentre la destra non solo è una porcheria, ma pure una minaccia per la democrazia, dato che Salvini è una specie di dittatore in pectore, dotato di tutte le caratteristiche per prendere a speronate gli italiani idioti che lo votano. Scalfari e Mieli erano d'accordo su qualsiasi argomento, persino il più futile. Cioè su tutte le tematiche affrontate nel dibattito guidato dalla giornalista più sbieca d'Italia. Alla quale piace invitare i soloni e i solisti, dalle firme più illustri del giornalismo patrio ai fighetti alla moda, tipo Andrea Scanzi e Beppe Severgnini, per non citare Marco Travaglio, che almeno sa parlare. La Gruber, lo si vede a occhio nudo, detesta il ministro dell' Interno, e questo è un suo diritto, benché un po' storto, tuttavia esagera nel manifestare tale sentimento dimostrando in modo nitido di non gradire il fatto che il leghista abbia più voti di qualsiasi suo avversario. Proprio non le va giù, come non va giù a Scalfari e neppure a Mieli, il dettaglio che costui sia in vetta ai consensi politici. Non si chiede e non chiede ai propri amici televisivi perché Matteo, burino quanto volete, è stato in grado di sedurre la maggioranza dell' elettorato. Cosa che a me, viceversa, appare chiara: mentre la sinistra punta sullo ius soli, che la gente non sa neppure cosa sia, non conoscendo il latino, Alberto Da Giussano si preoccupa dell' immigrazione invasiva, del peso fiscale, della legittima difesa, cioè di quanto sta a cuore al popolo, il quale sarà cretino ma alla fine si reca al seggio e appoggia chi gli dà retta, come un tempo dava retta a comunisti e affini. Tutte le chiacchiere della Gruber, di Scalfari e perfino del mio amico Mieli non servono a persuadere la base che Salvini vale meno di Zingaretti, mancato dentista, e dei pirlacchioni del Partito Democratico e dintorni, tutti specialisti nella marcia del gambero. Cara Lilli, scendi dal pero. Sei stata parlamentare europea della sinistra, non ti è bastato per capire?

Alessandro Giuli per “Libero quotidiano” l'1 luglio 2019. Chi conosce bene Lilli Gruber sostiene che nella stagione tv appena conclusa sia entrata in modalità mistress: inguainata in un' ideale tuta di latex, armata di gatto a nove code, ha atteso le sue vittime seduta al tavolo di Otto e mezzo per poi prenderle a frustarle senza tregua. Una vera dominatrice della tivù e della politica. Se il Partito democratico non fosse un bivacco di manipoli spompati affidato al fratello di Montalbano, e devoto ormai al culto delle Ong immigrazioniste capitanate dalle piratesse come Carola, non ci sarebbero dubbi: il vero leader della sinistra italiana è lei, Frau Gruber da Bolzano, un po' mantide un po' professoressa di ripetizioni, ferocemente sicura di sé, annoiata dal banal grande che scorge nelle parole di chiunque le si faccia incontro. Ultima sua vittima: Alessandro Di Battista, il duro dei Cinque stelle che due settimane fa ha trasformato in un pulcino bagnato e spiumato, a forza di scappellotti insofferenti e interruzioni lapidarie: «Mi scusi ma se siete come Alice nel Paese delle meraviglie non candidatevi a governare». E quando poi Dibba provava a gonfiare il petto, riecco subito Lilli a strozzargli il pigolio nel gozzo: «Studiate prima e poi forse andate al governo. Lei mi dice che avete dimezzato i vostri voti perché siete stati troppo ingenui rispetto alla Lega e a Matteo Salvini, mi faccia capire». Parole sin troppo delicate rispetto agli sguardi, agli scatti, ai sarcasmi grondanti da ogni suo sorriso borchiato. Non ce n'è per nessuno, soprattutto se di aria governativa. Naturalmente il meglio di sé Lilli lo dà con Matteo Salvini, tanto che le loro non infrequenti ma sempre cruente sedute televisive su La7 hanno declassato il rapporto tra l'adorabile Bianca Berlinguer e il suo monellaccio alcolico Mauro Corona (su Raitre a Cartabianca) a un'imitazione pudica del Tempo delle mele. Matteo soffre le provocazioni gruberiane ma essendo uomo di destra le concede quel sovrappiù di libertà dovuto a ogni donna. Così lui prende ceffoni e le promette in cambio mazzi di fiori. Mai appagata, lei ne approfitta con sadismo tardo femminista e alla prima occasione ricomincia: «A proposito di promesse il famoso mazzo di fiori con scuse che lei mi aveva promesso l'ultima volta non è mai arrivato». Matteo vagheggia: «Ma io la voglio omaggiare di persona» e Lilli gli cammina addosso: «Se tutte le sue promesse elettorali sono così farlocche come il mazzo di fiori per me, non sono messi tanto bene i suoi elettori». Può sembrare soltanto un topos erotico antisovranista messo in scena a beneficio delle telecamere, in realtà è la prosecuzione di una carriera politica con altri mezzi. E che mezzi. Gruber è una partigiana della prima ora di quella sinistra che in epoca berlusconiana riuscì a trasformare mezza Italia in un CLN circense votato all' eliminazione del Cavaliere dalla scena pubblica. Prima come mezzobusto totemico nel Tg1 della sera, poi come europarlamentare ulivista dal 2004 al 2008. Ha viaggiato per il mondo tra guerre e apericena, ha pubblicato un sacco di libri (per lo più romanzi a sfondo famigliare, perché l' ego non le fa difetto), ha scritto per i più importanti quotidiani nazionali, ha seppellito Romano Prodi e Massimo D' Alema, sbertucciato Matteo Renzi, urticato Berlusconi, vezzeggiato Gianfranco Fini (perché uccidesse Berlusconi), silenziato Marco Travaglio, irriso Carlo Calenda. Ha un marito francese, parla almeno quattro lingue, frequenta benissimo e siede sempre in prima fila alle rimpatriate del Bilderberg. Altro che competenza: Lilli è una polisportiva del giornalismo politico e del potere autentico. È indiscutibilmente autorevole, intelligentissima nel contornarsi di collaboratori che le consentono di non far rimpiangere per qualità e per ascolti la primigenia e profondissima impronta di Giuliano Ferrara, che di Otto e mezzo è stato il creatore. Che altro serve per comprendere che il futuro del Pd, così come il passato e il presente, dovrebbe appartenere a lei? Gli ingenui osano ancora criticarla per l'evidente abuso di botox. Poverini, non hanno capito che la sua materia prima è proprio il lattice. Perché Lilli non soltanto è una donna: è la donna che passeggia sugli uomini. Ed è appunto questa la pratica preferita dalla nomenclatura maschile della sinistra almeno dai tempi di Weimar. Forza Lilli, dunque. E altro che primarie: televoto e via a lavorare per le magnifiche fruste e progressive. Meglio di lei, quanto al rango di dominatrice, c' è soltanto la badessa Lucia Annunziata; ma la gauche italienne, si sa, al convento preferisce il cabaret.

Otto e mezzo, battibecco Gruber-Dibba: "È stato faticoso", "Ma lei è un combattente..." Il siparietto tra la giornalista e l'esponente del Movimento 5 Stelle negli ultimi secondi della puntata di Otto e mezzo. Fabio Franchini, Giovedì 20/06/2019, su Il Giornale. In cauda venenum, dicevano i latini. Il veleno è nella coda…di Otto e mezzo. Già, perché proprio negli ultimi secondi della puntata di ieri (mercoledì 19 giugno, ndr) del talk show, è arrivato un piccato battibecco tra la padrona di casa Lilli Gruber e il suo ospite di serata, Alessandro Di Battista (che proprio in trasmissione ha annunciato l'intenzione, in caso di voto anticipato, di ricandidarsi). Al suo fianco, anche il giornalista Alessandro De Angelis, vicedirettore dell'Huffington Post. Succede che la conduttrice, a tre anni esatti dall'elezione di Virginia Raggi a sindaco di Roma, chiede ai due "Alessandri" un parere sul triennio di amministrazione capitolina della giunta pentastellata. E se quello di De Angelis è un voto più che negativo ("meno dieci"), Dibba è di manica larga, anzi, larghissima: "Io non la sostegno solamente, ma lo faccio con ancora più forza…". Dunque, la giornalista tira le somme: "Va bene, tu meno dieci e lui più dieci. Grazie di essere stato con noi Alessandro Di Battista". E qui il diretto interessato replica, sospirando, un sornione "È stato faticoso…". Ma trova la risposta pronta della Gruber: "Eh, ma lei è un combattente…". 

«Se siete come “Alice nel paese delle meraviglie” non candidatevi a governare». Il Post mercoledì 19 giugno 2019. L'ha detto Lilli Gruber ad Alessandro Di Battista, che attribuiva le difficoltà dei politici del M5S al loro essere «brave persone» in una «vasca di squali». Alessandro Di Battista è stato ospite di Lilli Gruber nella puntata di oggi di “Otto e mezzo”, durante la quale ha parlato molto del suo nuovo libro e ha detto, tra le altre cose, che in caso di elezioni anticipate si candiderà «al 100 per cento», che se il governo dovesse cadere entro il 15 luglio proporrebbe di non tenere in considerazione questa legislatura con una deroga al limite delle due legislature stabilito dal Movimento 5 Stelle per ogni candidato, e che sosterrà «sempre» Virginia Raggi. Gruber, a un certo punto, l’ha incalzato sulle difficoltà che molti membri del Movimento 5 Stelle hanno dimostrato una volta ottenuti incarichi governativi, e Di Battista li ha difesi dicendo: Nella vasca di squali della politica italiana, siamo brave persone che si sono rinchiuse nei ministeri.

Gruber gli ha risposto: Se siete come “Alice nel paese delle meraviglie” non vi candidate a governare. Studiate, prima. E poi, forse, andate al governo.

Otto e mezzo, Lilli Gruber spara su Matteo Salvini. Carofiglio e Boldrini, valanga di fango in diretta. Libero Quotidiano 13 Maggio 2019. Una puntatina, quella di Otto e mezzo, cucita su misura per gli anti-salviniani. Lilli Gruber invita negli studi di La7 Gianrico Carofiglio e Laura Boldrini, che in coppia fungono da schiacciasassi sinistro in grado di maciullare, con l'appoggio della conduttrice, ogni resistenza su Lega e Movimento 5 Stelle. E l'altro ospite, il direttore del Giornale Alessandro Sallusti, viene preso in mezzo suo malgrado. 

Ovviamente, l'avversario di riferimento è Matteo Salvini. Carofiglio, scrittore e magistrato, tira fuori il badile: "L'innominabile non è fascista, è peggio". E la Gruber annuisce. E quando Sallusti dà dell'estremista alla Boldrini, l'ex presidenta della Camera ribalta la frittata ricordandogli come "l'unico estremista di destra amico di CasaPound è l'attuale ministro dell'Interno". E la Gruber? Annuisce nuovamente. Dev'essere un tic.

Lilli l’allusionista. Augusto bassi 7 giugno 2019 su Il Giornale. Leggendo Wikipedia, che è strumento in parte comprensibile anche a un leghista, sotto Censura si apprende: «Il controllo e la limitazione della comunicazione da parte di un’autorità. Nella maggior parte dei casi si intende che tale controllo sia applicato nell’ambito della comunicazione pubblica, per esempio quella per mezzo della stampa o altri mezzi di comunicazione di massa; ma si può anche riferire al controllo dell’espressione dei singoli». Nel battibecco fra Matteo Salvini e Lilli Gruber dell’altra sera abbiamo registrato una minaccia di censura da parte dell’autorità. Il gerarca leghista? No. La conduttrice democratica. «Fermo lì! Ministro, non mi costringa a toglierle l’audio». Ma per quale ragione una signora dal garbo abitualmente così longanime e pluralista avrebbe minacciato una censura? Perché quel miagolone, quel piagnolone di un sovranista segnalava come l’informazione continuasse da mesi a descriverlo come un fascista, un nazista, un troglodita. Includendo anche Otto e mezzo. Apriti studio! Teodolinda non sta più nel corpetto Bressanone-fetish e fra vibrazioni mercuriali – ma con eloquio perbenino di prammatica – rimbecca: «Voglio semplicemente ricordare, alle spettatrici e agli spettatori, che forse già lo sanno, che noi non abbiamo mai dato epiteti o aggiunto aggettivi di questo tipo alla sua persona». Oggi La7.it riafferma: «Lilli Gruber a Salvini: mai dato epiteti fascisti alla sua persona». Quel poco di pudore intellettuale che alberga in me imporrebbe all’ascella destra di fare una pernacchia. Tuttavia, preferisco essere più circostanziato. E’ vero: Lilli non accusa mai, mai ingiuria. Lilli allude. Allude per insinuare. E’ un’illusionista dell’insinuazione. L’allusione è la sua spada e il suo scudo. Così può menare perfidie, riparandosi dietro il pelte in vimini delle buone maniere. Una tattica di combattimento disonorevole, vile, se vogliamo, ma squisitamente gauche botulique. Eppure, usando le parole dello stesso ministro: «Non funziona Gruber: gli italiani ragionano. Lei è padrona di casa… qui può togliere l’audio, può fare quello che vuole. Fortunatamente non può togliere il diritto di voto agli italiani, tutto qua». Mesi di etichette sgradevoli, ha segnalato Salvini. «Mesi» perché pacioccone di buon cuore. In realtà – grazie a un altro strumento quasi alla portata di un leghista come YouTube – si può andare molto più indietro nel tempo. E’ il 4 marzo del 2015 quando Otto e mezzo domanda alle spettatrici e spettatori: «La Lega è fascista?». Puntata istruttiva già allora, almeno sulla perspicacia dei più acuminati analisti in circolazione. Un titolo che accusa? Certo che no. Che insulta? Neppure. Soltanto buon giornalismo che si pone legittimamente un interrogativo. Come se io mi domandassi: Otto e mezzo è una trasmissione faziosa? Lilli Gruber somigliava, con quella sfiziosa zazzerella e quei ritocchini smorfiosi, a un’ex olgettina ricca di attrattive mature? Sono dubbi legittimi e tuttora irrisolti. Ancor prima, nel febbraio dello stesso anno, il talk show de La7 titolava: «Salvini, marcia su Roma». Che vi fosse un’allusione alla più nota Marcia su Roma del 1922? Fascista a Salvini?!? «Voglio semplicemente ricordare, alle spettatrici e agli spettatori, che forse già lo sanno, che noi non abbiamo mai dato epiteti o aggiunto aggettivi di questo tipo alla sua persona». Omnia munda mundis, Lilli.

 “LILLI GRUBER E’ IL CAPO UFFICIO STAMPA DELLA SINISTRA”. Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 13 maggio 2019. L'alleanza Lega - 5 Stelle si sta esaurendo, non ha più ragione di esistere ed è destinata a sciogliersi nelle polemiche. Le due componenti della maggioranza sono ormai ai ferri corti, non hanno futuro, e ormai lo hanno capito tutti, perfino Di Maio e Salvini che pertanto aspettano il pretesto per rompere l' unione. Attendiamo il casus belli. Poi discuteremo. Intanto mi limito a osservare e a valutare i media, impegnati a combattere il governo, soprattutto la componente nordista. La tv è la più scatenata nel dare addosso a Salvini, descritto addirittura come fascista irredimibile solo perché ha pubblicato un libro con una casa editrice non allineata a sinistra. Un paio di sere fa ho seguito Otto e mezzo, programma condotto da Lilli Gruber, una ottima giornalista attempata che negli anni si è trasformata in donna di spettacolo. Lei è sempre stata brava e gliene diamo atto. Ma recentemente dimostra di essere il capo ufficio stampa della sinistra, che evidentemente ama. Nel suo salotto invita soltanto personaggi amici suoi, e questo non è un problema ma va segnalato: De Angelis è diventato il suo cocco, e va bene, poi invita una giornalista di Oggi il cui nome non ricordo, ma è lo stesso, poi chiama Cacciari e Travaglio e vari personaggi progressisti, tutta gente schierata contro il Carroccio. Un paio di giorni fa ha convocato in studio il responsabile del Viminale e ha fatto di tutto per non fargli concludere un discorso, lo ha massacrato usando l' arte cafona dell'interruzione con la intenzione di fargli fare una figura di merda. Obiettivo colto in pieno. Insomma alla Gruber bisogna riconoscere il merito di essere migliore di Zingaretti nel fare propaganda al Partito Democratico. Il suo programma ha fatto un salto di qualità: da giornalistico è diventato un teatrino tardomarxista, in cui l'oggettività è stata abolita in favore della faziosità politica, e ciò costituisce motivo di grande divertimento per gli ascoltatori smaliziati, pronti a cogliere le stupidaggini polemiche proposte dalla conduttrice onde sputtanare i partiti che le stanno sulle scatole. Ho contato le parole che Lilli ha pronunciato per intervistare Salvini, sono state il doppio rispetto alle risposte di Matteo. Quando l'intervistatore parla più dell'intervistato è chiara l'intenzione: impedirgli di esporre le proprie ragioni. Dal punto di vista giornalistico questa pratica può essere definita una porcata, ma da quello dei progressisti è un grande merito. La Gruber in sostanza sarebbe pronta per Botteghe Oscure se ci fossero ancora, invece non ci sono più e allora i suoi sforzi per appoggiare gli eredi dei comunisti hanno un senso solo: rompere le balle agli spettatori.

BROMURO, PLEASE! Liberoquotidiano.it l'8 maggio 2019. "Non ho mica voglia ma domani devo andare dalla Lilli Gruber, simpatia portami via". Matteo Salvini attacca la conduttrice di Otto e mezzo, su La7, dove è stato invitato. "Domani (stasera 8 maggio, ndr) mi tocca, che già domenica dovevo andare da Fazio e non sono andato. Mi hanno detto che c'è rimasto male e che non ho risposto. Non è vero che non ho risposto, gli ho detto che andavo se si dimezzava lo stipendio", rincara il vicepremier leghista. E la risposta della Gruber non si è fatta attendere: "Leggo che il ministro Salvini non ha voglia di venire a Otto e mezzo e che ne fa una questione di simpatia. Visto che si è proposto lui e visto che chi viene da noi lo fa volentieri, se ha un problema il senatore Salvini può restare a casa o preferibilmente al ministero".

Luisa De Montis per Il Giornale il 6 giugno 2019. "Ancora co sta storia. Gruber non funziona!". Un altro scontro tra Matteo Salvini e Lilli Gruber. In diretta tv, nel corso della puntata di Otto e mezzo su La7, il leghista ha tuonato: "L'hanno provata per mesi, Salvini razzista, fascista, troglodita, anche in questa trasmissione, Salvini non è in ufficio...". La Gruber ha provato a reagire invano: "No, no, fermo lì, scusi, ministro, ministro, non mi costrigna a toglierle l'audio". Il leghista non si è scomposto e ha ribattuto: "Ma lei è padrona di casa, può fare quello che vuole, fortunatamente non può togliere il diritto di voto agli italiani".

Otto e Mezzo, Lilli Gruber vs Matteo Salvini: "Maleducato", "Sa perché mi pagano?". Tensione brutale. Libero Quotidiano 9 Maggio 2019. Dopo le tensioni della vigilia, il faccia a faccia. A Otto e Mezzo di Lilli Gruber, su La7, mercoledì 8 maggio, ecco Matteo Salvini. Lo stesso Salvini che il giorno prima aveva detto "dovrò andare dalla Gruber anche se non ne ho voglia, simpatia portami via". Frase che aveva scatenato la conduttrice, la quale aveva replicato con un "se ne stia pure a casa, o al ministero". Ma, come detto, il ministro dell'Interno si è materializzato negli studi di Otto e Mezzo. E il confronto si è subito acceso. La Gruber, dopo aver ricordato come Salvini "ne ha fatto anche una questione di simpatia", ha aggiunto: "Mi aspettavo un mazzo di fiori di scuse". E Salvini le replica, vien da dire con evidente intento ironico: "Io le voglio un sacco di bene anche se non ho molto tempo di guardarla a casa alla televisione. Le voglio un sacco di bene e ritengo che questa trasmissione sia assolutamente equilibrata". Frase che fa ridere la Gruber. E il leghista: "Perché ride?". Lilli: "Perché allora dice sciocchezze in un comizio? Non è stato molto educato". Salvini: "Mi pagano per fare il ministro dell'Interno, non per essere educato". Gruber: "No, la pagano anche per essere educato". "E allora le manderò una piantagione di rose e margherite", conclude Salvini. Già, la tensione si taglia con il coltello...

Otto e Mezzo, Lilli Gruber impazzisce perché Matteo Salvini non risponde come vuole lei sul 25 Aprile. Libero Quotidiano 9 Maggio 2019. L'ultima puntata di Otto e mezzo con Matteo Salvini ha toccato momenti di tensione al limite del nervosismo, soprattutto da parte della padrona di casa Lilli Gruber, già inviperita per la battuta del leghista alla vigilia della puntata. Il vicepremier durante un comizio aveva annunciato che sarebbe stato ospite della Gruber: "Mi tocca andare da lei, simpatia portami via", e giù risate dei presenti. La Gruber ha quindi accolto Salvini con l'arco pieno di frecce avvelenate, imponendo un clima in studio da terzo grado. La giornalista ha sottoposto Salvini a un fuoco di fila di domande serrate, andando a toccare anche il trito e ritrito tema del 25 aprile. Salvini voleva spiegare i motivi che lo avevano spinto a stare a Corleone, anziché in uno dei tanti cortei dei partigiani. La reazione della Gruber è stata sbrigativa: "Sì vabbè... vabbè...". A quel punto Salvini ha cercato di riportare la calma: "Signora, se lei non vuol fare una trasmissione in cui si fa una domanda e si fa una risposta, io sto guardo e guardo il soffitto". Da Rita Dalla Chiesa è partita una durissima critica contro Lilli Gruber e l'atteggiamento tenuto con Matteo Salvini durante l'ultima puntata di Otto e Mezzo, mercoledì 8 maggio su La7. La conduttrice non ha gradito il modo di condurre l'intervista al vicepremier, tesa sin dalle prime battute: "Puoi essere d'accordo con lui o no - ha scritto su Twitter - puoi pensarla in modo diametralmente opposto, ma questa è l'intervista più irritante e meno super partes nella storia di Otto e Mezzo". Il commento della conduttrice ha scatenato decine di reazioni sul social, in tanti le chiedono di spiegarsi meglio. La Dalla Chiesa va giù pesante: "È il modo, la spocchia. Una giornalista deve fare domande e ascoltare riposte. Non bacchettare come una maestrina i propri ospiti. O lo fa con tutti o con nessuno". Puoi essere d’accordo con lui o no, puoi pensarla in modo diametralmente opposto, ma questa è’ l’intervista più’ irritante e meno super partes nella storia.

Otto e Mezzo, Marcello Veneziani massacra Lilli Gruber: "Faziosità isterica da vomito con Salvini". Libero Quotidiano 9 Maggio 2019. Mercoledì 8 maggio, su La7, è andato in scena l'attesissimo faccia a faccia tra Lilli Gruber e Matteo Salvini, a Otto e Mezzo. Attesissimo dopo le tensioni della vigilia, che si sono ripresentate in studio già ai primissimi secondi della trasmissione. Il punto è che alla Gruber, Salvini e la Lega proprio non piacciono e non ha mai fatto nulla per nasconderlo (ovvio, dunque, che il vicepremier del Carroccio alla vigilia avesse manifestato la sua "poca voglia" di andare negli studi di La7). E l'ostilità della Gruber nei confronti di Salvini, per chi ha seguito la puntata, è emersa senza indugi, direttissima, chiara, lampante. La sua ostilità e quella dell'altro ospite in studio, Alessandro De Angelis dell'Huffington Post. E tra chi ha protestato per quanto visto in tv, ecco Marcello Veneziani, che affida il suo sintetico pensiero a Twitter: "Fa vomitare la faziosità isterica della Gruber e della sua spalla nei confronti di Salvini - cinguetta -. Riesce a rendere simpatico Salvini anche a chi non ne aveva per lui", conclude. Parole pesantissime.

BEPPE GRILLO SCRIVE AL “FATTO” PER DEMOLIRE LILLI GRUBER. Beppe Grillo per il “Fatto quotidiano” l'11 maggio 2019. Caro direttore, due soggetti che vivono e parlano in terza persona sono difficili da seguire, lo scambio di "parole" Gruber-Salvini ha riassunto l' essenza di un eterno passato che persiste nel presente, nauseante, e fantasma in mezzo a fantasmi. Logico che Salvini fosse prevenuto, altrettanto logico che la dea del centrotavola non avesse nessuna intenzione di smettere il suo permanente carillon antigovernativo, ci sono voluti ben due giorni per avere un riscontro dal centro studi del blog. Le tastiere sono sporche di sangue e sudore, il burnout si percepisce nell' aria dei laboratori, gli studiosi del Blog ci confidano di avere fermato all' ultimo momento BEPPE9000 intento a bloccare tutti i media mondiali. Ma ce l' abbiamo fatta, siamo riusciti ad analizzare lo scambio Salvini-Gruber. Da un punto di vista strettamente televisivo, non sfugge l' occasione perduta di ambientare lo scambio in una latteria/bar della Brianza, in mezzo ad altri avventori ululanti. Gruber in meno di un minuto è riuscita a strappare un intro-berlusconiano al ministro degli Interni a sua insaputa, la solita confusione fra colpa penale e impresentabilità/incompatibilità istituzionale. Lo spettacolo è imbarazzante: Gruber la gatta e il volpino De Angelis punzecchiano un pallone gonfiato, un gioco da ragazzi. Il ministro degli Interni dice di "essere stufo di avere due minacce di morte al giorno", purtroppo un' ulteriore conferma del fatto che la sua carica istituzionale è a sua insaputa, a meno che il pallone non creda di essere il ministro degli Interni a Disneyland. Lui sogna di essere trasferito nei vigili urbani di Mousville, pare che abbiano dei giacconi spettacolari. Due minacce di morte al giorno sono ampiamente al di sotto di quelle che riceve uno qualunque degli operatori di giustizia in un Paese dove, neppure con il capo del Viminale, si riesce a parlare di mafia nel talk show politico più in voga nella patria - appunto - della mafia. Non lo volevano entrambi, Von Ribbentrop e Molotov erano solo dei ragazzi. Il problema è Fabio Fazio: roba da assessori alla nettezza urbana, al limite. La maestrina e il pallone proseguono la rissa interrotti dal volpino (che ripete il jingle che il governo non fa nulla tranne litigare). Il punzecchiamento dei due maestri d' armi del Bilderberg mantiene il suo assoluto fuori tema: come parlare con il comandante nazionale dei Vigili del fuoco di pesca subacquea. Ma continua il fuori tema, adesso siamo al 25 aprile, quando Salvini ribadisce che il ruolo di un ministro degli Interni verso la mafia è inaugurare commissariati, al massimo. Una specie di velina taglianastri per consegnare beni sequestrati da inquirenti che ci lavorano da quando Salvini pare fumasse le canne e si professava comunista. A proposito, il gran finale di questo talk show demenziale è dedicato alle droghe leggere certo neppure quelle "pesanti" troppo impegnative probabilmente. Neppure "il Punto" di Pagliaro propone il vero problema di questo paese: la mafia che si è impadronita anche della corruzione. W la Lega! E si finisce parlando di Iran, un caleidoscopio che vede tutto tranne gli argomenti che competono agli occupanti del Viminale. Ci vorrebbe una fiala di Diprivan per poter dormire dopo 8 e ½ come Michael Jackson.

Al convegno antifascista dell’Espresso Murgia legge Umberto Eco, ma Repubblica sbaglia il titolo…, scrive sabato 12 gennaio Vittoria Belmonte su "Il Secolo d'Italia". Il convegno, convocato per reazione all’aggressione denunciata dai giornalisti dell’Espresso lo scorso 7 gennaio al Verano a Roma, si chiamava “La parola antifascista”. L’incontro si è tenuto al cinema di Nanni Moretti Nuovo Sacher a Trastevere. L’appello lanciato è stato quello di opporre agli estremismi la parola, il dialogo, la coabitazione. In realtà si è trattato del solito invito, caro alla sinistra, a demonizzare il “nemico”, l’avversario, riconoscendo in esso i “germi” di un fascismo ritornante.

Quel fascismo che Umberto Eco definiva Ur-fascismo (Ur è prefisso che sta per “originario” o “primigenio”) e che secondo gli organizzatori – giornalisti e intellettuali di quella galassia di sinistra che va da Marco Damilano al centro Baobab – sarebbe ovviamente presente nell’attuale governo. L’Ur-fascismo, o fascismo perenne, secondo Eco si sostanziava di alcuni elementi caratteristici: il culto della tradizione, l’antimodernismo, il culto dell’azione e della guerra, la diffidenza verso gli intellettuali, l’appello alle classi medie, la paura del diverso, il nazionalismo, l’eroismo, l’attesa della battaglia finale, il popolo opposto all’individuo. Umberto Eco parlò di Ur-fascismo il 25 aprile del 1995 alla Columbia University. Il suo discorso fu poi tradotto in italiano col titolo “Il fascismo eterno”. All’epoca il nemico da demonizzare era Silvio Berlusconi. Oggi è Matteo Salvini. Ma la fondo resta la preoccupazione di inserire in una narrazione contemporanea elementi che rimandano alla paura del fascismo. Potremmo parlare, a ragione, di Ur-antifascismo. In ogni caso l’analisi di Umberto Eco era ben diversa e molto più sostanziosa rispetto al ridicolo fascistometro di Michela Murgia. Ma è stata propria la scrittrice a scegliere un passo di Umberto Eco sull’Ur-fascismo da leggere al pubblico del Nuovo Sacher. Un momento che ha talmente emozionato Repubblica che la titolazione del video della Murgia è stata sbagliata. Così l’Ur-fascismo è diventato Lor fascismo. Se la “parola antifascista” parte così, non è che andrà molto lontano…

Otto e mezzo, Lilli Gruber e la puntata della vergogna: "Ma il fascismo, oggi...", si copre di ridicolo, scrive Alessandro Giuli il 6 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Anno nuovo, solita vita con antiquati rottami ideologici in bella mostra. Potrebbe essere presentato così, nel palinsesto di La7 per il 2019, l'imperdibile "Otto e mezzo" di Lilli Gruber. Perché lei, maestra di cerimonie tivù per pensose tavole gosciste, ha dato un tono vibrante al rientro dopo il cenone di Capodanno apparecchiando una trasmissione con gli stivali di Mussolini. Titolo: "Fascismo di ieri, fantasmi di oggi". Ospiti: l'esimio Luciano Canfora, storico in odore di santità stalinista; la collega universitaria Alessandra Tarquini e lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco in quota odore di zolfo. Nulla di strano, chiunque mastichi di televisione sa che tira più un pelo di fascismo d' una carrettata di numeri economici. Sarebbe perfino un favore al convitato di pietra Matteo Salvini, che gioca con gli slogan del Ventennio e, tra un selfie e l'altro mentre rumina cibarie, si esibisce in pose maschie da uomo d' ordine. Ma siccome Lilli è altoatesina, si dedica al tema con teutonica acribia. E imposta l'ordine del discorso con impareggiabile equanimità: «Dopo un dibattito seguìto per tutto il 2018, ci chiediamo: sta tornando il fascismo nel 2019?». Canfora, perfetto nel ruolo del vecchio resistenziale, risponde allarmando sulle attuali «incredibili analogie con quello che ha portato al fascismo»; e cioè «l'aggressione verbale alla passeggera che difendeva alcuni rom sull' autobus a Roma». Una chiara azione di stampo squadristico? E che dire - sempre Canfora - delle violenze che si moltiplicano in altre parti d' Italia, mentre «un esponente governativo molto potente, perché fa il ministro dell'Interno, non disdegna di mimare atteggiamenti e concetti fascisti». Eccolo, il ducetto Salvini, imprigionato in una camicia nera ed esposto per mancanza di alternative nel tritacarne della storiografia gruberiana.

«Rischio Weimar» - Buttafuoco, colto frequentatore di metropolitane, ha rotto l'incanto ricordando ai presenti che l'unico fascismo in vita è quello che ha eletto domicilio nelle allucinazioni degli antifascisti: è la loro pigra e confortevole risposta alla durezza della realtà che ha voltato le spalle alla sinistra dacché la sinistra ha voltato le spalle al popolo. Una "falsificazione" brandita da chi ha bisogno di spiegarsi l'avanzata dei populisti in modo autossolutorio. Partita vinta dal cattivo? Canfora esita: affermare che sta tornando il fascismo è una formula grossolana e schematica, ma certo i segnali La professoressa Tarquini è più risoluta: «Nessuna analogia. Il fascismo era un partito rivoluzionario che praticava la violenza come mezzo di lotta politica. I fenomeni di cui parliamo oggi derivano dalla sfiducia totale nella politica. Le destre più o meno radicali e illiberali in questi anni nascono dai redditi erosi e dalle paure». Semplicisticamente impeccabile. A questo punto Gruber vacilla. Lei del fascismo di ritorno sembra non poter fare a meno. Evoca la xenofobia e il razzismo, insiste: «Ma perché abbiamo bisogno di parlare di fascismo?». Già, perché? Visto che le posizioni sono chiare, gli ospiti quasi concordano su più rassicuranti prospettive. Poi Canfora si concede un altro monito: «La dinamica può ripetersi: il migrante può diventare come l'ebreo durante Weimar». Boom. Così Gruber si rianima e torna a bomba sugli «ammiccamenti di Salvini» ai fascisti immaginari del terzo millennio. Sempre lì va a parare, la padrona di casa, come per un'ossessiva coazione a ripetere.

In libreria - Essendo Gruber una professionista dell'informazione e non una militante politica, nel suo caso non può trattarsi di una scorciatoia per incassare dividendi elettorali; deve esserci dietro qualcosa di serio e urgente. Soldi? La risposta è nelle migliori librerie, nel reparto Gruber (sta tra la storia, l'antropologia e il giardinaggio), lì dove campeggia la scintillante bibliografia della conduttrice. Ed ecco baluginare, tra le sue fatiche, saggi e romanzi come "Eredità. Una storia della mia famiglia tra l'Impero e il fascismo"; oppure "Tempesta", con tanto di svasticona hitleriana in copertina a sugellare un libro dedicato «a un'Europa in cui il nazismo dilaga vittorioso». Se poi le guerre guerreggiate stancano, c' è il Dopoguerra dell'ultimo "Inganno. Tre ragazzi, il Sudtirolo in fiamme, i segreti della Guerra fredda". Insomma dietro le paure di Lilli c' è del metodo: unire l'utile al disdicevole. Il suo prossimo libro potrebbe intitolarlo direttamente "Ventotto (ottobre) e mezzo", firmandosi "Lilli Marlene". Alessandro Giuli

Lilli Gruber: "Ecco perché mi sono messa di traverso". La sua ormai celebre "conduzione di tre quarti" che l'ha resa un'icona. E poi le radici sudtirolesi e la vocazione europea, la disciplina professionale, la politica, le battaglie, l'amore. La giornalista parla di tutto, debolezze comprese, scrive Luca Telese il 27 dicembre 2018 su Panorama.

Lilli è vero che da piccola volevi fare la suora? 

«(Sopracciglio alzato). Sì, avevo otto anni»

Ah.

«(Sorriso). Però, come vedi, mi è passata»

Eri laica, ma sei stata educata dalle suore. 

«Sia le Piccole figlie di san Giuseppe sia le suore Marcelline»

A Verona e poi Bolzano. Ma il momento più duro è stato alle elementari. 

«Immagina una bambina, che parla solo tedesco, che si ritrova in un mondo tutto diverso, spedita a scuola tutti i giorni, nella città di Romeo e Giulietta, anche in costume tirolese»

Anche tuo fratello?

«Lui ancora più sfortunato di me: con i knickerbocker di pelle corti»

E non era facile in quegli anni. 

«C’erano ancora le ferite della guerra»

Addirittura? 

«Nell’aula della terza elementare, in un giorno che non scorderò mai, entrò una suora che ci raccontò quanto fossero cattivi i tedeschi, che uccidevano dieci italiani ogni loro commilitone morto, e poi con il grasso dei loro cadaveri ci facevano il sapone»

Parlava dei nazisti. 

«No, dei «tedeschi». E nella classe, improvvisamente muta, una compagna, mi puntó il dito addosso, esclamando: «Anche tu, Gruber, sei una di quelli!»»

E avevi anche il problema della lingua. 

«Un giorno all’asilo, dopo sole tre settimane, la suora maestra chiamò mia madre e le disse: «Guardi che se a casa continua a parlare a sua figlia in tedesco, Lilli non riuscirà mai a imparare l’italiano»».

E tua madre cosa rispose? 

««Sorella: non so quando Lilli imparerà l’italiano, né come. Ma sono sicura di una cosa. Quando lo parlerà, lo farà di certo meglio di tutte le altre»»

Tutti pensano di conoscere Lilli Gruber perché è nelle nostre case - nell’orario di punta - dal 1993. Tutti pensano di sapere molto di lei, ma spesso sono cliché, che infatti sono sempre cambiati negli anni. Ho scoperto, seguendola in alcuni eventi pubblici, uno dei suoi più grandi segreti: ci sono almeno 1-10-100 Gruber. E non c’è donna italiana che, con almeno una di «queste Lilli», non si identifichi un po’. A Roma - in una delle rare presentazioni del suo ultimo libro, Inganno - c’erano volti noti e donne di popolo, dame della Roma di sangue blu e attrici, donne progressiste e conservatrici, tutte in fila per un autografo. Infatti il libro è da settembre tra i più venduti. 

Inganno è il terzo atto di una quadrilogia sulle radici della tua storia. 

«(Scuote la testa). Per scriverlo ci ho messo due anni. Ma è una trilogia, non credo ci sarà mai un quarto volume!

Sei in cima alla classifica da mesi - e per la terza volta - con un libro che parla del Sud Tirolo.

«Io sono convinta che quella terra, in apparenza piccola e periferica rispetto agli imperi e alla repubblica, sia stata un crocevia importante, sia per la storia d’Europa sia per quella del nostro Paese»

Se ci fosse stata un’invasione russa sarebbe passata da lì. 

«Per questo in Tirolo, o Alto Adige, c’erano tutti: militari, spie, nazionalisti, neofascisti e, come sai, i primi terroristi della storia italiana, con le bombe ai tralicci di cui racconto la genesi. Una storia avvincente».

C’è poi il tema delle identità nazionali. 

«La heimat. Ho conosciuto il nazionalismo delle «piccole patrie» da bambina. L’ho ripercorso attraverso i diari di mia nonna, la storia della mia famiglia, il lavoro di ricerca e le interviste che ho fatto per i tre libri»

Hai raccontato dei ragazzi sudtirolesi che sono andati a morire per Hitler sui fronti orientali. 

«In ogni paesino della mia terra c’è un cimitero dove si possono trovare, sulle tombe, le foto di ragazzi con le divise della Wermacht. Spiego e racconto le ragioni che hanno prodotto queste scelte».

È una storia incredibile.

«In quegli anni tutti i sudtirolesi erano profondamente antifascisti, ma la maggioranza era filonazista. Ciò mi affascina e ho provato a raccontarlo»

Sei riuscita a raccontare una contraddizione a prima vista incomprensibile.

«Proprio perché ho ripercorso quella vicenda di oppressione, sangue e passioni mi sento sudtirolese, nata in una zona di confine, e - soprattutto - cittadina d’Europa. 

Hai intervistato gli ex terroristi. 

«Mi spaventa quando mi dicono che non hanno alcun rimorso»

Hai tenuto assieme narrativa e inchiesta giornalistica. Se arriverai ai giorni nostri, dovrà essere una biografia. 

«Perciò non scriverò un quarto libro».

Tuo padre Alfred era un imprenditore. 

«Un uomo bello come il sole, severo, ma per i suoi tempi molto moderno»

Soprattutto rispetto ai suoi tempi. 

«Avevo 10-11 anni, quando spiegò a me e a mia sorella come avveniva la riproduzione, disegnando su fogli bianchi il cammino degli spermatozoi»

A dieci anni? 

«Fu una sorpresa, ma salutare. 

Fu sempre lui a far sfumare in te l’idea di prendere i voti. 

«Uomo illuminato: a 16 anni mi mandò a Londra da sola».

Un trauma? 

«Era la Gran Bretagna della Swingin’ London: i Beatles, i Rolling Stones, la liberazione sessuale e la minigonna. Entrai pure in un cinema porno. Appena arrivata, la padrona di casa ci diede le chiavi e ci disse: «Portate in camera solo ragazzi perbene»».

Ti sei adeguata al codice della casa? 

«(Sopracciglio). Non essere indiscreto. Il genio di mio padre era questo: a 16 anni avevo il permesso di fumare, ma con una restrizione: «Solo tre sigarette!»»

Avete avuto grandi scontri quando eri adolescente. 

«Ma quando è morto, in un incidente, il rapporto era di profondo amore e stima»

Tua madre, chiamandoti Dietlinde, non è stata leggera. 

«Nell’antica lingua germanica significa: «Colei che guida il popolo». Reminescenze di una prozia appassionata di storia»

Impegnativo, direi. 

«Nel mio Dna ci sono l’idea della frontiera e quella dell’integrazione»

Perché? 

«Proprio perché da piccola sono sempre stata considerata una «diversa». A casa parlavo il tedesco e le tradizioni di famiglia erano decisamente austro-ungariche. Ma si può essere diversi ovunque»

Tuo padre ti voleva in azienda, tu rifiutasti. 

«Per anni ho fatto analisi: la lettura di tutto Freud, Jung, Basaglia e della nuova psichiatria mi hanno aiutata molto»

Hai un fratello e una sorella, ma nessuno di loro è giornalista. 

«Winfried, il primogenito, è architetto e musicista jazz. Mia sorella, Friederike - detta Miki - coach per la Pubblica amministrazione e le imprese».

Ti sei sposata tardi, a 43 anni, a Montagna, vicino alla casa di famiglia. 

«Vedi come si cambia? Ero contro il matrimonio, e dicevo: «Mai un figlio, mai un marito»»

Hai raccontato solo una volta, da Caterina Balivo, in un’intervista tra donne: «Poi ho incontrato l’uomo della mia vita». Come nei romanzi d’amore.

«È accaduto a Baghdad, mentre eravamo entrambi inviati di guerra. Ho capito che Jacques era importante per me, ma non avevamo garanzie per il futuro»

Jacques Charmelot non sapeva che già eri il volto più noto della tv italiana? 

«Non aveva idea di chi fossi. Ci siamo innamorati, ma... non eravamo liberissimi. Le vite sono complicate. Ci siamo aspettati e oggi mi pare un bene: per entrambi è un grande amore»

Un giorno hai dato una delle ricette più belle su come deve sopravvivere una coppia. 

«Litigare dieci volte e chiedere undici volte scusa... Jacques è francese, ma di quelli sopportabili, perché ha studiato negli Stati Uniti. È simpatico e intelligente, un uomo di grande fascino, mi fa ridere perché, non ci crederai, ma a volte posso essere un po’ pesante».

Hai questa ironia che ti salva. 

«(Sospiro). Non raccontiamolo in giro»

Sei consapevole di quanto puoi essere dura? 

«Nella vita e nel lavoro ci vuole disciplina. Venendo dall’impero austro-ungarico, e dalla biografia che ti ho detto, ho avuto un’educazione un po’ prussiana»

Però hai anche delle caratteristiche latine, ben nascoste. 

«Stai facendo molte domande indiscrete»

Lo dici tu che hai chiesto a Di Maio e a Salvini di Giovanna e della Isoardi? 

«(Sorriso). A entrambi ho consentito di smarcarsi. 

Una volta hai chiesto a Monti: «Lei è massone?».

«Era una domanda da fare. Per la cronaca ha risposto «no»»

Alla Boschi hai chiesto del famoso fotomontaggio al giuramento!

«Era su tutti i siti web, sarebbe stato assurdo non chiederlo»

Vedi che anche tu sei insistente? 

«Nel giornalismo anglosassone è considerato doveroso. Poi l’intervistato può dire «non rispondo»».

A vent’anni avevi due possibilità: l’Alto Adige o la Rai. E hai chiesto consiglio al grande scrittore Goffredo Parise. 

«È vero, tra gli altri. Chiacchierammo dopo un’intervista. Pensa che mi disse: «La tv è il futuro. E tu la fai bene»».

Il tuo primo maestro, Silvano Faggioni, caporedattore di Telebolzano. 

«Mi spiegò: zero chiacchiere, niente politichese. Le notizie prima di tutto. Lo risento ancora oggi, ogni volta che facciamo la scaletta di Otto e mezzo»

Antonio Ghirelli, grande direttore socialista del Tg2 ti chiese: «A che partito appartieni?».

«Gli risposi: «A nessuno». Era la verità»

E lui? 

«Sorrise e disse: «Allora devi essere figlia di un invalido di guerra»»

Sei la stata la prima donna a condurre un tg in prima serata. 

«Fu grazie ad Alberto La Volpe, nel 1987. Prima c’erano solo tre maschi. Per loro fu uno shock. 

Demetrio Volcic, nel 1993, ti promosse alla conduzione delle 20.

«E pensa che io volevo fare solo l’inviato!»

Diventasti per tutti «Lilli la rossa». Per la politica o per il colore dei capelli. 

«Erano entrambe sciocchezze. Mi piaceva fare il mio mestiere e ho sempre sfidato i miei critici a trovare un elemento di faziosità in un mio servizio. Quando si parlerà anche dei parrucchieri degli uomini sarà un passo avanti»

Hai avuto un rapporto burrascoso con un altro tuo direttore, Bruno Vespa. 

«Una volta mi disse: «Sei stata troppo dura con Giuliano Amato». 

E tu?

«Andai da Amato per chiedergli cosa ne pensasse. Mi rispose: «Non mi pare». Pratica chiusa. Però con Vespa c’è un rispetto di fondo. Non ero d’accordo con il suo discorso sull’editore di riferimento, la Dc, e lui sapeva come la pensavo. Si rivoltò la redazione e fu costretto alle dimissioni»

Pochi sanno che hai condotto anche all’estero.

«Nel 1995 il settimanale Focus TV, sulla tedesca Pro Sieben, e nel 1998 un talk show sull’Europa per SWF. Grandi palestre»

Ti sei candidata e dimessa da eurodeputata. Lo rifaresti?

«Lo rifarei. Ma dopo quattro anni e mezzo ho lasciato la poltrona rinunciando a 3.300 euro mensili di pensione e non me ne sono mai pentita»

È un peccato avere amici politici? 

«No. Lo è se questa amicizia fa ombra al tuo mestiere di giornalista»

Tuo marito Jacques dice che sei una «control freak». Che significa? 

«Mi sveglio spesso, accendo la radio, ascolto la gente che parla, non la musica, cerco di scacciare dalla testa i pensieri».

Vabbè, sei malata di lavoro. 

«Sono prussiana, te l’ho detto»

Non ingrassi perché segui folli diete new age. Poco prussiane, anche queste. 

«Non bevo, se non nel week-end. Mangio poca carne, molta frutta. In redazione mi porto un sacchetto di pistacchi e mandorle per la merenda»

È vero che Armani ti ha regalato l’abito da sposa? 

«Sì, siamo diventati amici, tanto tempo fa. Accetto di comprare gli abiti con uno sconto, ma insisto per pagarli»

Spiega perché. 

«Per un codice deontologico che mi sono data. Ho rifiutato anche un contatto per indossare gioielli. Il nostro cammino è disseminato di trappole».

Hai passioni segrete per Bach, Chopin, Mozart. Ma anche Madonna, Tina Turner e Michael Jackson. E nel jazz per Miles Davis!

«Mi sono formata nel 1977 e oltre al rock ballo anche valzer e tango, se è per questo»

Hai un editore severo che ti telefona dopo ogni puntata. 

«Sì, ma non è Urbano Cairo. Mia madre, 91enne, tutte le sere guarda Otto e mezzo. Poi mi chiama per commentare e mi dice: «Pinco mi è piaciuto, ma Pallo no»»

Aldo Grasso ha scritto: «Lilli non si espone mai, gioca di sponda. Il suo pensiero emerge dai sorrisetti di complicità e d’intesa, da certe smorfiette, dagli “umh!” con cui esprime diffidenza e cautela».

«(Sorriso). Uhm... Se non lo facessi pensa che noia. Grasso lo scriverebbe di sicuro»

C’è una letteratura scientifica sulla tua conduzione «di tre quarti»: per alcuni seduttiva, per altri dominante, per altri ancora dettata dalla fotogenia... 

«Nessuno studio. Falso. Nasceva da una mia postura e dall’uso di due telecamere ravvicinate al Tg2».

Dopo dieci anni di programma hai una concorrente donna, e fissi addirittura il record. 

«Non è retorica dire che la concorrenza aiuta. Barbara Palombelli è stata uno stimolo, come Maurizio Belpietro e Paolo Del Debbio, ed è bravissima»

L’Europa è una delle cose a cui tieni di più. In trasmissione bacchetti sempre gli euroscettici. 

«L’Europa non va bene così come è»

Che fai cambi idea? 

«Al contrario. Di sicuro ci sono tante «riparazioni» da fare, ma da questo a distruggere questa grandissima costruzione di pace, benessere e diritti ce ne passa»

Il Foglio, con Adriano Sofri, ti ha proposto come guida di una lista unitaria europea. Peppino Caldarola ha scritto: «Magari, raccolgo le firme!».

«(Risata solare). Ho già dato!»  

(Articolo pubblicato nel n° 1 di Panorama in edicola dal 19 dicembre 2018 con il titolo "Ecco perché mi sono messa di traverso")

Il punto (di M.Veneziani). Il caso Lilli Gruber ovvero il solco tra media chic e il popolo italiano, scrive il 17 Settembre 2018 Marcello Veneziani su "Il Tempo. Cara Lilli Gruber, ma come possono fidarsi gli italiani di lei se scrive su Sette un commento con un titolo così: “Tutti i populisti mentono. Sono pericolosi e opportunisti”? E il titolo risponde fedelmente allo svolgimento. Sa che sta offendendo i tre quarti dei suoi spettatori? Come il 60% degli italiani mi sento in questo momento, con tutte le riserve critiche che non nascondo, più dalla parte dei populisti che dei loro nemici. E non mi sento solo offeso dalla sua definizione, quanto ferito da italiano, da giornalista e da libero pensatore. Non userei mai un’affermazione del genere nemmeno per i peggiori nemici; distinguerei, non mi sentirei in possesso della verità. Non scommetto sulla riuscita di questo governo, lo dico ogni giorno. E mi sorprende che ad attaccare in quel modo sia proprio lei che è stata generosa coi grillini e i loro sponsor, al punto che spesso – anche l’altro giorno con l’imbarazzante, sconclusionato, sproloquio di Dibba – ha dato l’impressione di essere Grilli Uber. Non le rinfaccio l’incoerenza, sono fatti suoi, so che a lei i grillini vanno bene se pendono a sinistra, se invece si alleano a Salvini diventano cattivi. C’è gente che divide ancora l’umanità in fascisti e antifascisti, e si perde la realtà, il presente, il mondo, 70 anni di storia, comunismo incluso. Tramite lei, in realtà, me la prendo coi Media, la Stampa e la Tv che stanno offrendo uno spettacolo disgustoso e desolante: gli italiani da una parte e loro compatti dalla parte dell’establishment. Non mi sarei aspettato il contrario ma almeno una varietà di posizioni e la capacità di distinguere e analizzare; qualcuno equidistante, qualche altro che comprende le ragioni della gente, qualcuno che riconosce pezzi di verità nell’avversario. No, niente, un esercito cinese, monolitico, monotono. Come in guerra. Sento un sacco di gente moderata che dice: leggevo il Corriere della sera (o altri quotidiani nazionali che non chiamo più giornaloni come facevo un tempo, perché ormai l’espressione è abusata) ma ora è diventato insopportabile, fazioso, a senso unico, mai che si legga un’opinione diversa, come i tg del resto. Basta, non lo prendo più. Io non sono contento quando sento che la gente non legge più i quotidiani, non li compra, anche quelli che ignorano chi nutre idee davvero diverse. Ogni lettore che se ne va è comunque una perdita, una sconfitta. Un passo indietro. Ma quando leggo il Corriere della repubblica, testata omnibus che li riassume tutti, o il tg123 più diramazioni private, che ripetono sempre la stessa menata, capisco il disagio popolare e lo condivido. “La sconfitta dei populisti”, titola trionfale il Corrierone e sembra un organo di partito, “L’orgoglio dell’Europa” fa eco l’Organo ufficiale, la Repubblica. E in mezzo servizi, commenti, vignette, tutti in una sola direzione. Non vorrei il contrario. Mi sarebbe piaciuto leggere giornali schierati contro i populisti, altri indipendenti e non partigiani, che rappresentano le diverse interpretazioni in campo. Così come nel servizio pubblico mi sarei aspettato tg favorevoli e tg contrari, non l’unisono, come ai tempi di Renzi. Ma il fossato è ormai enorme: da una parte la gente e dall’altro il regime, il sovrapotere rispetto al governo in carica. Da Mattarella in giù, un Esercito della Salvezza con un consenso che si restringe sempre di più, che spara compatto. Qualcosa non va, e non dirò che la colpa sia tutta da una parte, ci mancherebbe. Il populismo non è la malattia della democrazia ma la risposta, magari inadeguata, alla democrazia malata. Non è la causa del malessere ma l’effetto; e il malessere non l’ha generato il populismo ma chi ha comandato in questi anni, magari con la complicità della massa. Distinguo la deriva impraticabile e assurda della democrazia diretta, l’utopia grillina, irrealizzabile e pericolosa dell’autogoverno del popolo, dal sovranismo che è invece la sacrosanta richiesta di restituire dignità e sovranità al popolo – come esige pure la Costituzione- alla Nazione e allo Stato. Poi possiamo criticare le modalità, alcuni contenuti, certi linguaggi, l’affidabilità dei suoi interpreti, le semplificazioni, la convinzione fallace che tra popolo e leader non serva un’élite adeguata…A me preoccupa il divorzio tra l’Unione europea e l’Europa reale, l’Europa dei popoli, delle nazioni, degli Stati che vogliono rimanere sovrani. A me preoccupa che chi difende i confini come segno di civiltà passi per un delinquente e un razzista. E’ giusto che ci si divida in tema d’accoglienza e frontiere, ma è ingiusto ridurre una delle due posizioni a follia criminale. E non solo è ingiusto, ma rafforza il Nemico. E non solo lo rafforza ma lo spinge a dare il peggio di sé. Perché quando ti considerano il male assoluto da sradicare, allora ti adegui e reagisci di conseguenza, fino a somigliare al barbaro come essi ti dipingono. Una brutta deriva. E mi preoccupa vedere la mobilitazione dei poteri contro i social, che sono ormai l’unica valvola di sfogo e di espressione, che nei media controllati dall’alto non è possibile. Con la scusa delle fake news vogliono imporre le opinioni prefabbricate e reprimere ogni difformità rispetto alla pappa irreale da loro somministrata. Detto questo, un’ammissione: ci sono alcuni giornali, magari piccoli, che invece danno voce alle opinioni difformi; come mai non sfondano, restano nicchie? Si, avranno mezzi scarsi, editori ai margini delle consorterie di potere, niente sostegni e tanti fastidi per chi si espone. Ma perché non sfondano a furor di popolo, visto che il popolo la pensa come loro scrivono? Sono fatti male oppure, come temo, il popolo del web è allergico a leggere, vuole solo inveire, non vuole approfondire le opinioni ma vuol solo trasformare il suo malumore in sanzione e in verdetto e vuol giudicare tutto e tutti senza cognizione di causa? Su questo, ne convengo, dovremmo riflettere. Ma porsi domande, avere senso critico è una cosa, fare affermazioni così becere come quelle citate, espresse con la stessa perentorietà dell’ultimo Renzi e dell’ultima sinistra, significa avere in comune col populismo solo il suo lato peggiore, l’insulto indiscriminato, l’invettiva contro chi non la pensa come voi. Pensaci, giacobino. E pensaci pure tu, Lilli Gruber, grillotirolese di sinistra. (da Il Tempo)

I Leghisti quando vedono un nero lo considerano un immigrato clandestino che vive di crimini.

I comunisti quando vedono un nero lo considerano un profugo vittima di razzismo, persecuzione e sfruttamento.

Nessuno di loro considerano quel nero come una persona giudicabile solo e comunque per i propri atteggiamenti e comportamenti: da premiare o da punire.

Caso Diciotti, Mario Giordano: "Io intollerante e xenofobo?" E lascia lo studio, scrive il 22 febbraio 2019 RepubblicaTv. "I 5 stelle hanno avvalorato con questo voto una svolta xenofoba". Così in studio il giornalista Alessandro De Angelis commenta la consultazione della base grillina sulla piattaforma online Rousseau sul caso della nave Diciotti. "Ma dov'è la xenofobia?" ribatte Mario Giordano. A questo punto De Angelis gli chiede di non essere interrotto: "Mi rendo conto che per te è difficile - dice il vicedirettore dell'Huffington Post - perché sei molto sensibile a questo clima di intolleranza che c'è nel Paese". La provocazione non va giù all'ex direttore di Studio Aperto che lascia lo studio. A nulla era valsa la battuta di Corrado Formigli per stemperare i toni: "Diciamo che sei intollerante al glutine" aveva detto il conduttore di Piazzapulita.

Da Il Fatto quotidiano del 23 febbraio 2019. Bagarre a Otto e Mezzo (La7) sul problema del razzismo e sulla politica migratoria del governo gialloverde e in particolare del ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Ospiti della trasmissione: Valeria Mancinelli, sindaca d’Ancona alla guida di una coalizione di centrosinistra e vincitrice del premio “World Mayors Prize 2018” (“Sindaco del mondo 2018”), i giornalisti Pietrangelo Buttafuoco e Roberto D’Agostino. Buttafuoco contesta l’idea secondo cui il razzismo in Italia sia esploso con Salvini e denuncia di essere stato lui stesso, da anni convertitosi all’Islam, vittima di discriminazioni. Mancinelli ribatte che non ha mai accusato Salvini di essere la causa del razzismo nel Paese.

Buttafuoco ribadisce: “Il razzismo c’è da sempre. Io con chi dovevo prendermela? Con Prodi che era presidente del Consiglio?”.

La conduttrice Lilli Gruber cerca di dare la parola alla prima cittadina di Ancona, ma Buttafuoco protesta: “Per caso lei è l’unica che può dire cose che si devono dire?”. “No, ma ho una esperienza concreta quotidiana sul territorio”. E il giornalista risponde piccato, battendo la mano sul tavolo: “Ma io ho l’esperienza della vita, che facciamo? Io ce l’ho sulla pelle quel che brucia”. “Calma, calma”, esorta Mancinelli.

D’Agostino cita il caso di Francesco Rutelli, che, quando era sindaco di Roma, fu costretto a togliere il proprio figlio adottivo, originario dell’Ecuador, da una scuola comunale.

I toni si accendono, Buttafuoco ribadisce che Salvini non c’entra e interviene Gruber: “Sicuramente alcuni esponenti del governo hanno un linguaggio più che sguaiato che legittima alcuni episodi”. “Qual è la differenza tra il mio caso e quello di altri?”, chiede Buttafuoco.

“Potrei raccontarti che a me, da bambina, davano della porca tedesca e stavo in una città italiana”, replica la conduttrice.

“Ma no, crucca”, commenta D’Agostino.

“No, mi chiamavano porca tedesca con altri annessi e connessi” – puntualizza Lilli Gruber – “Quindi, ognuno ha la sua storia”.

La polemica si rinfocola svariati minuti dopo, quando la sindaca di Ancora viene contestata da D’Agostino e da Buttafuoco, i quali le rinfacciano le falle delle politiche di centrosinistra, da Bersani a Renzi.

“Ma che c’entra?”, chiede la prima cittadina del capoluogo marchigiano. Mancinelli tenta di dire la sua, ma i due giornalisti la interrompono. E Lilli Gruber li rimbrotta severamente: “Adesso vi tolgo l’audio. Siete due maschi maleducati”.

Luca e Paolo, la parodia di "Teorema" è un inno anti-Salvini. "Prendi una barca, trattala male", scrive il 24 febbraio 2019 Repubblica tv. Nel corso dell'ultima puntata di "Quelli che il calcio", programma in onda su Rai 2, Luca e Paolo hanno cantato una versione di 'Teorema', canzone di Marco Ferradini del 1991, cambiando il testo della canzone. Il riferimento, neanche troppo celato, è alla politiche sull'immigrazione del governo. "Prendi una donna trattala male, lascia che ti aspetti per ore", diventa così "Prendi una barca, trattala male, dille che non può attraccare". Luca Bizzarri aveva avvertito i telespettatori pochi minuti prima dell’inizio del programma, con un messaggio su Twitter: "Oggi io e Paolo canteremo una canzone a Quelli che. Volevo salutarvi prima, nel caso non ci si vedesse più".

Luca e Paolo, la canzone anti Salvini in diretta: terremoto nel pomeriggio Rai, scrive il 25 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Roberto Saviano che fa il monologo anti Salvini, Luca e Paolo che cantano la canzone sfottò del ministro leghista. Ieri in Rai era decisamente una giornata contro il vicepremier e la chiusura dei porti.  I comici Luca e Paolo durante Quelli che il calcio, su Raidue, hanno cantato una versione di Teorema, canzone di Marco Ferradini del 1991, cambiando il testo della canzone, tutto in chiave anti Salvini. Il riferimento, neanche troppo celato, è alla politiche sull'immigrazione del governo. "Prendi una donna trattala male, lascia che ti aspetti per ore", diventa così "Prendi una barca, trattala male, dille che non può attraccare". Luca Bizzarri aveva avvertito i telespettatori pochi minuti prima dell’inizio del programma, con un messaggio su Twitter: "Oggi io e Paolo canteremo una canzone. Volevo salutarvi prima, nel caso non ci si vedesse più". 

Che tempo che fa, lezioncina buonista di Roberto Saviano: frecciata a Matteo Salvini, scrive il 25 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Roberto Saviano ha tenuto un monologo politico in apertura della puntata di ieri 24 febbraio di Che tempo che fa. Ha parlato di razzismo e ha criticato apertamente il ministro dell'interno Matteo Salvini. Parlando della storia del ragazzo senegalese Bakary, ha letto la risposta del ministro degli Interni, che ha detto: "Io rispetto il dolore di una mamma, abbraccio suo figlio e condanno ogni forma di razzismo. E la signora rispetti la richiesta di sicurezza e legalità che arriva dal popolo italiano". Saviano ha commentato: "La dichiarazione del ministro coglie l'occasione di ribadire che gli italiani sono esasperati dalla presenza di immigrati, cosa che con il caso di Bakari non c'entra nulla". Saviano, leggendo i dati Istat, ha detto che solo l'8,7% della popolazione italiana è costituita da immigrati, inclusi quelli provenienti dall'UE. Gli irregolari sono circa 533mila. Per lui, l'invasione non c'è: "Se ascoltate i discorsi politici sugli immigrati sfruttati nelle campagne, sembra che il problema non sia lo sfruttamento, ma il lavoratore africano stesso, come se lui fosse responsabile del suo stesso sfruttamento".

Santoro: «Sbagliai nel duello Berlusconi-Travaglio in tv.  Ora vorrei comprare L’Unità». Pubblicato venerdì, 26 aprile 2019 su Corriere.it. La mattina Michele Santoro scende dai Parioli, dove abita, e raggiunge l’ufficio in via delle Mantellate, a fianco del carcere romano di Regina Coeli. «Vedo le mamme in fila con i figli per mano, mentre aspettano di portare i bimbi a incontrare i loro padri detenuti, e ogni volta mi commuovo». La sede della sua Zerostudio’s, al pianterreno di un’ex fabbrica, sembra scelta apposta per stimolare la creatività: ha ospitato l’ufficio di Bernardo Bertolucci e l’atelier di Mario Schifano, che dipingeva circondato da monitor sintonizzati sulle tv di tutto il mondo. A giudicare dai volti, l’età media dei collaboratori non supera i 30 anni. Chissà a quali produzioni televisive stanno lavorando: da giugno 2018, dalla fine di «M», la fiction sul caso Moro trasmessa dalla Rai, il conduttore non compare in video. È sparito pure dai giornali. Forse perché ne sta progettando uno suo, anche se la testata risale al 1924: L’Unità. «Ho presentato un’offerta al proprietario, il costruttore Massimo Pessina». Ma il virus della tv gli resta in circolo. L’ho intuito da un episodio che mi ha raccontato a registratore spento, accaduto il 10 gennaio 2013 durante la famosa puntata di «Servizio pubblico» su La7 (8.670.000 telespettatori, 33,58 per cento di share, Rai e Mediaset umiliate in prima serata), con lui che si rifiuta di stringere la mano a Silvio Berlusconi e il leader di Forza Italia che, al momento di appoggiarvi le terga, spolvera la poltroncina su cui stava seduto Marco Travaglio. «Poco prima, in una pausa pubblicitaria, il Cavaliere mi aveva detto: “Michele, ma come ci stiamo divertendo!”».

Perché si è candidato per il cda Rai?

«Per costringerli a scegliere persone migliori di me. Ora la Lega ha presentato un’interrogazione alla Camera contro un mio programma che non c’è. Ho scritto al presidente Roberto Fico. Manco mi ha risposto. In Italia si fa così».

Ma il direttore di Rai2 l’ha incontrato.

«Con lui ho parlato del più e del meno. Subito hanno rivisto in Santoro lo spettro del passato. Carlo Freccero mi ricorda una definizione di Giancarlo Pajetta: “È contemporaneamente un opportunista di destra e di sinistra”. Mi limito a gestire il mio sito, un laboratorio che sonda gli umori della Rete e produce contenuti. Finché potrò permettermelo».

Anche lei si è convertito a Internet.

«Quando ideai “Tempo reale”, il Web contava appena 10.000 utenti. Con la Olivetti sperimentai il rapporto fra computer e televisione. Una volta per andare in onda dovevi saper ballare, cantare, presentare. Oggi un ragazzo di borgata diventa una star di YouTube interpretando solo sé stesso».

Gli basta uno smartphone.

«Milioni di lavoratori cliccano per inseguire i loro sogni, alle dipendenze di multinazionali che neanche li pagano. Usano il corpo, come Kim Kardashian. S’improvvisano comici con peti e rutti. Non è che devono saper fare la corsa delle bighe di Ben-Hur. La Rete comanda. La velocità è tutto. La verità non conta. Prevale solo la morbosità».

Deprimente.

«Ma la sinistra che predica di riconnettersi alla realtà, ai poveri e alle periferie non tiene conto di questa rottura. Ha una visione cattolicheggiante del marxismo, e glielo dice uno che Karl Marx non l’ha mai rinnegato: fatte le debite proporzioni, devo pensare a Gesù Cristo per trovarne un altro come lui».

Sbaglia Nicola Zingaretti, neosegretario piddino, a ripartire dallo ius soli?

«C’è un vuoto di proposte. Il Pd non analizza i mutamenti sociali provocati dalla Rete. Resta affezionato al welfare verticale, dal centro alla periferia».

Beppe Grillo ad «Annozero» impazzava sparando su Giorgio Napolitano e Umberto Veronesi. Non sarà che lei ha creato un mostro?

«Più sei famoso e più devi concedere un eccesso di critica a tutti. Io credo moltissimo nelle istituzioni, ma in Italia non sono più in grado di registrare i cambiamenti. E così la comunicazione surroga lo Stato. Il fenomeno Berlusconi è la tv che si fa partito. Il fenomeno Grillo è la Rete che si fa partito. E i partiti che cavolo facevano nel frattempo?».

Le piacerebbe un governo M5S-Pd?

«Di notte non sogno l’incontro Di Maio-Zingaretti. Però non andrei a dire in giro che i 5 Stelle sono uguali alla Lega. Palmiro Togliatti avrebbe osservato che questo è il modo migliore per rafforzare l’attuale governo».

Nel sondaggio per il premio Stercorario i grillini la posero al quinto posto fra i giornalisti più odiati, dietro ad Alessandro Sallusti e davanti a Gad Lerner.

«Ragionano per insulti, non su quello che dici. Gli argomenti complessi li disorientano. I politici al potere non mi hanno mai amato».

Perché ha offerto una ricompensa a un killer affinché uccida Matteo Salvini?

«Che idiozia. Era solo un commento ironico ai sette modi surreali suggeriti dal vignettista Vauro per sbarazzarsi del vicepremier, il primo dei quali prevedeva di recapitare a Salvini un mega barattolo di Nutella».

Chi può fermare Salvini?

«Il buonsenso. Paragonarlo a Benito Mussolini è del tutto inopportuno. Il Duce ha cercato in Africa lo “spazio vitale”. Non ha costruito muri, ma colonie. Questo qui ci fa perdere tempo a parlare di barconi mentre la Libia è in guerra. Intanto arriva la Cina che investe 40 miliardi nel Continente nero. Salvini insegue solo i più beceri che gli danno ragione sui social. Sarò pazzo, ma vorrei un leader che indicasse una prospettiva».

Il capo della Lega non la indica?

«Quando voleva uscire dall’Europa, non avendo ancora capito che la maggioranza degli italiani intende restarci, gli chiesi: scusa, e dopo? “Anche su una zattera, purché fuori dall’Ue”. Testuale».

Mi dia una definizione di Berlusconi.

«Uomo di straordinaria intelligenza, che nel 1994 fu capace come nessun altro d’intuire una svolta epocale. Aveva promesso la rivoluzione liberale e invece è stato ingoiato dalla burocrazia immobile. La stessa fine che farà Grillo».

Celentano le telefonò dieci minuti dopo la spolverata alla sedia: «Quest’uomo non può governare il Paese». Però l’ultimo show, «Adrian», un flop stellare, lo ha venduto a una tv di Berlusconi.

«Se la Rai non lo vuole, che deve fare un artista? Quando sei Michelangelo, è faticoso rinunciare a dipingere».

Le piacerebbe tornare in Rai?

«È la casa dove sono nato, ma vivo bene anche lontano dalle telecamere. A via Teulada avevo un intero piano. Dopo l’editto bulgaro mi lasciarono solo una stanzetta. Due anni senza lavorare. Era la più bella tv d’Europa e divenne la più povera, fatta su misura per Berlusconi».

Il suo maestro chi è stato?

«Angelo Guglielmi, il direttore di Rai3. Tu parlavi e lui intanto soffiava su una carta velina, come se fosse un’armonica. Era il suo modo di ascoltarti».

Il miglior direttore generale della Rai?

«Biagio Agnes. Trattava alla pari con i politici. Impose la terza rete. Al Tg3 prima ci disputavamo le poche macchine per scrivere della redazione».

Mentre Enzo Siciliano, quand’era presidente della Rai, a chi gli faceva il suo nome rispondeva: «Michele chi?».

«Però prima di andarsene mi chiese scusa. Sono l’unico direttore votato all’unanimità, su indicazione del presidente Letizia Moratti, che non fu mai insediato in un tg. Il dg Raffaele Minicucci bloccò la nomina per ordine del Pds. Mi risarcirono garantendo autonomia a “Tempo reale”. Appena Romano Prodi vinse le elezioni, la struttura fu sciolta».

La sua allieva Giulia Innocenzi è ridotta a presentare i riassunti delle «Iene».

«“Le Iene” sono lontane anni luce dal mio modo di fare giornalismo».

Dicono che lei costi un botto.

«Ci sono stati momenti in cui mi sono fatto pagare molto. Altri, come con “Italia” e “M”, quasi niente o molto poco».

Con la televisione si è arricchito?

«No, benché mi descrivano come un plutocrate. Mi sono liberato dal bisogno, anche di lavorare. Un minatore italiano in Belgio mi rimproverò: “Non date del ricco a Berlusconi. Gli fate un complimento. La ricchezza è un valore”».

Ha nostalgia dei politici di ieri?

«Li ho combattuti, da Giulio Andreotti a Bettino Craxi. Ma non c’è paragone con i nani di oggi».

Si considera obiettivo?

«Onesto. Non racconto cose false».

Si è definito «un uomo ambiguo».

«Ho sfaccettature complicate. Non smentisco chi mi dà del comunista. Ma credo nel mercato e nella meritocrazia».

Giuliano Ferrara la bollò così: «La tv di Santoro è barbarie, un marchingegno in tutto simile alla gogna che intrappola i suoi fedeli spettatori nella festa degli inganni».

«Siamo gemelli diversi. Però io non sono mai entrato in un governo. E ho intrappolato molto più pubblico di lui».

Si ritiene vanitoso?

«No. Tutt’al più presuntuoso».

Eppure si tinse di biondo i capelli per sembrare più giovane.

«Mi ero distratto e il parrucchiere me li schiarì troppo. Ora me li taglia Roberto D’Antonio, che è un mio grande amico».

Come s’immagina da vecchio?

«Cioè come mi vedo oggi? La vecchiaia è una brutta bestia. Non temo la morte, e infatti ho sempre rifiutato la scorta. Mi spaventa la decadenza fisica».

Mi confessi qualcosa che non ha mai detto a nessuno.

«In quella trasmissione con Berlusconi e Travaglio, assunsi una posizione sbagliata. Accettai che salisse la temperatura, come se il duello non mi riguardasse. Rinunciai a fare il mio lavoro. Uno skipper non abbandona mai la barca».

Sabina Guzzanti: «Espulsa dalla Rai, questa tv non mi manca». Pubblicato mercoledì, 12 giugno 2019 da Renato Franco su Corriere.it. «L’equivoco di fondo è che la trattativa Stato-Mafia viene liquidata in poche parole: qualcuno per impedire le stragi ha concesso qualcosa ai mafiosi. In realtà in ballo c’è molto di più, l’intenzione forte era quella di intervenire nella politica, governarne le scelte, delinearne l’agenda: oggi lo si fa con i troll che forse sono più pacifici, ma il retrogusto inquietante è lo stesso. La domanda da porsi è una: qual è la natura del potere che ha governato questo Paese?». Giovedì Rai2 dalle 21.20 presenta una serata evento con La trattativa, il film di Sabina Guzzanti che con un linguaggio che attinge all’inchiesta, alla fiction e al teatro ricostruisce — intrattenendo — gli anni bui della negoziazione tra lo Stato e Cosa nostra all’epoca della stagione delle stragi.

Nel film lei sposa la linea dell’accusa e l’anno scorso è arrivata la prima sentenza che riconosce responsabilità importanti di uomini delle istituzioni…

«Il punto di vista dell’accusa non sposta la questione: i fatti raccontati nel film sono veri, sconvolgenti, la loro portata terribile si moltiplica, l’impatto è ancora più forte perché svela la complicità di figure istituzionali molto potenti: non si parla di poche mele marce, ma di un sistema, una rete di persone ad altissimi livelli in grado di impedire un’autopsia, far confessare a un carcerato una strage mai commessa, vietare la perquisizione del covo di Riina, far sparire i computer di Falcone e Borsellino…».

L’ex dg Orfeo definì «La trattativa» un film brutto e vecchio… è una rivincita?

«Diciamo una soddisfazione. Appena uscita la sentenza, Freccero, allora consigliere di amministrazione Rai, lanciò la proposta di mandare in onda il film, ma Orfeo lo giudicò inattuale. Quando Freccero è diventato direttore di rete siamo tornati sull’argomento».

La direttrice di Rai1 Teresa De Santis ha candidamente ammesso che l’editore della Rai è il governo. Non c’è speranza di vedere i partiti fuori dal Servizio Pubblico?

«Io sono stata espulsa dalla Rai nel 2003, sono passati più di 15 anni e questa è sempre stata la scusa per ogni censura: la linea editoriale… Visto che non c’è un collettivo di intellettuali che guida la Rai, è chiaro che è il governo: è un modo di gestire il Servizio Pubblico contro cui mi sono sempre battuta. Tenere la politica fuori dalla Rai era uno degli slogan dei 5 Stelle come lo è stato di Renzi, poi però i partiti hanno tutti troppa paura della libertà perché temono che gli vada contro».

Quanta responsabilità ha la tv?

«In questo Paese la tv è la principale fonte di cultura: gli italiani non passano 5 ore al giorno nei musei ma di fronte alla tv. La tv gestita in questo modo ha cambiato la mente delle persone, tanti non hanno spirito critico e di indipendenza, non sanno riconoscere una contraddizione e una menzogna. Se la tv fosse libera magari qualche magagna verrebbe fuori ma non ti troveresti una popolazione così involuta».

Internet ha dato il colpo di grazia?

«Distinguerei tra web e social. Il web resta uno strumento democratico, i social sono invece uno strumento di manipolazione, fatto apposta per creare dipendenza e per controllare la gente. I social non possono essere utilizzati come strumento di dibattito e confronto, come mezzo per approfondire e fare controinformazione. Al massimo sono strumento di intrattenimento come ci ha fatto conoscere bene Zoro».

Lei è stata feroce con Berlusconi, vedendo Salvini e Di Maio lo rimpiange?

«No. Questa politica è figlia del berlusconismo, il populismo l’ha inventato lui, piuttosto chiederei ai molti che lo hanno sostenuto di fare ammenda».

La satira politica è moribonda, concorda?

«Rientra nel discorso generale che facevo. Se non c’è possibilità di esprimere il proprio punto di vista senza dover esprimere la linea editoriale del governo non si può fare satira».

Quindi per lei non ci sarà mai spazio in tv?

«Non credo, non faccio tv da tanto tempo, mi è mancata, ma ormai sono passati davvero tanti anni, sono un’altra persona, ho altri interessi, faccio soprattutto cinema e penso anche mi venga pure meglio. Sono più soddisfatta dei miei lavori cinematografici che di quelli televisivi».

Però ha dato vita a personaggi strepitosi, chi invece le è venuto meno bene?

«Quelli su cui ho potuto lavorare in poco tempo e con meno mezzi, penso a Salvini o alla Serracchiani. Piuttosto una cosa: in tv è più problematico imitare un’autorità come Maria De Filippi che un politico come Berlusconi».

·         Lottizzazione Rai: metodo Palamara.

Le vergini del Pd contro il Tg2. Francesco Maria Del Vigo, Mercoledì 07/08/2019 su Il Giornale. Sembra una barzelletta ma non la è: il Pd denuncia la lottizzazione della Rai. È come se una maîtresse chiamasse la buoncostume per denunciare una sua impiegata. Il Pd. Il partito che nel corso degli anni ha occupato militarmente tutte le poltrone e gli strapuntini di Viale Mazzini: dalle direzioni giornalistiche fino alle portinerie. Il Pd che ha trasformato la tv pubblica in una macchina che propala costantemente il pensiero unico della sinistra buonista. Il Pd che, in piena epoca renziana, giusto per citarne uno, ha chiuso Virus, il programma di Nicola Porro, perché non piaceva abbastanza a sua maestà il premier. Ecco, ora lo stesso Pd punta il dito contro il Tg2 di Gennaro Sangiuliano. Colpevole di dare troppo spazio al vicepremier Matteo Salvini. «Il Tg2 è stato trasformato in TeleSalvini. Senza contare che premier e vicepremier considerati complessivamente hanno avuto 6 volte il tempo del leader del principale partito di opposizione. Mi auguro che i responsabili del Pd presentino al più presto un esposto e che l'Agcom sanzioni sul serio», ha sbraitato su Facebook ieri il deputato del Partito democratico Michele Anzaldi, segretario della commissione di Vigilanza Rai. Ed è la tipica reazione isterica del bambino a cui hanno sottratto il pallone. I democratici sono così abituati a trattare la Rai come fosse cosa propria che, quando qualcuno osa metterci mano, danno i numeri e battono i piedi. Non sono abituati a vedere un tg pubblico che non sia di sinistra e che osi dar voce anche a quell'Italia che loro fingono di non sentire. E il paradosso è che in realtà non è cambiato un tubo in Viale Mazzini: Fazio (non certo in odore di leghismo) continua a fare Fazio, il Tg3 è sempre il Tg3, Saviano compare a reti unificate come fosse Mattarella e la maggior parte della programmazione di attualità e politica è spostata a sinistra. Ma al Pd non basta, vuole il cento per cento del giocattolone statale, vuole ancora Telekabul. E ora ha messo nel mirino il Tg2. Meno male che sono «democratici»...

·         Lavoro alla Rai…Ma quanto mi costi?

Matteo Salvini e Fazio, il leghista Morelli svela lo scandalo Rai: "Quanto paga davvero per Che tempo che fa". Libero Quotidiano il 5 Maggio 2019. Quanto costa davvero Fabio Fazio alla Rai? La guerra tra il conduttore di Che tempo che fa e il leader della Lega Matteo Salvini è iniziata da tempo, con il vicepremier che ha annunciato di voler tornare ospite del talk di Raiuno solo se Fazio si taglierà il maxi-stipendio. "Se lo fa, ci vado anche a piedi", ha provocato il Capitano. Alessandro Morelli, deputato leghista e presidente della Commissione trasporti, su Facebook rilancia con il contratto di Fazio ai raggi X. "Non c'è solo lo stipendio che il conduttore percepisce dalla Rai, di 2,140 milioni di euro - spiega Morelli -. A questa cifra si aggiungono 2,619 milioni di costi di produzione a carico della Rai (trasferte regia, consulenze), 300mila euro alla voce altri costi, 704mila euro per l'acquisizione del format di Che tempo che fa". Finito? No, e Morelli consiglia ai suoi followers di "allacciarsi bene le cinture di sicurezza: ci sono anche 9,937 milioni di euro che finiscono in tasca a Officina, la società che produce il programma. Tutto bene? No, perché Officina è al 50% di proprietà dello stesso Fazio, che dalla Rai dunque oltre al lauto stipendio percepisce anche la metà di questa somma". Tutto chiaro, ora?

Marco Castoro per Leggo il 7 maggio 2019. Non c'è soltanto il caso dei compensi di Fazio Fazio a tormentare i vertici Rai, ma sta sempre più lievitando un altro caso, quello di Bruno Vespa, vista la stagione a dir poco altalenante di Porta a Porta. Tanto per fare un esempio nella scorsa settimana - per ben due volte - il programma della seconda serata di Raiuno ha ottenuto un deludente 7% di share. Martedì scorso ha subito la presenza del Grande Fratello mentre al mercoledì non ha saputo approfittare del traino di Barcellona-Liverpool di Champions League. La Lega ha annunciato ai quattro venti di voler tagliare i compensi più alti, tanto più se gli ascolti non sono stati degni degli investimenti. Quindi per Fazio (e anche per Vespa) all'orizzonte si prevedono sforbiciate agli ingaggi. Tuttavia in Rai non si sa ancora chi comandi tra il presidente Marcello Foa (che risponde a Salvini) e l'ad Fabrizio Salini, che spesso non viene neanche informato su conduzioni e palinsesti, tanto che è stato costretto a ribadire il principio che tutte le decisioni vanno concordate con lui. L'unico interlocutore con cui Salini scambia più parole è l'ex dg Luigi Gubitosi. L'asse Foa-Teresa De Santis potrebbe portare Amadeus a Sanremo, Lorella Cuccarini alla Vita in Diretta, Franco Di Mare alla vicedirezione di Rai1 (sostituito a Uno Mattina da Roberto Poletti, quest'ultimo da sempre stimato dalla Lega ed ex inviato di Mediaset). Inoltre al mattino ci sarà una nuova trasmissione (con Monica Setta?) al termine di Storie Italiane e prima della Prova del Cuoco, i due programmi che torneranno alla durata di due anni fa. Per l'estate dovrebbero trovare spazio Pierluigi Diaco e Lisa Marzoli. Un altro caso riguarda il Tg1. Dopo la rissa tra i vertici, si guarda agli ascolti e alla forbice con il Tg5 che continua a ridursi (merito anche del forte traino di Paolo Bonolis prima e Gerry Scotti poi). Tra il direttore Giuseppe Carboni e la redazione il clima non è idilliaco. C'è chi preferisce tenersi nelle retrovie senza esporsi e chi si agita perché intravede possibilità di ascesa. Dopo che il sindaco di Andria, Nicola Giorgino - fratello di Francesco Giorgino conduttore del Tg1 - ha deciso di lasciare Forza Italia per sposare la causa della Lega, anche il giornalista sta tentando una manovra che lo dirotti su posizioni salviniane. Hai visto mai cercassero un direttore al Tg1 al posto di Carboni? A proposito di direttori del Tg1, l'ex Andrea Montanari potrebbe ottenere l'incarico dall'ad Salini come responsabile dell'Ufficio Studi e Ricerche, allo scopo di qualificare il servizio pubblico (come richiesto dal contratto di servizio stipulato con il Mise). Per quanto riguarda i corrispondenti sembra inevitabile lo scambio di sede tra Pechino e Stati Uniti. Giovanna Botteri andrà in Cina. Bisognerà vedere se Claudio Pagliara andrà a New York o se la Rai riuscirà ad aprire la nuova sede di Washington.

Dall'intervista di Paola Zanuttini per ''il Venerdì - la Repubblica'' il 27 settembre 2019. Durante il Festival di Sanremo gli abituali spot del suo programma vengono cancellati. Per la morte di Camilleri e il decennale di Mike Bongiorno non viene trasmesso neanche un frame dei tantissimi materiali (interviste, omaggi, celebrazioni) dedicati da Fazio ai due personaggi, che amava particolarmente.

Intervista a Fabio Fazio a Circo Massimo su Radio Capital il 27 settembre 2019. “L’ex Ministro degli Interni mi ha attaccato più di 100 volte, una cosa che non lascia indifferenti. Insulti per strada? Uno. Il miracolo è quello, la cosa meravigliosa è la quotidianità, i figli a scuola, al lavoro a piedi o in bicicletta, la vita normale con la sensazione di stima e affetto da parte del paese reale”. Fabio Fazio, intervistato in Circo Massimo su Radio Capital, torna sul suo ultimo anno vissuto pericolosamente, per le pressioni e le intimidazioni ricevute dalla politica e in particolare da Matteo Salvini. “In quest’anno ho imparato molto – spiega - sono in rai da 36 anni ed è stata una bella lezione perché ti accorgi di quelli che improvvisamente non ti sono più amici, quelli che fanno finta di non averti visto. Si impara a capire che devi cavartela da solo”. In questo ambiente e in questo contesto Fazio rivendica i risultati di ascolto. “Abbiamo fatto una media domenicale di quasi 4 milioni con un programma di parola, in prime time. Parlare per tre ore e mezza è un genere complicato, siamo l’unica tv al mondo che lo ha fatto, costando un terzo di una fiction metà di un varietà. Poi si possono fare scelte editoriali diverse, però il dato dei 4 milioni rimane. I programmi che fanno queste medie sono pochi. Poi c’è stata una discussione sul denaro, per me sorprendente. Dopo l’introduzione del tetto dei 240 mila euro il tema vero era se la tv pubblica dovesse stare sul mercato o no. Invece così il denaro inizia a misurare il privilegio e non il merito. E’ come se chiedessi durante una gara formula 1 che un pilota di una squadra guadagni meno degli altri. E’ una cosa forse comprensibile ma solo dal punto di vista filosofico. Io ho sempre pensato che il settore pubblico debba sempre rappresentare l’eccellenza. Negli ospedali, nelle scuole e così via. E l’eccellenza deve essere pagata come minimo come gli altri, quindi il tema non è quanto costa ma quanto costa in relazione a quello che fa guadagnare. Quando gli si ricordano le parole di Roberto Fico, prima che diventasse Presidente della Camera, ‘Fazio, il classico comunista con il cuore a sinistra e il portafogli a destra’, il presentatore risponde che “quando si è vittime di affermazioni massimaliste, per usare un eufemismo, meglio mantenere la calma. Comunista io?  Non me lo posso permettere. Ho un vanto, guadagno molto e conosco il valore del denaro, perché vengo da famiglia dove era un lusso andare a mangiare una pizza. Il mio vanto è che pago le tasse fino all’ultima lira e personalmente trovo che quello sia il grande tema. Non capisco perché l’evasione non sia considerata una rapina a mano armata, è persino peggio che rapinare una banca”. Quando ci sono stati gli attacchi sul suo compenso Fazio ricorda che “non c’è stato un giornale che abbia chiesto alla Rai quanto fa guadagnare questo programma. Possibile che nessuno lo abbia chiesto?”. In un anno 113 attacchi ricevuti da Salvini, contati dallo stesso Fazio. Ora Salvini non c’è più. Riparte da Rai2 con animo più sereno? “Certo – risponde - non si può rimanere dove l’editore non vuole che tu sia. In più sperimento un nuovo segmento dalle 19.30 per uscire dalla logica di quello che deve  vincere la serata. Posso tornare a fare un programma che spero produca sorprese. In fondo dopo 36 anni non ho bisogno di vincere il Telegatto”. Come sarà lavorare con Freccero? “Lo conosco dal 1984. Gli ho detto: ‘ guarda che sono uno dei 2 o 3 che sa, quando parli, in realtà quello che stai pensando’. Con lui si fa televisione e meta-televisione. E questo è un momento in cui la tv è in trasformazione e avremmo bisogno di sederci e chiederci quale ruolo debba avere quella generalista. Per esempio i miei figli guardano le piattaforme, è una generazione geneticamente on demand, non viene in mente che uno vada in onda a una certa ora, sei in onda sempre, è una città di negozi aperti 24 su 24 e 7 su 7. Avere una tv che è un flusso verticale di programmi contraddice la loro fisica”. Inevitabile chiedergli se i figli guardino il suo programma e lui risponde: “a casa mia non esiste una foto che abbia a che fare con la tv o il mio lavoro, non lo chiedo, non ne parliamo mai. I figli aiutano a tenere i piedi per terra e non montarsi la testa”. “La tv – spiega ancora Fazio - non è più quella pedagogica o dell’eccellenza. E’ una tv talmente piena, pop, non è  più un negozio, è un centro commerciale. E’ come lamentarsi che dove c’era biblioteca ora c’è un parcheggio. Ma se tu la biblioteca non l’hai mai vista…”. Poi guardando alla stagione che verrà si torna a citare Freccero con il suo auspicio di un 8% di share. “Raidue la domenica viaggiava tra 4 e il 6 – spiega - tutto ciò che è sopra funziona. Se davvero alla fine dell’anno arrivassimo all’8% sarebbe un risultato eccellente. Non la vedo facilissima però non voglio fare lo scaramantico”. Che Tempo Che Fa arriva è arrivato alla diciassettesima edizione. Fazio si è stancato? “Sì, l’ho pensato molte volte – risponde - ma con narcisismo evidente dico anche che il talk è difficile chiamarlo lavoro. In questi anni ho imparato tantissimo, ogni settimana cambio ospiti, studio le biografie, i libri, i film. E’ un modo per alimentare la curiosità. Non è un programmi ripetitivo di giochi. Poi in mezzo ho fatto due Sanremo e tante altre cose. Comunque non escludo che con Carlo (Freccero) si possa pensare a qualcos’altro. Quest’anno faccio un programma con dentro tre programmi, con un cast di giganteschi professionisti e con loro si può immaginare un gioco ormai molto raro, quello dell’improvvisazione, una cosa di arboriana memoria. Vivo l’avventura con allegria ed entusiasmo e chissà che non sia la fonte di nuove cose”. 

Che soldi che fa re Mida Fazio. La Buonismo spa va forte. Francesco Maria Del Vigo, Domenica 01/12/2019 su Il Giornale. Fabio Fazio è un genio dell'economia. Altro che Piketty. A sinistra hanno un mago dei conti (dei suoi conti, ovviamente) e non ce l'hanno mai detto. L'hanno tenuto chiuso nel cassetto, anzi nel suo salotto catodico radical chic. Uno così, come minimo, andrebbe messo al ministero dello Sviluppo economico. Prima i fatti. Ieri il Sole-24 ore ha pubblicato un articolo, interessantissimo e puntualissimo, sul conduttore di Che tempo che fa. Dunque, Fazio è proprietario al 50 per cento (l'altra metà è di Magnolia spa) di una società, L'Officina srl che realizza il suo programma. Questa società, nel 2018, ha triplicato i ricavi arrivando a 11,05 milioni di euro. Una montagna di soldi. Da dove arriva questo tesoretto? Dalla Rai, perché L'Officina srl si occupa esclusivamente di Che Tempo che fa. Ricapitoliamo: Fazio ha una società che produce il suo programma e poi lo vende alla Rai. Quindi sarebbe logico pensare che con la sua quota milionaria della Officina srl Fazio si pagasse anche lo stipendio. Manco per il cavolo. Perché il conduttore prende un emolumento da viale Mazzini di altri 2,24 milioni all'anno per quattro anni. Anche se in realtà il programma costa molto di più alla Rai che deve pagare costi di rete, scenografia, regia, redazione e tutto il resto fino a raggiungere i 18,3 milioni l'anno, che in quattro anni fanno 73 milioni. Davanti agli introiti di Fazio ci togliamo il cappello. Per riuscire a farsi dare più di una decina di milioni di euro all'anno da un'azienda pubblica (che vive, tra le altre cose, con il nostro canone) ci vuole senza dubbio talento. Però il caro (in tutti i sensi) Fazio, a questo punto, dovrebbe spogliarsi di quell'aura da monaco laico custode del buonismo nazionale. Non è un missionario, ma l'amministratore delegato della Buonismo Spa, cioè una azienda che macina milioni di euro spandendo a piene mani una (non) cultura fatta di terzomondismo, immigrazionismo, pauperismo e anticapitalismo. Chiuda nell'armadio quella finta mestizia nella quale cerca di intabarrare malamente una superbia che è disprezzo per tutto quello che esce dalla sinistra da terrazza romana. Smetta di fingersi sempre censurato, attaccato, ridimensionato, messo all'indice. Fazio è un privilegiato che sa fare benissimo i propri interessi. In questo è molto bravo, non se ne vergogni. Ps. E magari, visto che viene generosamente pagato dalla tv di Stato, Fazio eviti di santificare in prima serata una come Carola Rackete, che ha speronato una nave dello Stato per portare dei clandestini in Italia. Si tenga il bottino. Ma almeno non ci faccia la morale: è credibile come una pornostar che impartisca lezioni di verginità.

Salvini: "Fazio fa la morale, ma tiene il portafoglio a destra". Il leader leghista stronca il buonista Fazio per gli 11 milioni pagati dalla Rai: "Tra carolanti e clandestini fa la morale, ma il portafoglio lo tiene a destra". Chiara Sarra, Domenica 01/12/2019 su Il Giornale. "Fa la morale col portafoglio a destra". Dopo le indiscrezioni degli 11 milioni di euro che la Rai avrebbe versato alla società Officina srl per Che tempo che fa, Matteo Salvini va alla carica di Fabio Fazio, socio della stessa azienda.

È bufera sui costi di Fabio Fazio. E lo fa con due post in poche ore sulle sue pagine social. Già ieri sera, infatti, il leader della Lega lo aveva indicato tra i "compagni milionari", condividendo l'articolo di Dagospia che a sua volta riprendeva quello de ilSole24ore che svelava i conti del programma di Fazio. E oggi torna all'attacco: "Tra carolanti e clandestini, fa la morale agli italiani da sinistra, ma il portafoglio, a quanto pare, lo tiene saldamente a destra...", scrive l'ex vicepremier. La questione dei soldi percepiti da Fazio - 11 milioni alla sua società che produce il programma e 2,2 milioni a lui in qualità di conduttore - è diventata un caso. Che arriverà presto in Vigilanza Rai: "Il problema dei costi è uno dei capitoli noti di Fazio", ha spiegato già ieri sera all'agenzia Adnkronos il commissario Maurizio Gasparri annunciando un'interrogazione, "Bisognerà discutere per capire come questa crescita di cifre si rifletta sui costi della Rai, quindi occorre un'analisi dettagliata. Non da oggi sono tra coloro che hanno espresso storicamente perplessità su Fazio, sui suoi costi, sui privilegi di cui ha goduto in Rai occupando spazi prelibati di Rai1 ma affondando negli ascolti. Ci sono voluti anni per fare passare Fazio su Rai2, che non è una discarica degli scarti ma è una rete della Rai. Non è l'ammiraglia ma non è neanche un canale sperimentale. Quindi azzoppare Rai2 e caricare di questi costi ingenti un'altra rete non è stata una scelta saggia". Gasparri punta il dito anche contro la "faziosità evidente del conduttore", da sempre idolo dei buonisti anche perché porta nel suo salotto domenicale personaggi come Carola Rackete, Roberto Saviano e altri beniamini della sinistra: "Non più tardi di martedì scorso, parlando proprio in Vigilanza, ho sollevato il problema della domenica nera della Rai che ha avuto Bonafede su Rai1, Gentiloni, Carola Rackete, Saviano da Fazio, la Lamorgese e Calenda dall'Annunziata. Con i costi di Fazio si potrebbe fare una bella fiction che resta tutta la vita", ha concluso Gasparri. Dal canto suo Fazio, che proprio ieri ha compiuto 55 anni, non ha ancora replicato. Lo farà stasera durante la trasmissione?

 DAGONOTA il 10 dicembre 2019.  - L'archiviazione della Corte dei Conti che dovrebbe ''scagionare'' Fazio in realtà serve solo a mettere in chiaro il problema: se ''Che tempo che fa'' viene paragonato a un programma di intrattenimento della Rai, come ad esempio ''Tale e Quale Show'', ''Ballando con le Stelle'' o ''Ora o mai più'', è chiaro che costa di meno: gli ospiti da Fazio vengono gratis perché hanno qualcosa da promuovere, che siano seduti sulla poltroncina o dietro a un microfono. Un programma di intrattenimento di prima serata in Rai, invece, ha vari ospiti ''vip'' da pagare, riprese esterne, settimane di prove, scenografie complesse, eccetera. Come abbiamo letto sul ''Sole 24 Ore'', il programma di Fazio costa alla Rai 18 milioni di euro l'anno, anche perché il rivoluzionario format è di proprietà del presentatore – che si è cancellato dall'ordine dei giornalisti quando iniziò a fare le pubblicità del Lotto – e che oltre allo stipendio da 2,2 milioni incassa i dividendi della società ''L'Officina'' di cui possiede il 50%. Vorremmo sapere invece quanto costa rispetto a programmi davvero comparabili, tipo ''Porta a Porta'', dove ci sono sempre ospiti seduti su una poltroncina e ogni tanto un intermezzo musicale. E' chiaro che se si paragona Fazio a una trasmissione che costa 100, lui potrà giustamente dire ''costo 30, quindi date 20 a me e risparmierete comunque''. La vera domanda, che non ebbe risposta quando fu rinnovato il contratto da Mario Orfeo per 4 anni blindati, è se esiste un mercato là fuori che pagherebbe altrettanto le sue interviste-promozioni. Chissà se lo sapremo mai…

Da ilfattoquotidiano.it il 10 dicembre 2019. Lo stipendio da 2,2 milioni di euro annui di Fabio Fazio “è regolare”. La Corte dei Conte del Lazio ha deciso di archiviare l’inchiesta aperta dopo l’esposto del deputato Pd Michele Anzaldi. Secondo i magistrati contabili non c’è danno erariale perché, si legge nelle motivazioni riportate da Il Messaggero, il costo delle puntate “è stato inferiore del 50% rispetto al costo medio dei programmi di intrattenimento Rai“. Inoltre, i ricavi e lo share sono stati in linea con le aspettative. Viene anche sottolineato, dato un parere dell’Avvocatura di Stato, che nella tv pubblica le “prestazioni artistiche” non sono limitate ai 240mila euro annui, tetto previsto invece per i dirigenti. Esulta il conduttore ligure 55enne: “E dopo un linciaggio durato anni, questo è l’ovvio finale: #ctcf ha un costo puntata inferiore del ‘50% della media dei programmi di intrattenimento Rai'”, si legge su Twitter. Fazio lamenta anche che “nel frattempo #ctcf (Che tempo che fa, il suo programma, ndr) è su Raidue, il mio contratto è stato rivisto e il danno di immagine subito è ormai subito”. Da quest’autunno infatti la trasmissione condotta da Fazio va in onda sulla seconda rete nazionale, dopo la decisione di spostarlo da Rai1. Contestualmente il suo stipendio era stato ridotto (del 10%) in linea con la politica di razionalizzazione su costi e compensi portata avanti da Viale Mazzini.

Michele Anzaldi su Facebook: Caso Fazio: in certi casi il silenzio è d'oro e lo sarebbe stato per lui e per i giudici. Il mega contratto milionario alla sua società fu giudicato anomalo e non conforme dall'Anac di Cantone (Delibera n. 173 del 21/02/2018), che trasmise l’indagine alla Corte dei Conti e chiese la verifica della magistratura contabile, a seguito del mio esposto. Vedremo cosa scrive su questo la Corte dei Conti nella sua sentenza, che ad oggi nessuno ha ancora letto. A giugno 2017 la Rai approvò un taglio del 10% a tutti i compensi degli artisti, ma a Fazio fu garantito un aumento del 50% con tanto di appalto alla sua nuova società, che al momento della decisione del Cda ancora nemmeno esisteva. Tutto regolare? Per l’Anac no. Per la Corte dei Conti, invece, sì? Lo vadano a dire ai tanti sindaci che spesso sono stati sottoposti a multe ed estenuanti controlli per errori da pochi euro.

Il giorno in cui Craxi ordinò: «Riducete lo stipendio alla Carrà». Lo scontro tra Salvini e Fazio è un film già visto in Rai. L’allora presidente Zavoli fu convocato a Palazzo Chigi insieme al demitiano Biagio Agnes. Alla fine il leader socialista dovette cedere a Raffaella. Francesco Damato il 7 Maggio 2019, su Il Dubbio. Ogni tanto sento e leggo di assonanze, o qualcosa del genere, fra Matteo Salvini e il compianto Bettino Craxi, complici anche le simpatie leghiste vigorosamente espresse, nella franchezza del suo stile, da Maria Giovanna Maglie. Cui le simpatie allora per Craxi costarono il posto all’Unità, lo storico quotidiano comunista fondato da Antonio Gramsci nel 1924. E purtroppo scomparso dalle edicole, nonostante tutti i tentativi compiuti di salvarlo, insieme, dalla caduta del comunismo e dalla crisi crescente della carta stampata. Anche a Craxi, bisogna riconoscerlo, furono applicati in vignette e articoli di invettiva politica e culturale, panni, immagini e categorie del fascismo per il suo piglio decisionista. Che mai si avventurò tuttavia sul terreno dove si è spinto Salvini soprattutto per un’emergenza del fenomeno migratorio solo sfiorata con gli sbarchi degli albanesi in terra pugliese negli anni in cui Bettino era ancora sul campo come componente decisivo di una maggioranza di governo. Ma già avvertiva, il leader socialista come delegato dell’Onu per la soluzione dei debiti dei Paesi africani, la polveriera che avrebbe potuto diventare quel continente per l’Europa e la sua capacità, oltre che volontà, di raccoglierne i fuggitivi dalle guerre e dalla povertà. L’ultima occasione che ho colto per paragoni fra Salvini e Craxi è l’offensiva aperta dal "capitano" leghista contro i compensi della Rai a Fabio Fazio, al cui salotto televisivo Salvini ha ordinato ai colleghi di partito di non affacciarsi neppure sino a quando il conduttore non si sarà rassegnato alla riduzione dei suoi emolumenti in corso di tentativo da parte degli amministratori dell’azienda pubblica. Che non sono rimasti insensibili, diciamo così, alle proteste di Salvini per un costo del contratto considerato eccessivo, in questi tempi peraltro di magra, per un ente di Stato: 2 milioni e 240 milioni di euro per la sola conduzione della trasmissione Che tempo che fa per ciascuno dei quattro anni della durata, più una decina di milioni per la società di produzione del programma co- posseduta dallo stesso Fazio. Il precedente attribuito a Craxi è quello del 1984, quando l’allora presidente del Consiglio – peraltro alle prese con un intervento, contestatissimo dall’opposizione comunista, per tagliare di qualche punto la scala mobile dei salari anche modesti in funzione antinflazionistica – prese posizione contro un contratto triennale che la Rai presieduta dal socialista Sergio Zavoli stava negoziando con Raffaella Carrà. Zavoli fu persino convocato a Palazzo Chigi dall’allora sottosegretario Giuliano Amato per parlarne. E si presentò, sostenuto dal direttore generale Biagio Agnes, demitiano di ferro, per difendere il contratto, non per rinunciarvi. Fu decisivo contro l’intervento di Craxi l’invito formulato anche da Silvio Berlusconi alla Rai a ridurre i costi delle produzioni televisive calmierando in qualche modo i compensi. Il solo sospetto che il Cavaliere di Arcore, già sostenuto dai socialisti nella sua avventura televisiva, e relativa concorrenza all’azienda pubblica di viale Mazzini, potesse ricavarne un vantaggio bastò e avanzò per vanificare il tentativo craxiano di bloccare o ridurre la portata del contratto alla Carrà. L’affare Fazio, chiamiamolo così, è ben diverso da quello dell’allora già lady dello spettacolo televisivo: ben diverso per gli importi in gioco e per l’incidenza dell’informazione del programma passato dalla terza alla prima rete televisiva della Rai e caduto sotto l’attenzione del leader leghista. Che, secondo me, sottovaluta il rischio di faziosità, intesa sotto tutti i sensi, cui si espone la sua ostinata azione di contrasto. Un politico dovrebbe tenersi lontano da ogni polemica, non dico poi dal sostanziale boicottaggio che è un ordine o semplice consiglio di desistenza dalla partecipazione, quando si affaccia a una finestra informativa. Il confine tra la critica e la censura si fa allora troppo labile perché il politico, di qualsiasi livello egli sia, non ne esca danneggiato. Anzi, più lui è leader, tanto più ci rimette. Mi stupisco, francamente, che il vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno non se ne sia reso ancora conto. Dirò di più. Oltre a impedire a Fazio di rispettare la cosiddetta par condicio in campagna elettorale, rifiutando i suoi inviti, Salvini si perde l’occasione di trasmettere attraverso di lui messaggi al pubblico sicuramente più utili, ed efficaci, di quelli passati attraverso conduttori televisivi più disponibili o carini. E certamente ve ne sono, senza bisogno di farne i nomi. Sono consigli, naturalmente, non richiesti e molto probabilmente neppure graditi.

·         Chiudere la Rai.

FARE IL DIRETTORE DEL TG1? UNA VITACCIA. Paolo Bracalini per “il Giornale” il 12 aprile 2019. Se la Rai è lo specchio fedele di chi comanda a Roma, il direttore del Tg1 «è come un ministro dell' esecutivo», racconta Carlo Rossella, approdato alla guida del primo Tg Rai nel '94, epoca Letizia Moratti, che gli propone l' incarico con una telefonata mentre lui è in vacanza a Lampedusa. «Potevi rimanere là», dirà uno dei giornalisti del Tg1 alla prima assemblea di redazione di Rossella, arrivato in quota berlusconiana e, quindi, guardato con sospetto. È uno dei dieci direttori interpellati da Ida Peritore (Sua Maestà il TG1. Dieci direttori svelano 30 anni di segreti, Male Edizioni), giornalista storica del Tg1 che, conoscendo l' azienda e il telegiornale in cui lavora, introduce il libro con la famosa massima del Gattopardo: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Tutto cambia in Rai, e al Tg1, per restare in eterno com' è. «Quando la Rai diceva che si dovevano fare (...) (...) le assunzioni, chiedevo ai partiti una rosa di possibili candidati, i nomi li sceglievo io in questa rosa. Alcuni li conoscevo già, come Vincenzo Mollica, ho assunto anche Mentana», racconta Nuccio Fava, bis-direttore del Tg1 in due bienni diversi. La Peritore, entrata in Rai dal quotidiano Il Popolo e quindi in quota Dc, spiega che, oltre all' eterna spartizione di tg e canali (oggi tocca a Lega e M5s, più briciole per gli altri), c' è sempre stata anche la «zebratura», ovvero «far convivere nello stesso Tg quote di democristiani, socialisti, comunisti, repubblicani, socialdemocratici, liberali e così via. Con gli anni, sono cambiati i partiti, ma i criteri sono sempre rimasti lottizzatori». Bruno Vespa cade in disgrazia con il crollo della Dc nel '93 di Tangentopoli, pagando il prezzo di aver detto la verità come direttore del Tg1 («il mio editore di riferimento è la Dc»). Quella frase «mi mise contro gli ipocriti assunti quasi tutti per segnalazione politica, mentre io avevo vinto un concorso. Ma li capisco. Negli anni successivi sono venuti da me quasi tutti a dirmi che avevano sbagliato», racconta Vespa. Dopo le dimissioni dal Tg1, rimane nell' ombra per quasi due anni («Fui l' unico testimone nel '93 della visita di Scalfaro e Giovanni Paolo II ai luoghi dell' attentato di San Giovanni in Laterano. Mi fu detto di fare il servizio senza che si vedesse la mia faccia») prima di tornare con Porta a porta e restarci ininterrottamente fino ad oggi. Nel '96, dopo una brevissima stagione di Rodolfo Brancoli, viene chiamato Marcello Sorgi. Che ricorda: «Al Tg1 ho capito che le pressioni politiche sono inversamente proporzionali al peso dei partiti che le fanno: così il maggior numero di telefonate le ricevevo dai leader delle formazioni minori!». Cambiano i governi, cambia il direttore del Tg1 dove nel '98 viene promosso un interno, Giulio Borrelli. «Prodi, presidente del Consiglio dell' epoca, nonostante avesse altre simpatie, non mi considerava un nemico - racconta Borrelli -. Questa sua posizione spianò la strada alla mia nomina a direttore negli anni del centrosinistra», ma due anni dopo viene silurato dal dg Celli per far posto a Gad Lerner, «vivace intellettuale di sinistra, molto legato a Prodi». Lerner (che non si è fatto intervistare perché «preferisce non rinvangare il passato») al Tg1 resta pochissimo, travolto dallo scandalo delle immagini di bambini vittime di pedofilia. «Forse la più brutta pagina del Tg1», raccontano i due capiredattori del politico Cesare Pucci e Giorgio Balzoni. Istruttivo anche il racconto dell' esordio di Lerner in redazione: «Fu subito circondato da colleghi ansiosi di farsi conoscere e, all' occorrenza, buscare qualche grado in più. Ognuno voleva mettersi in sintonia con Gad e prevenire i suoi desideri». Clemente Mimun (direttore dal 2002 al 2006) ricorda come «pessimo» il clima trovato al Tg1: «Si sentivano, incomprensibilmente, i migliori, ma in generale la presunzione superava le capacità. E anche la pressione dei partiti, soprattutto di sinistra, a favore di questo o di quello, si rivelò a livelli record». Complicata anche l' esperienza di Augusto Minzolini al Tg1: «In quel telegiornale è molto difficile cambiare qualcosa, sei assolutamente bloccato. C' è una cultura dominante cattocomunista che ha come unico obiettivo conservare il potere».

UN PIGNORAMENTO DA OSCAR. Da “il Giornale” il 12 aprile 2019. Un pignoramento da 144.342 euro per Oscar Giannino, allora direttore di «LiberoMercato», per aver scritto nel 2008, basandosi su un documento di cui continua a rivendicare l' autenticità, che la Rai è lottizzata e che solo una minoranza di giornalisti è assunto non in base all'appartenenza partitica. Giannino, che oggi lavora da libero professionista, spiega di non avere soldi per ripagare coloro che hanno vinto la causa civile contro di lui e rifiuta sui social di accettare denaro che suoi fan gli vogliono mettere a disposizione in una colletta virtuale. «L'organigramma Rai pubblicato contava 900 nomi di dirigenti tra società e controllate», redatto «in prossimità elezioni e i componenti del cda si preparavano alla battaglia» scrive Giannino.

Da Affari Italiani il 12 aprile 2019. “Non sono fatto abbastanza bene per capire che l'informazione in Italia deve stare accuorta come si dice a Napoli, attenta e accomodata, perché se vuoi fare il free lance senza editore padrone, che ti copre anche in tribunale, allora poi non ti puoi lamentare se al cane sciolto di lingua troppo lunga arrivano mazzate”. Si conclude così su Facebook l’amaro sfogo di Oscar Giannino, volto noto del giornalismo italiano, condannato il 4 marzo dal tribunale, per effetto di un procedimento civile, a dover pagare 144.342 euro, come ristoro, a numerosi dirigenti Rai per un editoriale del 7 febbraio 2008 in cui come direttore di Libero Mercato (testata separata da Libero ma che usciva in abbinata) pubblicava un organigramma della tv di Stato di 900 nomi di dirigenti tra società e controllate, nomi per la maggior parte già segnati in rosso o blu a seconda del padrinaggio politico. Un documento di provenienza interna di cui Giannino dà contezza senza però citare nel suo articolo “uno solo degli oltre 900 impilati”. “Era un documento di provenienza interna dal settimo piano Rai di allora - si avvicinavano elezioni e i componenti del Cda si preparavano alla battaglia, ciascuno per la propria parte stilando elenchi", scrive poi il giornalista conduttore del programma mattutino di Radio 24 “24 Mattino-Morgana e Merlino”. Che prosegue: "Non un solo nome risultava sbagliato, di oltre 900 citati in testate, reti e società controllate: un documento tale non era certo collazionato da appassionati della Rai esterni all'azienda. Era una delle tante prove di come dall'interno della Rai ci si disputi il campo guardando ai partiti e alla politica. Solo che quella volta il documento c'era, e i nomi c’erano. Nessuno era mai riuscito ad averne uno tanto dettagliato, feci le telefonate del caso per accertarne fondatezza e lo pubblicammo su Libero integralmente. Io scrissi l’allegato”, senza citare “uno solo degli oltre 900 impilati in quei fogli che, squadernati, occupavano mezza scrivania”. Giannino spiega che il suo problema di deontologia giornalistica “non era confermare o meno la presunta ascrizione, simpatia o sostegno di ciascuno di quei signori dirigenti funzionari e giornalisti a questo o quel partito. La valutazione di rendere noto il documento - sottolinea - derivava dalla sua caratteristica di oggettiva ed esistente veste documentale, aveva una innegabile portata tale da configurare il diritto-dovere di cronaca e la collegata libertà di opinione”. “La mia valutazione - prosegue nel post - fu questa: l'ampiezza e dettaglio di questo documento comprova i criteri usati per confrontarsi ai piani alti Rai e per interloquire con la politica, il punto non è che si tratti di un documento ‘ufficiale’, che ne so della segreteria del Cda o della direzione generale, il punto è che esso rappresenta un'attendibile prova di come in Rai ciascuno dei diversi partiti interni ed esterni valuta e decide. Nell'editoriale lo scrivo anche, che la questione non è la natura ‘ufficiale’ del documento”. Ora Giannino, pignorato al Sole 24 Ore (Radio 24 è l'emittente del gruppo) per oltre 140 mila euro, non essendo dipendente ma collaboratore a contratto, non ha la tutela del quinto dei compensi come massimo pignorabile e, dopo aversi visto anche congelare in banca conto e ogni carta credito e bancomat, è stato costretto a ricorrere a un ingente prestito per pagare il ristoro e, precisa, “ottemperare alle sentenze”. Ma, dopo aver riconosciuto alcuni errori della sua carriera, sottolinea poi: “Ora, su questa sberla economica incredibile comminatami per aver scritto di fronte a un documento con 900 nomi che la Rai è lottizzata e che per questo va privatizzata, sia nella sua componente commerciale che in quella di servizio pubblico, che può essere benissimo messo a gara anch'esso con standard fortemente vigilati da una preposta autorità, io non solo l'errore proprio non lo vedo, ma lo rifarei con assoluta certezza cento e mille volte: perché ne sono convinto da una vita, e sfido chiunque a provarmi fattualmente che la Rai non è lottizzata e in mano ai partiti". "Hanno trasformato - scrive ancora - il canone in tassa su detenzione dei device ricettivi per eludere la volontà espressa dal popolo nel referendum del 1995, hanno messo il canone-non-canone in bolletta elettrica, continuano a ogni stagione politica con infornate di nomine decise da segretari e tirapiedi dei segretari dei partiti, e il colpevole da condannare a metter mano al portafoglio sono io? Sono io che danneggio la credibilità professionale e personale dei dirigenti Rai?". "Oggi a riscrivere quell'editoriale - conclude - cambierei certo una cosa: i colori politici rispetto ai partiti di allora. Allora dominavano i rossi della sinistra in lotta contro i blu del centrodestra. Oggi l'infornata grillo-leghista prevarrebbe, con molti residui storici dei due precedenti fronti della seconda repubblica. Ma userei lo stesso tono duro: non sui dirigenti Rai visto che non ne citavo neppure uno, ma sui partiti che attaccano la Rai dei partiti solo quando sono all'opposizione, e poi al governo fanno come tutti e peggio di tutti. Senza eccezioni”.

RAI DA CHIUDERE. Aldo Grasso per il ''Corriere della Sera'' il 5 aprile 2019. Ho seguito per qualche giorno il Tg1 delle 20, condotto da Alberto Matano, e ne ho ricavato un senso di tristezza. Da sempre si ripete lo stesso, stanco rituale: Conti, Di Maio, Salvini più qualche ministro tipo Fraccaro o Bonafede, la descrizione dei mirabolanti passi in avanti del governo, voce all' opposizione (il fratello di Montalbano non ha un grande carisma), cronaca. Non so da quanti anni l' impaginazione è sempre la stessa, così come la dichiarata vocazione filogovernativa. Ma ha ancora senso una Rai così? Possiamo ancora parlare di servizio pubblico? Scrivo queste cose con serenità perché me ne sono occupato già in passato, quando il governo era di centrodestra o di centrosinistra (ho scritto che l' ad Antonio Campo Dall' Orto è stato cacciato da Viale Mazzini perché Renzi non lo riteneva sufficientemente asservito alle necessità immediate del Pd). Anche il «governo del cambiamento» aveva promesso novità, invano. La Rai continua a essere considerata un ghiotto bottino di guerra. La Rai possiede 15 canali televisivi e 12 canali radio, una potenza di fuoco enorme se si pensa al mercato dell' audiovisivo in Italia, potendo contare sul canone coatto. Nei vincoli di genere previsti dal cosiddetto «contratto di servizio», la Rai vanta il 30,9% d' informazione. Ma se l' informazione è quella del Tg1, o quella del Tg2, è un mero calcolo quantitativo che non tiene conto del «pluralismo», uno dei fantasmi su cui si regge l' idea di servizio pubblico. Onestamente, nel corso di un anno, quanti programmi attuano lo spirito del servizio pubblico? Li possiamo contare sulle dita di due mani, non di più. Siccome molti studiosi concordano sul fatto che questa nozione è ormai incrostata di mitologie, fraintendimenti e illusioni di cui dovremmo sbarazzarci, forse sarebbe più giusto ammettere che il servizio pubblico non esiste più. Esiste solo nel canone.

LA RAI CHE NON VORREI. Chiara Maffioletti per il ''Corriere della Sera'' il 4 aprile 2019. Il 29 aprile saranno otto anni. Tanto è passato da quel pomeriggio in cui la vita di Lamberto Sposini è cambiata per sempre e, assieme alla sua, quella delle persone che gli vogliono bene. Era al lavoro, in Rai, pronto per andare in onda. Ma un' emorragia cerebrale ha sconvolto ogni cosa e un uomo «che fino a quel momento aveva fatto della parola la sua esistenza, si è ritrovato a non poterla usare più», dice Sabina Donadio, ex compagna del giornalista. Con lui ha avuto una figlia, Matilde, che oggi ha 17 anni. Anche lei non vede l' ora che si concluda il processo con la Rai, per accertare i ritardi e le negligenze che avrebbero compromesso non poco lo stato di salute di suo papà: la sentenza di primo grado negava questo, ma è stata impugnata. Da mesi un collegio di giudici ha invitato le parti a trovare un accordo extragiudiziale, ma dalla Rai tutto tace e la proposta (in primo grado erano stati chiesti 11 milioni di euro, ora l' accordo si raggiungerebbe con 350 mila euro) non è mai arrivata. La prossima udienza d' appello è fissata per il 21 maggio.  «Vorrei fosse chiaro che per noi non è una questione economica. Lamberto ha bisogno di cure costanti, ma il punto non è questo. Ci piacerebbe che, umanamente, la Rai fosse un interlocutore diverso, perché non si può liquidare così quello che è successo». In questi anni, l' ex compagna ha «tentato con tutti i presidenti della Rai di turno, con tutti i dg, di far presente la situazione. Non ultimo Salini, che non era a conoscenza di tutti i dettagli e si è dimostrato piuttosto sensibile. Ma dopo un po' se ne dimenticano sempre». L' avvocata Ada Odino, che tutela Matilde, spiega: «Quello che manca è proprio un riconoscimento di quello che è successo al padre. Dalla famiglia viene considerato più il lato morale che economico: è quello che ferisce. Si sarebbero aspettati un gesto riparativo. Parliamo di una bambina per cui il padre era un supereroe e di colpo si è trovata ad accudirlo. Resta un supereroe per lei, ma questo mutismo da parte della Rai pare quasi disinteresse». L' avvocato Bruno Tassone, legale di Sposini, è d' accordo: «Stiamo parlando di un conduttore che alla tv pubblica ha dato moltissimo. Inoltre, la Rai rischia una condanna per milioni di euro: perché non arrivare a un accordo che si chiuderebbe con 350 mila euro? Perché continuare questo stato di incertezza?». In realtà, sembra che le premesse per una transazione, ora, ci siano. «A livello di intenzioni - riprende -. Ma in questi mesi in cui è stata sollecitata una proposta non ci è mai arrivato nulla: nemmeno a livello informale, non una mail, una telefonata interlocutoria...». E anche oggi, «essendoci un giudizio in corso», la Rai fa sapere che, a tutela delle parti, ritiene non sia corretto parlare del caso. Ma dietro le vicende legali e tecniche, c' è una persona che, secondo il suo legale, non sarebbe stata soccorsa in modo adeguato mentre era al lavoro: «Il 118 nel centro cittadino garantisce l' intervento in otto minuti. Nel caso di Sposini, ne sono passati quasi 50. Non sono state date indicazioni corrette circa le sue condizioni, tanto che all' inizio si era parlato di infarto, pur avendo sintomi completamente differenti. Al punto che poi è stato portato in un ospedale non attrezzato per fare l' intervento a cui è stato sottoposto solo quattro ore e mezzo dopo. Tutta la letteratura medica spiega che la tempestività in casi come il suo è fondamentale». La domanda, secondo Tassone, è «come sia possibile che un posto come la Rai, in cui passano ogni giorno migliaia di persone, non sia attrezzato per dare le prime cure giuste e nemmeno i primi consigli giusti». Non sarebbe un caso se «dopo la vicenda Sposini le misure sono decisamente cambiate. Quando Fabrizio Frizzi aveva avuto il primo malore, ad esempio, tutto era stato sensibilmente diverso: era stato soccorso molto più velocemente. La mia idea è che sia stato il caso Sposini a indurre il cambiamento». Nel frattempo, lui questo non se lo domanda, e forse nemmeno lo sa. La vita del giornalista oggi è fatta di gioie semplici e di affetto. Tra chi, senza farlo sapere, gliene sta regalando a ondate c' è Barbara d' Urso. Da qualche tempo, la conduttrice - che è sempre andata a trovarlo, in questi anni - lo invita a Mediaset. Dopo il caffè in camerino, entra in studio e, prima della diretta, chiede al pubblico di bloccare i telefoni e non fare video. Quindi, fa entrare il suo amico. Gli applausi e il calore della gente lo travolgono ogni volta e ogni volta il suo cuore sembra scoppiare di felicità.

La vocazione della Rai e l’eterno fantasma del pluralismo. Pubblicato giovedì, 04 aprile 2019 da Corriere.it. Ho seguito per qualche giorno il Tg1 delle 20, condotto da Alberto Matano, e ne ho ricavato un senso di tristezza. Da sempre si ripete lo stesso, stanco rituale: Conti, Di Maio, Salvini più qualche ministro tipo Fraccaro o Bonafede, la descrizione dei mirabolanti passi in avanti del governo, voce all’opposizione (il fratello di Montalbano non ha un grande carisma), cronaca. Non so da quanti anni l’impaginazione è sempre la stessa, così come la dichiarata vocazione filogovernativa. Ma ha ancora senso una Rai così? Possiamo ancora parlare di servizio pubblico? Scrivo queste cose con serenità perché me ne sono occupato già in passato, quando il governo era di centrodestra o di centrosinistra (ho scritto che l’ad Antonio Campo dall’Orto è stato cacciato da Viale Mazzini perché Renzi non lo riteneva sufficientemente asservito alle necessità immediate del Pd). Anche il «governo del cambiamento» aveva promesso novità, invano. La Rai continua a essere considerata un ghiotto bottino di guerra. La Rai possiede 15 canali televisivi e 12 canali radio, una potenza di fuoco enorme se si pensa al mercato dell’audiovisivo in Italia, potendo contare sul canone coatto. Nei vincoli di genere previsti dal cosiddetto «contratto di servizio», la Rai vanta il 30,9% d’informazione. Ma se l’informazione è quella del Tg1, o quella del Tg2, è un mero calcolo quantitativo che non tiene conto del «pluralismo», uno dei fantasmi su cui si regge l’idea di servizio pubblico. Onestamente, nel corso di un anno, quanti programmi attuano lo spirito del servizio pubblico? Li possiamo contare sulle dita di due mani, non di più. Siccome molti studiosi concordano sul fatto che questa nozione è ormai incrostata di mitologie, fraintendimenti e illusioni di cui dovremmo sbarazzarci, forse sarebbe più giusto ammettere che il servizio pubblico non esiste più. Esiste solo nel canone.

VUOI FARE IL GIORNALISTA? TROVATI UN PADRONE RICCO. Gustavo Bialetti per ''La Verità'' il 31 marzo 2019. Cosa fa parte del bagaglio del buon giornalista? Le «cinque W», un' esposizione lineare e asciutta, la cura delle fonti, la capacità di destreggiarsi nelle aule della politica e della giustizia, le basi deontologiche. E poi, che altro? Ma certo, il fatto di essere bravo a mettersi a libro paga di una fondazione milionaria. Ne sembrano convinti al Festival internazionale del giornalismo, che si terrà a Perugia dal 3 al 7 aprile 2019. Uno degli eventi in programma si intitola proprio così, senza alcun paludamento: «Come farsi finanziare dalle più importanti fondazioni al mondo». La spiegazione è pure peggio: «In che modo alcune delle fondazioni più importanti al mondo che si occupano di supportare i media e il giornalismo decidono chi o cosa finanziare? Cosa cercano veramente? Quali idee le entusiasmano e quali non le convincono? Perché dicono di no alla tua proposta?». Tra i relatori, un membro di Open society (quella di George Soros) e uno della fondazione di Bill Gates. Mettere nero su bianco che un giornalista si debba chiedere «cosa cercano veramente» degli enti di questo tipo, con una loro agenda politica ben precisa, e poi regolarsi di conseguenza, significa più o meno recitare l' epitaffio di una professione che, un tempo, dell' autonomia dal potere si faceva un vanto. E, tanto per gradire, main sponsor dell' evento è Facebook. Cioè una multinazionale che, da posizione di forza, dettando le sue regole al mondo dell' informazione, ben sapendo che una modifica del tutto arbitraria al suo algoritmo può significare la morte istantanea di una testata on line. È la stampa, bellezza. O quel che ne rimane.

A RAI SPORT SONO TUTTI GRADUATI. Gianluca Vacchio per lospecialista.tv. il 22 marzo 2019. Venti di guerra a “Beirut”, come l’aveva ribattezzata l’ex direttore di RaiSport Gabriele Romagnoli prima di lasciare ad agosto 2018. Le prime mosse di Auro Bulbarelli – indicato direttore dal cda Rai del 27 novembre – suscitano infatti mugugni e perplessità che presto potrebbero sfociare anche – a quanto apprende LoSpecialista.tv – in cause di lavoro per demansionamento.  Gli ultimi screzi proprio in questi giorni con job posting mai chiusi (e altri cuciti su misura) e la presentazione della nuova pianta organica. Una redazione di 117 giornalisti composta da – dopo le imminenti 11 promozioni (salvo che qualcuno al personale non si opponga) – un direttore, sei vicedirettori, 23 capiredattori, un fiume di capiservizio e inviati e soli 6 redattori ordinari. Una redazione di graduati, insomma, per la gioia dell’efficienza e delle casse Rai. E pensare che si racconta che qualcuno a RaiSport le promozioni le stia anche rifiutando…

LA GUERRA DEI COLONNELLI – Bulbarelli ha nominato ben sei vicedirettori: Marco Civoli (su Milano e curatore della “Domenica Sportiva”); Enrico Varriale (calcio); Raimondo Maurizi, (suo braccio destro); Gianni Cerqueti (responsabile del palinsesto); Alessandra De Stefano (ciclismo e web) e Bruno Gentili (notiziari). Tutti – come scritto nero su bianco nel piano editoriale – non possono andare in video. Non a caso Marco Franzelli avrebbe gentilmente declinato l’invito di Bulbarelli a restare vice. Eppure Varriale (responsabile del calcio) spopola in tv con interviste al ct della nazionale, Roberto Mancini, o al presidente della Fifa, Gianni Infantino. Senza contare le sue partecipazione come opinionista alla “Domenica sportiva”. Un presenzialismo che starebbe mandando su tutte le furie alcuni suoi omologhi…

FORMAT, OPINIONISTI E CONDUTTORI – Le cose non starebbero andando meglio a Bulbarelli con i nuovi format. La “Domenica Sportiva” spacchettata non convince, “Champions gol” – la nuova trasmissione il giovedì sera – è un floppetto Auditel e non si distingue neanche per organizzazione: tolto l’opinionista Paolo Rossi nell’ultima puntata avrebbero dimenticato di avvisare Angelo Di Livio e sedia vuota in studio! Non va meglio neanche al commento tecnico: in Rai, infatti, adesso il telecronista sta da solo ed è affiancato da due bordocampisti. Le cose si mettono male, poi, anche per “90esimo minuto” che dopo la pausa della Nazionale alla domenica dovrebbe terminare non più alle 20 ma alle 19.40. Una “dieta” di 20 minuti che – considerando anche gli spot – non consentirà neanche di dare il risultato della gara delle 18. E poi ci sono le polemiche su opinionisti e telecronisti del ciclismo: Silvio Martinello, Tommaso Mecarozzi e Francesco Pancani tutti sostituiti ora che la grande stagione del ciclismo, tanto caro a Bulbarelli, sta per partire. Stessa sorte per quattro “top player” del calcio di RaiSport: Stefano Bizzotto, Alessandro Antinelli, Alberto Rimedio, e Marco Lollobrigida. Per loro un bivio: fare i telecronisti/bordocampisti o condurre programmi. Insomma, non certo una partenza lanciata per la nuova stagione di RaiSport…

Pd in crisi, ma occupa la Rai: ecco i veri dati, quanto spazio hanno i compagni, scrive Fausto Carioti il 5 Marzo 2019 su Libero Quotidiano. L'informazione politica della Rai si divide in due categorie. Da una parte ci sono telegiornali, su cui tutti si accapigliano. Eppure, da quando sono cambiati i direttori, materia per litigare ce n' è poca: nei diversi notiziari i dati sulle presenze dei politici sono simili e in linea con la rappresentanza in parlamento. A gennaio, ad esempio, la fotografia scattata dall'Osservatorio di Pavia dice che premier, ministri e sottosegretari hanno avuto il 44% delle apparizioni in voce sul Tg1, il 43% sul Tg2 e il 39% sul Tg3. Gli esponenti del Pd, negli stessi tre telegiornali, si sono presi tra il 13 e il 14%, quelli di Forza Italia tra il 12 e il 15%. Considerando che nel calderone rientra pure il presidente della Repubblica, da considerare ovviamente super partes, e mettendo nel conto ciò che viene dato a grillini e leghisti non coinvolti nell' esecutivo (poca roba, specie per gli uomini di Matteo Salvini), si nota un uso attento del bilancino per essere in linea con il voto degli italiani. Del resto, se si vuole avere un'emittente finanziata dai contribuenti, altri equilibri possibili non ce ne sono. Il discorso cambia completamente se si guardano i dati dei talk show. Sintonizzarsi su certe trasmissioni è come azionare la macchina del tempo: si torna in un'altra Italia, precedente al 4 marzo e simile, semmai, a quella che uscì dalle urne il 25 maggio 2014, che in politica corrisponde a un'era geologica fa, quando il Pd e le sue cheerleader potevano dire di parlare a nome del 40% del Paese. Un andazzo che il "sovranista" Francesco Storace ha denunciato ieri sul Secolo d' Italia: «Si sono mantenuti la Rai e non la mollano più. Il Pd è gonfio come una rana nelle trasmissioni che più orientano la pubblica opinione, quelle di approfondimento». Cartabianca è una di queste. Dal primo settembre al 15 febbraio, nel programma che Bianca Berlinguer manda in onda cinque giorni a settimana su Rai 3, gli esponenti del Partito democratico hanno avuto il 29,6% degli spazi. Ancora più sovraesposti di loro sono quelli di Liberi e Uguali, il partitino di Pietro Grasso che un anno fa ottenne un miserrimo 3,4%. Risultano scomparsi da ogni radar, ma non dal salottino della ex direttrice del Tg3, dove mantengono l'8,8% delle presenze. Insieme, rossi e rossicci hanno totalizzato più minuti dei ministri del governo Conte, che non raggiungono il 38%. Criterio simile usa Lucia Annunziata nel gestire gli ospiti di Mezz' ora in più, altra perla del pluralismo come lo intendono su Rai 3. I numeri dell'Osservatorio di Pavia dicono che i membri del Pd hanno il 33,4% degli spazi, più di quelli (30,4%) concessi a ministri e sottosegretari di un esecutivo che, piaccia o meno, rappresenta ancora oltre metà degli eletti e degli elettori. Un capitolo a parte lo merita Fabio Fazio. Per rendere possibile il suo maxi-contratto milionario, Che tempo che fa è stato catalogato dal vecchio consiglio d' amministrazione come programma di «intrattenimento» anziché di «informazione», sebbene la politica resti il piatto forte e te la servano in tutte le salse, inclusa la bava versata per Emmanuel Macron. Oltre a garantirgli più soldi, l'escamotage libera l'abatino progressista dagli obblighi di rispetto del pluralismo cui sono tenute le trasmissioni d' approfondimento informativo. Il risultato è che i politici che chiama sono quasi tutti appartenenti al Pd, cui si aggiungono qualche grillino e un paio di forzisti (in ore tarde, però). Tirando le somme, a casa di Fazio il Pd risulta essere ancora il primo partito, col 24,3% delle presenze. Lega e Fratelli d' Italia, non ammessi. Gli altri invitati li pesca tutti nel bel mondo intellettuale e della presunta società civile, rigorosamente schierato a sinistra: Roberto Saviano, Tito Boeri, Gino Strada, Riccardo Gatti della ong Open Arms, Andrea Camilleri, Lilli Gruber, il sindaco di Riace Domenico Lucano Giampaolo Rossi, membro del nuovo consiglio d' amministrazione di viale Mazzini, è uno di quelli che vogliono cambiare le cose. A Libero dice che «il problema del pluralismo in Rai esiste. Se è giusto vigilare sulla corretta informazione delle testate giornalistiche, lo è ancora di più farlo nei programmi di approfondimento e d' intrattenimento delle reti. Perché mentre i giornalisti sono soggetti ad obblighi dettati dalla deontologia professionale e da vincoli normativi, i conduttori dei talk show e dei format, no». Sul tavolo c' è una possibile soluzione: «La creazione delle Direzioni di genere, che stiamo varando con il nuovo piano industriale, servirà a centralizzare il prodotto e a migliorare il pluralismo. Intrattenimento e approfondimento saranno strappati al potere insindacabile dei direttori di rete e al narcisismo di conduttori ideologicamente tarati». Non resta che attendere. Fausto Carioti

TeleCompagni targata Rai. Sul Secolo i numeri vergognosi sullo strapotere del Pd, scrive domenica 3 marzo Francesco Storace su Secolo d’Italia. Si sono mantenuti la Rai. E non la mollano più, i compagni di prima. Tremano fogli e mani a leggere i dati di cinque mesi di Rai. Non parliamo più del bilancino giornaliero dei minuti e dei secondi, ma di un pluralismo fatto a pezzi in un tempo lunghissimo. Il Pd gonfio come una rana nelle trasmissioni che più orientano la pubblica opinione, quelle di approfondimento: l’Osservatorio dell’Università di Pavia ci racconta il predominio rosso nella tv di Stato dall’11 settembre all’8 febbraio. Paghiamo noi e prendono a pesci in faccia l’opinione – vera – degli italiani.

L’allarme di Giampaolo Rossi. Nei giorni scorsi ci aveva incuriosito l’allarme lanciato dal consigliere di amministrazione della Rai Giampaolo Rossi, che aveva invitato l’autorità garante delle comunicazioni a dare uno sguardo alle trasmissioni di “informazione”. Ha ragione lui, la sinistra pretende ancora di comandare. TelePd imperversa in programmi segretissimi, come Agorà, Mezz’Ora in più, Carta Bianca, persino a Porta a Porta e manco a dirlo a Che Tempo che fa. I dati sono eloquenti, incontrovertibili, scandalosi. Cinque mesi di sovraesposizione di un’unica minoranza, quella di sinistra. Centrodestra di opposizione ai minimi termini e neppure la maggioranza di governo è rappresentata come il suo peso elettorale o quello parlamentare o finanche quello dei sondaggi. Solo in Rai esiste il Pd. E’ minoranza ridotta in Parlamento rispetto al centrodestra. Ha 112 deputati, Forza Italia e Fratelli d’Italia ne sommano 137; ha 52 senatori, l’opposizione di destra ne ha 79. Il Pd è minoritario nei sondaggi. Il Pd è minoritario ogni volta che si vota. Ma alla Rai non se ne accorgono. Ad Agorà, in questi cinque mesi le presenze del Pd sono state pari a 116 su 391, il 30 per cento. Con i cespugli che gli svolazzano attorno secondo il teorema Zingaretti la sinistra vola al 38%. L’altra opposizione – Fi e Fdi appunto – racimola 63 presenze. E’ ferma al 44% la presenza complessiva di governo, Cinque stelle e Lega. Domanda: siamo sicuri che questo sia pluralismo dell’informazione? Ancora più rossa, nei cinque mesi presi in esame, la compagnia di giro che la domenica ci allieta i pomeriggi grazie a Mezz’ora in più con Lucia Annunziata. Il Pd svetta col 33% delle presenze televisive – otto su 23 – esattamente come la maggioranza di governo messa tutta assieme. A Forza Italia 2 presenze, a Fratelli d’Italia appena una. Missione compiuta, compagna Lucia.

La galleria rossa blocca pure la maggioranza. Risponde presente all’appello Bianca Berlinguer con Carta Bianca: maggioranza bloccata al 42 per cento, Pd inesorabilmente al 30. Su 65 presenze politiche in questi cinque mesi Fratelli d’Italia si è vista appena una volta. Buon sangue non mente. Persino Bruno Vespa non resiste alle telefonate del Pd. Anche se ne contiene gli ardori col 23% delle presenze (sempre troppo…) e relega a due sole e difficilmente giustificabili partecipazioni su 99 l’ospitalità graziosamente concessa a Fdi. Non si può lamentare in questo caso la maggioranza, salda al 54%. Nella galleria rossa non può mancare Fabio Fazio. I dati Rai, che vanno scrupolosamente verificati, parlano di una dozzina di politici presenti. Tre sono del Pd, 2 di maggioranza, 1 di centrodestra – mai Fdi – e varie istituzionali (Fico…) e “altri” (Mimmo Lucano)… Ovviamente ci sono anche presenze “indipendenti” come Roberto Saviano. Il deputato Federico Mollicone ha chiesto a nome di Fratelli d’Italia in vigilanza Rai l’audizione dell’amministratore delegato Salini. Sarà opportuno capire che cosa cambierà. Perché deve cambiare. Basta con TeleCompagni.

Alessandro Di Battista, la crociata contro i soldi di Lucia Annunziata: smascherato da una lettera, scrive il 30 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. In Rai sta per scoppiare un nuovo caso su Licia Annunziata e su tutti quei giornalisti Rai che, come lei, lavora al momento per un altro gruppo editoriale, in questo caso per il Gruppo Gedi, già di Carlo De Benedetti. In una lettera di fuoco anticipata da Dagospia, la Annunziata, oggi direttore di Huffingtonpost e conduttrice di In mezz'ora su Raitre, chiede spiegazioni al presidente della Vigilanza Rai, Alberto Baracchini, e ai vertici Rai sull'ultima crociata lanciata dal grillino Alessandro Di Battista, seguito a ruota dal direttore di Rai 2 Carlo Freccero, intenzionati a svelare "i compensi di tutti i giornalisti che lavorano per il Gruppo Espresso e che conducono o sono ospiti di programmi Rai". Visto che, come sottolinea la stessa Annunziata, i giornalisti con le caratteristiche ricercate da Freccero e Di Battista sono appena due, e una di queste è proprio lei, chiede nella lettera altrettanti chiarimenti. A cominciare proprio dalla richieste di conoscere i compensi, che in realtà sono già pubblici: "Ho aderito, con una dichiarazione ai giornali, alla legge che pone un tetto ai compensi dei giornalisti della Rai. L'ho fatto nonostante non sia dipendente ma collaboratore con contratti a scadenza. Ho anche rifiutato un consistente bonus di diritti di immagine che si potevano mantenere anche dopo il taglio". La Annunziata poi si chiede perché andare a caccia solo dei giornalisti che lavorano per Repubblica, l'Espresso e Radio Capital. La risposta era già stata in qualche modo data da Freccero: "La Rai non è cambiata - aveva detto il direttore di Rai 2 - ma è sotto il controllo ideologico del gruppo De Benedetti". Un attacco che la Annunziata non ha intenzione di tollerare: "Siamo dunque agenti 'nemici'? Cosa dice l'Azienda? Se così fosse, infatti, se davvero si stabilisse che siamo agenti nemici e non giornalisti, sarei io la prima a prendere le misure necessarie, lasciando la Rai. Come del resto ho fatto due volte nella mia storia lavorativa a viale Mazzini". 

·         Mario Giordano, il giornalista comodissimo della (vecchia) Rete 4.

Aldo Grasso per il "Corriere della sera” il 21 novembre 2019. Mario Giordano con Fuori dal coro fa discreti ascolti (5,5% di share), un affare per Rete4, non ammetterlo sarebbe disonesto. Poi si può dire tutto il male possibile sul personaggio che si è creato: il giullare di corte che fa il fanatico, bercia, insulta l' ex ministra Trenta, si agita davanti alla telecamera come un ossesso, urla, si fa portavoce della Meloni e di Salvini, distrugge le zucche di Halloween con una mazza da baseball tricolore per rivendicare le feste di matrice italiana. Giordano lo ricordiamo agli albori, ospite del Maurizio Costanzo Show (quanta gente ha lanciato questa trasmissione!), lo ricordiamo svezzato da Gad Lerner (se lo portò persino al Tg1: ora fra i due volano gli stracci), lo ricordiamo nelle vesti di Lucignolo, una delle più riuscite caricature dell' informazione, lo ricordiamo scavallare da una direzione all'altra di qualche testata Mediaset (dunque, a tutti gli effetti, classe dirigente) ma sempre in nome del populismo e ora del sovranismo. È facile prendere in giro il suo personaggio: la voce stridula, il volto spiritato, lo sgarbismo di seconda mano, il funarismo di ritorno, il wannamarchismo funzionale, il conduttore che sbrocca credendo di interpretare Quinto potere , il cuore a destra ma il portafoglio a sinistra (nel partito dei benestanti), il tribuno monologhista, la parodia di sé stesso. No, non è così: il vero problema è che Giordano non è fuori dal coro, ma è parte consustanziale del coro. Ha perfettamente ragione Maurizio Crippa quando scrive che «Giordano non è il pazzo che sembra, la caricatura che recita. È invece il prototipo dell' elettore medio padano e medio cattolico di oggi. Con buona pace di quelli che rifondano la Dc, Giordano clowneggia così perché il popolo è con lui, è come lui. E questo è il vero orrore». Mario Giordano è uno specchio, non una deformazione. Non possiamo evitarlo senza scansare il nostro destino.

Nanni Delbecchi per "il Fatto Quotidiano" il 21 novembre 2019. Sarà che farsi sentire fuori dal coro non è facile, ma certo Mario Giordano strilla come un' aquila della Patagonia per tre ore di seguito, una performance polmonare prima che televisiva. Per il resto Fuori dal coro (martedì, Rete4) è l' ennesima mara-talk in cui si conferma la riscoperta di Gianfranco Funari, primo e forse insuperato telepopulista a cui in sempre più si ispirano (una volta c' era la Tribuna politica, ora ci sono i tribuni politici). Giordano sta dentro il coro degli opinionisti sei giorni su sette, ma il settimo abbandona ogni freno inibitore e si cala in Funari come fosse a Tale e quale show. Deve averlo studiato alla moviola. Va e viene tarantolato, urla, strepita, grida Vergogna! in loop, damme la uno, damme la due, terrorizza i cameramen sbattendo il volto contro gli obbiettivi. Gli argomenti non gli mancano, in verità; quando smette di dirigere il traffico immaginario come un pizzardone impazzito, affronta temi scomodi, come i compensi milionari dei liquidatori delle aziende decotte (da Alitalia ad Astaldi, l'elenco è lungo). Il suo guru Gianfranco non avrebbe saputo fare di meglio. Ma ecco arrivare in studio Matteo Salvini, il classico politico fuori dal coro (anche lui sei giorni su sette è in tv). Miracolo! Giordano si calma di colpo, appare folgorato, come Brosio a Medjugorje. Si siede, sorride al Capitano, gli offre dei popcorn forse avanzati da Renzi, le convulsioni di poco prima sono solo un brutto ricordo. Eh già, quando si è fuori dal coro.

Mario Giordano, la verità impensabile su Gad Lerner: "Non voglio dargli questo dolore, ma..." Libero Quotidiano il 15 Novembre 2019. I due insospettabili maestri di Mario Giordano? Sono stati Marco Travaglio e Gad Lerner. Accanto a due direttori come Vittorio Feltri e Maurizio Belpietro, a cui lo legano stima e riconoscenza, il conduttore di Fuori dal Coro e autentico "volto" dell'informazione in tv su Rete4 insieme a Del Debbio, Palombelli e Porro in una intervista a Italia Oggi ricorda i suoi inizi lavorativi, prima della fama raggiunta soprattutto con la tv.  Si parte dal direttore del Fatto Quotidiano: "Ci siamo conosciuti a Torino, entrambi lavoravamo al settimanale cattolico Il nostro tempo. Poi Travaglio è diventato il corrispondente da Torino per Il Giornale di Indro Montanelli. E allora mi chiamava per le partite della Juve e del Toro. Lui, tifoso della Juve, scriveva della partita, a me, tifoso del Toro, toccava il cosiddetto spogliatoio". Sui rapporti attuali, Giordano si mostra abbastanza gelido: "Mah, ci sentiamo occasionalmente". La svolta arrivò nel 1997, quando Gad Lerner lo chiamò a Pinocchio. Uno dei big dell'informazione di sinistra maestro di un sovranista Doc come Giordano? "Non voglio dargli questa responsabilità e questo dolore - ironizza l'ex direttore del Tg4 -. Però lui mi ha dato una opportunità straordinaria. Ogni anno prendeva un giornalista del Giornale da mettere nella redazione della sua trasmissione televisiva, per avere un punto di vista particolare. E nel 1997, per Pinocchio, venni scelto io. Ma dovevo solo fare un lavoro dietro le quinte, compilare schede. Durante le riunioni di redazione, però, parlavo sempre, e questo non va e quello invece va, e alla fine Roberto Fontolan, il braccio destro di Lerner, disse: Per me tu funzioni bene in video. Non ci avrei mai pensato, con la mia voce e il mio fisico".

Gad Lerner per il Venerdì-la Repubblica il 7 dicembre 2019. Dopo averlo visto spaccare con un'ascia tricolore le zucche di Halloween, in difesa della cristianità minacciata, e affrontare su un ring di pugilato Vittorio Sgarbi a colpi di parolacce, ritengo di non potermi più esimere. Ebbene sì, mia è la responsabilità dell' esordio televisivo di Mario Giordano, l' uomo che sta sottraendo a Paolo Del Debbio e Massimo Giletti lo scettro di principe dell' informazione populista. E che si è insinuato di prepotenza fra Bianca Berlinguer e Giovanni Floris nella sfida dei talk del martedì sera. Sono passati vent' anni. Il direttore, a Raidue, era un tale Carlo Freccero. Per il mio Pinocchio volevo una redazione pluralista in cui fossero rappresentate anche le sensibilità della destra e mi avevano segnalato quel giovane redattore de Il Giornale diretto da Vittorio Feltri, molto ferrato in materia economica. Giordano era un simpatico vulcano di idee, rappresentava brillantemente l'"altra campana". Ma devo ammettere che non ci sarebbe mai venuto in mente di mandarlo in video a fare il Grillo Parlante pedalando su una bicicletta se non avesse avuto quell'aspetto curioso di adulto-bambino e quella voce acuta spaccatimpani. Lui si prestò volentieri. Del resto neanch' io, come si sa, ero un adone. L' anno successivo, quando fui nominato direttore del Tg1 e Berlusconi protestava perché ero troppo di sinistra, pensai che sarebbe stato il contrappeso giusto dentro il paludato telegiornale della rete ammiraglia, bisognoso di innesti controcorrente. Fu la mia unica assunzione. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Mario Giordano, assunto a Mediaset, si è rivelato un quadro aziendalista assai disciplinato, tanto da venir promosso direttore conservando il suo tono d' impertinenza. Ben più fedele dell'infedele con cui aveva intrapreso la sua carriera televisiva. Il piano inclinato che lo avrebbe fatto scivolare dall'informazione-spettacolo nel grottesco, nel trash, nella recita urlata della finta indignazione popolare, sacrificando le sue competenze sull'altare dell' audience, va considerato un effetto collaterale della degenerazione del linguaggio televisivo: dal berlusconismo al grillismo al salvinismo. Suppongo che oggi Giordano si compiaccia di essere diventato il personaggio-macchietta che invade lo schermo con i suoi primi piani istrionici. Credo abbia ragione solo in parte Aldo Grasso quando rileva che, lungi dall' essere un anticonformista, Mario funge da ruminatore di luoghi comuni dell' opinione pubblica reazionaria. Perché lui ci mette un di più d' esasperazione e di accanimento: e così la foga propagandistica ha sopraffatto la malinconia del clown. Chiedo venia, ammetterete che vent' anni fa non potevo prevederlo.

Mario Giordano svela come fu assunto da Vittorio Feltri: "Gli scrissi una lettera, lui non la lesse e così..." Libero Quotidiano il 16 Novembre 2019. Il primo contratto "pesante", Mario Giordano lo deve a Vittorio Feltri. Il conduttore di Fuori dal coro, uno dei programmi di informazione più esplosivi non solo di Rete4, ma di tutta la tv nazionale, lo riconosce a Italia Oggi individuando nel direttore di Libero uno dei suoi maestri: "Lavoravo alla Informazione, che chiuse nel 1995. Ero disoccupato con due figli a carico. Mi arrangiavo e cercavo lavoro ovunque. Scrissi a Feltri, all'epoca direttore del Giornale, una lunga lettera che ovviamente lui non lesse mai. Poi gliene scrissi un'altra, di sole tre righe, ironica, in cui incolpavo le Poste italiane di non avergli consegnato la prima". "Quella gli piacque - prosegue Giordano - e mi fece fare un articolo di prova su Giorgio Fossa, candidato alla presidenza di Confindustria. Andai nella sua fabbrica di Gallarate, scrissi un ritratto, lo mandai a Feltri. Mi ritrovai in prima pagina sul Giornale della domenica. E poi venni assunto". Feltri, aggiunge Giordano, "mi ha insegnato a fregarmene di tutto e di tutti e a dire quello che bisogna dire. È stato il maestro di una sana anarchia". Quella che si respira anche nello studio di Fuori dal coro.

Mario Giordano, il giornalista comodissimo della (vecchia) Rete 4. Le inutili parodie sul tono di voce fanno distrarre dal punto: che il suo essere "Fuori dal coro" è solo un modo dire, scrive Beatrice Dondi l'11 marzo 2019 su L'Espresso. C’è almeno un motivo per essere dalla parte di Mario Giordano, classe 1966 cresciuto a brasato e Barbera in quel di Alessandria: il fatto che negli anni si siano susseguite una serie innumerevole di sgradevoli imitazioni sulla sua voce. Come se una caratteristica fisica, che sia l’altezza, la taglia, o in questo caso le corde vocali, possa essere preso per contenuto. Perché poi quando Giordano lo si ascolta davvero appare evidente che quello che dice è decisamente meno acuto del suo tono. Passato con facilità da Grillo parlante a Lucignolo, e che Collodi lo perdoni, ha al suo attivo diciassette libri, molti dei quali con titoli che ricordano alla lontana gli acchiappa click dei gattini su Facebook conditi di veemenza. Da “Sanguisughe” a “Pescecani”, da “Vampiri” ad “Avvoltoi”. E mentre come dice il nostro nel suo ultimo scritto “L’Italia non è più italiana”, dalla televisione si affaccia con la stessa aria pacata per smuovere le acque placide dei talk. Fiero del suo Tapiro conquistato sul campo per un fuori onda di Vittorio Sgarbi, Giordano, con le sue frasi dal lieve sentore apodittico, ha il vezzo dell’inciso incompiuto. «Ma cosa stai dicen..., eccet eccet... ma scu’..., chi decid..., quello che fa fed...» fanno ormai parte del suo movimento narrativo con cui, tra una sfuriata e l’altra, riempie studi variegati di ogni genere e numero. Candidato in pectore alla striscia quotidiana del Tg1 al posto della signora Maglie, per il momento occupa quella più sfacciata della nuova Rete 4 che è tornata vecchia in un attimo. E dal suo studio dispensa perle di cattivo senso in faccia alla telecamera come una citazione di Funari, “Fuori dal coro”, appunto, anche se a ben guardare sembra perfettamente allineato all’arietta di questi giorni. Così dice la sua, da giornalista fintamente scomodo ma perfettamente a suo agio. E saltellando da un “Fabio Fazio come un pelouche” a “Meno zenzero più polenta” infarcisce i suoi monologhi di analisi in bianco e nero su ruspe, illegalità e rom che rubano, con quel tocco delicato di chi ha fatto dell’allarme meteo il suo piatto forte di Studio Aperto nei bei tempi andati. Giordano ogni giorno esercita sullo spettatore l’effetto annuncio, con cui, prima di dire la frase studiata ad arte fa pregustare la bomba in arrivo. Lo sto per dire, ora lo dico, ecco l’ho detto. Dal salotto vip del televoto sanremese che ha premiato il Marocco pop alla perdibile analisi secondo la quale l’Italia non ha bisogno di ponti ma di muri, Mario Giordano continua imperterrito a cantare “tutto d’un tratto il coro”, come Dapporto nel Carosello della Pasta del Capitano. Per il fuori ci stiamo lavorando.

Da Libero Quotidiano tv il 19 giugno 2019. Un Mario Giordano semplicemente incontenibile quello andato in onda a Fuori dal Coro, in prima serata su Rete 4. Si parla delle magagne e degli scandali che si annidano nel commercio di rifiuti. E il conduttore inizia afferrando la telecamera, scuotendola, per poi gridare qualcosa di incomprensibile. Dunque l'intemerata: "Vuol dire che non fanno niente! Col commercio dei rifiuti si guadagna più che a commerciare in cocaina, si avvelenano le persone, si prosciugano le vostre tasche e non si rischia una beata mazza. Riprendi me non i rifiuti, una beata mazza!". Finita? Non proprio. Alla fine, sventolando un saccone di rifiuti, Giordano urla: "Una beata mazza! Una beata mazza!". Tripudio in studio.

Da Il Fatto Quotidiano il 19 giugno 2019. Si discute del tema rifiuti e in studio compare della spazzatura, con tanto di sacchi, televisori vecchi, materassi e addirittura un bidet. Poi mentre il conduttore si chiede: “Chi fa affari con i rifiuti?” nel videowall alle sue spalle appaiono delle fiamme, che sembrano quasi avvolgerlo. Queste sono solo alcune delle cose che si sono viste nell’ultima puntata di Fuori dal coro, il programma in prima serata su Rete 4 condotto da Mario Giordano, andata in onda giovedì 18 luglio. Un finale di stagione che si farà ricordare dal momento che il talk politico si è trasformato in un vero e proprio show, con un cambiamento dello stile di narrazione che non è affatto passato inosservato, come sottolinea Tvblog. Il padrone di casa, Mario Giordano, ha infatti monopolizzato la scena, prima attaccandosi alla telecamera e scuotendola poi avviando una vera e propria spettacolarizzazione dei temi trattati. Mentre si parlava dei bus che a Roma si guastano sempre più spesso, talvolta addirittura incendiandosi, ed ecco che torna il fuoco alle spalle del giornalista. Ma la trovata più eclatante arriva poco dopo, quando in studio entrano una serie di modelli muscolosi, vestiti in quello che Giordano definisce il modo giusto per viaggiare sicuri sui bus della Capitale. Ad esempio, c’è quello con tuta ignifuga per proteggersi in caso di incendio e, infine, quello “per qualunque evenienza”, con sacco a pelo e spazzolino in caso di lunghe attese. O ancora quello a torso nudo in foto, che sfoggia il look perfetto per chi deve spingere i bus in fiamme. Insomma, un vero e proprio show.

Da Libero Quotidiano il 27 giugno 2019. Violentissimo scontro tra David Parenzo e Mario Giordano. Stavolta il teatro è stato la trasmissione La Zanzara condotta da Giuseppe Cruciani e proprio da Parenzo su Radio 24. Il record di insulti e violenza verbale è degno di nota. Tema della diatriba: la Sea Watch 3, la nave con 42 migranti bloccata in mare ormai da giorni a poca distanza da Lampedusa. Secondo Giordano la nave andrebbe bombardata e affondata, con la capitana indagata perché “trafficante di clandestini”. Parenzo, al contrario, appoggia la linea di chi chiede che i migranti vengano salvati e fatti sbarcare, per poi essere identificati e prendere nei loro confronti i dovuti provvedimenti. Ma il dibattito degenera. “Mario Giordano che guadagna mezzo milione di euro al mese o all’anno…”. “Io non vado a fare le marchette a pagamento. Schifoso marchettaro“. Parenzo rincara: “Quanto guadagna Mario Giordano all’anno? Il difensore del popolo quanto guadagna all’anno?”. “È un argomento che non c’entra un cazzo. Non sei capace di sostenere una discussione”, attacca il giornalista. “Non ti vergognare di come li hai fatti“, grida Parenzo. Giordano si arrabbia: “Mi piacerebbe essere ricco come te, raccomandato come te [...] Raccomandato di merda, figlio di papà“. A questo punto, Parenzo si alza inferocito, promette di querelarlo e abbandona la trasmissione: “Raccomandato da chi? Se non chiedi scusa ti querelo perché sei uno stronzo“. David Parenzo non torna in postazione e lascia in diretta la trasmissione. Poi, su Twitter, spiega: “Me ne sono andato da La Zanzara in diretta dopo gli attacchi di Mario Giordano! Se mi chiede scusa non lo querelo ma deve chiedermi scusa. I suoi attacchi sono diffamazioni non opinioni [...] Quel vile ha insultato la mia dignità! Ho fatto esame di stato per fare il giornalista professionista! Ho moderato dei convegni [...] Lui che gira con AudiQ cazzo e poi parla di Made in Italy”. Crisi di nervi gravissima, per Topo Gigio Parenzo.

Fabio Fabbretti per Davide Maggio il 27 giugno 2019. Duro scontro in diretta a La Zanzara tra David Parenzo, che conduce il programma radiofonico di Radio 24 insieme a Giuseppe Cruciani, e Mario Giordano, ospite in collegamento. Tema della diatriba: la Sea Watch 3, la nave con 42 migranti bloccata in mare ormai da giorni a poca distanza da Lampedusa. I due non se le mandano a dire, con accuse anche personali e minacce di querela. Giordano non usa mezzi termini nel sostenere che a suo dire la nave debba essere bombardata e affondata, con la capitana indagata perché “trafficante di clandestini”. Parenzo, al contrario, appoggia la linea di chi chiede che i migranti vengano salvati e fatti sbarcare, per poi essere identificati e prendere nei loro confronti i dovuti provvedimenti. Il dibattito, però, si consuma a nervi tesi, degenerando quando il conduttore de La Zanzara accenna allo stipendio del giornalista: “Mario Giordano che guadagna mezzo milione di euro al mese o all’anno…”.

Apriti cielo. Giordano non gli lascia neppure finire la frase che subito controbatte stizzito: “Io non vado a fare le marchette a pagamento. Schifoso marchettaro“.

Parenzo rincara: “Quanto guadagna Mario Giordano all’anno? Il difensore del popolo quanto guadagna all’anno?”.

Il giornalista e conduttore di Rete 4 glissa, ma gli animi si accendono sempre più: “E’ un argomento che non c’entra un cazzo [...] Non sei capace di sostenere una discussione”, aggiungendo di guadagnare comunque “il giusto”.

Non del tutto soddisfatto, David lo stuzzica di nuovo: “Non ti vergognare di come li hai fatti“.

Giordano sbotta: “Mi piacerebbe essere ricco come te, raccomandato come te [...] Raccomandato di merda, figlio di papà“.

A questo punto, Parenzo si alza inferocito, promette di querelarlo e abbandona la trasmissione: “Raccomandato da chi? Se non chiedi scusa ti querelo perché sei uno stronzo“.

Nonostante i tentativi di Cruciani, Parenzo non torna in ‘postazione’ e lascia in diretta la trasmissione. Poi, su Twitter, dà le sue ragioni: “Me ne sono andato da La Zanzara in diretta dopo gli attacchi di Mario Giordano! Se mi chiede scusa non lo querelo ma deve chiedermi scusa. I suoi attacchi sono diffamazioni non opinioni [...] Quel vile ha insultato la mia dignità! Ho fatto esame di stato per fare il giornalista professionista! Ho moderato dei convegni [...] Lui che gira con AudiQ cazzo e poi parla di Made in Italy”.

Giordano, dal canto suo, non ha (almeno per il momento) risposto alla minaccia di querela né chiesto scusa, limitandosi a condividere via social i messaggi dei suoi sostenitori.

Mario Giordano: “Gli italiani non sono razzisti. Sono stanchi”. Il Giornale Off il 27/06/2019. Non solo Vittorio Sgarbi abbandona iracondo le trasmissioni. “Una volta c’era Radio Cuore, le grandi emozioni della musica italiana. Adesso vi mettete lì e dite: “sentiamo che emozione…“. E parte il jingle de La Zanzara, con alcuni stacchetti di celebri telefonate e remix di Lacorte. Botte da orbi ieri fra David Parenzo e Mario Giordano a La Zanzara (argomento: i migranti). Tutto ha inizio quando Parenzo chiede a Giordano: “Ma quanto guadagni? Quanto guadagni? Quanto guadagna il difensore del popolo Mario Giordano? E’ una domanda legittima, mi pare!“. Lo scontro va avanti, sembra esaurirsi in poche battute al vetriolo, ma a un certo momento la situazione degenera: “Non sei capace di sostenere una discussione“, attacca Giordano. “Non ti vergognare di come li hai fatti!“, replica Parenzo. E a questo punto Giordano si arrabbia per davvero: “Mi piacerebbe essere ricco come te, raccomandato come te […]“. Tanto basta perché Parenzo si alzi e abbandoni furibondo la trasmissione: “Raccomandato da chi? Se non chiedi scusa ti querelo perché sei uno stronzo!”. Mario Giordano non è solo il fustigatore delle nequizie e dei vizi italici. Vent’anni fa e passa, in tempi di privatizzazioni in Italia, qualcuno diceva: “Non passa lo straniero”. E invece, per riprendere il titolo di un capitolo di questo libro, “Lo straniero è già passato: ogni 48 ore si prende un’azienda italiana“. Cinesi, francesi ma non solo.  

Vi proponiamo questa intervista di Michel Dessì di qualche tempo fa ma sempre attualissima (Redazione).

Quanti italiani La contattano quotidianamente sperando di trovare tramite Lei la soluzione ai propri problemi?

“Tanti, tantissimi. E questo è un problema serio: quando la Tv o un giornale diventano l’unica speranza per la risoluzione di un dramma vuol dire che le istituzioni hanno fallito”

Quanto è OFF, oggi, dare voce alla piazza piuttosto che alle tribune abbondantemente popolate di presunti vip televisivi?

“E’ molto off. E proprio per questo mi piace farlo”.

C’è stata mai un’occasione nella quale Mario Giordano sia stato OFF? Se sì, quale?

“Mi sento sempre un po’ off. E anche un po’ off limits. Però se essere on significa partecipare alla Leopolda, beh, preferisco essere off”.

L’Italia sta cambiando volto, divenendo forzatamente multietnica e, di conseguenza, multi culturale. Come cambia l’informazione quando deve soddisfare così tante esigenze?

“L’informazione è nell’occhio del ciclone di mille trasformazioni: tecnologiche, economiche, strategiche, culturali. Però io credo che la questione del multiculturalismo non riguardi tanto il mondo dell’informazione, ma il mondo in sé. Cioè la nostra civiltà. E dobbiamo chiederci se anziché di fronte all’integrazione non siamo di fronte a un’invasione, se anziché costruire una società multietnica stiamo distruggendo le nostre radici…”

Scegliere l’Italia e gli Italiani sembra sia diventato  sinonimo di razzismo e xenofobia. Il contrario non sarebbe una resa incondizionata all’invasione?

“Oggi si usa l’espressione “razzista” (ma anche xenofobo, demagogo, populista, etc) quanto mai a sproposito. L’Italia non è un Paese razzista, gli italiani non sono razzisti. Si fanno semplicemente alcune domande che io ritengo legittime. Ogni buon padre di famiglia, del resto, prima di invitare a cena sconosciuti, pensa a sfamare i suoi figli, no? E perché invece lo Stato italiano non lo fa?”

E se un giorno una classe politica a maggioranza non italiana riuscisse a cambiare totalmente la Costituzione, dove andrebbero a finire gli ultimi secoli di indipendenza e lotta per la democrazia?

“Credo che quello che ha raccontato Houellebecq in Sottomissione possa trasformarsi in una tragica realtà”.

Amare l’Italia sta diventando OFF?

“Se ci pensa lo è sempre stato. Non è un caso che i più ferventi sostenitori del multiculturalismo e dell’integrazione vengono dall’esperienza degli anni Settanta in cui la parola “Patria” era bandita e censurata (insieme a Dio e famiglia, altre due radici della nostra civiltà che stiamo progressivamente distruggendo)”.

L’Unione Europea sembra aver deluso i sogni, le aspettative, i progetti di tutti i suoi popoli. C’è chi ne è già uscito, chi lo spera, chi si sta organizzando per farlo. Lei si sente ancora cittadino europeo?

“Non mi sono mai sentito europeo. Sulla costruzione dell’Europa è stato sbagliato tutto in modo ormai, io ritengo, irrimediabile. L’unica soluzione è tornare indietro”.

Il premier e il governo stanno cominciando a prendere le distanze dalla politica europea sull’immigrazione. Si tratta di una manovra politica, prereferendaria, oppure di una presa d’atto del collasso di tutto il sistema d’accoglienza?

“Si cerca di scaricare altrove anche le proprie colpe. Per mesi e mesi a ogni nostra osservazione ci rispondevano: “Ci penserà l’Europa…”. Ma non era difficile immaginare quello che sarebbe successo”.

Da pochissimo tempo è iniziata per Lei una nuova avventura editoriale, la collaborazione con Maurizio Belpietro sul neonato quotidiano La Verità. Cos’è la verità e quanto vale?

“La verità è una ricerca quotidiana. Vale la vita”.

Conclusioni finali…

“Una conclusione ha senso solo se è un inizio”.

·         Il bastiancontrarismo.

FACCIAMO A CHI LA SPARA PIÙ GROSSA? Luigi Manconi per “la Lettura - Corriere della Sera” il 6 maggio 2019. Fateci caso: quando in un qualunque dibattito, un tipo, in genere brillante e dalla parlantina sciolta, afferma «farò una provocazione», non accade mai nulla del genere. E si ascolteranno, piuttosto, interminabili e tediosi proclami ispirati al senso comune più ordinario. Si manifesta, così, una delle varianti della sindrome del Bastiancontrarismo, la più innocua. Ma quella stessa sindrome può manifestarsi attraverso un' altra variante più nociva. Per esempio il dottor Alberico Lemme, nato nel 1958 ad Archi (Chieti), farmacista per titolo e dietologo per proterva aspirazione, nel corso di una puntata del Grande Fratello ha pronunciato le seguenti parole: «Quando è nata mia figlia tutti mi dicevano: "Vedrai che emozione proverai". Lei è nata, io ho assistito al parto e non ho provato nessuna emozione. Quando ha fatto sei mesi l' ho guardata e ho pensato: "Se morisse mi dispiacerebbe?" Ho risposto di no». Nella migliore delle ipotesi, si tratta delle frasi di un esibizionista patologico, nella peggiore, della manifestazione narcisistica di un disadattato. Ma ciò che davvero conta è che quelle frasi siano state accolte da alcuni conduttori radiofonici e televisivi come esercizi di «sincerità» o, addirittura, di «coraggio». E sul web il dottor Lemme - già noto per altre scellerate affermazioni e per le modeste perversioni del suo pensiero, si fa per dire - è diventato un eroe, in quanto avrebbe rotto «il velo della retorica dell' amore familiare» e avrebbe rifiutato «l' ipocrisia delle convenzioni sentimentali». La ragione di un simile successo è semplice: quelle affermazioni, in apparenza tanto oltraggiose, corrispondono, in realtà, a un umore sempre presente nell' animo umano e a una pulsione oscura e profonda che, una volta emersa, si scopre di condividere con molti altri. Forse la maggioranza. Insomma, quella presunta trasgressione esprime un antico e solido conformismo. E se con Lemme siamo in un campo trascurabile, pur se sfrontato in quanto insignificante sotto il profilo intellettuale, numerosi sono i casi di tutt' altra consistenza. Un giornalista colto, talvolta acuminato, come Filippo Facci, espressione di una tradizione reazionaria ma non codina, a proposito di Greta Thunberg così si è espresso: «A me tutte le persone che hanno bisogno di riscoprire le questioni ambientali attraverso quella specie di mostriciattolo di Greta Lei, mi viene da investirla con la macchina». Anche in questo caso, sul web si sono intessuti trepidanti elogi per la «sincerità» e per il «coraggio». Se questo metodo si dimostra così efficace, si possono suggerire una serie di dichiarazioni capaci di ottenere consensi e ricevere omaggi. Basta individuare un predicato sufficientemente condiviso e negarlo con brutalità, a prescindere dalla quota di ragionevolezza che contiene. Ecco. 1. «La vita dei nostri figli ci è cara» 2. «Non è bello mettersi le dita nel naso» 3. «È un dovere tutelare l' ambiente» 4. «Gli esseri umani sono tutti uguali» 5. «È meglio evitare di ruttare in pubblico». Proclamare o attuare il rovesciamento (il ribaltamento da cima a fondo), con le parole o i gesti, di quei semplici princìpi appare oggi come il massimo dello Scandalo Pubblico. Dunque, siamo in una fase culturale in cui sembra che l' affermazione della propria diversità di opinione e la lotta contro il politicamente corretto debbano passare di necessità attraverso la negazione, indifferentemente, di uno di quei cinque punti (meglio se di tutti e cinque). È una storia lunga, tutt' altro che lineare. Non ho mai condiviso anche uno solo dei brevi corsivi che, sotto la testatina Controcorrente , Indro Montanelli pubblicava quotidianamente sul «Giornale». Eppure, almeno una volta su tre, quei commenti - a me, giovane militante della sinistra radicale - facevano davvero male. Dopo di che è stato tutto un rincorrersi affannato di rubriche simili (o che volevano essere simili). Rubriche che issavano la bandiera dell' anticonformismo. Una sfilza lunghissima e che cerca tutt' ora di riproporsi ricorrendo al dizionario dei sinonimi: Diverso parere (o, in una sciagurata versione calcistica, Diverso parare ), Al contrario, Verso diverso, L' antipatico, Fuori gioco, Non ci sto, Controverso, L' iracondo, Retropensiero, Fuori dal coro, Controcanto. Il dissenso diventa, in tal modo, manierismo, compiacimento di sé e della propria sconvenienza (vera o presunta che sia) e finisce fatalmente col mimare i tratti e le movenze, i tic e le ossessioni del suo negativo (il conformista), scambiandosi i ruoli con esso. Tutto ciò risulterebbe quasi innocuo e comunque poco rilevante se non intervenissero due fattori «agevolanti» che possono rendere significativo ciò che significativo è quasi mai. Il primo fattore è rappresentato dall' entusiasmo che la sindrome del Bastiancontrarismo suscita in alcuni soggetti della comunicazione (giornalisti, conduttori televisivi e radiofonici, opinion maker e influencer vari). Il secondo fattore è rappresentato dalla cornice virtuosa in cui quella patologia viene collocata quando se ne appropria il web. È un' aura eroicistica, con tonalità epiche, che richiama categorie o formule come «schiena dritta» e «forza», «posizione scomoda» e «intransigenza». Così Spararla Grossa diventa una virtù agonistica che riempie i canali della comunicazione e li gonfia, che invade il linguaggio domestico e quello pubblico, che travolge gli argini come una esondazione lutulenta, diffondendo ovunque le immagini, i gesti e le parole di un nuovo Conformismo della Devianza Deluxe. Ne consegue che la trasgressione autentica, quella dei veri e rari irregolari, come Elsa Morante e Pier Paolo Pasolini e, successivamente, Goffredo Fofi, Guido Ceronetti, Lea Melandri, Aldo Busi e Walter Siti (non me ne vengono in mente altri) viene sopraffatta dal gran vociare degli anticonformisti a rimborso spese. Professionisti della materia che coltivano la malacreanza intellettuale ed esistenziale con lo stesso compiacimento con cui, alle scuole medie, scrivevamo parolacce sulla lavagna.

IN TV VOGLIONO SOLO CASINISTI. Filippo Facci per “Libero Quotidiano” il 7 maggio 2019. C'era la discussione tra Pietro Senaldi ed Enrico Mentana, su Libero di ieri, che riguardava il rapporto tra titolazione e contenuti, nonché la tendenza dell' Ordine dei Giornalisti a trattare alcuni coi guanti e altri con la bacchetta. E poi c' era l' articolo di Luigi Manconi pubblicato sul Corriere della Sera, domenica, dedicato ai «professionisti dell' anticonformismo» che pure era interessante: spiegava che «dagli esibizionisti agli intellettuali colti, è tutta una corsa a dare scandalo in maniera gratuita. Ma l' aspetto peggiore è attribuire il connotato del coraggio a sparate che sono solo puerili e compiaciute». L' articolo spiegava che nei talkshow fioccano soggetti affetti da sindrome del «Biastiancontrarismo» i quali giungono a esibizionismi patologici da narcisisti disadattati, roba che non di rado viene scambiata per «coraggio» o «sincerità», ma che non fa che risollevare pulsioni oscure e conformistiche. Luigi Manconi cita come campione negativo il dottor Alberico Lemme, conosciuto come dietologo gettonato in tv (Lemme, se crede, si difenderà da solo) ma poi, citando «casi di tutt' altra consistenza», sceglie di citare lo scrivente. Pur non risparmiandomi elogi (che aggraverebbero il problema, se autentici) Manconi mi cita tra gli «intellettuali dell' anticonformismo», facendo l' esempio di una mia frase a cui hanno attribuito «sincerità» e «coraggio». Questa: «A me tutte le persone che hanno bisogno di riscoprire le questioni ambientali attraverso quella specie di mostriciattolo di Greta... Lei, mi viene da investirla con la macchina». Ora: la battuta è vera, non è originale né coraggiosa, ma l' ho detta in coda a «La Zanzara», programma scanzonato dal quale mi avevano telefonato per parlare di tutt' altro. Non mi sto giustificando: dico solo che Manconi forse poteva fare degli esempi più ficcanti e soprattutto ricorrenti (io in tv vado pochissimo) anziché fare di me e Lemme due simboli: e lo dico perché il tema è interessante e andrebbe esplorato bene. Qui, forse, Manconi non ha difettato di sincerità, ma di coraggio sì. Non di questo m' importa. M' importa di spiegare come tuttavia funziona una certa cosa che riguarda tanti ospiti televisivi e non solo. Parto ancora da me per comodità. Quando ho opinioni relativamente normali o maggioritarie - e ne ho - il primo a non filarmi è proprio il sistema dei media. Oggi, prima di chiamarti come ospite, a meno che tu sia stra-famoso o scontatissimo nelle tue opinioni, ti sondano: e magari, appurato che tu abbia una posizione non estrema o non originaloide, finisce che l' invito salta. Intendiamoci: pazienza, mica si può cambiare opinione per farsi invitare in quelle arene abbruttite che sono diventate molti talkshow. Ma che tutti gli altri facciano lo stesso, beh, non ci giurerei. L' altro giorno mi hanno sondato sulla castrazione chimica: ero favorevole, ma con moderazione; però gli autori del programma forse cercavano, chessò, qualcuno che volesse castrare gli stupratori con le tenaglie. Ecco, se fossi stato io mi avrebbero steso una passatoia. Invece, personalmente, pur snobbando la tv - problema non grave: per andare in tv, oggi, c' è una fila di gente disposta a dire qualsiasi cosa - spesso finisce che m' invitano solo quando ho posizioni che a me sembrano assolutamente normali, ma ad altri - e me ne stupisco ogni volta - no. Io in realtà penso questo: di dire cose ovvie e normali. Dopo 25 anni di tv, quando mi bollano come anticonformista, riesco ancora a stupirmi. Per capirci: penso - ma sembrerà originaloide anche questo - che neanche uno come Sgarbi sia un anticonformista forzato. Ma altri - Manconi ha ragione - penso proprio di sì, complici i giornalisti che li invitano. Anche perché molti talkshow perpetuano lo stesso bipolarismo cretino che a parole dicono di voler combattere: le scalette sono fatte così, con bilancini truccati, si chiedono opinioni precotte che più sono manichee e meglio è. Non interessa che qualcuno conosca o spieghi bene un caso: interessa che qualcuno s' azzuffi anche su quello. Dopodiché, sul caso, ne saprete probabilmente quanto prima: però le risse finiranno in rete o sulle homepage. Mentre le posizioni articolate, terze, che non marchiano dei colpevoli da spedire all' inferno, beh, interessano meno. Ma non si salvano neanche quelle: perché la media tra due posizioni sbagliate resta una posizione sbagliata, o più spesso confusa. E i giornalisti, magari, la scambiano per l' aria che tira («il nostro sondaggio») perché loro sono così, non fanno che parlare del Paese e non fanno che illudersi che possa coincidere con le loro percentuali d' ascolto. Ma stanno solo censendo una retroguardia culturale.

·         La tv e i soliti esperti del Nulla.

MACCHIETTE TV. Fabrizio Roncone per 7 – Corriere della Sera il 17 maggio 2019. Un altro francamente strepitoso è il professor Massimo Cacciari. Lo è di certo quando va in tivù, ospite di qualche talk show. Resiste dieci minuti, a volte arriva a dodici. Un paio di interventi, un paio di blocchi pubblicitari. Poi, esplode. Regolarmente esplode. Letteralmente esplode. Urla e insulta i suoi interlocutori e la collera arriva a trasfigurarlo. Il conduttore di turno sorride placido: il filosofo è partito, tutto previsto nel pacchetto. Del resto, il cedimento nervoso è uno dei suoi due unici vezzi. Ma l’altro, quello di tingersi i capelli di nero, di un nero seppia da diciottenne pakistano - vezzo non accertato però assai probabile, vista la barba con i colori del sale e del pepe - è certamente meno interessante. E’ la deflagrazione nervosa che affascina, che funziona. Un frullato delizioso: quegli occhi di colpo strabuzzati e però, fino a qualche secondo prima, tutti lì ad ascoltare il pensiero politico e profondo dello studioso formatosi con Nietzsche, Heidegger e Wittgenstein, che ha indagato su Dio e sull’Europa, sulla classe operaia e sulla borghesia, autore di libri magnifici - l’ultimo, per Einaudi, è un saggio sull’Umanesimo: “La mente inquieta” - deputato del Pci, eurodeputato, tre volte sindaco della sua Venezia, un’allergia da bolle al buonismo fru fru, a 74 anni ancora snob al punto giusto, erre alla francese, giacche di tweed, appassionato di tarocchi, leggermente superstizioso, fortemente sospettato di essere un formidabile seduttore (nella leggenda, il pettegolezzo che lo vede essere stato amante di Veronica Lario in Berlusconi: pettegolezzo sempre respinto giù nel pozzo della volgarità e dell’invenzione gossippara). Dice: “Burbero, io? Assolutamente no. Forse un po’ severo”. Si piace moltissimo. “Avevo 13 anni quando comunicai ai miei genitori che avrei fatto il filosofo”. Prima di iniziare ad urlare, sempre con un pensiero netto. “Salvini mi fa schifo”. Ma appunto: poi urla. L’elenco degli azzannati è lungo: da Giorgia Meloni a Daniela Santanché, da Mario Giordano a Giulia Bongiorno, da Peter Gomez ad Alfonso Bonafede. Minaccia di alzarsi ed andarsene. Qualche volta l’auricolare se lo strappa davvero. Un giorno, dopo aver sbroccato, confessò: “Il mio stato d’animo è chiuso in una generale delusione, stretto da una profondissima amarezza”. Poi proseguì a parlare del Pd citando Emanuele Kant.

Gli esperti nei talk show? Oggi c’è un gran bisogno di economisti. Pubblicato sabato, 11 maggio 2019 da Aldo Grasso su Corriere.it. Saperi e mestieri dell’industria culturale. Se i talk show non fossero un luogo svigorito, prevedibile e monotono; se i talk non fossero la rappresentazione di uno scompartimento chiuso dove dal finestrino si vede sempre lo stesso paesaggio; se i talk fossero meno mendaci e avessero una maggior apertura culturale…Ebbene, immaginiamo che i talk siano stati e siano ancora qualcosa di più di un asfittico rito sciamanico, ma il luogo dove si discute di politica, dove si affrontano i grandi temi della società e dei suoi processi trasformativi; il luogo dove, volta a volta, si ha bisogno di esperti, di persone competenti. Se i talk fossero così, ci sarebbe un grande bisogno di indirizzare i giovani verso le professioni più richieste. Esattamente come succede nella vita di tutti i giorni, dove servono più infermieri, più chimici, più agricoltori, senza contare le varie specializzazioni legate alla Digital Transformation. Negli anni d’oro di Costanzo e di Vespa, servivano politici, comici, «mostri», gente di spettacolo, ma anche esteti (ve lo ricordate Stefano Zecchi?). Nello slittamento imposto dal linguaggio mainstream per raggiungere il più gran numero di persone (dove domina la cronaca nera) sono molto graditi i criminologi, qualunque cosa rappresenti questa qualifica, ma anche gli psicoqualcosa (sarebbe interessante ricostruire il percorso culturale che parte da Crepet, si afferma con Morelli e finisce con Recalcati). I filosofi sono sempre i benvenuti, ma sono rimasti in due: Cacciari e Fusaro. Piacciono i magistrati, ora scrittori. Ma oggi, specie nei talk del mattino, c’è un gran bisogno di economisti, tipo Antonio Maria Rinaldi: un po’ sovranisti, un po’ euroscettici, un po’ presenzialisti. Nuovi saperi e nuovi mestieri, ricordando che in tv non conta quello che si dice, o a nome di chi lo si dice, ma come ci si esprime, come si urla.

Il mestiere del cosiddetto opinionista: è il terziario che avanza. Pubblicato venerdì, 26 aprile 2019 da Aldo Grasso su Corriere.it. Essere opinionista una volta era una prerogativa, adesso è un mestiere. Mestiere televisivo, s’intende. Un tempo si sarebbe detto: è il terziario che avanza. Nelle discussioni, nei reality, nei dopo qualcosa serve la presenza di un incendiario che alimenti il fuoco della contesa: magari su cose che normalmente non interessano, con pareri irrilevanti. Fa parte del gioco, perché l’opinione fonda quasi sempre la sua retorica sulla frase fatta. Aveva ragione Giuseppe Pontiggia: «Il problema non è di comunicare una opinione ma di averla. Non di dire ciò che si pensa, ma di pensare». Il «Maurizio Costanzo Show» ha dedicato una puntata speciale ai cosiddetti opinionisti (giovedì, ore 23.17). Se li dovessimo elencare tutti, occuperemmo l’intero spazio. C’erano Platinette, Malgioglio, Parietti, Mughini, D’Agostino, Zanicchi e altri ancora. Non staremo qui a discutere la metafisica dell’opinione in tv, se cioè in video sia possibile esprime un’opinione, elaborare un pensiero, sapendo che le leggi del mezzo si fondano sull’abitudine, sulla ripetizione, sull’assuefazione, sulla frase a effetto, sulla rissa. Osservando la solita compagnia di giro dell’opinione, impossibile non riflettere su quanto la tv italiana sia un sistema chiuso, asfittico e soprattutto autoreferenziale. Quante volte Alba Parietti ci ha parlato di suo padre partigiano? Quante volte Platinette ha sfottuto Malgioglio o chi per lui? Quante volte uno si è chiesto: ma chi è Maria Monsé? Aveva ragione Mughini: l’opinionista dovrebbe essere pagato. Se uno è pagato deve comportarsi professionalmente: prepararsi, studiare, dire possibilmente qualcosa di intelligente. Se uno non è pagato, va solo per dovere di visibilità. Ma non sempre è così: spesso anche gli opinionisti a gettone si esprimono come dischi rotti. Forti di un’opinione, si elude l’obbligo di pensare prima di parlare.

Vladimir Luxuria al Costanzo Show: “Chiedono di incanalare le opinioni”. Ilaria Columpsi su gossipetv.com 26 Aprile 2019. Maurizio Costanzo Show, Vladimir Luxuria parla del ruolo di opinionista in televisione. Vladimir Luxuria al Maurizio Costanzo Show è stata protagonista di una rivelazione davvero inaspettata! Nella puntata di stasera si parlava di opinionisti in televisione e infatti tutti gli ospiti erano rappresentanti di questa categoria. Da Iva Zanicchi e Malgioglio che ora sono al Grande Fratello, passando da Alba Parietti e Alda D’Eusanio dell’Isola e finendo con Roberto D’Agostino, Maria Monsè, Giampiero Mughini e la stessa Luxuria. Proprio a quest’ultima Maurizio Costanzo ha rivolto la prima domanda della serata, per intavolare il discorso sull’essere opinionisti in TV oggi. Vladimir ha parlato del mestiere di opinionista e ha iniziato dicendo di essere, per sua fortuna, in grado di esprimere opinioni su vari campi. Dopo questo, Luxuria ha spiazzato tutti: “L’unica cosa un po’ scomoda per alcuni autori televisivi è quando magari ti chiedono di incanalare loro le opinioni. Magari non parlare male di questo, non parlare male di quell’altro. Succede, succede. Ti dicono mi raccomando non parlare male di quello”. Ovviamente non ha rivelato in quali programmi le è successo che le chiedessero di parlare bene di uno o non parlare male di un altro. Non è stato chiaro neanche se il riferimento era ai reality show oppure ad altri tipi di talk televisivi. Certo è che la pulce nell’orecchio degli spettatori ora c’è! Tuttavia, Luxuria ha precisato che lei non ha mai accettato un accordo simile: “Io preferisco sempre dire quello che penso io, non mi faccio assolutamente guidare. Anche a rischio di non fare un programma”. Immediata anche la reazione di Cristiano Malgioglio, opinionista al Grande Fratello: “Se lo dicessero a me li manderei a quel paese”. E possiamo assolutamente credergli, visti i siparietti divertenti con Barbara d’Urso quando lei cerca di fargli esprimere il suo parere in poco tempo. A proposito di Luxuria, nel giorno della registrazione della puntata del Costanzo Show, ha fatto una denuncia pubblica di una aggressione proprio fuori dagli studi della trasmissione.

La tv e i soliti esperti del Nulla. L'importante è ospitare nei talk show persone che fanno finta di sapere. Un esempio per tutti? La diretta per l'incendio di Notre-Dame, scrive Beatrice Dondi il 18 aprile 2019 su L'Espresso. L’Italia è un paese di santi, poeti e pompieri. Alla bisogna. È quanto si vede in tv, con salotti pieni di ospiti in grado di parlare di tutto. Senza saperne rigorosamente nulla. Lo si è visto con evidenza quando i canali si sono buttati a capofitto sul dramma francese della cattedrale di Notre- Dame in fiamme. Mentre si soffriva sommessamente per quel fuoco che portava via pezzetti di memoria personale e perlopiù turistica, i palinsesti hanno giustamente pensato di dar fiato alle trombe per dirette fiume cercando in maniera spasmodica di trasformare un dramma in tragedia. Così qualcuno al Tg1 ha provato a soffrire per una fantomatica quanto incombente minaccia dell’Isis, mentre si lamentava il mancato arrivo dei Canadair, su cui tutti improvvisamente sembravano ferratissimi. Nel corso del Tg2 Post invece hanno trovato spazio le visioni suggestive del cielo tinto di rosso, vuoi per il tramonto vuoi per le fiamme. Ma la palma della serata, e quale giorno migliore della settimana di Pasqua per assegnarla, va senza dubbio a nostra signora Mediaset. Mentre Barbara D’Urso con le piume entrava nella casa del Grande Fratello, sulla nuova Rete 4 Nicola Porro interpretava mirabilmente Grisù, il draghetto pompiere della “Quarta Repubblica”. A poco sono valse le prime pagine dei giornali francesi in cui campeggiavano i titoli “La cattedrale è salva”. Ancora meno è servito il discorso del presidente Macron, che rassicurava il suo popolo e il mondo tutto sulla rinascita certa della cattedrale. Perché per Porro Grisù la frittata era fatta. «È evidente che con quello spruzzetto d’acqua l’incendio non si potrà spegnere», commentava con tono allarmato, rimandando in maniera ossessiva le immagini di qualche ora prima quando il fumo sprigionato dalle fiamme era «preoccupantemente simile a quello che usciva dalle due torri l’11 settembre». Spiccavano tra i suoi ospiti persone notoriamente informate sui fatti artistico-medieval-ignifughi come Gianluigi Paragone e lo psichiatra criminologo Alessandro Meluzzi che puntando il dito a prescindere faceva scivolare retorica un tanto al chilo come un Gargoyle predisposto allo scarico dell’acqua piovana. Al punto che nello scontro immancabile con Vittorio Sgarbi, il critico d’arte ne usciva come un vero gigante di buon senso: «La preoccupazione di Meluzzi è pura retorica di chi non sa distinguere tra opere d’arte e cartoline turistiche». E pazienza che l’Isis non abbia colpa e che la struttura reggerà lo stesso. L’importante è sparare frasi a caso. Come chiudere i porti. D’altronde se lo dice la tv perché non crederle.

·         Daniele Capezzone.

Andrea Scanzi per il “Fatto quotidiano” il 29 ottobre 2019. Egli è tornato, ma in fondo non se n' era mai andato. Perché ci vuole bene, anche se noi un po' meno. Daniele Capezzone ha 47 anni, sebbene da almeno due decenni ne dimostri il doppio, non tanto perché li porti male, ma perché ha voce e fattezze indefinite da cyborg efferato. Uomo dal cognome doppiamente fallico, quasi a voler sottolineare - sin dalle generalità - la recensione brutale che suscita sul povero pubblico non appena lo vede, Capezzone è tornato a pasturare e pascolare in tivù. Se ne sta fisso, o giù di lì, su Rete4. I conduttori, nel rapportarsi a lui, hanno sempre l' aria di chi lo fa controvoglia, quasi che pensassero ogni volta: "Porca miseria, pure stasera ci han dato tutti buca e l' unico che ha accettato l' invito è questo pinolone qua!". Capezzone è un po' come l' amico (va be': conoscente) che chiamavi all' ultimo momento quando ti mancava una persona per la partita di calcetto, e alla fine ti riducevi a chiederlo al Poro Asciugamano (mettendolo in porta e fustigandolo per ogni gol osceno che prendeva). Nel mondo parallelo dell'opinionismo, l'uomo dal doppiamente fallico ha la funzione del tappabuchi destrorso di seconda fascia: non rappresenta nessuno e non lo ascolta nessuno, però fa numero e massa. Capezzone è una sorta di Giachetti di destra (si perdoni la ridondanza), abilissimo nell' incarnare il meglio del peggio dei radicali diversamente liberi italiani: ce ne fosse uno, dei pannelliani e derivati, invecchiati bene. Oggi Capezzone scrive su La Verità, per distacco il miglior quotidiano di destra in Italia. Scrive pure benino, perché cultura e dialettica non gli hanno mai fatto difetto. Politicamente, come e più di sempre, è un fuscello al vento. Ai bei tempi (suoi), il Doppiamente Fallico era un infaticabile distruttore di consensi (Rosa nel Pugno) e uno spietato portavoce del Caimano. Poi è caduto in disgrazia, come un playmobil minore gettato al macero dopo il cinico successo mainstream dei Gormiti. Ultimamente non fa parte di niente, quindi fa parte del movimento di Fitto. Una forza (?) che non conosce nessuno, e che quindi è perfetta per Capezzone. Il quale, del resto, già nel 2006 si intrise di leggenda quando partorì la "Tavola dei volenterosi", mitologico brainstorming di neuroni vilipesi di cui facevano parte Tabacci, Polito e - se non erro - il compianto Menco della zi' Beppa. Epico il successivo "Manifesto dei volenterosi" (Giavazzi, Alesina, Giuliano da Empoli). Totemico pure il network "liberale e liberista" Decidere.net, il cui successo trascinante - a ripensarci adesso - non fu dissimile da quello del comico "Democratica" targato Andrea Romano & Mario Lavia. Wikipedia, che è misericordiosa parecchio e dunque parla anche di lui, ci informa che il Doppiamente Fallico nel 2015 ha aderito a Conservatori e Riformisti (chi?) e poi nel 2017 in Direzione Italia (daje!), entrambi passatempi del poro Raffaele Fitto. I suoi interventi in tivù, ora più che mai, hanno il sapore della muffa comprata al discount. Il Doppiamente Fallico è scaltro, con la sua prosa ispirata e arzigogolata, a infiocchettare la retorica salvinian-meloniana. Ogni volta parte dalle guerre puniche per poi arrivare alla solita solfa, ovvero che i migranti ci hanno la rogna, la sinistra italiana (peraltro inesistente) è brutta e i grillini son scemi. È sempre stato l' unico talento del Doppiamente Fallico: pralinare di apparente cultura quel suo perenne salire sul carro del vincitore, fingendo per giunta d' essere alternativo. Gli sia lieve il cognome.

·         Paolo Guzzanti.

Paolo Guzzanti: “Quei segreti di Stato nella tomba di Cossiga…”.  Emanuele Beluffi il 21/01/2019 su Il Giornale Off. Vi proponiamo questa intervista..deflagrante a Paolo Guzzanti in cui ci parla di una forma di teatro americano da lui importata in Italia con lo spettacolo “Stand Up, Guz!” , al Teatro Brancaccio nel 2017. In questa intervista ci parla anche dei sui rapporti in realtà nient’affatto burrascosi fra “il Fondatore” (Scalfari) e il Cav, dei segreti che Cossiga si è portato nella tomba … (Redazione).

Ma che vuol dire “Guzz”?

«E’ il nome con cui mi chiamano da molti anni i miei amici. Guzz sono io, tutti mi chiamano così. Il titolo dello spettacolo ha due significati: il primo è quello di un umorismo acido in dialogo con il pubblico, possibilmente in conflitto: lo “stand up” non è lo spettacolo del “comico politico” che fa le battute, ma è piuttosto basato su una critica provocatoria e politicissima del nostro modo di pendare, i luoghi comuni sul sesso, sulla politica, sul nostro modo di parlare e sulla degradazione del linguaggio, sui rapporti fra uomo e donna (vedi il cosiddetto “caso Weinstein”). L’altro significato è letterale: “stand up”, “stai su”. E’ uno spettacolo a schiena dritta contro il politicamente corretto. L’umorismo è lo strumento rivoluzionario della gente libera – e quindi dei liberali. Fra l’altro se posso dare un consiglio al prossimo governo di centro destra è proprio quello di proporre l’umorismo sempre e di non avere mai atteggiamenti di irritazione. Il mio spettacolo è una riflessione sulla natura del comico, perché nessuno ha stabilito per quale ragione sia piacevole ridere».

Sappiamo perché il sesso ci piaccia tanto, ma la libido del ridere ha una spiegazione?

«La mia tesi è che l’umorismo precorre in maniera feroce la prossima frontiera contro i luoghi comuni. Ripeto, è la vera arma rivoluzionaria della gente libera. L’umorismo porta necessariamente alla tragedia (vedi la strage a Charlie Hebdo) perché per sua natura va a sfondare il diaframma prossimo che non si deve sfondare, il “no questo non si fa”».

Qualcuno potrebbe dire che la felicità non è un diritto ma un desiderio. Un po’ come Niki Vendola che vuole a tutti i costi un bambino…

«Io sto con la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti: il diritto a cercare la nostra felicità. Questo diritto va protetto. Nessuno può impedirmi di cercare la mia felicità, la felicità per me: ognuno di noi aspira alla propria personale felicità, no? Quanto a Vendola, trovo inaccettabile la schiavizzazione di una donna per il cosiddetto utero in affitto, che è diventato un cavallo di battaglia della Sinistra: pagare una donna per produrre un essere umano è diventato una cosa buona, mentre una donna che affitta se stessa per l’eros è considerata una troia. Vendola vuole un figlio con questa pratica, ma per me è inaccettabile».

Chi è un politico felice secondo te? Fuori i nomi – se ce ne sono...

«Un politico felice è proprio Berlusconi: ha la gioia di vedere la propria vitalità politica rinascente come un araba fenice. Io da anni vivo circondato da gente che mi parla del dopo-berlusconi: ma quale dopo-berlusconi? Di che parlano? Lui è caduto e si è rialzato ogni volta con le sue forze. E’ l’unico vero leader. Renzi si è suicidato, Prodi è patetico, essere di Sinistra è diventato un atteggiamento solo estetico. l’uomo di Sinistra insegue un sogno da dandy: eleganza intellettuale in vista di nulla».

Sei stato “fondatore/operaio” e inviato di Repubblica: tu che…lo ha “visto da vicino” (cit), che ne pensi del recentissimo ”outing” di Scalfari su Berlusconi che ha mandato in bestia i vari D’Arcais e Travaglio? Ma poi hai visto come il Cav è tornato in grande spolvero? Vogliamo azzardare un pronostico?

«Scalfari è un genio che ha creato enorme ricchezza col suo talento. Montanelli faceva un bellissimo giornale, ma non vendeva niente, per questo dovette intervenire Berlusconi. Scalfari invece ha inventato un prodotto e l’ha venduto a De Benedetti. Mi sembra giustisssimo che quando gli si chiede se preferisce uno come Di Maio, che gli vuole portare via una parte di ciò che ha prodotto con la sua genialità per darla via a zonzo, o se preferisce Berlusconi, contro il quale si è sempre battuto ferocemente ma con cui ha anche suonato al pianoforte la Rapsodia In Blue (fra l’altro gli fece delle avance di vendita di Repubblica e quando Carlo De Benedetti lo venne a sapere si incazzò tantissimo), preferisca il secondo: Scalfari e Berlusconi, oltre che nemici acerrimi, sono stai amiconi! Il loro è un rapporto antico e antagonista, ma fra persone che si rispettano. Insomma, è naturale che abbia scelto Berlusconi, io stesso avrei detto “no, certo che salverebbe lui”. D’Arcais, Travaglio, questi robespierrani che insorgevano contro Cossiga sono dei preti, delle figure ieratiche che pensano di conoscere solo loro il bene. Sono “ariani del bene”, sono razzisti che credono di incarnare il bene e chi sta fuori è un demonio».

A proposito di felicità: ma è vero che Cossiga era matto come un cavallo?

«Ma no! La mia grande amicizia con lui, che si è portato nella tomba dei misteri molto gravi come le vere cause dell’uccisione di Falcone e Borsellino, non era matto per niente, solo che ogni tanto parlava sopra le righe. La nostra amicizia nacque quando ero a La Stampa, direttore Mieli: 1991, inaugurazione dell’anno giudiziario a Gela, ero dietro di lui e scrissi che pur avendo espresso opinioni forti sullo scandalo della Uno Bianca e dell’Arma, erano opinioni legittime. Al che tutta la Sinistra di Repubblica mi tolse il saluto: ma tu pensa che tutti i giovedì Cossiga andava a pranzo da Scalfari, aveva il suo posto a tavola, eppure gli fece questa campagna violentissima per scalzarlo via certificandolo come pazzo furioso: una mitica fatta per motivi politici, ma io evitai che questa manovra andasse in porto. Cossiga è stato uno dei più intelligenti: dopo il crollo del Muro di Berlino disse che la DC non avrebbe contato più nulla. E infatti…»

Ma la religione ha un ruolo nella realizzazione della felicità? Pensiamo agli orgasmi/estatici di Santa Teresa d’Avila…mentre l’Islam invece sembra una religione incazzosa…

«Mi dichiaro non esperto. Sono uno scettico, disprezzo gli atei assolutisti e i fedeli massimalisti. Ma questo riguarda i rapporti individuali con Dio. Le religioni sono delle organizzazioni, sono dei codici di comportamento con fini sociali: quello che mi spaventa dell’Islam è la sua organizzazione della vita civile: entra in casa tua, stabilisce cosa puoi dire e no, le misure dei vestiti e così via. Il fine di questa organizzazione è impedire il progresso in tutti i sensi: infatti gli islamici che producono progresso lo fanno nei paesi occidentali, vedi Salman Rushdie. Noi apparteniamo invece a una tradizione giudaico/cristiano e la nostra civiltà è cristiana. Tutta l’arte, la poesia, il teatro, la scienza, sono nate in un bacino cristiano»

Ci racconti un episodio OFF della tua vita che nessuno conosce?

«Ah ah!, io sono un chiacchierone e non ho segreti! Ai tempi di Repubblica c’erano quelle riunione mattutine dette “messe solenni”, in cui Scalfari discettava su tutto lo scibile, dalla politica estera alla letteratura. Un giorno ebbi una percezione: tutti recitavano. Era una recita che prescindeva dalla realtà, come quando scopri che non ami più la tua donna. Allora ho fatto come Bertrand Russell quando un giorno si accorse di non amare più sua moglie: cambiò direzione della bici e non tornò più a casa. Ecco, per me ci fu un momento in cui, nel 1989, indossai la rivolta contro la politica falsificata, di altissimo livello, la crème  della crème: troppa crème mi ha dato alla nausea! Io devo tutto a Scalfari, ma quel giorno mi trovai fuori dalla linea come Bertrand Russell: se avessi proseguito forse avrei avuto una carriera meravigliosa, ma io sono un de-costruttore di me stesso e ne porto le conseguenze».

Schopenhauer diceva che siamo nati per morire, Paolo Guzzanti invece che dice?

«Siamo nati per vivere. Non si vive la propria morte. Nessuno di noi lo saprà. Non siamo nati per morire nemmeno in senso metaforico, perché la natura, nella sua crudeltà, ci da gli strumenti per riprodurci e poi ci ammazza. Abbiamo una vita che è fatta per vivere. Mi preoccupano quelli che vivono la loro morte: saranno gli unici a non saperlo, quando toccherà a loro».

·         Salvate il soldato Sgarbi, impiegato del litigio da copione.

Sgarbi: "Non sono un trasformista. Sono indipendente, da tutto". Vittorio Sgarbi si difende così sulle pagine di Panorama dagli attacchi di Mario Giordano. Vittorio Sgarbi su Panorama il 12 dicembre 2019. Siamo nel 1990 trent’anni fa. Prova a immaginare un uomo che odiava la politica, cui viene chiesto, con insistenza, di candidarsi da due partiti, garantendogli l’indipendenza: il Partito socialista e il Partito comunista. Nelle belle e remote Marche, a San Severino e a Pesaro. Prima rifiuto, poi accetto entrambe le proposte. Pensa che non c’era ancora l’elezione diretta del sindaco. Quindi era tecnicamente impossibile candidarsi. Il sindaco designato a Pesaro era un tale Amati. Aldo Amati. Che sarebbe stato nominato dal Consiglio comunale, dopo le elezioni. A me era riservata, portando voti con la improvvisa popolarità, la poltrona di assessore alla Cultura con competenza sul Rof, il Festival rossiniano. Io odiavo i partiti, già prima di Tangentopoli, e mi sembrava divertente portarli in giro con i paradossi. Giuliano Zincone scrisse, con ammirazione e ironia, che avevo realizzato l’unità della sinistra, mettendo insieme socialisti e comunisti. Era un altro mondo. Io mi divertii, e D’Alema serissimo disse ai suoi che io ero estraneo al loro mondo. Così Renato Nicolini, l’assessore dell’Effimero. I pesaresi difesero l’indipendenza della loro scelta e ribadirono l’offerta. A quel punto (tecnicamente due candidature contemporanee sono possibili, e si sceglie dopo l’elezione), per non accentuare i conflitti tra partito centrale e periferia rinunciai a Pesaro e accettai San Severino. Fui eletto (effetto Sgarbi), raddoppiando i voti della lista. Per la prima volta, per mandarmi all’opposizione, nelle Marche i Dc (la metà esatta dei consiglieri) si allearono con i comunisti. Dopo due anni il segretario della Dc, massone, mi chiese di fare il vicesindaco per scaricare i comunisti. Io, nel frattempo, ero stato chiamato da Renato Altissimo, segretario del Partito liberale, per candidarmi in Parlamento per le elezioni politiche del 1992 (le ultime democratiche, con i partiti veri) con il Pli, sempre da indipendente, in tre regioni: Sicilia, Sardegna e Umbria. Non me lo chiese il Psi di Bettino Craxi, che poi fui l’unico a difendere quando scoppiò l’inchiesta di Milano, perché avevo variamente insultato il loro sottosegretario Luigi Covatta ai Beni culturali chiamandolo «faccia di prosciutto» (querela). Eletto in Sardegna con le preferenze, circa 15 mila, risposi che non potevo accettare altro che di fare il sindaco. Convenirono; e feci il primo «gruppo Sgarbi», portando nella maggioranza tre dei consiglieri che uscirono dal gruppo socialista. I Dc scesero da 15 a 14 perché il più vecchio eccepì che io non ero marchigiano; e il consiglio mi elesse sindaco. La maggioranza era di 16. Nominai con me un assessore, la formidabile e fedelissima Liana Lippi. L’Msi manifestò compiacimento, ma non c’era. Se mi avessi lasciato spiegare (si tratta di un altro mondo) ti avrei detto che, soprattutto per un indipendente (come era nella mia natura, non per difesa), io avevo il vantaggio di essere popolare e di sembrare eletto direttamente dalla volontà dei cittadini. Era il tempo di Francesco Cossiga, mio solo riferimento politico, che difesi come nessuno. Ricorderai che era Dc, no? Ma anche che i suoi (dal suo grande elettore De Mita a Mancino a Pomicino) lo avevano ripudiato, e che era nato «il partito del presidente» sostenuto da socialisti e liberali (Craxi e Altissimo), in una specie di preludio delle coalizioni maggioritarie (dalla cui fusione, ricorderai, nacque Forza Italia). I partiti stavano morendo. E io non appartenevo a nessuno, ma indicavo una tendenza, anticipando Silvio Berlusconi. Così fui il primo sindaco di maggioranza «cossighiana» (Dc+Psi+Pli). Eravamo popolari, ribelli e antisistema prima di Beppe Grillo. Il nemico era il partito dei magistrati, che aveva assorbito ed egemonizzato la sinistra (vedi Luciano Violante presidente della Camera, più autorevole ascoltato del presidente della Repubblica). E io ne rappresentavo (con Sgarbi quotidiani, mentre televisione e politica si sovrapponevano, con le ridicole prescrizioni della «par condicio» dettate da Oscar Luigi Scalfaro, successore di Cossiga, proprio nel 1992, l’anno della crisi mai superata), il principale antagonista, prima di Berlusconi e più di Marco Pannella. Era così nato il «mio» partito, popolare ma solitario (essendo io un solista, che attende, come un buon tenore, orchestra, produzione, regia, promozione, organizzazione, alle quali non voglio applicarmi).Alla fine dei partiti e senza nessun trasformismo. Iniziava, ricorderai, il bipolarismo, e non ho mai saltato il fosso, che nel 1990 (un altro mondo) non c’era ancora (ogni partito era una casa, il sistema era proporzionale). Sono stato sempre dall’altra parte rispetto a De Mita e Di Pietro: questo il mio partito. Dall’altra parte rispetto alla sinistra giustizialista. Tutte le case erano in quel momento, con Tangentopoli, crollate. L’unica azione politica era quella giudiziaria. L’Italia era nella tenaglia dei processi di Craxi, a Milano, e di Andreotti, a Palermo. Mi seguì, allora, da Rifondazione comunista, Tiziana Maiolo. Nel 1993 iniziò la storia di Forza Italia, cui infatti concorsero democristiani, socialisti, liberali, repubblicani. Sistema maggioritario, con le coalizioni, seguendo il modello anticipato da Cossiga e Sgarbi. Rimasero fuori Lega e Msi-Alleanza Nazionale. È difficile spiegarlo oggi, ma non c’era nessun trasformismo, soprattutto per un indipendente mai iscritto a un partito come me. Come si spiegherebbe altrimenti un’area chiamata di centrodestra, con esponenti e un leader (Berlusconi) socialisti? Berlusconi, fingendosi antisistema (l’ossessione dei nuovi) ci assorbì tutti, iniziando a dare spazio ai dilettanti (che non avevano mai fatto politica) rispetto ai professionisti (con una buona iniezione, peraltro ininfluente o inefficace, di valorosi uomini di pensiero, presto dispersi: Martino, Urbani, Vertone, Coletti, Mathieu, Melograni, Ferrara, molti ex comunisti). Sono le contraddizioni dei tempi, quando ormai i partiti contavano meno degli uomini. A quel punto, non un altro partito, ma una cooptazione, come l’adesione di una corrente: la fondazione, nel 1996, della lista Pannella-Sgarbi, per tenere i radicali sparsi, come identità politica, non come singoli, nell’area di centrodestra, ognuno con le sue peculiarità (oggi non lo sono più). In quell’ambito tutto, soprattutto per un proverbiale indipendente, era compatibile. I radicali propugnavano la doppia tessera, condivisa da molti socialisti. Poi Pannella fece le bizze, pretendendo, nel maggioritario, tante candidature (che non ottenne, nonostante i molti collegi sicuri: sarebbero stati almeno 42 gli eletti, ne prendemmo solo uno) quante il partito di Casini, allora Ccd. Ricorderai che nei collegi i voti non andavano ai partiti ma, miscelati, ai candidati, eletti da Forza Italia, Alleanza nazionale, Lega, Ccd e, sarebbe dovuto entrare anche la Lista Pannella-Sgarbi. Sarebbe stato un risultato straordinario, ma Pannella si impuntò e volle andare da solo (non c’era la piattaforma Rousseau, che l’avrebbe smentito). Fui costretto a candidarmi con Forza Italia, pur avendo il mio nome nell’altra lista. All’ultimo momento, in cambio di un contributo di cinque miliardi di lire (eravamo nel 1996), Pannella riconvertì la sua posizione e diede indicazione di votare, nelle liste maggioritarie dei collegi, il candidato di centrodestra, che non era mai uno dei nostri. Uscì, solo, per effetto di una desistenza: l’avvocato Pietro Milio, un vero liberale.

Ma la mia posizione rimase coerente. Nel 1999 fui eletto con Forza Italia al Parlamento europeo. Nel 2001 fui chiamato al governo da Berlusconi, e da lui cacciato nel 2002. Sempre in area, presentai alle europee successive (sistema proporzionale) il Partito della bellezza con il Pri, e mancammo il seggio per 3 mila voti. La posizione politica era sempre la stessa. Poi, negli anni, senza contraddizione, presentai liste civiche per essere eletto sindaco (certamente con l’appoggio di Forza Italia) a Salemi (Partito della rivoluzione) e a Sutri (Rinascimento). Le liste civiche, nei comuni, assorbono i partiti, o li nascondono, come fa ora Stefano Bonaccini alle regionali in Emilia Romagna,  «proteggendosi» dal suo Pd). Nel frattempo sono tornato in Parlamento con Forza Italia, con la componente riconosciuta «Rinascimento». Infine, alle ultime amministrative di Ferrara, vincendo alleati con la Lega (a conferma della coerenza di fondo), ho proposto, come a Urbino, dove sono prosindaco, la lista unitaria Rinascimento-Forza Italia. E Pesaro ritorna: il sindaco del Pd, Matteo Ricci, vuole presentare con me a Matera la candidatura di Pesaro e Urbino, due comuni una sola provincia, a Capitale Europea della Cultura 2033. Avrò allora 80 anni. E magari sarò sindaco di Pesaro.

Questa la storia di un indipendente: una sostanza, un’inquietudine, un pensiero forte e costante; tante apparenze. Tutta la mia esperienza politica è, in fondo, successiva alla fine dei partiti, se non della politica. Sono entrato in parlamento nel 1992, nell’agonia della prima e ultima Repubblica. Ora siamo in un dopo-Storia. Con la nostalgia di partiti scomparsi, trasformati, al loro schianto, dalla conversione inizialmente in Forza Italia (il nuovo che avanza) a formule ridicole, fino alla denominazione della categoria di un albergo di lusso. Ma, come si sa, le stelle si perdono. Oggi da cinque, siamo a due stelle. Adesso mi sto muovendo in Calabria e in Valle d’Aosta. Civico. Civicissimo. Per la Rivoluzione e il Rinascimento. Forza Italia.

Massimo Falcioni per tvblog.it il 27 novembre 2019. “Dici solo bugie, sei una merda”. Il faccia a faccia tra Mario Giordano e Vittorio Sgarbi non tradisce le aspettative e dà vita all’ennesimo scontro, zeppo di insulti lanciati dal critico d’arte. A Fuori dal coro la benzina viene volutamente accostata al fuoco sperando nell’incendio che, guarda caso, si propaga. I precedenti sono illustri e il programma di Rete 4 li cita in un servizio che prende il via dallo storico scazzo scoppiato un anno fa dalla Berlinguer (stavolta diretta rivale di Giordano) e in seguito pure a Quarta Repubblica. Al centro dello studio viene installato un ring e i due contendenti entrano in scena vestiti da pugili sulle note della colonna sonora di Rocky. Sgarbi sorride e sta a lungo al gioco, fino a quando il padrone di casa non tira in ballo il suo trasformismo politico. A mandare su tutte le furie Sgarbi è il servizio nel quale si ricorda la candidatura a sindaco di Pesaro tra le fila del Partito Comunista nel 1990 e l’accostamento alla lista di Forza Italia in occasione delle amministrative di Sutri del 2018. “Io non mi devo incazzare con te, ma tu non hai studiato bene. Sono bugie, falsità. Io non sono sindaco di Forza Italia. O ti scusi o ti querelo. È una bugia, dici solo bugie, non mi sono mai candidato sindaco col Pci, sei una testa di cazzo, non ero candidato del Pci. Me ne vado via perché non sopporto le bugie, guarda internet. Questa è una trasmissione di merda”. La discussione prosegue per diversi minuti e Sgarbi viene congedato. Ma una volta rientrato dalla pubblicità, Giordano vara il fact checking ripescando la biografia di Wikipedia e un vecchio articolo di Repubblica. “Sgarbi aveva proposto una doppia candidatura a Pesaro nel Pci e a San Severino Marche nel Psi, poi non si candidò effettivamente perché il Pci lo tolse dalle liste. Ha ragione Sgarbi, gliene diamo atto, quando dice "non mi sono candidato", è vero però che voleva candidarsi nel Pci”. In precedenza, Sgarbi aveva anche avuto modo di tornare sul caso Luxuria dopo le polemiche generate dalla sua ultima ospitata a Live-Non è la D’Urso: “Non mi frega niente di lei. C’è una persona normale che si traveste da donna come Platinette che è piena di humour e a cui puoi dire qualsiasi cosa. Poi c’è questo personaggio qui, che ha pubblicato libri con mia sorella e che ho fatto lavorare con me, che dichiara che si è a lungo prostituita. Io ho citato lei, non ho insultato nessuno, se lei vuole negare di essere quello che è diventata viva riservatamente, ma se sei un uomo o una donna pubblica non puoi negare un pezzo di passato attribuendolo a me. Se mi devo scusare con lei per quello che ha fatto lei mi scuserò, ma non so di che cosa”.

Fuori dal Coro, Sgarbi massacra Mario Giordano: "Bugiardo, testa di cazzo, ti querelo, trasmissione di merda". Libero Quotidiano il 27 Novembre 2019. A Fuori dal Coro, nell'attesissimo scontro-incontro tra il conduttore Mario Giordano e Vittorio Sgarbi, all'inizio le cose sono andate piuttosto bene, per il verso giusto, senza troppa tensione. Tensione che, però, è inevitabilmente esplosa nello studio di Rete 4: "Bugiardo, sei una merda", ha picchiato duro il critico d'arte. Il punto è che Giordano lo incalzava sul vitalizio. Ma non solo. A mandare su tutte le furie Sgarbi è stato un servizio in cui veniva ricordata la sua candidatura a sindaco di Pesaro con il Partito Comunista nel 1990, candidatura accostata alla candidatura del 2018 a Sutri con Forza Italia. Troppo, per Sgarbi, che sbrocca del tutto: "Io non mi devo incazzare con te, ma tu non hai studiato bene - ha premesso -. Sono bugie, falsità. Io non sono sindaco di Forza Italia. O ti scusi o ti querelo. È una bugia, dici solo bugie, non mi sono mai candidato sindaco col Pci, sei una testa di cazzo, non ero candidato del Pci. Me ne vado via perché non sopporto le bugie, guarda internet. Questa è una trasmissione di merda". Amen, cala il sipario. Un finale ampiamente previsto.

Fuori dal Coro, Mario Giordano mette Vittorio Sgarbi sul ring: duro scontro su vitalizi e pensioni. Libero Quotidiano il 27 Novembre 2019. Nella serata di martedì 26 novembre, a Fuori dal Coro su Rete 4, è andato in onda l'attesissimo faccia a faccia tra Mario Giordano e Vittorio Sgarbi, due che in tempi recenti se ne sono date, e parecchie, in televisione. Insulti, s'intenda. E per testimoniare quanto lo scontro fosse temibile, Giordano ha allestito una clamorosa scenografia: lui e Sgarbi su un ring improvvisato nello studio di Fuori dal Coro, entrambi seduti su uno sgabellino all'angolo. E il confronto ovviamente non ha deluso le aspettative. Scintille, soprattutto, quando si parlava di pensioni e vitalizi, tema contro il quale Giordano fa ormai da anni una campagna. Sgarbi, da par suo, difende il vitalizio che incassa, ma premette: "Denuncio un milione di euro all'anno. Non è che mi serva la pensione o il vitalizio". E Giordano: "È un sovrappiù". Il critico d'arte: "Sono determinati dalla legge". Giordano lo incalza: "Ma la legge l'hanno fatta i parlamentari per loro stessi". "E allora cosa deve fare uno, respingere i denari che prende?". "No, ma deve dire che quella cosa lì è un insulto ai tanti italiani che stanno guardando". E Sgarbi conclude sornione: "Può essere...".

Da leggo.it il 9 novembre 2019. Vittorio Sgarbi continua a provocare in tv. Ospite di Caterina Balivo a Vieni da me, il critico d'arte ha risposto a una domanda della conduttrice - che gli chiedeva se sapesse «fare la lavatrice» - esclamando: «No, io non faccio nulla. Io ho una visione e ti devo dire una cosa: le donne devono stare in casa e gli uomini devono andare fuori». Caterina Balivo, con tono ironico, ha risposto alla provocazione di Sgarbi dicendo: «Posso dire che hai quasi ragione? La penso come te! Noi donne a casa!». La reazione a sorpresa della conduttrice napoletana, con ogni probabilità, aveva lo scopo di distogliere l'attenzione dall'affermazione di Sgarbi, facendola passare per uno scherzo. Ma su Twitter molti utenti non l'hanno presa allo stesso modo, criticando fortemente sia l'ospite che la padrona di casa. Poco dopo però è arrivata la replica di Caterina Balivo, che ha voluto immediatamente chiarire l'accaduto con un tweet: «Quando inviti Sgarbi tutto può succedere... Come anche non essere d’accordo su alcune sue affermazioni. Tutte noi, io compresa, ci siamo conquistate grande autonomia negli anni e con fatica. Nelle mie parole c’era del sarcasmo che non tutti hanno colto, dovreste conoscermi ormai».

Pina Francone per il Giornale il 26 novembre 2019. Si chiama tele-rissa ed è, da anni, un nuovo sottogenere della televisione italiana. E non solo. Nella puntata di domenica sera di Non è l'Arena, su La7, Massimo Giletti ha dedicato uno spezzone della sua trasmissione serale alle risse televisive. "C'è un re indiscusso: non vi dico neanche come si chiama, perché tanto lo avete capito. Favorite il messaggio filmato…". Così il conduttore lancia il video e nei due minuti di girato è Vittorio Sgarbi a farla da padrone. Nei due minuti di filmato confezionato dal programma fa capolino una breve carrellata delle più note e recenti litigate in tv che vedono protagonista il critico d’arte. Il sindaco di Sutri se la prende con Peter Gomez, con Francesca Barra, con Mario Giordano, Corrado Formigli, Luca Telese e Luisella Costamagna. Al rientro in studio, il padrone di casa ci scherza e, sorridendo, dice: "Ecco, Beppe Grillo, quando inventò il Vaffa-Day, forse prese spunto propri da qui...perché finisce sempre in vaffa!". Ecco, è qui che Alessandro Cecchi Paone – ospite di serata – prende la parola per fare la ramanzina a Vittorio Sgarbi: "Posso dire una cosa che ci riguarda entrambi?", chiede rivolgendosi a Giletti. Dunque, ecco il suo affondo: "Noi siamo stati formati nella Rai di quarant'anni fa, da grandissimi maestri. Neanche una parolaccia esce dalle nostre bocche, perché ce lo hanno insegnato all'epoca". Quindi, rincara la dose: "E allora io vorrei sapere perché uno che dice sempre parolacce debba continuare a essere invitato in tutte le trasmissioni…". Il diretto interessato, sentitosi chiamare in causa dal divulgatore scientifico, ha replicato a stretto giro . E lo ha fatto con un caustico commento sulla propria pagina Facebook ufficiale. Già, perché sulla bacheca Fb del deputato (in forza al Gruppo Misto) è comparso il seguente messaggio: ""Non capisco perché continuano a invitare in tv Sgarbi che dice le parolacce". Lo ha detto stasera a Non è l’Arena Cecchi Pavone Cecchi Pavone che fa il moralista è una roba da Zelig". E il post di Sgarbi contro il fu volto Mediaset si conclude con un ulteriore attacco e una fotografia che ritrae Paone in tenuta da mare: "La parolaccia è nella vita di tutti i giorni, del calzolaio come dello studente. È nella letteratura e nel cinema. Nei fumetti e nella musica. Persino nella Bibbia. Solo un moralista ignorante come lui non lo sa. Il povero Cecchi Pavone non ha mai letto Pasolini. Lui, comunque, non è invitato perché è osceno anche senza dire le parolacce".

Giuseppe Guarino per funweek.it il 9 novembre 2019. Ospite di Raffaella Carrà ad A Raccontare Comincia Tu, Vittorio Sgarbi ha passato in rassegna una serie di amori passati, tra i quali è spuntata anche Elenoire Casalegno. Nei suoi confronti, però, il pungente critico d’arte ha usato parole meravigliose. Ma cosa avrà mai raccontato? Partiamo dal principio. Vittorio Sgarbi ed Elenoire Casalegno hanno avuto un breve flirt che negli anni ‘90 fece molto parlare di sé. È per questo che quando ad A Raccontare Comincia Tu Raffaella Carrà ha mostrato al buon Vittorio una foto della dirompente showgirl non si è potuto fare a meno di dedicare qualche istante al fuoco amico dei ricordi. “È durata poco, per un tempo breve – ha rivelato il sindaco di Sutri e deputato del gruppo misto – Lei si è fatta riconoscere. Per me c’è stato un palcoscenico e lei è apparsa al mondo, una meraviglia. Come Venere che sorge dalle acque. Potevo fare il suo agente più che il suo amante”.

“La Casalegno era una bellezza pura, poi si è coperta di tatuaggi”. Ma ad un certo punto è tornato sul motivo principale della loro rottura: “Poi si è coperta di tatuaggi e io ho aperto una polemica con lei, che era una bellezza pura”. Proprio così, perché per chi non lo ricordasse Vittorio ed Elenoire si lasciarono polemicamente proprio per l’ostilità del critico ai tatuaggi, che su di lei aveva affermato: “non si rovina un’opera d’arte con uno stupido graffio”. Una discussione nella quale la stessa conduttrice di Vite da Copertina aveva detto la sua con un piccato “Sono una ragazza, non sono un quadro”. Non ci resta però che il ricordo di una storia finita che, a quanto pare, è rimasto piacevole anche per i suoi stessi protagonisti.

Silvana Palazzo per ilsussidiario.net l'11 novembre 2019. Vittorio Sgarbi torna a “Vieni da me” dopo le polemiche scoppiate per la sua ultima intervista nello studio di Caterina Balivo. «Non c’è più la lavatrice per fortuna», scherza subito il critico d’arte. E flirta subito con la moglie di Vincenzo Montella. Lui fa finta di non capire: «È la vedova di…?». La conduttrice subito lo riprende: «È la moglie di Montella». E lui rilancia: «Prima o poi sarà vedova». Senza perder tempo flirta pure con lei: «Ho scritto nella mia agenda che andrò dalla Balivo che tradirà suo marito…». La frase che ha scatenato le polemiche è: «Le donne devono stare in casa, gli uomini devono stare fuori». E allora oggi Vittorio Sgarbi spiega: «Il mondo in cui ho vissuto io era diverso. La donna dominava al punto da escludere il maschio in alcune cose. Mia madre mi impediva di usare la lavatrice. Il frigorifero potevo usarlo poco. Io ci volevo entrare dentro e lavarmi l’anima e invece…». E poi sbotta come suo solito: «E tu mi hai fatto sedere su quella ca..o di lavatrice…». Ma anche Caterina Balivo si è voluta togliere qualche sassolino dalle scarpe. La conduttrice di “Vieni da me” è stata infatti sommersa dalle critiche per aver dato ragione al suo ospite, anziché riprenderlo. Quindi oggi spiega cosa è successo. «Ho rivisto tante volte questo pezzo, ma visto che il mio pensiero è l’opposto di quello che è stato detto ero convinto di essere sembrata ironica, visto che lavoro da 20 anni», comincia Caterina Balivo. La conduttrice poi prosegue: «Così non è sembrato, quindi qualcuno si è divertito a scrivere tweet simpatici e meno simpatici, con insulti da hater. Si è sollevato un polverone. Non è stato chiaro che fossi ironica». Da tanti tweet sono nati tanti articoli. E quindi ha aggiunto rilanciando: «Sono una conduttrice che lavora da venti anni in tv. La cosa più singolare è che Vittorio Sgarbi è cresciuto con una mamma che lavorava in farmacia». Poi alza la voce e annuncia: «Le donne possono lavorare e stare a casa. Le donne hanno raggiunto la libertà di poter scegliere».

Luca Telese per “la Verità” il 28 ottobre 2019. Vittorio, ti sei pentito di aver detto che gli evasori fiscali sono patrioti? (Risata sgarbiana). «Neanche un po'. È una provocazione che difendo, e che ti spiego. Ma a un patto».

Quale?

«Dobbiamo parlare di Mafia capitale. Una vergogna! Una indecenza! Uno scandalo! Sono stato l'unico a denunciarlo. Adesso una sentenza mi dà ragione».

Ne parlerai quanto vuoi. Ma spiegami questa provocazione sulle tasse, tu che le paghi. «Effettivamente mi dicono che io pago tutto, purtroppo. Il che mi fa soffrire non poco».

Chi te lo dice?

«Il commercialista. Il mio reddito è crollato dopo la fine di Sgarbi quotidiani, guadagnavo solo dalla televisione 1 miliardo di lire l'anno».

«Crollato» a quanto?

«Nell'anno 2000, l'ultimo in lire, ho fatturato 2 miliardi e 700 milioni. Un introito soddisfacente».

Salute. E adesso?

«Adesso mi restano solo le collaborazioni, le ospitate, i diritti d'autore, i libri, le serate che faccio in giro per l'Italia, il mio lavoro nel mercato dell'arte...».

Dicono sia un gettito pauroso, sei il re delle plusvalenze artistiche.

«Ma neanche tanto: perché, come è noto, compro molto più di quello che vendo».

E quanto fatturi, con queste attività «residuali» che riempiono un elenco del telefono?

«Mah, mi sono attestato intorno al milione, un milione e 200.000 euro, un valore medio che però oscilla. L'anno scorso sono crollato...».

 Annata nera?

«Ehhhh... fammi controllare... Ecco, vedi? Solo 782.682 euro. Un picco in basso».

Salute. Sarebbe bello avere tanti picchi così depressivi.

«Ma la metà di questi soldi io non li vedo».

Le tasse. Non sei il solo.

«Per carità. Ma diciamo che quando mi va male contribuisco alla ricchezza del Paese con mezzo milione di euro. E che cosa devo sopportare?».

Che cosa?

«Che per colpa di Di Maio quello che verso finisce perfino per pagare il reddito di cittadinanza a dei divanisti! Degli imbecilli! Dei nullafacenti! Ma dico, ti pare possibile?».

L'intervista può cominciare. Discutere di fisco e di evasori con Vittorio Sgarbi ti trascina - come sa bene chi conosce le passioni di Vittorio - in una giungla fittissima di subordinate: il suocero di Conte, il papà di Renzi. La carriera di Pignatone, i reati di Buzzi e Carminati e (naturalmente) la madre di tutte le battaglie sgarbiane: la guerra contro le odiatissime pale eoliche. Mentre «accompagno» Sgarbi non so dove (sta viaggiando in auto) per telefono, mi rendo conto che un paio di ore sono volate quando non siamo nemmeno a metà dell’intervista. Poi finale con fuochi d'artificio.

Partiamo dagli evasori patrioti.

«Ennò. Prima Pignatone! ».

Che c'entra Pignatone?

«Ma come che c'entra? Io sono il solo, il primo e l'unico che aveva detto che Mafia capitale non esisteva».

Va bene, te ne do atto.

«La peggiore forma di attività mafiosa a Roma per me è stato abbattere il villino liberty Naselli che ho difeso strenuamente, nel quartiere Coppedè! Demolire un capolavoro del 1930 per far posto a una merda immonda e schifosa! Altro che l'inchiesta su Buzzi e Carminati».

Ma come, proprio tu che consideri le sentenze un vangelo?

«Il procuratore Pignatone sta a Roma e si rende conto che Roma è serie B. Così vuole trovare la mafia in questa inchiesta, rendere drammatica ed eroica la sua presenza nella capitale».

Non vorrai dire che non ci siano stati reati gravissimi!

«No! Il sistema scoperto a Roma era immorale e schifoso. Ma non mafioso! Non mafioso!».

Il confine è labile.

«Per nulla. Possono essere ladri e corrotti, Buzzi e Carminati. Ma non mafiosi. E nessuno poteva dirlo, altrimenti veniva sospettato di contiguità con la mafia. Uno schifo».

C'erano intimidazioni, racket, sistemi criminali.

«Magistrati che hanno voluto diventare eroi hanno trasformato i petali felliniani dei Casamonica in una reincarnazione di Totò Riina».

Va bene. Ma adesso passiamo alla lotta agli evasori. Che cosa non va nelle parole di Conte? A me sembrano molto condivisibili.

«Conte chi?».

Il premier.

«Uno come 10.000 avvocati in Italia. Uno che fino a ieri era sconosciuto, la cui principale caratteristica è portare bene un buon taglio di Caraceni e una pochette: adesso diventa unico e insostituibile, un salvatore della patria. Ah ah ah».

Condividi le sue parole sull'evasione o no?

«No. Non posso condividere le battaglie di un governo di cripto-checche».

Caro Vittorio, che siano cripto-checce lo dici tu. Ma perché? Non sei mai stato omofobo, anzi.

«E infatti non contesto l'essere checca, ma il cripto, ovvero la mancanza di coraggio nel rivelarsi».

A me pare che Conte non sia né checca, né cripto: è padre, divorziato, poi fidanzato con una donna molto elegante.

«Fidanzata che è figlia del proprietario del Plaza, condannato a 1 anno e 6 mesi per evasione. E proprio lui vuole il carcere da 100.000 euro in su? La legge che manderebbe in galera suo suocero??? Follia».

Però non è un conflitto di interessi, semmai il contrario: uno che sfavorisce i suoi cari, ammesso che siano tali.

«Ti pare bella una legge che avrebbe dovuto portare in galera suo suocero per 2 milioni di euro evasi?».

Non sono spiccioli. Ma non sei proprio tu il re dei garantisti?

«Se uno è contento di vedere in galera il padre di sua moglie, prego».

Adesso gioisci per le condanne?

«Per me è innocente Renzi, e suo padre già condannato e di nuovo sotto processo. Per me è innocente Grillo, e suo figlio indagato per stupro. Per me è innocente Di Maio, con il padre, re dei piccoli abusi edilizi. Noto il lato comico della situazione: tutti i moralizzatori a casa hanno uno scheletro nell'armadio! Tutti!».

Questo non significa che siano colpevoli loro, lo sai bene.

«I genitori di Di Battista pagano i lavoratori in nero!».

Questo non significa che Di Battista abbia fatto alcunché.

«Nella casa dove fanno gli accordi, il figlio di Grillo è accusato di stupro, con la madre che dormiva nella stanza accanto».

Non è stato ancora processato, per te è già colpevole?

 «Non capisci? Per me no. Ma per loro sì. Per la loro morale gretta, poliziesca e forcaiola era già una condanna l'inchiesta su Siri! E Rixi si è dovuto dimettere!».

Quindi tu resti garantista.

«Io sì. Ma misuro la realtà con il loro parametro».

Va bene: andiamo alla tua frase «evasori patrioti».

«È un paradosso di natura immaginifica. Poniamo che guadagni 200.000 euro. Hai pagato 40. Hai evaso 60».

E allora?

«Se lo stesso Stato che gli ha imposto tasse insostenibili poi lo manda in carcere non risolve il problema. Anzi lo complica: intanto perché perde 40.000 euro».

Anche incarcerare un ricco stupratore deprime il Pil.

«Stai seguendo la logica, non il mio paradosso: era per dirti che in un regime che non funziona, il carcere è la ciliegina sulla torta: una misura non correttiva e inutile».

«Patriota» per me è un eroe.

«Patriota perché deve sopravvivere in un'economia dissestata».

Magari per comprarsi la Ferrari, come alcuni nullatenenti ricchi, peraltro appena pizzicati.

«È un altro tema. Ma se io devo dare dei soldi a dei coglioni, lo Stato ha diritto a perseguirmi se evado?».

Ovviamente sì.

«E invece no, no! Perché io contribuente devo pagare il frutto del mio lavoro per darlo a gente che non lavora? Capisci che è folle?».

Lo Stato ti obbliga anche a mettere la cintura di sicurezza, il casco. A pagarti una pensione. «Imbecillità. Ma meno gravi di mettere più tasse per installare le pale eoliche! Le pale eoliche! Orrore!».

Nello Sgarbistan, il tuo Stato ideale, non pagheresti tasse, lo capisco. «Le pagherei a Visco: diverso da me ma stimabile. Le pagherei, con dolore, ma per finanziare scuola, università, beni culturali. Non le pago volentieri a un imbecille, questo no! Spendiamo 230 miliardi per mettere pale coliche in Puglia e Sicilia e Calabria. 230 miliardiiii!».

Che c'entra?

«I paradossi spiegano le verità. Vedi, Cesare Brandi ha scritto un meraviglioso libro su Martina Franca, adesso ripubblicato da La Na-ve di Teseo... Scrivilo, così facciamo un po' di pubblicità a Elisabetta tra i lettori della Verità che sono curiosi e colti».

Ma che c'entra Brandi?

«Una pagina stupenda è su quella che lui definisce "la strada più bella del mondo". E io oggi percorro quella strada pensando che non è più lei. Inquinamento luminoso, pale eoliche, de-grado... Il Sud corrotto dalla bruttezza. Buttando soldi, per giunta!».

Meglio avere dei tratti al buio?

«Meglio. Non pensare: "Sgarbi è matto". Pensa alla bellezza del paesaggio arcano».

Io ci penso. Ma non credo che la tutela del «paesaggio arcano» sia il primo cruccio degli evasori. «C'è un limite alle idiozie. Ma il governo delle criptochecche non sa davvero dove sbattere la testa».

Tu che faresti?

«Eliminazione immediata del reddito di cittadinanza. Investimenti in formazione, scuola e uni-versità».

E voterai contro il carcere per gli evasori?

«Ma ovviamente si! E darò battaglia. Prendi nota: il progetto di Bonafede non passerà».

Sei sicuro?

«Ovvio. È un assurdo che Conte l'abbia fatto suo. Come può essere approvatala proposta di legge di uno che vuole liberarsi del suocero ai danni della collettività?».

LA ZANZARA SU RADIO 24 il 15 ottobre 2019. “I grillini? Sono dei pezzi di merda. Sono ignoranti e incapaci che rubano lo stipendio e lo tolgono a quelli che se lo meritano. Nessuno di loro è eletto. Sono tutti nominati da Grillo che ha preso i voti di tutti e non è lì. In compenso in casa sua suo figlio ha stuprato una ragazza”. Ma non eri garantista, non puoi dire che il figlio di Grillo è uno stupratore: “Io garantista? Non sono affatto garantista. Se tu hai educato tuo figlio a stuprare sei una merda umana. Un uomo di merda. E ti dirò di più. Siccome la storia è storia, Attilio Piccioni era il capo della Dc. Suo figlio, Piero Piccioni, era un grande un grande musicista che ha fatto fior di colonne sonore, viene accusato di avere stuprato, preso una donna e lo arrestano. Il padre si è dimesso. Quella è la morale. Oggi un signore fa un governo perché vuol proteggere il figlio con il ministro Bonafede che è un suo servo”. Ma siamo ancora alle accuse, non ci sono sentenze e tu difendi sempre gli indagati: “Me ne sbatto i coglioni. Difendo gli indagati che piacciono a me, loro mi fanno schifo. Quindi non li difendo. Vi dirò di più. Il punto non è tanto sulla sostanza dell’accusa, potrebbe anche essere che l’accusa poi cada. Intanto c’è. Ma quanto si è parlato del figlio di Salvini perché era stato sulla motoretta di un poliziotto? Ne hanno parlato per un mese e mezzo. Era ministro? Ma dov’era il reato? Dove cazzo era? Sto dicendo che era un fatto piccolo di cui si è parlato molto. L’altro è un fatto grande di cui anche voi vi vergognate di parlarne. Sto dicendo che il dato era discutibile, ma piccolo. Oggi la stampa censura lo stupro del figlio di Grillo a casa di Grillo, a casa sua. Di cosa avete paura, vi cagate sotto? E’ solo il figlio del capo di un partito di merda, di un partito di stronzi”. Come li chiami quelli che hanno votato il taglio dei parlamentari?: “Tutti quelli che erano lì, erano contrari al taglio. Sono dei vigliacchi, tutti. I discorsi erano questi, sono per il no e voto sì, sono dei malati di mente. Forza Italia e la Lega hanno votato con i 5Stelle, perché volevano dire anche noi siamo per il taglio. Ma se uno dice che si taglino i coglioni, vedrai che tagliano anche quelli”. E Giachetti che annuncia un referendum contro dopo aver votato sì al taglio?: “Che vada affanculo. Hanno votato una volta alla Camera, due volte al Senato contro. Si cagano sotto, hanno venduto il Parlamento per stare al Governo. Servi, disonesti, voto di scambio. Allora per tenere in piedi quel governo di merda, di stupratori e di delinquenti hanno venduto il Parlamento”. “Anche Renzi – dice ancora Sgarbi -  è uno stupratore. Si è inculato il suo ex partito. Guarda come se l’è inculato. Guardate Zingaretti, ha un culo così”. Poi parla delle sue recenti affermazioni sul sesso a tre con Eva Robins e una terza, “che adesso è morta”. “Eva Robins – dice Sgarbi – ha un uccellino che è come un dito. La terza, la famosa morta,  non si può dire chi è ma si può dire questo:  il pompino lo fa meglio una donna o un trans? La bocca è uguale? I denti sono uguali? La lingua è uguale? Il pompino è puro. E questo prova che quando stai con un trans, stai con una donna. Ha per caso un pezzo di uccello. Però basta che tu non lo usi troppo. A me è capitato in qualche occasione anche di non trovare quasi niente. Vittoria Schisano per esempio, che è una figa fulminante, sono arrivato lì, l’ho presa poi ho toccato davanti…ma cosa c’è qui? C’è un residuo di uccello che si era dimenticato di togliere. Nelle statue antiche, poi anche in quelle moderne, se vai al museo Guggenheim c’è una scultura di Marino Marini che è un cavaliere con l’uccello. Lo puoi montare e smontare. Se lo monti è perché c’è poca gente, quando c’è molta gente invece lo togli. Se mi faccio fare un pompino da un uomo al buio, come si fa a capire che è un maschio?”. Quale era la posizione esatta nel gioco a tre con la “morta”?: “La morta al momento era viva. No, perché si può anche stare con una morta. La situazione era questa: Sgarbi prende la Eva Robins, la prende nell’unico buco che ha, cioè dietro. Valorizza il suo punto davanti e lo ficca dentro la figa della morta. E’ logica. Se l’ho mai preso dietro? Io no perché ho le emorroidi”. 

Vittorio Sgarbi e Alessandra Mussolini pace fatta con un bacio in bocca. Nemici giurati Vittorio Sgarbi e Alessandra Mussolini, a Live Non è la D'Urso fanno pace suggellandolo con un bacio in bocca. Roberta Damiata, Lunedì 07/10/2019, su Il Giornale. Uno dei momenti più attesi di “Live non è la D’Urso” è di sicuro quello che vede Vittorio Sgarbi e Alessandra Mussolini insieme contro cinque tremendi opinionisti definiti “Sferati” perchè seduti dentro una sfera. Tra loro due non è mai corso buon sangue, spesso si sono scontrati pesantemente in tv, avendo due caratteri molto combattivi. Entrano separati e stentano anche a darsi la mano. La Mussolini dichiara che sarebbe voluta entrare con un’estintore ma dice che non è stato possibile. Entrano gli sferati, tra cui Daniela Martani Ivan Cattaneo Cicciolina, e Caterina Collovati. Un’altro video mostra i momenti di attrito tra i due, come nella trasmissione della Pupa e il secchione, in cui i due si sono attaccano pesantemente. Rientrati in studio Alessandra chiede a Sgarbi se lo rifarebbe e lui dice senza problemi di sì. Cominciano le domande tra i due che invece di essere dei veri e propri attacchi, sono in realtà delle battute come quello di Ivan Cattaneo che chiede a Vittorio di mostrarsi nudo, mentre lui gli risponde di essere lui a decidere quando farlo. Interviene allora Cicciolina che facendogli i complimenti per la sua simpatia gli chiede perché in tanti anni in cui è insieme alla sua fidanzata tra i due esiste solo amore platonico. Vittorio le risponde con un’altra domanda: “Esiste il sesso senza amore? Allora esiste l’amore senza sesso”. Poi racconta che nella sua relazione sono nei primi due anni ha avuto rapporti sessuali per il resto è rimasto l’amore. Arrivano però le domande di Caterina Collovati e di Daniela Martani, che chiedono ad entrambi perché sono così assenteisti e a Sgarbi voterà la legge per dimezzare i parlamentari. I due non rispondono, e si mettono a scherzare tra di loro fino a che Alessandra Mussolini guardando la D’Urso le dice: “Visto che Barbara ha avuto una serata pesante, allora io faccio pace con Vittorio" e così facendo lo bacia in bocca, sotto gli occhi divertiti di tutti. Ma le opinioniste attaccano fino a quando Sgarbi risponde dicendo che per le sue cariche di sindaco non prende soldi e che non va in Parlamento a votare le leggi di Di Maio: "Che prende ventimila euro al mese e non vale un “cazzo”.

Vittorio Sgarbi, raptus alla Camera: "Capra, ladro...", record di insulti, con chi ce l'ha. Libero Quotidiano il 2 Ottobre 2019. Vittorio Sgarbi irrompe con una raffica di insulti nei confronti di un collega di Fratelli d’Italia, Federico Mollicone, nel fair play dell’aula del Mappamondo a Montecitorio, dove si sta tenendo l’audizione del ministro di cultura e turismo Dario Franceschini davanti alle commissioni Cultura di Camera e Senato riunite. Tema della discussione, subito degenerata con l’intervento del critico, che è anche arrivato alle mani, il prestito al Louvre dell’Uomo Vitruviano di Leonardo. Sgarbi si era appena congratulato per questo con il ministro della cultura Franceschini, sottolineando il suo apprezzamento per la missione di “diplomazia culturale” che ha permesso all’Italia, diceva, “di prestare al Louvre il disegno di Leonardo che a Venezia nessuno vedeva avendo in cambio un doppio ritratto di Raffaello”. Un prestito che invece Fratelli d’Italia ha criticato. Sgarbi non ci ha più visto: “Ladro, capra, picchiatore fascista. Picchia tua madre fascistello“. A quel punto il collegamento streaming è stato interrotto.

Aurora Vigne  per il Giornale  il 3 ottobre 2019. Rissa sfiorata tra Federico Mollicone e Vittorio Sgarbi alla Camera, in commissione Cultura durante il dibattito seguito all'audizione del ministro Dario Franceschini. "Capra, ignorante", ha iniziato a urlare il senatore storico dell'arte. "Prenditi un sedativo, sei patetico", la risposta del deputato FdI. A far scoppiare il caso è stata la concessione in prestito al Louvre dell'Uomo vitruviano di Leonardo. Il capogruppo Fdi aveva espresso la sua contrarietà, ma il critico d'arte invece ha sottolineato l'opportunità dell'iniziativa. Ci sarebbe stato un scambio di insulti e poi anche un contatto fisico, che hanno comportato la sospensione dell'audizione. Mollicone, comunque, ha sottolineato che lui e Sgarbi si sono già chiariti. "Con Vittorio Sgarbi nessuna lite. Il deputato Sgarbipensava che fossi contrario a Raffaello, semplicemente un malinteso... Ci siamo chiariti. A Sgarbi confermiamo stima e amicizia, e riconosciamo l'indiscussa preparazione sull'arte della nostra Nazione e come divulgatore della bellezza italiana", ha detto. Il deputato ribadisce poi di essere favorevole alla diplomazia culturale dei prestiti "ma vanno portati avanti -aggiunge - all'insegna della reciprocità e del rispetto". E su Leonardo: "È assurdo, mentre noi prestiamo l'Uomo Vitruviano, opera delicatissima... loro si sono rifiutati di prestarci la Gioconda, per una perizia appunto sulla presunta fragilità dell'opera. Perizia inverosimile, se si pensa ai diversi materiali delle due opere. Per l'anniversario leonardesco, la mostra più importante con la Gioconda e l'Uomo di Vitruvio sarà in Francia e non in Italia, patria natale di Leonardo, dal genio universale ma italiano", chiude. Ma in serata è arrivata la pace. "Oggi alla Camera - scrive Sgarbi sul suo profilo Facebook - ho avuto un pacato scambio di opinioni con il collega Federico Mollicone. Comunque, ci siamo già riconciliati".

Estratto da Libero Quotidiano  il 3 ottobre 2019. «Ladro! Picchiatore fascista! Capra!». Sono volate parole grosse ieri nella sala del Mappamondo a Montecitorio durante l' audizione del ministro per i Beni culturali, Dario Franceschini, in commissione Istruzione e Cultura di Senato e Camera. Vittorio Sgarbi, con la sua solita verve, si è scagliato contro Federico Mollicone, deputato di Fratelli d' Italia, che contestava il prestito dell' Uomo vitruviano di Leonardo al Louvre di Parigi in cambio di alcuni capolavori di Raffaello. I due, dopo un durissimo scontro verbale («Non rompere il cazzo, non capisci niente, incompetente!» , con la replica di Mollicone: «Sei patetico, prenditi un sedativo prima delle sedute!»), sono quasi venuti alle mani: «Picchia tua madre fascistello del cazzo!», ha inveito Sgarbi. A quel punto il presidente della commissione Cultura della Camera, Luigi Gallo, è stato costretto a sospendere la seduta per qualche minuto. Una volta placati gli animi sia Mollicone che Sgarbi hanno voluto sdrammatizzare. «Lui mi è venuto contro, ma io non voglio fare la rissa perché le tante fidanzate che ho ci tengono alla mia faccina. Alla fine abbiamo fatto la pace», ha puntualizzato il critico d' arte spiegando che Mollicone si era permesso di dire «che prima di parlare di Leonardo dovevo fare il ministro». «Ma io ho risposto che parlo di Leonardo perché sono Sgarbi».

Nicoletta Orlandi Posti per “Libero quotidiano” il 3 ottobre 2019. «Ladro! Picchiatore fascista! Capra!». Sono volate parole grosse ieri nella sala del Mappamondo a Montecitorio durante l' audizione del ministro per i Beni culturali, Dario Franceschini, in commissione Istruzione e Cultura di Senato e Camera. Vittorio Sgarbi, con la sua solita verve, si è scagliato contro Federico Mollicone, deputato di Fratelli d' Italia, che contestava il prestito dell' Uomo vitruviano di Leonardo al Louvre di Parigi in cambio di alcuni capolavori di Raffaello. (...)  Chissà, forse sarà proprio Federico Mollicone il prossimo a ricevere in regalo da Vittorio Sgarbi, con tanto di dedica, Il diario della capra 2019/20, l' agenda scolastica da lui ideata per gli studenti d' ogni ordine e grado, capre o meno che siano. Del resto soltanto qualche giorno fa il critico ne ha donata una a Matteo Renzi, con tanto di dedica. «Gli ho inviato copia del Diario della Capra. Così potrà segnarsi gli insulti ricevuti negli anni dal fondatore dei 5 Stelle», ha scritto Sgarbi sul cinguettio inviato via Twitter al fondatore di Italia Viva. Che, da parte sua, potrà così "vantare" di essere stato inserito di diritto nel «decalogo ideale» di Sgarbi che continua ad allungare la lista dei destinatari prescelti il suo Diario della capra. In realtà questo diario (edito da Baldini e Castoldi, 400 pagine, 16 euro) acquistato da un' infinità di studenti all' inizio dell' anno dovrebbe stare anche nella borsa di ognuno di noi: cosa c' è di meglio che prendere nota, fissare appuntamenti su pagine intervallate da opere d' arte straordinarie, aforismi di pensatori, filosofi, pittori e scrittori d' ogni tempo: da Wilde, a Guicciardini, Picasso, Huxley, D' Annunzio, Warhol; e 16 tavole inedite di Staino dedicate ovviamente alle capre, acide e maligne quanto basta. L' iconico animale sgarbiano passeggia fra le pagine, si fa burla dei professori, dei critici, di se stesso, sbeffeggia il Carpaccio con la rucola confuso con l' illustre pittore veneziano quattrocentesco, e Tiziano Vecellio drammaticamente scambiato dagli studenti con Tiziano Ferro. Ma il diario è prezioso soprattutto per le riflessioni "spot", corrosive e scanzonate, dello stesso Sgarbi che rovesciano luoghi comuni come il divieto del cellulare a scuola, proposta di legge considerata retrograda, che fanno sorridere e soprattutto pensare. Tipo: «Il matrimonio è un crimine contro l' umanità», «Nella formazione di un giovane niente è più dannoso di ciò che viene imposto», «I musei devono essere aperti gratuitamente di sera, quando le persone hanno il tempo libero, dalle sei a mezzanotte», «Io non ho complessi di superiorità. Io sono superiore senza complessi», e così via, fino al 20 dicembre 2020 dove scrive: «L' unica speranza per uno studente è trovare un buon insegnante». Parole sacrosante. «La scuola serve a difenderci», ha sottolineato Sgarbi nel video che presentare l' agenda, «perché nel mondo ci sono pericoli e minacce, e più si conosce e più si hanno strumenti per capire, più ci si può difendere. Ma occorre un' arma, e l' arma per fermare le parole, per dire a se stessi e agli altri quello che è accaduto è un diario, e io ho pensato di fare per gli studenti della scuola un' arma in forma di diario, il Diario della capra».

Dall'intervista di Pierluigi Diaco a Vittorio Sgarbi, ''Io e te'', Rai1 (sabato notte) il 24 settembre 2019. Le voci dei morti, in questi caso la voce di mia madre, hanno la potenza di qualcosa che non finisce, che resta. Siamo così fortunati che mentre non abbiamo la parola di Platone , di Ariosto, di Petrarca e di Raffaello, negli ultimi cento anni possiamo continuare a vivere vedendoci in televisione quando non ci saremo più o sentendo le voci. E’ un miracolo della tecnologia. Io mi sentivo generale, imperatore. Mia sorella ricorda che avevo un copricapo indiano con le piume, ero il capo indiano e donavo una piuma a mia sorella come concessione, quindi già allora avevo l’idea del dominio sulle cose…a nove anni ho capito che sarei diventato famoso perché ritenevo che la strada per la fama fosse la poesia, cosa che è rimasta in me fino a quando all’università incontrai un altro punto di riferimento potentissimo che è Francesco Arcangeli, un critico meraviglioso che mi ha trascinato dalla letteratura all’arte e da allora ho fatto quello che ho fatto, ma dico quello che ho scritto anche nel mio ultimo libro e cioè che l’unica fortuna che può avere un giovane è quella di trovare un bravo insegnante, un buon insegnante è migliore di qualunque riforma, di qualunque scuola, ci vuole una persona che ti trasmetta passione, desiderio, altrimenti è inutile andare a scuola. Negli anni ‘60 mio padre ci portó in Sardegna... Un giorno andiamo a Orosei e passano due donne sui vent’anni e dicono a mio padre “Che bello suo figlio”... e io ho sentito il primo frisson erotico. Li accadde che ero stato a fare una conferenza a Brescia e mi hanno aperto un po’ di chiese senza che io lo chiedessi alle 2 di notte perfino io ero stanco , sono partito da Brescia... a Mantova ho cominciato a sentire un peso sul cuore che mi è sembrato potesse essere un colpo al cuore. Ho detto all’autista “Sto male, vado all’ospedale”. Un’ora di operazione e mi  hanno detto: “Se fosse andato avanti mezz’ora sarebbe morto”. Quindi io ho visto la morte a mezz’ora di distanza che più o meno si situa a Roncobilaccio: ci sarebbe la lapide.  Io sono convinto che la nostra posizione rispetto a Dio sia un posizione di puro opportunismo, quello che diceva Pascal,  cioè, l’uomo ha bisogno di Dio quindi vuole non morire, noi abbiamo davanti la morte a cui gli artisti rispondono con le opere d’arte , gli uomini rispondono con la fede. Dio non ci dà dei segnali, quando viene fuori l’apparizione della Vergine, la Madonna di Medjugorje e altre sono sempre apparizioni anomale, la Vergine non appare mai a un Cacciari o ad un Umberto Eco, appare a dei pastorelli i quali credono che ci sia e ce lo comunicano, per cui io credo più alla chiesa che a Dio, nel senso che la chiesa e la cultura cristiana sono per me assolutamente fondamentali, perché il nostro Dio è un Dio dell’uomo e si è fatto uomo, le altre divinità stanno lontane. Dio è Cristo e la vera divinità di Cristo è la sua umanità. Noi abbiamo la consapevolezza, come molti dimostrano praticandolo, che c’è il sesso senza amore. Il che prova che c’è anche l’amore senza sesso. Quando alla fine del secolo scorso lei manifestò di poter sospendere i rapporti sessuali io accettai. E così sono libero. Io amo la sua anima, lei ama la mia anima.

DOVE C’È SGARBI, C’È SEMPRE CACIARA. Da Libero Quotidiano il 21 settembre 2019. "Andate in altre trasmissioni a fare questi spettacoli". Barbara Palombelli chiude così la puntata di Stasera Italia. Il monito è rivolto a Vittorio Sgarbi e Claudio Martelli. Tra i due, durante la trasmissione, i toni si sono accesi, ma neanche il tempo di dare fuoco alle polveri che la giornalista è subito intervenuta zittendo entrambi. "Martelli - dice Sgarbi - non può dimenticare che il suo amato Grillo fu cacciato dalla televisione perché citò lui che aveva detto a Craxi "sono un miliardo, sono tutti socialisti, ma allora a chi rubano?", questa la battuta dell'86... se poi oggi gli piace...". Immediata la replica: "Sei così innamorato di Salvini che non capisci nient'altro oramai". Lo scambio si accende e il critico d'arte va all'attacco: "Non dire idiozie". "L'idiota sei tu" ribatte Martelli. Scintille subito spente in modo netto da Palombelli: "Questo non è un clima che appartiene a questa trasmissione. Andate in altre trasmissioni a fare questi spettacoli".

Francesco Casula per il “Fatto quotidiano” il 7 agosto 2019. "Deficienti, criminali, delinquenti". Vittorio Sgarbi ce l'aveva con i carabinieri. In una delle sue sfuriate finite tra gli atti di un'inchiesta giudiziaria e rimaste finora segrete, appella in ogni modo gli investigatori del Nucleo Tutela per il patrimonio Artistico dell'Arma colpevoli di aver sequestrato opere dell'artista scomparso nel 1998 Gino de Dominicis, ritenute false e di cui proprio Sgarbi aveva firmato l'autenticità. Un'operazione compiuta nel novembre 2018, ma di cui non sono mai emersi i dettagli. La vicenda risale al 2018 quando la Procura chiede e ottiene i domiciliari per due persone e ne indaga altre 21. Tra queste Sgarbi, accusato di aver autenticato false opere d'arte. Le indagini sono proseguite e qualche mese fa l'inchiesta è stata chiusa: adesso il critico d'arte rischia il processo. I fatti contestati vanno da un periodo compreso tra il 2014 e il 2018. È quindi il 2 luglio 2014 quando esplode la rabbia di Sgarbi, all' epoca presidente della Fondazione dedicata all' artista marchigiano. Mentre i carabinieri stanno sequestrando opere in diverse parti d' Italia, il critico d' arte sbotta e parlando al telefono con altri indagati urla di tutto: "Stronzi cornuti". Poi chiama i vertici dell' Arma dei carabinieri e persino la segreteria dell' allora ministro della difesa, Roberta Pinotti. Contatta i giornalisti, pianifica una controffensiva: "Sono in guerra, cioè questi devono morire". E dalle centinaia di pagine contenute nei faldoni dell' indagine che ha portato due persone ai domiciliari, emergono, oltre all' accusa nei confronti di Sgarbi, anche le modalità con cui gli altri indagati trafficavano. I carabinieri, ad esempio, documentano in un'occasione il trasporto di una delle opere attribuita a de Dominicis come un pacco qualunque: la presunta opera d'arte "sostanzialmente incustodita e senza alcuna particolare cautela" viene imbarcata nel vano bagagli di un autobus che da Macerata arriva a Roma. Per il giudice è un "ulteriore suggello dell'inverosimiglianza dell'autenticità dell'opera" che si aggiunge alle valutazioni del consulente della Procura, Isabella Quattrocchi, e agli altri riscontri dei militari. Per gli investigatori l' autorevolezza del critico d' arte è fondamentale per gli scopi dell'associazione a delinquere (di cui Sgarbi non fa parte) diretta da Marta Massaioli, vice presidente della Fondazione: un gruppo per l' accusa attivo già dal 2008 responsabile di "contraffazione, autenticazione, detenzione, commercializzazione, ricettazione e truffa di opere d' arte false attribuibili ed a firma dell' artista Gino de Dominicis, e di altri artisti contemporanei tra cui De Chirico, Fontana, Carrà, Capogrossi e altri". Oltre alle intercettazioni, secondo l'accusa, a dimostrare le responsabilità degli indagati ci sono anche servizi di appostamenti e filmati. Uno di questi è stato realizzato a giugno 2014 quando Sgarbi firma le autentiche delle opere che la Massaioli gli sottopone: "L'operazione di expertise - scrive il giudice nell' ordinanza - è avvenuta senza una visione diretta delle opere, ma al massimo attraverso una riproduzione fotografica delle medesime, in maniera del tutto inusuale, ovvero nella hall dell'albergo, con la Massaioli Marta seduta in ginocchio di fronte Sgarbi Vittorio, il quale firma le schede delle opere che di volta in volta vengono estratte dal raccoglitore dalla Massaioli. In un frangente - aggiunge il magistrato - viene addirittura ripreso Sgarbi Vittorio che, mentre parla al telefono, continua a firmare, in modo superficiale, senza cura e attenzione, le schede delle opere di Gino de Dominicis". Durante le indagini gli inquirenti sequestrano oltre 170 certificati di autentica di cui ben 119 firmati proprio da Sgarbi. E quando la notizia dei sequestri si diffonde, lui monta su tutte le furie: parlando al telefono con la compagna, la avverte che i militari potrebbero recarsi a casa sua per sequestrare un'opera che ha ricevuto come compenso per il suo ruolo di presidente della fondazione. "Potrebbero venire anche a casa eh! Non è escluso, mettilo non so che facciamo mettilo in cantina, roba da pazzi! Hanno sequestrato un Trittico dove gli ho fatto un libro io, pensa ma io ho chiamato, non so, adesso vado dal ministro della Difesa e mi faccio, non si sa come fare a resistere a questi ignoranti, incapaci, delinquenti". E quando la donna chiede cosa fare del quadro, Sgarbi è lapidario: "Brucialo!", salvo poi tornare sui suoi passi dicendo "No, non fare niente, se fanno una cosa a me diventa ancora peggio per loro, perché io li massacro, vado dai due ministri, poi mercoledì faccio la conferenza stampa, sputtanando i carabinieri per tutta la vita". Ed è su quel quadro che si sono addensate alcuni nubi: nell' inchiesta, infatti, il gip di Roma Daniela Caramico D'Auria, scrive che "di fatto, non è dato sapere se effettivamente l' opera sia stata in qualche modo occultata", ma per il magistrato "l' affermazione evidenzia tuttavia la consapevolezza del critico d' arte che possa trattarsi di un' opera dubbia, verosimilmente falsa". Quando la vicenda arriva, qualche tempo dopo quelle telefonate agli organi di stampa Sgarbi ancora una volta si difende a modo suo. Attaccando. Se la prende ancora con i carabinieri, ma anche con il pm Laura Condemi che aveva coordinato l' inchiesta. Per il parlamentare quelle opere sono "autentiche" e "mai il nucleo di Tutela del patrimonio artistico dei Carabinieri era arrivato più in basso mettendo l' ignoranza al servizio della cecità e della mancanza di giudizio di un magistrato".

Vittorio Sgarbi: "Quel quadro? Brucialo". L'intercettazione che può costargli il processo. Libero Quotidiano il 7 Agosto 2019. L'accusa contro Vittorio Sgarbi risale al 2018 ed era pesante: aver autenticato false opere d'arte. Ne dà notizia un lungo articolo del Fatto Quotidiano. In una delle sue sfuriate finite tra gli atti di un' inchiesta giudiziaria e rimaste finora segrete, il popolare critico d'arte appella in ogni modo gli investigatori del Nucleo Tutela per il patrimonio Artistico dell' Arma colpevoli di aver sequestrato opere dell' artista scomparso nel 1998 Gino de Dominicis, ritenute false e di cui proprio Sgarbi aveva firmato l' autenticità. Tutto risale allo scorso anno. La Procura chiede e ottiene i domiciliari per due persone e ne indaga altre 21. Tra queste Sgarbi, accusato di aver autenticato false opere d' arte. Le indagini sono proseguite e qualche mese fa l' inchiesta è stata chiusa: adesso il critico d' arte rischia il processo. C'è un'intercettazione piuttosto forte. Risale al 2 luglio 2014. La rabbia di Vittorio Sgarbi esplode. All'epoca era  presidente della Fondazione dedicata all'artista marchigiano. Mentre i carabinieri stanno sequestrando opere in diverse parti d' Italia, il critico d' arte sbotta e parlando al telefono con altri indagati urla di tutto: "Stronzi cornuti". Poi chiama i vertici dell' Arma dei carabinieri e persino la segreteria dell' allora ministro della difesa, Roberta Pinotti. Durante le indagini gli inquirenti sequestrano oltre 170 certificati di autentica di cui ben 119 firmati proprio da Sgarbi. E quando la notizia dei sequestri si diffonde, lui esplode in una delle sue famose sfuriate. Parlando al telefono con la fidanzata, la avverte che i militari potrebbero recarsi a casa sua per sequestrare un' opera che ha ricevuto come compenso per il suo ruolo di presidente della fondazione. "Hanno sequestrato un Trittico dove gli ho fatto un libro io", si legge nei faldoni riportati dal Fatto Quotidiano, "pensa ma io ho chiamato, non so, adesso vado dal ministro della Difesa e mi faccio, non si sa come fare a resistere a questi ignoranti, incapaci, delinquenti". E quando la donna chiede cosa fare del quadro, Sgarbi è lapidario: "Brucialo!", salvo poi tornare sui suoi passi dicendo "No, non fare niente, se fanno una cosa a me diventa ancora peggio per loro, perché io li massacro, vado dai due ministri, poi mercoledì faccio la conferenza stampa, sputtanando i carabinieri per tutta la vita". "Mai il nucleo di Tutela del patrimonio artistico dei Carabinieri era arrivato più in basso mettendo l' ignoranza al servizio della cecità e della mancanza di giudizio di un magistrato": questo lo sfogo di Sgarbi quando la notizia è diventata di dominio pubblico.

Salvate il soldato Sgarbi, impiegato del litigio da copione. Il povero critico d'arte cerca la rissa su ogni canale a disposizione, praticamente tutti i giorni. Un turpiloquio colorito, una vita televisiva a dir poco faticosa, scrive Beatrice Dondi il 16 aprile 2018 su L'Espresso. Come nell’antica barzelletta del polpo costretto a essere sbattuto davanti al cliente per dimostrare la sua freschezza e ogni volta poi ributtato nell’acquario del ristorante, così gli studi televisivi, per carenza e cronica pigrizia d’autore, utilizzano il povero Vittorio Sgarbi per tentare l’ardua impresa di riaccendere l’interesse sopito. Di volta in volta il professore viene estratto gocciolante dalle alghe, buttato in pasto alle telecamere e obbligato a esibirsi nel consueto siparietto di insulti, senza pietà, né considerazione per quelle corde vocali provate dal logorio della televisione moderna. Il critico d’arte, un curriculum degno di nota, un’intelligenza da molti comprovata e un’abilità da attore consumato, si scalda roteando un po’ gli occhi e sputando qua e là e poi va in scena, ogni santo giorno, come un impiegato diligente. Pescando a caso nel cassetto degli improperi, dà in escandescenze a comando e si espone ai rimbrotti bonari del padrone di casa di turno, da Formigli alla Berlinguer, dagli ultimi fuochi di Del Debbio a Giletti, da Porro a Barbara D’Urso, pronti a far scattare la trappoletta di risulta formato Auditel. Manca solo il meteo, ma è questione di attimi. Così tra vocine acute e finte facce seriose il nostro viene accudito come un panda marrone, fatto scattare come una molla alla bisogna e riposto nella scatolina a fine puntata. Vittorio Sgarbi ormai è esausto eppure a testa bassa e con l’auricolare ben inserito nell’orecchio è sempre disponibile, accondiscendente, accetta lo scontro imposto dalla scaletta di turno e spera solo che il teatrino telecomandato finisca il prima possibile. Il copione è sempre quello. A domanda non gradita, Sgarbi comincia a spruzzare improperi come una fontanella di paese, la reazione è male accetta, il conduttore giornalista si tinge di rossore pudico, Sgarbi alza il tono, spesso uno qualunque a caso lascia lo studio, il giorno successivo il video passa in Rete, Blob lo ripropone e le redazioni di un altro programma cominciano le telefonate per invitarlo su un altro tema. Così all’infinito. Sino a che, Fornero permettendo, non si deciderà di mandarlo in pensione, lasciargli asciugare la saliva e metterlo finalmente a riposo. Povero polpo, povero Sgarbi.

TUTTO QUELLO CHE C’E’ SAPERE SUI TRE FIGLI “SEGRETI” DI VITTORIO SGARBI. Cristina Migliaccio per TPI il 25 aprile 2019. Vittorio Sgarbi ha riconosciuto come legittimi tre dei suoi figli. Tra questi, spicca Alba Sgarbi che a breve convolerà a nozze. La sua identità è stata ufficialmente introdotta in televisione durante la trasmissione Live non è la D’Urso, dell’omonima conduttrice napoletana. Alba non è mai stata attratta dalle luci della ribalta e si è sempre tenuta al di fuori dell’attenzione mediatica, finché suo padre non ce l’ha trascinata dentro. Sappiamo che Alba è nata nel 1998 ed è originaria di Tirana (Albania). Sua mamma, Kozeta, è molto conosciuta in Albania poiché di professione è un soprano lirico. Lo stesso Sgarbi ha parlato del suo primo incontro Kozeta, una conoscenza avvenuta per caso, durante un concerto presso la Camera dei Deputati. Alba non ha mai vissuto con il padre biologico, è cresciuta in Albania con sua madre e si è diplomata presso un Istituto professionale di elettronica. “Anche se Alba ha vissuto in Albania l’ho sempre seguita, anche se a distanza. E, visto che è venuta bene, direi che è stata un’opportunità positiva. Poteva non essere così. Non ho mai svolto la funzione di educatore, non ho mai voluto una famiglia né dei figli. Ho una concezione nichilista della vita, ma il destino può decidere al posto tuo e così può accadere di diventare padre”, ha sottolineato Vittorio Sgarbi in un’intervista. Della sua vita, privata e non, si conosce molto poco. Sappiamo però che è fidanzata, soltanto perché la ragazza ha annunciato le sue imminenti nozze. Nella puntata di Live non è la D’Urso in cui ha presentato Alba, Vittorio Sgarbi ha portato con sé anche l’altra figlia, Evelina. Oltre alle due ragazze, il critico d’arte ha anche un figlio, Carlo. “Ho avuto culo con i figli: sono venuti benissimo. Grazie alle loro madri che sono state brave. Alba, la mia ultima figlia non poteva essere migliore: è brava, elegante, seria e si sposerà soltanto in chiesa, preferibilmente presto. E poi è albanese, il popolo che preferisco”, ha dichiarato Vittorio Sgarbi in un’intervista sul settimanale Chi.

Sgarbi difende Balotelli: "Lo scooter in acqua? Un'opera d'arte". Vittorio Sgarbi ha preso le parti di Mario Balotelli e l'ha fatto con un video postato su Facebook: "Dov'è il reato? Balotelli ha creato emozioni e non ha fatto niente di male. Perché si vuole condannare un vero e proprio eroe?" Marco Gentile, Giovedì 11/07/2019 su Il Giornale. Mario Balotelli fa sempre discutere e la sua bravata del motorino finito in acqua ha scatenato gli utenti sui social network, Matteo Salvini e per ultimo Vittorio Sgarbi, che ha però spezzato una lancia in favore di Supermario. Tutto il caos mediatico è partito da un video postato dall'ex attaccante di Milan ed Inter su Instagram dove si vedere un ragazzo, amico di Balotelli e gestore di un bar vicino Napoli, finire in acqua con il suo scooter per via di una scommessa fatta proprio con il 28enne ex City e Liverpool. Balotelli si è subito difeso ed ha risposto piccato alle accuse subite: "Pensate alle cose serie in Italia". Il vice Premier Matteo Salvini, però, ha usato parole dure per condannare il gesto dell'attaccante attualmente svincolato: “Io lo avrei arrestato. Che immagine diamo dell’Italia nel mondo, se nelle nostre città passa un ricco e viziato giocatore che dice al primo che passa ‘ti do 2mila euro se butti il motorino nel mare’, e questo lo butta davvero!”. In questa querelle, però, anche Vittorio Sgarbi ha voluto dare una sua interpretazione e dare la sua opinione e l'ha fatto attraverso un video pubblicato sulla sua pagina ufficiale di Facebook: "Balotelli ha ragione da vendere e deve essere ricompensato dallo Stato perché ha creato emozione. Lui in quel momento ha manifestato il suo potere nei confronti di un ragazzo napoletano, dunque questo ragazzo nero e ricco ha dato 2.000 euro ad un bianco povero e la scommessa è stata fatta, basta". Sgarbi ha poi chiuso rincarando la dose: "Non c'è istigazione a delinquere, quale sarebbe il delitto? Non c'è inquinamento dato che le acque sono già inquinate. Infine non c'è nessun gioco d'azzardo perché non c'è nessun contratto scritto. Bravo Balotelli, un grande e straordinario giocatore che questa volta ha perso una scommessa ma ha creato emozione. Stato di m... con magistrati incapaci che non sanno fare il loro lavoro e che vogliono mettere alla sbarra un vero eroe".

SGARBI-MUGHINI ALL'ULTIMO SANGUE! Marco Leardi per Davide Maggio.it il 26 luglio 2019. Insulti a raffica e rissa sfiorata. A Stasera Italia il clima si è fatto rovente, e non certo per le temperature torride di questi giorni. Nella puntata odierna del talk show di Rete4 si è consumato un violento scontro verbale tra Vittorio Sgarbi e Giampiero Mughini. I due si sono insultati a motivo di divergenze sulla vicenda Salvini e sul caso dei fondi russi, arrivando addirittura alle mani. Ad accendere le polveri è stato Vittorio Sgarbi, il quale – interrompendo le argomentazioni di Mughini – ha definito le indagini sui fondi russi alla Lega “un crimine”.

“Sono indagini politiche di magistratura corrotta. Corrotta! Corrotta!“ ha strillato il critico d’arte. Perdendo le staffe, Mughini ha replicato: “Gradirei che non mi rompessi i coglioni“. A quel punto, Sgarbi ha mollato la frizione ed è partito in quarta con gli insulti. “Non romperli tu a me, testa di cazzo! E’ imbarazzante parlare con una testa di cazzo. Sei una merda, pagata da Berlusconi, per di più. E stai qua a parlare dei giudici…“ ha sbottato Vittorio, mentre Mughini lo definiva miserabile. Così, in un’escalation ai limiti del trash, i due contendenti si sono alzati dalla scrivania per affrontarsi fisicamente: Sgarbi, infuriato, ha tentato di scagliare uno sgabello al giornalista catanese, che a sua volta veniva trattenuto da un assistente di studio così da evitare lo scontro. Un servizio, mandato in onda proprio mentre la situazione stava per degenerare, ha riportato la calma su Rete4. Mughini, nel frattempo, decideva di abbandonare la diretta.

Mughini-Sgarbi: un’antipatia che dura da tempo. I retroscena di questa e altre liti tra i due. Pubblicato giovedì, 25 luglio 2019 da Corriere.it. Tra Giampiero Mughini e Vittorio Sgarbi non c’è grande simpatia. Spesso si sono trovati insieme, ospiti di talk show, ma il più delle volte con opinioni contrastati, se non del tutto opposte. Prima della lite furibonda dell’altra sera a «Stasera Italia», in onda su Rete4, c’erano già stati degli scontri tra i due. Lo scorso gennaio , durante la trasmissione «Quarta Repubblica», Nicola Porro era stato costretto a interrompere il collegamento con i due, che anche a distanza erano riusciti a insultarsi pesantemente, con Sgarbi, 67 anni, che aveva dato un epiteto non simpatico a Mughini («sei un c...»), che aveva a sua volta replicato dicendogli di dirlo «a tua sorella». Se quella volta era bastato chiudere l’audio ai due, le cose sono andate diversamente in quest’ultima occasione. Lo scontro, ancora una volta, verteva su Salvini, e a far infuriare Mughini , 78 anni, è stato un commento del critico d’arte, che ha definito le indagini sui fondi russi alla Lega «un crimine», accusando la magistratura. Da lì sono volate prima le parole, poi gli insulti. Infine i due si sono alzati e, mentre volavano le sedie, gli assistenti di studio sono stati costretti a intervenire, fermandoli fisicamente mentre erano arrivati alla rissa. Tutto in diretta. Per tamponare l’incidente, il conduttore Brindisi è stato costretto a mandare in onda due servizi. Nel mentre, grande imbarazzo da parte dei responsabili del programma, che non prevedevano un simile epilogo nonostante la conclamata antipatia tra i due. Dopo ripetuti inviti a calmarsi, Sgarbi ha deciso di restare al suo posto mentre Mughini ha preferito lasciare la trasmissione. L’azienda avrebbe vissuto l’incidente con qualche nervosismo, soprattutto dopo che l’account ufficiale della trasmissione aveva rilanciato su Twitter alcuni spezzoni video della lite (prima della rissa), parlando di toni che si «accendevano». Questi Tweet sono stati poi rimossi.

Lettera di Giampiero Mughini a Dagospia il 26 luglio 2019. Caro Dago, premesso che non c’è nulla di più lontano dal mio gusto delle risse televisive – le più squallide di tutte le risse –, voglio mettere i puntini sugli i su quel che è successo ieri a Rete4 poco dopo le 20.30. Vengo a parlartene perché sono stupito dal mare di idiozie che circola sui social a commento dell’episodio, che in sé è di una semplicità straordinaria tranne che per i beoti e gli analfabeti che cliccano sui social. Vado all’essenziale. E’ una trasmissione connessa all’attualità politica. Il punto di partenza ne è il fatto che Matteo Salvini si rifiuta di andare in Parlamento a spiegare meglio chi erano e che cosa hanno fatto e detto quei suoi compari che in Urss cercavano denari e tangenti. Per carità, non c’è nulla di cogente contro Salvini. Però è il suo dovere istituzionale andare e rispondere alle domande, e tanto più che c’è un’inchiesta in corso da parte della magistratura: un’inchiesta in cui esploreranno il telefonino di uno di quei suoi sodali. E’ quel che sto dicendo in trasmissione, nel mondo più sereno e garbato possibile. Quand’ecco che un altro ospite della trasmissione, uno seduto alla mia destra che in passato ha pagato (o meglio ha pagato Mediaset che ospitava le sue dicerie) qualcosa di vicino a 700 milioni a magistrati che lo avevano querelato, mi interrompe a dirmi che quella non è un’indagine ma “un crimine” apprestato dalla magistratura. Reggo e dico che quel termine (ossia quella indecente porcata) né lo condivido né mi appartiene. L’ospite insiste a voce alta. Ribatto che non mi rompa i coglioni. A quel punto l’ospite comincia a schiamazzare ripetutamente che sono “una testa di cazzo”. I due conduttori – i due padroni di casa – hanno perso la voce, non so come e perché. L’ospite continua a schiamazzare. A questo punto dico che lo prenderò a calci in culo. Lui insiste. Mi avvio a prenderlo a calci in culo. Lui si è armato dello sgabello su cui era seduto e me lo agita in faccia. Ci separano. Io vado via dalla trasmissione. In tutta tranquillità. Tutto qui. Di una semplicità elementare e fermo restando che non ci sono parole a esprimere il mio disprezzo intellettuale per i protagonisti dell’orrenda vicenda. Un abbraccio, caro Dago.

Vittorio Sgarbi dopo Stasera Italia: "Perché Giampiero Mughini mi fa tenerezza". Libero Quotidiano il 25 Luglio 2019. Dopo la lite andata in onda, mercoledì 24 luglio, a Stasera Italia tra Vittorio Sgarbi e Giampiero Mughini, è il critico d'arte a rompere il silenzio. "Mughini è un personaggio pittoresco che suscita anche tenerezza. Ieri sera si è comportato come il prete contro l'indemoniata nel film L'esorcista: ha tirato fuori, lui juventino, l'anima interista che c'è in me", ha commentato su Twitter, picchiando ancora duro contro Mughini. Quella che è stata (i video lo confermano) una vera e propria rissa sfiorata, viene dunque raccontata da Sgarbi con ironia. Un'ironia che però non risparmia colleghi taglienti al collega. La pace? Sembra lontana, anche perché per quel che sappiamo, Mughini ha lasciato furibondo lo studio di Rete4 prima che il servizio - lanciato dal conduttore per placare gli animi - terminasse. 

Stasera Italia, rissa Vittorio Sgarbi-Giampiero Mughini? Fate molta attenzione a Maria Giovanna Maglie. Libero Quotidiano il 25 Luglio 2019. La furibonda lite a Stasera Italia, su Rete 4, tra Vittorio Sgarbi e Giampiero Mughini è già un cult televisivo. Insulti brutali, minacce, parole irriferibili fino a quel pazzesco epilogo: Mughini che si alza per andare contro Sgarbi, il quale risponde impugnando come arma la sedia presente in studio, urla e insulti irriferibili, la telecamera che stacca. Ma in tutto ciò, vi è un altro dettaglio "secondario" che entra di diritto nella piccola-grande storia di quanto accaduto sui canali Mediaset mercoledì 24 luglio, ovvero la faccia di Maria Giovanna Maglie. La giornalista si trovava seduta tra i due litiganti, interessante notare l'espressione prima divertita, poi perplessa, quindi terrorizzata. Cerca anche di compulsare il telefonino per affrancarsi da ciò che stava accadendo, tutto inutile: la Maglie è parte integrante di questo piccolo-grande episodio di storia tv.

Stasera Italia, Sgarbi e Mughini si pestano? Daniela Santanchè li deride: "Come sempre...", colpo bassissimo. Libero Quotidiano il 25 Luglio 2019. Con una sola frase Daniela Santanchè ha "sistemato" Vittorio Sgarbi e Giampiero Mughini che si sono esibiti in una rissa epocale in diretta a Stasera Italia. "Come sempre, le donne si distinguono", ha scritto su Twitter la Pitonessa che evidentemente, tra i due litiganti sceglie Maria Giovanna Maglie. Sgarbi e Mughini si erano scontrati durante il programma di Rete 4 su Matteo Salvini e il caso Russia. Una discussione che è immediatamente trascesa ed è finita a insulti e sediate. 

Sgarbi-Mughini lite a Stasera Italia, Alessandra Mussolini: "A una certa età si diventa scomposti in tv". Libero Quotidiano il 26 Luglio 2019. Alessandra Mussolini commenta la rissa tra Vittorio Sgarbi e Giampiero Mughini: "Sgarbi e Mughini? A una certa età si diventa scomposti. Questo succede anche perché non si ha più paura di stare davanti alla telecamera". L'ex parlamentare ricorda la lite avvenuta a Stasera Italia, su Rete 4, il 24 luglio, quando il critico d'arte e il giornalista sono quasi arrivati alle mani. I due, interrogati dal conduttore Giuseppe Brindisi sui fondi russi, hanno dato vita a un siparietto tutto da ridere. Dopo le dure parole volate, infatti, Sgarbi e Mughini si sono alzati e hanno preso le sedie dello studio. A fermarli un servizio mandato in onda. Al ritorno, però, Mughini ha abbandonato il programma. 

Chiara Maffioletti per il “Corriere della sera” il 26 luglio 2019. «Una volta ogni tre o quattro anni ci sono le mie impennate in tv». Vittorio Sgarbi definisce così la furibonda lite dell' altra sera con Giampiero Mughini, nel corso della trasmissione di Rete4 «Stasera Italia». Una rissa bloccata dagli assistenti di studio a un passo - letteralmente - dal punto di non ritorno, cioè lo scontro fisico tra i due in diretta. Nel mentre, però, sono volati gli insulti, rimandati nella concitazione anche a qualche sorella, che si sono fatti sempre più forti. Poi i due si sono alzati, come per fronteggiarsi, sotto gli occhi esterrefatti dei conduttori - Giuseppe Brindisi e Veronica Gentili - e quelli più divertiti dell' altra ospite, Maria Giovanna Maglie. È volata una sedia, poi sono stati fermati. Minuti concitati, nati da uno scontro sul caso Salvini, Savoini e sul ruolo della magistratura, interrotti dal lancio di due servizi nel mentre dei quali si è tentato di rimettere ordine. Al rientro in studio, Mughini non c' era più. Ma non è stato l'epilogo della vicenda, perché la rissa tra i due si candida a diventare tormentone dell' estate: il video ha iniziato immediatamente a girare sui social - anche l'account Twitter del programma aveva postato uno spezzone degli insulti, parlando di «toni accesi»: dopo aver realizzato che non era una grande idea, il filmato è stato rimosso - generando infiniti meme e gif. «Alla fine - riprende il critico - lui non ha retto le parolacce. Ha tirato fuori l' orgoglio da gentiluomo ferito e dalle parole è passato al "ti vengo a menare". Allora io ho preso una sedia e gliel'ho messa davanti. Le parolacce sono una degenerazione a cui sono collaudato. Le botte non le capisco. Ti do un pugno e cosa risolvo? Non lo dico per paura, poi di Mughini. Mi devo picchiare per Salvini o Savoini? Cosa me ne frega. Temevo mi rovinasse la cipria». Nel raccontare la scenografica litigata, Sgarbi è di una calma assoluta: «La mia è una tattica che ho elaborato, che prevede il ripetere in continuazione la stessa parola per non far parlare chi sta dicendo un' assurdità. Lo faccio apposta».

Possibile non ci fosse nessun pregresso?

«L'altra sera venivo da una lunga telefonata con Calogero Mannino. Non ne posso più che la magistratura faccia politica. Poi, al trucco ho visto Mughini, che non sopporto, e ho scoperto che un mio contributo che avevo registrato per «Tiki Taka» era stato trasmesso dal suo programma. Ecco, non solo lo ha carpito senza chiedermelo, ma mi ha detto anche: «È un video in cui dici le tue consuete scemenze».

Con loro c' era la Maglie.

«Lei odia Mughini molto più di me. Guardava la scena e alla fine mi ha detto: "Bravo"».

Una versione che Mughini ha confermato nella lettera inviata a Dagospia in cui, dopo aver premesso di detestare «le risse televisive, le più squallide» ha voluto spiegare il suo punto di vista su una «vicenda elementare». Pur non nominando mai Sgarbi, sempre chiamato «un ospite della trasmissione», ha spiegato la sua indignazione per aver sentito definire l' operato della magistratura «un crimine». «L'ospite insiste a voce alta. Ribatto che non mi rompa i c... A quel punto comincia a schiamazzare che sono "una testa di c... Dico che lo prenderò a calci in c... Lui insiste. Mi avvio a prenderlo a calci... Lui si è armato dello sgabello su cui era seduto e me lo agita in faccia. Ci separano. Io vado via dalla trasmissione. In tutta tranquillità. Tutto qui. Fermo restando il mio disprezzo intellettuale per i protagonisti dell' orrenda vicenda».

Sgarbi vs Mughini sulla rissa tv: «Lui non ha retto gli insulti ed è passato alle mani. Lo odia anche Maglie».  Pubblicato giovedì, 25 luglio 2019 da Chiara Maffioletti di Corriere.it. «In un racconto ideale, io ogni 3, 4 anni faccio le mie impennate». Vittorio Sgarbi commenta così la scenografica lite fatta in diretta tv con Giampiero Mughini, durante «Stasera Italia», su Rate4.

E come mai succedono queste «impennate»?

«Ci sono molte ragioni che scatenano il mostro che ogni tanto viene fuori. L’altra sera, prima del collegamento, venivo da una lunga telefonata con Calogero Mannino. Non è possibile che la magistratura faccia politica, non ne posso più, quindi questo già mi motivava. Poi c’è un’altra cosa...».

Cosa?

«Avevo visto Mughini al trucco e lì ho scoperto che un mio intervento che avevo fatto per Tiki Taka è stato trasmesso invece dalla sua trasmissione. Io che neanche sapevo avesse una trasmissione. Non solo non me lo ha chiesto, ma ha anche detto che il mio intervento, a mio parere molto bello, su Balotelli e la vicenda dello scooter in acqua era una scemenza. In particolare ha detto: “E’ un video in cui dici le tue consuete scemenze”».

Ahia.

«Ecco sì, non solo perchè era un bellissimo video, che non mi è stato pagato. Comunque sia lì al momento non ho risposto. Ma quando in studio, lui, pagato da Berlusconi, ha iniziato a parlare in quel modo della magistratura, con quell’aria da profeta che scende in terra... ecco, lì per me è troppo, mi stai rompendo. Allora lo faccio apposta, non meriti di essere ascoltato e quindi ti schiaccio».

Quindi è tutta una scena?

«No, è una tattica che ho elaborato, tra cui ripetere in continuazione la stessa parola per non farlo parlare. Devo dire che il consenso è stato universale: ho ricevuto messaggi da chiunque».

Quindi anche durante la lite era tutto sotto controllo?

«Abbastanza sotto controllo. Per me la questione importante è che la magistratura non può trasformarsi nell’inquisizione che punisce anche solo i cattivi pensieri. E quindi se qualcuno li fa lo prendi e lo marchi perchè non è fedele. Su Balotelli, in quel video, dicevo questo. Per la vicenda dello scooter in acqua ci sono tre capi di imputazione: ma che ca.. . significa? Fagli una multa e occupati di cose serie».

Ma non divaghiamo, torniamo all’altra sera.

«Succede che mentre ci confrontiamo, anche in modo acceso, lui non sostiene le parolacce. Ha tirato fuori l’orgoglio da gentiluomo ferito e dalle parole è passato al “ti vengo a menare” . Allora io ho preso una sedia e glie l’ho messa davanti».

Voleva evitare lo scontro fisico?

«Le parolacce sono già una degenerazione a cui sono collaudato. Ma se ho una forte dialettica verbale, io i pugni, le botte non le capisco. Per me il limite della violenza è la parola, l’ira esiste. Ma le botte cosa risolvono? Non lo dico tanto per paura di prendere un pugno... che poi da Mughini. Ma sinceramente perché mi devo picchiare per Salvini o Savoini? Ma cosa me ne frega. Avevo paura mi rovinasse la cipria».

Hanno mandato due servizi per bloccare la rissa. L’avevano invitata ad andare via?

«Si ma io non me ne vado mai, lo studio non lo abbandono. Anche perchè significa lasciare il campo all’altro, errore gravissimo. Se ne è andato lui, meglio così. Anche perché io non mi diverto a litigare, mi diverto a argomentare. E lo faccio anche molto bene, Mughini non ha retto la mia implacabile logica».

Alla scena ha assistito senza fare una piega Maria Giovanna Maglie: «Lei odia Mughini molto più di me. Guardava la scena e alla fine mi ha detto: “bravo”». A Mediaset, invece, pare non l’abbiano presa benissimo... «Erano tutti esterrefatti. Comunque io ero più rumoroso ma è stato Mughini a voler passare alle mani. Ado ogni modo lui mi sta sui c... da sempre, avevamo discusso già diverse volte, adesso gliel’ho detto anche in tv. Sono contento».

Rimane quindi sulle sue posizioni?

«Certo, sono convinto che Mughini abbia torto marcio. Ora chiedo alla magistratura come mei Mughini sia entrato in possesso di un mio video e lo abbia usato senza che abbia dato il permesso. Lo ha carpito e usato nella sua trasmissione. Voglio un’indagine della magistratura».

E ora? Come farete quando vi rivedrete?

«Io sono un bene televisivo per gli ascolti, succederà come con le altre persone con cui ho litigato di più: non ci mettono più insieme nello stesso programma. Mughini è intollerabile per il tono con cui argomenta, per quell’aria da profeta, ma parla normale... potrebbe dire anche che sono la persona più intelligente del mondo che mi starebbe lo stesso sul cazzo.»

Lettera di Giampiero Mughini a Dagospia  il 28 luglio 2019. Caro Dago, ti ringrazio molto di avermi mandato ieri – quando stavo a Sapri per motivi di lavoro ed ero dunque lontano dal mio computer – quello che ha l’aria di un comunicato dell’ufficio stampa della trasmissione radiofonica “La Zanzara” e dov’erano riportati (al modo di roba degna e importante dal punto di vista della comunicazione e dell’informazione) i quindici minuti di insulti che mi ha riservato Vittorio Sgarbi. In realtà non è rilevante quel che uno psicopatico erutta della tanta volgarità che ha dentro e lo soffoca. E’ invece un segno dei tempi che un canale radiofonico importante ospiti tale indecente monnezza e abbia l’aria di volerla raccomandare a chi non l’ha ascoltata in diretta. Tanti anni fa non mi perdevo una puntata de “La Zanzara”, una trasmissione sotto ogni aspetto originale e controcorrente. Adesso che si è specializzata nell’offrire una galleria dei più ripugnanti mostri contemporanei, il più delle volte comincio ad ascoltarla e poi subito spengo. A leggere quelle due cartelline che mi avevi mandato, per un attimo avevo pensato di reinviarle al mio avvocato. Solo che voler usufruire di leggi e tribunali in questo Paese è da allocchi. Quando arriverà la sentenza per la causa di diffamazione, fra nove o dieci anni, io non ci sarò più. Una sola cosa mi preme sottolineare tra le tante eruttate dallo psicopatico. Che io gli abbia telefonato a chiedergli che mi facesse le scuse. Ovviamente non è vero niente, non poteva essere vero. No, mai. Ho detto mai. Tutto il resto già oggi, 24 ore dopo, mi pare una monnezza il cui olezzo andrà rapidamente morendo. Robaccia e basta. Naturalmente potrei scrivere cartelle e cartelle, su fatti, precedenti, rapporti reali tra noi. Cartelle e cartelle. Me lo impedisce il disprezzo intellettuale che ho per lo psicopatico. Solo aspetterò il momento di reincontrarlo e di darglieli finalmente quel paio di calci in culo. Non che i calci in culo siano un argomento, certo. Solo che ho voglia di rivederla la sua faccia terrorizzata mentre impugnava lo sgabello a proteggersi da me che ero andato a pigliarlo a calci in culo. Che spettacolo, la faccia terrorizzata dello psicopatico.

Ps. Il conduttore di “Stasera Italia” ha detto in trasmissione che “noi due” avevamo perduto il controllo. Sa benissimo che non è così. Che io ero calmissimo mentre quello continuava a ripetermi che ero “una testa di cazzo”. Calmissimo mentre andavo a dargli il fatto suo. Calmissimo mentre andavo via dallo studio. “Perdere il controllo” innanzi alla monnezza? Se è per questo, sulle strade di Roma ce ne sono delle colline.

Da ''la Zanzara - Radio24''  il 28 luglio 2019. VITTORIO SGARBI NON MOLLA L’OSSO. A LA ZANZARA SU RADIO 24 ATTACCA DI NUOVO MUGHINI: “Fa un programma di merda, è un ladro. Ha utilizzato un mio contribuito e ha detto che ho fatto una scemenza”. “Vecchio trombone con una faccia da stronzo, rincoglionito pagato da Berlusconi per leccare il culo ai magistrati”. “E’ uno juventino di merda, ho ricevuto migliaia di messaggi di persone che lo odiano”. “Mughini dice che mi disprezza intellettualmente? Mi fa piacere. Mi ha chiamato chiedendomi di fare le scuse pubbliche, che ho negato. Poi di farle private, che ho negato. Gli ho detto che non mi scusavo e che doveva scusarsi lui che ha cominciato a fare la provocazione dicendo ‘non rompermi i coglioni’. E poi che ha fatto il ladro”. Ladro? Perché?: “Tutto nasce da due cose. Una è l’assoluzione di Calogero Mannino. La magistratura per l’ennesima volta ha fatto un atto politico per 27 anni processando uno dichiarato innocente l’altro giorno. La seconda è che mi hanno chiesto un contributo per un programma ma io non sapevo nulla di un programma di Mughini. Lo vedo ieri sera dieci minuti prima di entrare e dico cos’è questa cosa del programma, pensavo fosse una cosa vecchia. No, dice Mughini , io ho un programma sulla Luna e tu hai mandato una delle tue solite scemenze su Balotelli. A parte che quella su Balotelli io la difendo fino all’ultimo perché è ottima, lui l’ha utilizzata a mia insaputa, non mi ha ringraziato…non mi ha ringraziato, ha utilizzato la mia immagine e mi dice pure scemenza. Le scemenze le dice lui da sempre e si vergogni di utilizzare la mia faccia per il suo programma di merda”. Così Vittorio Sgarbi a La Zanzara su Radio 24. “Mi dovrebbe ringraziare – dice ancora - perché vado gratis da lui, porto ascolti…e poi mi sono rotto i coglioni dei magistrati, basta. La smettano di fare azioni ridicole, politiche e d’immagine. Quando lui ha cominciato a dire che la magistratura ha aperto un’inchiesta sulla questione Salvini, ma vaffanculo, vecchio trombone, con quella faccia di stronzo, vecchio rincoglionito che viene pagato da Berlusconi, cosa che mi ha fatto incazzare, per leccare il culo ai magistrati. A me sta cosa fa schifo, è pagato da Berlusconi per lodare quella magistratura che ha rovinato l’Italia. Il processo Ruby è una schifezza ridicola. Il processo a Salvini è ridicolo. Il processo a Lucano è ridicolo.  Il processo a Balotelli è ridicolo. Il processo a Mannino è grottesco. Non posso dire che la magistratura è criminale e gli do pure della testa di cazzo? No, lo dico, lo dico e lo penso. La magistratura ha fatto un colpo di Stato. Da Borrelli a Di Pietro hanno distrutto i partiti per cui oggi siamo 5Stelle, Forza Italia…dov’è il Partito Socialista? Dov’è il Partito Repubblicano? Dov’è il Partito Comunista? Dov’è il Partito Liberale? Uccisi da tutti i magistrati, non ne posso più. E Mannino è il martire di una battaglia che va combattuta in nome della libertà. Gli ho dato della testa di cazzo? Perché è una testa di cazzo. Se a te piace, tienitelo tu. Per me è una testa di cazzo, punto. L’ho sempre pensato e lo è”. Ma è un intellettuale che ha scritto un sacco di libri: “Ma non me ne frega niente dei suoi libri che nessuno legge, sono patetici, ridicoli e noiosi”. Ma gli hai dato della testa di cazzo mille volte: “Lui voleva picchiarmi perché io ho un’idea che vi devo raccontare. Io sono per l’assoluta violenza verbale, totale. Immagina un uomo e una donna che stanno insieme, poi litigano perché lei lo cornifica. Puoi dirle troia, non la devi né uccidere, né toccare. La parola può arrivare a qualunque punto, le mani no. Lui ha voluto mettere le mani. Io farmi graffiare la mia delicata faccia da Mughini non volevo ed ho messo fra me e lui la sedia. Un modo per dire puoi darmi della testa di cazzo e pezzo di merda, ma le mani non le usi”. “Lui mi interrompe prima – racconta -  allora lo interrompo io, lui dice la solita frase tu non devi interrompermi quando parlo. Guarda che mi hai appena interrotto tu, quando gli ho detto che la cosa di Salvini era una cosa ridicola. Al che tu mi dici non mi rompere i coglioni e io ti dico testa di cazzo. Ha cominciato lui. Come avete fatto voi. Come a Radio Belva che vi ho fatto chiudere, avete cominciato voi. Voi volevate sfottere me, non c’è nessuno che sfotte me. Io vi massacro tutti. Nessuno può sfottere Sgarbi. Vi mangio il cuore. Quindi, caro Mughini, ha trovato quello sbagliato. Può morire. Può andare dove gli pare”. “Deve chiedere scusa – dice ancora – a quei magistrati che hanno distrutto…Stava lodando un’inchiesta ridicola. Stava dicendo la magistratura è entrata nella questione come se fosse colpevole Salvini. Vuoi scommettere che finirà nella merda quell’inchiesta? Ma chi cazzo è Mughini? Uno juventino di merda oltretutto. Sei uno che è odiato da tutti. Io ho grande ammirazione per la Juventus, ma lui è proprio patetico. Ho ricevuto migliaia, migliaia e migliaia di messaggi di persone che lo odiano. Quindi vada a fare in culo, non gli chiederò mai scusa. Chieda scusa a Mannino, chieda scusa a Berlusconi, chieda scusa a quelli che lo pagano”. Perché deve chiedere scusa?: “Chieda scusa lui che idolatra la giustizia di coglioni. Vada a fare in culo. E mi ringrazi che mi ha rubato un’intervista senza ringraziarmi. Questo per me è il massimo. Io non avrei mai mandato un’intervista sua, lui manda un’intervista mia e mi dice pure che è una scemenza. Si vergogni, quel vecchio rincoglionito. Quel vecchio scemo. Non so perché gli abbiano dato un programma. Vuoi imparare l’educazione e non mandarmi a mia insaputa, testa di cazzo? Schifoso imbecille, puzzolente e merda, che devo dire di più? Fa schifo”. E ancora: “Chieda lui scusa a me che mi ha detto mi rompi i coglioni e mi ha fatto scatenare. Se non avesse detto né la questione delle scemenze, né non rompermi i coglioni, per di più avevo anche nella memoria la voce di Mannino che diceva dopo 27 anni mi hanno finalmente assolto. Comunque la violenza verbale è lecita all’infinito, anche dire che voi siete due checche immonde che vi succhiate l’uccello reciprocamente, ma le botte mai”.

Giampiero Mughini a La Zanzara, 25 luglio 2019: "Chi è l’energumeno che mi ha preceduto? Vittorio Sgarbi? Se mi avessi detto che sentivate lui, non sarei venuto. Io non voglio essere attiguo e diciamo in ogni modo coinvolto con lui mai più nella mia vita. Tale è il mio disprezzo intellettuale e morale per il personaggio. E non aggiungo altro". Ma in TV capita che ci si insulti: "Si e no. Bisogna scegliere l’occasione buona, la posta in gioco che ne vale la pena. Non una miserabile scenetta televisiva, una psicopatica scenetta televisiva, come è avvenuto ieri. Mi trovo in grandissimo imbarazzo....". Il tuo sarebbe stato un ceffone democratico?: "E certo...Se qualcuno mi insulta con quella violenza deve mettere in conto un cosiddetto ceffone democratico? E certo. Ma è uno degli episodi più penosi della mia vita. In cui sono stato trascinato da una circostanza che spero non si ripeterà mai più. Circostanza in cui c’è un personaggio che ha quelle caratteristiche e poi certo c’è una conduzione che purtroppo è stata deficitaria. Cioè, i padroni di casa dovevano placare questa mini rissa dopo trenta secondi. Invece non lo hanno fatto. Non è che questa mini rissa la voglio proseguire in assenza poi dell’energumeno. Se c’è l’energumeno, lo fronteggi. Ho sentito appena le porcate che ha continuato a dire, da quel miserabile che è". Lui dice che hai iniziato tu quando prima della trasmissione avresti disprezzato un contributo che lui ha dato al tuo programma: "No, ho fatto una battutaccia mentre eravamo dal parrucchiere. L’ho visto, ci conosciamo da trent’anni. Ho fatto una battutaccia da quattro soldi. Lui non sapeva nulla di una trasmissione, era una battutaccia qualsiasi. La cosa che lui ha fatto in trasmissione sulla Luna è anche divertente. Una cosa apologetica della scemenza di Balotelli. Ma era una battutaccia come io e te (Cruciani, ndr) ce ne facciamo 25 ogni volta che ci vediamo. E’ pazzesco, è pazzesco, è pazzesco che gli diate corda". Lui dice ancora che il primo colpo è partito da me quando haj detto 'non mi rompere i coglioni': "Assolutamente è così. Nel mentre che io stavo dicendo con tutto il garbo possibile che c’è un’inchiesta su questi signori che a Roma parlavano coi russi. E’ stato sequestrato il telefonino di questo Savoini che pare nel suo ufficio di giornalista alla Padania avesse una foto di Hitler. Ho detto c’è un’inchiesta. A questo punto lui è entrato sonoramente dicendo no, c’è un crimine, c’è un’azione criminosa ecc. Io ho detto questo termine non mi appartiene. Lui ha continuato a dire è un crimine alla maniera psicopatica che è la sua, e a un certo punto ovviamente gli ho detto non mi rompere i coglioni. Ci mancava altro che non glielo dicessi". Ma tu lo disprezzi intellettualmente: "Assolutamente. Completamente, moralmente. Tutto il resto è fuffa. Disprezzo intellettuale e morale, come pochi altri. Perché nel caso suo la cultura che indubbiamente ha è un’aggravante". Ti ha dato del pagato da Berlusconi per leccare il culo ai magistrati e che devi chiedere scusa a Mannino: "Devo chiedere scusa a Mannino? Ma Dio santo, ma come si fa? Ho scritto ancora ieri del martirio venticinquennale dell’ex ministro democristiano Mannino, a cui va tutta la mia simpatia ecc, poi lo conoscevo bene a suo tempo. Ma che c’entra questo? Che c’entra col dire che i magistrati che stanno frugando in quella faccenda russa stanno facendo un’azione criminosa?  Però adesso non possiamo esagerare. Lui accusa me di essere pagato da Berlusconi, lui, che ha fatturato dei milioni per insultare i magistrati al tempo che voi sapete. E Mediaset ha pagato 6-700 milioni di lire di querele. Ragazzi, se la discussione è così, vuol dire che le parole non contano nulla, che sono in libertà, chiunque può dire qualsiasi cosa. Comunque non lo voglio incontrare mai più, assolutamente".

Lettera di Vittorio Sgarbi a Dagospia il 29 luglio 2019. Leggo le ultime esternazioni del qualunquista Mughini, noto per assumere la solennità di chi finge una autorevolezza che non ha. Anche per questo non mi è mai piaciuto. Ritrovo i suoi argomenti, che sono l’uso delle mani e i calci in culo. Altri credibili argomenti non ha, vivendo la contraddizione di chi loda la magistratura, sempre e comunque, essendo pagato da Berlusconi, che dei magistrati è stato vittima, a partire dall’avviso di garanzia di Borrelli e dei suoi sostituti al G8 di Napoli, che ha fatto cadere il suo governo ,e si è, naturalmente, mostrato senza fondamento. Una delle tante e indecenti azioni politiche della magistratura. Adesso tocca a Salvini. Io non ho paura di niente ne’, tantomeno, di un ottantenne poco arzillo. Mi dispiace vederlo così’. Ma, diversamente da lui, non ho mai voluto e non voglio ricorrere alla violenza fisica; e ho semplicemente tentato di impedirgli di avvicinarsi a me ,graffiandomi con il suo smalto per le unghie. Non volevo picchiarlo, essendo più grande e più giovane. Mi ha fatto pietà. Mughini ha poco da dire e da scrivere su di me , non ne ha la competenza. Mi offende, e si stupisce che io continui ad offenderlo. Ammira la ”Zanzara”, che vive di insulti, solo quando non si parla, inevitabilmente male, di lui. La sua vera punizione è lo straripante consenso che centinaia di migliaia di persone mi hanno manifestato per avere spazzolato la sua arroganza e la sua prosopopea. Ero in Parlamento, il giorno dopo lo scontro ,e una telefonata da parte di sconosciuto mi porta alle orecchie la voce di Mughini, ascoltata da numerosi colleghi, e da me registrata. Non ho avuto il sospetto che fosse un imitatore ;e, come tale, non si è rivelato. Sembrava (era) proprio lui. Mi chiedeva, perentoriamente ,le scuse pubbliche, che gli ho negato, argomentando le mie critiche alle inchieste politiche dei magistrati, da Berlusconi a Calogero Mannino, come ragione sostanziale e irriducibile del nostro contrasto. Non certo per fatti personali. Il pensiero di Mughini mi è sempre stato indifferente. Mi ha chiesto allora ,con eguale prepotenza, le scuse private. Rifiutate anche quelle, il vero o finto Mughini (non c’è’ differenza) ha concluso con l'auspicio di non rivedersi mai più in vita. Ho convenuto, senza rimpianto. Ma se dovesse accadere, per caso, di rincontrarsi, sappia che i suoi calci non arriveranno al mio culo prima che egli abbia a pentirsene. Ha confuso per terrore la mia commiserazione per la sua oscena vecchiaia. Incidenti dell’età. Picchiare un ottantenne sarebbe come picchiare un bambino.

Lettera di Giuseppe Cruciani a Dagospia il 29 luglio 2019: Caro Dago, dal picco di una montagna (apro l'Internet una volta al giorno e vado immediatamente su Dagospia) leggo che Giampiero Mughini, cui voglio un bene dell'anima e dunque mi faccio scivolare addosso con grande piacere le critiche, mi rimprovera di aver ospitato un intervento di Sgarbi sul noto scontro a Stasera Italia (una delle cose più genuine della TV italiana, a mio parere). Ma sa benissimo, Giampiero, che subito dopo le parole di Sgarbi è stato chiamato a La Zanzara. Siamo, per essere precisi, tra le 19.30 e le 20.00 del 25 luglio scorso. Giampiero ha ascoltato forse l'ultimo minuto della precedente intervista a Vittorio Sgarbi, ma la sostanza non cambia. Ecco di seguito le parole di Mughini, al quale ho detto al telefono che secondo me quella sera ha commesso un solo errore, quello di voler picchiare Sgarbi (nella polemica si può usare il massimo di violenza verbale, senza mai trasformarla in fisica). Un abbraccio. 

Lettera di Giampiero Mughini a Dagospia il 30 luglio 2019. Caro Dago, permettimi di approfittare della tua smagliante vetrina per rivolgermi al mio amico Peppino Cruciani, il quale si è adontato di un giudizio negativo che avevo espresso sulla sua trasmissione radiofonica, e difatti ti ha mandato la trascrizione dei quindici minuti di conversazione che avevamo avuto in merito alla squallida rissa di cui i lettori di Dagospia sanno. Peppino (al quale voglio bene da circa vent’anni) voleva dimostrarti e dimostrarmi che in quell’occasione lui il suo lavoro di comunicatore lo aveva fatto bene e lealmente. Prima aveva ascoltato i quindici minuti in cui lo psicopatico aveva eruttato insulti e contumelie nei confronti miei e di tutto ciò che mi riguarda, ivi compresi i miei libri, di cui non hai mai letto una pagina; poi aveva ascoltato i quindici minuti in cui io cercavo di sottrarmi al confronto, e a parte manifestare il mio disprezzo intellettuale per lo psicopatico. Quando ho accettato il tuo invito a parlare alla tua trasmissione, non sapevo che prima di me ci sarebbe stato lui. Non lo sapevo affatto. Ti avevo mandato un sms in cui ti chiedevo che la nostra conversazione fosse stata la più “discreta” possibile, non avevo e non ho alcuna intenzione di continuare una rissa in cui sono stato trascinato per la collottola, non avevo alcuna intenzione di far di scherma con uno che non conosce l’arte del fioretto e bensì solo l’uso dell’ascia da macellaio. Nella tua trasmissione tu ospiti volentieri i mostri dell’era contemporanea, gente che straparla, semianalfabeti che eruttano odio e scemenze, a un certo punto tu gli togli la parola e gli sbatti il telefono in faccia. A mio giudizio quei quindici minuti dello psicopatico non erano degni di essere offerti al tuo pubblico. E’ uno spartito musicale che lui suona abitualmente come in una condizione autistica, e che gli è costato nel tempo molti e molti denari. Mi ha telefonato ieri il mio vecchio amico Luigi Covatta, al quale lo psicopatico ha pagato una volta 20 milioni. Ai magistrati che lui insultava ai tempi in cui era agli ordini e ai voleri di Silvio Berlusconi ha pagato centinaia e centinaia di milioni. Adesso lui dice che “mi paga Silvio Berlusconi” per dire bene dei magistrati. Vede il mondo attraverso i sui parametri. E’ quello che ha detto anche alla tua trasmissione. Mi permetto di ricordare al presidente Berlusconi che quei suoi assegni non mi sono ancora arrivati, non è che ha sbagliato Iban? La mia idea è che in senso generale noi tutti che lavoriamo nella comunicazione dovremmo placarne i toni, misurare le parole e gli argomenti, sempre meno spaccare la mela in due con tutto il bene da una parte e tutto il bene dall’altra. Pressoché “ottantenne” per come sono e per come mi insulta lo psicopatico, ho un’esperienza di primissima mano di tutte le parole pronunciate su libri e giornali in questo ultimo mezzo secolo. Il livello di tensione, di odio, di schiamazzo della nostra attuale vita pubblica mai è stato così alto. E i social e la televisione popolare fanno da cattivi maestri, ogni ora e ogni giorno scaraventano benzina sul fuoco. Purtroppo lo fa anche la tua trasmissione per come l’hai piegata in questi ultimissimi anni, molto diversa da quei tuoi fastosi inizi di campione del “politicamente scorretto”. Voglio dire che acconsenti fin troppo agli schiamazzatori di essere la monnezza che sono. Tutto qui, caro Peppino. Per il resto rimani ovviamente l’amico affettuoso e talentuoso che ti ho sempre reputato. A presto rivederti. Giampiero Mughini

Lettera di Maria Giovanna Maglie a Dagospia il 27 luglio 2019. Caro Dago, sono quella seduta immobile per non beccarsi uno schiaffone o uno sgabello in testa, che però le scappa da ridere, un po' perché lo sapeva che finiva così, anzi che cominciava, un po' perché un pizzico di trash TV mette sempre allegria. Ne sai qualcosa tu che te la sei inventata proprio con Sgarbi, e c'era Ferrara, ma anche Costanzo a incoraggiare torte in faccia. Mi dispiace per autori e conduttori di Stasera Italia, programma al quale partecipo volentieri, e che so essere stati dolorosamente colpiti dalla scenataccia di Sgarbi e Mughini mercoledì sera, altro che averla orchestrata, ma io non me la prenderei. Da spettatore mi sono annoiata di più la sera seguente col buon Cottarelli, sparatemi se volete, però insisto che l'overdose di talk TV è tale che qualche variazione sul tema si impone. Senza contare che trovo più insultanti certi conduttori isterici con quelli che non la pensano come loro, o che minacciano a ogni piè sospinto di chiudere i microfoni agli interlocutori troppo vivaci, dopo averli aizzati l'uno contro l'altro. Perché me l'aspettavo? Semplice, perché Sgarbi e Mughini non si piacciono né potrebbero. Sgarbi fa Sgarbi da molti anni, un metodo brevettato e collaudato nel quale, lo dice anche lui, l'attacco autentico di ira si unisce a un calcolo e alla ripetizione ossessiva della stessa parola di insulto, e se si parla di magistratura, di processi politici, l'ira per quello che gli appare un insopportabile sopruso di una categoria, e che mi sento di condividere e l'insulto diventano molto fortemente sentiti. Mughini si è negli ultimi tempi incupito e ha alzato a dismisura il sopracciglio indignato per i tempi che corrono, signora mia, che gli destano, non solo nel campo di calcio, orrore e raccapriccio intellettuali, e questo orrore manifesta interrompendo in continuazione l'altro ospite con frasette del tipo "ma non è certo un santo", o, "su questo c'è un'indagine della magistratura", o ancora "abbiamo dimenticato l'umanità", frasi che insomma tendono a ricordare all'altro l'inferiorità senza possibilità di scampo. In più c'ero io, che agli occhi di Sgarbi sono una che si è illusa che il governo con i grillini potesse andare da qualche parte ma che lui guarda con indulgenza; per Mughini sono invece una tetragona salviniana, e lo sono, ah se lo sono, però mantengo la calma e non interrompo e quando mi tocca parlare, lo faccio secondo me con una qualche autorevolezza, cercando di dividere le informazioni dalle opinioni. Quindi mi potete mettere dove volete in uno studio tv, anche uno contro dieci, io ci vado tranquilla. L'altra sera il disprezzo intellettuale di Mughini era scritto sul suo volto ancor prima che cominciassimo, e mentre non possiamo far nulla per sembrare alla sua altezza, ai suoi occhi almeno, possiamo domandarci perché se la realtà e la politica italiana di oggi gli fanno tanto orrore, frequenti i luoghi nei quali vengono raccontati al loro livello più viscerale, ovvero gli studi televisivi. Quanto a me, finché continuerò a divertirmi e naturalmente finché continuano a invitarmi, ci andrò .

PS. Sulle ragioni storiche dell'insopportabile complesso di superiorità della sinistra italiana, che fa credere a molti di loro, ben oltre Mughini, di avere sempre in mano la bandiera della verità, e che gli altri facciano sempre schifo, siano sempre esseri inferiori, in specie quando vanno a votare e decretano il successo dei rozzi uomini d'ordine, avrei molto da dire, dal premi letterari alle scuole, alle università, alla Rai al mondo dello spettacolo. È una tirannia insopportabile, da sradicare, chi avvelena i giovani, e non so se sarà possibile in un tempo ragionevole. Ma questo è molto meno divertente, e farei un'altra faccia, non quella del meme di mercoledì sera.

La rissa tv? Fatta con stile è un'arte...Luca Beatrice, Domenica 28/07/2019 su Il Giornale. Senza scomodare il gran caldo, e gli effetti collaterali dell'afa sul genere umano (tra luglio e agosto siamo tutti più irascibili, ci accendiamo per nulla), la rissa televisiva si nutre di fondamenti estetici ricorrenti: vedere due che si urlano addosso, senza risparmiare nel turpiloquio, nelle offese personali, nelle minacce gestuali financo quelle fisiche, è un escamotage che risveglia dal torpore il pubblico mezzo addormentato davanti allo schermo, a parziale risarcimento del caldo insopportabile. La casistica è ampia, introdotta decenni or sono; difficilmente si litiga per difendere un'idea o una posizione, quanto piuttosto a causa di antipatie personali. I bravi autori tv sanno chi non si sopporta e fa in modo di averli insieme in trasmissione: basta una scintilla pretestuosa per scatenare l'inferno. E chi guarda non può che prendere le parti dell'uno o dell'altro, tifosi più che spettatori. L'ultima rissa, in ordine di tempo, è andata in onda pochi giorni fa su Rete 4 nella trasmissione Stasera, Italia. Niente di preparato anche se ci si poteva aspettare un qualche «scazzo» tra Vittorio Sgarbi e Giampiero Mughini, abilissimi cavalcatori della polemica, capaci entrambi di far perdere la pazienza a chiunque, provocatori così paludati da farci supporre che poi, dell'opinione espressa al momento, importi loro fino a un certo punto. Mi è impossibile prendere le parti dell'uno o dell'altro. Amicizia è parola che va usata con parsimonia, se di questo non si tratta, almeno di stima e affetto posso parlare per entrambi: Vittorio è uomo divertente, sorprendente e dalla cultura immensa; Giampiero altrettanto e in più è uno straordinario juventino che non ha perso occasione per sfanculare con giustizia i nostri nemici. I due si detestano cordialmente e non da oggi. Così il talk-show condotto da Giuseppe Brindisi (forse un mediatore più carismatico, alla Bruno Vespa, li avrebbe sedati) si è trasformato in una violenza gazzarra sul caso Lega-Russia, occasione per insulti, parolacce, minacce. Da antologia l'imperturbabilità di Maria Giovanna Maglie. Diversi in tutto, look, postura, gestualità, tono, Sgarbi e Mughini hanno dato vita a un siparietto che non è piaciuto affatto ai vertici di Mediaset (il tentativo di proporre una tv edificante è lodevole ma difficile) eppure imperversa sui social. Da una parte Vittorio in giacca blu, capello perfetto, ricorre alla triplice aggettivazione omerica per sottolineare la portata definitiva dell'insulto. Dall'altra Giampiero in t-shirt bianca maniche corte (ha sempre osato, indifferente alle regole, un uomo con guardaroba da ricerca) scarmigliato, in crescendo, perde le staffe e minaccia di rompergli una sedia in testa. Infuriato davvero, abbandona il ring dopo un servizio. Una rissa tra le migliori, da top ten, assolutamente credibile. Ce ne fossero di showman così. Lode agli incazzati, insultare è un'arte e, come diceva Schopenhauer, ogni insulto deve andare a segno evitando il vaffanculo generico che infatti non va più di moda.

·         Aldo Grasso. La cultura televisiva e il suo pioniere. 

Aldo Grasso racconta la televisione. Tre stagioni, un Paese. Pubblicato domenica, 13 ottobre 2019 da Corriere.it. Può un’enciclopedia in tre volumi (di mille e quattrocento pagine) trasformarsi in un piacevole libro di lettura? Sì, se l’autore è dotato di cultura e buona capacità di scrittura. La Storia critica della televisione italiana di Aldo Grasso (con la collaborazione di Luca Barra e Cecilia Penati, il Saggiatore) è da assaporare predisponendosi a leggerlo per intero. Grasso segue dichiaratamente le orme di John Ellis che suddivide la storia della televisione in tre grandi epoche: l’età «della scarsità», quella «della disponibilità» e quella «dell’abbondanza». La prima, che inizia negli anni Cinquanta è la stagione in cui la tv — in mano qui in Italia a una élite fanfaniana (con innesti liberali) guidata da Ettore Bernabei — «rispecchia lo spirito di una borghesia medio-alta e si rivolge a quella stessa borghesia, la sola in grado di acquistare il costoso apparecchio». Poi l’immenso successo di Lascia o raddoppia? amplia smisuratamente il pubblico. È Mike Bongiorno, il mago venuto dagli Stati Uniti, l’uomo che cambia la storia della televisione. La trasforma in qualcosa di familiare anche per chi non possiede un televisore e segue il suo programma nei bar. Dopo di lui, Mario Riva ripeterà l’«operazione Bongiorno» con Il Musichiere. Sarà poi la volta di Campanile sera con Enzo Tortora. Di questo ampliamento del pubblico beneficeranno Mario Soldati con il Viaggio lungo la valle del Po alla ricerca dei cibi genuini oltreché il duo Salvi e Zatterin con la «Donna che lavora». Il definitivo sfondamento arriverà con lo show di Sacerdote e Falqui Studio Uno («di rara eleganza espressiva», annota Grasso) e alcune eccellenze della comicità: Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello in Un, due, tre, Vittorio Gassman nel Mattatore, Walter Chiari, Gino Bramieri. Assai innovativo sarà Senza rete di Enzo Trapani, fondamentale per le carriere di Enrico Montesano, Oreste Lionello e Paolo Villaggio. Il tutto arricchito dagli «sceneggiati» di Sandro Bolchi e Anton Giulio Majano ( tra i principali protagonisti: Alberto Lupo), dalle divertenti «inchieste» di Enzo Biagi, Ugo Gregoretti e Nanni Loy, dallo sport (da Processo alla tappa a Novantesimo minuto), da presentatori del calibro di Corrado, Enza Sampò e, già sul finire di questa era, un giovane Pippo Baudo.

«Storia critica della televisione italiana» di Aldo Grasso sarà in libreria da giovedì 17 ottobre per il Saggiatore (cofanetto in tre volumi, pagine 1.418, euro 55). I volumi coprono gli anni 1954-1979 (primo), 1980-1999 (secondo) e 2000-2018 (terzo). La seconda epoca viene fatta «simbolicamente» partire dai Promessi sposi del 1967. Nei panni di Lucia, la giovanissima Paola Pitagora ha un successo strepitoso. È il momento in cui c’è un televisore (quasi) in ogni famiglia. Grandi protagonisti dello svecchiamento in questo trentennio, Renzo Arbore, Gianni Boncompagni, Angelo Guglielmi, Raffaella Carrà, Sandra Mondaini, Maurizio Costanzo, Sandro Curzi, Piero Angela (sulle cui orme si muoverà, in tempi successivi, il figlio Alberto). A partire dalla metà degli anni Settanta si affiancherà alla Rai la tv di Silvio Berlusconi che però si avvarrà prevalentemente di «importazioni» dalla televisione pubblica. In compenso il berlusconiano Drive In di Antonio Ricci viene considerato da Grasso «l’unico vero varietà innovativo degli anni Ottanta»; su Drive In, ricorda Grasso, a suo tempo la critica si divise tra il giudizio di Giovanni Raboni (positivo) e quello di Umberto Simonetta (critico). Aveva ragione Raboni. Grasso non è indulgente con Maurizio Costanzo, a cui concede però di aver dato vita, con Bontà loro, al «prototipo di un fenomeno destinato a dilagare e a diventare modello di ogni discorso televisivo: il bisogno di confessarsi». Al Costanzo intervistatore Grasso riconosce il merito di aver imparato (e insegnato) a documentarsi sugli ospiti così da essere «pronto a giocare a sorpresa» quando intuiva che un invitato stava «bluffando». Del tutto positivo è invece il giudizio sullo straordinario Beppe Viola.

Tre quarti dei volumi di Storia critica della televisione italiana sono dedicati — ovviamente — a trasmissioni di spettacolo e di sport, il core business della tv pubblica e privata. Ma non vengono trascurati — ed è un pregio dei tre volumi — i programmi a carattere giornalistico. Al Bruno Vespa di Porta a porta, già direttore del Tg1, viene riconosciuto di essere riuscito ad avvicinare il grande pubblico al Palazzo, facendo conoscere i politici come fossero «vicini di casa». Non poco. Il campanello di Vespa, «la porta, le seggiole bianche, l’ampollosa cerimoniosità, diventano parte del paesaggio televisivo, la “terza camera” del Paese, offrendo un approdo confortevole a politici di ogni estrazione che affollano numerosi e felici la trasmissione». In tempi successivi, alla politica Vespa affianca lo spettacolo, temi da «tv di servizio», anticipazione di programmi televisivi destinati a un pubblico vasto. La idea vespiana è che «anche Valeria Marini possa dire la sua sulla Costituzione», ironizza Grasso. Enrico Mentana (proveniente da una esperienza Rai) è il fondatore del Tg5 nella tv berlusconiana: Grasso valuta positivamente che Mentana non sia «corso dietro alla chimera dell’invenzione del linguaggio giornalistico (come molti direttori di tg amano sostenere)» e si sia piuttosto preoccupato «del ben più temibile fantasma dell’attendibilità». In questo modo il suo telegiornale «è diventato appuntamento irrinunciabile». Rimasto tale anche su La7.

Il Giovanni Minoli di Mixer che «introduce, collega i servizi e sostiene il velocissimo e frammentato ritmo della trasmissione» è parso a Grasso un modernizzatore del linguaggio televisivo. Anche se il difetto di Mixer fu che, pur mutando confezione e contando su collaboratori di livello (Aldo Bruno, Giorgio Montefoschi coautori in una fase iniziale), rimase «sempre una linea sotto la sua ambizione». A Michele Santoro (associato, nella fase iniziale, a Giovanni Mantovani) viene attribuito il merito di aver creato con Samarcanda il «salotto dell’opinione funerea, sempre tenacemente faziosa (il bello della trasmissione)», la risposta a un Mixer ormai «patinato e svigorito». Santoro, diversamente da Minoli, «cerca di evitare le interviste concordate e punta sull’immediatezza». Sua è «la vera invenzione del giornalismo televisivo degli anni Ottanta: la diretta fa esplodere le situazioni, le porta al calor bianco». A differenza dei giornalisti suoi coevi, non vuole piacere, anzi si propone come «uno dei volti più “antipatici” della tv». Ma questo è un suo punto di forza: «Sempre in piedi e in movimento, traduzione prossemica di un’informazione concepita come work in progress» Santoro si presenta «voglioso di impartire la linea giusta». Anche se, in tempi successivi, ha teso ad «ammorbidirsi».

Altrettanto forte è considerata la personalità di Giuliano Ferrara. Nel novembre 1987 parte il suo Linea rovente, una sorta di «paradossale processo televisivo» (ideato da Lio Beghin e curato da Anna Amendola). Ferrara inaugura una «formula che diventerà cifra stilistica: la spettacolarizzazione del dibattito condotto con ostentata aggressività, l’inchiesta giornalistica sviluppata in forma di talk show, la faziosità rivendicata come inderogabile principio deontologico… il divertimento per il pubblico è sicuramente garantito, non si diverte l’imputato (il primo è lo psicanalista Armando Verdiglione) che raramente riesce a far fronte al fiume delle accuse». Terzo conduttore simile, Gad Lerner, che, in piena Tangentopoli, introduce con Milano, Italia uno dei pochi «talk di approfondimento e riflessione». Dopo le prime puntate «di rodaggio» Lerner dimostra la «capacità di controllare o stimolare il pubblico, secondo le esigenze degli argomenti affrontati e dello spettacolo». Il suo successore, Gianni Riotta, appare a Grasso «più freddo», mosso dall’eccessivo «desiderio di tenere alto il tono della trasmissione». Infine è la volta di Enrico Deaglio, il quale impone una cifra che non ha lasciato a Grasso un grande ricordo: sempre meno dibattito e sempre più «ragionamento». Forse troppo.

Buona è la considerazione dell’autore della Storia critica della televisione italiana nei confronti di Lucia Annunziata e della sua Linea 3 (da un’idea di Giovanni Tantillo). Alle prese con opinioni e fatti, «Annunziata dimostra la capacità di cogliere subito il succo della questione, di sfrondare i problemi della verbosità superflua, di incalzare gli ospiti con pertinenza e con domande dirette in stile quasi radiofonico, senza corteggiare lo studio, tanto meno il pubblico che telefona». È in grado di padroneggiare temi di politica estera (ad esempio nelle quattro puntate dedicate al conflitto in Bosnia), i grandi processi che hanno caratterizzato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, e i confronti tra i leader politici. Conduttrice e stile di conduzione confluiscono nel 1996 nella formula di Tg3-Prima serata. Con Annunziata ci sono Bianca Berlinguer, Maurizio Mannoni e Federica Sciarelli: «Ma il successo non si ripete, un po’ per l’affievolirsi dell’animosità e delle passioni politiche, un po’ per la percettibile insofferenza dell’Annunziata, chiamata nel frattempo alla direzione del Tg3».

L’autore ha un buon giudizio nei confronti di Serena Dandini la quale, dal 1989, con La tv delle ragazze assieme a un «allegro gineceo» (prime tra tutte, le coautrici Valentina Amurri e Linda Brunetta) ha però il «vizio di sentirsi più intelligente del suo pubblico». Esplicita la stima per Milena Gabanelli con il suo Report, al punto che Grasso si chiede perché, anno dopo anno, le inchieste più coraggiose siano state condotte da lei e non dai telegiornali; come mai «l’idea classica, se si vuole un po’ romantica del giornalismo (il controllore del buon funzionamento delle istituzioni)» è stata affidata a un’«esterna»? A proposito di Gigi Marzullo e del suo Mezzanotte e dintorni (iniziata nel 1989), a Grasso appare ancora oggi «misterioso il motivo che spinge personaggi di ogni tipo e provenienza a passare sotto l’inesorabile mannaia della banalità che scaturisce dalle sue domande». Più disponibile è nei confronti di Gianfranco Funari con Aboccaperta, sperimentato su Telemontecarlo e trasferito poi sugli schermi di Raidue. A Grasso piace la capacità funariana di «rinfocolare una discussione che langue» e di cavar di bocca agli ospiti «qualunque scempiaggine».

La terza stagione, dal 2000 ai giorni nostri, è quella in cui in ogni casa c’è più di un televisore (assieme a computer, tablet, smartphone). Sul teleschermo è il momento di nuovi giganti: Fiorello, la Gialappa’s, Maria de Filippi, Paolo Bonolis, Gerry Scotti. Grasso è interlocutorio nei confronti di Fabio Fazio, al quale riconosce di essersi saputo conquistare un grande prestigio tanto da aver potuto determinare il successo di libri e altri prodotti culturali e mediali «con una sola ospitata» a Che tempo che fa. Di Giovanni Floris Grasso ricorda che agli inizi di Ballarò aveva «l’aria del bravo ragazzo, politicamente corretto, moderato, demagogico quanto basta, un peso leggero» con il difetto «di parlare un po’ troppo, interrompere di continuo gli ospiti togliendo alla discussione passionalità e chiarezza». Ma gli riconosce di aver poi fatto crescere la trasmissione fino a farla diventare «un punto di riferimento settimanale del dibattito politico». Buono è il suo giudizio su Lilli Gruber. Idealmente questa terza stagione della tv vien fatta partire dal Grande Fratello. Condotto da Daria Bignardi, capace di «raffreddare una materia già incandescente», il Grande Fratello pone lo spettatore al cospetto di un laboratorio multiforme e multimediale in cui «ad ogni pubblico corrisponde una modalità di fruizione». Per molti quel programma «è un gioco di società (e di ruolo), un divertimento da spartire con i colleghi d’ufficio»; per altri «una soap opera senza trama, un talk senza conduttore padre padrone, un flusso di coscienza che finalmente si sposa con il flusso televisivo, un notevole salto in avanti della tv»; per altri ancora «una fucina di mascalzonate da svergognare in pubblico». Tutte (o quasi) le trasmissioni dall’inizio di questo millennio hanno «rubato» qualcosa al Grande Fratello. Magari inconsapevolmente. Questo e moltissimo altro si scopre leggendo il libro di Grasso. Si raccomanda la pazienza e la delibazione pagina dopo pagina. Il godimento è assicurato.

Storico e critico della televisione, Aldo Grasso (1948), è una firma del «Corriere della Sera» sulle cui pagine scrive di piccolo schermo, società e ogni domenica racconta la «contraddittorietà dell’esistere» nella rubrica «Padiglione Italia». Grasso insegna Storia della radio e della televisione all’Università Cattolica di Milano. Fra i suoi saggi, Che cos’è la televisione (con Massimo Scaglione, Garzanti, 2005), Enciclopedia della televisione (Garzanti, 2006), Prima lezione sulla televisione (Laterza, 2011), La nuova fabbrica dei sogni (con Cecilia Penati, il Saggiatore, 2016).

La cultura televisiva e il suo pioniere. Una giornata di studi per Aldo Grasso. Pubblicato lunedì, 13 maggio 2019 da Massimo Scaglioni su Corriere.it. «Dissodatore appassionato» è l’immagine con la quale, qualche anno fa, Aldo Grasso ha voluto descrivere la propria attività di storico della televisione italiana, iniziata nel corso degli anni Settanta: «Fra questi due estremi — ipertrofico chiacchiericcio e invisibilità del medium — si situa il mio lavoro per il quale, immodestamente, rivendico una qualche attitudine pionieristica, il dissodamento di un terreno incolto, la prima stesura di mappe perfettibili di un esploratore appassionato». Il critico televisivo Aldo Grasso. Per comprendere fino in fondo il senso di questa metafora agraria — che descrive lo storico della televisione come un coltivatore di un paesaggio selvatico e disordinato — è necessario collocarla nel contesto della cultura (e dell’Accademia) italiana di quegli anni. Nel corso degli anni Settanta il discorso sulla televisione come istituzione e come «mezzo di comunicazione» iniziava a diventare sempre più ricco e urgente. In quello stesso periodo si stava concludendo la prima fase della storia del piccolo schermo, in Italia così come nella maggior parte dei Paesi europei: l’età della «scarsità» e dei monopoli pubblici, che avevano svolto un ruolo «nazionale» di primo piano, specie nel nostro Paese, frammentato culturalmente e linguisticamente. Le sentenze della Corte Costituzionale e la cosiddetta Legge di Riforma della Rai avevano aperto le porte — seppur piuttosto caoticamente — alla nuova epoca dominata, di lì a qualche anno, dalla concorrenza fra servizio pubblico e televisione commerciale. La maggior parte dell’interesse per la televisione era di carattere eminentemente politico. Chi si trovava, in quegli anni, a coltivare il nascente interesse di studio e ricerca per il mezzo televisivo si trovava di fronte a diverse difficoltà. Affrontare una storia culturale della televisione richiedeva, in primo luogo, l’accesso ai suoi testi, ovvero ai programmi. Ma di questi ultimi, soprattutto per i primi anni, molto materiale pareva essere perduto, o mai conservato. L’assenza di un vero e proprio archivio organizzato — almeno fino agli anni Ottanta — ha diverse spiegazioni: di carattere tecnologico (la maggior parte dei programmi delle origini andava in onda in diretta e una conservazione poteva avvenire solo attraverso il cosiddetto «vidigrafo», che consentiva di registrare su pellicola direttamente dallo schermo) ma anche più ampiamente culturale (alla televisione non veniva riconosciuta alcuna estetica perché essa si esauriva nell’effimera emissione, dunque non poteva nemmeno avere una storia). Arare per la prima volta quel terreno consiste, allora, nell’approntare una metodologia di ricerca composita, che si può avvalere di almeno tre strumenti che compaiono, dagli anni Ottanta in poi, negli scritti che portano al progetto della Storia della televisione italiana di Aldo Grasso. In primo luogo, il recupero di quanto fosse conservato nella cosiddetta «cineteca» della Rai. Tutto il materiale «paratestuale» rappresenta poi una seconda fonte essenziale, sia sul versante delle pubblicazioni popolari che accompagnano, ancillarmente, la televisione fin dalle origini, sia su quello del «dibattito colto», di tutta quella letteratura, prevalentemente «apocalittica», che affianca la Rai dagli anni Cinquanta. La terza tipologia di fonti è costituita dalle voci dei dirigenti che hanno incarnato le «radici umanistiche» della televisione italiana, per menzionare uno degli aspetti che ne caratterizzano l’identità. Se la difficoltà di confronto con le fonti e coi testi ha rappresentato il primo grande ostacolo da superare, essa è, in fondo, figlia diretta del secondo intralcio che un approccio di storia culturale si è trovato di fronte. Quali sono le matrici di riferimento della televisione italiana delle origini? La domanda sembrava trovare una risposta indiretta in molta di quella letteratura variamente «apocalittica» che Aldo Grasso passa in rassegna nel suo saggio Vedere lontano. Più che figlia di un’invadente «americanizzazione», la televisione italiana sembrava, in verità, prendere a prestito, di qui e di là, dalla variegata tradizione spettacolare dell’Italia, dalla radio al teatro di rivista, dal teatro più colto, quello di prosa, alla commedia che dal cinema si travasava in varietà. Anche il genere più «americano», il gioco a premi, finiva per italianizzarsi. Ma quel che più colpisce, soprattutto nella ricostruzione della «letteratura televisiva» dei primi anni, proposta nel saggio di Grasso, è la sostanziale inadeguatezza con cui, fino ad allora, si era guardato alla Tv, finendo spesso per fraintenderla: «La letteratura televisiva di quegli anni è approssimativa, composita, “non specifica” e perciò molto ideologica. Deve trovare un’identità al mezzo che analizza, ma non ha ancora trovato una propria identità». Con un approccio approssimativo, si liquida la televisione come un piacere volgare e politicamente reazionario. Il primo passo per la costruzione di una storia culturale della televisione consiste nel tentativo di comprendere la popolarità di un fenomeno tutt’altro che inscatolabile entro i dogmi dell’ideologia, nella volontà di confrontarsi con le fonti e coi testi, e di restituire il mezzo alla sua complessità storica e sociale. E persino in un corpo a corpo coi programmi, che proseguirà poi nell’attività quotidiana di critico del «Corriere della Sera», dai primi anni Novanta. Ovvero nel piacere di scoprire che «Un, due, tre, Campanile sera e Lascia o raddoppia? erano delle gran belle trasmissioni». « La Tv di ieri di oggi di domani» è la giornata di studi promossa dall’Università Cattolica di Milano, il 14 maggio dalle 16.30 (largo Gemelli, 1). Dopo il workshop e la consegna dei diplomi del master Fare Tv, tocca alla tavola rotonda (18.15): Aldo Grasso dialoga con Urbano Cairo, presidente di Rcs MediaGroup e di Cairo Communication, Luciano Fontana, direttore del «Corriere della Sera», Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset, Chiara Giaccardi, docente di Sociologia, Lorenzo Ornaghi, presidente della Biblioteca Ambrosiana, Fabrizio Salini, amministratore delegato Rai, Andrea Zappia, chief executive continental Europe Sky, Massimo Scaglioni, docente di Economia e Marketing dei Media Nell’occasione sarà presentato il libro Appassionati Dissodatori. Storia e storiografia della televisione in Italia. Studi in onore di Aldo Grasso (a cura di Massimo Scaglioni, Vita e Pensiero, pagine 208, euro 22). Qui sopra pubblichiamo un brano tratto dall’introduzione. 

·         Paolo Mieli. Lo Storico.

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 5 ottobre 2019. Paolo Mieli è più noto, tra le masse, per le sue apparizioni televisive, spero a pagamento, nelle sventurate trasmissioni televisive di Lilli Gruber, sulla cui testa versa secchi di saggezza peraltro inutili, che non per le sue qualità di storico. Ed è un' ingiustizia. È lì, tra le polverose carte e libri di autori da lui dissepolti negli scantinati delle biblioteche, che si situa la sua passione predominante. Il suo ultimo libro è imperdibile: Le verità nascoste, (Rizzoli, pagg. 330, euro 19,50). Nulla a che fare con i saggi gonfi di note per tornei accademici, ma neppure rifà il verso a Montanelli-Cervi, i quali hanno fatto favolosa opera di divulgazione letteraria di cose note. Mieli fa altro. Getta la rete e pesca volumi, saggi, frammenti che rivoltano i calzini delle tesi che ormai sono diventate ufficiali e perciò intoccabili. Quest' ultima sua fatica, che peraltro per lui è un godimento, così come lo diventa per i lettori, raduna - e lo annuncia il sottotitolo - Trenta casi di manipolazione della storia. Si va da Tarquinio il Superbo e Agrippina fino a Oscar Luigi Scalfaro. (A proposito di Scalfaro: Mieli è risalito alla verità del famoso "Non ci sto". Cosa che del resto mi aveva privatamente testimoniato Francesco Cossiga: i soldi li prese eccome, i famosi cento milioni al mese dai servizi segreti, e impedì che si facesse luce sul modo con cui li aveva impiegati da ministro dell' Interno). Personalmente sono stato attratto da tre personaggi, che ho subito scelto dal menu. Li elenco: Benito Mussolini, Adolf Hitler e Iosif "Giuseppe" Stalin. Ho poi scoperto dall' indice dei nomi che esattamente in quest' ordine sono anche i più citati da Mieli. Credo che intrighino profondamente anche lui. Su costoro sono state scritte milioni di pagine. Invece dell' effetto saturazione, cresce la curiosità. La domanda è sempre quella: la loro capacità di attrazione delle masse, la capacità di resistere al potere e di diventare miti, come si spiega? Mieli qui non ha la pretesa di tirare le somme, ma sul Duce e sul fascismo, da buon allievo del grande De Felice, di cui fu assistente universitario alla Sapienza di Roma, ha rintracciato vicende inedite. Ad esempio sui suoi rapporti con Galeazzo Ciano, «Vanitoso più che ambizioso» i cui diari finora bevuti come oro colato anche dal suo maestro De Felice, risultano viceversa manipolati per far credere che il suocero Benito avesse lasciato libero campo in politica estera al genero. Rivela pure come la battuta di Walter Chiari, secondo cui neppure una monetina cadde dalle tasche del Duce quando fu appeso per i piedi a Piazza Loreto, non sia del tutto vera, almeno in riferimento ai suoi fidi, di cui tollerava le ruberie e l' accumulo di tesori in America, per poter usare meglio dei loro servigi, perché loro sapevano che lui sapeva. Anche i rapporti tra Mussolini e Gabriele D' Annunzio sono più complicati di quanto si immaginasse. Di certo seppe addomesticare lo spirito ribelle e rivoluzionario del Vate, che specie dopo il delitto Matteotti minacciava di scegliere come molti dannunziani l' antifascismo. Su Hitler lascio a voi scoprire di quale pasta fossero i rapporti tra i due alleati spesso discordi dell' Asse, se il Führer fosse davvero capace di suscitare forze demoniache di tipo magico, e lui ci credesse. Su Stalin si rivela come teneva per le orecchie il Partito comunista, ma come Togliatti riuscisse qualche volta a sfuggire ai suoi ordini. Tocca però qui riferire il senso che dà Mieli a queste scoperte. In un certo senso, egli nega che la storia sia una scienza esatta. Pur basandosi su documenti, gli storici nel leggerne i movimenti finiscono sempre per prestare ai capi e ai popoli le intenzioni che in realtà sono quelle che avrebbero avuto loro nel medesimo frangente. Questo però non autorizza la superficialità, per cui una tesi vale l' altra. Lo studio del particolare resta essenziale per dare uno sguardo alla situazione del mondo intero in un dato periodo. Il problema è che proprio questa lettura generale spesso smussa i contorni delle scoperte sorprendenti per riadattarle al vestito già confezionato, e non si ha il coraggio di ribaltare il tavolo. Mieli giunge a queste conclusioni. Le fake news vanno combattute. Ma qualche volta conviene dimenticare. Un eccesso di memoria provoca desideri di vendetta, impedisce di superare momenti storici bui. Solo il perdono, in forma di amnistia, che vuol dire dimenticanza, impedisce alle vicende umane di essere un susseguirsi di faide calabresi. Qui c' è - se mi permette l' amico Paolo - molto cattolicesimo nell' ebreo Mieli. Il quale infatti non esita a citare scrittori israeliani che denunciano nel loro popolo e in quello palestinese "un eccesso di memoria" (Abraham Yehoshua) un' incapacità di obbedire agli insegnamenti cristiani ma anche classici. Furono gli dei omerici a indicarci l' oblìo come cura». Credo che, con la consueta sottigliezza mimetica, Mieli voglia indicare una strada, una direzione politica per il futuro del nostro Paese. Quale? Che cosa dobbiamo dimenticare secondo Mieli? In cosa consiste il da lui auspicato «Patto dell' oblìo»? Un perdono reciproco tra politica e magistratura? Tra Lega e Pd? Glielo chiederò e vi riferirò. Ho detto del Mieli storico. E il giornalismo? Ha vinto come attività pubblica prevalente questo mestiere sulla passione di storico. Per fortuna. Ho già scritto di lui anni fa, e non ritiro: «Se non ci fosse stato lui il giornalismo sarebbe già morto. Ha inventato il mielismo, prima alla Stampa e poi al Corriere della Sera. Gli hanno rimproverato di aver messo la minigonna a una vecchia e austera signora. Balle. Ha impedito che le corazzate dell' informazione cosiddetta indipendente finissero silurate dalla noia degli acquirenti. Non ha svilito affatto la politica e la cultura avvelenandole con il gossip, semmai ha dato peso alla curiosità in ambiti dove prevaleva il sussiego e la sudditanza. Senza il mielismo, non ci sarebbe stato il feltrismo, e mi scuserà se qualifico Libero come figlio un po' bastardo del suo Corriere: non lo riconoscerà mai, ma è il destino dei figli illegittimi, che di solito alla fine sputano sangue ma sono più felici». Ora ci vorrebbe un altro genio che in età di internet riapra la partita, tuttavia non ne vedo in giro. Uno ha diritto di chiedersi: perché ha vinto in Mieli il giornalismo? C' è una logica. A furia di studiare i fatti e la loro interpretazione, ne ha isolato il nocciolo incandescente: il potere e la lotta per averlo e poi mantenerlo. E a Mieli il potere piace moltissimo. La sua prima scelta politica fu per Potere operaio, dove l' aggettivo contava pochissimo per lui. E il giornalismo, per di più innaffiato dalla rugiada di un guadagno non mediocre, è un ottimo mezzo per averlo se si hanno certe qualità da fuoriclasse. Mussolini fu un grande direttore di quotidiani. Anche Stalin diresse la Pravda prima di fregare Trotzki e prendersi la Russia. Mieli si è fermato prima. Ma ha saputo dirigendo La Stampa e il Corriere della Sera (due volte) e ora scrivendo editoriali, esercitare un influsso notevole sulle vicende italiane. Non lo impiccheranno per questo: la sua forza infatti è stata quella di agire sopra il teatrino, non dietro le quinte come i volgari propalatori di gossip, ma proprio sopra, dove stanno quelli che muovono i fili. A volte ci prova con libri bellissimi, come quest' ultimo.

·         Perché amiamo le bugie (e odiamo la verità).

Racconti, Augias: "Bobby Duffy spiega come la post verità ci fa prigionieri delle illusioni". Repubblica tv il 6 giugno 2019. "I rischi della percezione" (Einaudi) di Bobby Duffy - Professor of Public Policy e direttore del Policy Institute presso il King's College di Londra - è un saggio che misura la differenza tra la realtà dei fatti verificabili e la percezione che le persone ne hanno. Viviamo nell'epoca della post verità: un tempo in cui i fatti contano meno delle opinioni. Dalle statistiche emergono false credenze su molti temi, dai vaccini al numero di immigrati che arriva nel nostro Paese (percezione al 26, realtà al 9%). Quando si rivelano i numeri veri, il soggetto li respinge. La "dissonanza cognitiva" nasce dal fatto che ciò che va contro le nostre credenze ci destabilizza: "il modo in cui vediamo la realtà fa parte della nostra identità", per questo è "difficile tirarci fuori dalle illusioni che spesso coltiviamo".

Perché amiamo le bugie (e odiamo la verità), scrive il 28 febbraio 2019 scrive Il motivatore e life coach Mario Furlan su Il Giornale. Lo sappiamo benissimo, anche se non sta bene ammetterlo: le bugie sono il lubrificante che fa funzionare le relazioni interpersonali. Senza, saremmo in uno stato di guerra continua. Se in una sola giornata tu dicessi tutta, ma proprio tutta, la verità a chiunque incontri, arriveresti a sera in ospedale. O in galera. O fuori di casa. O licenziato. O morto. Perché diresti al tuo capo che è un coglione; a tua moglie che la tradisci; al poliziotto che è arrogante; al finanziere che sei un evasore… e così via. Insomma, meglio non rischiare! Ma non è questa la cosa più interessante e curiosa. E’ che spesso preferiamo le bugie alla verità. Crediamo alle bugie, prendendole per vere; mentre non crediamo alla verità, convinti che sia falsa. Il bizzarro motivo risiede nel fatto che ciascuno di noi ha la sua verità. Convinto che sia la Verità assoluta. E quanto più sei ignorante, tanto più sei irremovibile. Perché il saggio coltiva il dubbio; mentre lo stupido lo rifugge. Un po’ perché non è abbastanza intelligente per averlo, e un po’ perché teme, e quindi rifugge, tutto ciò che possa mettere in discussione le sue fragili certezze. Non mi credi? Pensa alle notizie che circolano sul web e nei social. Quali sono le notizie che vengono più condivise? Le false. Bufale create di sana pianta, o verità manipolate. Al punto da diventare bugie. Ha fatto scuola il tweet, diffuso durante la campagna elettorale di Trump nel 2016, secondo il quale Papa Francesco invitava a votare per lui. Era una balla colossale. Ma questo tweet è stato ritwittato oltre 90mila volte. La smentita, invece, è stata ritwittata solo 15mila volte: meno di un sesto. Raramente le notizie vere vengono ritwittate oltre mille volte, mentre quelle false lo sono fino a 100mila volte. Qualcosa di simile è accaduto pochi giorni fa, in occasione delle elezioni in Sardegna. Ho ricevuto anch’io la notizia – presentata come soffiata di uno scrutatore – secondo la quale migliaia di voti dati al Movimento 5 Stelle sono stati annullati. Ho risposto agli amici: Calma, secondo me è una bufala. E alcuni di loro mi hanno insultato: Se metti in dubbio questa verità sei un nemico del popolo, pagato dai poteri occulti! Perché è così facile credere alle bugie? Le risposte sono due:

1) perché le notizie false fanno leva sulla nostra emotività. Ci fanno arrabbiare. O impaurire. O indignare. Insomma, suscitano emozioni forti. Molto più potenti delle notizie vere. Che sono, il più delle volte, blande. Anodine. A tinte sfumate, non a tinte forti come le fake news. Viene spontaneo condividere qualcosa che ci fa incazzare; molto meno qualcosa che ci fa sbadigliare;

2) crediamo a priori, senza metterle in discussione, nelle bugie che confermano le nostre opinioni, i nostri giudizi e pregiudizi; mentre rifiutiamo a priori tutto ciò che li smentisce. E’ evidente, perbacco: chi ci dà ragione dice il vero, chi ci dà torto è un bugiardo!

Chi casca nel tranello delle fake news è spesso manicheo: convinto che tutto il bene stia da una parte, e tutto il male dall’altra. Lui, evidentemente, è un alfiere del bene. Pronto a smascherare i cattivi e le loro falsità; mentre invece è lui a propagare, inconsapevolmente, balle spaziali. Diventando un utile idiota: uno strumento, in buona fede, degli interessi dei creatori di bufale.

·         I media ignorano i giovani, tranne quando c'è da fare la morale.

I media ignorano i giovani, tranne quando c'è da fare la morale. Valerio Moggia per vice.com il 28 giugno 2019. Sicuramente avrete letto anche voi la notizia: un ragazzo di 26 anni è morto durante un rave abusivo all’università La Sapienza di Roma, nella notte tra venerdì e sabato. In realtà non proprio, ma questa è la storia che si sta raccontando: la vittima è morta scavalcando un cancello, per entrare a un’iniziativa che comprendeva dibattiti, approfondimenti e momenti musicali. Innanzitutto, dunque, non un “rave”; e chi lavora con le parole e il loro significato dovrebbe conoscere bene la differenza tra questo tipo di festa e la Notte Bianca della Sapienza (iniziativa che esiste da una decina d’anni). Per esempio, nel 2016 la Repubblica la presentava come “il più grande evento ludico organizzato e finanziato dagli studenti del primo ateneo capitolino”. Niente festa selvaggia a base di droga, quindi. Anzi, probabilmente se non ci fosse scappato il morto, neppure se ne sarebbe parlato. Ma la tragedia è avvenuta, e un evento universitario è stato trasformato dai giornali in uno scenario da Arancia Meccanica. Merito, per incominciare, de Il Messaggero, che per primo ha definito la Notte Bianca un “rave party,” termine che ormai nel gergo giornalistico significa “festa di persone sotto i 55 anni in cui c'è della musica.” La prima reazione è stata quella dell’Ateneo che, intenzionato ad allontanare ogni possibile ombra di responsabilità, ha subito precisato che l’università aveva più volte negato l’autorizzazione alla manifestazione, ma che tutto ciò non è bastato a “evitare la perdita di una giovane vita.” Ma Francesco Ginese non è morto a causa della festa: è morto a causa di un’arteria femorale recisa mentre scavalcava un cancello, invece di passare da un’entrata più consona. Se vengo investito da un’auto mentre sto andando a messa, non è colpa del parroco o della Chiesa Cattolica, giusto? La legalità della festa è irrilevante nelle circostanze della morte del giovane studente. Ma ormai il gioco era iniziato: l’ennesima occasione per diffondere una pruriginosa storia di ragazzi fuori controllo che rovinano la società degli adulti (e chissà come mai i giornali vendono sempre meno tra i giovani). Laddove aleggiavano gli avvoltoi, non poteva mancare anche Matteo Salvini: nel suo post su Facebook parla vagamente di “ripristinare il diritto allo studio” (in un venerdì notte di giugno?), “spazi occupati,” “uso e abuso di alcolici e altre sostanze” e ovviamente la parolina magica “rave,” in un campionario di paternalistici luoghi comuni sempre pronti per ogni occasione. Ma usiamo per un attimo lo stesso ragionamento del ministro dell’interno: se qualcuno si fa male a un evento, l’evento va vietato. Qualche settimana fa un ragazzo che esponeva il cartello “Ama il prossimo tuo” è stato aggredito e picchiato a un comizio della Lega, proprio davanti a Salvini, che ci ha scherzato su. Vietiamo i comizi leghisti? Anche Giorgia Meloni è intervenuta, chiedendo che “le università italiane siano liberate dai teppisti dei centri sociali e riconsegnate agli studenti”: ancora, era un venerdì notte di giugno, e a quanto si sa gli studenti partecipavano all’evento, non ne erano esclusi. Possiamo comunque comprendere lo sciacallaggio politico della destra: il tema dell’ultima Notte Bianca erano i porti aperti, con evidente riferimento all’accoglienza nei confronti dei migranti che proprio Lega e Fratelli d’Italia considerano il Grande Male del mondo. La propaganda di questi partiti ha una spasmodica necessità di collegare i concetti di crimine e morte a quello dei porti aperti, soprattutto dopo i ripetuti fallimenti delle inchieste contro le Ong: così, una tragica fatalità è divenuta l’occasione per i soliti giochi politici. A cui si sono prestati, ovviamente, anche molte firme della carta stampata, seppur ideologicamente distanti da Salvini e Meloni: Pierluigi Battista—così deciso nel rivendicare il diritto di una casa editrice fascista di essere presente al Salone del Libro—si è domandato sul Corriere della Sera se sia giusto che eventi come la Notte Bianca possano svolgersi dentro le università. Non solo, fin dalle prime righe del suo editoriale mette esplicitamente da parte la vicenda vera e propria—un 26enne morto—per parlare delle feste dei collettivi di studenti: la vittima non conta nulla, non esiste; il discorso si sposta altrove, su un argomento simulacro a uso e consumo della propaganda politica, il famigerato “rave.” Lo conferma un altro articolo apparso sul Corriere, a firma di Fabrizio Roncone, una spietata denuncia delle feste universitarie coi cocktail a cinque euro e "la musica [che] fa bum bum," “più business che politica”, perché “i collettivi studenteschi non sono più quelli di una volta”. Formidabile l’incipit: “Tutte le ricostruzione coincidono. Casino totale. Scena di folla. Un rave.” In realtà, è proprio ciò che le ricostruzione smentiscono, ma il simulacro ha già preso il sopravvento sulla realtà. E così, mentre la Procura apre un fascicolo per omicidio colposo (per un ragazzo morto mentre scavalcava un cancello che è lì da anni), tra i media serpeggia una furibonda quanto velleitaria caccia alle streghe—cioè una presunta “cabina di regia” dei “rave illegali” composta da “rivoluzionari spacciatori e consumatori di spinelli e cocktail a basso costo.” E l’aspetto più paradossale della vicenda è che, in pochi giorni, tutto sarà dimenticato.

·         Niente giornali ai diciottenni.

Niente giornali ai diciottenni, cronaca di un agguato, scrive Andrea Cangini, senatore di Forza Italia, ex direttore di QN, il Resto del Carlino, La Nazione, Il Giorno, l'1 marzo 2019 su Il Corriere del Giorno. Con i 500 euro del bonus Cultura i neodiciottenni possono fare tutto tranne abbonarsi a un quotidiano o a una rivista. Per la Montevecchi, “tutti i membri della commissione Cultura sono d’accordo sull’opportunità di estendere il bonus ai giornali”. Sono d’accordo, ma votano contro. La LEGA lamenta che la maggior parte dei giornali osino criticare il governo. Sconfitto e amareggiato, martedì sera ho lasciato l’aula del Senato con la sola consolazione di aver trovato definitiva conferma a tre impressioni ormai largamente diffuse: che la parola di grillini e leghisti ha valore relativo, che gli impegni assunti dai capigruppo dei due partiti di maggioranza contano nulla rispetto ai volubili umori del governo, che sia ilMovimento 5Stelle sia la Lega sono pronti a tutto pur di ridurre ai minimi termini l’editoria cartacea e i media non allineati. Facciamo un passo indietro. Due settimane fa, durante un’audizione in commissione Istruzione, mi sono reso conto del fatto che con i 500 euro del bonus Cultura i neodiciottenni possono fare tutto tranne abbonarsi a un quotidiano o a una rivista. Una svista, una disattenzione evidentemente diseducativa. Come dire ai giovani che per la loro formazione “culturale” leggere, e in particolare leggere giornali, non serve. Ho sollevato la questione in commissione, tutti, grillini e leghisti compresi, si sono detti d’accordo sull’opportunità di sanare al più presto questa evidente stortura. Ho perciò presentato un emendamento al Decretone e in aula ne ho parlato con i capigruppo. Tutti d’accordo. Anche quello grillino (Patuanelli), anche quello leghista (Romeo). Arrivati al momento del voto, la relatrice si rimette al governo e il governo esprime parere contrario. Trasecolo. Prendo la parola, sostengo che se la scelta del governo ha una logica, l’unica logica possibile è quella di mortificare giornali e giornalisti. In aula scoppia l’inferno. Marcucci, Casini, la Santanché, Gasparri e Martelli si schierano con forza a favore dell’emendamento. Interviene la grillina Montevecchi, che con tono piccato ricorda che “tutti i membri della commissione Cultura sono d’accordo sull’opportunità di estendere il bonus ai giornali”. Sono d’accordo, ma votano contro. Interviene il grillino Paragone che la butta in vacca accusando il Pd di aver distrutto l’Unità e scaricato sul direttore (Concita De Gregorio) l’onere delle querele ricevute. Vero, ma che c’entra? Interviene il sottosegretario Crimi, che anziché stare al merito della questione si mette a parlare di un futuribile riassetto del comparto editoria. Interviene il leghista Bagnai, che, non pago di avere tutti i tg a favore, lamenta che la maggior parte dei giornali osino criticare il governo. E allora capisco. Capisco che è questo il punto. Faccio mente locale. Ricordo che populismo e pluralismo sono naturalmente in antitesi, rammento gli interessi della Casaleggio associati per l’informazione e il commercio on-line, apprendo che il vicepremier Di Maio si è scelto come consigliere per l’innovazione digitale un avvocato di Facebook (Marco Bellezza), ricostruisco le polemiche di Salvini contro “i giornaloni”, soppeso il taglio dei contributi a giornali “utili” come il Foglio e a monumenti alla trasparenza come Radio Radicale e mi dò di cretino. Peggio, di ingenuo. Ero sinceramente convinto che il mio emendamento sarebbe passato. Non prevedeva costi per lo Stato, dava una chance in più ai diciottenni: perché mai avrebbero dovuto respingerlo? Ora, col senno del poi, lo so.

·         Miserie, gaffe e smentite… Storia dei fuorionda rubati.

Miserie, gaffe e smentite… Storia dei fuorionda rubati. Il labiale del premier con Merkel è solo l’ultimo di una lunga serie. Tante le vittime illustri, scrive Paolo Delgado il 2 Febbraio 2019 su "Il Dubbio". Era il 6 novembre 2009, il centrodestra era per la seconda volta al governo da quasi due anni e Gianfranco Fini leader di An, presidente della Camera, ancora indicato come delfino del monarca di Arcore, presenziava alla giornata finale del premio Borsellino a Pescara. Inevitabili due chiacchiere col vicino di posto, il procuratore Nicola Trifuoggi. Solo che invece di parlare del più e del meno il discorso finì a bomba sul già chiacchieratissimo capo del governo, Berlusconi Silvio e l’alleato numero uno ci andò giù leggero: «Confonde il consenso popolare con una sorta di immunità da qualsiasi autorità di garanzia e controllo». Poi, rincarando: «Confonde leadership e monarchia assoluta. Ma io in privato gliel’ho detto: ricordati che gli hanno tagliato la testa». Poi, saltando di palo in frasca, il terzo cittadino dello Stato affrontò le dichiarazioni del pentito Spatuzza, che coinvolgevano ex vertici dello Stato nella storiaccia della trattativa Stato- mafia: «E’ una bomba atomica. Speriamo che controllino i riscontri con scrupolo». Nulla di strano. Sono le chiacchiere che costellano la giornata dei politici, dall’ultimo peone ai leader di governo. Quella volta però i bisbigli furono registrati in fuori onda e poi divulgati al colto e all’inclita meno di un mese dopo. Fu di colpo chiaro a tutti che dopo 15 anni di alleanza il sodalizio tra Berlusconi e Fini era alla frutta, vicino al momento del conto. Fu chiaro anche a Berlusconi e i rapporti tra i due non se ne giovarono. Un anno dopo arrivò la rottura, insanabile, con la mozione di sfiducia contro l’alleato voluta da Fini e respinta di misura grazie alla campagna acquisti di Arcore. Giuseppe Conte, insomma, non è il primo a incappare nell’incidente della chiacchiera rubata. E’ l’ultimo per ora in una lista lunghissima. Forse il primo caso davvero eclatante risale a 25 anni fa tondi, quando furti del genere ancora non erano la norma. Rocco Buttiglione, da pochi mesi segretario del Ppi neodemocristiano, stava organizzando con D’Alema e Bossi quel ‘ ribaltone’ che di lì a poche settimane avrebbe disarcionato il Cavaliere dopo pochi mesi di governo. Sul dopo però il filosofo si faceva pregare e corteggiare: forse con la sinistra, forse con la destra, non lo so e se lo so non ve lo dico, civettava quotidianamente. Poi si trovò in in uno studio del Tg4, in attesa di andare in onda, fianco a fianco con un Antonio Tajani già allora nelle grazie del sovrano azzurro. Rocco non perse l’occasione e bisbigliò all’allora portavoce di Fi la sua avance: scaricate Fini e ci presentiamo insieme alla politica. Le telecamere interne registrarono, il video spopolò, la sinistra interna al Ppi affilò le armi e quando, pochi mesi dopo, Buttiglione tentò davvero il colpaccio sottoponendo al voto del consiglio nazionale l’alleanza con Berlusconi, che peraltro a scaricare Fini non ci aveva pensato per niente, lo mandò in minoranza. Certo il bello della diretta inconsapevole sono soprattutto i giudizi espressi con insolita franchezza, fuori dai denti. Cassini su Buttiglione, parlando con Emilio Fede: «Ha il dono dell’ubiquità: in 24 ore è capace di fare tutto e il contrario di tutto». Tremonti su Brunetta e anche in sede solenne, ministero dell’Economia, presentazione ufficiale della legge di bilancio, Brunetta a illustrarne una parte. Con poca soddisfazione dal parte del secondo divo Giulio che commenta caustico: «E’ cretino. Ma è proprio scemo?». Finì con un abbraccio ma più a uso telecamere che sincero. Nessun abbraccio neppure di facciata tra Alessandra Mussolini la meteora Bertolaso candidato a sindaco di Roma, con la nipotissima sorpresa a commentare mentre l’ex re della Protezione civile straparlava: «Nun va, nun va nun va… Nun se po’ candida’ sto cojone». Molte scene rubate sono in realtà minori, come Il Berlusconi che nel 2013 si fece beccare mentre illustrava a Barbara D’Urso le domande che la solerte gli avrebbe dovuto fare nella imminente intervista embedded o il l D’Alema dei bei tempi registrato mentre se la prende con il portavoce Velardi per la ‘ sedia floscia’ in un talk show. E qualche volta capita pure che siano davvero baci rubati e non schiaffoni. Come quando Grillo si fece sorprendere ad affermare che «Napolitano mi pare più sveglio ultimamente. Dobbiamo smettere di chiamarlo Morfeo». O quando Renzi ammise che nella campagna per le primarie Bersani gli aveva ‘ fatto un culo così, ma alla fine era un po’ spompo». Il fuorionda presenta numerose variabili. Quella davvero inestimabile è la conversazione rubata da un singolo cronista, che somma al piacere del voyeurismo la medaglia dell’esclusiva. Capitò al cronista che riuscì a origliare un’animata discussione fra tre colonnelli di An, Matteoli, La Russa e Gasparri, ricca di commenti salaci sul capo: «E’ malato, dimagrito, gli tremano le mani». «Mica possiamo far fare a lui la trattativa sul partito unico». «Una campagna elettorale con lui alla guida non ce la possiamo permettere». Il giornalista forte d’udito annotò e pubblicò. Fini se li magiò crudi: «Aspettatevi conseguenze». I reprobi dovettero scrivere un’imbarazzante lettera di scuse. Un incidente del genere capitò anche a Berlusconi, in questo caso nel più classico tra i fuori onda. Protagonisti Mariastella Gelmini e Giovanni Toti, ai tempi dell’amore sbocciato tra il signore d’Arcore e il ragazzo di Rignano, Matteo Renzi. «E’ intrappolato nell’abbraccio mortale di Renzi», «Come parcheggiato», si lagnano i due, senza avvedersi delle telecamere. Berlusconi, tipo notoriamente generoso, la prese molto meglio di Fini. Altra variabile è quella del fuorionda indotto. Arte discutibile nella quale si è distinto il programma radiofonico Un giorno da pecora, con le finte telefonate a personaggi pubblici che credendo di parlare con un amico o conoscente si sono spessi lasciati andare, e in tv la Piazza pulita di Formigli, che adoperava l’espediente di mandare dal politico di turno un giornalista- molestatore con la telecamera a poca distanza a riprendere le reazioni e nei casi più ghiotti qualche commento meno superficiale del rituale vaffa. Se lo ricordano in pochi ma anche in questo campo il pioniere, capace però di mantenersi sempre su livelli infinitamente meno triviali, è stato Augusto Minzolini. Nel 1998 aveva una rubrica nel programma di Simona Ercolani Passioni nella quale Minzolini chiacchierava con i politici con un microfono nascosto dietro il bavero e una troupe che riprendeva senza farsi notare. Capitò che Berlusconi, volendo confidare al noto cacciatore di scoop un commento senza farsi sentire si chinò proprio sul bavero con annesso microfono per sussurrarlo con la dovuta discrezione. In parte il fuorionda deriva da quel tipo di giornalismo di cui il recentemente scomparso Guido Quaranta è stato il fondatore e lo stesso Minzolini il massimo protagonista, centrato sulla capacità di rubare notizie se del caso anche camuffandosi, come faceva Quaranta, o sfruttando un’innata capacità di farli parlare sino a dire molto più di quanto non vorrebbero, come nello stile di Minzolini. Proprio lui riuscì nel 1994 a farsi raccontare da Augusto Del Noce, allora responsabile informazione di Fi, come palazzo Chigi stesse intervenendo sulle nomine Rai proprio mentre il premier Berlusconi dichiarava: ‘ Di nomine Rai non mi sono mai occupato’. Del Noce fu rimosso seduta stante. La frase più devastante però non ci fu bisogno di rubarla o strapparla. L’allora ministro degli Interni Claudio Scajola decise in primissima persona di dire ai giornalisti che lo avevano seguito a Nicosia che il giuslavorista Marco Biagi, appena ucciso dall’ultima incarnazione delle Br nel 2002, «era un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza». Lo sfogo era probabilmente dovuto alle polemiche per la mancata assegnazione a Biagi di una scorta, sollecitata dall’allora ministro del Lavoro Maroni. A Scajola costò comunque il posto. Poi naturalmente ci sono le intercettazioni che sono in realtà l’opposto del giornalismo ‘ avventuroso’ di Quaranta e Minzolini e differiscono profondamente anche da quello “avvoltoiesco” dei fuorionda, perché in questo caso quel che trapela è deciso e spesso dispensato col contagocce da fonti spesso interessate a far circolare notizie specifiche. Ma nel complesso qualche dubbio su un giornalismo e su una politica ridotti a spiare dal buco della serratura è lecito nutrirlo.

·         Mario Calabresi, addio a Repubblica.

Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera il 16 settembre 2019. «Continuo a fare lo stesso sogno, ogni notte. Arrivo alla riunione del mattino al giornale, sono tutti già attorno al tavolo, mi siedo e inizio a proporre idee per la giornata, segnalo un titolo che non funziona sul sito e chiedo spiegazioni sul perché non sia stato fatto un pezzo. Nessuno risponde, tutti stanno in silenzio, finché qualcuno mi fa un cenno e scuote la testa. Solo allora mi rendo conto che con la riunione io non c'entro più nulla e mi alzo. A quel punto mi sveglio e mi arrabbio con il mio inconscio che continua a tornare là». Da quando Mario Calabresi ha dovuto lasciare la direzione di «Repubblica», tutti gli chiedono due cose: «Che cosa è successo?»; «ma adesso cosa farai?». Per questo lui si è rifugiato nel silenzio, imponendosi due regole: niente lamentele; niente finto ottimismo. «Il miglior favore che ci si può fare in un momento di crisi è di non fingere che le cose vadano benissimo e che un milione di progetti ti aspettino. Ho sempre trovato patetica questa cosa. Così dico semplicemente che sto scrivendo un libro». Ora il libro sta per uscire. Dopodomani, da Mondadori. Titolo: La mattina dopo.

Nel caso dell'autore, è la mattina dopo il licenziamento. «Mi avevano detto, con la stessa naturalezza con cui si parla del meteo, che avevano scelto un altro direttore al mio posto e che non c' era nulla di cui discutere, nemmeno tempi e modi. Nessun dramma, sono le regole del gioco, ma la mia agenda adesso era completamente vuota. Non avevo bisogno di provare per sapere che anche il mio telefono sarebbe diventato improvvisamente muto, che la fila di quelli che mi venivano a trovare e mi invitavano a pranzo e cena si sarebbe immediatamente accorciata, che avrei dovuto fare i conti con mancanze e dipendenze dolorose. Ma sapevo anche che avrei apprezzato infinitamente quelli che invece ci sarebbero stati, perché le persone si scoprono nelle difficoltà, lì si misura la loro umanità». La mattina dopo, Mario Calabresi parte per Madrid. Ha un appuntamento a pranzo a casa di Roberto Toscano, che non è solo un sottile analista di politica internazionale ma anche e soprattutto l' eroico consigliere dell' ambasciata italiana a Santiago che salvò centinaia di giovani cileni dalla tortura e dalla morte. Meno di due anni prima, Toscano aveva accompagnato Calabresi a intervistare l' allora premier spagnolo Mariano Rajoy, nei giorni drammatici della secessione catalana. Con loro c' era anche Omero Ciai, inviato di «Repubblica» per la Spagna e l' America Latina. Entrambi, Toscano e Ciai, sono stati colpiti da emorragia cerebrale. Entrambi si sono salvati (Ciai dopo un' odissea nella malasanità romana che nel libro è ricostruita in modo puntuale, destinato a indignare il lettore). Mario va a Madrid per pagare un debito e cominciare un percorso dentro la sofferenza umana, l' angoscia della «mattina dopo». La mattina dopo un pensionamento, un addio, una partenza. E anche la mattina dopo un incidente, una morte improvvisa, una tragedia. Tragedie come quella di «Daniela la garagista», che ricostruisce ogni giorno la propria vita dopo l' incidente che le è costato l' uso delle gambe (senza che la donna al volante della Panda che le ha tagliato la strada si sia mai fatta viva). Come quella di Damiano, il medico dolorosamente sopravvissuto a un disastro aereo nel Sud Sudan (bellissime le pagine in cui si raccontano i personaggi che dopo una lunga attesa salgono con lui sul velivolo scassato, tra cui soltanto due oltre a lui si salveranno). Come quella di Yavuz Baydar, scrittore in fuga dalla Turchia di Erdogan. Come quella di Mira Bucci, sopravvissuta ai lager nazisti, cui dopo la liberazione gli americani permisero di entrare nella casa di una famiglia tedesca a prendersi quel che voleva, come risarcimento: scelse una macchina da cucire, con cui avrebbe intrapreso il suo nuovo lavoro, e un quadro con due bambine, presagio favorevole per la sorte delle due figlie che avrebbe ritrovato due anni dopo a Londra, anche loro scampate alla persecuzione nazista. Il filo rosso è, come sempre nei libri di Calabresi, la storia della sua famiglia. Il «Bricco delle Ciliegie», la collina con le vigne del trisnonno Alberto, pignorate dalla banca - lui muore all' improvviso, il fattore non onora la fideiussione garantita da Alberto -, che l' autore riesce in parte a ricomprare, onorando una promessa fatta alla nonna morente. La malattia di Tonino Milite, pittore e scrittore, che di Mario è stato il padre adottivo. Ma il personaggio centrale de La mattina dopo, anche se compare in poche pagine, è lo stesso di Spingendo la notte più in là , il libro che resta uno dei più importanti pubblicati nel nostro Paese negli ultimi vent' anni. È la madre dell' autore, Gemma Capra Calabresi, questa grande italiana che non chiede vendetta, non si oppone neppure alla grazia per l' assassino dell' amatissimo marito, non educa i figli nel rancore, ma trasmette una grande lezione: «Non guardare al passato con rabbia. Non si può cambiare ciò che è successo, bisogna farci pace. E prima lo si fa meglio è». Senza dimenticare nulla e nessuno, a cominciare dal delitto da cui tutto ha avuto origine: Milano, 17 maggio 1972, il commissario Luigi Calabresi muore innocente, ucciso sotto casa da un commando che ha dovuto attendere nervosamente che finisse di giocare a nascondino con Mario bambino. E senza rinunciare a capire, fino all' ultimo appuntamento con il destino. Così Calabresi parte per una Parigi spazzata da un vento di tempesta, ancora turbata dal rogo di Notre-Dame, per incontrare il latitante condannato per l' omicidio del padre, Giorgio Pietrostefani. «Adesso, il mio giorno dopo era finito davvero».

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 18 settembre 2019. Caro Mario Calabresi, sto leggendo il tuo libro appena uscito, La mattina dopo, Mondadori. Quando l' ho preso in mano ero sospettoso, quasi infastidito, memore delle polemiche volgari tra me e te. Poi la curiosità è stata più forte della diffidenza e pagina dopo pagina sono arrivato a metà dell' opera. E devo dirti che mi sono ritrovato, commuovendomi, nella tua prosa rassegnata tuttavia non banale. Vi ho scorto dei sentimenti che non mi rendono tuo fratello, questo sarebbe troppo, ma uno che ti somiglia, nonostante tutto. Sono qui a dirti che capisco il tuo stato d'animo, il senso di vuoto che si prova allorché si è costretti a lasciare un posto di lavoro che ti sembrava eterno, tuo e di nessun altro. Ogni strappo, la morte di un amico o di un familiare, ti stordisce o peggio ti mutila. Vorrei consolarti, spero di riuscirci. A me non è mai capitato per pura fortuna di essere licenziato. Però ho lasciato spontaneamente, per nausea, alcune direzioni. Ricordo il dì in cui mi allontanai dal Giornale nel quale avevo sostituito Indro Montanelli, non tuo cugino. Dopo quattro anni di trionfi indimenticabili, raddoppio delle vendite, all' improvviso non ne potei più. Avevo voglia di aria fresca, di fare altro, ciononostante non sapevo cosa. Sloggiai lo stesso per riconquistare la mia libertà dalla rottura di scatole che comporta la responsabilità di un quotidiano. Allorché abbandonai il podio avevo una sola preoccupazione: farmi pagare una buona, anzi ottima, liquidazione. La manovra andò secondo i miei desideri: incassai quanto mi spettava. Il che attenuò il dolore provocato dall' allontanamento da via Negri, a Milano. La sera in cui, terminato il lavoro, svolto con la solita cura, raccattai le mie cianfrusaglie e mi tolsi dai piedi, percorsi il corridoio che portava all' ascensore a passo lento. Nessun collega, non uno, si affacciò dal proprio ufficio per salutarmi. Mi congedai in un silenzio cimiteriale. Giunto in portineria scoprii che non avevo più la macchina con l' autista che di norma mi accompagnava al ristorante o a casa. Non c' era un cane che mi degnasse di una stretta di mano. Il portiere, impietosito, chiamò un taxi, e mi porse un mazzo di rose rosse che uno sconosciuto o una sconosciuta mi aveva fatto recapitare. Ancora oggi mi interrogo su chi sia stato a compiere quel gesto gentile, forse amoroso. Salii sulla vettura. Il mio umore era quello di un soldato costretto alla resa. Faticai a trattenere le lacrime. Noi maschi ci vergogniamo a piangere e non ho mai capito perché. Questa è una confessione che non ho fatto neppure a mia moglie. La faccio a te perché, anche se non sei davanti a me, ti leggo dentro e comprendo il tuo tormento. È amaro lasciare la direzione di una testata, importante o meno che sia. È come trovarsi a piedi nudi su una strada ghiaiosa. Soffri e perdi il senso della esistenza. Sei scosso dall' istante stesso in cui all' improvviso hai perduto il timone. Compilare un quotidiano, scrivere articoli è come vivere due volte. Un lavoro poi lo trovi ugualmente e riesci a campare abbastanza bene, però tutto è diverso: sei smarrito quale pugile finito ko. Il tempo è un medico poco pietoso e non ti risparmia uno strazio lancinante. Dico questo per solidarietà e comprensione. Immagino cosa sia accaduto nella tua testa che in certe circostanze non può che essere confusa. Sostieni giustamente che la tua visione sul modo di fare il giornale e il suo futuro era diversa da quella dell' editore. Succede quasi sempre che tra direttore e padrone ci siano delle divergenze. Il secondo magari non ha ragione però impone la sua volontà in quanto il denaro è suo e non del cronista. E questi è un dipendente di lusso ma pur sempre un dipendente. In altre parole noi siamo impiegati, sebbene ben pagati, e obbligati ad adeguarci alla realtà che non si adatta affatto alle nostre idee magari giuste. Il cinismo e la crudeltà dei signori proprietari dei quotidiani sono incrementati dalla loro stessa arroganza, tutta roba dura da contrastare. Quando essi si scatenano su di noi, che abbiamo dato l' anima per essere graditi, non abbiamo difese se non il diritto di fare valere il contratto. Se quello che hai firmato nell' attimo dell' assunzione ti tutela finanziariamente, sbatti la porta con disinvoltura, viceversa rimani col cerino in mano. E la tua rabbia cresce a dismisura. Io ho sempre badato al quattrino perché è l' unico metro di misura per valutare la qualità del lavoro. Per fortuna non ho bisogno di soldi, e ciò mi permette di pretenderli quando mi spettano. Servono a te e alla tua famiglia. Poche balle. Impadronirsi di una direzione non è facile, ma lasciarla è difficilissimo in base al principio che uscire di scena comporta uno sforzo maggiore rispetto a quello dell' entrata. Tu ti sei defilato con eleganza maggiore rispetto a De Benedetti (mi è simpatico e lo stimo) che ti ha spinto alla porta. Te ne do atto. Anche se non dimentico il livore maturato in te allorché ti definii l'orfano del commissario assassinato dai tuoi amici di sinistra. Modestamente pure io rimasi orfano a sei anni ma non per questo me ne vanto. Per scherzare, affermo spesso che avere perso il padre mi ha agevolato: invece di avere due genitori che mi rompevano le balle ne avevo uno solo, mia madre, poveraccia. Il giorno che mi scrivesti che nella mia lunga vita professionale ero stato a capo soltanto di giornali di serie B, ti risposi che forse era così, tuttavia li avevo portati in serie A, mentre tu hai guidato due fogli di serie A e li hai portati entrambi in serie B. Era una battuta polemica e nulla più. Ti chiedo scusa sicuro che farai la stessa cosa con me. Se non accadrà, pazienza. Intanto ti auguro che il libro che hai dato alle stampe incontri il favore del pubblico e ti dia una boccata di ossigeno, indispensabile per affrontare il domani. A me rimproverano di avere avuto un successo facile. Replico, se il successo fosse facile lo avrebbero tutti, perfino i miei detrattori.

Mario Calabresi: il giorno che incontrai Pietrostefani. Anticipiamo un capitolo del nuovo libro di Mario Calabresi, in uscita il 17 settembre. L’ex direttore di “Repubblica” racconta di quando a Parigi guarda negli occhi l’uomo condannato per la morte del padre. Mario Calabresi su La Repubblica il 14 settembre 2019. Rimaneva una cosa da fare, per mettere ordine e fare i conti con il passato. Il giorno dopo finisce quando i conti sono regolati, quando ti fai una ragione delle cose e puoi provare a guardare avanti, anche se quel davanti magari è molto diverso da quello che avevi immaginato. Dovevo fare un incontro che avevo evitato diciassette anni prima. Volevo tornare a Parigi per parlare con Giorgio Pietrostefani, l’uomo che è stato condannato per aver organizzato l’omicidio di mio padre. Lo ricordo ai processi, la faccia dura, mai una parola, mai un’emozione. Un oggetto misterioso, sembrava fatto di pietra, non rilasciava dichiarazioni alla stampa, sfuggiva i microfoni e si rifugiava dietro occhiali da sole con la montatura quadrata. Mi provocava molto disagio. A un certo punto dei processi andò a vivere in Francia. Dopo la sentenza di Cassazione che confermò la condanna definitiva tornò in Italia e passò due anni nel carcere di Pisa. Poi venne accordata una revisione del processo, che si tenne a Mestre. Prima della sentenza della Corte d’appello di Venezia, la quindicesima di un percorso durato dodici anni, che rigettava la richiesta di revisione e confermava le condanne, fuggì a Parigi. Non è mai più tornato. E nessuno lo ha mai chiesto indietro con convinzione. Così ha vissuto libero in Francia per più di vent’anni. Nell’estate del 2002, nei giorni in cui si giocavano i mondiali di calcio di Giappone e Corea del Sud, ero a Parigi per seguire le elezioni politiche. Una sera un collega mi invitò a casa sua per vedere la partita dell’Italia, ma prima di accettare venni a sapere che in quel salotto, nella poltrona di fronte alla televisione, ci sarebbe stato Giorgio Pietrostefani. L’idea di trovarmelo davanti, in un contesto di svago, non era sopportabile, cosi non andai. Pensai che era curioso che tanti lo conoscessero e lo frequentassero ma per lo Stato italiano fosse un latitante. Anni dopo avremmo saputo anche che riceve regolarmente una pensione grazie ai contributi versati quando lavorava in Italia. Ogni volta che sono stato in Francia in questi anni ho immaginato di andare a cercarlo, c’erano molte cose che avrei voluto chiedergli e volevo guardarlo negli occhi, oltre quegli occhiali. Poi c’era sempre qualcosa da fare capace di esentarmi da quella fatica. Finché l’arresto e l’estradizione di Cesare Battisti, il terrorista dei Pac fuggito prima in Francia e poi in Brasile, hanno riportato il tema dei latitanti della stagione del terrorismo nel dibattito politico e sulle prime pagine dei giornali. Nei miei ultimi giorni di lavoro a Repubblica ho saputo che il suo nome era in cima alla lista della dozzina di ex terroristi di cui il ministero della Giustizia chiede finisca la latitanza parigina. Era stato anche lui protetto in nome della “dottrina Mitterrand”. Ma l’accoglienza garantita da quel presidente francese, che regnò per tutti gli anni Ottanta e per ben metà del decennio successivo, si sarebbe dovuta applicare solo a chi non aveva le mani sporche di sangue. Ho trovato il tempo per andare a cercare i documenti e le interviste di François Mitterrand e non ci sono molte cose da interpretare. Ho cercato allora di capire che fine avesse fatto Pietrostefani, ormai aveva passato la metà dei settanta, e dove vivesse. Ho scoperto che aveva avuto un trapianto di fegato e che viveva quasi più negli ospedali che a casa. Allora ho sentito che era tempo di farlo. Non c’erano più impegni urgenti e pressanti. E avevo chiara la sensazione che se l’avessi evitato di nuovo e l’incontro non ci fosse stato, un giorno avrei considerato tutto questo un’occasione perduta. Ho cercato un contatto che non desse spettacolo, che fosse riservato. L’ho trovato e ci ho messo due mesi per arrivare in fondo. Ho avvisato mia madre, che mi ha chiesto cosa mi aspettassi e mi ha aiutato a trovare lo spirito giusto. Lei ci aveva pensato molto e alla fine mi ha ripetuto tre volte la stessa frase: «Digli che io ho perdonato, sono in pace e così voglio vivere il resto della mia vita». Quella mattina esco all’alba, cammino per più di due ore per Parigi, facendo il giro di tutti i posti che hanno qualcosa da dirmi. Il ristorante dove Tonino ci ha fatto provare per la prima volta le ostriche, nell’unico viaggio che abbiamo fatto tutti insieme fuori dall’Italia. Resta una foto bellissima con tutti e quattro i figli appoggiati al muretto di un ponte sulla Senna. Vado in Rue Mouffetard dove il mio amico Corso mi portava a prendere delle gigantesche crêpe salate e scendo a Notre-Dame. Non ci sono ancora turisti ma è tutto transennato, la cattedrale ferita si può guardare solo da lontano. È ancora in piedi e le due torri della facciata danno un senso di forza e di appartenenza che va oltre la cronaca e appartiene alla Storia. Poi arriva il primo pullman di turisti, scarica un fiume di asiatici che cominciano a farsi selfie con uno degli sfondi più famosi del mondo. È tempo di andare. Si alza un vento fortissimo, annuncia tempesta. Ho imparato la puntualità, arrivare in anticipo mi sembra una delle più belle conquiste di questo tempo nuovo. L’uomo che mi trovo di fronte ha la barba bianca, è talmente magro da sembrare la metà di quello di un tempo. Ha quasi 76 anni, ne aveva 28 quel 17 maggio 1972 quando spararono a mio padre. Io avevo due anni e mezzo. Infagottato in un giubbotto verde, con gli occhiali da sole quadrati che aveva anche ai tempi del processo. Lo vedo che cammina avanti e indietro di fronte all’albergo, guarda continuamente l’ora, è anche lui in anticipo. Allora esco e gli vado incontro, anche se non sono sicuro che sia lui perché è irriconoscibile. Solo gli occhi, noto dopo, ricordano chi era. È teso. Deve aver dormito peggio di me. Incontrare uno che somiglia cosi tanto a quel poliziotto contro cui scatenarono una delle più violente campagne di odio della storia del nostro paese, fino al suo omicidio, non deve essere facile. Fare i conti con la Storia nemmeno. Parliamo per mezz’ora, seduti nella hall di un anonimo albergo popolato solo di turisti americani. C’è stato un momento, molti anni fa, in cui mia madre decise che pubblico e privato si sarebbero separati per sempre. Che non avremmo più parlato di processi. Chiedevamo giustizia e, seppur dopo tanti anni, l’abbiamo ottenuta, tutto il resto — dall’esecuzione delle pene, ai permessi, all’estradizione fino alle grazie — non spettava a noi ma allo Stato. Ricordo l’esatto momento in cui mia madre mi disse che era giusto fare cosi. Eravamo seduti in macchina sotto casa della nonna, chissà perché. Forse perché lei era l’unica ad avere il computer e la stampante, nonostante i suoi ottant’anni. Dovevamo compilare un modulo per dare il nostro parere sulla richiesta di grazia per Ovidio Bompressi, condannato per aver sparato a mio padre, il presidente della Repubblica era Carlo Azeglio Ciampi. Il modulo prevedeva che noi potessimo dire sì o no. Mia madre si rifiutò e ragionò: non siamo nel Medioevo che una famiglia decide se una persona deve stare o meno in carcere, la giustizia non può essere un fatto privato, tanto che viene amministrata in nome del popolo italiano. Lo Stato deve avere il coraggio delle sue decisioni, assumendosene la responsabilità. Non può nascondersi dietro una famiglia. Noi ci rimettiamo all’interesse generale, non ci metteremo di traverso e non commenteremo in alcun modo, faccia il presidente della Repubblica quello che ritiene giusto per l’Italia. Da quel momento mia madre non ha più detto una parola sulle vicende e ha intrapreso con convinzione un processo di pacificazione interiore. Un percorso privato, con cui ha sempre cercato di contaminare me e i miei fratelli. Questi percorsi sono fatti di passi avanti e marce indietro, ma sono fondamentali per trovare una pace interiore. Cosi sono andato a incontrare quell’uomo che non aveva più nulla dei suoi vent’anni. Dovevo farlo. Adesso, il mio giorno dopo era finito davvero.

IL LUSSO DELL'ELUSIONE. (Il Sole 24 Ore Radiocor Plus il 17 maggio 2019. ) - Riconosciuta elusione fiscale al gruppo editoriale L'Espresso. Questo il verdetto della Cassazione (sentenza n. 13123/2019) che di fatto si è trovata in linea con quanto affermato dalla commissione tributaria regionale. In particolare alla società erano stati notificati diversi avvisi di accertamento ai fini Irpeg e Ilor per gli anni 1993 e 1994 con i quali veniva contestata l'indeducibilità delle quote di ammortamento relative al costo sostenuto per l'acquisto dell'usufrutto sul 99,98% delle azioni di una spa nella titolarità di una società di diritto olandese.  Alla luce di questa ricostruzione al giudice è parsa evidente la presenza del dividend washing (operazione consistente nell'acquisto di partecipazioni in prossimità della data di stacco del dividendo e nella successiva cessione dei titoli dopo l'incasso degli utili) e dividend stripping (consistente nella costituzione o cessione del diritto di usufrutto su azioni da parte di una società non residente e non avente stabile organizzazione in Italia in favore di un contribuente italiano) con mere finalità elusive. A tal proposito la Corte ha richiamato un precedente (Cassazione n. 22932/2005) che ha sanzionato i contratti di cessione dell'usufrutto di azioni che riguardavano direttamente la fattispecie in esame non ravvisandosi altra motivazione economica che quella del vantaggio fiscale. Interessante anche il chiarimento della Corte sul mancato invito del contribuente al contraddittorio prima del pvc. E a tal proposito è stato evidenziato che questo onere non si applica alle contestazioni dell'amministrazione finanziaria con oggetto comportamenti elusivi, tenuti dal contribuente quando era in vigore la legge 408/1990.

Mario Calabresi, addio a Repubblica: su Twitter, la sua chiarissima accusa, scrive il 5 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Un fulmine a ciel sereno: Mario Calabresi non è più il direttore di Repubblica, sostituito da Carlo Verdelli (manca solo l'ufficialità, che arriverà dal prossimo CdA). L'annuncio lo ha dato lo stesso Calabresi su Twitter, con due cinguettii in cui ha ringraziato i lettori, rivendicato i risultati ottenuti dal quotidiano sotto alla sua guida e, di fatto seppur tra le righe, ha accusato l'editore - il gruppo Gedi - per il suo addio. Tutto chiaro sin dall'incipt del primo tweet: "Dopo tre anni finisce la mia direzione di Repubblica. Lo hanno deciso gli editori". Quindi spiega come sotto alla sua guida il giornale abbia "ritrovato un'identità", e questo "i lettori lo hanno capito, la discesa delle copie si è dimezzata". Ogni riferimento, insomma, non appare puramente casuale. Di seguito, i tweet di Mario Calabresi: 

Dopo tre anni finisce la mia direzione di Repubblica. Lo hanno deciso gli editori. Ho l’orgoglio di lasciare un giornale che ha ritrovato un’identità e ha un’idea chiara del mondo. I lettori lo hanno capito, la discesa delle copie si è dimezzata: era al 14 ora è sotto il 7.

Grazie a chi ci ha sostenuto nella battaglia per una stampa libera e non ipnotizzata dalla propaganda dei nuovi potenti. Abbiamo innovato tanto sulla carta e sul digitale e i conti sono in ordine. Grazie a tutti i colleghi a cui auguro di non perdere mai passione e curiosità.

Filippo Facci il 19 Gennaio 2019 su "Libero Quotidiano": "Carlo De Benedetti uno di noi. Nei guai col fisco si lamenta per la riservatezza violata". Carlo De Benedetti, uno di noi. Il presente articolo, esposto al pubblico, è basato sul nulla ed è gravemente lesivo. Di che, di chi? Presumiamo di Carlo De Benedetti detto «ingegnere», il quale - tramite l'avvocato professor Franco Coppi, quello che difese Andreotti - avvierà pertanto azioni a tutela della sua reputazione e «in tal senso ha già dato mandato di procedere giudizialmente». Contro chi? Presumiamo anche contro di noi, che siamo garantisti e tuttavia di mestiere dobbiamo dare le notizie: e la notizia, in questo caso, mentre scriviamo, è già stata ripresa da molti altri quotidiani online e attenzione, non dice che l'ingegner Carlo De Benedetti ha evaso le tasse per 120 milioni di euro nell' acquisto di uno yacht da 51 metri, ma dice che la Guardia di Finanza gli contesta qualcosa di molto simile. Più precisamente: la Guardia di finanza di Torino ha contestato all' ingegner Carlo De Benedetti di avere omesso, nella dichiarazione dei redditi, investimenti detenuti in territori off shore per quasi 120 milioni di euro: una vicenda che in particolare riguarda l'acquisto in leasing di My Aldabra, yacht di 51 metri battente bandiera delle Isole Cayman. Dopodichè - il nostro mestiere funziona così - possiamo anche riportare quello che abbiamo messo addirittura in apertura dell'articolo, e che è stato riferito da un portavoce di De Benedetti: cioè che sarebbe «un'informazione data al pubblico e basata sul nulla, gravemente lesiva. L' Ingegnere avvierà pertanto azioni a tutela della sua reputazione e in tal senso ha già dato mandato al professor Franco Coppi di procedere giudizialmente». Ecco, abbiamo detto tutto. Anzi no, ci sarebbe qualche altro dettaglio di cronaca (potenzialmente e gravemente lesivo) e cioè, per esempio, che a far scattare gli accertamenti delle fiamme gialle torinesi è stata una segnalazione dei finanzieri della Toscana, dove l' imbarcazione è stata costruita, precisamente alla Codecasa di Viareggio: l' ingegnere - sempre secondo la notizia - rischierebbe una multa dai 7 ai 36 milioni perché a una sua società è stato appunto contestata «l' omessa dichiarazione di investimenti detenuti in Stati o territori a fiscalità privilegiata per un valore annuo pari a 19 milioni e 995mila euro». Ergo, l'evasione nel suo complesso è stata quantificata in quasi 120 milioni.

OFF-SHORE - L' atto in realtà è di cinque mesi fa, risale a settembre, ed è stato notificato alla società Aldabra che appartiene a De Benedetti per il 99 per cento. Il sospetto è che questa Aldabra possa (potesse) essere una società di comodo fatta solo per gestire lo yacht in uso all' Ingegnere: perciò i finanzieri hanno controllato i conti dal 2011 al 2017 ed è risultato - così pare - che Aldabra non aveva dichiarato al Fisco il valore dello yacht, dapprima comprato con un leasing da Unicredit Leasing e poi subito affittato alla Aldabra. Secondo le accuse dei finanzieri, a pagare la gestione dello yacht - precisamente alla società specializzata Fraser Yachts Monaco - era esclusivamente De Benedetti. Insomma, la società Aldabra (che ha dato anche il nome allo yacht) in pratica era una società fantasma che aveva omesso il proprio ruolo nell' operazione, e anche l'operazione. La prima fonte di questa notizia è stata l'Ansa, e il citato portavoce di Carlo De Benedetti ha fatto sapere questo: «Esprimiamo profonda sorpresa per la notizia data dall' Ansa. Premesso che da un punto di vista formale non sono stati rispettati i dovuti obblighi di riservatezza, l'ingegner De Benedetti non ha mai evaso, o omesso di dichiarare, alcuna proprietà estera, in particolare per quanto riguarda l'imbarcazione My Aldabra, che era di proprietà di UniCredit Leasing SpA in Italia». Di strano c' è che il portavoce di De Benedetti, da una parte, non dice che la notizia dell'Ansa sia falsa, ma che l'Ansa nel darla non avrebbe rispettato «i dovuti obblighi di riservatezza»: non sappiamo quali, visto che non c' è nessun obbligo di tener riservata una notizia del genere. Detto questo, il portavoce ha precisato che De Benedetti non ha «mai evaso o omesso di dichiarare alcuna proprietà estera, in particolare lo yacht, che apparteneva a UniCredit Leasing SpA in Italia». Insomma, tra il vero e il falso c' è di mezzo il cavillo, il garbuglio, la fisiologica differenza tra una contestazione fiscale e la spiegazione fornita dal contestato: insomma, come accade per ciascuno di noi tartassati dal fisco.

RESIDENZA SVIZZERA - Magari ecco, la maggior parte di noi non risiede in Svizzera come De Benedetti: ma in termini relativistici è la stessa cosa. Molti di noi, magari, dispongono di un'auto con targa romena o slovacca per questioni fiscali: e De Benedetti, se è vero, dispone di uno yacht che batte bandiera delle isole Cayman. Molti di noi, magari, hanno un macchinone pagato in leasing con scocca in lega leggera, sedili in similpelle, 220 all' ora di velocità massima e omologazione per il quinto passeggero; l'Aldabra fruito da De Benedetti invece ha uno scafo in acciaio con sovrastruttura in alluminio, tocca i 17,5 nodi di superficie, quattro livelli, piscina interna, salotto in pelle bianca, due suite, omologazione per 12 ospiti più otto membri di equipaggio: in fondo cambia poco, no? De Benedetti riceve cartelle esattoriali esattamente come noi, che a differenza sua non facciamo notizia (ma è colpa nostra) e non abbiamo un portavoce che spieghi - senza smadonnare come noi, e senza chiamare l'avvocato Coppi - che forse Equitalia ci ha scambiati per qualcun altro, che c' è un errore «gravemente lesivo» eccetera. Poi, noi, siamo liberi di sfogarci sui social e magari sostenere che gli alieni invaderanno la terra, visto che il governo l'hanno già invaso: De Benedetti in proporzione è libero di rilasciare pensose interviste - come sul Sole 24 Ore dell'altro giorno - in cui paragonare le eventuali aperture del Partito popolare europeo ai sovranisti alle aperture del primo ministro britannico Chamberlain del 19038, quando pensò di ammansire Hitler. De Benedetti, insomma, è uno di noi. Filippo Facci 

Carlo De Benedetti, offerta per acquisto del 29,9% di Gedi. Cir: "Irricevibile". "Questa mia iniziativa - scrive l'ingegnere nella lettera che accompagna la proposta - è volta a rilanciare il Gruppo al quale sono stato associato per lunga parte della mia vita". La replica del gruppo: "Offerta inadeguata, non riconosciuto il reale valore della partecipazione". Rodolfo De Benedetti: "Profondamente amareggiato e sconcertato dall'iniziativa". La Repubblica il 13 Ottobre 2019. Carlo De Benedetti ha presentato venerdì 11 ottobre alla Cir Spa, attraverso la sua controllata al 99% SpA Romed, un'offerta di acquisto cash del 29,9% delle azione Gedi Spa (Gruppo Espresso) al prezzo di chiusura di giovedì, e cioè euro 0,25 ad azione. Lo fa sapere all' Ansa lo stesso Carlo De Benedetti. In serata è arrivata la nota del gruppo Cir che parla di offerta "manifestamente irricevibile".

La lettera di Carlo De Benedetti. "Questa mia iniziativa è volta a rilanciare il Gruppo al quale sono stato associato per lunga parte della mia vita e che ho presieduto per dieci anni, promuovendone le straordinarie potenzialità", scrive l'Ingegnere nella lettera che accompagna l'offerta di acquisto delle azioni. "È chiaro che conoscendo bene il settore, mi sono note le prospettive difficili, ma credo che con passione, impegno, consenso e competenza, il Gruppo possa avere un futuro coerente con la sua grande storia". Nella lettera firmata dal presidente del consiglio di amministrazione di Romed, Luigi Nani, che contiene l'"offerta irrevocabile per l'acquisto delle azioni Gedi", si legge che "l'esatto quantitativo dovrà essere determinato tenendo conto delle azioni costituenti il capitale sociale e di quelle che eventualmente lo costituiranno in funzione di stock option o altre operazioni sulle azioni. La presente Offerta Irrevocabile non è condizionata all'espletamento di alcuna due diligence, ferma restando la garanzia sui bilanci e sulle situazioni infrannuali pubblicati". "La presente Offerta Irrevocabile - si legge ancora nella lettera - è subordinata alle seguenti condizioni: che i componenti il consiglio di amministrazione di Gedi di nomina Cir rassegnino le proprie dimissioni entro due giorni lavorativi dal trasferimento delle azioni oggetto della presente offerta alla nostra società, ad eccezione dell'ing. John Philip Elkann e del dr. Carlo Perrone che potranno mantenere le attuali cariche e gli attuali poteri, e che, per le residue azioni che resteranno di sua proprietà, Cir si impegni a distribuirle ai propri soci (ovvero ai soci della società riveniente dalla fusione Cofide/Cir) entro un anno dal trasferimento delle azioni oggetto della presente offerta alla nostra società". "Vi saremo grati - conclude la lettera - se vorrete sottoporre la nostra proposta al vostro prossimo consiglio di amministrazione, rimanendo la presente offerta irrevocabile efficace fino al termine del secondo giorno di Borsa aperta, successivo alla data dello stesso".

La nota di Cir. In serata è arrivata la nota di Cir. "Con riferimento alla comunicazione diffusa in data odierna dall’ing. Carlo De Benedetti, relativa all’offerta non sollecitata né concordata da egli presentata lo scorso venerdì, tramite Romed S.p.A., per l’acquisto di una partecipazione del 29,9% in GEDI S.p.A., - spiega il comunicato - CIR S.p.A. rende noto di ritenere detta offerta manifestamente irricevibile in quanto del tutto inadeguata a riconoscere a CIR S.p.A. e a tutti gli azionisti il reale valore della partecipazione e ad assicurare prospettive sostenibili di lungo termine a GEDI S.p.A., aspetto sul quale CIR S.p.A. è da sempre impegnata".

Il presidente di Cir Rodolfo De Benedetti ha aggiunto all'Ansa: "Sono profondamente amareggiato e sconcertato dall'iniziativa non sollecitata né concordata presa da mio padre e il cui unico risultato consiste nel creare un'inutile distrazione, della quale certo non si sentiva il bisogno". Inoltre il presidente esprime la propria amarezza anche "rispetto al lavoro delle tante persone impegnate quotidianamente a garantire un futuro di successo al Gruppo Gedi, che da anni opera in un settore dei più sfidanti. I miei fratelli ed io, come azionisti di controllo del Gruppo Cofide-Cir, continueremo a dare il nostro pieno supporto al management in questo percorso".

La replica dell'Ingegnere. Proprio le parole di Rodolfo hanno generato un'ulteriore reazione di Carlo De Benedetti: "Trovo bizzarre le dichiarazioni di mio figlio Rodolfo. È la stessa persona che ha trattato la vendita del Gruppo Espresso a Cattaneo e Marsaglia. La gestione sua e di suo fratello Marco hanno determinato il crollo del valore della azienda e la mancanza di qualsiasi prospettiva, concentrandosi esclusivamente sulla ricerca di un compratore visto che non hanno né competenza. Né passione per fare gli editori. Ha distrutto valore negli ultimi anni. Nonostante l'età, ho passione e idee per istituzionalizzare il Gruppo assicurandogli un futuro di indipendenza ed autonomia".

COSA C'È DIETRO. Carlo De Benedetti, clamorosa faida in famiglia: cerca di ricomprare Repubblica dai figli, rifiuto brutale. Nino Sunseri su Libero Quotidiano il 14 Ottobre 2019. È andata in pezzi l' ultima delle grandi dinastie che hanno dominato per quarant' anni l' economia italiana e, per questa via, la politica. I figli di Carlo De Benedetti si sono ribellati al padre che, dopo tre anni di lontananza dalla prima e nonostante 84 primavere, voleva riprendere il dominio assoluto della corazzata editoriale sulla cui plancia di comando, per molto tempo, sono stati costruiti e distrutti governi e ministri, disegnati partiti e carriere politiche, non sempre di successo. Tanto per citare le più recenti: dal Pd (di cui Benedetti voleva avere la tessera numero uno) al governo Monti la cui gestazione era iniziata proprio negli uffici dell' Ingegnere a Milano. Ieri il colpo di scena: Carlo De Benedetti ha chiesto ai figli di vendergli il controllo di Gedi da cui dipendono Repubblica, la sua creatura prediletta, e anche La Stampa, il Secolo XIX il settimanale l' Espresso e tutti i giornali locali che fanno capo alla ex Finegil. I figli Marco e Rodolfo che guidano la Cir, la holding di famiglia da cui dipende Gedi gli hanno opposto il gran rifiuto. Netto e in toni piuttosto bruschi («è una proposta irricevibile»). In serata Rodolfo si dichiarerà «amareggiato e sconcertato» per l' iniziativa del padre garantendo che insieme ai fratelli «continueremo a dare il nostro pieno supporto al management». Così, in una domenica di autunno, si consuma la rottura degli affari e degli affetti in casa dell' Ingegnere. La lacerazione comincia nel primo pomeriggio quando Carlo fa sapere all' agenzia Ansa che venerdì ha mandato una lettera al consiglio d' amministrazione di Cir chiedendo il 29,9% di Gedi. Offre 0,25 euro che corrisponde alla chiusura di giovedì. Ma soprattutto è il livello più basso toccato dal titolo in tutta la sua storia. Con soli 38 milioni di euro, dunque, l' Ingegnere si vorrebbe riprendere il gruppo. I suoi figli Rodolfo e Marco che guidano il gruppo (Edoardo, il terzo, fa il medico in Svizzera) rispondono al padre con toni risentiti. «Con riferimento alla comunicazione diffusa in data odierna dall' Ing. Carlo De Benedetti, relativa all' offerta non sollecitata né concordata da egli presentata lo scorso venerdì, Cir rende noto di ritenere detta offerta manifestamente irricevibile in quanto del tutto inadeguata a riconoscere a Cir spa e agli azionisti il reale valore della partecipazione». Difficile pensare che un gran navigatore della finanza come l' Ingegnere sperasse in una reazione molto diversa. I termini dell' offerta erano davvero irricevibili. Il consiglio d' amministrazione che l' avesse accettata rischiava immediatamente l' azione di responsabilità da parte degli altri soci con l' accusa di aver svenduto il patrimonio aziendale. E fra Cir e Gedi i soci di gran nome certo non mancano: da John Elkann a Carlo Perrone (ex proprietario del Secolo XIX) passando per Jacaranda figlia del principe Caracciolo fondatore insieme a Eugenio Scalfari di Repubblica. Non a caso De Benedetti, nella sua lettera, faceva sapere che i rappresentanti di questi azionisti potevano restare in consiglio mentre i suoi figli e i loro delegati dovevano sloggiare entro due giorni. Un vero e proprio licenziamento in tronco. Ma non finisce qui: Marco e Rodolfo, attraverso Cir posseggono il 43% del gruppo editoriale. Il padre si offriva di acquistarne solo il 29.9%. Imponeva anche che tutto il resto venisse distribuito ai soci di minoranza fra i quali, probabilmente c' è ancora lui essendo stata approvata la fusione tra Cir e Cofide (Compagnia Finanziaria De Benedetti). Plausibile, allora, pensare che l' iniziativa di ieri sia solo un' azione di disturbo per intralciare l' operazione vera. Vale a dire la vendita dei quotidiani ad acquirenti che l' Ingegnere non gradisce. Da settimane in Borsa, per esempio, si parla di una cordata formata da Luca Montezemolo e Flavio Cattaneo cui certo le disponibilità non mancano dopo aver venduto i supertreni di Italo agli americani. Qualcun altro ha parlato dell' imprenditore ceco Daniel Kretinsky, azionista di rilevo di Le Monde. Altri ancora ricordano la pubblicità che venne data ad un pranzo a Parigi fra i Rodolfo e Arnaud de Puyfontaine, amministratore delegato di Vivendi. Il gruppo francese fa capo a Vincent Bollorè. Sul suo superyacht in crociera nel Mediterraneo Nicolas Sarkozy festeggiò l' elezione alla presidenza della Repubblica. Inaccettabile per l' Ingegnere vedere la sua creatura di carta stampata in man o ad un sodale del peggior gollismo. Molto peggio di aver nominato, con una scelta molto controversa, Mario Calabresi alla direzione di Repubblica.

Aldo Cazzullo per Corriere.it il 15 ottobre 2019.

Ingegner De Benedetti, lei il 14 novembre compirà 85 anni. Che senso ha ricomprarsi Repubblica e il gruppo Gedi?

«Sono ben conscio della mia età. Ma mi sento molto bene. E sono in condizioni di condurre in porto un’operazione in due tempi».

Perché in due tempi?

«Il primo: raddrizzare la gestione dell’azienda, che è stata del tutto inefficace».

Perché dice questo?

«Non lo dico io; lo dice il mercato. Il metro dell’inefficacia della gestione è il prezzo di Borsa cui il titolo è precitato: 25 centesimi. E’ un’azienda senza vertice e senza comando. Una nave senza capitano, in balia di onde altissime: perché il mestiere dell’editoria quotidiana non è facile in nessuna parte del mondo».

Quale soluzione propone?

«Riprendere a investire pesantemente in un settore in cui Repubblica per anni ha eccelso: il digitale. Poi verrà il secondo tempo. Una volta che l’azienda sarà in condizione di navigare, pur sapendo che i mari resteranno procellosi, dobbiamo trovare un approdo».

Vale a dire?

«Portare le mie azioni, convincendo gli altri azionisti a fare altrettanto, in una Fondazione. Una Fondazione cui parteciperanno rappresentanti dei giornalisti, dirigenti del gruppo, personalità della cultura. L’obiettivo è assicurare un futuro di indipendenza a un pezzo di storia italiana».

Un pezzo della sua vita, ha detto lei.

«Certo. Ma anche un pezzo importante della vita di questo Paese. Tante cose sono avvenute su Repubblica, e tante cose sono avvenute a causa di Repubblica, sia sul piano politico che su quello culturale, direi anche civico. Il gruppo Espresso ha avuto in Italia un ruolo fondamentale. Merita di essere conservato e gestito. Sono felice di poter dedicare due, tre anni del mio tempo e della mia vita a rimettere in sesto un’azienda sconquassata e non gestita. So anche quali sono i limiti di una persona di 85 anni: da qui lo sbocco di una Fondazione. Sono convinto di riuscire a persuadere gli altri soci che si tratta di un dovere di fronte al Paese, che spetta a chi ha avuto l’onore e l’onere di gestire il gruppo».

Dovrà prima convincere i suoi figli. Ha parlato con loro?

«No. Sarebbe stato inutile, perché non accettano le premesse: riconoscere che non sono capaci di fare questo mestiere».

Sono parole molto dure.

«I miei figli sanno fare bene altri mestieri. Ma non hanno la passione per fare gli editori. Non hanno neanche la competenza; ma prima di tutto non hanno la passione. E senza passione non puoi fare un mestiere così particolare, artigianale, per il quale occorrono sensibilità, gusto estetico, cultura, capacità di conduzione di uomini, talento per mettere insieme un’orchestra e il direttore che la dirige, decidere quale spartito suonare. I miei figli, in particolare Rodolfo, lo considerano un business declinante; e non hanno neanche torto. Ma questo significa considerarlo un mestiere qualsiasi; e invece l’editore non è un mestiere qualsiasi. La grande ingenuità dei miei figli è continuare da tempo a cercare un compratore per il gruppo. Una ricerca inutile: in Italia un compratore non c’è».

Si è parlato di fondi di investimento.

«Io parlo di editori. Un compratore c’è sempre. Ma il mestiere dell’editore è talmente difficile e ingrato che, se uno decide di comprare un oggetto come Repubblica, lo fa per difendere altri interessi: politici o economici».

Un giornalista che di economia si intende, Paolo Madron, ha definito la sua un’«offerta dimostrativa». Cioè insufficiente. Pensa a un rilancio? A un’Opa?

«Intanto gli azionisti Cir dovrebbero ringraziarmi per questo regalo piuttosto consistente: la mia offerta ha fatto aumentare il valore in Borsa del titolo di oltre il 15%. Un contributo più rilevante di quello che ha dato l’attuale gestione. Il mercato ha dimostrato che l’azienda, se gestita non dai miei figli, vale di più. Gestita dai miei figli, l’azienda vale 23 centesimi ad azione. La pago al prezzo cui hanno ridotto l’azienda. Perché dovrei pagarla di più? E poi non compro tutto, ma il 30 per cento. Non è questione di soldi, non voglio fare un affare. Le ripeto che dopo il rilancio intendo regalare le azioni a una Fondazione».

Ma il prezzo è basso.

«Lo so anch’io che è basso. Segno che hanno fatto un bel disastro».

Accettare l’offerta costringerebbe la Cir a svalutare la sua quota di Gedi. Si parla di una perdita di 150 milioni.

«La perdita c’è già, non sarebbe determinata da una vendita. Non è dovuta a me; è dovuta a loro».

Un giornale può stare in piedi con una Fondazione?

«In Italia non è ancora accaduto. Ma in Inghilterra e in Germania esistono Fondazioni che hanno la proprietà di un giornale. Non propongo un atto di generosità; propongo un atto di responsabilità. Capisco che i miei figli non amino il giornale; smettano però di distruggerlo. Si convincano e convincano gli altri azionisti Cir ad aderire a questo programma, visto che non si sono dimostrati capaci di gestire, non hanno idea di come farlo, e si ostinano a cercare un acquirente che non c’è».

Urbano Cairo ha parlato di «mossa romantica».

«E’ un’espressione che ho apprezzato. Mi ha fatto piacere».

Con John Elkann ha parlato?

«Sì. L’ho chiamato. Mi ha ringraziato. Era in viaggio, ci risentiremo per discuterne».

Chi potrebbe presiedere la Fondazione?

«E’ prematuro parlane. Per due o tre anni il presidente lo devo fare io. Dobbiamo prima lavorare, salvare, investire. Poi decideremo».

Per il nuovo direttore di Repubblica lei ha avuto parole lusinghiere.

«Le confermo. Sono soddisfatto di Carlo Verdelli».

Con Eugenio Scalfari ha parlato?

«No».

Dai giornalisti le sono arrivati segnali?

«Sì. Di grande soddisfazione. Lei sa quanto sia importante l’atmosfera in un’azienda editoriale. Un’azienda editoriale non è fatta di carta e inchiostro; è fatta di persone, idee, passioni. Ecco: ci vuole passione. E ci vuole qualcuno che te la ispiri. Non è un lavoro impiegatizio. Ci vogliono coinvolgimento e condivisione».

Benetton, Del Vecchio, ora lei: non è uno strano Paese, quello in cui i vecchi ambiscono a prendere il posto dei giovani?

«Sono singolari coincidenze. Diciamo che c’è molta gente che molla, e c’è poca gente che osa».

DAGONEWS il 14 ottobre 2019. Lasciateci fare una premessa, e anche di prenderci una rivincita: quando lo scorso 19 giugno scrivevamo dell'interesse di Marsaglia (Peninsula) e Cattaneo per il gruppo Gedi, dal fantomatico entourage di quest'ultimo si è alzata una voce che ha definito la notizia ''priva di senso, opera di un sito scandalistico… solo fantasie e pettegolezzi''. Ecco, forse oggi l'entourage vuole fare un colpo di telefono all'ingegner Carlo De Benedetti, presidente onorario di Gedi, che nella sua risposta al figlio Rodolfo ha detto: "Trovo bizzarre le dichiarazioni di mio figlio Rodolfo. È lo stessa persona che ha trattato la vendita del Gruppo Espresso a Cattaneo e Marsaglia''. Si tratta di un'ANSA di ieri sera, quindi non di un sito scandalistico e disgraziato come Dagospia, e la notizia viene da qualcuno che sicuramente è informato sulle trattative degli ultimi mesi. (in fondo alla pagina trovate le nostre notizie e la smentita partita allora dall'entourage di Cattaneo). Tornando al presente, pur essendo il fondo Peninsula non interessato alle vicende italiane (Marsaglia nell'operazione era entrato per conto proprio), è però notevole il nome di uno degli investment professionals di questo veicolo finanziario. Il profilo da appuntarsi è quello di Jean Sarkozy, il 33enne figlio dell'ex presidente francese, pure lui col pallino della politica e pure lui molto vicino a Vincent Bolloré, il finanziere bretone che sul suo yacht ospitava spesso l'allora inquilino dell'Eliseo. C'è infatti anche Bolloré dietro la spinta verso un cambio di proprietà del gruppo Espresso-Repubblica-Stampa. Il francese è reduce da troppe sconfitte nel nostro Paese, da Tim a Mediaset, da Mediobanca a Generali, dove ora si vede superato pure dall'arzillo Del Vecchio. Stufo di sbattere su muri e minusvalenze, Bolloré sperava di mettere il suo piedone in uno dei gruppi editoriali più influenti d'Italia, per avere pure lui voce in capitolo nelle guerre di potere e finanza italiane. Invece Cattaneo, secondo i piani, avrebbe investito parte dei suoi capitali per comprarsi il 5% di Gedi e diventare l'amministratore delegato del gruppo editoriale. Dall'altra parte si delinea il fronte opposto: in prima fila Carlo De Benedetti, altro vecchietto terribile che non intende mollare la sua passione per l'editoria, e accanto il duo John Elkann e Carletto Perrone, gli altri due azionisti di Gedi con diritto di prelazione, sempre pronti a esercitarlo davanti a un tentativo di acquisizione, soprattutto se dall'estero. I fratelli De Benedetti ovviamente preferivano cedere le loro quote a compratori esterni alla compagine azionaria, per incassare plusvalenze che difficilmente avrebbero vendendo a Elkann e Perrone.  

LA REPLICA: ''NOTIZIA OPERA DI UN SITO SCANDALISTICO''. Da affaritaliani.it del 21 giugno 2019. Dall'entourage di Cattaneo bollano il presunto interesse come notizia priva di senso, opera di un sito scandalistico. Peninsula, di cui oltretutto Cattaneo non detiene nessuna partecipazione, non è in trattative con Gedi. Ribadiscono che non c’è assolutamente nulla se non fantasie e pettegolezzi di un sito di gossip e il manager è stufo di continuare a smentire il nulla.

DAGONEWS il 4 luglio 2019. Per una volta Marco De Benedetti ha ascoltato il padre Carlo e messo in freezer le trattative con Stefano Marsaglia del fondo Peninsula, dietro al quale si muoveva anche uno degli investitori italiani del fondo, ovvero Flavio Cattaneo. Il presidente di GEDI (Repubblica-Espresso-Stampa-Il Secolo XIX), è pur sempre managing director del fondo Carlyle in Europa, dunque la sua rubrica di fondi e investitori internazionali non si ferma alla P di Peninsula, e ne ha pronto un altro interessato ad acquisire il gruppo editoriale. Pare però che al momento anche su quest'altro fronte i negoziati siano fermi. Per due motivi. Il primo è di trasparenza: l'altro fondo non ha investitori così ''in chiaro'' come Peninsula, e c'è quindi un problema di trasparenza del controllo, soprattutto per testate come ''Repubblica'' ed ''Espresso'' che fanno spesso le pulci a imprese dal controllo opaco. L'altro ostacolo è rappresentato da John Elkann. L'erede Agnelli, che ha una piccola ma rilevante quota in GEDI, non è d'accordo a vendere tutto il cucuzzaro a investitori stranieri e senza volto perché danneggerebbe la sua sua immagine e quella della dinastia Agnelli. Il giovane ''Kaky'' da anni cerca di ridare lustro all'immagine della famiglia, dopo i pasticci legati all'eredità del nonno (con la madre Margherita che ha svelato al mondo l'evasione fiscale dell'Avvocato), alle spericolatezze di Marchionne e al trasferimento della sede fiscale e legale della Fiat all'estero. Anche in vista della fusione con un gruppo straniero, ha spinto molto sulle attività filantropiche della Fondazione Agnelli, vedi l'accordo con Google sui progetti nelle scuole italiane, per far parlare di sé e dei suoi parenti in chiave positiva e non solo speculativa. Insomma, mentre cerca di schivare le critiche legate a un'uscita del gruppo automobilistico dall'Italia, ci manca solo un'operazione simile e parallela con uno dei gruppi editoriali più noti (e con lettori rumorosi e fidelizzati). I De Benedetti gli hanno detto chiaro e tondo che la seconda generazione non ha la fissa dei giornali come il vecchio Carlo, che è interessata ad altri business e che quello della stampa è residuale. A quel punto Elkann avrebbe detto che ci deve pensare, che deve valutare le sue mosse e proporrà entro l'estate una soluzione. Quando ha portato in dote ''Stampa'' e ''Secolo XIX'' nella nuova entità, i patti tra lui e l'Ingegnere erano diversi: l'obiettivo era rafforzare il controllo e la presenza nel mercato italiano. Ora si ritrova alla ricerca di altri investitori finanziari (italiani!) per rilevare una parte della quota dei De Benedetti, visto che non intende prendersi lui tutte le azioni. In tutto questo, cosa stanno facendo i tre caballeros (Marsaglia, Cattaneo, Montezemolo) che avevano avvicinato i De Benedetti con il loro malloppone di liquidità? Rumors milanesi dicono che avrebbero puntato lo sguardo su via Solferino, dove però a presidiare il fortino non c'è solo Urbanetto Cairo, ma anche Banca Intesa…

(ANSA il 14 ottobre 2019) - Il Cdr dell'Espresso - si legge in una nota - prende atto dell'importante novità relativa agli assetti proprietari del Gruppo Gedi, comunicata dall'ingegner Carlo De Benedetti. "Come sempre, il Cdr - continua il comitato di redazione - si impegnerà per salvaguardare l'identità, i valori e il lavoro della redazione dell'Espresso, il settimanale che ha dato origine al Gruppo editoriale. Settimanale che, sin dalla sua fondazione, ha raccontato i grandi avvenimenti sociali e politici dell'Italia, portando avanti battaglie civili fondamentali per il Paese". Per discuterne l'assemblea dei giornalisti dell'Espresso è convocata oggi, lunedì 14 ottobre alle ore 15.

(ANSA il 14 ottobre 2019) - "Mi è piaciuta, mi sembrava una cosa bella che avesse voglia di ritornare a una sua seconda giovinezza, Carlo de Benedetti. Non so tutti i passaggi, quello che è accaduto prima e non voglio entrare in quelle che sono le vicende del gruppo Gedi". Lo ha detto Urbano Cairo, presidente e ad di Rcs, commentando l'offerta di De Benedetti a Cir, a margine della presentazione del Premio Cairo, a Palazzo Reale a Milano. "La considero una mossa romantica, di una persona che ama l'editoria, ama Repubblica e ama i giornali del Gruppo Gedi", ha aggiunto.

(ANSA il 21 ottobre 2019) - "L'attacco a mio fratello Rodolfo e a me" è "un tema per noi doloroso", "sul piano personale": così il presidente del gruppo Gedi, Marco De Benedetti, con una lettera ai dipendenti sottolinea di non voler commentare questo aspetto delle parole del padre Carlo De Benedetti. Commenta invece "i giudizi pronunciati sul gruppo" e sottolinea: "Siamo molto meglio di come veniamo dipinti. Non siamo un gruppo sconquassato, non siamo un gruppo da risanare, non siamo una barca senza timoniere. Siamo un gruppo leader".

(AWE/LaPresse il 21 ottobre 2019) - Nei primi nove mesi dell'anno i ricavi consolidati del gruppo Gedi sono stati pari a 441,5 milioni di euro, in flessione del 6% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Il risultato netto consolidato registra una perdita di 18,3 milioni (-17,3 milioni escludendo gli effetti dell'Ifrs 16) recependo gli effetti della cessione di Persidera (-16,9 milioni) e oneri per ristrutturazioni con impatto sul risultato netto pari a 3,7 milioni. Al netto di tali effetti, segnala la società, il risultato netto consolidato è positivo per 2,2 milioni. I primi nove mesi del 2018 si erano chiusi con un utile netto consolidato di 7,8 milioni.

(ANSA il 21 ottobre 2019) - "Voglio assicurarvi come azionista che teniamo molto a questo gruppo, sul quale ci impegniamo con il senso di responsabilità che abbiamo e sentiamo nei confronti di tutte le nostre attività e con la piena consapevolezza di ciò che esso è, rappresenta, e continuerà a rappresentare per il Paese", scrive in una lettera ai dipendenti il presidente di Gedi, Marco De Benedetti. "Come dimostrato in questi anni - conclude - continueremo con impegno io, mio fratello Rodolfo e Monica Mondardini a svolgere il nostro ruolo di azionisti della società in modo da garantirle il miglior futuro".

DIECI DOMANDE A CARLO DE BENEDETTI. Paolo Madron per lettera43.it il 14 ottobre 2019. Domenica 13 ottobre Carlo De Benedetti ha reso noto con un comunicato rilasciato all’agenzia Ansa (e anticipato da Dagospia) di aver lanciato un’offerta per il 29,9% delle azioni del gruppo Gedi a un prezzo di 0,25 euro, ovvero l’equivalente di quanto quotava in Borsa il titolo alla chiusura di venerdì 11 ottobre. La mossa dell’Ingegnere ha spiazzato tutti. Non solo i figli che pure si stavano interrogando sul futuro del gruppo editoriale di cui Cir, la loro capofila industriale, detiene la quota di controllo, ma anche l’altro socio di peso, diventato tale dopo la fusione con La Stampa, John Elkann, per il quale l’iniziativa di Carlo De Benedetti è suonata come un fulmine a ciel sereno. Per la verità sereno è una parola grossa, visto che da tempo i De Benedetti e John meditavano di incontrarsi per decidere sul futuro di una aggregazione per ora rimasta in gran parte sulla carta. Ma l’irrompere sulla scena dell’Ingegnere ha scompaginato (oppure accelerato, questo lo si vedrà presto) i piani. Tuttavia, fin da subito, l’iniziativa del presidente onorario di Gedi ha suscitato non poche perplessità e domande. Siccome nessuno meglio di lui può rispondere, noi gliene abbiamo formulate 10 che, peccando di immodestia, riassumono un po’ lo sconcerto di tutti coloro che si interessando di editoria. Eccole di seguito.

1 – Carlo De Benedetti dal punto di vista finanziario è uno degli imprenditori più dotati. Pochi come lui sanno leggere al primo sguardo un bilancio e coglierne criticità e punti di forza. Risulta perciò incomprensibile un’offerta come quella da lui avanzata, che non valorizza il titolo e, se mai accettata, costringerebbe Cir a segnare una drastica svalutazione della quota di Gedi in portafoglio (siamo nell’ordine dei 150 milioni). Quindi nel momento in cui l’ha resa pubblica, l’Ing già sapeva che le possibilità che venisse accolta erano pari a zero.

2 – E allora perché l’ha fatto? Chi lo conosce bene propende per la tesi dell’azione dimostrativa. De Benedetti ha voluto lanciare un monito ai figli per dire loro che mai avrebbe consentito l’uscita di Cir dall’editoria, quindi l’addio a Repubblica, il quotidiano la cui storia intreccia per la gran pare la sua di imprenditore. Ma le azioni dimostrative se non danno seguito poi a una vera guerra restano tali. L’Ingegnere si accontenterà dunque di aver fatto esplodere i petardi o andrà oltre?

3 – Armi per procedere, adesso che Cir ha respinto le sue profferte, ne dispone in abbondanza. Come passo successivo potrebbe ritoccare al rialzo l’offerta, ovvero mettere sul piatto ben più di quei 38 milioni di euro che, agli attuali corsi di Borsa, è il valore di quel 29,9% che vuole comprare. Ha intenzione di farlo?

4 – Naturale dunque la domanda, ma anche il dilemma. Alzerà il prezzo mantenendo inalterata la quantità richiesta, oppure si lancerà in un’Opa totalitaria sull’intero capitale? Con il balzo di lunedì 14 ottobre conseguente alle notizie del fine settimana, Gedi capitalizza in Borsa (dove il titolo è stato anche sospeso per eccesso di rialzo) 129 milioni di euro. Teoricamente le risorse dell’Ingegnere gli consentono di spendere anche il triplo. Gli analisti infatti stimano il suo patrimonio personale, quel numerino che fa la gioia delle classifiche dei Paperoni, di poco superiore al miliardo di euro.

5 – Che farà dunque Carlo, che il 14 novembre compirà 85 anni, e che almeno ufficialmente si è da tempo ritirato lasciando, sarebbe meglio dire donando, le sue attività ai figli? Avrà voglia, dopo aver detto e ridetto di volersi godere una vecchiaia serena e da padre nobile, di rigettarsi nella mischia compromettendo così definitivamente il già precario rapporto con i figli?

6 – Domanda col senno di poi. Se, come ha scritto nel comunicato e poi dichiarato senza mezzi termini, ritiene i figli totalmente inadatti a gestire il business editoriale e insensibili al giornaliero profumo della carta che esce dalle rotative, perché ha deciso qualche anno fa di passare loro la mano?

7 – Perché questa mossa adesso? In un suo recente intervento da Lilli Gruber, l’Ingegnere si è detto pienamente soddisfatto della linea imposta da Carlo Verdelli a Repubblica dopo che, a suo dire, Mario Calabresi l’aveva stravolta fino a perdere i contatti con i suoi lettori tradizionali. Non crede che questa iniziativa, comunque vada a finire, crei un clima di destabilizzazione in un momento non facile (come del resto per tutti i giornali) della sua storia editoriale?

8 – In molte conversazioni, anche pubbliche, De Benedetti senior non ha mai mostrato di credere nelle magnifiche sorti e progressive del settore. Per i giornali di Gedi, e lo stesso vale per altri, la prospettiva è quella di una irreversibile contrazione progressiva delle copie e della pubblicità destinata a ripercuotersi negativamente sul conto economico. Scenari maturati in casa fanno presagire che, a meno di interventi drastici sui costi fissi e di riorganizzazione, il gruppo Gedi rischia di perdere una ventina di milioni di euro all’anno. L’Ingegnere non è certo uno cui piaccia scialare i propri soldi, pur avendone tanti. Perché dunque vuole riprendersi un business che dal punto di vista economico sarà tutt’altro che prodigo di soddisfazioni?

9 – Per passione, risponde Carlo, perché quel giornale è consustanziale alla sua storia, perché tuttora gli consente di avere un formidabile strumento di pressione che incute timore negli avversari. Ma davvero è ancora così? Davvero l’Ingegnere crede che il giornale-partito, come teorizzato dal fondatore Eugenio Scalfari e perpetuato poi da Ezio Mauro e adesso in parte da Verdelli, abbia ancora il ruolo e la presa di un tempo?

10 – A che tipo di giornale pensa De Benedetti, ammesso e non concesso che ne riprenda il controllo? Dalle indiscrezioni filtrate, la sua Repubblica prevede l’insediamento di Ezio Mauro alla presidenza di Gedi e la guida operativa affidata all’attuale direttore generale Corrado Corradi. Un ritorno al passato, al di là del valore e la caratura degli uomini, che altri imprenditori giunti alla sua età hanno perseguito convinti di poter rinverdire gli antichi fasti. Lo ha fatto, da ultimo, Luciano Benetton, che ha riproposto il sodalizio con Oliviero Toscani che oltre 30 anni fa portò la Benetton al successo mondiale.

Con risultati, purtroppo, ben lontani dalle ambizioni. Carlo De Benedetti, per come lo conosciamo, è un uomo la cui impulsività, specie ora che gli anni avanzano, è mitigata da un fondo di saggezza e disincanto. Gli diamo un consiglio, non richiesto. Non si lanci in battaglie sanguinose che possono compromettere gli affetti. Faccia tesoro, anche se può far male ammetterlo, di quell’aforisma di Nietzsche: «Non si torna mai dove si è stati felici». Vale sempre. Anche in amore. Quello per i giornali, naturalmente.

Da liberoquotidiano.it il 15 ottobre 2019. Interviene il cdr di Repubblica. Intervento dovuto, considerato ciò che sta accadendo, con il tentativo di Carlo De Benedetti di riacquisire il controllo di Gedi, con l'offerta rispedita al mittente dai suoi stessi figli e velenoso codazzo polemico. Ecco dunque il comunicato del comitato di redazione, dal titolo: "Il futuro di Repubblica e gli impegni dell'editore". Comunicato in cui, in modo piuttosto esplicito, la redazione di Repubblica invoca il cambio di proprietà. Magari proprio a favore di CdB. Ma non è tutto. Perché il comunicato è anche un clamoroso siluro contro l'ex direttore, Mario Calabresi. Si legge infatti: "Negli ultimi otto mesi, forte anche di una nuova Direzione (quella di Carlo Verdelli, ndr) che ha saputo riportare il giornale dove merita di stare, consolidandone l'identità politica e culturale e ristabilendo una connessione sentimentale con quanti, quotidianamente, ci scelgono in edicola e online, Repubblica ha registrato - per la prima volta dopo otto anni di flessione - un incremento nelle vendite". Chissà come fischiano le orecchie a Calabresi...

IL COMUNICATO INTEGRALE: L’Assemblea dei giornalisti di Repubblica - convocata a seguito dell’offerta di acquisto formalizzata dall’ing. Carlo De Benedetti e il successivo scambio di comunicati con il gruppo Cir - ritiene che in questo ennesimo delicato passaggio della vita del giornale sia necessario riaffermare con forza alcuni principi. Con una premessa indispensabile, che è valsa fino ad oggi e varrà per il futuro. Repubblica non è e mai potrà essere considerata come una qualsiasi azienda, oggetto di trattativa fra imprenditori che se la contendono sul mercato, bensì è un soggetto politico culturale ed editoriale fra i più rilevanti del Paese: dunque appartiene non solo a chi ne ha la proprietà azionaria, ma pure alla comunità dei suoi lettori e alla sua Redazione, da sempre garante dell’integrità e della libertà dell’informazione prodotta ogni giorno su tutte le piattaforme. Negli ultimi otto mesi, forte anche di una nuova Direzione che ha saputo riportare il giornale dove merita di stare, consolidandone l’identità politica e culturale e ristabilendo una connessione sentimentale con quanti, quotidianamente, ci scelgono in edicola e online, Repubblica ha registrato - per la prima volta dopo otto anni di flessione - un incremento nelle vendite. Ottenuto dalla Redazione a prezzo di un grande sforzo umano ed economico: a fronte di 41 colleghi usciti mediante incentivi, la Redazione ha lavorato e lavora con stipendi decurtati in virtù di un contratto di solidarietà che impone pure notevoli sacrifici professionali. E tutto per offrire a Repubblica una prospettiva sostenibile. Questo sforzo rischia tuttavia di essere vanificato da una guerra tra azionisti - passati, presenti ed eventuali - che mette seriamente a repentaglio il futuro del nostro giornale. Al quale serve un editore convinto di voler affrontare questa sfida, una missione chiara e un piano di sviluppo concreto che abbia l’obiettivo di accrescere i ricavi e non solo di tagliare i costi. Una richiesta di cui l’editore, anche alla luce degli ultimi accadimenti, ha ora il dovere di farsi carico. Pertanto, l’Assemblea dei giornalisti di Repubblica ritiene insufficiente la garanzia, contenuta nella nota con cui Cir rifiuta l’offerta dell’ing. De Benedetti, di volersi impegnare per “assicurare prospettive di lungo termine” alla controllata Gedi. E pretende che, in relazione alla vendita al miglior offerente implicitamente confermata dal comunicato di Cir, si chiariscano una volta per tutte le reali intenzioni degli azionisti. Lo merita Repubblica. La sua storia, la sua Redazione, i suoi lettori.

Marco Palombi per “il Fatto quotidiano” il 15 ottobre 2019. Chissà se anche stavolta Carlo De Benedetti si è detto almeno tra sé, prima di iniziare questa guerricciola familiare attorno al corpo debilitato del quotidiano La Repubblica e del resto del gruppo Gedi, il suo celebre "sono venuto a suonare la fine della ricreazione". Va detto che l' altra volta, era il 1988, non gli andò benissimo: la scalata alla Sociéte générale de Belgique fallì clamorosamente divenendo il suo "errore più grosso e penoso", almeno "dal punto di vista patrimoniale". E penoso lo fu davvero visto che, anni dopo, si portò dietro la fine ingloriosa della Olivetti dell' Ingegnere, azienda comprata vent' anni prima, quando posava da imprenditore illuminato invece che da speculatore principe nello stagno d' Italia. È la stessa Olivetti - sia detto en passant - per la quale finì nell' inchiesta Tangentopoli per aver pagato mazzette pur di ottenere un appalto da Poste Italiane. La ricreazione è davvero finita, comunque, tanto più che l' ambizione dionisiaca della scalata al colosso belga si ripete oggi nella farsa dell' offerta sottocosto ai figli per l' azienda editoriale: 39 milioni scarsi per prendersi il 29,9% delle azioni in mano alla Cir (il 45% in tutto), la holding lasciata ai pargoli anni fa, imponendole - in caso di risposta positiva - una perdita a bilancio da centinaia di milioni. Si misura anche così la distanza tra un' alba e un tramonto, quando una storia finanziaria importante e controversa in cui uguale parte hanno avuto la disinvoltura nel rapporto con le regole e il coraggio ("ma è sicuro che sia un buon consigliere quando si rischiano, oltre ai propri, i soldi degli altri?", gli scrisse Enrico Cuccia) finisce nell' ennesimo battibecco a mezzo stampa del capitalismo familiare italiano. C' è l' epopea dei Caprotti e di Esselunga; c' è l' insabbiatissima vicenda della denuncia di Margherita Agnelli a sua madre Marella per una storiaccia legata all' eredità dell' Avvocato; ci sono le difficili storie di successione, pur vissute con discrezione, di Silvio Berlusconi e Leonardo Del Vecchio e adesso ci sono anche i De Benedetti nell' album delle belle famiglie amorevoli dell' imprenditoria italiana. "Sono profondamente amareggiato e sconcertato dall' iniziativa non sollecitata, né concordata presa da mio padre", ha dichiarato domenica alle agenzie il primogenito Rodolfo. "Trovo bizzarre le dichiarazioni di mio figlio - ha replicato l' interessato - È la stessa persona che ha trattato la vendita del Gruppo Espresso a Cattaneo e Marsaglia. La gestione sua e di suo fratello Marco hanno determinato il crollo del valore dell' azienda e la mancanza di qualsiasi prospettiva, concentrandosi esclusivamente sulla ricerca di un compratore visto che non hanno né competenza, né passione per fare gli editori". L' opinione del patriarca sulle capacità imprenditoriale del frutto dei suoi lombi, oggi espresse sull' Ansa, non sono nemmeno del tutto una novità. Quando Sorgenia si ritrovò in pessime acque, sepolta sotto 2 miliardi di euro di debiti, il papà faceva sapere in giro che era stato il primogenito a spingere Cir a investire in quel modo nell' energia: la holding ne uscì comunque con pochi danni, scaricando l' onere sulle banche creditrici (compresa Mps che ci rimise 600 milioni). Nello stesso periodo De Benedetti, che rifiutava di mettere 150 milioni in Sorgenia, ne incassava 344 di risarcimento da Silvio Berlusconi per la sentenza comprata del lodo Mondadori. E se non è una novità la sfiducia nei figli, non lo è nemmeno che il nostro - pur avendo negli ultimi dieci anni lasciato agli eredi prima le cariche e poi le quote della società di famiglia - esprima critiche feroci sulla loro gestione delle attività editoriali del gruppo. All' inizio del 2018, per dire, andò in tv a dire che la Repubblica di Mario Calabresi era, in sostanza, senza sapore: "Un giornale non è solo latte e miele; è carne, è sangue. Può avere curve, ma deve avere anche spigoli". Peggio andò a Eugenio Scalfari, con cui si era scambiato qualche stilettata pubblica in quei giorni: "Un signore molto anziano che non è più in grado di sostenere domande e risposte. Gli ho dato un pacco di miliardi, è un ingrato". Rispose, e proprio su Repubblica, il secondogenito Marco, a cui il patriarca aveva ceduto sei mesi prima la carica di presidente dell' editoriale Gedi poco dopo la fusione tra gruppo Espresso, La Stampa (famiglia Agnelli) e Secolo XIX (Perrone): "Parole sbagliate. Confesso che le polemiche di questi giorni mi risultano tuttora incomprensibili. Non voglio pensare che ci abbia danneggiato in modo deliberato". Per rafforzare il concetto a De Benedetti senior, che ancora oggi è presidente onorario di Gedi, fu tolto l' ufficio in Largo Fochetti. Domenica, come detto, il nuovo "incomprensibile" capitolo con l' offerta sottocosto. "Se vuole rilanciare Repubblica non lo so, di sicuro vuol fare un buon affare", ha detto all' Adnkronos l' ex direttore dell' Espresso Giovanni Valentini. Chissà, forse è solo l' epoca delle passioni tristi o il demone dell' ambizione e del senso di sé che non smette d' agitarsi nonostante il conto in banca e quello degli anni. Che dire della vicenda della plusvalenza da 600mila euro sulle banche popolari realizzata a gennaio 2015 grazie a una soffiata di Matteo Renzi sull' imminente decreto di riforma? Alla Consob, che sospetta si tratti di insider trading, dirà: ma che volete che m' importi di un investimento di 6 milioni di euro su un totale di 620 milioni. Non gli importava, eppure la telefonata al broker per comprare azioni la fece. Certo, un tempo entrava e usciva con singolare capacità di guadagno e tempismo dal Banco Ambrosiano quasi decotto e oggi cincischia col piazzista di Rignano e tenta di incravattare i figli per tornare a giocare coi giornali: il sole è basso in entrambi i casi, ma un tramonto non è l' alba.

Antonella Olivieri - ilsole24ore.com il 16 ottobre 2019. Carlo De Benedetti considera plausibile l’ipotesi di un’offerta per la testata La Repubblica per trasferirla sotto una fondazione “modello Guardian”, un modello in cui con le donazioni si sostiene la libera informazione in un momento in cui è strutturalmente difficile far quadrare i conti, svincolandola dalle costrizioni economiche. Gli indizi li ha forniti lo stesso ingegnere che, in un’intervista al «Corriere della Sera», ha parlato di un’operazione in due tempi. Fase uno: «raddrizzare la gestione dell’azienda» e «riprendere a investire pesantemente in un settore in cui Repubblica per anni ha eccelso, il digitale».  Fase due: «portare le azioni a una fondazione, cui parteciperanno rappresentanti dei giornalisti, dirigenti del gruppo, personalità della cultura», con «l’obiettivo di assicurare un futuro di indipendenza a un pezzo di storia italiana». La fase uno, però, è legata all’offerta irrevocabile recapitata a Cir, titolare del 43,78% di Gedi, per una quota del 29,99% a un prezzo di 25 centesimi per azione. Offerta che è da considerare superata nella forma e nella sostanza. Nella sostanza, perché il prezzo è già scappato. Dopo l’exploit di lunedì il titolo in Borsa ha ritracciato, ma è rimasto abbondantemente sopra il prezzo offerto da Romed, chiudendo in calo dell’1,88% a 0,2875 euro. Nella forma, perché Cir l’ha dichiarata «irricevibile» già domenica e, a quanto risulta, i consiglieri della holding - che sono stati informati - sono allineati sulla stessa posizione. Così, è da considerare scontato che mercoledì 30, due giorni dopo la riunione del cda Cir già in calendario per la trimestrale, l’offerta non sarà più valida. Carlo De Benedetti potrebbe accontentarsi di avere sollevato quello che a suo giudizio è un problema, anche se a costo di una lacerazione in piazza della famiglia. Oppure dirottare la cifra messa sul piatto per il 29,99% di Gedi - una quarantina di milioni - verso un’offerta per la testata che evidentemente gli sta più a cuore. Utopia? Può darsi. Qualche ostacolo pratico ci sarebbe. Mentre non trova riscontri, né dall’azienda né dall’azionariato, la volontà di riseparare La Stampa con le testate locali del gruppo dall’area Repubblica-L’Espresso, dal punto di vista della rappresentazione contabile esiste già una divisione “stampa nazionale” che comprende «l'attività di produzione, realizzazione e commercializzazione dei prodotti editoriali e digitali relativi alla testata La Repubblica (quotidiano nazionale, 9 edizioni locali e i supplementi settimanali Affari&Finanza, Il Venerdì e D) e alle testate periodiche L'Espresso, National Geographic, Limes, Micromega e le Guide de L'Espresso», come spiega il bilancio.

Cosa c’è dietro l’affaire De Benedetti. Riccardo Ruggeri, 17 ottobre 2019 su Nicola Porro.it. I giornali raccontano lo scontro fra Carlo De Benedetti e i figli Rodolfo, Marco, Edoardo (questi è medico in un ospedale svizzero, dove vive) come una saga familiare condizionata dai quattrini, con reciproci “colpi sotto cintura”. Non credo a questa versione. Conosco Carlo De Benedetti dalla metà degli anni Settanta, conosco l’affetto che lega il padre ai figli e viceversa. Con Carlo ho lavorato insieme nei mitici 100 giorni in Fiat, lo considero un grande manager e un grandissimo deal maker (sull’uomo non mi esprimo: non lo conosco, non avendolo mai frequentato). Non sempre i ruoli di manager e deal maker sono presenti a livelli altissimi nella stessa persona. Insieme a suo padre Rodolfo e al fratello Franco hanno ampliato l’azienda di famiglia (Flexider) contornandola, per acquisizioni successive, di altre aziende di media stazza, fino a farne una mini holding che poi cedettero a Fiat. Qua i loro destini personali si separarono. Lo storia manageriale dell’ingegner Carlo, come lo chiamavano i suoi più stretti collaboratori (a Torino i Re si chiamavano per nome) è fatta di grandissimi successi e di alcune drammatiche, costose, scivolate. Non escludo che nell’editoria, grande amore della sua vita, il rigore manageriale in questi ultimi tempi possa essere stato attutito da una componente romantica, una specie di “Io non ci sto!”. A inizio anno, prima di lanciare il Protocollo Zafferano feci, a titolo personale, uno studio approfondito, il secondo dopo uno del 2016, sulla crisi dei giornali. Mi ero innamorato di questa attività e la vedevo progressivamente degradare. Osservavo come il management del settore facesse l’opposto di quello che si doveva fare, ma esattamente quello che facevano tutti: un ottuso taglio dei costi senza uno straccio di respiro strategico. Cioè licenziare le persone partendo dal basso, anziché dall’alto, abbattere i costi in modo lineare anziché verticale. Un risanatore non è un ottuso tagliatore di teste e di costi ma uno che cambia il paradigma strategico dell’azienda e i comportamenti organizzativi dei singoli. Tutti invece, al cadere dei volumi, quindi dei ricavi, abbattevano i costi in modo lineare, o facevano operazioni di outsourcing, giochetti di fusioni, infine continui cambi di direttori e di CEO alla ricerca di un Mandrake che non esisteva. Risultati? Nulli, anzi più facevi tagli di persone e di costi più questi erano insufficienti. Poi passavi all’autoriduzione dei compensi (sic!), al part time, al restyling del giornale, infine l’ultima spiaggia, il Paywall. Intanto, la perdita dei lettori era costante e progressiva, in modo diverso valeva per tutti i 5-6 big del settore. Nel 2016, visto che non me la chiedeva nessuno, pubblicai un’autointervista. Usai una metafora ispirata alla strategia di rinnovamento in corso della flotta militare Usa. “De Benedetti ha abbandonato la vecchia corazzata Repubblica, creando una portaerei di ultima generazione fatta di Repubblica-Stampa-Secolo. Urbano Cairo ha scelto di non seguirlo, si sarà detto: meglio una nave potente ma agile come un incrociatore di classe Zumwalt. Per gli altri vecchi incrociatori il problema era galleggiare alla meno peggio”. Mi chiedevo allora: c’è lo spazio per un sommergibile di ultima generazione (classe Virginia). Chi avrà il coraggio di puntarci e completare una vera “bipolarità” di quest’epoca strategicamente bastarda? Di certo un mercato potenziale, grezzo ma numeroso, c’è: sommate indecisi, non votanti, parti dei cinquestelle, della Lega e troverete un popolo che ha capito la strategia dell’Establishment: impoverire la classe media, sedare quella povera, resettare i “vecchi”. Un popolo che non ci sta (lettori persi per i big). Quindi non una grande nave di superficie, ma un sommergibile “corsaro”. Qua bastano un comandante con la benda sull’occhio sinistro, una sporca dozzina mixata fra vecchi giornalisti anarchici (pagati poco o nulla) e giovani virgulti (pagati in visibilità, quindi più del mercato).  In questo senso la mossa di Carlo De Benedetti è romantica, può darsi che finisca in una bolla di sapone, ma una sua ratio sentimentale ce l’ha, eccome. Perché il giornale è un essere vivente, è lo specchio dei lettori, se lo riempi di fake truth diventa un pezzo di carta da avvolgerci i carciofi. Suggerirei agli altri editori di non sottovalutare questa mossa. Lui ha capito che con le modalità classiche, nessuno è capace di adeguare il BEP (punto di pareggio) alla inarrestabile caduta dei lettori, i quali lettori, tutti gravitanti nel mondo dell’establishment allargato, presto si chiederanno se avranno ancora un futuro come maggiordomi di una Corte che comincia a sbrindellarsi. Lo storia insegna che quando si frantuma lo zoccolo duro della Corte, cadono i Re. A sei mesi dalla sua enunciazione come caso di scuola (non applicabile tal quale nell’operatività) il Protocollo Zafferano è lì, a disposizione di chi vuole studiarlo. Riccardo Ruggeri, 17 ottobre 2019

Fabio Pavesi per il “Fatto quotidiano” il 17 ottobre 2019. Non si può scrutare Gedi senza alzare lo sguardo verso l'alto, verso la controllante Cir. È ai piani alti che si capisce la sostanza della violenta e inusitata querelle familiare che vede opposti il patriarca Carlo De Benedetti e i figli Rodolfo e Marco. Entrambi i duellanti sanno perfettamente che per Cir esiste una soglia limite che è stata sfondata pesantemente al ribasso ormai da quasi 5 anni, dalla primavera del 2015 quando il titolo Gedi (l'ex Espresso) lasciò per sempre quota 1,23 euro, senza riacciuffarla. Ma cosa rappresenta? È il valore per azione di carico della partecipazione di Gedi nella holding di famiglia, la Cir appunto, che ne detiene oggi il 43,7%. Per Cir, ancora alla fine del 2018, il gruppo editoriale continua a prezzare 1,23 euro per azione, per un valore della quota di ben 273 milioni. Ma la realtà dovrebbe riportare la famiglia con i piedi per terra. Gedi, che prima dell' offerta di Carlo De Benedetti valeva solo 25 centesimi, dovrebbe fare un balzo avanti in Borsa di quasi il 400 per cento per ridare vita a quella quota che oggi, stando al verdetto della Borsa, vale sul mercato poco più di 55 milioni. Lo scatto in avanti dopo il coup de théâtre dell' Ingegnere di qualche giorno fa (ovvero l'offerta d' acquisto, rifiutata, del 29,9 per cento di Gedi dai figli) non colma e non potrà mai colmare il fossato abissale. Cir, di cui Carlo Del Benedetti è presidente onorario con Rodolfo presidente, ha sul gobbone ormai da troppi anni una minusvalenza potenziale che supera i 200 milioni e non sarà mai colmabile del tutto, né con un rilancio di Gedi, come sostiene l' ingegner De Benedetti, né con una vendita come da tempo cercano di fare i figli. Il nervosismo in famiglia, tale da rendersi pubblico in forme così esplicite, si spiega solo così. Ma Gedi come Cir sono di fatto in un cul de sac, in un angolo. Da un lato, tenerla vorrebbe dire non affrontare il tema della svalutazione nella casa madre e contare su un recupero che l'andamento sempre meno redditizio dei conti non fa intravedere. Dall' altro, però, vendere significherebbe smettere di puntare su un business calante con la consapevolezza però che nessuno arriverà mai a offrire quei soldi. Un premio per il controllo, infatti, in genere è del 30% sui prezzi di Borsa. Fosse anche il 50%, non si andrebbe oltre i 37 centesimi, la cifra che avevano in mente Cattaneo e Marsaglia prima che tutto naufragasse, non si sa se per volontà dei compratori o per diniego dei fratelli De Benedetti. Vendere, inoltre, vuol dire anche far emergere il buco nascosto nei conti e ferire la Cir. Perciò tutto sembra senza via d' uscita. Tra l'altro, tutto avviene nel momento congiunturale più difficile per Gedi. Nel 2017 c'è stata la prima perdita da 123 milioni (dovuta, a dir il vero, all'onere da 140 milioni della conclusione della lunghissima lite fiscale del '91); nel 2018 la seconda perdita, questa sì legata solo al business, per 32 milioni. Soprattutto, per il mercato conta la caduta sia dei ricavi sia, più grave, della marginalità del gruppo. Il fatturato del semestre 2019 è sotto del 6 per cento sui dodici mesi, a quota 302 milioni; il margine lordo è precipitato a 13 milioni dai 22 milioni di un anno prima e vale poco meno del 5% dei ricavi. L'utile operativo è sceso a 4,3 milioni da 12,6 dei primi sei mesi del 2018. E questo pur con l'incorporazione - a metà del 2017 - de La Stampa e del Secolo XIX . Nel 2018 il fatturato è sì aumentato ma i costi di più, tanto che è calata la redditività. E adesso anche i ricavi cominciano a flettere nonostante l'operazione di fusione. Ed è proprio la corazzata di casa, con l'Espresso a trascinare al ribasso la profittabilità del gruppo. Nel 2018 il margine lordo della divisione Repubblica è diventato negativo per 7 milioni su 253 milioni di fatturato. Si perdono soldi già a livello operativo. Un tracollo che neanche i gioielli della Corona, le radio, riescono a compensare: qui la marginalità arriva al 30 per cento dei ricavi, ma il fatturato pesa solo per il 10 per cento del totale del gruppo. Altra divisione che mantiene buoni numeri è quella dei giornali locali, affiancati ora proprio dalle due testate storiche del Nord-Ovest. Fanno 250 milioni di ricavi, come Repubblica e l' Espresso, ma hanno un Mol, un margine operativo lordo, al 10 per cento. Vista così, la soluzione più logica sarebbe scorporare in una bad company l'ex regina simbolica del gruppo, proprio La Repubblica con L'Espresso, così che la parte buona (radio e testate locali) possa valorizzarsi. Ma impossibile a farsi. Troppo alto il valore simbolico di Repubblica per privarsene. Ma così Gedi continuerà nel suo lento declino, con buona pace di De Benedetti il cui piano proposto è quello di far confluire Repubblica sotto una fondazione, a cui parteciperebbero "rappresentanti dei giornalisti, dirigenti del gruppo, personalità della cultura che sostenga la libera informazione" ha detto al Corriere.

Claudio Plazzotta per Italia Oggi il 17 ottobre 2019. Prima investire pesantemente nel digitale. E poi, in un secondo tempo, «portare le mie azioni, convincendo gli altri azionisti a fare altrettanto, in una Fondazione. Una Fondazione cui parteciperanno rappresentanti dei giornalisti, dirigenti del gruppo, personalità della cultura. L' obiettivo è assicurare un futuro di indipendenza a un pezzo di storia italiana». Questi i piani di Carlo De Benedetti per Gedi e La Repubblica, dopo aver comunicato la sua intenzione di voler rilevare il 29,9% del gruppo editoriale. Il bello è che quando ci sono giornali che scricchiolano, ecco arrivare la parola magica: fondazione. È stata fatta, di recente, anche nell' immaginarsi un futuro per la tedesca Bild o il francese Le Monde. Anche se, come ampiamente raccontato ieri da ItaliaOggi, ci sono sostanzialmente solo due casi editoriali importanti, in Europa, con una storia sufficientemente lunga a base di fondazioni: l' inglese The Guardian e la tedesca Faz. Poiché si è letto che il modello che ispirerebbe De Benedetti per le prossime stagioni di Repubblica è proprio quello del Guardian, gestito dallo Scott Trust limited, meglio sgomberare subito il campo dai dubbi: The Guardian chiude il suo bilancio con perdite operative da 20 anni consecutivi. Considerando solo gli ultimi sette esercizi, da quello chiuso nell' aprile 2013 a quello chiuso il 31 marzo 2019, il Guardian ha accumulato perdite operative per 383,2 milioni di sterline (444 milioni di euro), con investimenti miliardari che non hanno comunque fatto esplodere i ricavi: erano 210 milioni di sterline (243,2 mln di euro) nel 2014, sono arrivati a 224,5 milioni di sterline (260 milioni di euro) nel 2019. Certo, il 2019 è stato l' esercizio con la perdita operativa più bassa (solo, si fa per dire, 16,6 milioni di sterline) e le prospettive sembrano buone, con la speranza di un imminente pareggio. Ma lo sforzo che il trust lanciato nel 1936 dalla famiglia Scott (commercianti in cotone originari di Manchester) ha dovuto sopportare finora è stato altissimo. L' Ingegner De Benedetti, che a novembre compirà 85 anni, ha la voglia e i mezzi per farlo? Il Guardian, tanto per dare due numeri, ha chiuso il 2013 con perdite operative di 53,7 milioni di sterline su 196,8 mln di ricavi; nel 2014 ecco 48,3 milioni di sterline di perdite operative su 210,2 mln di ricavi; nel 2015 si arriva a 48,2 mln di sterline di rosso su 217,5 mln di ricavi; e il 2016 è l' anno orribile, con 100,4 milioni di perdite operative su 209,5 mln di ricavi (perdite pari alla metà dei ricavi, pazzesco). Ancora, 62,5 milioni di perdite operative nel 2017 e 53,5 milioni nel 2018. Un vero disastro, insomma. Perciò, la formula della fondazione non mette al riparo dalla crisi. Bisogna inoltre ricordare che la nascita di Gedi, con la fusione tra Repubblica, Stampa e Secolo XIX, non deriva solo da logiche industriali. Ma è stata, diciamo così, molto appoggiata da quel sistema di interessi finanziari e politici che comunque non possono lasciare i quotidiani italiani più influenti nelle mani di chiunque. Vale per Repubblica, dove il socio di maggioranza è Cir ma il garante, con poco meno del 6%, è la Exor di John Elkann, e vale per Il Corriere della Sera, dove l' editore è Urbano Cairo, ma la rete di garanzie resta molto forte. Se Carlo De Benedetti avesse 20 anni di meno, il mercato potrebbe anche vedere con favore il passaggio di una società editoriale a un imprenditore appassionato come l' Ingegnere. Così come è stato quando Rcs è stata scalata da Cairo, che in poco tempo ha raddrizzato i conti della casa editrice gestita invece direttamente per troppo tempo dal cosiddetto sistema. Ma la fumosa governance di una fondazione, ai cui vertici dovrebbe poi salire un bravo giornalista ma senza competenze manageriali come Ezio Mauro, lascia interdetti in molti. Tanto che nel mercato si fa strada da più parti l' ipotesi che, in caso di ulteriori rilanci da parte dell' Ingegnere, possa entrare in campo l' altro Ingegnere, John Elkann, che con la sua Exor potrebbe lanciare una opa totalitaria su tutta Gedi. Comunque, ci sono anche esempi virtuosi di fondazioni che gestiscono un quotidiano. È il caso della Frankfurter Allgemeine Zeitung, uno dei più autorevoli quotidiani tedeschi: appartiene a una fondazione ed è diretto da tre direttori (in passato addirittura da cinque) che si spartiscono i settori di competenza. Diffonde poco più di 200 mila copie al giorno, con ricavi attorno ai 250 milioni di euro e un risultato netto positivo. Nel 2014, a seguito di un rosso di 2 milioni di euro, aveva deciso un drastico taglio del personale per complessive 200 unità, di cui 40 giornalisti su un totale di 400. Che poi, a dirla tutta, se proprio uno volesse fare una speculazione su Gedi dovrebbe puntare tutto sulla radio. Il comparto radiofonico del gruppo (Deejay, Capital ed m2o), infatti, è in assoluto quello più redditizio tra tutte le attività in cui è impegnata la casa editrice ex Editoriale Espresso. Tanto per dare due numeri, nel 2018 il polo radiofonico di Gedi ha chiuso con ricavi pari a 62 milioni di euro (+5% sul 2017) e un risultato operativo positivo per 15,8 milioni di euro (ovvero, un margine del 25,4% sui ricavi). Nel 2017 l'area radio aveva complessivamente incassato 59 milioni di euro, per un risultato operativo pari a 15,5 milioni: un rapporto del 26,2%. E sempre l' area radio, nel 2017, aveva distribuito all' azionista Gedi dividendi per 11,2 milioni di euro, manna dal cielo per un consolidato Gedi 2017 con un risultato ante imposte totale positivo per appena 19 milioni di euro complessivi. Le radio di Gedi, quindi, assicurano performance assolutamente brillanti, e di gran lunga migliori della business unit Stampa nazionale (quella di Repubblica e delle testate periodiche), con ricavi 2018 per 253,8 milioni (-8,1% sul 2017) e un risultato operativo in rosso per 43,6 milioni. E pure della business unit News network (con La Stampa, Il Secolo XIX e le altre testate locali), che su 254,1 milioni di euro di fatturato ha prodotto un risultato operativo pari a 13,5 milioni (appena il 5,3% di marginalità). Le tendenze sono confermate anche nei primi sei mesi del 2019: il fatturato del comparto radio di Gedi è salito dello 0,4% a 32 milioni di euro, con un risultato operativo positivo pari a sette milioni (una marginalità di quasi il 22%), a fronte invece di una divisione Stampa nazionale (quella di Repubblica) con ricavi in calo del 5,8% a 116,5 milioni e un risultato operativo in rosso per 7,7 milioni di euro. Scende nettamente pure il fatturato dell' area News (Stampa, Secolo XIX e quotidiani locali), a 116,9 milioni di euro (-8,6% rispetto ai primi sei mesi del 2018), con un risultato operativo positivo per 5,8 milioni (e una marginalità, quindi, sotto il 5%). Insomma, il vero gioiellino del gruppo Gedi è la controllata Elemedia, che dal novembre 2017 è completamente dedicata alle attività dei brand radiofonici del gruppo (comprese quelle dei marchi sui social e sul web), avendo trasferito tutte le altre attività digitali di Gedi, e 125 dipendenti su 243, nella nuova società Gedi digital. Senza dimenticare che nel perimetro di Gedi c' è anche il business di Radio Italia (partecipata al 10%), la cui pubblicità, pari a circa 30 milioni di euro, è raccolta dalla concessionaria Manzoni controllata da Gedi. Sull'ipotesi dello spezzatino del gruppo, ieri il titolo Gedi ha chiuso in Borsa a quota 0,306 euro, in rialzo del 6,43%.

La lunga parabola del giornale-partito. Dalla solidarietà nazionale a De Benedetti. Francesco Damato il 23 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Ogni giornale che entra in crisi, o l’aggrava, o chiude e scompare dalle edicole, che già diminuiscono per effetto delle difficoltà dell’intero settore editoriale, è una perdita per la libertà. Anche se il figlio Marco in una lettera agli azionisti della sua Gedit ne ha appena voluto rivendicare leadership coprendo il 20 per cento del mercato editoriale, la serietà della crisi della Repubblica di carta fondata nel 1976 da Eugenio Scalfari è rimasta scolpita nello scontro improvviso e durissimo fra Carlo De Benedetti e i suoi discendenti. Che, a cominciare dal primogenito Rodolfo, sono stati accusati dall’anziano ma ancora vitalissimo genitore di scarsa o nessuna passione e competenza nella gestione dell’azienda editoriale a loro ceduta negli anni scorsi. Non è stato il primo, e credo che non sarà neppure l’ultimo scontro tra genitori e figli nel mondo imprenditoriale. E merita – a mio avviso- tutto il rispetto dovuto a simili vicende, senza sguazzare nello sciacallaggio, come purtroppo ho visto fare in questa occasione da qualche giornale interessato a trarne vantaggio per cercare di risalire dalle posizioni attuali, pensando di avere occupato o di potere occupare le posizioni politiche ed editoriali che Repubblica avrebbe lasciato o, peggio ancora, tradito. Non faccio nomi, né di testate né di direttori, per carità professionale, diciamo così. Ogni giornale che entra in crisi, o l’aggrava, o chiude e scompare dalle edicole, che già diminuiscono per effetto delle difficoltà dell’intero settore editoriale, è una perdita per la libertà d’informazione e di opinione cui tutti dovremmo tenere, a prescindere dalla tutela garantita dalla Costituzione. E che recentemente, per esempio con l’attacco a Radio Radicale, ho visto minacciata persino da un governo, fortunatamente caduto almeno sotto questo profilo. Sarebbe tuttavia un errore liquidare la crisi di Repubblica – come ho avvertito tra le righe della stessa sofferenza, o insofferenza, di Carlo De Benedetti in precedenti sortite televisive, e persino nel documento diffuso dalla redazione del giornale giustamente preoccupata della sua sorte e desiderosa di rassicurazioni- al direttore che ha avuto la sventura, prima ancora della responsabilità, di avere ereditato o di avere mantenuto durante tutta o una parte della sua avventura perdite più o meno consistenti di copie. Non ho mai avuto il piacere di conoscere, e tanto meno di lavorare, con Mario Calabresi, ma trovo ingeneroso il trattamento riservatogli nel brusco licenziamento da lui stesso raccontato con una franchezza neppure tanto recriminatoria che gli fa onore. La Repubblica, come altre testate analoghe, paga gli effetti di un certo modo di fare e di creare i giornali, e di gestirli conseguentemente. I giornali non possono fare e tanto meno sostituirsi ai partiti senza condannarsi all’effimero o alla instabilità della politica, specie ora che sono cadute, o si ritiene che siano cadute le ideologie, e i partiti proliferano come funghi dopo la pioggia. Eugenio Scalfari – non se ne vorrà se lo ricordo – fondò il suo quotidiano nel 1976 anche o soprattutto per reazione alla nascita, due anni prima, del Giornale fondato da Indro Montanelli contro la deriva di sinistra che egli av- vertì nel Corriere della Sera con il passaggio della direzione da Giovanni Spadolini a Piero Ottone. Ho lavorato a lungo dall’esordio al Giornale, e non da semplice cronista. So bene, quindi, di che cosa sto scrivendo. Uscimmo per contrastare i progetti d’alleanza politica, e persino d’intese parziali o eccezionali, fra la Dc e il Pci come antipasto del “compromesso storico” teorizzato da Enrico Berlinguer nel 1973 per evitare – egli scrisse- alternative di sinistra alla maniera del Cile, dove il potere finì nelle mani dei generali e nel sangue. In occasione delle campagne elettorali segnalavamo ai lettori i partiti per cui votare e, al loro interno, essendoci le preferenze, i candidati più affidabili. Montanelli ruppe col suo amico di lunga data Ugo La Malfa, dandogli del matto e rifiutandogli la mia testa, che il leader repubblicano aveva chiesto per un articolo in cui avevo raccontato di un suo incontro con alcuni corrispondenti di giornali stranieri da Roma, per avere considerato “inevitabile”, ed anche utile, un momentaneo accordo con i comunisti. Che fu poi realizzato nel 1976 con la formula della “solidarietà nazionale” e l’appoggio dei comunisti ad un governo monocolore democristiano affidato astutamente all’uomo dello scudo crociato forse più lontano dal Pci, che era Giulio Andreotti. E che non si sentì molto a disagio, diciamo così, nel ruolo affidatogli in particolare da Aldo Moro, il presidente della Dc che sembrava destinato a diventare due anni dopo capo dello Stato, alla scadenza del mandato di Giovanni Leone. E vi sarebbe sicuramente riuscito se non fosse stato nel frattempo sequestrato, fra il sangue della sua scorta sgominata in via Fani il 16 marzo 1978, e infine ucciso pure lui, dopo 55 giorni di drammatica prigionia. Fu proprio nel 1976, alla vigilia o in vista della stagione della “solidarietà nazionale”, che Scalfari fece uscire la sua Repubblica, sostenendo la linea opposta a quella del Giornale, e rischiando la chiusura, fra il dispiacere – ve lo assicuro – di Montanelli, sino a quando non intervenne a salvarlo come editore proprio Carlo De Benedetti. Che dopo molti anni avrebbe avuto il cattivo gusto di rinfacciare a Scalfari la “pacchettata” di soldi versatigli per diventare appunto il suo editore. Nello scontro avuto adesso con i figli, lasciandosi intervistare da Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera, l’ormai ex editore deciso a riprendersi in qualche modo la sua creatura per evitare che i figli la vendano, secondo lui, a chi ne farebbe un cattivo uso, ha orgogliosamente detto che «tante cose sono avvenute su Repubblica, e tante sono avvenute a causa di Repubblica». E’ vero. Non è possibile dargli torto. Decisivo, per esempio, ancor più del Giornale di Montanelli, dove ad un certo punto dovetti andarmene in ferie per non condividerne la linea, fu l’apporto di Repubblica alla “fermezza” imposta al governo e alla Dc dal Pci di Berlinguer, ma anche dal Pri di La Malfa, alla gestione del sequestro Moro. Altrettanto decisivo, e infine condizionante anche per il Giornale di Montanelli, dal quale proprio per questo ce ne andammo nel 1983 Enzo Bettiza e io, fu l’anticraxismo di Repubblica. Che sin dall’arrivo del segretario socialista a Palazzo Chigi ne anticipò o auspicò la crisi un giorno sì e l’altro pure, sino a quando il segretario della Dc Ciriaco De Mita non si decise ad accontentarla sfrattandolo nel 1987 per andare alle elezioni anticipate. I giornali- partito o di Palazzo, come preferite, hanno finito così per svuotare e infine uccidere, assorbendone lettori e personale, specie per quanto riguardava Repubblica, dotata di maggiori mezzi ed anche – perché negarlo? – di maggiore fantasia e capacità gestionale, i giornali di partito che facevano il loro onesto e trasparente lavoro: dall’Avanti all’Unità, dal Popolo alla Giustizia, dalla Voce Repubblicana a Liberazione. Ma ciò, con l’aiuto della maggiore enfasi e penetrazione elettronica e quant’altro, era destinato, come si è visto proprio con la clamorosa ammissione di De Benedetti nello scontro con i figli, a non portare fortuna ai giornali. E neppure ai partiti, visto come sono ridotti anche loro, ancor peggio dei giornali che spesso cercano di pilotarli. Per cui può accadere, per esempio, a Davide Casaleggio – in curiosa coincidenza con le voci o notizie che gli attribuiscono resistenze o scetticismo sull’alleanza col Pd- di ritrovarsi oggetto di un’inchiesta giornalistica da “fuoco amico”, condotta da un giornale non certo ostile ai grillini, sui reali o potenziali “conflitti d’interesse” derivanti da consulenze per “centinaia di migliaia di euro” fornite a “lobby del tabacco, delle scommesse e dei trasporti” usualmente o geneticamente “contestati” dal Movimento delle 5 Stelle.

·         Il Consiglio disciplina campano archivia Luigi Di Maio.

Incredibile ma vero! Il Consiglio disciplina campano archivia Luigi Di Maio. Dopo assoluzione della Raggi aveva dato degli "sciacalli" ai cronisti, scrive il 30 Gennaio 2019 Il Corriere del Giorno. La motivazione, a nostro parere vergognosa ed inaccettabile per la tutela della nostra professione: “Si è espresso come parlamentare e non in quanto giornalista”. Come non vergognarsi di questa decisione adottata in ginocchio dinnanzi all’arroganza del potere politico espressa dall’ attuale Governo? Il Consiglio di Disciplina Territoriale dell’Ordine dei Giornalisti della Campania ha deliberato l’archiviazione del procedimento nei confronti di Luigi Di Maio, aperto dopo le sue dichiarazioni in seguito all’assoluzione della sindaca di Roma Virginia Raggi: “La sua condotta è riconducibile non al giornalista iscritto all’albo dei pubblicisti, ma al suo ruolo di parlamentare così come evidenziato dall’avvocato Maurizio Lojacono che lo ha rappresentato”. In poche parole il Consiglio di disciplina campano si è genuflesso ed ha accolto la tesi del legale di Di Maio, ritenendo quindi di non essere competente ad esprimersi. L’istruttoria era stata avviata a novembre, dopo il clamore e le proteste suscitate dalle dichiarazioni del vicepremier dopo l’assoluzione di Virginia Raggi: “Il peggio in questa vicenda – aveva dichiarato Di Maio – lo hanno dato la stragrande maggioranza di quelli che si autodefiniscono ancora giornalisti, ma che sono solo degli infimi sciacalli, corrotti intellettualmente e moralmente”. Da qui il deferimento al Consiglio di disciplina per Di Maio, iscritto come pubblicista all’Ordine della Campania. Nelle scorse settimane era stato convocato dal Consiglio lo stesso Di Maio che, impegnato all’estero, aveva inviato una memoria tramite il suo legale. “Le parole usate da Di Maio – ha affermato l’avvocato Maurizio Lojacono – non erano rivolte a tutta la categoria dei giornalisti ma a coloro che fanno un uso politico della cassa di risonanza offerta dalla stampa. Comunque si esprimeva nel suo ruolo di uomo politico, non di giornalista”. La decisione del collegio disciplina territoriale della Campania, crea un vergognoso precedente nel nostro ordinamento professionale. Ad un qualsiasi iscritto all’ Ordine basta quindi essere eletto in parlamento per poter definire ed appellare pubblicamente “infimi sciacalli, corrotti intellettualmente e moralmente” la nostra categoria. Come non vergognarsi di questa decisione adottata in ginocchio dinnanzi all’arroganza del potere politico espressa dall’ attuale Governo?

·         I comunisti contro Maria Giovanna Maglie.

Maria Giovanna Maglie: “Togliamo alle élite il monopolio della cultura”. Il Giornale Off il 07/08/2019. Poco tempo fa qui su OFF abbiamo riportato le dichiarazioni di Giampaolo Rossi, consigliere Rai,secondo cui in Rai mancherebbero le voci controcorrente. Citava ad esempioMaria Giovanna Maglie. Già, ce la ricordiamo tutti Maria Giovanna Maglie, quando scriveva i suoi articoli affilati sul quotidiano Il Foglio o quando era ospite di quella trasmissione, “Otto e mezzo”, condotta da Giuliano Ferrara e. Gad Lerner. La sua, quella della Maglie, è una delle voci “dissonanti”, una delle tante che non mancano a ridosso del mainstream dominante. E proprio a proposito di mainstream la Maglie, in un’intervista di Maurizio Caversan su La Verità, riportata da Dagospia, ha detto che chi non è mainstream può esprimere l’ esigenza del tempo. (Redazione). […] 

Pierluigi Diaco ti vuole arruolare per Io e te, Pietrangelo Buttafuoco per il remake teatrale di Thalasso, il film francese con Gerard Depardieu e Michel Houellebecq. Stai diventando mainstream?

"Neanche per sogno. A volte anche chi non è mainstream può essere usato come foglia di fico. Altre volte, ed è ciò che mi auguro, può esprimere l’ esigenza del tempo".

Sei la Houllebecq italiana?

"Magari, lo adoro. Infatti, ho deciso di scrivere un libro houellbecquiano sull’ Italia. L’ unica differenza sarà che, mentre lui è pessimista sulla Francia, io sono speranzosa per il nostro Paese".

Su Dagospia hai scritto di un’egemonia che permea tv, premi letterari, scuola e università. Chi sono i «conduttori isterici con quelli che non la pensano come loro»?

"I Floris, i Formigli, le Gruber. Li vedo troppo convinti dalla giustezza assoluta delle loro idee e troppo infastiditi da quelle degli altri. Gruber minaccia di spegnere il microfono, altri lo fanno direttamente. Ma se sei un bravo conduttore gestisci il dibattito senza censurare. Nei talk mi trovo spesso una contro due, contro tre, anche contro quattro".

Cosa succede nei premi letterari?

"Se si guarda da chi sono composte le giurie si capisce perché vengono selezionati solo libri di un certo tipo. Anche quest’ anno che ha vinto il premio Strega un libro come M – Il figlio del secolo, il suo autore ha dovuto e voluto alzare il pugno chiuso per sottolineare la sua appartenenza. Non so che cosa ci voglia per sconfiggere la cappa che domina in questo Paese".

Che anche la destra studi e impari a confrontarsi con la complessità?

"A destra gli intellettuali ci sono sempre stati. Purtroppo dietro c’ era il nulla. Idem a sinistra. Gli intellettuali sono élite, sia di qua che di là. Per questo sono fissata con la scuola e l’ università. E anche con la tv, che però è un mezzo. È lì che si costruisce il futuro e si sconfiggono le ideologie. Ma in una comunicazione fatta di spot, selfie e blog è tutto più difficile. Bisogna togliere alle élite il monopolio della cultura"".

Maurizio Caverzan per “la Verità” il 6 agosto 2019. Lucida, controcorrente, reazionaria. In una parola, divisiva. In un recente post su Dagospia, Maria Giovanna Maglie si è autodefinita «tetragona salviniana, ah se lo sono». Outing perfetto per diventare bersaglio dei commentatori politically correct. Avvezza alle polemiche fin dai tempi della corrispondenza da New York per il Tg2 di Alberto La Volpe, figuratevi se si scompone. Spesso ospite di Stasera Italia su Rete 4, su La7 all' Aria che tira e da settembre a Non è l' Arena, stenta a farsi largo in Rai. Ma nemmeno questo la deprime. Da qualche settimana ha inaugurato su Facebook e Instagram una diretta bisettimanale all' ora di pranzo intitolata Maglie strette - «dal titolo di una rubrica che mi ha concesso Roberto D' Agostino, al quale devo la mia rinascita» - che ha 200.000 visualizzazioni.

Pierluigi Diaco ti vuole arruolare per Io e te, Pietrangelo Buttafuoco per il remake teatrale di Thalasso, il film francese con Gerard Depardieu e Michel Houellebecq. Stai diventando mainstream?

«Neanche per sogno. A volte anche chi non è mainstream può essere usato come foglia di fico. Altre volte, ed è ciò che mi auguro, può esprimere l' esigenza del tempo».

Sei la Houllebecq italiana?

«Magari, lo adoro. Infatti, ho deciso di scrivere un libro houellbecquiano sull'Italia. L' unica differenza sarà che, mentre lui è pessimista sulla Francia, io sono speranzosa per il nostro Paese».

Ci arriviamo. Il complesso di superiorità è il più clamoroso autogol della sinistra?

«Per tanti anni è stato un gol che ha consentito l' affermarsi di un' egemonia, smantellare la quale è impresa titanica. Oggi questa presunta superiorità si è trasformata in un autogol. Gli italiani si stanno svegliando da un' anestesia culturale che durava dall' immediato dopoguerra».

Matteo Salvini cresce nei consensi perché la sinistra si crede superiore?

«Salvini incarna lo spirito del tempo. Certe asprezze sono necessarie per superare le incrostazioni consolidate nel nostro modo di pensare».

La corsa del figlio sulla moto d' acqua della Polizia non gli ha giovato.

«Anche lui ha ammesso che è stata una scivolata sul piano dell' etichetta. Ma è un fatto talmente infimo che mi dispiace parlarne. Oggi tutti riprendono tutto. Anziché cercare d' impedirlo, gli uomini della scorta avrebbero potuto far fare un giro ad altri due ragazzini come avviene spesso sulle motoslitte in montagna e tutto sarebbe finito. Alla gente è chiaro che Salvini va al Papete di Milano Marittima e non in un resort di lusso nell' atollo delle Maldive. È qui la differenza».

«Zingaraccia» se lo poteva risparmiare?

«Un epiteto può scappare quando qualcuno dice che ti meriti una pallottola in testa. A Pigi Battista che su Twitter ha postato "Zingaraccia dillo a tua sorella" ho risposto: "Perché, sua sorella va in giro facendo minacce di morte?". Ciò detto, i campi rom vanno sgombrati».

Non c' è una gestione troppo naif del ruolo?

«Il linguaggio della politica è cambiato. Brad Parscale, consigliere per la comunicazione di Donald Trump, e Luca Morisi, responsabile della comunicazione di Salvini, hanno capito che l' unico modo per rivitalizzare il rapporto esausto della popolazione con la politica è usare un linguaggio diretto».

Rispondendo in Parlamento sul Russiagate avrebbe dimostrato di rispettare le istituzioni?

«Se vuoi innovare devi cambiare certe regole conformiste. Perché presentarsi a parlare del nulla? Perché è di nulla stiamo parlando: al massimo di un' amicizia inadeguata con una persona che non aveva alcun incarico pubblico né di governo e di un evento verificatosi in un luogo improbabile e con persone improbabili, prive di soldi e di ruoli. A volte i nodi vanno recisi».

Non è troppo insistere sulla Flat tax senza coperture mettendosi in rotta di collisione con l' Europa?

«Questo governo sta in piedi per la finanziaria. Purtroppo non è abbastanza acclarato che se cadesse si dovrebbe andare a votare. Dopo l' elezione della commissaria europea Ursula Von der Leyen con i voti di Pd, Forza Italia e M5s, una cosa che in Italia si chiamerebbe inciucio, e il concorso di una certa ingenuità degli eurodeputati leghisti, è difficile non andare allo scontro. Sono convinta che non si possano non fare la Flat tax e altre misure che, però, né i 5 stelle, né il Capo dello Stato, né il ministro dell' Economia vogliono».

Intanto Sandro Gozi, ex sottosegretario di Renzi e Gentiloni, lavora per il governo francese.

«Concordo con Giorgia Meloni che ha chiesto che gli venga tolta la cittadinanza italiana. Quando dovremo descrivere cosa significa comportarsi da antitaliani sapremo che esempio portare».

Su Dagospia hai scritto di un' egemonia che permea tv, premi letterari, scuola e università. Chi sono i «conduttori isterici con quelli che non la pensano come loro»?

«I Floris, i Formigli, le Gruber. Li vedo troppo convinti dalla giustezza assoluta delle loro idee e troppo infastiditi da quelle degli altri. Gruber minaccia di spegnere il microfono, altri lo fanno direttamente. Ma se sei un bravo conduttore gestisci il dibattito senza censurare. Nei talk mi trovo spesso una contro due, contro tre, anche contro quattro».

In Rai ti si vede poco.

«Appunto. In Rai c'è stato un gran casino per Fabio Fazio che ha semplicemente traslocato di canale. Il suo programma del lunedì lo farà Franco Di Mare, area Pd storica oggi 5 stelle. Massimo Giletti è rimasto a La7, per la mia striscia è successo un pandemonio e Rai3 è sempre uguale. Tolto l' esperimento surreale e piacevole di Carlo Freccero, dove sarebbe la Rai leghista di cui si legge continuamente? La Rai è irriformabile e irredimibile».

Questa cultura domina anche il mondo dello spettacolo: Laura Pausini, Nek e Ornella Vanoni sono stati stigmatizzati perché hanno voluto rompere il silenzio sul caso Bibbiano.

«Se vuoi stare nel mondo dello spettacolo, dell' arte e della cultura o sei di sinistra o sei niente. Questo schema è così consolidato che non ci sono remore nell' attaccare chi dissente. Bibbiano è una vicenda che fa venire i brividi. Dal punto di vista dell' informazione credo che il tentativo di silenziarlo sia un' autoattribuzione di responsabilità. Imponendo il silenzio dichiaro di essere colpevole o complice».

Il comportamento della maestra che augurò la morte ai rappresentanti delle forze dell' ordine, quello della professoressa che ha consentito il paragone tra leggi razziali e decreto Sicurezza bis e quello di colei che ha postato «Uno di meno» dopo l' assassinio del carabiniere a Roma mostrano la cultura che pervade scuola e università?

«Questi episodi rivelano un mondo sommerso. L' insegnante di Novara un anno fa voleva impedire a un agente in divisa di fare la spesa al supermercato. Sulla scuola io vorrei che i genitori esercitassero molta più attenzione su ciò che viene insegnato ai loro figli. Il sessantottismo ha sostituito l' istruzione con l' ideologia. L' unico modo di cambiare questa situazione è il controllo dal basso. Ma per renderlo efficace bisogna scardinare la famosa anestesia».

Cosa succede nei premi letterari?

«Se si guarda da chi sono composte le giurie si capisce perché vengono selezionati solo libri di un certo tipo. Anche quest' anno che ha vinto il premio Strega un libro come M - Il figlio del secolo, il suo autore ha dovuto e voluto alzare il pugno chiuso per sottolineare la sua appartenenza. Non so che cosa ci voglia per sconfiggere la cappa che domina in questo Paese».

Che anche la destra studi e impari a confrontarsi con la complessità?

«A destra gli intellettuali ci sono sempre stati. Purtroppo dietro c' era il nulla. Idem a sinistra. Gli intellettuali sono élite, sia di qua che di là. Per questo sono fissata con la scuola e l' università. E anche con la tv, che però è un mezzo. È lì che si costruisce il futuro e si sconfiggono le ideologie. Ma in una comunicazione fatta di spot, selfie e blog è tutto più difficile. Bisogna togliere alle élite il monopolio della cultura».

Sul Corriere della Sera Antonio Polito ha descritto la strategia del Tts, tutti tranne Salvini. Come in passato ci furono il tutti tranne Berlusconi e tutti tranne Renzi: poteri forti e opposizioni si coalizzano contro l' uomo forte. Su cosa si basa il tuo ottimismo sull' Italia?

«È un' analisi acuta, ma basata sui corsi e ricorsi. Per me sono tutte situazioni diverse tra loro. Soprattutto è diverso il popolo italiano. Nel 1993 la caduta della Prima repubblica è stata possibile in un clima di disillusione degli italiani, disposti a credere che Craxi si era portato la fontana del Castello sforzesco ad Hammamet. Il crollo del Muro di Berlino ha aperto la strada alla magistratura e Berlusconi è stato troppi anni al governo senza fare le riforme. Nel 2011 ci fu il golpe dello spread con un ruolo tutt' altro che secondario del Quirinale, come hanno confermato i libri dell' ex premier spagnolo José Luis Zapatero e dell' ex ministro del Tesoro americano Timothy Geithner. Quanto a Renzi, mai stato un leader del popolo, da premier non eletto, è riuscito a buttare a mare un consenso del 40% con un referendum che solo lui e i suoi uomini chiusi nei palazzi non hanno capito quanto fosse demenziale».

Giancarlo Giorgetti ha invitato i ministri gialloblù a tenere in ufficio la sua foto come ammonimento.

«Esatto. Ma Salvini ha preso la vecchia Lega al 4% e, inserendo belle teste che pensano avanti, l' ha portata al 17% dell' anno scorso e a ciò che avrà alle prossime elezioni. Rispetto al Tts tante variabili vanno considerate. Per esempio, la capacità di Salvini di usare insieme i social, la tv e la presenza sul territorio».

La tua speranza è motivata dal fatto che Salvini sa mixare questi tre elementi?

«Dal fatto che c' è un leader che ha il coraggio di esporsi con il proprio corpo. Che qualcuno torna a parlare di patria davanti a un' invasione lenta e progressiva. Che con Trump e Boris Johnson la situazione è modificata a livello mondiale, mentre l' asse Parigi-Berlino si sta indebolendo».

Rai, l'Usigrai denuncia: "Maglie non iscritta a ordine giornalisti da tre anni". Il sindacato critica la scelta di affidare alla giornalista la striscia informativa dopo il Tg1 che fu di Enzo Biagi, scrive l1 febbraio 2019 La Repubblica. "Maria Giovanna Maglie, alla quale qualcuno in #Rai vuole affidare la striscia informativa in prima serata che fu di Enzo Biagi, non risulta iscritta all'Ordine dei #Giornalisti. Non risulta più iscritta da circa 3 anni". Lo scrive su Twitter il segretario dell'Usigrai, Vittorio Di Trapani, criticando la scelta della direttrice di Rai1 Teresa De Santis di affidare alla giornalista 67enne veneziana, ma romana di adozione, uno spazio informativo serale di sette minuti dal lunedì al venerdì, dopo il Tg1, per dare voce al credo sovranista. Giovane comunista vicina a Giancarlo Pajetta, Maglie si è poi convertita al craxismo e in seguito al berlusconismo, scrivendo sul Giornale e collaborando con Dagospia. La svolta sovranista risale a dopo il '93. La sua passione resta la politica estera, ed è stata la prima a tifare per Donald Trump e ad augurarsi la sua vittoria.

Incarichi Rai, bufera sulla “striscia” di Maglie. M5s pronto fermarla: "No ai raccomandati". Ma la Lega la difende. È polemica nella maggioranza gialloverde sulla scelta di affidare la striscia informativa dopo il Tg1 che fu di Enzo Biagi alla giornalista di tendenze sovraniste. Usigrai: "Non è più iscritta all'ordine". Lei reagisce: "Fuoco preventivo per far saltare la mia conduzione". I parlamentari di Forza Italia chiedono il rispetto della par condicio, scrivono Annalisa Cuzzocrea e Monica Rubino l'1 febbraio 2019 su La Repubblica. Tutto comincia con un tweet. Che fa crescere la polemica contro la giornalista di tendenze sovraniste Maria Giovanna Maglie, a cui Rai1 ha proposto la conduzione di una striscia informativa serale. E contro la quale si scaglia il M5s, intenzionato a fermarne la corsa in nome di una tv pubblica "libera" dai raccomandati. Mentre la Lega la difende, trasformando la contesa nell'ennesimo scontro interno alla maggioranza gialloverde. "Maria Giovanna Maglie, alla quale qualcuno in #Rai vuole affidare la striscia informativa in prima serata che fu di Enzo Biagi, non risulta iscritta all'Ordine dei #Giornalisti. Non risulta più iscritta da circa 3 anni", scrive su Twitter il segretario dell'Usigrai, Vittorio Di Trapani, criticando appunto la scelta della direttrice di Rai1 Teresa De Santis di affidare alla giornalista 67enne veneziana, ma romana di adozione, uno spazio informativo serale di sette minuti dal lunedì al venerdì, dopo il Tg1, per dare voce al credo sovranista (Maglie non ha ancora firmato il contratto). Sulla scia del tweet e puntando sul fatto che la giornalista non risulta iscritta all'ordine, i cinquestelle alimentano la polemica e lavorano per stoppare l'approdo di Maglie in Rai, convinti di poter riuscire anche a far capitolare la Lega. E lo fanno ricordando e pubblicando sulla pagina Facebook del M5s le parole di una sua intervista del 1991, in cui ammetteva di essere stata "aiutata" da Bettino Craxi ad entrare nella tv pubblica. "No ai raccomandati in Rai", dicono nel Movimento, Maglie non è un profilo "adeguato" per il servizio pubblico dove "serve meritocrazia". E si appellano allo stesso ad di viale Mazzini Fabrizio Salini, invitandolo a "valutare bene questa decisione". L'idea all'esame dei pentastellati è quella di formalizzare in una lettera all'ad la richiesta di fermare Maglie. In merito la deputata del M5s e componente della Commissione di Vigilanza Rai Carmen Di Lauro scrive un tweet, poi rilanciato da molti altri esponenti del Movimento: "#EnzoBiagi fu un esempio unico di serietà e sobrietà. La Rai adesso pensa di affidare il suo spazio a Maria Giovanna #Maglie che proprio sobria non è stata, tanto da guadagnarsi il nomignolo di 'Lady nota spese'". Ma la Lega difende la giornalista: "Queste 'interessanti' polemiche confermano che la scelta di un professionista vero, intelligente e a tratti vulcanico, è assolutamente azzeccata per confezionare un prodotto indipendente, nuovo e destinato a creare dibattito", commenta Massimiliano Capitanio, segretario leghista della commissione di Vigilanza Rai. "Da giornalista difendo l'ordine e tutti i suoi satelliti, ma vorrei e che l'attenzione fosse rivolta a ben altri casi dove il tesserino è stato brutalmente e velocemente svenduto a logiche commerciali", conclude. E Igor Iezzi, deputato leghista anche lui in commissione Vigilanza, aggiunge: "È una giornalista di cui ho una ottima opinione, non riesco a capire il motivo per non darle la trasmissione. Non vorrei cadessimo nella censura delle idee". Anche la risposta di Maglie non tarda ad arrivare: "Il fatto di non essere iscritta all'Ordine dei giornalisti da tre anni non riesce proprio a sembrarmi un problema. Dall'84 a tre anni fa non mi pare che facessi parte dell'ordine dei pasticcieri. Mi sono semplicemente dimenticata di pagare la mia quota", commenta con l'agenzia Agi il tweet di Di Trapani. "Adesso -  chiarisce - telefonerò alla segreteria dell'Ordine per capire come stanno effettivamente le cose. L'iscrizione annuale era un'operazione burocratica di cui si occupava mio padre, che ora non c'è più. Ovviamente pagherò il dovuto e mi metterò in regola". Secondo Maglie i comunicati e i tweet contro di lei fanno parte di "un fuoco preventivo teso a far saltare la mia conduzione della striscia". E sull'Usigrai che nel suo comunicato ha parlato "delle circostanze con cui la Maglie concluse la sua esperienza precedente in Rai" precisa che tutto è stato archiviato e che "di questo passo, potrò portarli in tribunale e comprarmi una casetta alle Eolie". Più tardi aggiunge: "Mi tengo fuori da una polemica politica che ritengo non riguardi la mia persona, ma si limiti a utilizzarmi. Se però come persona vengo insultata e calunniata, mi rivarrò nelle sedi opportune".

Rai, dal Pci a Trump: così Maria Giovanna Maglie è diventata il volto dei sovranisti, scrive Goffredo De Marchis l'1 febbraio 2019 su La Repubblica. Giovane comunista vicina a Giancarlo Pajetta, Maglie si è poi convertita al craxismo e in seguito al berlusconismo, scrivendo sul Giornale e collaborando con Dagospia. La svolta sovranista risale a dopo il '93. La sua passione resta la politica estera, ed è stata la prima a tifare per Donald Trump e ad augurarsi la sua vittoria. Secondo indiscrezioni, se Maglie diventerà il nuovo volto serale della rete, avrebbe comunque in mente di prendere a modello non il monologo di 'Qui Radio Londra' di Giuliano Ferrara, conduttore nel 2011 dell'ultima striscia post Tg1, ma lo schema di 'Batti e ribatti' di Pierluigi Battista del 2004, dove il giornalista si riservava un monologo di due minuti per poi procedere a un'intervista nei seguenti tre. Intanto i parlamentari di Forza Italia della commissione Vigilanza Rai inviano una lettera al presidente Alberto Barachini per chiedere il rispetto della par condicio. "L'applicazione della par condicio è una regola aurea - scrivono - che, come dimostrato dai dati dell'osservatorio di Pavia e dell'Agcom relativi al pluralismo politico/istituzionale in televisione, soprattutto negli ultimi mesi viene sistematicamente violata (in particolare a discapito di Forza Italia) nei programmi di comunicazione politica e programmi di informazione, tra i quali rientrano i telegiornali, in onda sulle reti Rai". Gli azzurri pertanto reclamano "con estrema necessità ed urgenza un'audizione del presidente e dell'amministratore delegato del Cda della Rai al fine di intervenire tempestivamente ed assicurare un maggior rispetto del pluralismo televisivo".

Uno scontro fra Titanic con sullo sfondo il sovranismo senza limitismo, scrive Luca Bottura il 2 febbraio 2019 su La Repubblica. I Cinque Stelle che tuonano contro le raccomandazioni in Rai sono come Hannibal Lecter che apre un ristorante vegano, come i Pooh in concorso allo Zecchino D’Oro, come il Pd che ottiene un risultato concreto. D’altro canto, Maria Giovanna Maglie al posto che fu di Enzo Biagi è come mettere Povia al posto di Leonard Cohen, il Bologna al posto della Juve, Tony Nelli al posto di chiunque.

Uno scontro tra Titanic. Ciononostante, la patente occupazione ideologica, il sovranismo senza limitismo, il colpo di teatro sguaiato eppure spettacolare, sono senz’altro preferibili all’ipocrisia di chi, da quando è entrato nella scatoletta di tonno, se l’è mangiata a quattro palmenti e ora cerca di indicare anche gli uscieri delle Camere, purché iscritti al Movimento.

Quindi, que viva Maglie. E poco importa fosse la vestale di Bettino Craxi. Poco importa che rasenti l’autorevolezza di un annuncio pubblicitario di Poltron&Sofà, quelli le cui promozioni finiscono sempre la domenica alle 22. Appena ne parte un’altra uguale. E poco importa che, al confronto, il Giuliano Ferrara berlusconiano – stessa ora, stessa rete – fosse un adorabile gattone moderato.

Meglio lei. Trumpista fino alla morte (di Trump). Salvinista più di Salvini. Ex comunista come un po’ tutti. Trump escluso, Salvini compreso. La migliore risposta allo strapotere di Striscia: satira pura, senza neanche dover scrivere battute. Basterà avere ospiti come la sottosegretaria Laura Castelli, che ieri sul Corriere ha chiesto all’opposizione di riferire in Parlamento sulla recessione. Sì: il Governo che chiede all’opposizione di riferire. Siamo nel metafisico. A Biagi, l’allora direttore Del Noce fece seguire le comiche di Max e Tux. Stavolta niente Max, solo Dux. Funzionerà.

Anzi: perché fermarsi qui? Gli anni Ottanta rappresentano un formidabile serbatoio di idee da cui pescare ritorni altrettanto roboanti: Sandra Milo potrebbe riprendersi “Piccoli Fans”, ovviamente del Capitone. Alda D’Eusanio è all’Isola, ma nulla vieta di riportarla a “La vita in diretta” per inserire un po’ di fiction nel programma. Mentre all’opposizione si potrebbe riservare il clamoroso rientro di Gianfranco Funari e del suo format gentista di maggior successo: “Aboccaperta”. Come? Funari è (purtroppo) trapassato? Perché, l’opposizione invece?

Maglie, la craxiana sovranista che sfida la palude Rai…Cresciuta a l’Unità, fu “sedotta” dal leader dei socialisti. Intelligente e preparatissima, non le perdonano il fatto di essere donna, scrive Paola Sacchi il 2 Febbraio 2019 su "Il Dubbio".  L’hanno persino accusata su Twitter di avere più di sessant’anni. Età Imperdonabile in un’Italia regredita a “Italietta” anche su un certo razzismo trasversale dell’età. Che in politica è diventato rottamazione. Tanto più se si è donne. Per cercare di bocciare la sua “Striscia” dopo il Tg1, l’hanno messa anche a confronto con Enzo Biagi, il “mostro sacro”, ma anche con Giuliano Ferrara, per i quali evidentemente l’età non conta. A Maria Giovanna Maglie, professionista coi fiocchi, non viene davvero risparmiato niente. Ma soprattutto non le viene “perdonata” la sua amicizia con Bettino Craxi. «Chi tocca i fili muore…», diceva lo statista socialista dall’esilio di Hammamet, dove lei continuava a recarsi. Vicina a lui nella buona e nella cattiva sorte. Eppure anche Ferrara era amico personale di Craxi, eppure anche lui con Bettino al potere ebbe grande spazio in TV, eppure anche lui è un ex comunista e anche doc, con un’infanzia trascorsa in Urss con padre corrispondente dell’Unità e madre segretaria particolare di Palmiro Togliatti. Anche Maria Giovanna viene dall’Unità, organo del Pci, comunque uno la pensi scuola di giornalismo che ha sfornato fior di colleghi in tutti i giornali di sinistra e di destra. Il “Corriere della sera del popolo”, per Togliatti. Maria Giovanna a differenza di Ferrara viene da una famiglia medio alto borghese. Alla quale evidentemente non piacque in epoche un po’ bacchettone così tanto che un futuro avvocato, medico, professore universitario, o semplicemente signora bene diventasse comunista e, per giunta anche “femmina”, diventasse giornalista, inviato internazionale. In quegli anni il Psi di De Martino era un satellite del Pci, Craxi non era ancora Craxi. E il Pci con il suo grande giornale da oltre un milione di copie seppe attrarre giovani e donne, soprattutto borghesi. Conquistò la “casa matta”. Ma Maglie, come tanti in quel giornale, la libertà l’aveva nel suo Dna dalla nascita borghese. È stata sempre un bastian contrario anche nei modi e non solo a L’Unita ma anche in Rai e nei giornali di centrodestra dove ha lavorato. Dove una certa intelligenza autonoma e un carattere assai tosto, vero, distante abissalmente dall’ipocrisia, l’ha portata più volte a sbattere la porta. Cosa che lei fece anche in un certo mondo di yes man berlusconiani. Certo, Maglie sa esser tanto abile e diplomatica quando si tratta di “acciuffare” qualche big personaggio da intervistare, quanto tranchant, senza mezze misure, quando non si sente rispettata per le sue idee. Forse una vena di “autoritarismo” le è rimasta dal padre alto in grado nella Polizia e il lato invece più elastico e diplomatico, fino ad essere davvero divertente con le sue battute e la sua ironica risata, l’ha evidentemente presa dalla madre, alto borghese, ancora oggi bellissima donna che non si siede a tavola senza una giacca di Chanel. A L’Unita Maria Giovanna lavorava all’esclusiva sezione Esteri, nell’open space, a Roma, di Via dei Taurini, vicino a quella federazione romana del Pci che ci considerava (c’era anche chi scrive), il palazzo degli appestati. Perché quel giornale era un’élite intellettuale all’avanguardia. Le sezioni di lavoro più esclusive erano Esteri, Economia, Politica interna. Non volava una mosca. Ma quando arrivava Maglie tutti scoppiavano in una risata. Con le sue giacche Rocco Barocco e bluse Blumarine, con la sua borsa piena di carte (perché studiava anche di notte come una pazza, era forse quella che parlava più lingue) di fronte a quei volti seriosi provocava: «Aho ma che v’è morto il gatto!». Una volta al potente caporedattore centrale Carlo Ricchini, uno dai modi più flessibili, che la redarguì, con garbo perché si stava ritoccando il make- up con gli immancabili pennelloni e fard sparsi sulla scrivania, rispose secca, continuando a spennellarsi: «Caro, tanto a te non gioverebbe». Ricchini non poté fare a meno di farsi una risata. Volevano mandare “l’eretica” a fare la corrispondente da Cuba, per meritocrazia, dopo anche le sue splendide e coraggiose corrispondenze dal Cile di Pinochet. Ma la ragion “comunista” prevalse. Eppure Nuccio Ciconte “comunistissimo” al confronto di Maglie ma anche lui gran professionista tentò di opporsi: «Che fate? Guardate che Maglie al di là di come la pensa e pur nel suo netto dissenso diventerà in un attimo ben introdotta sul piano professionale da Castro. Sai quanti scoop e interviste…». Finì che Maria Giovanna a un certo punto decise da sola a tavolino tra sé e sé che voleva conoscere Bettino Craxi, che una parte pur minoritarissima del Pci in segreto e non troppo ammirava. Dire che lei lo volle conoscere per “sistemarsi” in Rai sarebbe una lettura riduttiva e un po’ misera che non rende giustizia al travaglio intellettuale in generale di un ex Pci che dovette ammettere: aveva ragione Bettino, non noi. Confesso che anche la sottoscritta, che da ex Pci ammirava Craxi e che poi lo conobbe in esilio, godendo del privilegio dell’amicizia sua e della sua famiglia, concluse drasticamente che dopo il crollo del Muro un’epoca fosse finita e che era il caso di stare con Craxi. E questo anche prima. Anche a costo di mettersi contro tutta l’ideologia catto- comunista da “superiorismo morale” potente anche ora. Maria Giovanna paga questo essenzialmente. Non c’è scampo ancora evidentemente in questo Paese per il “traditore”. Aver preferito Craxi e poi il Cav e ora per Maglie anche “il diavolo” Salvini è cosa che non si “perdona” a un ex Pci. Tanto più se è donna, sopra ai 60 è grande giornalista, inviata internazionale. Che per prima previde la vittoria di Trump. Come è scritto nel suo libro “Real Donald Trump”, raccolta di scritti per Dagospia, che solo la piccola casa editrice di Monica Macchioni (MaleEdizioni) volle pubblicare. Perché tutti lo avevano e lo avrebbero rifiutato.

Tommaso Labate per il ''Corriere della Sera'' l'1 febbraio 2019. «Tutto ‘sto casino, tutto questo rumore. Io ancora non ho firmato nulla, non ho alcun contratto davanti, diciamo che decido entro lunedì… Da una parte tutto questo mi stupisce, mi lascia basita. Dall’altra mi dico che non posso incutere tutta questa paura, tutto questo terrore… Queste sono ancora le stimmate craxiane, le stimmate che mi porto addosso per aver abbandonato trent’anni fa il Pci per i socialisti…». Sulle stimmate craxiane torneremo a breve. Prima l’antefatto. A mezzogiorno e tre minuti primi, mentre mezzo mondo parla di lei e del suo imminente incarico alla conduzione della striscia serale post-Tg1, Maria Giovanna Maglie si materializza in carne e ossa nel centro di Roma, nella piazza del Pantheon. Va di corsa, trafelata. «Scopro ora che non risulto iscritta all’Ordine dei giornalisti. Vuoi sapere perché? È un problema di quote, me le pagava sempre mio papà, era una questione d’affetto tra me e lui… Stiano tranquilli, mi metterò in regola. E poi, mi scusi, se c’è una cosa che non sopporto è la scorrettezza dei colleghi. Mi creda, non sono mai stata scorretta nei confronti di alcun collega. Perché tutti devono esserlo sempre con me?». Al perché, secondo la Maglie, ci si arriva con la cronaca («Non è che colpiscono me per colpire qualcun altro?», e qui è impossibile non pensare a Matteo Salvini, il politico che considera più vicino). O con la storia, e qui si torna dritti alle stimmate craxiane. «Da ragazza mi ero iscritta al Pci perché a quell’epoca o ti drogavi o facevi la terrorista o ti iscrivevi al Pci. Io, da buona ragazza borghese, ho scelto la terza. Poi, col tempo, sono entrata in crisi. Seguendo la politica internazionale, capii che non potevo più rimanere coi comunisti. Mi presi un anno sabbatico alla fine del quale, grazie a Margherita Boniver, conosco Craxi». La storia è nota ma non nei dettagli. Craxi che chiede alla Maglie di cosa si occupa, lei che risponde di America Latina. Craxi che chiede alla Maglie che cosa sta facendo, la Maglie risponde «sono a spasso». «Ti aiuto io a entrare in Rai. Serve una come te», conclude il leader socialista. E la Maglie si ritrova al Tg2. «Un telegiornale meraviglioso, che faceva concorrenza al Tg1. Finisco a “coprire” la guerra del Golfo perché tutti gli altri stavano in vacanza… Ecco, quelle stimmate di allora, il prezzo per aver abbandonato i comunisti per Craxi, le pago ancora oggi». A chi le fa notare la vicenda delle esosissime note spese dall’America che hanno sancito la sua uscita dalla Rai nel ’94, Maglie reagisce segnalando «che prima di parlare chiunque dovrebbe andare a rivedere quello che successe. Non ho mai falsificato alcuna nota spese, l’inchiesta era stata archiviata. Ma vabbe’, ero l’ingranaggio più piccolo di un sistema che era stato distrutto e che doveva essere annientato. Ma lo sa che penso almeno cinque minuti al giorno a quei giorni? Volevano rovinarmi la carriera e la vita. Sulla prima ci sono riusciti, sulla seconda no. Qualche anno dopo, in un’intervista e in un libro, il direttore generale della Rai Pierluigi Celli mi chiese scusa». Comunista, socialista, poi berlusconiana, quindi fan del governo gialloverde tendenza più verde che gialla (ma ricorda sempre le tante volte che era ospite di Gianluigi Paragone all’epoca in cui il parlamentare pentastellato conduceva La Gabbia), oggi ha davanti a sé l’opportunità di condurre la striscia post-Tg1 ch’era stata di Enzo Biagi. In pubblico ripete che «non ho firmato, non ho ancora un contratto davanti, decido dentro lunedì». In privato ha già chiarito a chi di dovere che «non sarà come il Fatto di Enzo Biagi, che commentava il fatto del giorno. Sarà più tipo il Batti e ribatti condotto da Pierluigi Battista e poi da Oscar Giannino e Riccardo Berti. Io apro, presento la questione del giorno, intervisto un personaggio legato a quella questione e poi faccio la chiosa». Come primo ospite vorrebbe un boss della mafia nigeriana che spiegasse l’ascesa della potente organizzazione criminale tra droga, prostituzione e tratta di esseri umani. Un tema a cavallo tra sicurezza e immigrazione, insomma.

Pierluigi Battista per il “Corriere della Sera” il 4 febbraio 2019. Dicessero quello che vogliono per stroncare Maria Giovanna Maglie, capace di difendersi da sola. Ma la smettano di usare «craxiana» come un insulto, un marchio d' infamia, una perenne condanna retroattiva. È la storia che va difesa, perché liquidare Craxi e il «craxismo» come un capitolo di pura criminalità questa sì che è un'impostura, una violenza bugiarda che scalza la storiografia per rimpiazzarla con la demonologia e la damnatio memoriae. Bettino Craxi è stato un pezzo importante della storia della sinistra italiana. Non temeva di dirsi socialista riformista, quando ancora riformista e socialdemocratico erano parolacce nella componente maggioritaria della sinistra italiana, quella del Pci, pudicamente sostituite dal termine «riformatore»: riforme sì, ma di «struttura». Faceva parte «naturaliter» della famiglia dei socialisti, socialdemocratici e laburisti europei. Era a favore della modernità economica, senza indebolire gli imperativi della protezione sociale incarnati dal grande welfare europeo. Intercettava gli umori di un'Italia che stava cambiando, sempre meno rappresentata dal grigiore granitico delle Stalingrado d' Italia. Si batteva per la riforma istituzionale, quando l'intoccabilità delle istituzioni era ancora un dogma che ingessava l'azione e il pensiero dei due grandi partiti. Si adoperava per un sostegno concreto (anche finanziario) a tutte le vittime dell'oppressione, senza ipocrite distinzioni: alla resistenza cilena contro il gorilla Pinochet e alla Solidarnosc di Lech Walesa. Non era un criminale, come vuole l'ignoranza diffamatoria, ma un politico che spesso sbagliava. Come quando scambiava Arafat per Garibaldi, fornendo con il blitz di Sigonella il salvacondotto agli assassini di Leon Klinghoffer, scaraventato con la sua sedia a rotelle in acqua dall' Achille Lauro perché ebreo. E soprattutto quando concesse mano libera a faccendieri e affaristi senza scrupoli che stavano trasformando il glorioso Psi in un collettore di tangenti. Fu molto odiato dai fanatici che nei festival di «Cuore» berciavano sulla «trippa alla Bettino». Ma la messa al bando eterna di Craxi e del «craxismo» è il frutto dello stravolgimento della storia da cui noi veniamo. Per amore della verità, e contro la stupidità dei senza memoria, «craxiano» deve essere espunto dal repertorio degli insulti politici. Sarebbe l'ora.

Gianluca Roselli per ''il Fatto Quotidiano'' il 2 febbraio 2019. "Questa guerra dei 5 Stelle alla Maglie è ridicola. Non ho capito perché lei non va bene e gli altri sì. Capisco però che il 26 maggio ci sono le Europee, elezioni importanti che possono far cambiare di nuovo lo scenario. E da mesi siamo in campagna elettorale". Di Maria Giovanna Maglie, Roberto D' Agostino è un estimatore, tanto da averla presa a scrivere di politica estera sul suo Dagospia.

D' Agostino, Maglie ora arriverà in prima serata su Rai1, dopo il Tg delle 20.

«È anche merito suo. È una brava giornalista con tanto di curriculum, quando ha iniziato a scrivere su Dagospia ha previsto, contro tutti, la vittoria di Trump. Ha fiuto anche e ha capito che per comprendere il mondo bisogna guardare il web: da lì s' intuisce tutto. E poi vivaddio: su Raiuno avremo una che ha un pensiero non mainstream, una persona che, anche in maniera decisa, dia una diversa prospettiva sul mondo».

Sulla Maglie pesa la vicenda delle spese pazze a New York, per cui fu costretta a lasciare la Rai nel 1994.

«Ma è una storia di 25 anni fa che non ha portato ad alcuna conseguenza penale: il caso fu archiviato. E pure l'allora direttore del personale, Pierluigi Celli, anni dopo le ha chiesto scusa. Io credo che lei abbia pagato in modo spropositato l'etichetta di craxiana di ferro. I più furbi si sono riciclati un attimo prima del crollo, vedi Enrico Mentana».

Craxiana con Craxi, berlusconiana con Berlusconi, sovranista con Salvini.

«Ma de che Lei era sovranista prima di Salvini. È lui che le è andato dietro. Ora non è iscritta all' elenco dei professionisti. Ma se hanno appena nominato vicedirettore Iman Sabbah, che non figura nell' elenco italiano. È stata sospesa per morosità: vorrei conoscere un giornalista che non s' è mai dimenticato di pagare la quota all' ordine. L' Usigrai fa una polemica pretestuosa. Vuol sapere la verità?»

Prego.

«Il famoso partito Rai non si rassegna ad aver perso il potere, diventano pazzi. Non sopportano che dopo il 4 marzo anche a Viale Mazzini è cambiato tutto. Prima i conduttori scelti da Renzi o dal Pd erano perfetti, ora non va bene nessuno. Il famoso pensiero unico in Rai tende a espellere i corpi estranei: basta ricordare Gad Lerner al Tg1, costretto a dimettersi per una polpetta avvelenata».

Maglie andrà in onda nella striscia che fu di Biagi.

«Ah, se vogliamo fare il giochino col passato, allora vediamo un po': ieri c'era Berlinguer e oggi Renzi; ieri Flaiano e oggi Baricco; ieri Dostoevskij e oggi Saviano; ieri Arbasino (che però è ancora vivo, ndr) e oggi Piccolo. Devo continuare?»

Meglio lasciar perdere.

«Che trasmissione sarà? Mi ha chiesto un consiglio sul titolo. Mi sono limitato a dirle di non usare giochi di parole alla Dagospia, di scegliere un nome lineare, da Raiuno. Ogni sera analizzerà un fatto con un ospite in studio, un po' sul modello Batti e ribatti di Pigi Battista. Mi aspetto una Maglie anticonformista e provocatoria, che faccia il contropelo all' ospite, che lo metta con le spalle al muro se dice fesserie. Insomma, che non si accontenti della rispostina di comodo. Vorrei vedere un Cacciari travestito da Maglie.»

Consigli sul primo ospite?

«Io inviterei Matteo Salvini. Ma sa cosa mi fa ridere?»

Cosa?

«Che i partiti stanno ancora lì a scannarsi per uno strapuntino in tv, quando ormai non conta più nulla. Nel 2013 Berlusconi aveva Mediaset e controllava la Rai e le elezioni le ha vinte un signore, Beppe.»

Maurizio Crippa per ''il Foglio'' il 3 febbraio 2019. Ci siamo persi di vista da molto tempo, con Maria Giovanna Maglie, come è giusto che accada nelle amicizie senza un dare e un avere, solo l’allegria dei gossip e la gara alla battuta più perfida (vinceva sempre) per mettere sapore intorno al lavoro, come il sale sul bordo del Margarita. Non la leggo da mo’, ma non condivido una riga di quel che dice, suppongo in laica reciprocità. Ma che adesso l’impedimento a farla tornare in Rai sia che è stata craxiana, nella Rai in cui tutti sono stati tutto, e molto peggio che craxiani, e con le saccocce gonfie, e non si sono mai dimessi, manco a babbo morto, fa ribrezzo. Altri sono incazzati perché è trumpiana, ergo salviniana. L’occupazione dei posti pubblici di questa masnada è davvero repellente. Ma vivaddio, prendersela con la “simpatica stronza” (questo è un copiaincolla, prendo in prestito) dopo che a capo dell’azienda c’è una roba come Marcello Foa; prendersela con l’unica di questa orda che parli l’italiano, lo sappia anche scrivere bene, perché aveva fatto la radio e sapeva dettare pezzi al telefono all’impronta, fingendo di aver davanti il testo scritto, e invece col cazzo. Prendersela con lei, in mezzo a tutti questi andati al governo con il pedigree giornalistico di Paragone, di Casalino. La Maglie al posto che fu di una bieta lessa come Biagi. E allora? Ci vuole più decenza, per fare i censori. Salutava sempre dicendo ¡Hasta mañana!, ricordo dei vecchi tempi in cui la sinistra castrista andava ancora di moda. Oggi chissà come fa, coi muri di Trump.

Estratto dall'articolo di Maurizio Belpietro per ''La Verità'' del 3 febbraio 2019. Gianfranco Funari, che sulle reti del servizio pubblico conduceva un programma che era più politico delle tribune politiche, non era iscritto all' Ordine dei giornalisti. E ciò nonostante, pur avendo fatto il rappresentante di commercio, il croupier e persino il cabarettista, nessuno gli chiese l'esibizione del patentino bordeaux da cronista per condurre i programmi della Rai. Stessa cosa è capitata a Piero Chiambretti, che negli anni Ottanta su Rai 3 imperversava con trasmissioni tipo Va' pensiero, un contenitore tv dove si susseguivano interviste ironiche e approfondimenti culturali. Tra gli esentati dall' iscrizione alla categoria degli imbrattacarte, a cui anch' io modestamente appartengo, si potrebbe poi citare Fabio Fazio, il quale ogni volta che invita un onorevole e lo sottopone a sorrisini e fusa, fa più politica degli stessi politici che ospita. E tuttavia, sebbene né Funari, né Chiambretti e neppure Fazio siano ora o siano mai stati giornalisti, a nessuno è venuto in mente di inibire loro la conduzione (…) Io stesso penso da tempo che l'Ordine debba essere abolito e quando, nel 1997, i Radicali proposero di abrogarlo, fui tra i pochi direttori a schierarmi a favore del sì. Purtroppo il plebiscito non raggiunse il quorum e così siamo qui ancora a fare i conti con l'elenco degli iscritti. Bene, anzi male: Maria Giovanna Maglie non è iscritta. Ma io mi domando: qual è il problema? Che la signora faccia e abbia fatto negli ultimi quarant' anni la giornalista è cosa nota anche ai sassi, fin da quando, nel 1991, seguì per conto del Tg 2 la Guerra del Golfo. La sera le sue cronache informavano gli italiani di quel che stava accadendo in quell' angolo del mondo, una guerra che, come si ricorderà, vide schierata contro l'Iraq una coalizione multinazionale. Dopo di che l'abbiamo seguita per anni come corrispondente da New York. E prima di approdare al servizio pubblico era stata all' Unità e negli anni dopo la Rai ha scritto per altri quotidiani, dal Giornale al Foglio, oltre che collaborato a trasmissioni radiofoniche. Insomma, iscritta o non iscritta all' Ordine, Maria Giovanna Maglie è una giornalista. (…) La verità è che la Rai, intesa come corporazione che ha gli occhi strabici orientati solo a sinistra, una giornalista che ama Trump e non disprezza Salvini non la vuole. All' Usigrai, il sindacato interno, il conduttore va bene solo se dice che il presidente americano è un puzzone e il vicepresidente italiano è un barbaro. Altrimenti no, il collega - anzi, la collega - non è adatta ad apparire all'ora di cena sui teleschermi degli italiani. La questione è tutta qui ed è politica. Anche fra i 5 stelle si è levata qualche voce contro la Maglie, alla quale verrebbe addebitato d' essere raccomandata. Il che è un pretesto forse ancora più ridicolo di quello del patentino da giornalista. Che vuol dire raccomandata? Nella tv pubblica ci sono legioni di giornalisti raccomandati e nessuno ha mai obiettato alcunché. Enzo Biagi, che in Rai è ancora oggi venerato come un santo, diceva che quando c'era da assumere alcuni cronisti, a Viale Mazzini la procedura era la seguente: mettiamo a libro paga un democristiano, un comunista e un socialista. Se poi avanza un posto, diamolo a uno bravo. Ecco, nel caso della Maglie dev' essere il turno di quella brava. 

Renato Farina per ''Libero Quotidiano'' 3 febbraio 2019. Vengo dopo il Tg? No, tu no. Non vogliono far entrare in Rai Maria Giovanna Maglie. Le hanno già sottoposto il contratto per condurre sei sette minuti di informazione dopo il Tg 1 serale, dal lunedì al venerdì. Giammai. No, tu no. Barricate si ergono nei quartieri alti dell'intellettualità e del giornalismo perché non osi tornare dove aveva lavorato fino a circa 25 anni fa. Per questo veto che ha il sapore osceno del razzismo culturale e non solo, ci sono delle ragioni dichiarate, che sono pessime. E poi ci sono i motivi veri, che sono pure peggio. Cominciamo da quelle esposte sui tatzebao di internet e sulle bacheche di Saxa Rubra. In sintesi, la Maglie è un babau politicamente e moralmente squalificato. La colpa è essere oggi sovranista, qualunque cosa voglia dire questa parola: è trumpiana (di cui ha intuito il successo quando nessuno ci credeva neanche negli Usa) e per la chiusura delle frontiere. È pro Israele e anti Maduro. Sostenitrice di Putin. Polemista che non lesina di esporre il suo fianco che supponiamo oltre che vasto candido. Insomma: le prende e le restituisce anche su Twitter con abilità vincente. Così è riuscita a radunare sinistra e 5 Stelle, che insieme al giornalismo progressista (l' 85 per cento ad occhio del totale), si sono costituiti in un Comitato nazionale di resistenza alla perfida Maglie. Moralmente sarebbe abbietta per tre motivi.

Il primo è che, con onestà, ha ammesso di essere stata introdotta in Rai da Bettino Craxi, dopo che aveva abbandonato l'Unità, pervenuta lì perché fida allieva di Giancarlo Pajetta. Le rimproverano cioè - se capiamo bene - di essere entrata in Rai come socialista invece che come comunista, come la figlia di Miriam Mafai, moglie di Pajetta, o qualcun altra che è troppo facile citare. Di solito in quel periodo i giornalisti dell'Unità già in crisi finivano invece al Corriere della Sera. Capita che i raccomandati di Bettino in Rai fossero bravi: tipo Enrico Mentana. Lei però non ha mai dato il calcio dell'asino. E questa è la scusa per il veto dei grillini al ritorno di Maria Giovanna: è una raccomandata! E Beppe Grillo non era mica raccomandato da Pippo Baudo? E Carlo Freccero chiamato a dirigere Rai 2 nel 1994 secondo voi era ostile a Berlusconi? Ma va là. Buffoni.

La seconda ragione è detta ma non fino in fondo. Nel 1994 era corrispondente dall' America, e si dice che le sue note spese fossero leggendarie. Non lo escludo. Del resto la Rai era famosa per questo, o no? Le chiacchiere le hanno causato una denuncia per truffa alla magistratura. Risultato: la denuncia è stata archiviata. Giustizialisti anche con gli archiviati? Che vergogna.

Terza, e ridicola motivazione: non è più iscritta all' Ordine dei giornalisti, avendo dimenticato di pagare il bollo da tre anni. Ma dai. Fabio Fazio ha vinto il premio "è Giornalismo" e non è mai stato iscritto, e se lo era non avrebbe allora potuto fare la pubblicità del detersivo e del Lotto. Sono ridicoli.

Quarto. È esterna alla Rai, bisogna usare le risorse interne. Se uno deve rinforzare la squadra va sul mercato, non è costretto a riciclare nobili travet. Una come la Maglie, con le idee sopra esposte, esprimerebbe - a leggere i sondaggi - idem-sentire con la maggioranza dei telespettatori. Non va bene? Gli italiani hanno bisogno di lezioncine di etica un tanto al chilo, di cui hanno l'esclusiva Fabio Fazio e Massimo Gramellini, un tantinello esterni al vivaio Rai anche loro?

Siccome la ricordo bravissima trent' anni fa dall' America e dal Medio Oriente come corrispondente del Tg2, e tuttora spettacolare nelle sue analisi della politica estera e degli umori italiani, spiego il vero motivo dell'ostilità gridata con altre ragioni. La signora non è grassa. Di più. Ha quel tipo di obesità enorme, apocalittica, che non ispira risa di compassione ma la paura di finire mangiati da questa creatura behemotica. Più che bucare il video lo accarezza e quello le finisce in bocca. Quando arrivò in Rai era chiaro chi fosse il suo antecedente letterario delle dirette: Ruggero Orlando, con quel suo stile antico e calamitante. Si fondeva con ciò che raccontava, con una tecnica assertiva. Un' idea per volta, non di più. A volte mezza? Meglio ancora. Così Maria Giovanna. Non diranno questa banale verità. Che temono il suo peso fisico e comunicativo in combinato disposto di efficacia. Non avranno questo coraggio. Tra le poche cose buone del politicamente corretto in America c' è infatti pure il divieto di dare del ciccione. È una forma di razzismo. Ma è peggio esercitarlo che dirlo, con la tecnica che Umberto Eco chiamava "censura additiva". Fate caso a che tipo di foto corredino sul web le polemiche e i ritratti. La depongono sull' iPad o sullo smartphone come una balena morta. Che schifo. Non è così. Giuro. Hanno paura. Un obeso bravo, pungente, è come Porthos: ti infilza con classe, non te l'aspetti, e risulta pure simpatico, a dispetto dei ritratti confezionati su di lei per catturarle ostilità. E bocciarne l'ingresso. Poi (di nascosto) diranno che non è entrata perché non ci passa.

La colpa non è dunque per le sue idee. Ma perché è brava a farle valere, temono che sfondi con le sue opinioni incontrando il consenso del classico pubblico generalista e quieto di Rai 1, che invece la sinistra vuole pasturare con i suoi indottrinatori delle sue ben note scuderie. Dunque temono che la gente le dia ragione. Lasciatela rischiare, è coraggiosa. Ovvio infatti che se fa fiasco, se ne andrebbe. Appartiene alle regole del mercato. Si dà un tempo di prova. E vediamo come va. Ma fiocinarla per dissanguarne gli ascolti prima è vigliaccheria. Ah già, siamo in Italia.

Maria Giovanna Maglie accusa Luigi Di Maio: "Come ha fatto saltare la mia striscia su Rai 1". Libero Quotidiano il 6 Giugno 2019. Si toglie dei sassoloni dalle scarpe, Maria Giovanna Maglie. Lo fa in un'intervista a Belve, sul Nove, che verrà trasmessa venerdì 7 giugno alle 22.45. Si torna ai giorni in cui saltò la sua conduzione di una striscia dopo il Tg1 su Rai 1. E la Maglie, senza troppi giri di parole, rivela a Francesca Fagnani: "Sapevo che la proposta di condurre la striscia che fu di Enzo Biagi dopo il Tg1 delle 20 sarebbe andata male, anche se Salvini mi voleva. Tutti i Cinque stelle fino a Luigi Di Maio hanno chiesto la mia testa”. E ancora, aggiunge: "Naturalmente mi ero ingolosita perché chi non si sarebbe ingolosito di una proposta del genere? Non l'ho cercata, ho a lungo detto alle persone che me l'avevano proposta che sarebbe finita male, che non ci saremmo riusciti - ammette l'ex inviata -. Sono abbastanza scaltra da conoscere quell'ambiente". Quando le chiedono se, in quella circostanza, non si è sentita difesa da Salvini risponde in modo pragmatico: "Salvini avrà detto che gli avrebbe fatto molto piacere che facessi io la striscia e quando gli hanno detto che era diventata una questione di Stato, avrà lasciato perdere com'è giusto che sia. Sei in pieno contratto di governo, si sono messi di traverso tutti i Cinque stelle, non si capisce poi perché". "Chi?, vuole sapere la conduttrice. "Tutti, fino a Di Maio hanno chiesto la mia testa”, conclude la Maglie.

MGMaglie a ''Belve'' dalla Fagnani il 6 Giugno 2019. : ''Le storie dei vicepremier? Di facciata''.  “Sapevo che la proposta di condurre la striscia che fu di Enzo Biagi dopo il Tg1 delle 20 sarebbe andata male, anche se Salvini mi voleva. Tutti i Cinque stelle fino a di Maio hanno chiesto la mia testa”. La giornalista Maria Giovanna Maglie, ospite della nuova puntata di “Belve” sul Nove venerdì 7 giugno alle 22:45, commenta così la proposta, poi finita nel nulla, che la Rai, all'inizio dell'anno, le aveva fatto di condurre lo spazio informativo dopo il tg della rete ammiraglia. “Lei è tornata di nuovo al centro delle polemiche e delle cronache mediatiche perché si è trovata a un passo per poter condurre la striscia che era di Enzo Biagi nel post Tg1. Le è dispiaciuto che sia saltata? Si era ingolosita?”, domanda la conduttrice Francesca Fagnani. “Naturalmente mi ero ingolosita perché chi non si sarebbe ingolosito di una proposta del genere? Non l'ho cercata, ho a lungo detto alle persone che me l'avevano proposta che sarebbe finita male, che non ci saremmo riusciti - ammette l'ex inviata - Sono abbastanza scaltra da conoscere quell'ambiente”. Il giudizio sulla tv pubblica è duro: “Io penso che la Rai sia irriformabile e irredimibile, nelle condizioni in cui poi - afferma - era stata messa dall'accordo di governo con quell'amministratore delegato, quel consiglio di amministrazione, quel presidente... Impossibile, ne ero certa. Certo, mi è molto seccato che mi abbiano esposto in questo modo. Ritengo che le persone che per scelta, avrebbero dovuto, dal momento che me l'hanno proposto, poi portare fino in fondo la cosa, non l'hanno fatto”, commenta amareggiata. “Non l'hanno difesa abbastanza?”, domanda ancora Fagnani. “Si sono spaventati, perché la Rai spaventa anche chi ha ruoli di potere. Io non ho più sentito il presidente della Rai, eppure immagino sarebbe dovuto essere uno dei miei sostenitori. Ogni tanto me lo scrive qualcuno anche su Twitter: 'Marcello Foa, l'hanno rapito gli alieni?' Può essere”, ironizza la Maglie che svela i retroscena politici dietro la vicenda: “Salvini avrà detto che gli avrebbe fatto molto piacere che facessi io la striscia e quando gli hanno detto che era diventata una questione di Stato, avrà lasciato perdere com'è giusto che sia. Sei in pieno contratto di governo, si sono messi di traverso tutti i Cinque stelle, non si capisce poi perché”. “Chi?”, vuole sapere la conduttrice. “Tutti, fino a Di Maio hanno chiesto la mia testa”, conclude la Maglie. “Le storie d'amore dei due vicepremier sono costruite ad hoc. Quella di Di Maio serve a far tacere le chiacchiere sulla sua presunta omosessualità”. La giornalista Maria Giovanna Maglie, ospite di “Belve”, il programma condotto da Francesca Fagnani, in onda sul Nove venerdì 7 giugno alle 22.45, da esperta di comunicazione dà il suo parere sulle due storie che hanno tenuto impegnato il gossip politico durante la campagna elettorale per le Europee: da una parte la storia tra il grillino vicepremier e ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro Luigi D Maio e Virginia Saba; dall'altra la relazione tra il leghista vicepremier e ministro dell'Interno Matteo Salvini con Francesca Verdini, figlia del noto Denis. Per l'ex corrispondente Rai sono entrambe false per due motivi diversi: “Una è costruita proprio a tavolino nel senso che serve a coprire una mancata uscita dal 'closet' e quindi è ben diverso. Cioè – spiega - siccome sono a centinaia, a migliaia le chiacchiere sulla presunta omosessualità di Di Maio, la costruzione abbastanza chiara della fidanzata (Virginia Saba, ndr) ha questo significato”. Francesca Fagnani mette le mani avanti chiedendo all'ex inviata di assumersi la responsabilità legale delle sue parole. “Certo che mi prendo la responsabilità, ho detto 'chiacchiere'”, insiste la Maglie che entra nel dettaglio: “Siccome si moltiplicano le chiacchiere sulla presunta omosessualità (di Di Maio, ndr), apparentemente la storia è costruita ad hoc dall'inizio della campagna elettorale”. E Salvini? “Dall'altra parte credo che, invece, sul fatto che a Salvini, che tra l'altro ha figliato, ha sposato, si è divorziato, si è separato, si è accompagnato, piacciano le donne non c'è dubbio, quindi questo tipo di infingimento non c'è”. Tuttavia “penso che certi fidanzamenti che vengono ufficializzati rapidissimamente, siano più diciamo di facciata - afferma -. Poi mi fa piacere se si fidanzeranno sul serio - conclude -, ma lì l'abbiamo fatta cotta e mangiata per far vedere che c'era la nuova storia, no?”.

·         L’ostracismo per Monica Setta.

SGUAINATE LA SETTA! Dagospia il 13 Giugno 2019. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, leggo sui siti che autorevoli esponenti dell'opposizione sono preoccupati per il fatto che io dovrei occupare nel prossimo palinsesto di Rai 1 una fascia dedicata alla economia. Preciso che al momento non ho alcuna proposta ufficiale dunque si tratta di illazioni giornalistiche che mi lasciano comunque alquanto spiazzata. Apprendo che i deputati azzurri Andrea Ruggieri e Renato Schifani si sarebbero allarmati per la mia presenza nel palinsesto invernale di Rai 1. Nello specifico, affidare una striscia di 30 minuti di economia a me sarebbe un atto gravissimo destinato a mettere in pericolo la democrazia. Ricordo che sono professionista dal 1989 e tutta la mia carriera si è svolta nelle redazioni economiche avendo iniziato nel '94 come caposervizio della Voce di Montanelli per proseguire in tanti altri giornali occupandomi di borsa e finanza. Attualmente sono in forze al mensile Economy e Investire oltre che ex art. 2 a Elle. Oltre alla competenza su temi economici unisco la giusta dose di popolarità (lavoro con la Rai ininterrottamente da 15 anni) che mi consente di narrare la finanza in modo chiaro. Perché Schifani e Ruggieri mi attaccano lo ignoro. Forse Ruggieri che lavorava con me a Rai 2 nel 2009 al Fatto Del Giorno (programma di successo del day time) non mi perdona di averlo allontanato dalla redazione (la scelta fu mia ma i motivi restano top secret) mentre Schifani vorrebbe forse che a Uno mattina tornasse una delle sue giornaliste più stimate che è anche una mia amica Lorella Landi. Quando la Landi conduceva Le amiche del sabato (bel programma) Schifani non mancava di collegarsi ed era sempre uno spettacolo dall'ottimo share. Mi unisco a lui nell'auspicare che Lorella torni presto. Non con un programma economico, perché non ne ha titoli, ma alla conduzione che le riesce benissimo. Monica Setta

Monica Setta: "Una macchietta del peggior giornalismo all'amatriciana". “Sono contento di apprendere dalle sue parole che a nessuno sia venuto in mente di offrirle di tornare a far danni in Rai, e non vedo l’ora mi quereli. Così in tribunale potrò sommergerla di prove a sostegno di quanto dico e di molto altro che taccio per carità di patria; almeno, forse non verrà in mente più a nessun dirigente tv del pianeta di offrire contratti a una improbabile mattacchiona millantatrice come lei” dice l’ on. Andrea Ruggieri, membro della Commissione di Vigilanza RAI. Andrea Ruggieri, deputato di Forza Italia e membro della Commissione di Vigilanza Rai, Con una lettera al sito Dagospia il 13 Giugno 2019 parla di Monica Setta.  “La signora Setta conferma di avere con la verità lo stesso rapporto di Superman con la kriptonite, o di Mark Caltagirone con i matrimoni. Normale, per una che tutto il mondo, me per primo, considera una macchietta del peggior giornalismo all’amatriciana, con cui -è vero- mi toccò collaborare un paio di mesi, più di dieci anni fa (francamente -voglio tranquillizzarla- un po’ troppo per essere eventualmente risentiti con lei. In 11 anni si prescrivono persino i risentimenti verso le ex mogli, figuriamoci verso un personaggio simile)”.

Monica Setta, da sempre specializzata in “auto-promozioni”. “Nessun allarme democrazia, però. Non esageriamo: la signora, come ogni cosa poco seria, non è così rilevante. È solo autrice di qualche pagina risibile del servizio pubblico di una era geologica fa: una su tutte, quando dedicava cinque puntate a settimana allo scandalo Marrazzo annunciando ogni giorno agli spettatori di avere la lista dei clienti della trans protagonista di quella vicenda, e di essere pronta a rivelarla (cosa che mai accadeva semplicemente perché frutto di autentiche sue invenzioni: la lista non esisteva e lei non ne era in possesso). E potrei aggiungere molto altro. Per me, che ritengo la millanteria qualcosa di estraneo alla professionalità di cui la Rai avrebbe bisogno, era abbastanza inaccettabile. Fu una autentica liberazione quando il capostruttura, e non lei ovviamente, mi comunicò che sarebbe stato meglio se ci fossimo separati, visti i miei segni di insofferenza verso l’andazzo di pura fantasia imposto dalla signora, che guarda caso poi venne allontanata (chissà perché..!) dalle conduzioni Rai, mentre io proseguii per anni a collaborare a moltissimi programmi condotti da professionisti, non ciarlatani”. aggiunge l’ On. Andrea Ruggieri.

La Setta, che redige una rubrica di gossip (altro che economia….) sulla Gazzetta del Mezzogiorno, piena di fake news e citazioni di amici e locali che frequenta o la ospitano, in merito alle voci su un suo ritorno in RAI da cui è uscita da molto tempo, insieme al capostruttura che la imponeva, ha dichiarato : “Preciso che al momento non ho alcuna proposta ufficiale dunque si tratta di illazioni giornalistiche che mi lasciano comunque alquanto spiazzata“. Ma nel frattempo la Setta smentisce se stessa (che si fa pur di far parlare di sè …) e rilascia ieri sera al sito TvBlog una dichiarazione opposta a quanto dichiarato a Dagospia, e lo fa nel suo personale “stile” : “Io e Teresa de Santis stiamo discutendo da settimane di una striscia economica da portare su Rai 1. La scelta è caduta su di me perché da anni mi occupo di temi economici nei giornali dove ho lavorato e anche in tv“. Come meravigliarsi poi se la Setta credeva alla sua “amica” Pamela Prati e la difendeva in tv nella squallida vicenda del suo finto matrimonio ?!!! La stessa Setta aveva condiviso sulla sua pagina Facebook l’anteprima di TvBlog sul nuovo programma (reale o millantato ?) scrivendo una didascalia che implicitamente sembrava confermarne il contenuto (“il titolo non c’è, siamo aperti ai suggerimenti“). Qualche ora dopo ha aggiornato la condivisione del pezzo, sostituendo la precedente didascalia con una frase più prudente. Quindi, oggi, la terza modifica (qui sotto un’immagine mostra tutte le variazioni apportate in ordine cronologico) con un “chissà” ancor più cauto. Come sempre la Setta cambia le carte in tavola….

“Sono contento di apprendere dalle sue parole che a nessuno sia venuto in mente di offrirle di tornare a far danni in Rai, e non vedo l’ora mi quereli. Così in tribunale potrò sommergerla di prove a sostegno di quanto dico e di molto altro che taccio per carità di patria; almeno, forse non verrà in mente più a nessun dirigente tv del pianeta di offrire contratti a una improbabile mattacchiona millantatrice come lei. La Rai ha tanti professionisti interni migliori di una signora simile, cui affidare conduzioni”, conclude l’ On. Ruggieri.

LA CONTRO-REPLICA DI MONICA SETTA AD ANDREA RUGGIERI. Dagospia il 14 Giugno 2019. Caro Dago, Leggo la fantasiosa lettera di Andrea Ruggieri in cui, ricoprendomi di insulti, mi istiga a querelarlo per potersi sfogare ancora meglio contro di me in Tribunale. Mi spiace per lui che è peraltro nipote dell'illustre Bruno Vespa e fidanzato della famosa attrice Anna Falchi, ma non ho alcuna intenzione di denunciarlo malgrado me ne abbia dette di ogni. Anzi, la prossima volta che dovessi incontrarlo cercherò di parlargli civilmente per capire quali sono i suoi problemi. Il confronto civile in un paese civile è sempre una buona idea. Tutto il resto dovrebbe essere noia, soprattutto per un parlamentare della Repubblica. Monica Setta

RAI: SCHIFANI (FI), MAI NOMINATA SETTA, CALDO FA BRUTTI SCHERZI...Comunicato Stampa il 14 Giugno 2019. “La signora Monica Setta, evidentemente, deve aver visto una conferenza stampa diversa da quella a cui ho partecipato oggi alla Camera dei Deputati. A differenza di quanto da lei sostenuto, infatti, nel mio intervento non ho mai fatto il suo nome né alcun riferimento a lei riconducibile. Evidentemente il caldo estivo fa brutti scherzi”. Lo dichiara il senatore di Forza Italia Renato Schifani.

·         L’ostracismo per Roberto Poletti.

Laura Rio per “il Giornale” il 6 agosto 2019. Su di lui si è scatenato l' inferno. Quando è circolata l' indiscrezione che sarebbe diventato conduttore di Unomattina Estate, sui quotidiani è cominciato il fuoco di fila di politici e giornalisti contro il suo approdo in Rai. «Il biografo di Salvini messo dal vice premier nella tv pubblica», è la cosa più simpatica scritta su di lui. Tanto che la sua candidatura è vacillata. Ma la direttrice di Raiuno Teresa De Santis l' ha voluto a tutti i costi e, alla fine, non solo l' ha spuntata, ma lo ha confermato anche per la versione invernale del programma mattutino. Così Roberto Poletti è apparso in video a metà giugno a dare il buongiorno agli italiani, fra ricette per i peperoni e tasse da pagare. Lui che fino a poche settimane prima andava in giro per le piazze italiane per aprire il microfono alla gente che urlava la sua rabbia nelle trasmissioni Mediaset condotte da Paolo Del Debbio. Giornalista cresciuto a Radio Padania, Telelombardia, Antenna 3, autore di Salvini&Salvini. Il Matteo-pensiero dall' A alla Z, deputato eletto con la Federazione dei Verdi nel 2006, incarna il salvinismo dal volto umano, insomma tutto ciò che secondo il ministro dell' Interno dovrebbe essere un anchorman vicino «al popolo che lavora», il contrario dei tanti «intellettualoidi stile Gad Lerner o Fabio Fazio» che fanno venire l' orticaria al capo della Lega.

Dunque, Poletti, dopo le polemiche divampate sui giornali, ci si aspettava di vedere su Raiuno un mostro trinariciuto pronto a lanciare fuoco e fiamme. E invece?

«Invece il pubblico ha trovato un giornalista tranquillo che si pone come obiettivo di fare il mediatore, di parlare il linguaggio della gente, di tradurre il politichese, sia di destra che di sinistra, per le persone comuni».

E che ha deposto le armi da sobillatore...

«Mi sono proposto di imparare uno stile diverso di comunicazione per lanciare un messaggio positivo, per raccontare l' Italia che ce la può fare, dando voce a quegli italiani che tutte le mattine si alzano, si rimboccano le maniche e portano avanti veramente questo Paese».

Che cosa rispondi a chi attribuisce il tuo approdo in Rai all'amicizia con Salvini?

«Che si può anche pensare che la mia amicizia con Salvini non c' entri nulla. Che nella scelta ricaduta su di me c' entri il fatto che conosco una certa parte del Paese che non era rappresentata nella televisione di Stato. C' entra magari anche il fatto che non ho una visione romanocentrica, che vengo dal Nord... Insomma non sono il megafono di Salvini, ma il megafono della gente che lavora e che, forse, non è capita o non più capita dalle forze politiche che hanno governato il Paese fino a poco tempo fa».

Hai parlato con il vice premier del tuo passaggio alla tv di Stato?

«Figuriamoci: io ho parlato solo con il direttore Teresa De Santis. La conosco da tempo, da quando lei era alla Camera e si occupava di relazioni istituzionali e io ero deputato, capogruppo in Commissione cultura».

E come sei stato accolto a Unomattina visto come eri stato dipinto?

«In un primo tempo alcuni avevano dei pregiudizi, giustificati dalla grancassa iniziale, ma poi si sono ricreduti. Ho trovato una grande squadra preparata, rodata e attenta che mi ha preso per mano».

A tuo favore gioca l' essere un po' dissacrante, giocoso, ironico. Insomma spezzi la seria liturgia del programma.

«Sono il primo che non si deve annoiare. Per fortuna con me c' è Valentina Bisti. Con lei mi trovo bene e si è creato subito un feeling. Non ci sono rivalità né gelosie, ci divertiamo e siamo seri quando si deve. All' inizio anche lei era un po' sospettosa, teneva le distanze, del resto doveva andare in onda con il mostro...».

Va beh, allora, andiamo a scoprire cosa c' è dentro questo mostro: sei nato in quel di Feltre, in Veneto, nel 1971, ma te ne sei andato ben presto a Milano per fare il giornalista.

«Avevo vent' anni, lavoravo al Gazzettino. Un giorno è arrivato a Belluno Vittorio Feltri per un dibattito che io moderavo. Disse davanti a tutti questo è bravo, se fosse a Milano l'assumerei. Allora la sera stessa ho fatto le valigie, le ho caricate in macchina e il giorno dopo mi sono presentato in via Valcava 6, nella sede dell' Indipendente che Feltri allora dirigeva. Gli ho detto eccomi qui, lui si è messo a ridere e mi ha portato in amministrazione per firmare il contratto».

Però, da casa, te ne eri già andato molto prima.

«A 16 anni, perché volevo fare di testa mia. I miei mi avevano detto quella è la porta e io sono uscito e non sono più tornato. Ho fatto il cameriere e tanti altri lavori, ho anche dormito sulle panchine per non dargliela vinta e tornare indietro».

Carattere di montagna...

«Certo, siamo gente orgogliosa, semplice e testarda. Mia madre, Luciana, era infermiera, una tipa tosta che non disdegnava la punizione fisica. Mio padre era più morbido. In casa non si acquistava mai nulla che fosse superfluo. E, io, anche ora che guadagno bene, resto oculato, sto attento ai soldi e sono molto orgoglioso di essermi comprato una casa».

Da piccolo com' eri?

«Un ragazzino schivo che stava sempre per conto suo, camminavo raso ai muri. Non mi sentivo adeguato, forse perché ero un po' cicciottello. All' intervallo, a scuola, non partecipavo ai giochi, stavo in disparte a osservare. Per questo ho imparato, forse, a capire gli altri. Fare tv è stata quasi come una terapia per superare questa timidezza, terapia che ovviamente non consiglio a nessuno....

Fin da ragazzino sognavi di fare il giornalista?

«Al liceo scrivevo sul giornalino della scuola. Poi per il Gazzettino andavo a recuperare le fotografie delle persone morte perché facevano vendere di più. Per uscire dai miei confini, andai pure a Milano per partecipare a un gioco a quiz, Doppio slalom, che conduceva Corrado Tedeschi. Lo stesso, pensa un po', cui partecipò Salvini da ragazzo».

Il tuo più grande dolore è stata la perdita di tua madre troppo presto.

«Avevo 19 anni, fu un duro colpo. Mio padre, invece, se ne è andato 12 anni fa. Con lui stavo recuperando un rapporto difficile, è morto poco prima che fossi eletto alla Camera e non ha fatto in tempo a vedermi deputato. Con mia sorella, invece, non ci frequentiamo più da tempo».

Cos' è dunque per te la famiglia?

«Sono le persone che ho incontrato durante la vita e che mi hanno accolto, mi hanno voluto bene e accettato per quello che sono».

Una persona burbera e senza tanti scrupoli...

«Sono orgogliosamente un uomo di montagna, dico in faccia quello che penso. Dalla vita ho preso molti schiaffi e questo mi ha insegnato che a volte bisogna darli».

E questo carattere ti ha aiutato a emergere, da direttore di Radio Padania a deputato a inviato Mediaset?

«Sono stati anni bellissimi perché ho potuto sperimentare tantissimo e costruirmi come giornalista. Il ricordo più bello è legato a Daniele Vimercati (stimato giornalista per molti anni al Giornale, biografo di Umberto Bossi e direttore dei notiziari di Telelombardia). Ho conservato nel telefonino questo suo messaggio: Sei un collaboratore prezioso, intelligente e soprattutto creativo. Se non seviziassi i collaboratori, saresti perfetto. Ma io non amo le persone perfette: sono noiose».

Con Salvini vi siete conosciuti a Radio Padania.

«Era lì come molti altri che adesso sono presidenti di Regione o esponenti del governo. Sono passati tutti da lì. Li conosco da piccolini. Salvini non era ancora Salvini, e io sono stato uno dei primi a intuire che lo sarebbe diventato».

Hai letto il libro di Chiara Giannini, l' intervista al vice premier che ha scatenato un putiferio al Salone del libro di Torino?

«No, non ho avuto tempo, troppo lavoro».

Perché non ti sei ricandidato alle ultime elezioni che hanno fatto entrare in Parlamento tanti rappresentanti di quel popolo di cui vuoi fare il mediatore?

«Perché ne ho avuto già abbastanza dell' esperienza politica dove a volte capita che ti paghino per non fare nulla. Ci ho scritto pure un libro: Papponi di Stato. Mi ero candidato come indipendente con i Verdi perché presentandomi con un partito piccolo pensavo di avere più peso, pensavo addirittura di cambiare il mondo. Poi ovviamente mi sono ricreduto e me ne sono andato. Comunque è stato molto più emozionante dare avvio alla mia prima puntata di Unomattina che entrare alla Camera. E, dunque, mi sa che ho fatto la scelta giusta...».

MA È PEGGIO ESSERE BIOGRAFO DI SALVINI O CONSULENTE D'IMMAGINE DELLA BOLDRINI? Gustavo Bialetti per “la Verità” il 6 giugno 2019. Roberto Poletti non ha i quarti di nobiltà giornalistica che occorrono per lavorare in Rai, nota culla del mestiere che trabocca di professionisti più autonomi di un membro del Csm, perché sarebbe «il biografo di Salvini». Ha firmato un contratto per dirigere Uno Mattina estate, ma il Pd ha sollevato un polverone perché nel 2015 questo presunto lecchino, in terra di cani da guardia del potere, osò dare alle stampe il seguente volume: Salvini e Salvini. Il Matteo-pensiero dalla A alla Z. Invece Gad Lerner, in Rai ci può lavorare tranquillo perché lui è un uomo libero e la politica non sa manco che cos' è. Ora, diciamolo, ogni giornalista scrive i libri che vuole e con gl' intenti che vuole. Per esempio, ricordiamo un imperdibile Padroni d' Italia del 2004, in cui Roberto Napoletano, che più avanti tenterà di distruggere la reputazione del Sole 24 Ore con lo scandalo delle copie gonfiate, si lanciava in una serie di ritratti en rose dei principali capitalisti italiani, che casualmente possedevano tutti uno o più giornali. Ma ricordiamo anche la prima biografia di Massimo D' Alema firmata da Daniele Martini e Giovanni Fasanella nel 1995, che riuscirono a parlare con la madre del Leader Massimo, eppure non fecero sconto alcuno. Il povero Poletti, invece, 48 anni, trascorsi giornalistici all' Indipendente e a Radio24, ex direttore di Radio Padania, deputato ambientalista per una legislatura, ha scritto un libro che mette le parole più usate da Salvini in ordine alfabetico e le ha usate per raccontare idee e progetti del futuro Capitano. Ma questo basta per renderlo indegno di una Rai dove invece è tornato per l' ennesima volta Lerner, ex vicedirettore di Lotta continua, amico e vicino di vigna dell' ex tessera numero uno del Pd, Carlo De Benedetti, firma di Repubblica, ex portavoce dell' Ulivo.

Da repubblica.it il 6 giugno 2019. Chiama Lazar da Brescia: "Sono un extracomunitario, sono offeso con la Lega perché non rispetta gli immigrati". Risponde Roberto Poletti: "Ti posso dire una cosa? A naso mi stai sui coglioni". A poche ore dalle polemiche nate per la nomina alla conduzione di UnoMattina dell'ex direttore di Radio Padania e biografo di Matteo Salvini, spunta online un video datato febbraio 2015 in cui Poletti battibecca con un extracomunitario. Succede durante la diretta del programma "Sulla Notizia", in onda su Radio Padania e ancora reperibile sul canale YouTube dell'emittente. "Mi stai sui coglioni perché hai un atteggiamento troppo arrogante - spiega poi Poletti - Chi si pone con un atteggiamento così arrogante indispone l'altro e ti da una brutta risposta". "L'intenzione è valorizzare le risorse interne e ho inviato una nota ai direttori di rete in questo senso, nel rispetto dell'autonomia editoriale dei direttori di rete, che, se pensano di non trovare in azienda risorse adatte ai programmi, possono rivolgersi all'esterno". Così l'ad Rai, Fabrizio Salini, ha risposto in Vigilanza alle domande sulle conduzioni dei programmi estivi affidate a esterni. "Dal punto di vista delle risorse esterne - ha precisato Salini - sono particolarmente soddisfatto, perché forse per la prima volta nella storia della Rai sono arrivate con me solo due risorse esterne alla corporate Rai. Peraltro sono nomine legate alla durata del mio mandato ed anche questo è un punto di novità". "Quanto ai conduttori esterni ingaggiati per le trasmissioni estive, Salini ha sottolineato: "L'intenzione è sempre quella di valorizzare risorse interne. Tanto che ho mandato una nota a tutti i direttori con una raccomandazione in questo senso. Detto ciò, rispetto poi l'autonomia dei direttori che se ritengono di non trovare le risorse adatte ad un programma all'interno dell'azienda possono rivolgersi all'esterno". La polemica è scoppiata in relazione alla scelta per Unomattina Estate di Roberto Poletti, biografo di Salvini e già conduttore di Radio Padania. Una figura controversa, protagonista già nel 2015 di uno scambio in radio con tanto di insulto a un immigrato. Sulla vicenda interviene il consigliere di amministrazione di Viale Mazzini Riccardo Laganà. "Il contratto di governo tra M5S e Lega, il contratto di servizio tra Mise e Rai e il nuovo piano industriale - dice in un post su Facebook - affermano esplicitamente la necessità di valorizzare le risorse interne e dare spazio a merito e trasparenza. Al riguardo, sono lieto che anche la commissione di Vigilanza Rai condivida l'esigenza di chiedere conto dei criteri adoperati per le nomine e il conferimento degli incarichi. I dipendenti ai hanno bisogno urgentemente di segnali di discontinuità con un passato ancora troppo presente". Davide Faraone, capogruppo Pd in Commissione Vigilanza Rai, chiede un passo ufficiale. "Salini - afferma Faraone - dopo aver avallato la cacciata di Fabio Fazio da Rai 1 verso Rai 2, adesso si appresterebbe anche a negare a Fabio Fazio il tradizionale spazio della domenica sera per non disturbare l'arrivo su Rai1 di un conduttore sovranista in quello stesso spazio. Mi aspetto una smentita molto rapida dall'amministratore delegato".

Salini: "Doppio incarico Foa non incompatibile". "Non c'è incompatibilità nella doppia presidenza di Marcello Foa a Rai e RaiCom, "tutte le altre considerazioni sono di ordine politico e non attengono al mio ruolo di amministratore delegato", ha precisato ancora Salini. L'amministratore delegato ha sottolineato inoltre che Foa nel suo ruolo di dirigente ha rinunciato ai compensi previsti per la guida di RaiCom, e la nota del Mef sull'argomento che lo stesso Salini ha fornito oggi alla commissione "potrà aiutare a chiarire anche questo". Quanto all'incremento dell'offerta dei canali Rai, Salini ha riferito che sui tempi della partenza del canale in inglese "quando saremo pronti vi aggiorneremo, dovrà comunque seguire lo spostamento di Rai Scuola sull'offerta online", mentre la partenza dei lavori di configurazione del canale istituzionale dovrebbe avvenire entro le prime due settimane di luglio e per la tempistica della messa in onda occorrerà invece attendere la fusione dei due canali prevista dal piano industriale.

Gianandrea Zagato per il Giornale il 6 giugno 2019. Milletrecento e passa firme raccolte on line in poco meno di ventiquattrore. Destinatario è il presidente del Sole che ride, Alfonso Pecoraro Scanio. Motivo? Perché «alle prossime politiche di aprile» non escluda «il senatore verde Fiorello Cortiana». Sì, un appello pubblico a favore del cinquantenne ambientalista milanese che stavolta «non sarà incluso negli eleggibili» nonostante «le battaglie condotte dai banchi dell’opposizione». Fuori dal Parlamento per scelta della presidenza del partito che punta su un volto noto delle televisioni lombarde: Roberto Poletti. Già, l’ex direttore dei programmi di radio Padania libera che si autodefinisce «il giornalista della gente» poiché nelle sue trasmissioni - dagli schermi di Telelombardia piuttosto che di Antenna 3 o di altre reti minori - «i politici ascoltano, il pubblico parla» e i «veri problemi della gente» vengono a galla. Come dire: un Funari in salsa ambrosiana che Pecoraro Scanio ha arruolato nella lista verde. Candidatura numero cinque di lista nei collegi 1 e 2 della Lombardia che fa scoppiare la rivolta non solo della base ambientalista ma anche degli scienziati e degli esperti delle innovazioni tecnologiche, settore questo dove Cortiana è quasi icona. Motivo che ha dunque spinto il web a schierarsi con il senatore uscente, «sempre in prima fila su questioni centrali come le libertà digitali e l’open source». Mal di pancia contro «un giornalista spregiudicato, un populista» come lo definisce il consigliere regionale verde Carlo Monguzzi. Giornalista che in tv quando presenta cantanti in studio con la porchetta e il formaggio promuoverebbe, dice lui stesso «l’alimentazione responsabile». Testimonianza di un un impegno ambientalista che, comunque, gli potrebbe tornare utile giovedì prossimo al mercato di Dalmine quando presenterà la sua candidatura. Lì tra i banchi saprà scegliere almeno prodotti genuini.

Roberto Poletti da Il Sussidiario. Giornalista professionista dal 1995, dopo l'esperienza a Radio 24, il canale radiofonico de Il Sole 24 Ore, approda a Telelombardia, dove conduce la rassegna stampa del mattino "Buongiorno Lombardia" e i programmi di informazione della fascia preserale. È stato anche direttore di Radio Padania Libera, contribuendo al grande successo iniziale della radio del Carroccio. Nel febbraio del 2006 Roberto Poletti accetta la proposta di candidatura alle elezioni politiche per la Federazione dei Verdi. Alla Camera entra subito in collisione coi Verdi e denuncia all'opinione pubblica gli scandali interni al Parlamento. Il 30 ottobre 2007 aderisce al gruppo Sinistra Democratica, per impedire che esso si sciolga. Annuncia il 3 febbraio 2008 in diretta tv che lascerà la Camera dei deputati dichiarando pubblicamente di vergognarsi di guadagnare uno stipendio tanto generoso senza la possibilità di far niente in Parlamento. Scrive una serie di inchieste scandalo per il quotidiano Libero. Dall'inchiesta di Roberto Poletti, in collaborazione con il giornalista Andrea Scaglia nasce il libro della collana di Libero "Papponi di Stato", che in pochi giorni esaurisce le 130 000 copie di tiratura.

Roberto Poletti, giornalista e conduttore televisivo di successo, eletto deputato nelle liste dei Verdi di Pecoraro Scanio nel 2006, dopo un biennio da peone durante il quale ha vissuto la noia delle aule e ha costatato l'inutilità del proprio ruolo, ha deciso di raccontare tutto al Quotidiano “Libero” il 19 luglio 2011 in questa inchiesta senza precedenti. “Sono Roberto Poletti, parlamentare pentito, ricordo il periodo in cui riflettevo sulla mia possibile discesa in campo. Era l’inizio del 2006: la legislatura del Cavaliere alla fine, l’ascesa di Prodi sembrava inarrestabile. C’era feeling e stima con i Verdi, Pecoraro Scanio un amico, facendo due conti, quello dei Verdi era il partito che più degli altri mi dava la possibilità di essere eletto. Sapevo che uno dei candidati in Lombardia avrebbe rinunciato allo scranno romano per rimanere alla Regione, tale Monguzzi e la legge elettorale mi avrebbe permesso di subentrare. I colloqui con i vertici del partito scivolavano via senza problemi, sul mio disinteresse per l’ambientalismo militante, nessun problema: quando puoi garantire qualche crocetta in più sulle schede elettorali, un accordo si trova. L’incontro decisivo con Pecoraro Scanio avvenne a Milano nel gennaio 2006: “Visto che sei giornalista ti potresti occupare dell’informazione e poi ti piazziamo in una commissione parlamentare di quelle giuste” dice il segretario nazionale. Inizia il periodo “faticoso” della campagna elettorale. Imposto la campagna sulla difesa degli anziani e sulla moralizzazione della vita pubblica, i temi che avevano fatto la mia fortuna in televisione. Mi faccio tutti i mercati rionali, il pubblico mi riconosce e si divide, è l’unico momento in cui ti sembra di avere un contatto reale con gli elettori, li incontri, ci parli. Ti illudi di aver fatto la scelta giusta, immagini di arringare l’aula gremita, sogni un futuro da Martin Luther King. Ma la realtà è molto più prosaica, i primi schiaffoni arrivano da quelli che dovrebbero essere dalla tua parte: i compagni di partito, nel mio caso, tal Fiorello Cortiana. I vertici dei verdi avevano deciso di sacrificare la sua candidatura per offrirla a me. Sul suo blog iniziano a uscire commenti non proprio gentili nei miei confronti, si ironizza e si fa del sarcasmo sul Corriere della Sera….

«Che pacchia la vita da onorevole» di Francesco Iagher. Ho ritrovato e riletto un articolo di Roberto POLETTI ed Adrea SCAGLIA, di estrema attualità, visto il pernicioso assenteismo della casta tanto i deputati che i senatori ; che con arroganza e supponenza li trovi dappertutto fuorché a lavorare nelle istituzioni che li pagano con i soldi nostri.

Eccovi l’articolo del Quotidiano “Libero” del 19 luglio 2011 : «Prendete un conduttore televisivo, trentacinque anni, già una lunga esperienza in giornali e tivù locali. Diventato famoso per le sue trasmissioni orgogliosamente nazionalpopolari, seguitissime dalle tanto corteggiate “sciure Maria” di Lombardia e non solo. Uno di quelli che, per dirla in politichese, può eventualmente contare su un discreto “bacino di voti”, la sua faccia è nota, le persone si fidano. Poi prendete delle imminenti elezioni, con i partiti alla disperata ricerca del “volto nuovo”, magari proveniente dalla “società civile”, in modo da poter sbandierare una riverniciata che sembri appena appena credibile. Uniteci una buona dose di ambizione del conduttore-giornalista, che visti i trascorsi conosce i politici per filo e per segno, in studio li ha incontrati decine di volte. E c’è chi tra una chiacchiera e l’altra gliel’ha anche buttata lì, «ma perché non ci provi anche tu?». Ci provi a far cosa? «A fare politica. Saresti perfetto». E allora lui ci crede, comincia a fantasticare, «mi darei da fare per cambiare questo e quello». Nelle sue trasmissioni ha spesso messo alla berlina vizi e stravizi del Palazzo, e l’idea di entrarci da “corsaro” lo alletta non poco. E insomma, alla fine sì, si butta. Entra a far parte della Casta. Giusto così, per vedere l’effetto che fa. E dunque, eccomi qui: sono Roberto Poletti, parlamentare pentito. Ricordo il periodo in cui riflettevo sulla mia possibile “discesa in campo” (perché tutti i candidati, all’inizio, si sentono un po’ Berlusconi, o un po’ D’Alema, se si preferisce). Era l’inizio del 2006: la legislatura del Cavaliere era alla fine, l’ascesa di Prodi pareva inarrestabile, e in pochi davano ascolto ai sondaggi di Silvio, «guardate che il centrodestra ha recuperato, li abbiamo ripresi, siamo in testa!». In effetti, la mia passata esperienza alla Padania mi aveva appiccicato addosso l’etichetta di leghista. Non che la cosa mi offendesse, ma i rapporti col Carroccio si erano raffreddati nel tempo. E poi c’era questo feeling con i Verdi, conoscevo bene alcuni di loro, stima reciproca con il capogruppo in Regione Lombardia, si può dire che il segretario nazionale Pecoraro Scanio fosse un amico. «I Verdi? E perché no?». Certo, mai mi ero occupato dei problemi della foresta amazzonica, né mi sentivo particolarmente competente su effetto-serra e dintorni. Tutt’altro. Ma nelle mie trasmissioni avevo sempre spinto sulla necessità di fare un po’ di pulizia in Parlamento. Ecco: “l’ecologia della politica” mi sembrava uno slogan attuale, vincente. Senza contare che, molto meno idealmente e facendo due conti, quello dei Verdi era il partito che più degli altri mi garantiva la possibilità di essere eletto. Sapevo che uno dei candidati in Lombardia avrebbe rinunciato allo scranno romano per rimanere in Regione. E dunque, la legge elettorale mi avrebbe permesso di subentrare. Ma sì, vada per i Verdi. E poi, una volta dentro, potrei fare il cane sciolto. Gli faccio vedere io, gli faccio. L’INCONTRO COL SEGRETARIO I colloqui con i vertici del partito scivolano via senza troppi problemi. D’altronde, porto con me un bagaglio mica male, visti gli ascolti – record, per delle televisioni locali – dei miei programmi. Sul mio disinteresse per l’ambientalismo militante, nessun problema: quando puoi garantire qualche crocetta in più sulle schede elettorali, un accordo si trova. L’incontro decisivo con Pecoraro Scanio avviene al Jolly Hotel di Milano, gennaio 2006. «Visto che sei giornalista, ti potresti occupare dell’informa zione» mi dice. «E poi ti piazziamo in una commissione parlamentare di quelle giuste». Diamo un’occhiata alle liste: io sarei stato il numero 6 dei collegi Lombardia 1 e Lombardia 2. I primi tre in lista, Pecoraro compreso, si sarebbero presentati in tutta Italia, e dopo il voto avrebbero scelto altre località di elezione. Degli altri due che avevo davanti, già si sapeva che uno, Monguzzi, avrebbe rinunciato per restare alla Regione Lombardia. E valutando i sondaggi, era pressoché sicuro che io e l’altro rimasto saremmo stati eletti, uno nel collegio Lombardia 1, l’altro nel Lombardia 2. Dunque, affare fatto, si parte. Obiettivo: la Camera dei Deputati. In effetti, quello della campagna elettorale è un periodo faticoso. Controlla i manifesti, prepara gli spot, vai al dibattito televisivo. Anche Sgarbi mi appoggia, allora io e la scrittrice africana Aminata Fofana, anche lei candidata, gli chiediamo un appello elettorale. Lui dice che sì, si può fare. Vado a casa sua a Roma con un operatore, lui si è svegliato tardi, è ancora in vestaglia semiaperta, e comunque registriamo lo spot, ma mandarlo in onda non si può: si vede “tutto”. Intanto il noto manager Lele Mora offre i “suoi” personaggi al partito, ma decidiamo di utilizzare solo il famoso Costantino, lo accompagno a Roma e facciamo un appello contro gli Ogm. Alto livello.

CAMPAGNA ELETTORALE. Operazioni d’immagine a parte, imposto la campagna sulla difesa degli anziani e sulla moralizzazione della vita pubblica, i temi che avevano fatto la mia fortuna in televisione, uno dei miei slogan è “Aria pulita in Parlamento” . Mi faccio tutti i mercati rionali, il pubblico mi riconosce e si divide. Qualcuno mi rinfaccia di essermi venduto ai comunisti, «da te non me l’aspettavo» , altri mi sostengono, «sei una brava persona e ti voto» . In ogni caso, è forse l’unico momento in cui ti sembra di avere un contatto reale con gli elettori: li incontri, ci parli. Ti illudi di aver fatto la scelta giusta, sogni un futuro da Martin Luther King, ti immagini di arringare l’Aula gremita, «…ho fatto un sogno…» . Ma la realtà è molto più prosaica, i primi schiaffoni arrivano da quelli che dovrebbero essere dalla tua parte: i compagni di partito. Nel mio caso, tal Fiorello Cortiana. In sostanza, i vertici dei Verdi avevano deciso di sacrificare la sua candidatura – due legislature da senatore, si era già fatto per offrirla a me. Sul suo blog telematico cominciano a uscire commenti non proprio gentili nei miei confronti, si ironizza sul mio passato in Padania e, soprattutto, sui miei programmi televisivi, evidentemente non abbastanza chic. Lo stesso Cortiana, parlando di me al Corriere della Sera e a Repubblica, se ne esce con frasi tipo «un conto è fare tivù popolare, un altro è darsi al populismo, io vengo da un’altra cultura politica, sono l’unico verde pubblicato su Le Monde, giro tra la Biennale di Venezia e i summit nel Kerala», e ancora «lui va in onda con la sciura Maria e fuori dalla Lombardia non lo conosce nessuno». A parte che proprio in Lombardia ero candidato, e dunque non mi sembrava così squalificante essere conosciuto sul territorio, mi infastidiva il riferimento alla “sciura Maria”, quasi fosse un demerito poter contare sull’affetto della gente semplice. Quindi rispondo, ribadendo l’orgoglio per le mie trasmissioni “tutte vecchiette e porchetta”. Chiusa lì? Macché. Mi chiama Pecoraro Scanio, arrabbiatissimo: «Ma sei matto?» Io: «Matto? E perché?» «Ma dai, quel riferimento alla porchetta…». «La porchetta?». «Sì, hai detto che sei orgoglioso della tua tv alla porchetta». «E allora?». «Come e allora ? Qui ci giochiamo i voti dei vegetariani, ti rendi conto? Non dire più una cosa del genere!». Da allora, niente più porchetta. E comunque, dopo la vittoria del centrosinistra del 10 aprile, ci saremmo trovati nella sede della Federazione dei Verdi, a Roma, per una chat post elettorale di ringraziamento. E avremmo festeggiato la vittoria di Prodi e del centrosinistra, e dunque anche nostra, a forza di cubetti di mortadella. Ma lì i vegetariani non vedevano. E poi, chissà, forse quella mortadella era un segno premonitore. Comunque, tenere bene a mente: porchetta no, mortadella sì. In realtà, io risultavo essere il primo dei non eletti. Ma i propositi di rinuncia di Monguzzi non erano in discussione, lui è uomo di parola. Quindi mi organizzo e prendo casa a Roma, in piazza Navona, me l’affitta un collega giornalista. Monguzzi vuole partecipare da deputato all’elezione del Presidente della Repubblica, poi si sarebbe fatto da parte. E così succede: Napolitano diventa Capo dello Stato, io divento deputato.

INGRESSO A MONTECITORIO. Il mio esordio in Parlamento non è che me lo ricordi perfettamente. È il 6 giugno 2006, un martedì: mi sveglio emozionato, resto tutto il giorno in uno stato semi-onirico. Mi ero comprato un vestito per l’occa sione, duemila euro spesi da Canali, volevo fare bella figura. Arrivo in piazza Montecitorio, varco il portone. Ed entro in quello che mi sembra un altro mondo. I grandi corridoi, i soffitti a volta, i tappeti, ogni poltrona che t’immagini essere un pezzo di storia. Lo sfarzo. Vado subito nell’enorme salone Transatlantico, quello così famoso, dove tutti s’incontrano nelle pause delle sedute: i commessi e gli impiegati che camminano velocemente, i parlamentari che passeggiano, ecco Bertinotti, ti giri e vedi D’Alema. Faccio capannello con gli altri neo eletti, scherzo con un altro novello, Maurizio Bernardo, lui è di Forza Italia, ci chiamiamo “onorevole” per sentire come suona, «Allora, onorevole Bernardo…», «Eh, caro onorevole Poletti…», poi scoppiamo a ridere. Percorriamo il “corridoio dei Presidenti”, una galleria in cui sono affissi i ritratti di tutti i presidenti della Camera, e ci scopriamo un po’ intimoriti, sono persone che hanno fatto l’Italia. Poi vediamo il quadro con la Pivetti e ci tranquillizziamo. Finalmente entro in aula, cerco il mio posto, eccolo, mi siedo. Sì, sono commosso, altro che storie. C’è un’ “informativa urgente del governo sul grave attentato subito da una pattuglia del contingente militare italiano a Nassiriya”. E io sono qui. A un certo punto Bertinotti, che della Camera è presidente, declama che «il deputato Carlo Monguzzi, eletto consigliere regionale, ha comunicato, con lettera inviata alla Presidenza, di voler rassegnare le dimissioni dalla carica di deputato». Ecco, tocca a me. E infatti si passa alla proclamazione dei deputati subentranti. Al posto di Bertinotti c’è ora il vicepresidente Leoni, ma va bene lo stesso. È lui che pronuncia il mio nome: «…e proclama quindi deputati Mauro Betta, Giovanni Cuperlo, Stefano Pedica, Roberto Poletti …». Adesso è vero, sono ufficialmente onorevole, l’ “Onorevole Roberto Poletti” : vi rendete conto? Trema Parlamento, che adesso ti aggiusto io!

PRIMO VOTO IN COMMISSIONE. Ma la giornata non è finita. Conclusa la seduta in Aula, un altro onorevole mi prende per un braccio e mi accompagna al piano di sopra. Lì si trova la sala in cui si riunisce la Commissione cultura, scienza e istruzione e io, aderente al gruppo parlamentare dei Verdi, ne faccio parte, senza che nessuno mi abbia chiesto se mi sta bene o meno, ma questo è un dettaglio. “Commissione cultura, scienza e istruzione” : e dici poco? Come inizio non è mica male. Siamo in 46, c’è da eleggere il presidente. «Ricordati: Folena…». Come? «Folena, si vota Folena, quello di Rifondazione». In effetti, mi avevano già consegnato un foglio con i nomi di tutti quelli che andavano votati, presidenti e vicepresidenti e segretari di Commissione, il mio primo compito è dunque quello di copiare l’indicazione ricevuta. Vabbè, sono appena entrato, mica posso pretendere di fare subito di testa mia. E dunque, che Folena sia. Come avevo detto? Che il Parlamento adesso lo aggiusto io? Sì, magari da domani. Guardo e riguardo il tesserino e mi sento un re. L’ho appena ritirato: copertina rigida, bordeaux, con stampigliata la scritta “Camera dei deputati”, somiglia un po’ a quello dei giornalisti, l’altra casta cui appartengo. Certo, il fotografo ufficiale di Montecitorio non è che abbia fatto un capolavoro, ma in effetti sono io che non vengo granché bene, e poi non mi riconosco, mi sembra quasi d’essere mascherato. Vabbè, chissenefrega, mi consolo con la medaglietta d’oro da deputato, c’è su scritto il mio nome, mi dicono che la cita anche Pirandello, controllo ed è vero, “…Brancolino brancicava con le dita irrequiete la medaglietta da deputato appesa alla catena dell’orologio…” . Io la tengo nel portafogli. Passeggio per il Transatlantico ostentando nonchalance , anche se ancora non mi sono abituato. Vedo un drappello di cronisti parlamentari che taccuini alla mano accerchiano non so chi, passo oltre. Poi noto tre colleghi deputati che sembra stiano giocando a figurine, uno lo conosco, mi avvicino. «E questa ce l’hai?». «Sì, certo». «E quest’altra?» «Ma no, non vale più, l’hanno abolita». «Eh, ma io la uso ancora…». Guardo meglio, e non sono figurine, ma tessere. Tesserine tipo le carte di credito, necessarie per godere di questo beneficio o quell’esenzione. Ascolto, cerco di capire, mi faccio spiegare. C’è poco da fare il moralista: questa è la dotazione dell’onorevole, “alla fine sono strumenti di lavoro”. Mi vengono in mente le mie trasmissioni contro i privilegi dei politici, ma affronto la mia coscienza con decisione, “oh, è un mio diritto, io sono qui per fare l’interesse della gente, è giusto che possa disporre di queste cose, e poi in questo modo non siamo ricattabili, giusto?”. E insomma, passa neanche un minuto e la coscienza è già diventata complice. Sentirmi in colpa? Giusto un filo, ma mi hanno detto che poi passa.

LE TESSERINE DEI MIRACOLI. Comunque, comincio il giro. Prima tessera da ritirare, è quella con cui si vota in Aula. Fondamentale, dunque. Ma mica solo per questo. Serve anche per mangiare e bere al ristorante di Montecitorio o al più informale self-service oppure alla buvette, il mitico bistrot extra-lusso dai prezzi che nemmeno in una trattoria di ultima. Il conto te lo scalano dallo stipendio, ma non si rischia certo di andare in rovina: grazie allo speciale trattamento riservato a noi deputati, con 10 euro si mangia eccome, anche se il costo reale per le casse statali è di circa 90 euro a pranzo. Che vuoi che sia, d’altronde sono un Verde: l’alimentazione prima di tutto, i soldi vengono dopo. Ma attenzione a non dimenticare la card da qualche parte, che poi qualcuno dei colleghi te la usa per mangiare e bere a sbafo, salvo poi scusarsi – “ah, ma allora questa è tua?” – quando lo scopri. Esagerazione? Sarà, ma a me è capitato. La tesserina in questione serve anche per l’aereo gratis. Basta esibirla in qualunque biglietteria per fissare il volo senza sborsare un centesimo, altrimenti vai direttamente all’agenzia di viaggi interna al Parlamento, che è anche più comodo. A proposito di aeroporti, la Sea, società che gestisce quelli milanesi di Linate e Malpensa, provvede direttamente a inviarmi la tessera che permette di parcheggiare l’auto negli spazi riservati, “parcheggio vip A di Linate e parcheggio Vip dei terminal 1 e 2 di Malpensa”. Naturalmente anche il treno è gratis, ma lì basta il documento da parlamentare. Meglio, così non spreco un altro spazio nel portafogli. E comunque, sulle onorevoli trasferte ci torneremo. E l’autostrada? Per quella devo farmi dare un altro documento, il tesserino Aiscat: arrivi al casello, lo sventoli in faccia all’addetto – o lo inserisci nella fessura apposita tipo bancomat, che è anche meno imbarazzante – e d’in canto la sbarra si alza. Volendo, puoi richiedere anche un Telepass, quel piccolo marchingegno che permette di oltrepassare le barriere autostradali senza nemmeno fermarsi: il bello è che puoi installarlo sull’automobile che vuoi, anche quella della nonna. In realtà, è un servizio a pagamento, ma poi te lo rimborsano. A me non serve.

AUTO BLU E PARTITE GRATIS. Per quanto riguarda la circolazione in città e insomma, questo traffico è diventato insopportabile, non vorrete mica che il nostro lavoro di parlamentari sia intralciato da file interminabili, no? -, per circolare in città, dicevo, possiamo naturalmente utilizzare le corsie preferenziali, a Roma e a Milano. Nella Capitale c’è anche stata un po’ di polemica, perché i permessi per entrare in centro, nella Zona a Traffico Limitato (la ZTL), sono stati ridotti. E c’è chi si è arrabbiato. L’onorevole Riccardo Pedrizzi, per esempio, che ha inviato a tutti i parlamentari una lettera su carta intestata “Camera dei deputati – Commissione finanze”, in cui s’invitava a sottoscrivere una protesta poiché «le nuove disposizioni penalizzano oltremisura tutti i parlamentari che vedono condizionati i loro movimenti». E perché? Perché un tempo ciascun deputato o senatore poteva estendere il proprio permesso ad altre due targhe, cosa adesso non più possibile. «È evidente che non vogliamo sottrarci all’obbli go di introdurre nel centro storico non più di una singola auto per volta, ma solo avere la possibilità di utilizzare a seconda delle esigenze l’auto di cui si dispone». Ben detto. «E la tessera Coni?». La tessera Coni? E a che cosa mi serve? «Per andare gratis alla partita». A parte che il calcio non m’interessa, ma non era stato cancellato, quel meccanismo? «Ma no, che con quella allo stadio ci entri sempre. E anche alle altre manifestazioni sportive». E allora va bene: faccio richiesta della tessera Coni, che subito mi arriva. C’è da dire che san Montecitorio si premura di accompagnarci dentro la vita parlamentare, nel cuore dello Stato, evitandoci qualunque preoccupazione. Privilegi? Ma no, è per poterci concentrare solo sul miglioramento della vita dei cittadini. Quella rottura di scatole che è la dichiarazione dei redditi, per esempio: niente commercialista né conseguente par- cella. “Caro collega – mi scrivono i deputati questori – abbiamo il piacere di informarti che anche quest’anno è stato organizzato un servizio di assistenza fiscale”. In teoria trattasi di “consulenza”, in pratica il modulo me lo compilano loro. E devo anche sbrigarmi, perché fra pochi giorni scade il termine. Metti poi che non ti senti bene, e scusate se è poco onorevole, ma qui mi tocco. In ogni caso, nessun problema: c’è la Card Medital, che garantisce un servizio medico d’urgenza “24 ore su 24, 365 giorni l’anno, ovunque si trovi nel territorio in cui è operativa la struttura Medital”, basta chiamare il numero verde 800.65.25.85. Struttura privata, che fa parte della Europ Assistance Italia spa. Dunque paga lo Stato, cioè i cittadini, e ne usufruiamo noi deputati (speriamo il meno possibile). Ma un parlamentare moderno, un politico al passo coi tempi, dove va se non è capace di usare il computer? Pronti: ecco il corso d’informatica, gratuito. E le lingue? Per quelle ci sono le lezioni private e individuali. Con insegnante madrelingua, a qualunque orario e in qualunque luogo, anche a casa. Manco a dirlo, paga lo Stato. Si può scegliere l’idioma che si preferisce: inglese, francese, tedesco, ma anche russo e giapponese. Sì, giapponese. È quello che ho scelto io, già sapevo che ci sarei andato in missione parlamentare. E poi, l’Oriente è sempre stato la mia passione. Dunque, contatto la bravissima Asako Ishihara, che m’insegna i rudimenti per comprendere che cosa si dice a Tokyo e dintorni. In realtà un anno e mezzo dopo la mia elezione, viste le inchieste giornalistiche e l’incazzatura montante dell’opinione pubblica, viene recapitata una circolare dall’ufficio di presidenza. In sostanza, si dice che “occorre dare un segno, d’ora in poi almeno i corsi di lingua ce li dobbiamo pagare”. Quanto? Otto euro all’ora, quando ai comuni mortali una lezione individuale costa almeno il quadruplo. Comunque, per incanto, i parlamentari aspiranti multilingue quasi scompaiono. Perché poliglotti va bene, ma soltanto se è gratis.

IL DEPUTATO PAGA MENO. Un’altra cosa che subito mi dà la misura del nuovo mondo in cui sono entrato è quel sottobosco di negozi e aziende, romane ma non solo, che s’incuneano nella posta elettronica per offrire sconti e facilitazioni e promozioni. Ho appena attivato la mia nuova e-mail da deputato, che cominciano ad arrivare avvisi a decine. C’è la sartoria che si offre di confezionarti l’abito su misura con lo sconto del 40 per cento, l’ottico che su occhiali da vista e lenti a contatto ha pensato per il “gent.mo onorevole” a una riduzione di prezzo del 30 per cento, l’ Associazione parlamentare amici delle nuove tecnologie presieduta dal sempre impegnatissimo Franco Grillini che “appronta una convenzione con l’azienda leader nella produzione di palmari e cellulari” e garantisce uno sconto del 10 per cento, la casa automobilistica straniera che “comunica di poter praticare particolari condizioni per l’acquisto di autoveicoli nuovi presso la rete dei concessionari”. Per i libri, 20 per cento in meno su ogni titolo, fino al 30 per cento sui tomi universitari, che così l’onorevole spende meno anche per far studiare il figliolo. Potrei continuare per pagine e pagine, ma ci siamo capiti. Telefono a un amico, gli racconto i miei primi giorni da deputato. «Eh, Roberto – mi prende in giro -, vedrai che a forza di star seduto alla Camera e con tutti ‘sti benefit, ti verrà una pancia grande così». Ma va, rispondo, io ci tengo, alla forma fisica. A parte che, per ritemprarsi nelle pause di quello che al di là di tutto prevedo essere un lavoro comunque duro e frenetico, c’è anche una sauna, proprio sotto l’Aula, neanche tanto grande ma ben attrezzata. E poi ci sono le mille attività organizzate dal Circolo Montecitorio, quello di via Campi Sportivi, poco lontano dal Foro Italico. «È un po’ il nostro dopolavoro – spiego al mio amico – ma non immaginarti un circolo da ferrovieri. È un club elegante, roba di lusso». C’è il campo da calcetto, quello da golf, palestra, piscina, basket, tennis. Poi ristorante e club-house. Certo, l’ambiente può apparire un po’ retrò: oltre ai deputati in carica, per cui l’iscrizione è gratis, è frequentatissimo dagli ex, che pagano una quota di ben 24 euro al mese. A volte qualcuno esagera, come quel compleanno di non so chi, con gli amici – «esterni all’amministra zione di Montecitorio» , si scusa per lettera il festeggiato – che gli fanno trovare una lap-dancer, una di quelle ballerine che in genere si esibiscono dimenandosi intorno a un palo, e questa allieta i cento invitati con uno strip da mozzare il fiato. «SEGUIRÀ BUFFET» Ma queste sono goliardate. Il Circolo, in realtà, è necessario al benessere psicofisico di noi deputati, e anche dei senatori. E le iniziative più interessanti ci vengono comunicate con circolari distribuite brevi manu proprio agli “Ill.mi Senatori e Deputati” . Come il corso di Pilates, sistema di allenamento che migliora la fluidità dei movimenti e anche il “coordinamento fisico e mentale”, che quando c’è da votare altroché se è importante. E questa cos’è? Ah sì, questa è interessante. «Caro collega – mi scrive l’onorevole Pierluigi Mantini anche in vista dei Campionati Europei Parlamentari di Tennis, che si terranno in Romania, è opportuno riprendere un programma di incontri e di allenamenti, per i quali sono disponibili i maestri presso il Circolo Montecitorio. Sembra anche utile programmare un torneo che consenta di valutare i nuovi parlamentari (ehi, sta parlando di me!…) al fine di allestire al meglio le squadre. Per discutere su questi temi, si terrà una riunione presso gli impianti sportivi del Circolo, a cui abbiamo il piacere di invitarTi. Seguirà buffet». Naturalmente.

Non era mai successo che un politico, un deputato, raccontasse la verità sugli scandalosi privilegi riservati ai mille inquilini del Palazzo. Sarà stato il pudore, sarà stato il desiderio di non dare pubblicità al trattamento di cui godono e di cui vogliono continuare a beneficiare, gli onorevoli se n’erano sempre guardati dal rivelare ciò che effettivamente sono: prìncipi con poca nobiltà e tanti quattrini in tasca. Quattrini non meritati dato il nulla prodotto dai legislatori e dato il loro disinteresse per qualsiasi problema dei cittadini. Roberto Poletti, giornalista e conduttore televisivo di successo, eletto deputato nelle liste dei Verdi di Pecoraro Scanio nel 2006, dopo un biennio da peone durante il quale ha vissuto la noia delle aule e ha costatato l’inutilità del proprio ruolo, ha deciso di raccontare tutto in questa inchiesta senza precedenti. E lo ha fatto (con l’aiuto di Andrea Scaglia) non con il livore dello spretato, di colui che disgustato abbandona la Casta e ci sputa sopra, ma col disincanto e la levità del grande giornalista e lo scrupolo del cronista di razza. Nei due anni in cui ha frequentato il “tempio della democrazia” (si fa per dire), Roberto ha osservato e annotato quanto gli accadeva intorno e ha riversato gli appunti su queste pagine. Ne è venuto fuori un quadro per certi versi desolante e per altri divertente, ammesso possa divertire la realtà delle nostre Camere ridotte a un mercatino dove ciascuno arraffa e se ne infischia del proprio mandato. Poletti e Scaglia descrivono non soltanto la bella vita, la vita bella del deputato che, dopo aver vinto le elezioni si accorge di aver vinto al superenalotto, ma anche gli stanchi riti dell’assemblea dispersivi di ogni sostanza e rispettosi del formalismo più vacuo. La principale preoccupazione (e occupazione) dell’onorevole consiste nell’usufruire di qualsiasi benefit concesso a quelli del suo rango. Davanti alle infinite opportunità offerte alla gentile clientela di Montecitorio, le categorie destra e sinistra vanno a farsi benedire, lasciando il posto all’unanimità. Progressisti e conservatori o moderati, o come li volete definire, litigano su tutto tranne che sulla spartizione. Lascio al lettore il piacere e la rabbia di scoprire a quale livello sia sceso il barbonesco mondo dei poltronisti professionali. Lo incoraggio appena fornendogli un’anticipazione: lo stipendio del povero rappresentante del popolo ammonta a oltre 20 mila euro il mese, ovviamente netti. Per cinque giorni da oggi, Poletti e Scaglia vi “mostreranno il mostro” cui è affidato il nostro destino di italiani. Il mostro reagirà soprattutto contro Poletti che verrà accusato di essere un pentito o, peggio, un traditore mentre era, ed è rimasto, soltanto un giornalista. Ecco perché ai privilegi ha preferito il mestiere. Chi lo toccasse, farebbe i conti con noi.

LA SCHEDA. Il Giornalista professionista classe 1971, Roberto Poletti è uno dei conduttori tv più conosciuti e seguiti dal pubblico del Nord Italia. Nelle sue trasmissioni dallo stile graffiante e irriverente, dà voce al pubblico e lo mette direttamente a confronto con i politici. Attualmente lavora a Telelombardia: proprio qui, nel 1997, aveva mosso i primi passi nel mondo della tivù. Tante e diverse le esperienze professionali: tra le più significative, L’Indipendente di Vittorio Feltri, la direzione di Radio Padania, l’inviato a Radio 24, programmi di grande successo nelle emittenti televisive 7 Gold e Antenna 3. Nella primavera 2006 l’elezione come indipendente nel partito dei Verdi alla Camera dei Deputati.

L’INCHIESTA In questa inchiesta scritta con il giornalista di Libero Andrea Scaglia, Poletti racconta in prima persona la sua esperienza da deputato, le assurdità cui si è trovato davanti, i benefìci di cui ha goduto. In questa prima puntata, parla della campagna elettorale e dei tanti “tesserini” di cui gli onorevoli dispongono per poi accedere ai più incredibili privilegi. Nei prossimi giorni, il seguito di questa “commedia parlamentare”: dagli uffici alle discussioni inutili, stipendi e viaggi di Stato e rapporti coi giornalisti, ripicche e pettegolezzi di Montecitorio, oltre ai suoi incontri con i “pezzi grossi” della politica italiana»

A questo punto una riflessione :

– La Camera dei deputati è composta da 630 deputati eletti dal popolo. Di questi, dodici sono eletti nella circoscrizione estero, gli altri 618 in Italia.

– Il Senato della Repubblica è composto da 315 senatori eletti dal popolo. Di questi, sei sono eletti nella circoscrizione estero, gli altri 309 in Italia.

Poi abbiamo la pletora delle P.A., Regioni, Provincie ect. , ergo una legione che ha quanto sopra descritto a spese dei contribuenti, a proposito com’era la storia del #renzinononcifregare in merito alle riforme ed ai tagli.

Una vecchia battuta, leggermente greve, ma che rende l’idea…

·         Chiudere Radio Padania!

Di Maio spegne Radio Padania: "Stop alle trasmissioni nazionali". Il ministero dello Sviluppo ordina all’emittente della Lega la sospensione dell’attività sulla rete digitale che gli consentiva la diffusione in tutta Italia, aggirando la licenza. Fabio Tonacci l'1 maggio 2019 su L'Espresso. Luigi Di Maio spegne Radio Padania. Con una lettera della Direzione generale per i servizi di radiodiffusione e postali, il ministero dello Sviluppo economico ha ordinato all'emittente della Lega la sospensione immediata delle trasmissioni sulla rete digitale. Quella, per intenderci, che finora - in barba ai vincoli della licenza di cui è in possesso - le ha consentito di essere ascoltata in tutto il territorio nazionale, da Bolzano a Palermo, da Bari a Trieste. E di trasformarsi, dunque, da stazione locale a megafono nazionale della campagna elettorale permanente di Matteo Salvini. Insomma, è ormai chiaro come Radio Padania, e le sue molteplici anomalie, sia diventata terreno dell'ennesimo braccio di ferro tra i due vicepremier. Innescato dalla notizia, rivelata da Repubblica a gennaio, della richiesta al Mise fatta dall'emittente di Salvini per ottenere i contributi pubblici a sostegno del pluralismo dell'informazione. Così si è scoperto che il governo, mentre toglieva i fondi statali a Radio Radicale spingendola fin sul baratro dello spegnimento, si apprestava a staccare un assegno da almeno 115.000 euro a Radio Padania. A quel punto Di Maio ha provato a bloccare tutto annunciando un supplemento di istruttoria, ma i suoi dirigenti non hanno trovato motivi legali cui appellarsi perché la domanda di Radio Padania era del tutto legittima. Poi il colpo di scena: la direzione dell'emittente che trasmette ancora dalla sede di via Bellerio a Milano ha rinunciato ai soldi, con una mail inviata nottetempo al Mise alla vigilia della pubblicazione delle graduatorie dei beneficiari. "Lo abbiamo fatto per evitare ulteriori polemiche", è stata l'ermetica spiegazione dell'amministratore Davide Franzini. Adesso, però, si intuisce di che risma fossero queste "ulteriori polemiche". La lettera del dirigente del Mise Giovanni Gagliano, indirizzata alla società cooperativa Radio Padania e in copia anche all'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni per eventuali provvedimenti, ne scoperchia infatti il presunto sistema illegittimo. Scrive Gagliano: "Si invita codesta società a sospendere immediatamente la trasmissione dei propri contenuti al Consorzio Eurodab (autorizzato, in ambito nazionale, a trasmettere con la tecnica del digitale, ndr) e si comunica che, in caso di reiterata violazione, questo ministero procederà all'avvio del procedimento di revoca dell'autorizzazione rilasciata alla Radio Padania Libera il 28 agosto 2018". Se non spengono il segnale digitale, lasciando aperto solo quello analogico tradizionale e geograficamente limitato, rischiano di spegnersi del tutto. Hanno sette giorni di tempo per disattivarlo, lasso entro il quale possono presentare al ministero controrepliche e documenti che provino la legittimità del loro operato. La licenza di cui è in possesso oggi Radio Padania, dopo la vendita nel 2016 della concessione per "radio comunitaria nazionale", vale solo per la fornitura di contenuti in ambito locale, quindi non può coprire l'intero territorio italiano. Appoggiarsi a Eurodab senza avere il permesso per farlo, come sostiene il ministero guidato da Luigi Di Maio, è stato un modo per far campagna elettorale a vasto raggio. Ad esempio mandando in onda - per citare il palinsesto di due giorni fa - le interviste al tesoriere leghista Giulio Centemero e al commercialista bergamasco Alberto Di Rubba. Entrambi uomini di fiducia di Matteo Salvini.

·         Chiudere Radio Radicale!

Radio Radicale, la voce della Repubblica che il governo vuol chiudere. Un archivio immenso, unico in Italia: 540 mila registrazioni, 43 anni di eventi politici e giudiziari registrati a tappeto - prima dello streaming, prima del grillismo. Ma Di Maio le ha dimezzato i finanziamenti e predica: si aprano al mercato. Come se le sedute parlamentari potessero avere un mercato, scrive Susanna Turco il 28 gennaio 2019 su "L'Espresso". È l’antidoto all’invasione del selfie, del franco coloniale, del Lino Banfi che è in noi. La difesa all’assalto dell’iper presente. La paziente e ossessiva opera di impilatura, giorno dopo giorno, della cronaca di un Paese: file audio contro i piatti di pastasciutta su Instagram, microfoni contro le sfilate di divise altrui, fino a totalizzare un archivio audio-video da oltre 845 mila pezzi e 540 mila registrazioni che rappresenta - forse più di qualsiasi altro - l’Italia degli ultimi quarant’anni. Eccola, Radio Radicale. Antica come la prima Repubblica, all’avanguardia al punto che in lei ha creduto pure Google, che le ha finanziato con 420 mila euro un progetto sperimentale che si concluderà l’anno prossimo. Tentacolare, in qualche modo: anomala, soprattutto. Forse è per questo che il governo gialloverde ha deciso di tagliarle i finanziamenti - come farà con altre realtà non allineate, dall’Avvenire al Manifesto.

Andreotti e Brunetta. Fastidiosissimo sarebbe però scivolare nella retorica, perché l’unica cosa assente dai corridoi della radio è appunto la retorica. C’è invece tutto il resto, all’ultimo piano in un palazzo accanto alla stazione Termini, proprio dove una volta ai tempi di Roma città aperta la terribile Banda Koch interrogava e torturava. Una minutaglia frenetica che si fa mondo. Gente che entra e esce in una totale orizzontalità dei ruoli, fogli e foglietti appiccicati sulle bacheche, manifesti, fili elettrici, avvisi, spaghi, carrelli, armadi, divieti di fumo si suppone infranti, ripostigli traboccanti di audiocassette, video, nastri, scatole di cartone, scritte a penna. L’effigie di un Renato Brunetta in versione beato, e sotto la scritta “ovunque proteggi” (il parlamentare azzurro è l’autore di uno degli emendamenti salva radio) e, non distante, una robusta immagine di Andreotti. Dice: e che ci fa Andreotti? «È stata proprio Radio Radicale a smentire Andreotti. Una delle rare volte, forse l’unica, in cui è accaduto». La voce fonda della spiegazione viene dalla stanza all’angolo, una scrivania da un mare di carte dietro cui è sepolto Massimo Bordin, pilastro della radio e di Stampa e Regime, la rassegna stampa alla quale il premier Giuseppe Conte ha dedicato sontuosi aggettivi («articolata, dettagliata ed efficace», ha detto prima di concludere che i finanziamenti, comunque, non arriveranno - Bordin ricambia definendolo «il nostro acuto presidente del Consiglio»). Ecco l’aneddoto: «Era il 1984, alla festa dell’Unità ci fu un dibattito sulla Germania in cui Andreotti si era lasciato andare alla citazione: “La Germania la amo talmente che mi piace tantissimo avercene due, invece che una”. Naturalmente la cosa non fece piacere ai tedeschi, e si scatenò una polemica. Andreotti smentì, disse: “Ma quando mai ho detto una cosa del genere!”, sicuro del fatto suo, anche perché il dibattito era in tarda serata e la battuta era alla fine dell’incontro, quindi figuriamoci se c’era qualcuno che l’aveva ascoltata. E invece c’era Radio Radicale. Ecco, anche questo vuol dire essere servizio pubblico».

Da Salvini al Csm. Quell’Andreotti del settembre 1984 è tra i 2.117 interventi del sette volte presidente del Consiglio che si trovano sul sito della radio. Ma, per una volta, il divo Giulio è uno dei tanti. Accanto a 43 anni di lavori parlamentari. Accanto a Matteo Salvini che spunta per la prima volta a fine 1998 in una riunione del “Blocco padano per Milano” in cui dice che «a mio giudizio il regime totalitario è anche quello italiano», e la seconda a fine 1999, al Quinto congresso della Lega, quando proclama: «Con o senza Formentini, la Padania la faremo, sicuramente». Sicuramente. Accanto a un Matteo Renzi che nel 1997 a un convegno del Ppi esclama: «Io più che morire democristiano vorrei vivere popolare». Accanto all’unico intervento in Parlamento di Eduardo De Filippo, conservato dalla radio che fino ai primi anni Novanta è stata l’unica a registrare i lavori di Camera e Senato. Accanto al Paolo Borsellino che in un incontro organizzato dall’Msi a Bologna, molti anni prima di essere ammazzato, disegnava la sua riforma della giustizia. Accanto a 38 discorsi di fine anno dei Capi di Stato (il più breve, quello famoso di Francesco Cossiga: cinque minuti). Accanto ai processi - da Cucchi a Rostagno, da Ilva alla Strage di Bologna - che fino a pochi anni fa era soltanto questa radio a registrare, una seduta alla volta, senza saltarne una altrimenti non ha più senso. Accanto alle sedute del Csm, di cui è tutt’ora l’unica a tenere traccia. «Le sedute del Consiglio superiore della magistratura le registriamo dalla metà degli anni Ottanta. Loro non hanno nulla, solo noi. Tant’è vero che negli ultimi Plenum ne hanno pure parlato, o si sono posti il problema: se loro chiudono, come facciamo? Dovremo provvedere», racconta Guido Mesiti, uno degli otto che lavorano all’archivio. «Sui processi, capita che magistrati e avvocati vengano da noi: perché tutt’ora, nei tribunali, non fanno gli indici delle udienze. Quindi, se vuoi per esempio ritrovare un interrogatorio in centinaia di ore, come fai?». E ci sono stati casi in cui la registrazione di Radio Radicale ha fatto fede rispetto a quella del tribunale - che magari era incomprensibile, o saltata. Episodio limite, racconta Mesiti, quello attorno al presunto bacio Riina-Andreotti: «La procura di Palermo mandò la polizia ad acquisire materiale perché Andreotti era stato in quel periodo in tutta una serie di Feste dell’Amicizia, organizzate dalla Dc: volevano avere gli orari precisi dell’inizio effettivo della registrazione per capire se Andreotti avesse avuto un margine nei suoi spostamenti». Oggi, grazie alla tecnologia, il mare di 540 mila registrazioni è conservato (quasi tutto) in un unico server (con un altro di back up), mentre la copia fisica è divisa tra un hangar ai confini della Capitale e gli armadi della redazione. Tutto nasce, in fondo, da una modalità proto-grillina. Racconta Bordin: «Quando la radio nasce, insieme con l’ingresso dei radicali in Parlamento, il colpo mediatico di Pannella è quello di rappresentarsi come un deputato che accetta di sedersi in uno studio radiofonico: e il primo che gli fa una domanda, e lui gli risponde. Il che non era affatto una cosa scontata, assolutamente, rispetto alla forma di comunicazione politica dell’epoca». Oggi, l’equivalente sarebbe lo streaming. Allora, era l’onda delle radio libere, quelle della comunicazione diretta, che oggi si è spostata sui social.

Servizio pubblico. Su quella spinta, Radio Radicale ha cominciato a registrare tutto, a tappeto: e nel giro di qualche anno si è ritrovata a diventare servizio pubblico, pur non essendolo tecnicamente. Racconta Bordin: «Noi abbiamo detto subito chi eravamo, come la pensavamo. E siamo arrivati al paradosso che una radio di partito faceva più servizio pubblico del servizio pubblico, perché il servizio pubblico era più di partito che la radio di partito. Questa è la verità». Più imparziale della lottizzata Rai, insomma. In questi 43 anni, in effetti, la radio ha effettuato una specie di copia della realtà, della somma degli eventi politici, istituzionali, partitici, giudiziari. Una copia maniacalmente esatta. Il leader radicale Marco Pannella, del resto, s’arrabbiava se qualcuno si azzardava anche solo a sfumare gli applausi. «Se sono tre minuti di applausi, bisogna registrarli tutti e tre», ecco il diktat. Racconta Paolo Chiarelli, l’amministratore delegato: «Noi facevano l’integrale, mentre la Rai ha sempre solo conservato i servizi montati». Quella cosa, che allora sembrava solo mania, oggi è una ricchezza che non ha pari. Ogni giorno, gli eventi vengono registrati in giro per l’Italia e messi subito sul sito, poi nel giro di un giorno indicizzati, controllati, archiviati. Ancora Chiarelli: «Siamo partiti su cassetta, una fortuna perché da lì è stato più facile. Dai primi anni Duemila abbiamo digitalizzato, adesso abbiamo un sistema automatico - sviluppato insieme a una società che partecipa alla creazione degli stenografici della Camera - che opera una trascrizione multimediale dell’audio. In più grazie al finanziamento di Google, stiamo elaborando un sistema che estrarrà automaticamente i concetti chiave di una registrazione, sul modello di una agenzia di stampa. Insomma stiamo arrivando al compimento del lavoro iniziato nel 1976, quando ci dicevano che facevamo uno sforzo inutile. Stiamo creando un sistema che rende completamente fruibile tutto». Sul modello Einstein: tutti sanno che qualcosa è inutile, finché non arriva qualcuno che non lo sa, e la rende un patrimonio.

I numeri. Adesso, però stanno per arrivare i tagli. Già è operativo il primo: dal Mise per il 2019 sono stati erogati 5 milioni di euro, invece dei soliti 10. «E lì arriverà il nostro vero impoverimento. Nostro, e di chi non ci potrà più ascoltare», racconta il direttore Alessio Falconio. Alle pareti, dietro di lui, ci sono enormi cartine dell’Italia, divisa per zone. In ogni zona c’è un cerchietto, più grande, più piccolo, di colori diversi. «Sono i 250 impianti dai quali trasmettiamo. Una rete che tra affitti e utenze costa da sola 3,7 milioni l’anno». Tutta la radio, compresi i 52 dipendenti e 20 collaboratori che rappresentano un terzo delle uscite, e i 2 milioni necessari a coprire gli eventi, costa circa 12 milioni di euro, dice Chiarelli. Costi che oggi sono coperti da un lato dal contributo della Legge sull’editoria (4 milioni) e dell’altro con la convenzione erogata dal ministero dello Sviluppo economico, 10 milioni lordi, 8,2 netti (esiste dal 1994, fu decisa dal governo Ciampi, l’ultimo della prima Repubblica, e attuata da quello di Silvio Berlusconi). Adesso, il governo ha dimezzato la convenzione, per il 2020 è previsto il taglio completo dei fondi dell’editoria. Questo cosa significa? Dice Chiarelli: «Fino a maggio siamo coperti, perché il governo ci ha rifinanziato per 5 milioni, poi dovremo trovare una soluzione: o si chiude, o si cambia, si vedrà quale può essere la via d’uscita, ci stiamo lavorando. Ma, per come sono ripartiti i costi, lavorare con cinque milioni in meno è impossibile. Non è che puoi chiudere metà rete, o tagliare metà redazione, o eliminare l’archivio. E allora, come abbiamo detto ai Cinquestelle, tanto vale dirlo subito: se ritenete che questa cosa sia inutile, chiudetela. Scegliete. Ma non si può partire dai tagli».

Quale mercato? Veramente il premier Conte, seguito a ruota dal vicepremier Luigi Di Maio, ha detto che «bisogna aprirsi al mercato», i tempi sono cambiati. «Ma quale mercato? È come dire a una biblioteca di aprirsi al mercato delle librerie», spiega Falconio: «Il servizio pubblico non ha mercato, questo è evidente. Il servizio pubblico ha un mercato suo. Quale inserzionista pubblicitario potrebbe mai accettare che gli spot non vadano in onda perché, improvvisamente, si deve stravolgere il palinsesto per mandare in onda un’audizione in commissione Finanze del ministro Tria?». Vuol dire che la radio chiuderà? Bordin rifiuta di farsi prendere da sentimentalismi: «Questa radio ha combattuto per la propria sopravvivenza sin da quando è nata, e su più fronti, quindi nessuno si illuda, non verremo sopraffatti da crisi di panico. Crisi di noia, semmai: noia da combattimento. I Cinquestelle considerano i media tradizionali un nemico, e che possiamo farci? Mica possiamo cambiargli la testa, è un problema loro. D’altra parte, quelli che avevano le leve del potere in passato, mica erano amici nostri. Anzi, l’attacco più serio alla sopravvivenza di Radio Radicale venne nel 1996 dal governo Prodi, quando fecero quella buffonata di Rai Parlamento». Beh, ma non si è mai parlato di azzerare i finanziamenti. «Il governo di adesso è più diretto perché sono più rozzi, solo per questo. E lo dicono pure», spiega Bordin: «Hanno riqualificato a livelli da asilo infantile la categoria della obiettività della stampa, che poi si riduce alla questione che la stampa per essere obiettiva non deve parlare male del governo. E vabbè, questa è una cosa vecchia come il mondo: vogliono una stampa asservita. E lo vogliono rozzamente. Senza spazi di agibilità. Vediamo se riescono. Del resto, Radio Radicale non credo che gli piaccia, come non gli piace il Manifesto, come non gli piace l’Avvenire. Sono forme anomale, forze che possono portare allo spariglio. Quindi se possono farli fuori sono contenti». Così, semplicemente? «Le cose, in genere, sono semplici».

«Salvare radio radicale!» I ragazzi di Pannella credono nel miracolo. Al centro del congresso il futuro dell’emittente che rischia di rimanere senza finanziamento, scrive Valentina Stella il 23 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Il Partito Radicale è tornato a riunirsi ieri a Roma per l’ottavo congresso. Obiettivo: salvare Radio Radicale dopo che il Governo del cambiamento ha deciso di staccare la spina alla radio voluta da Marco Pannella, dopo 42 anni di attività e 20 anni di convenzione. Se entro il 21 maggio di quest’anno non ci saranno ripensamenti da parte di Palazzo Chigi, il servizio pubblico di informazione, “alternativo a quello sostanzialmente monopolista svolto dalla RAI” potrebbe essere messo a tacere. In centinaia si sono riuniti – e lo saranno fino a domani – all’Hotel Quirinale per scongiurare la chiusura, per combattere quella che, nella sua relazione introduttiva, il professor Giovanni Maria Flick ha definito «una delle battaglie più giuste», proseguendo: «di Radio Radicale abbiamo estremo bisogno in un momento di distrazione di massa. Esiste il sospetto fondato che si voglia eliminare una voce di pluralismo che è ritenuta evidentemente scomoda. Senza pluralismo non c’è democrazia e viceversa. Qui è in gioco il pluralismo delle fonti di informazioni non assoggettate al potere». La seconda relazione è stata affidata al professor Tullio Padovani, già professore di diritto penale presso la Scuola Superiore Sant’Anna: «il Partito Radicale è il mio partito. Ed è fondamentale la sopravvivenza di Radio Radicale che è un faro nella notte dell’ignoranza, della violenza, dell’ingiustizia, dell’iniquità, dell’intolleranza. Ho cercato Radio Parlamento per fare un confronto ma è impossibile pensarla come figura antagonista di Radio Radicale. Quelli al Governo non dicono di volerci sopprimere anzi auspicano il contrario ma di fatto ci sopprimono: ma è chiaro che siamo in presenza del “doppio legame” come sanno gli psichiatri che analizzano le sindromi schizoidi. La verità è che avrebbero voluto dirci “Signori, è finita la pacchia”, come direbbe un altro membro del governo. Fornendo Radio Radicale un servizio pubblico, in gioco qui è il dovere – non la libertà – di informare». E ha concluso: «non si paga per respirare e l’informazione vive nelle trasmissioni di radio radicale come respiro della democrazia. Purtroppo tocca rileggere 1984 di Orwell: vi ritroverete l’Italia di oggi, quella della piattaforma Rousseau e di Davide Casaleggio. Quello che potrà accadere è l’avanzata del peggio. Occorrerà attrezzarsi». Ha poi preso la parola il decano di Radio Radicale, forse l’unico superstite della prima redazione, colui che ogni mattina tiene incollati migliaia di noi alla radio per Stampa e regime, Massimo Bordin: «Radio Radicale nasce dall’idea di Marco Pannella di rifiutare il finanziamento pubblico ai partiti. Ed il DNA di Radio Radicale è quello di devolvere quel contributo a un servizio pubblico, che riguardasse l’informazione. Il presidente Conte ci invita ad andare sul mercato. C’è un piccolo problema: per un privato che volesse finanziare un servizio pubblico, il mercato non c’è. Non si può fare concorrenza alla Rai. Radio Radicale ha sempre dovuto lottare ma l’indipendenza che ha saputo garantire Pannella è senza pari nei modelli privati italiani. Oggi il tema delle dirette sta diventando un problema per qualcuno. Solo su Radio Radicale si può sentire quello che succede in Parlamento. A coloro che stanno al Governo dà fastidio far sentire quello che succede, ossia, ad esempio, che mandano capigruppo che non sanno dove stanno di casa la legge e la Costituzione, che discutono di una legge finanziaria senza presentare un documento scritto. Dicono che è un problema di soldi: Radio Radicale costa 15 milioni l’anno. Se è un problema di soldi, allora non si capisce come è possibile che nella legge in cui viene dimezzato il compenso per l’editoria, contemporaneamente lo stesso governo dà 80 milioni alla Rai». Sul futuro della Radio a parlare è stato Maurizio Turco, coordinatore della Presidenza del Partito: «è in atto un progetto in contrasto con principi costituzionali fondanti e contro i principi dello Stato di Diritto, siamo di fronte ad un progetto eversivo che non può essere ridotto alla contestazione, più o meno rumorosa, dei singoli provvedimenti ma che richiede tutt’altro tipo di lotta, una lotta radicale nonviolenta. Chiediamo che il servizio venga messo a gara. Siamo qui per chiedere che il servizio pubblico sia comunque fornito e che l’archivio di Radio Radicale sia alimentato, che il servizio venga messo a gara, che chi può ci aiuti ad arrivare alla fine dell’anno per salvare 45 anni di storia italiana. Voglio ricordare al Governo che è la convenzione che ci impedisce di stare sul mercato, perché impedisce di fare pubblicità. È difficile stare sul mercato senza poter fare pubblicità». Presente anche l’attore Rocco Papaleo: «sono qui perché Marco Pannella, il suo senso di libertà, le sue lotte mi hanno sempre suggestionato. Credo che tutti almeno una volta nella vita abbiano votato radicale. Io molte volte». E il cantautore Luca Barbarossa: «sono qui per amore, perché Radio Radicale è la nostra memoria». A sostegno di Radio Radicale anche la Camera Penale di Roma, con la presenza del presidente e vice presidente, gli avvocati Cesare Placanica e Vincenzo Comi. Oggi è previsto l’intervento del direttore di Radio Radicale, Alessio Falconio.

Se spengono Radio Radicale danno un colpo mortale alla libertà di stampa, scrive Piero Sansonetti il 24 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Radio radicale rischia di morire. Il rischio è altissimo. Se Radio radicale sarà spenta, la ferita per il sistema di informazione italiano sarà molto profonda. E sarà un colpo micidiale alle libertà di stampa. Ieri a Roma è iniziato l’ottavo congresso del Partito Radicale che viene dedicato interamente a questa battaglia di civiltà. Tra gli altri ha parlato Massimo Bordi, che è una delle voci più antiche di questa radio. Se a giugno la radio chiude non ascolteremo più la mattina la sua voce, roca e romanesca, raccontarci con sapienza e spirito critico cosa hanno scritto i giornali. La chiusura della raio provocherà la caduta brusca della qualità dell’informazione in Italia. E l’informazione di qualità, in Italia, non è una merce diffusa. Lavoro nel giornalismo da quasi mezzo secolo e ho visto chiudere tanti giornali. In genere per ragioni economiche. Giornali importantissimi nei quali io ho lavorato sono stati chiusi o almeno hanno sospeso le pubblicazioni. Penso all’Unità e a Liberazione. Hanno chiuso anche molte altre testate storiche, per esempio Il Mondo, Paese Sera, l’Europeo, il Borghese, il Popolo. Ogni volta che uno di questi giornali spariva dalle edicole il risultato era un indebolimento del sistema- informazione. Fortissimo. E anche un indebolimento della nostra democrazia politica. In Occidente la democrazia politica vive di informazione e vive di giornali, di radio, di Tv. Senza muore. Oggi anche i maggiori studiosi europei osservano come il sistema dell’informazione, in Italia, sia molto debole. Ci sono tre o quattro grandi giornali che svolgono ancora una funzione “generalista” e poi alcuni piccoli giornali, come anche il nostro, impegnati sul fronte dell’informazione con tutte le proprie forze, ma oggettivamente deboli. Al fianco di questi giornali c’è un certo numero di giornali di propaganda, che galleggiano bene nel mercato ma hanno modeste funzioni di informazione. Radio Radicale, che esiste da 42 anni, aveva – ed ha – una funzione assolutamente speciale. Copre le istituzioni e la politica a tutto campo. Con grande professionalità, in modo imparziale, completo. Offre alla società delle enormi possibilità di conoscere e una quantità grandissima di informazioni e di sapere. Non è possibile sostituirla. Cioè sostituire o surrogare il lavoro che fa. L’inventò Marco Pannella, che è stato tra i quattro o cinque personaggi più importanti della Repubblica italiana. Era il 1976, mancavano pochi mesi alle elezioni politiche. Era in corso un gran duello tra il Pci di Berlinguer e la Dc che aveva appeno messo a terra Fanfani e scelto Zaccagnini. Il duello poi finì in un’alleanza, un patto. In quel frangente Pannella decise di presentare il Partito radicale alle elezioni, sebbene l’impresa fosse quasi disperata. Alla tornata precedente, nel 1972, un paio di partiti di sinistra, piuttosto robusti, come il Psiup di Basso e Foa e il manifesto di Magri e Natoli, che teneva insieme i principali gruppi extraparlamentari, avevano fallito l’obiettivo. Insieme avevano raccolto quasi due milioni di voti ma non avevano superato sbarramento (che allora consisteva nella conquista piena di un collegio elettorale, senza l’aiuto dei resti: meccanismo complesso che spiegheremo bene un’altra volta). Pannella rischiò, anche se tutti lo sconsigliavano, ce la fece per pochissimi voti. In tutto ne raccolse meno di 400 mila ma riuscì a centrare il collegio pieno (credo a Roma, ma non sono sicuro) e mandò quattro deputati a rompere le scatole all’alleanza tra Dc e Pci, che controllavano più dei tre quarti del Parlamento. Segretario del partito radicale era Adelaide Aglietta, che credo sia stata la prima segretaria di partito donna di tutta la storia italiana. Donna combattiva, intelligente, appassionata, anche spigolosa, forse, ma molto mite, dolcissima. Prima delle elezioni del 1976 nessuna donna era mai stata né segretaria di partito, né ministra, né rettore di università, né Procuratore della repubblica. Pannella andò in Parlamento insieme ad Emma Bonino, che Pertini battezzò “il monello di Montecitorio”, alla Aglietta e, se ricordo bene, ad Adele Faccio. E organizzò un gran casino. Alla Camera tornò l’ostruzionismo, che era sparito dai tempi della legge truffa, cioè dal 1953. E’ alla vigilia di quella campagna elettorale che iniziò a funzionare Radio Radicale. Tenete conto che all’epoca le radio libere erano pochissime. La radio era solo Rai (primo, secondo e terzo) più radio Vaticana e Montecarlo. La Tv solo Rai (primo e secondo). Basta. Pannella puntò sull’informazione e riversò sulla radio tutto il finanziamento pubblico al partito che riusciva a mettere insieme. Disse: il finanziamento non è al partito ma a un servizio pubblico. Radio radicale è il servizio pubblico. Quando negli anni ottanta la radio stava per morire, Pannella riuscì a firmare una convenzione con palazzo Chigi che riconosceva il valore di servizio pubblico e in cambio dava un finanziamento. Ora il nuovo governo gialloverde vuole levare il finanziamento. Come ha deciso di levarlo ai giornali. La conclusione sarà la chiusura di radio radicale e del manifesto. Non credo che nessuno possa dubitare che se questo succederà sarà un attacco evidente e grave del governo all’informazione. Speriamo che tutto il mondo dell’informazione saprà mobilitarsi per difendere se stesso. Difendere Radio Radicale ( e anche il manifesto) vuol dire difendere se stesso. Speriamo che il governo ci ripensi. Che abbandoni, o metta in minoranza, le idee autoritarie e anti liberali che hanno ispirato il taglio a Radio Radicale.

Crimi: “Non vogliamo chiudere radio radicale, ma basta privilegi”. Il sottosegretario all’editoria conferma la “linea dura” del governo, scrive il 6 aprile 2019 Il Dubbio. “Nessuno vuole chiudere Radio Radicale. Nessuno vuole zittire, silenziare, limitare la libertà di espressione della radio. Chi sostiene il contrario lo fa per ignoranza o per interesse personale, di partito e d’impresa” ma bisogna “rimuovere il velo di ipocrisia sotto il quale si nasconde l’anomalia di una radio privata che si sostiene esclusivamente grazie ai soldi pubblici e che svolge un servizio affidatole a fronte di una proroga per legge senza alcuna valutazione dell’effettivo valore del servizio offerto”. Lo scrive su Facebook il sottosegretario all’Editoria Vito Crimi (M5s) che interviene sulla vicenda della radio che rischia di chiudere in assenza del contributo pubblico. “Nessuno – ribadisce – mette in dubbio il prezioso servizio che ha svolto Radio Radicale, un servizio che però avrebbe potuto svolgere in modo analogamente prezioso qualunque altra radio se si fosse trovata nelle stesse condizioni privilegiate di ricevere un contributo pubblico ininterrottamente dal 1994 prima di 5 milioni e poi di 10 milioni di euro l’anno, a cui si aggiungo i 4 milioni di contributo dalla Presidenza del Consiglio, a fronte di una gara e relativa convenzione stipulata il 18 novembre 1994 e poi prorogata per legge senza soluzione di continuità”. Per Crimi, “oggi in Italia c’è una radio privata che riceve dallo Stato, ogni anno, 14 milioni di euro. E li riceve senza l’obbligo di dimostrare come li spende. 204 milioni complessivamente ricevuti dal Mise dal 94 senza alcun obbligo di rendicontazione. Li spende tutti per sostenere il servizio pubblico offerto, o con i soldi dei cittadini paga anche il resto delle trasmissioni in palinsesto? C’è inoltre una discrezionalità nella scelta del palinsesto aggiuntivo a quello istituzionale, che conduce a logiche di sostegno a iniziative e ideologie riconducibili ad una forza politica sempre presente sotto varie forme e nomi nel panorama politico italiano e nelle varie consultazioni elettorali e che sarà ancora presente alle prossime elezioni europee”. Nessuno, conclude Crimi, “auspica la chiusura di Radio Radicale. Quel che è certo è che la radio non godrà più della posizione di privilegio che oggi le consente di esistere in virtù di un contributo pubblico diretto, che per legge le è stato ricamato addosso, camuffandolo da corrispettivo a fronte di un servizio erogato”.

Radio Radicale, convenzione non rinnovata. Crimi: «C’è già la Rai». Pubblicato lunedì, 15 aprile 2019 da Alessandro Trocino su Corriere.it. A nulla sono serviti gli appelli, la mobilitazione, la raccolta firme. Il governo va avanti e procede con la battaglia contro Radio Radicale, uno dei pilastri della comunicazione istituzionale e dell’informazione giornalistica del Paese. Le parole di Vito Crimi, sottosegretario all’Editoria sono inequivocabili: «La posizione è molto chiara. È intenzione di questo governo, mia e del Mise, che abbiamo seguito il dossier, di non rinnovare la convenzione con Radio Radicale». Crimi sottolinea le parole «non rinnovare la convenzione» e spiega che non si tratta di un fatto personale: «Nessuno ce l’ha con Radio Radicale o vuole la chiusura». Ma, di fatto, il risultato non potrebbe essere che quello. Spiega Crimi: «Esiste Rai Parlamento, un servizio pubblico, un canale istituzionale che trasmette le sedute parlamentari e delle commissioni». E ancora: «Radio Radicale ha svolto per 25 anni senza alcun tipo di valutazione, come l’affidamento con una gara». Radio Radicale era obbligata dalla convenzione con il Ministero a trasmettere nel corso dell’anno almeno il 60% delle sedute delle due Camere nella fascia oraria che va dalle 8 alle 21. Nel tempo residuo, documenta l’attività di altre istituzioni, congressi, festival e le maggiori assemblee di tutti i partiti politici, oltre ad assemblee e convegni organizzati dalle associazioni del mondo del lavoro e dell’impresa e processi. La radio si è aggiudicata una gara per l’assegnazione della convenzione, nel 1994. Convenzione che si è prorogata negli anni, per mancanza di altri possibili candidati, nonostante le richieste dei radicali di nuove gare. Finora Radio Radicale ha ricevuto 8 milioni di euro all’anno netti per la trasmissione delle sedute parlamentari e 4 di sostegno all’editoria. Con il rinnovo parziale fino al 20 maggio (ottenuto con un emendamento presentato da Renato Brunetta), di fatto il finanziamento si era già dimezzato, mentre il sostegno all’editoria è stato abolito. Una perdita economica che non consentirà a Radio Radicale di continuare ad esistere in queste forme. Impraticabile, e un po’ surreale, l’ipotesi avanzata nei mesi scorsi dal premier Giuseppe Conte che la radio si finanzi “aprendosi al mercato”, con la pubblicità, visti i contenuti trasmessi. La posizione espressa da Crimi è condivisa da Luigi Di Maio, ma non mancano molti dubbi nel Movimento. Nei giorni scorsi hanno espresso solidarietà e apprezzamento alla radio Alessio Villarosa, Alberto Airola, Pierpaolo Sileri e Paola Nugnes. E anche la Lega non è così granitica. L’onorevole Giuseppe Basini ha raccolto alla Camera 24 firme di colleghi della Lega: «Sono un antico liberale e mi sembra giusto che lo Stato dia risorse, che sono una goccia nel bilancio, a un servizio così utile ed equanime come quello fornito da Radio Radicale». Salvini che ne pensa? «Non si è mai intestato la battaglia contro Radio Radicale e non credo proprio che ne voglia la chiusura». Immediate le proteste degli esponenti degli altri partiti, da Francesco Verducci (Pd) a Mara Carfagna (Forza Italia). Che spiega: «La chiusura di Radio Radicale danneggia la democrazia».

Da Il Fatto Quotidiano il 15 aprile 2019.  “La posizione è molto chiara: l’intenzione del Governo, mia e del Mise è di non rinnovare la convenzione con Radio Radicale“. Lo ha confermato il sottosegretario all’Editoria Vito Crimi a un convegno sull’informazione locale in Lombardia, dopo la mobilitazione delle opposizioni a favore dell’emittente che trasmette le sedute del Parlamento e raccoglie nel suo archivio, tra il resto, le registrazioni di udienze di processi, riunioni del Csm e della Corte costituzionale. “Nessuno ce l’ha con Radio Radicale o vuole la sua chiusura” ma “sta nella libertà del Governo farlo”, ha detto Crimi, affermando che l’emittente “ha svolto da 25 anni un servizio senza alcun tipo di gara e valutazione dell’effettivo valore di quel servizio”. Negli anni, ha sostenuto il sottosegretario, a Radio Radicale “la convenzione è stata rinnovata come una concessione“. Ora, ha concluso, “la valutazione è stata fatta: esiste Rai Parlamento, un servizio pubblico, un canale istituzionale che trasmette le sedute parlamentari e delle commissioni”. La settimana scorsa Crimi aveva ricordato che “dal 1994 ad oggi Radio Radicale ha percepito contributi pubblici per oltre 200 milioni di euro (14 milioni di euro l’anno)” e “la radio fa capo alla società Centro di Produzione Spa. Chi sono i soci di Centro di Produzione Spa? Le quote sono così suddivise: Associazione politica nazionale Lista Marco Pannella: 62,68%; Lillo Spa: 25,00%; Cecilia Maria Angioletti 6,17%; Centro di Produzione Spa 6,15%”. “Tra i soci in elenco – secondo l’esponente grillino – desta interesse la partecipazione della società Lillo Spa, che ha sede a Gricignano di Aversa e ha un fatturato di 2,3 miliardi di euro. Si tratta di una holding finanziaria attiva nel campo della grande distribuzione alimentare. La Lillo Spa è di proprietà della famiglia Podini. E nel consiglio d’amministrazione di Centro di Produzione Spa (l’emittente di Radio Radicale), Marco Podini e Maria Luisa Podini ricoprono la carica di consiglieri. Mi chiedo come mai una holding finanziaria della grande distribuzione sia titolare del 25% di Radio Radicale. E mi domando: come mai Radio Radicale teme di chiudere se ha un socio d’affari che vale oltre 2 miliardi di euro?”. La radio aveva risposto che “la presenza della Holding Lillo tra gli azionisti di Radio Radicale è nota da quasi 20 anni, cioè da quando Marco Podini, con la Pasubio Spa, acquistò la quota il 27 marzo del 2000 aderendo all’appello pubblico di Marco Pannella pubblicato a pagamento sul Corriere della Sera”. “La Pasubio Spa acquistò una quota del 25% con un investimento che aveva chiara natura filantropica e, già allora, mirava a garantire la sopravvivenza del servizio pubblico di Radio Radicale”. Inoltre ”l’importo ricevuto da Radio Radicale negli ultimi anni non è di 14 milioni ma di 12,1 composto da 10 al lordo dell’IVA (8,1 netti) corrispettivo per la trasmissione delle sedute parlamentari e 4 di contributo per l’editoria in quanto impresa di informazione che svolge attività di interesse generale in base alla legge 7 agosto 1990 n. 230”.

LIBERISTI COI SOLDI ALTRUI. Marco Travaglio per “il Fatto Quotidiano” 24 aprile 2019. Uffa, che barba, che noia. I radicali e i loro seguaci, anche strumentalizzando la scomparsa del nostro carissimo nemico Massimo Bordin, hanno ricominciato a piangere. Il chiagni e fotti è il loro sport preferito, che rende petulante e insopportabile ogni loro battaglia, anche la più nobile. Sempre lì a lacrimare contro il "regime", di cui fanno parte integrante da cinquant' anni. Non chiedono mai per favore: pretendono, anzi esigono, come se tutto fosse loro dovuto, dalle amnistie alle svuota-carceri ai soldi per Radio Radicale. E, quel che è bizzarro per dei soi disant "liberisti e libertari", lo esigono dallo Stato "illiberale e partitocratico" contro cui si scagliano dalla notte dei tempi. L' ultima loro battaglia meritoria fu il referendum (vinto, anzi stravinto e subito tradito) del 1993 per abolire il finanziamento pubblico dei partiti: noi, ingenuamente, pensavamo che comprendesse il finanziamento pubblico agli organi di partito. Invece no: Radio Radicale fa sempre eccezione. Infatti costa ai cittadini una media di 14 milioni di euro all' anno, in virtù di due diverse fonti di finanziamento: una (circa 4 milioni l' anno) dal Dipartimento editoria di Palazzo Chigi per le "fonti d' informazione di interesse generale"; l' altra (una decina di milioni l' anno) dal ministero delle Poste (ora assorbito dallo Sviluppo economico), in seguito a una convenzione stipulata da Pannella con l' allora ministro Tatarella, sotto il primo governo Berlusconi (regolarmente appoggiato da Pannella, Bonino & C.), poi sempre rinnovata dal centrosinistra (regolarmente appoggiato da Pannella, Bonino & C.). Il refrain dei radicali è che la loro non è una radio di partito, anzi sarebbe un "servizio pubblico". Può essere: ma lo stesso potrebbe sostenere una qualsiasi emittente dedita all' informazione. Tipo Sky o La7: che facciamo, diamo soldi pubblici pure a loro? Anche noi del Fatto abbiamo la presunzione di svolgere un servizio pubblico: informare senza padroni. Ma non ci sogniamo di chiedere soldi allo Stato, anzi siamo nati quando molti altri li incassavano e li abbiamo sempre rifiutati per difendere la nostra indipendenza. E seguitiamo a respingerli, diversamente da concorrenti che non esisterebbero se, con vari escamotage, non prelevassero fior di milioni dalle tasche di chi non li legge. Lo stesso ci attenderemmo dai "liberisti" radicali, che invece son tornati a piagnucolare e battere cassa sotto Palazzo Chigi col cappello in mano. Anche senza dirci "liberisti" prima e dopo i pasti, ci piace farci giudicare dalla capacità di stare sul mercato dell' informazione. Chi ha dei lettori, o dei telespettatori, o dei radioascoltatori sopravvive; chi non ne ha chiude. Si dirà: Radio Radicale trasmette le dirette delle sedute parlamentari. Vero, è un obbligo previsto dalla convenzione con le Poste. Ma ormai ha poco senso: lo stesso servizio, in video, già lo svolge la Rai, che paga profumatamente (con i soldi del nostro canone) le riprese esterne. Allora si dice: Radio Radicale segue da decenni i principali processi giudiziari e ha accumulato un archivio unico e prezioso. Verissimo, onore al merito. Anzi, sarebbe un peccato se l' archivio andasse disperso: fossimo nei vertici Rai, lo acquisteremmo per metterlo gratuitamente a disposizione del pubblico; e creeremmo un analogo canale audio-video per proseguire anche quel servizio. Ciò detto, come ogni emittente privata, Radio Radicale fa lavorare i giornalisti vicini al Partito radicale, non certo scelti con pubblici concorsi (come deve fare ogni "servizio pubblico"); e in questi anni non ha trasmesso solo dibattiti parlamentari, processi e rassegne stampa, ma anche interminabili comizi di Pannella, Bonino & C. contro i loro avversari politici, il cui interesse pubblico sfugge ai più. Come sfugge ai più il servizio pubblico reso dai vari Taradash. Ora non si capisce perché mai i 5Stelle (la Lega non cambierebbe nulla nemmeno sui fondi all' editoria), dopo aver sempre promesso l' abolizione dei soldi pubblici a testate private e raccolto anche su questo il 33% dei voti, dovrebbe rimangiarsi tutto per fare un' eccezione su Radio Radicale. Né si comprende il senso degli appelli per "salvarla dalla chiusura". Come se il sottosegretario all' Editoria Vito Crimi avesse deciso di chiuderla per "spegnere una voce scomoda" (certo, come no). Radio Radicale può continuare le trasmissioni, in parte meritorie e in parte opinabili o detestabili (come quelle di ogni testata), finanziandosi da sé. Anziché promuovere appelli al governo per continuare a farla pagare dai cittadini, i gruppi Repubblica-Espresso e Cairo-Corriere hanno mezzi sufficienti per finanziarla e pure per comprarsela: il segnale - uno dei migliori su piazza, come Radio Maria - costa 3,7 milioni l' anno. Perché non lo pagano loro? In Rete è molto diffuso l' autofinanziamento collettivo (crowdfunding), con cui si sostengono in tutto il mondo molte nuove realtà d' informazione indipendente. Invece degli appelli al governo, delle mobilitazioni retoriche di Federazione della stampa e intellettuali vari, degli alti lai per la libertà di stampa minacciata, dei soliti strilli della Bonino per "l' insofferenza dei gialloverdi alla libertà di espressione", del diktat dell' Agcom (ma che diavolo c' entra?) e degli scioperi della fame, basta aprire una sottoscrizione e cominciare a raccogliere fondi. Gli ascoltatori non sono moltissimi (l' ultima rilevazione del primo semestre 2014 ne dava 275 mila al giorno, oltre il doppio di Radio Padania). Ma, se ci tengono tutti davvero, possono pagare un abbonamento annuale, come fanno tanti lettori del Fatto e di altri giornali. Tra i firmaioli ci sono editori e scrittori piuttosto facoltosi: perché non mettono mano al portafogli?

Giorgio Meletti per ''Il Fatto Quotidiano'' del 21 aprile 2019. C' è un nesso tra il salvataggio dell' Alitalia e il soffocamento di Radio Radicale. L' Alitalia è grossa, Radio Radicale è piccola. L' Alitalia costa miliardi di euro ai contribuenti, Radio Radicale pochi milioni. L' esecutivo Di Maio-Salvini ha ormai consolidato un' indole forte con i deboli e debole con i forti alla quale vengono subordinate le grandi scelte di governo del sistema. L' Alitalia non svolge più un servizio pubblico essenziale, nei voli interni ha ceduto largamente il passo al low cost, potrebbe chiudere domani mattina e verrebbe immediatamente sostituita dai voli di altre compagnie. Però il governo dovrebbe fronteggiare la rabbia di migliaia di dipendenti e soprattutto di creditori e fornitori, tipicamente amici degli amici. Così il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio si avventura nella missione impossibile: "Sto cercando di risolvere un problema che nessun altro ministro ha risolto". Cioè di risanare l' Alitalia che negli ultimi dieci anni è fallita tre volte ed è costata allo Stato già quasi dieci miliardi. Il povero Gianfranco Battisti, capo delle Fs, ha accettato di fare la questua tra le aziende statali per salvare la compagnia. Gli hanno detto "no grazie" le Poste (che a Matteo Renzi obbedivano, a Di Maio no), la Fincantieri, la Finmeccanica, l' Eni e la Cassa Depositi e Prestiti. Così il governo si è inginocchiato davanti a Giovanni Castellucci, capo di Atlantia e quindi azionista sia di Autostrade per l' Italia che di Aeroporti di Roma, chiedendogli 300 milioni per Alitalia. A Ferragosto hanno promesso ai Benetton di togliergli la concessione autostradale dopo il crollo del Ponte Morandi. Adesso gli affidano gli aerei. Di Maio dice che tra le due cose non c' è nesso: "La promessa di ritirare la concessione sarà mantenuta, c' è una commissione al ministero dei Trasporti che sta accertando il comportamento di Autostrade sul disastro del ponte Morandi". Ma, come avrete già capito dalla parola "commissione", tutto è già perdonato a chi è grosso e fa paura. Radio Radicale invece è piccola e non fa paura. Quindi ci si può accanire. Ci sarebbero molti argomenti per sostenere che Radio Radicale fa un servizio di informazione e documentazione poco costoso e insostituibile; e che solo un Paese masochista se ne può privare per risparmiare 12 milioni mentre paga 2 miliardi di canone Rai. Quei 12 milioni sono più o meno quanto spendono Camera e Senato per stampare (sì, stampare) gli atti parlamentari. Ma non c' è nessuna argomentazione possibile contro la logica ottusa del sottosegretario per l' editoria Vito Crimi: "L' intenzione del governo, mia e del Mise è di non rinnovare la convenzione. Nessuno ce l' ha con Radio Radicale o vuole la sua chiusura, ma sta nella libertà del governo farlo". Posso farlo, quindi lo faccio. Questo governo usa con voluttà la sua presunta "libertà" di aggredire tutto ciò che è minoranza e non fa paura, come se essere minoranza fosse una colpa da espiare. Lungo questa china penosa un giorno potrebbero dirci che anche i musei e gli archivi e le biblioteche interessano solo a minoranze che non hanno vinto le elezioni. Uomini di governo che dicono "ho la libertà di farlo" concepiscono il potere come arbitrio. Di fronte a una cultura politica così spaventosa, il premier Giuseppe Conte e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, due giuristi, dovrebbero sentire l' urgenza di rassicurare il Paese sullo stato di salute delle istituzioni. Per adesso tocca rimpiangere Massimo Bordin, uomo simbolo di Radio Radicale, perdita davvero incolmabile per la cultura politica e giornalistica, che prima di morire ha regalato alla sua radio l' ultimo colpo da maestro, definendo Crimi "gerarca minore".

Alessandro Rico per ''La Verità'' del 19 aprile 2019. L' appello per salvare Radio radicale è diventato, nelle ultime settimane, una specie di professione di fede che chiunque tenga a conservare la propria aura di autorevolezza mediatica, giornalistica o accademica, è tenuto a compiere solennemente, coram populo. La tragica e prematura scomparsa di Massimo Bordin, protagonista della storica rassegna stampa mattutina e di gustosi siparietti con Marco Pannella, ha aggiunto ulteriore vigore emotivo all' Sos per l' emittente radiofonica. Gli argomenti sono arcinoti: Radio radicale svolge un servizio di pubblico interesse, dà spazio a qualunque compagine politica, trasmette in diretta qualsiasi convegno, convegnino e convegnucolo in ogni angolo d' Italia. Evangelicamente, ovunque ci siano due o tre riuniti, Radio radicale è in mezzo a loro. In buona sostanza, non c' è studioso, cultore di qualche materia, oratore e cronista, la cui voce non sia finita almeno una volta sulle frequenze del «santo padre» Pannella. All' esibizione di coscienza civile, ovviamente, si somma un po' di snobismo radical chic: siccome la battaglia è stata ingaggiata da quell' incompetente ignorante populista e grillino di Vito Crimi, è un esercizio di responsabilità democratica opporsi alla «bavbavie», all'«ovvove», alla «volgavità» del troglodita a 5 stelle, che minaccia la libertà d' espressione (ad averla avuta in difesa della libertà d' espressione dei «medievali» di Verona, questa levata di scudi!). Su Radio radicale, comunque, due paroline davvero in libertà sarebbe proprio il caso di dirle. Per carità, che l' emettente da decenni offra un servizio encomiabile d' informazione politica, non lo si può negare. E poi, chi potrebbe restare indifferente se anche uno solo dei professionisti che vi operano finisse in mezzo a una strada? Al contempo, è veramente curioso che la radio voluta da un partito che tifa per il libero mercato, la globalizzazione e la concorrenza, dipenda integralmente dall' erogazione dei contributi pubblici. E che contributi! A parte quelli concessi a tutte le radio private che svolgono attività d' interesse generale (e che di qui al 2022 saranno azzerati, come prevede la legge di bilancio 2019), Radio radicale gode dei fondi (10 milioni di euro, dimezzati dal governo gialloblù) erogati in virtù di una convenzione con il Mise. È proprio questo accordo ad aver suscitato le ire del «nuovo barbaro» Crimi. La convenzione, infatti, fu stipulata la prima volta nel 1994, in seguito a una gara pubblica cui, però, si presentò soltanto Radio radicale. Tutte le successive promesse di aprire alla concorrenza il servizio e, quindi, la distribuzione del finanziamento, sono rimaste lettera morta. E alla fine, di proroga in proroga, Radio radicale è diventata una monopolista sovvenzionata dallo Stato. Ora, secondo Emma Bonino, l' emittente «ogni anno, ogni volta, ha chiesto che si istituisse una gara per valutare tutti gli elementi del servizio e aprirlo anche ad altri contendenti». Benissimo: visto che questa è anche la volontà di Radio radicale, che si spalanchino finalmente le porte al libero mercato. Magari, a differenza del 1994, verrà fuori che qualche altro editore è capace di erogare lo stesso servizio a un prezzo più contenuto. Può darsi che, rispetto a 25 anni fa, il panorama là fuori sia leggermente cambiato. Peraltro, non è neppure vero che il governo voglia far chiudere la radio: in discussione, appunto, c' è una convenzione con il Mise. Radio radicale beccava 10 milioni di euro. La metà di quella cifra, sempre pagata dai contribuenti, non le basta. Al contempo, lo Stato e quindi i suddetti cittadini che pagano le tasse, sovvenzionano Rai Parlamento, che già garantisce la copertura dei lavori delle due Camere. È davvero necessario foraggiare pure il costoso doppione? Non per buttarla in caciara, ma se proprio c' è questo disperato bisogno di soldi, la Bonino, che è tanto brava a suscitare la generosità di George Soros, se li faccia dare da lui. Il miliardario ungherese ha elargito 200.000 euro a + Europa. Nel 2016, aveva devoluto 25 milioni di dollari per la campagna elettorale di Hillary Clinton. L' anno successivo ha rimpinguato le casse della sua Open society con 18 miliardi di dollari. Non gli mancano certo 10 e neppure 20 milioni per dotare Radio radicale di microfoni e cuffie in oro zecchino. È vero che persino Matteo Salvini ha preso le distanze dalla dichiarazione di guerra dei pentastellati: «Preferirei che chi di dovere tagliasse gli stipendi milionari in Rai», ha commentato il leader del Carroccio. Il punto, tuttavia, lo inquadra alla perfezione un' antica formula latina: iuxta propria principia. Ecco: in virtù dei suoi stessi principi, la radio dei globalisti pro mercato e pro concorrenza non può vivacchiare solamente perché paga Pantalone. Se regime di sovvenzioni pubbliche deve essere, ci si metta d' accordo con la Rai e si eviti una moltiplicazione degli esborsi. Se invece il mondo deve reggersi su un' affannosa rincorsa del capitale privato, allora la dura disciplina del mercato, come l' avrebbe chiamata l' economista Friedrich von Hayek, la si deve propinare a tutti quanti. Industriali, commercianti, editori di giornali, di televisioni e di radio. Altrimenti, sono buoni tutti a fare i liberisti con gli altri e gli statalisti con sé stessi. Non le pare, senatrice Bonino?

Radicali, ma non con la loro radio. Radio Radicale lotta per avere il finanziamento pubblico, dopo aver fatto della lotta al finanziamento pubblico la sua grande battaglia. Maurizio Belpietro il 3 giugno 2019 su Panorama. Qualche settimana fa, un lettore di Panorama mi ha posto il seguente quesito: mi può spiegare perché i Radicali sono contro il finanziamento pubblico dei partiti, tanto da avere fatto una storica e meritoria battaglia che si concluse con un referendum che lo abrogò, e poi sono favorevoli al finanziamento pubblico della radio di un partito, ossia della loro? Come faccio ogni volta che non conosco la materia, prima di rispondere ho voluto documentarmi e quello che vi sto per raccontare è il risultato ottenuto dalla consultazione di documenti e atti parlamentari. Radio Radicale nasce fra il 1975 e il 1976, cioè dopo la sentenza che tolse alla Rai il monopolio imposto in epoca fascista. In principio fu un’emittente amatoriale, nata per iniziativa di alcuni militanti radicali, poi divenne la radio del movimento guidato da Marco Pannella, il che la trasformò in un vero e proprio braccio operativo del partito, con dirette dalle aule parlamentari e dai tribunali, ma anche con la storica rassegna stampa condotta da Massimo Bordin e la puntuale intervista domenicale al leader del movimento. Il vero cambiamento però lo si ha nei primi anni Novanta, quando arriva la legge Mammì, ossia le nuove norme su radio e tv. Ed è lì che la storica battaglia contro il finanziamento pubblico prende un’altra strada. I Radicali continuano a essere contrari a dare soldi dei contribuenti ai partiti, ma stranamente si dimostrano favorevoli a sganciarli per l’emittente di un partito, cioè la loro. Tutto deriva da un bando del governo, che i maligni dicono sia stato cucito su misura proprio per Radio radicale (requisiti: niente musica o quasi e zero pubblicità), che all’epoca navigava in brutte acque e rischiava di chiudere. Sta di fatto che alla gara per diffondere in diretta le udienze parlamentari, decisa quando a Palazzo Chigi c’era Silvio Berlusconi, partecipa la sola Radio radicale, che dunque diventa concessionaria di un servizio pubblico e quindi ha diritto ai relativi quattrini. Il bando, fatto per decreto, non sarà mai convertito in legge, ma sarà sempre rinnovato per ben 17 volte, con una specie di regime transitorio che è durato 25 anni. In un quarto di secolo Radio radicale è costata agli italiani la bellezza di oltre 200 milioni di euro, anzi, secondo il dipartimento dell’editoria di Palazzo Chigi addirittura 215 per la sola convezione, cui si sommano i contributi per l’editoria. A queste cifre i Radicali ribattono che la loro radio ha svolto un servizio pubblico, diffondendo le sedute del Parlamento e le udienze dei principali processi, cosa che nessun’altra emittente ha fatto. Vero. Però i sostenitori di Radio radicale dimenticano un piccolo particolare, ossia che dopo il bando del 1994, quello confezionato ad hoc, con requisiti che consentirono alla sola radio di Marco Pannella di partecipare, seguì una legge del 1998 che proibì alla Rai e a Gr parlamento di ampliare il servizio dedicato ai lavori parlamentari, lasciando campo alla radio di Pannella. In pratica, alla tv pubblica fu vietato di fare un servizio pubblico e dopo di che si decise di appaltare, dietro pagamento, il servizio pubblico a un privato, come nei fatti è Radio radicale. Non è finita. Fino alla fine degli anni Novanta l’azionista unico dell’emittente era l’Associazione politica nazionale Lista Marco Pannella, poi l’assetto proprietario è cambiato, con l’ingresso di un socio finanziario che per 25 miliardi di lire acquistò il 25 per cento. I soldi ovviamente finirono alla Lista Pannella. Dunque, per riepilogare: il Partito radicale ha combattuto il finanziamento pubblico ai partiti fino a ottenerne la definitiva messa al bando, poi, in seguito, ha ottenuto il finanziamento pubblico della radio del partito e un bel giorno ha venduto il 25 per cento della radio finanziata con soldi pubblici e ha incassato 25 miliardi di lire destinati a finanziare il partito. Tutto chiaro? C’è altro da dire? No, se non che contro la chiusura di Radio radicale (non si tratta di una chiusura, ma solo della fine del finanziamento pubblico, ma questo è un dettaglio) si battono artisti, politici e intellettuali. I quali gli appelli per una semplice fabbrica di certo si guardano bene dal farli. 

(ANSA il 13 giugno 2019) - Passa nelle Commissioni Bilancio e Finanze della Camera un emendamento del Pd (a firma Sensi e Giachetti) per “salvare” Radio Radicale con un finanziamento di altri 3 milioni per il 2019. Il testo è stato riformulato, spiegano i dem, su proposta della Lega ma il governo con il viceministro dell'Economia, Laura Castelli, ha dato parere contrario. Hanno votato a favore la Lega e tutti gli altri partiti, mentre il Movimento 5 Stelle ha votato contro. La misura punta a favorire la conversione in digitale e la conservazione degli archivi.

(ANSA il 13 giugno 2019) - "Il Governo è andato sotto in Commissione su Radio Radicale. La Lega vota con le opposizioni per salvare la radio mentre i 5 stelle votano contro seguendo le indicazioni di parere contrario del ministro Castelli". Lo afferma la deputata del Pd Silvia Fregolent, capogruppo in commissione Finanze, a proposito delle votazioni sul dl crescita.

(ANSA il 13 giugno 2019.) "Anche se con un contributo inferiore alle necessità, abbiamo approvato un emendamento che stanzia 3 milioni per radio radicale nel 2019. Per ora la radio è salva. Adesso subito la gara". Così in un tweet il deputato del Partito democratico Roberto Giachetti sull'approvazione dell'emendamento che salva Radio Radicale.

(ANSA il 13 giugno 2019) - "Su Radio Radicale la soluzione più equa era di finanziare la conversione in digitale e la conservazione degli archivi multimediali, fino ad una spesa massima di 1 milione di euro nel triennio. L'emendamento proposto dalle opposizioni ha disposto invece di erogare altri 3 milioni di euro nel solo 2019 ad una radio che ne riceverà già 9 quest'anno. Una scelta a cui hanno aderito tutti i partiti, Lega compresa, e che ci ha trovato fortemente contrari". Lo dichiarano i deputati M5S delle commissioni Bilancio e Finanze.

(ANSA il 13 giugno 2019) - "Grazie alla battaglia del Pd e delle altre opposizioni, passa l'emendamento che salva Radio Radicale. La Lega vota insieme alle opposizioni e il Governo va sotto in commissione". Lo scrive su twitter il deputato del Pd Maria Elena Boschi.

(ANSA il 13 giugno 2019) - "Governo va sotto in commissione su Radio Radicale: vittoria anche di Forza Italia e soprattutto della libertà di stampa. Radio Radicale vivrà". Così su twitter Mariastella Gelmini, presidente dei deputati di Forza Italia.

(ANSA il 13 giugno 2019) - "La Lega vota con l'opposizione e #RadioRadicale può continuare ad informare e raccontare. Un sussulto di democrazia che salva una voce libera, intelligente e indipendente. E' un bel momento per la politica italiana". Così su twitter Giorgio Mulè, deputato di Forza Italia e portavoce dei gruppi azzurri di Camera e Senato.

(ANSA il 13 giugno 2019) - "I gerarchi minori del M5S si pieghino alle regole della democrazia parlamentare, che non è stata ancora superata come vorrebbe Casaleggio. La Camera ha approvato a maggioranza un emendamento del Pd al dl crescita su Radio Radicale". Lo afferma il presidente dei senatori Pd Andrea Marcucci replicando alla nota del M5S. "Abbiamo recuperato - aggiunge - ossigeno per la democrazia-sottolinea- Radio Radicale potrà avere così le risorse per arrivare alla gara pubblica che il Ministero dello Sviluppo Economico deve indire".

(ANSA il 13 giugno 2019) - "Secondo noi è una cosa gravissima, di cui anche la Lega dovrà rispondere davanti ai cittadini. Sono franco: dovrà spiegare perché ha appoggiato questa indecente proposta del Pd! Dopo di che si va avanti, perché siamo persone serie". Lo afferma Luigi Di Maio, parlando dell'approvazione, con i voti della Lega, dell'emendamento Pd al dl crescita a favore di Radio Radicale, "una radio privata - scrive su Facebook - che ospita giornalisti con stipendi da capogiro di anche 100mila euro l'anno. Tutti pagati con i vostri e i nostri soldi, da sempre".

·         Eccesso di Fede. I Partigiani nella Redazione.

Paolo Bracalini per “il Giornale” il 23 dicembre 2019. «In media la posizione dei giornalisti è collocata saldamente nello spazio ideologico del centrosinistra, in paesi come Spagna, Svezia e specialmente l' Italia i giornalisti sono ancora più spostati a sinistra». Più in dettaglio, i giornalisti italiani sono quelli più schierati a sinistra rispetto agli altri colleghi in Europa. Un record. A confermare l' evidenza di una categoria spostata in massa, in Italia, verso la stessa parte politica è l' ultimo rapporto di Worlds of Journalism Study (Columbia University Press, 2019), basato su sondaggi demoscopici condotti su oltre 27.500 giornalisti in 67 paesi. Nella tabella con una scala da 0 a 10, da sinistra a destra, la stampa italiana si trova nella zona di estrema sinistra, evidenziata con un colore rosso scuro, unico paese nel continente europeo, più «rosso» ancora di paesi con una stampa liberal come Spagna e Svezia. All' opposto, nelle diverse gradazioni di azzurro, ci sono Austria, Ungheria, Repubblica Ceca e Gran Bretagna, con una stampa più moderata o conservatrice. Il grafico viene analizzato da Luigi Curini, professore ordinario di Scienza Politica all' Università degli Studi di Milano, in un articolo pubblicato dall' Iref (Institute for Research in Economic and Fiscal Issues), istituto di ricerca con sede a Parigi. Al centro dello studio c' è la connessione tra la partigianeria politica della stampa e la scarsa fiducia dei cittadini verso i giornalisti (in calo ovunque, secondo l' ultimo report della Reuters, e in declino in Italia ormai costantemente da un decennio). I due fenomeni sono strettamente collegati tra loro. «Prendiamo come esempio un paese in cui la maggioranza dei cittadini ha opinioni politiche moderate. E supponiamo che la maggioranza dei giornalisti sia di sinistra, e che una parte dei media invece di riportare le notizie in modo equilibrato (o anche attraverso post sui social network o partecipando a talk show) esprima senza mezzi termini il proprio orientamento politico e non sia quindi percepito come un arbitro neutrale. Ebbene, prima o poi la maggior parte dei cittadini di questo paese inizierà a mettere in dubbio la credibilità dei media». L' esempio calza perfettamente al caso italiano, che viene preso in considerazione subito dopo. In un grafico si sovrappongono due curve, da sinistra a destra. La prima rappresenta l' orientamento ideologico degli italiani, ricavati da Eurobarometro, dove si vede che la maggioranza degli italiani si colloca al centro, diversamente dalla curva che invece rappresenta la collocazione politica dei giornalisti italiani, molto spostata a sinistra. Lo studio dimostra che più aumenta la distanza ideologica tra cittadini e media, più cresce la sfiducia nell' obiettività della stampa. Non c' è insomma solo il «mantra delle fake news», molto utilizzato (soprattutto a sinistra) per spiegare il calo di credibilità della stampa, e spesso per accusare la destra di diffonderle. C' è anche la smaccata partigianeria di sinistra della maggioranza dei giornalisti italiani (basti vedere l' enorme spazio dato al fenomeno delle «sardine», assurto a titolo di apertura di alcuni quotidiani, o l' ossessione giornalistica per il fascismo e il razzismo che dilagherebbero in Italia) per giustificare la scarsa credibilità di cui gode la stampa. É lo spunto che suggerisce il professor Curini: «I politici sono criticano rispetto alle notizie e ai media solo per quel che riguarda il mantra delle fake news. I risultati dimostrano che i giornalisti dovrebbero prestare maggiore attenzione a non essere percepiti come di parte. Combattere le fake news va bene. Ma potrebbe non essere sufficiente per riconquistare la fiducia delle persone».

Quarant'anni di Rai 3, quando credere nella televisione era possibile. La Terza rete festeggia ma la distanza tra ciò che è stato e ciò che è, è siderale: storia del canale di Stato che, con orgoglio, abbiamo guardato per rifugiarci dalle brutture. E consolarci. Antonio Dipollina il 15 dicembre 2019. La distanza è siderale. C’è chi della nascita di una terza rete Rai strutturata – 40 anni fa oggi – ricorda tutto e quindi ha anche vissuto, magari con indole ben disposta verso il mondo e speranze nel futuro, la stagione giovane della medesima rete, ovvero da Angelo Guglielmi in avanti (1987). E può raccontare a figli e nipoti di una stagione in cui – incredibile – si credeva alla televisione, ci si fidava quasi, non si usciva magari la sera, perché c’era Rai 3 da guardare e non c’era di meglio in giro. A distanza siderale ci sono i più giovani, magari assai più giovani, che oggi hanno una vaga dimestichezza con una struttura televisiva che, in fondo, non deve dimostrare più nulla da anni. La Rai 3 di oggi è quella che propone programmi altri rispetto alla concorrenza, senza esagerare o provarci praticamente mai, semplicemente giustificando sé stessa come luogo televisivo di dichiarata resistenza civile e di gusto. Non molto di più e a occhio è già moltissimo, visti i tempi. Impossibile, a questi ultimi, spiegare davvero la stagione precedente, alla quale è inevitabile fare riferimento in occasione di celebrazioni come questa. Impossibile anche spiegare davvero l’incredibile miscela generata nell’epoca Guglielmi e sulla spinta popolar-narrativa del suo direttore: che conteneva e lanciava di tutto, con un’estetica inafferrabile ma che alla fine, altroché, è rimasta e ha generato una tonnellata di tv futura. Da Michele Santoro a Biscardi, per dire, da Chi l’ha visto a Telefono giallo, da Report ad Alba Parietti in piscina, al caleidoscopio perpetuo nel tempo di Blob – e sorvoliamo sulla potenza espressiva di quei preserali quando a Blob potevi affiancare la lunare Cinico Tv. E poi ancora e ancora – in alcuni meandri social succede, uno dice Magazine 3 e altri accorrono a ricordare il primo, sensazionale, Daniele Luttazzi (con Gloria De Antoni e Oreste De Fornari) e nessuna, ma proprio nessuna voglia di uscire il sabato sera visto che c’era quel ben di dio in tv. Impossibile citare tutto. E ha ragione chi richiama piuttosto i meriti (!) della lottizzazione politica netta, decisa, la rete del Pci, Alessandro Curzi mitologico direttore in tempi in cui tutto sembrava possibile o quasi. Oppure, al tempo stesso quel luogo capillare e sempre attraversato da polemiche e distinguo che accorpa i tg regionali, la testata gigantesca che devi decidere: o è una tassa esagerata e inevitabile, oppure è il luogo vero del servizio pubblico. E ancora e ancora: scorrendo volti, programmi, Fabio Fazio, Serena Dandini, Corrado Guzzanti e la satira di livello assoluto, Gabanelli e Un posto al sole, lo spazio fisso con l’informazione a mezzanotte cascasse il mondo: il tutto via via mentre cambiavano direttori e la lottizzazione andava sfarinandosi nel quadro politico ormai completamente farinoso. E nel progressivo assestamento nel ruolo di oggetto di riferimento per l’unica frase che riuniva una discreta parte di popolazione televisiva: guardiamo cosa c’è su Rai 3. Appunto, l’esercizio di memoria nel ricordare i bei tempi è tanto deleterio quanto appagante, come sempre avviene. Spiegarlo a chi c’era è superfluo, spiegarlo a chi non c’era è piuttosto inutile. Rimane una leggera ebbrezza malinconica e quel vanto principale: poter raccontare ad altri di quella storia, quando ci capitò davvero di credere alla televisione e di trovarvi perfino consolazione.

Greta Thunberg affossa il Tg1: troppi servizi sull'ambiente e i telespettatori "scappano". Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano l'8 Novembre 2019. Ma si può dedicare un terzo del Tg, addirittura sei servizi in scaletta, al tema dell' ambiente? È mai possibile che buona parte dei fatti italiani e dell' universo-mondo si riducano al cambiamento climatico, al riscaldamento globale, alla lotta contro l' inquinamento? Evidentemente sì, se è vero che il Tg1 delle 20 riesce a destinare fino a 10 dei suoi 30 minuti ad argomenti ecologisti. Più che un Tg giallorosso è ormai un Tg green, ossessionato dal Verde. O meglio, un Tg Greta. L' apice è stato raggiunto due giorni fa quando il telegiornale della rete ammiraglia Rai ha infilato, nell' ordine, un servizio sull' uscita di Trump dagli accordi sul clima, uno sulla visita di Di Maio a Shanghai e i progetti ecologici italo-cinesi; uno su un treno immerso nella Natura, uno su Ecomondo, fiera su economia circolare e sostenibilità ambientale, uno sulla futura area verde di Parigi, e ancora uno sull' insalata spaziale che consentirà di purificare l' aria e riciclare i rifiuti.

PRASSI QUOTIDIANA: E questo al netto del servizio principale, sull' Ilva, in cui si trattava ancora di questioni ambientali. Mettendoci dentro pure quello, mezzo tg se ne andava a parlare di Inquinamento, Impatto Zero e Futuro Verde. Ma è una prassi quotidiana: in ogni edizione del Tg1 troverete almeno un paio di servizi dedicati all' imminente catastrofe ambientale, al pericolo-plastica, ai sistemi ecologici di trasporto e alla speranza delle energie rinnovabili. Un tg un po' apocalittico un po' utopistico, mosso dalla convinzione che i telespettatori siano tutti dei "gretini", e il cui unico elemento inquinante semmai è il cognome del suo direttore, Carboni, che evoca il combustile fossile e la temutissima anidride carbonica. Il problema tuttavia è che, oltreché sull' ambiente, il Tg1 impatta molto poco anche su chi guarda la tv. Da quando c' è Giuseppe Carboni alla guida, ossia dal 31 ottobre 2018, il tiggì della sera subisce una decrescita infelice di audience e share. Rispetto all' inizio della sua avventura un anno fa, il Tg delle 20 perde in media 500mila spettatori (parlano i numeri: 31 ottobre 2018, 5 milioni e 74mila spettatori; 31 ottobre di quest' anno, 4 milioni e 595mila. 1 novembre 2018, 5 milioni e 268mila spettatori; un anno dopo, 4 milioni e 743mila. 2 novembre 2018, 5 milioni e 117mila spettatori; quest' anno, 4 milioni e 500mila). Rispetto poi allo stesso periodo del 2017, quando alla direzione c' era Andrea Montanari, la perdita tocca i 700mila spettatori (due anni fa: 31 ottobre, 5 milioni e 197mila spettatori; 1 novembre, 5 milioni e 288mila; 2 novembre, 5 milioni e 296mila). E addirittura il salasso supera il milione di spettatori in confronto all' identico periodo del 2016, con Mario Orfeo alla direzione.

CALO EVIDENTE. E se anche negli ultimi giorni il Tg Greta si è risollevato rispetto alle medie, ragionevolmente è solo grazie all' effetto Fiorello (con cui c' è un collegamento a fine tiggì) che amplifica gli ascolti sia di chi lo precede, appunto il Tg, che di chi lo segue, I soliti ignoti. Ma se si confrontano i valori medi di share di tutto ottobre 2019 rispetto a ottobre 2018, ultimo mese prima della direzione Carboni, il risultato è inequivocabile: al 23,09% dell' anno scorso fa fronte il 21,53% di quest' anno. Il telegiornale ecologico di Carboni, insomma, non carbura ed è per questo che si sta pensando di cambiargli il conducente: tra gli altri, si fanno i nomi di Franco Di Mare e di Antonio Di Bella. Di sicuro il crollo del Tg1, feudo grillino, va di pari passo al tracollo dei Cinquestelle: le Stelle, cadendo, bruciano e diventano Carboni...di Gianluca Veneziani

Quell'assalto mediatico in Rai per attaccare il centrodestra. Più il centrodestra cresce nei sondaggi, più aumentano gli attacchi. Da Report a In mezz'ora raffica di puntate contro Salvini, Berlusconi e Meloni. Sergio Rame, Lunedì 04/11/2019, su Il Giornale. L'assalto mediatico si è fatto più serrato. Non che abbia mai mollato la presa. Ma, nelle ultime settimane, i colpi bassi sferrati al centrodestra sono stati più violenti che mai. L'ultimo caso è stato lo scontro tra Giorgia Meloni e il cronista di Report. Alla conferenza stampa, convocata oggi dopo la messa in onda della puntata La fabbrica social della paura, in cui il servizio pubblico è arrivatro a sovrapporre "le tesi (di Fratelli d'Italia) a quelle di uno che entra in una Moschea e spara a 50 persone", la rissa è stata furibonda. "Penso che la Rai dovrebbe chiedere conto a Report, per capire se ha abbandonato il giornalismo d'inchiesta per quello su teoremi - ha sbottato l'ex An - mi vergogno di questo servizio pubblico".

L'attacco alla Lega. La violenta lite di oggi è solo l'ultimo tassello di un attacco quotidiano ai partiti che compongono la coalizione di centrodestra. A inaugurare la nuova stagione di attacchi è stata appunto Report, a ridosso delle elezioni regionali in Umbria, con una puntata sul cosiddetto Russiagate all'italiana, l'inchiesta dai molteplici lati oscuri che ha coinvolto il leghista Gianluca Savoini, registrato mentre trattava una commissione milionaria per il Carroccio. Soldi che non sono mai stati trovati ma che hanno subito scatenato i teoremi della stampa progressista. Tanto che su RaiTre è andata in onda una stoccata contro il "capitano" violando, come denunciato dai consiglieri di area centrodestra Igor De Blasio (in quota Lega) e Gianpaolo Rossi (Fratelli d'Italia), la par condicio e dando, al tempo stesso, l'assist alla sinistra per chiedere l'apertura di una commissione di inchiesta. Salvini si è sempre difeso dalle accuse che gli sono piovute addosso dopo l'audio pubblicato da Buzzfeed e l'apertura dell'inchiesta su Moscopoli. "Non sarebbe la prima e unica volta che un audio viene montato e smontato...", ha ribadito il leader della Lega l'indomani della trasmissione di Sigfrido Ranucci. "C’è un'inchiesta - ha, poi, ricordato - facciamo lavorare i giudici, ma io voglio delle prove". Per il momento, appunto, le prove fanno acqua da tutte le parti. A risultare sospetta, poi, è la tempistica. L'attacco è stato, infatti, ordito a pochi giorni dalle regionali in Umbria, poi vinte dal centrodestra con un distacco di venti punti netti sull'asse piddì-Cinque Stelle. Un attacco che ha fatto il paio con la puntata di Dataroom di Milena Gabanelli sulla "Bestia", ovvero la macchina social della Lega.

Di Matteo infanga Berlusconi. Ieri è stata, poi, la volta dell'ennesima sparata del pm Nino Di Matteo. A dargli voce è stata Lucia Annunziata a In mezz'ora nel giorno in cui i sondaggi hanno segnavato la crisi del Partito democratico in Emilia Romagna, altra roccaforte rossa che a gennaio andrà al voto e che potrebbe essere teatro di un cambio di bandiera senza precedenti. Più il centrodestra sale nei consensi, più la macchina mediatica si arma per picchiare duro. "Marcello Dell'Utri è stato condannato come intermediario di quel patto che ha visto protagonista anche l'allora imprenditore Berlusconi", ha detto in studio il magistrato scatenando l'ira di Forza Italia che ha immediatamente chiesto ai vertici della Rai di prendere una posizione netta contro la trasmissione. "Oramai in Rai siamo all’anarchia informativa", ha denunciato ieri il portavoce dei gruppi alla Camera e al Senato, Giorgio Mulè. "Questa Rai delle marchette al governo e della crocifissione dell’opposizione - ha, poi, continuato - merita la stessa espressione dell’intervista di oggi: fa schifo". Anche Andrea Ruggieri, membro della commissione di Vigilanza di viale Mazzini, non ha fatto sconti alla trasmissione della Annunziata. "Su RaiTre è andato in onda un vaniloquio da mitomane", ha tuonato il deputato azzurro ai microfoni dell'agenzia Adnkronos invitando gli altri magistrati dall'astenersi dal guardare ancora In mezz'ora.

La lite Meloni-Report. Dopo aver attaccato la Lega sui presunti contatti con la Russia, Report ha spostato il tiro su Fratelli d'Italia con una puntata sui follower che il partito ha sui propri social network. Un'inchiesta che la Meloni ha definito senza troppi giri di parole con il termine "spazzatura". "Mi vergogno di un servizio pubblico che falsifica i dati e sovrappone le nostre tesi a quelle di uno che entra in una Moschea e spara a cinquanta persone", ha commentato durante la conferenza stampa convocata proprio per commentare la puntata andata in onda su RaiTre. "Penso che la Rai dovrebbe chiedere conto a Report, per capire se ha abbandonato il giornalismo d'inchiesta per quello su teoremi - ha insistito la leader di Fratelli d'Italia - mi vergogno di questo servizio pubblico". Alla conferenza stampa i toni si sono subito accesi. E la Meloni non si è tirata indietro dall'affrontare il giornalista di Report, Giorgio Mottola, che è accorso alla conferenza stampa insieme a tutti gli altri cronisti. "Ci siamo limitati a mettere in fila delle anomalie, venga in trasmissione per approfondire l'argomento in un'altra puntata - ha inistito Mottola - piuttosto, ci vuole chiarire una volta per tutte quale sia il ruolo di Bannon per Fdi?". La leader di Fratelli d'Italia ha replicato con i numeri rendendo pubblico un dossier in cui l'inchiesta di Report viene smontata pezzo per pezzo.

Fulvio Abbate per huffingtonpost.it il 2 novembre 2019. Dicono che Silvio Berlusconi, lo scorso 19 ottobre, non volesse presentarsi a Roma accanto a quegli altri, anzi, pare addirittura sia salito malvolentieri sul palco di piazza San Giovanni per mostrarsi convinto e partecipe del centrodestra finalmente unito al fianco di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Aggiungono ancora che abbia infine abbandonato fastidio e riluttanza solo dopo che Salvini in persona gli avrebbe garantito che concluderà la sua storia di statista al Quirinale, successore di Mattarella. Non è tutto. Si dice ancora che il capo della Lega, cioè sempre Salvini, scavalcando le eccellenze interne di Forza Italia, partito di riferimento naturale in Casa Mediaset, reputi ormai d’essere lui a decidere la linea politica delle reti del Biscione. Noi, ovviamente, non crediamo a quest’ultima insinuazione, reputiamo anzi che si tratti di invenzioni inattendibili, un bla bla cinico e velenoso cresciuto nei corridoi, se non davanti ai distributori di caffè e bevande, di una perenne campagna elettorale, e tuttavia, senza bisogno d’essere troppo esperti di palinsesti, a guardar bene la programmazione dei canali di cui sopra, tra talk quotidiani e tutto il resto, compreso l’intrattenimento apparentemente leggero da rotocalco, un’ombra di sospetto sembra giungere comunque agli occhi, anzi, alla fine l’eventualità del controllo leghista non appare poi improbabile, per nulla assurda. Ciò accade sia facendo caso alla composizione dei parterre degli ospiti, dove postura e orgoglio sovranisti sono sempre ben marcati, in primissimo piano, supportati. Quasi che a queste ultime presenze sia stata fornita una predella speciale. Un evidenziatore mediatico, che concede loro un ruolo sempre più ampio, se non divistico, da pregiati moschettieri e perfette Milady populisti del prima-gli-italiani! Restando nel medesimo scenario, questi ospiti speciali troneggiano nei singoli talk, con argomenti, e perfino invidiabili extension, a favore delle ragioni del Capitano, e sono soggetti esemplari nell’amplificare verbalmente i doni della propaganda leghista e post-fascista: le tasse, le “sanguisughe”, il “governo abusivo”, “l’invasione” dei migranti, l’insicurezza diffusa per via della bolla criminale, la natura “comunista” di molti personaggi dell’esecutivo giallorosso, di più, “il governo più di sinistra di tutta la storia repubblicana” (sic), Dio, patria, famiglia, rosario… Avendo presente l’altruistico senso morale di Berlusconi, in definitiva si può comunque supporre che la scelta di elevare i conduttori Paolo Del Debbio e Mario Giordano a un rango quasi regale, sia farina del suo sacco, e possa dipendere soprattutto dalla certezza che costoro, mediaticamente versatili nel senso più popolaresco del termine, petroliniano, gli garantiranno ascolti notevoli, accompagnati da un tesoretto ulteriore di pubblicità. S’intende che questa lettura benevola, assodata l’oculatezza del Cavaliere verso la borsa dei propri affari, non può essere esclusa. In fondo, sia detto per correttezza intellettuale, nessuno ha mai pensato che Berlusconi possa rinunciare al principio ideale che da sempre, sopra ogni altra cosa, ne anima la natura: salvaguardare la “roba”, la sua. Evitando prevedibilità, non chiameremo qui in causa il pluridecennale conflitto di interessi. Non è questo al momento né il punto né il momento opportuno. Assai meglio fare invece caso nuovamente alle parole attribuite, testualmente, secondo alcuni, a Matteo Salvini. Ormai certo d’essere da tempo il vero suggeritore della direzione politica ed espressiva di marcia di Cologno. Magari dettata ai suoi fidati uomini presenti nella macchina dell’altrui azienda; esecutori garantiti instancabili, insomma. Non è un caso d’altronde che un professionista dotato d’amor proprio, Gerardo Greco, tempo addietro, abbia resistito poco nella cabina di comando di Rete4. E forse anche degli studi romani del Palatino, dove hanno luogo molti altri talkshow, compresi “Quarta Repubblica” e “Matrix” con il volto di Nicola Porro. Effettivamente, a farci caso in certe ore, la palizzata televisiva berlusconiana dà decisamente la sensazione plastica che un Daniele Capezzone e una Maria Giovanna Maglie siano davvero i fiduciari - chiavi in mano - della programmazione e del suo possibile indirizzo e svolgimento, diciamo, ideologico. Quest’ultima signora per il tratto di sicumera proprietaria che sempre più mostra, puro talento nell’occupare lo spazio delle inquadrature in modo quasi anamorfico, totale, troneggiante. Nel frattempo, il “liberale” Capezzone, svolge il suo impegno di “palotin” in modo non meno impeccabile, senza mai cedimenti a dubbi o smarrimenti, fornendo talvolta dati, cifre, prospetti, lì per lì materiali da scaletta. I pallottini, sia detto per chi dovesse ignorarlo, sono la scorta, gli armigeri, i galoppini che accompagnano Ubu Re, parodia impeccabile del potere concepita per un teatro di burattini dallo scrittore francese Alfred Jarry. Dove Ubu Re, in questo caso, sembra, ohibò, essere piuttosto l’estraneo Salvini, nel pratico ruolo dell’usurpatore in casa e studio di registrazione altrui, relegando Berlusconi a semplici ruoli secondari. Tornando però al primo ipotetico inganno, è opportuno illudere chi a suo tempo ha già patito molto nel trangugiare, sempre altruisticamente, “l’amaro calice della politica”, assicurandogli che certamente – parola di socio Matteo – otterrà prossimamente il Colle più in alto? E ancora, tornando alle altre parole sempre attribuite a Salvini - “Sono io ormai a dettare la linea alle televisioni di Berlusconi” -  sia questa la soluzione ottimale per quei palinsesti? Anche la teatralità di Mario Giordano, effettivamente, rimanda molto al citato Ubu, così come la postura del collega Del Debbio (anni fa si vociferava addirittura che Berlusconi lo volesse a capo di Forza Italia) sempre pronto a porgere il microfono ai passanti dal linguaggio spiccio delle destre plebiscitarie la cui semplificazione rasenta il razzismo rionale. Certo, ognuno in casa propria fa quel che meglio crede, invita le persone che gli risultino più idonee, non chi rubi di nascosto pezzi d’argenteria, ma in questo nostro caso la domanda che si solleva, pensando proprio allo stato dell’arte laggiù a Mediaset, tra Berlusconi e Salvini, chi è al momento il vero padrone di casa, l’unico con le chiavi delle salmerie elettorali? Saperlo. Magari dalla bocca dello stesso diretto interessato, cioè il Cavaliere.

Paolo Becchi sul presunto stupro di Ciro Grillo: "Avviso per la fiducia o qualcosa di ancor più torbido?" Libero Quotidiano il 7 Settembre 2019. La notizia è grossa, enorme, per quanto molto nebulosa. Si parla delle accuse della modella scandinava nei confronti del figlio di Beppe Grillo, Ciro Grillo, che la avrebbe violentata insieme a degli amici nella casa del padre. Fatti che risalgono a luglio,

prima della crisi di governo insomma, ed emersi solo nelle ultime ore, dopo il giuramento del nuovo esecutivo gialloverde. E sulle tempistiche con cui è stata gestita questa notizia, Paolo Becchi, nutre con discreta evidenza qualche sospetto, che palesa su Twitter: "Chissà perché la notizia del presunto stupro di gruppo, a cui avrebbe partecipato Ciro figlio di Grillo, nel mese di luglio e nella villa di Grillo, compaia solo oggi e passi quasi inosservata...", commenta in un primo cinguettio. Dunque, il professore a strettissimo giro di posta rincara con un secondo tweet: "Avviso per il voto di fiducia di lunedì o c'è qualcosa di ancora più torbido?". Ai posteri l'ardua sentenza.

Rai, contro Salvini, di tutto, di più. Il post in cui un giornalista, caporedattore a Radio 1, augurava a Salvini di suicidarsi con un colpo in testa è solo la punta dell'iceberg. Oriana Allegri il 7 settembre 2019 su Panorama. “Non ci sto a passare per il mostro che “la bestia” (ovvero il sistema comunicativo al servizio di Salvini) tenta di dipingere”. Comincia così il lungo (e noiosissimo) post di “scuse” pubblicato su Facebook da Fabio Sanfilippo, Caporedattore centrale in Rai, al Giornale radio 1. Un raro caso di scuse invisibili, da ricercare in un eventuale metatesto, visto che il giornalista barricadero del servizio pubblico ha detto che la riscriverebbe quella lettera aperta all’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini. L’ha tolta da Facebook, ma la riscriverebbe. Insomma, questo è il Caporedattore centrale made in RAI, che ha chiamato “nemico mio” l’ex ministro e gli ha augurato il suicidio con un colpo alla testa, con la ciliegina sulla torta della sottile minaccia alla figlia di sei anni. Una viscida allusione al metodo Bibbiano, anche se non lo nomina. Proprio come le sue scuse: le dichiara ma non ci sono. Se cercate fuori dalla Lega politici indignati, accuse pesanti, richieste di sanzioni per il giornalista-tifoso, beh, risparmiate la fatica. La cosa è passata ovviamente sotto silenzio, in cavalleria. Se una cosa del genere l'avesse scritta l'ex Ministro dell'Interno verso Sanfilippo immaginatevi cosa sarebbe successo: il finimondo...Un post, accuse che toccano direttamente Viale Mazzini. Mai l’azienda pubblica aveva toccato il fondo come di questi tempi. Ognuno di noi ha il dovere di rispettare la legge e augurare la morte a qualcuno o minacciarlo alludendo alla sottrazione di un figlio è contro la legge, non è solo “una caduta di stile”, come minimizza il Caporedattore di Radio1. La Rai è stata sempre così, diciamocelo chiaramente. Una torta divisa con un coltello cencelliano. Ma negli ultimi anni, con l’avvento di Renzi e del suo famelico clan, il manuale Cencelli (che pure per anni ha garantito un minimo equilibrio e un minimo pluralismo all’interno del servizio pubblico) è stato definitivamente infilato in un cassetto e chiuso a chiave. Il renzismo, senza argini e glorificato a reti e testate unificate, ha alimentato tutto questo. E il risultato è il pessimo, vile, osceno post di Fabio Sanfilippo. Che è stato sospeso dall’azienda, ma che si sente forte dei suoi protettori. Siamo curiosi di vedere come andrà a finire. Anche se ora il governo è cambiato e sono tornati i suoi padroni. Quindi crediamo che non abbia nulla da temere. Sono tornati i pluralisti a corrente alternata. Quelli che se non vincono loro allora è in pericolo la democrazia, ma che se prendono la poltrona ci mettono un attimo a dare inizio alle epurazioni. E senza alcun clamore da parte dei media di sistema, pronti ad applaudire qualsiasi nuovo capobranco, purché allontani il pericolo di pensare (e agire) fuori dal coro. Quando Fabio Sanfilippo parla di un “sistema comunicativo al servizio di Salvini”, mente spudoratamente, sapendo di mentire. Il problema in questi ultimi 14 mesi è stato proprio non essere riusciti a riequilibrare in senso pluralista le varie forze in Rai. Basti guardare ai tiggì, dove l’unico fuori dal coro è il Tg2 di Gennaro Sangiuliano, non a caso attaccato quotidianamente e ferocemente dai peones del Pd.

Ammettiamolo: l’arroganza e il superamento di ogni limite di giornalisti e funzionari al guinzaglio del Pd nella principale azienda editoriale del Paese è stato uno dei tanti errori del governo giallo-verde, che ha timidamente provato a essere inclusivo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la rabbia e la spocchia di soggetti come Fabio Sanfilippo, che si definisce buono e amante dei migranti e dei loro bambini, ma poi usa i figli di tutti gli altri come carne da macello mediatico. E per cosa? Per un post su Facebook, per un attimo di celebrità, per lo sfogo volgare di un uomo pagato da tutti noi. Ci auguriamo che Salvini, o chi per lui, faccia tesoro di questo ennesimo schiaffo. Perché quando il vento cambierà nel Paese, e quindi anche in Rai, non si potrà più essere “inclusivi”. I cani rabbiosi vanno rinchiusi, come è stato fatto a volte in questi anni a parti invertite. E se hanno il grado di Caporedattori centrali, vanno sospesi a tempo indeterminato. E quando ululeranno alla “dittatura” (lo fanno sempre, quando qualcosa scalfisce i loro interessi e il loro conto in banca), gli si ricordi che si tratta di banalissimo “Spoils system”. Ma, viste le abituali conoscenze dell'inglese, forse sarebbe il caso di tradurlo.

Mentana a Senaldi: "Processano Libero perché preferiscono colpire i soliti sospetti, non gli ingombranti". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano 8 Maggio 2019.

«Toglimi una curiosità: siete un giornale di idee, perché le nascondete sotto titoli da Vernacoliere?». 

Se le idee non le sintetizzi in espressioni chiare e forti, chi se le ricorda, e poi come fai ad arrivare a chi non ti legge? 

«Capisco, ma dissento. Ci sono tanti modi per comunicare». 

Pensa al tuo neologismo, «webeti»: non è un complimento, ma dice tutto in modo non sostituibile in maniera altrettanto efficace. 

«Credo che i giornalisti si debbano dare delle coordinate, e finché restiamo tutti nello stesso perimetro dobbiamo rispettarle». Le sensibilità sono diverse, quel che per me non è offensivo, per altri può esserlo, chi ha ragione? 

«Se l'informazione però fosse svincolata da alcuni criteri base, essa cesserebbe di esistere, perché si perderebbe il senso della diversità tra vero e falso». 

La fondamentale distinzione tra fatti e opinioni. L' Ordine mi ha censurato per alcuni titoli, come «Patata Bollente», che sono appunto opinioni. Non credi che i miei colleghi che giudicano dovrebbero preoccuparsi di più di chi scrive balle o pubblica carte inesistenti? 

«Una cosa non esclude l' altra. L' Ordine dei Giornalisti, finché esiste, è normale che si occupi di tutti i problemi della categoria».  

Ma nei fatti contesta puntualmente Libero per i suoi titoli provocatori e poi, se un altro giornale apre con «Merkel culona inchiavabile», intercettazione che non risulta agli atti, potrebbe non esserci mai stata, e ha avuto implicazioni decisive sul governo e sull' immagine internazionale dell' Italia, si gira dall' altra parte.  

«Le sensibilità sono cambiate, credo che oggi quel titolo non sarebbe rifatto, come vorrei che non fossero stati fatti alcuni che a te invece piacciono. Comunque non ha senso applicare il Var ad avvenimenti di quasi dieci anni fa». 

Beh, a me ancora brucia il rigore su Ronaldo del '98. 

«Ognuno vede soprattutto gli episodi di cui è protagonista. Poi è ovvio che chi è più contromano si senta più perseguitato, ma guarda che fanno le pulci anche agli altri. Se poi mi tiri in ballo le intercettazioni, è evidente che il loro uso, spesso gratuito e strumentale, è uno dei punti dolenti del giornalismo italiano. Il problema però non è tanto chi le raccoglie, bensì il rubinetto dal quale scorrono. Tra tutte le figure che possono maneggiare e manipolare le intercettazioni, i soli non accusabili sono i giornalisti, visto che ce le passano». 

Vado piatto: lo scorso autunno due cingalesi di ritorno dal loro Paese furono ricoverati per colera al Cardarelli. Titolammo: «Colera a Napoli». Occhiello: «Lo portano gli immigrati». Scoppiò un putiferio. Lo stesso giorno, in taglio basso, il Corriere della Sera titolava «Colera a Napoli», e nessuno ebbe nulla da ridire. 

«Se mi vuoi far dire che in Italia c' è sempre chi ha un posto a tavola e chi no, chi viene trattato con i guanti e chi con la bacchetta, non ho difficoltà. Cito una frase iconica di "Casablanca": piuttosto che fermare l' indagato ingombrante, si preferisce andare sempre contro i soliti sospetti recidivi". È la storia del nostro Paese, in ogni ambito. Pensa a Berlusconi, ricco, potente e stravotato ma trattato per decenni come un avventizio. Chi l' ha combattuto per anni, fa ammenda solo ora, unicamente perché Silvio è stato soppiantato come nemico pubblico numero uno da un altro». 

Sai che Libero è stato censurato per aver pubblicato fedelmente un verbale dei carabinieri, che descriveva con un' espressione cruda lo stupro della ragazza polacca a Rimini, due anni fa? 

«Io non l' avrei pubblicata, mi fece arrabbiare. Però oggettivamente pubblicare un verbale dei carabinieri non dovrebbe essere sanzionabile». 

Se ti dicessi che noi di Libero siamo vittime di razzismo del pensiero: basta che parliamo e c' è chi d' istinto ci accusa? 

«Sarebbe vero se chiudessero Libero o ti impedissero di scrivere, per ora venite solo contestati». 

Ogni volta che un titolo di Libero non piace a una parte dell' opinione pubblica, l' Ordine apre un procedimento disciplinare nei nostri confronti. Spesso i suoi consiglieri ne parlano prima sui loro social. Risultato: centinaia di messaggi che invocano la chiusura del nostro giornale e la mia radiazione. Non credi che qualche collega stia aizzando il fuoco contro di noi? 

«Voi però un po' ve la cercate. Per come sono fatto io, non chiuderei mai un giornale, neppure se commettesse reati. Non scherziamo, nessuno può mettersi al di sopra della libertà di stampa». 

Sei diventato un difensore dell' Ordine dei giornalisti? 

«Nel Paese che vagheggio, l' Ordine non dovrebbe esistere. L' innovazione tecnologica ha sfondato completamente la nozione di creatore di informazione. L' Ordine si concentra sulla carta stampata perché è la sola informazione controllabile e sanzionabile, ma questo dimostra solo che non è più in grado di vigilare sul flusso di notizie, e quindi la sua esistenza ha perso significato». 

Enrico Mentana, direttore del TgLa7 e recente fondatore del sito-web di informazione Open, non è uomo che fa sconti. Neppure a chi lo intervista. Più volte ha contestato i nostri titoli, per questo sentirlo alla vigilia di un' audizione presso l' Ordine dei Giornalisti, dove verrà passato al setaccio il «metodo Libero» è un' ottima preparazione all' appuntamento. Ma grazie a Dio non è critico solo con noi. Non perdona all' intera categoria di aver sagomato l' informazione in modo che non si capisce più bene cosa sia fiction e cosa sia realtà. E sul punto sfido la sua pazienza e mi incaponisco. Nei giorni in cui Libero fu censurato per uno dei nostri titoli che neppure ricordo, un eminente membro del Consiglio di disciplina dell' Ordine firmò uno scoop su un' inchiesta che gettava ombre sulla vendita del Milan, puntualmente smentita dalla Procura nel giro di 24 ore e a oggi mai aperta. Ovviamente neppure l' Ordine aprì inchieste, anche se la notizia era sensibile Separiamo le opinioni sgradite o sgradevoli, peccati venali, dalle balle, colpose o dolose, peccati mortali?

«E va bene, le prime sono lesioni, i secondi omicidi. In un periodo in cui la credibilità di qualsiasi giornalista è messa in discussione e la nostra professione è assediata dalle fake news non c' è dubbio che la cosa più grave che un professionista possa fare sia mentire scientemente, perché distrugge la reputazione di tutta la categoria». 

Sia Di Maio sia Salvini non perdono occasione per attaccare i giornali: questo significa che la libertà d' informazione è a rischio? 

«Ma è sempre stato così. Anche Berlusconi e Renzi non amavano la stampa e se fosse stato possibile ne avrebbero fatto a meno. Silvio diceva che il miglior consiglio che gli ha dato la Thatcher è stato ignorare i giornali, anche se lui non c' è mai riuscito. Oggi, grazie a Facebook e ai social, il leader leghista e quello grillino possono rivolgersi agli elettori senza intermediazioni, e se ne approfittano, spesso assumendo un atteggiamento vittimistico nei confronti della stampa senza essere neppure sottoposti a contraddittorio». 

Perché i giornali istituzionali sono così contrari al governo? 

«Penso che sia anche una reazione. Il governo li attacca e loro rispondono». 

Si parla di «pericolo fascismo»: tu lo ravvisi? 

«È evidente che in questo momento la democrazia ha un minore appeal rispetto a un tempo. Noi figli del Novecento sappiamo che la democrazia è dialogo e mediazione, non come oggi dove sembra ridotta al fatto che chi vince governa e chi perde rosica. Però il fascismo è morto e non tornerà e non è vero che Salvini è fascista, ma se non gli dispiace del tutto passare per tale perché ammicca anche a quell' elettorato». 

Non è che la sinistra accusa Salvini di fascismo perché ha pochi argomenti? 

«Si assiste a fenomeni preoccupanti ed è normale che chi è cresciuto nella cultura novecentesca li interpreti con le chiavi di lettura di allora e appiccichi a fatti nuovi etichette vecchie. Però oggi è tutto diverso. Negli anni '70 e '80 l' emergenza era molto più alta, c' erano il terrorismo nero e quello rosso, centinaia di persone che sparavano e uccidevano per una rivoluzione neofascista o una comunista, altrettanto utopistica e sciagurata, e c' erano milioni di individui nostalgici del Ventennio o che vedevano l' Urss come un modello. Questo non tornerà, anche se ai miei occhi novecenteschi c' è un' involuzione delle garanzie democratiche e, conseguentemente, c' è una deriva giustizialista». 

M5S sta inseguendo la sinistra su giustizialismo e anti-fascismo? 

«L' ha superata, direi. M5S e Lega hanno occupato tutti gli spazi possibili del dibattito, lasciando il Pd e Forza Italia, ovverosia l' opposizione, senza munizioni. Su famiglia, opere pubbliche, sicurezza, tasse, gli azzurri non riescono a smarcarsi da Salvini, come i democratici ormai inseguono i grillini su giustizia, temi etici e sostegno ai poveri». 

Si però M5S e Lega dovrebbero governare insieme anziché tirarsi cazzotti. 

«E perché? Siamo in campagna elettorale e si sono spartiti i ruoli, secondo tradizione italiana, uno fa il guelfo e l' altro il ghibellino e gli altri sono fuori dal proscenio. Non è detto che dopo il voto non vadano avanti, divisi ma insieme». 

Perché M5S cala e la Lega sale? 

«Salvini aveva la possibilità teorica di prendersi tutto il centrodestra, e più o meno lo sta facendo. M5S era una forza di protesta, ma la protesta o è soddisfatta o è delusa, e in entrambi i casi non paga alla lunga, perché l' opinione pubblica non si sazia mai, altrimenti Renzi governerebbe ancora grazie agli 80 euro. E poi la Lega è un partito strutturato, con un leader e una classe dirigente nuova ma alla seconda generazione, Cinquestelle è un neonato. Ha fatto un miracolo a prendere il 50% l' anno scorso al Sud, terra tradizionalmente di voto di scambio, senza aver nulla da offrire. Ora gli si presenta il conto». 

Quanto durerà Salvini? 

«Berlusconi è esploso quando è crollato il comunismo, Renzi quando è crollato il berlusconismo, infatti a votarlo sono stati soprattutto i moderati. Poi è venuto fuori Salvini, che ha rubato i voti che Renzi aveva sottratto al centrodestra, lasciandolo solo con l' elettorato di sinistra, che però non si riconosceva in lui. Salvini durerà fintanto che riuscirà a occupare tutti gli spazi del centrodestra e della destra. Ma anche lui ha fatto un miracolo, cosa gli vuoi dire, partiva dal 3%? Cosa gli manca?». 

Gli manca di governare lui in prima persona, visto che è il leader più apprezzato della forza che ora ha più consensi. 

«Ma in Parlamento ha solo il 17%. La maggioranza va costruita, ma mi sembra che lui abbia preso una via diversa dal tradizionale centrodestra, non vuole riproporre su scala nazionale il modello lombardo o veneto. Certo, deve fare in fretta, perché la storia spesso è un pendolo». Pietro Senaldi

ECCESSO DI FEDE. Matteo Salvini, "questo è troppo". Filippo Facci salta sulla sedia: perché così il leghista rischia grosso. Filippo Facci 8 Maggio 2019 su Libero Quotidiano. Pure Padre Pio. È troppo. Libero è un giornale filo-salviniano, non c' è dubbio: anche se per risultare pro-Salvini, oggi, basta non considerarlo un Mussolini redivivo che provoca stragi in Nuova Zelanda con un' alzata di spalle. È come fu per Berlusconi: sono le cazzate che scrivono altri a sospingerti giocoforza a difenderlo, soprattutto quando la controparte annuncia tutti i giorni l' apocalisse fascista o, diversamente, ha il profilo inebetito di un ragazzetto di Pomigliano d' Arco. Però, ecco, Padre Pio è troppo. Quando ieri ho visto la pagina 9 di Libero («Salvini prega Padre Pio: mi aiuta ogni giorno», «ho sempre bisogno dei suoi consigli») c' erano anche due foto del vicepremier a Pietrelcina con tanto di espressione assorta e spiritualizzata (sembrava si fosse fatto una canna) e mi sono chiesto se il prossimo titolo sarebbe stato «Salvini salta nel cerchio di fuoco», «Salvini bonifica la discarica di Malagrotta» oppure «Salvini trebbia il grano a Vimercate». Poi, ancora, mi è tornato in mente il settimanale Cuore (insuperato giornale satirico degli anni Novanta, prima che la politica superasse ogni satira) quando nel tardo 1992 cominciò a sfottere il dipietrismo più stucchevole e a disegnare il magistrato come una Madonna pellegrina che arrestava i ricchi, donava ai poveri, salvava i gatti sugli alberi e moltiplicava i pani e i pesci oltreché gli arresti. In realtà non c' è paragone: ai tempi c' erano articoli come uno celebre di Paolo Colonnello, che oggi presiede seriosamente il Consiglio di disciplina dell' Ordine dei Giornalisti (quello che condanna sempre Libero) che sul «Giorno» scriveva articoli titolati «Di Pietro in autostrada soccorre una ferita» e scriveva testualmente «A un eroe non fa difetto la virtù della soccorrevolezza , e Antonio Di Pietro non ha esitato a togliere i panni dell' irreprensibile giudice per indossare coraggiosamente quelli del buon samaritano».

Nel portafogli - Ci stiamo avvicinando, anche se il paragone in realtà non regge, perché Salvini è anzitutto più divisivo e poi perché l' articolo sulla visita a Pietrelcina era pur sempre cronaca. Il punto infatti non è Libero, il punto è Salvini, la cui comunicazione si sta facendo decisamente eclettica. Non vorrei che c' entrasse ancora il suo spin doctor Luca Morisi - quello che pubblicò su Facebook la famosa foto del vicepremier armato di mitra - in preda a un momento di entusiasmo creativo. Temo di no: anche perché Salvini durante «Porta a Porta» aveva già estratto dal portafogli l' effige del Santo: quasi a voler bilanciare il Luigi Di Maio che nel settembre 2017 baciò la teca di San Gennaro in campagna elettorale.

Rischio fanatismo - Ora: io scrivo a titolo personale e non mi permetto di eccepire circa la fede di nessuno (tantomeno dei lettori) non escludendo peraltro che il ricorso salviniano a Padre Pio sia legato alla situazione del Milan. Preciso inoltre che lo scrivente è un cosiddetto mangiapreti e che il prossimo raduno nazionale degli Alpini, previsto nel prossimo weekend a Milano, io lo farei celebrare con uno sfondamento delle mura vaticane da parte dei 500mila alpini previsti. Io non faccio testo, ma altri sì. E ci sono temi che sono molto più divisivi di quanto Salvini forse immagina: non la fede in un paese che resta cattolico, per carità, ma l' ammiccamento a certa superstizione misticheggiante che ancora ci schiaccia nel Sud del Mondo e ai margini dell' Occidente. Padre Pio non è il Papa. Non è una banale professione di fede. Padre Pio è quella cosa per cui le troupe estere, ancor oggi, ci immortalano e ci riconsegnano a rassicuranti contorni macchiettistici, come quando, tre anni fa, in migliaia si agitarono attorno a una mummia siliconata che viaggiò dalla Puglia a Roma con tanto di scorta armata: una versione 2.0 della credulità popolare ammantata di fanatismo nei confronti di un sacerdote, ricordiamo, che la Chiesa definì impostore e poi, da morto, trasformò a tempo record in beato e in santo - a furor di invasati - e soprattutto in business miliardario. Attenzione insomma. perché Padre Pio, per un aspetto, è come Salvini: è divisivo, e anche molti cattolici - spesso nordici - potrebbero avere in uggia certi ammiccamenti a certa industria delle anime che tanto assomiglia a un' immensa ed epocale circonvenzione d' incapaci. Dopodiché va bene, capisco, la classifica, la Champions: per il Milan questo e altro. Filippo Facci

Selvaggia Lucarelli per “il Fatto Quotidiano” l'8 maggio 2019. Finalmente abbiamo scoperto un modo efficace per sabotare la propaganda social di Matteo Salvini: la rivoluzione del selfie. Si tratta di andare a uno dei suoi comizi (o preferibilmente arrivare verso la fine, così da non fare numero) e mettersi in fila per fare un selfie con il ministro dell' Interno. Durante l' attesa, per non destare sospetti tra adoratori e militanti leghisti, è consentito pronunciare frasi quali "Chissà come mai i primi della fila sono solo ragazzoni ben vestiti e in carne, le donne e i bambini dove stanno?" a anche "La fila è lunga ma se voi siete con me, amici, io non mollo!". Arrivati al cospetto del capitano, bisogna salutarlo con reverenza e tenere il cellulare pronto in modalità foto o video perché nella pasticceria locale lì accanto sfornano i dolci 20 minuti dopo e lui deve fare il selfie con la crostata ai mirtilli, per cui non ha tempo da perdere. Appena guardate tutti e due in camera e Salvini sfoggia il suo sorriso da ebete 2.0, dovrete dare il via alla protesta facendo o dicendo qualcosa che possa metterlo in profondo imbarazzo. A oggi, c' è chi gli ha chiesto che fine abbiano fatto i 49 milioni di euro, chi gli ha dato della "merda letale", chi si è messo a limonare alle sue spalle (due ragazze), chi gli ha chiesto conto di sue frasi sul Sud Italia pronunciate tempo fa. Osservare il sorriso di Salvini che si contrae, che si richiude di scatto a mo' di pianta carnivora che ha appena ingoiato una mosca, è un momento di godimento assoluto. Diventa persino un po' rosso sulle gote, il capitano, perché umiliazione a parte, comprende perfettamente cosa accadrà di lì a poco. Sa che quel video, quella foto finiranno in rete, sulle home dei siti di informazione, sulle nostre bacheche Facebook e avrà sì, la viralità che tanto cerca, ma in modalità "zimbello". Ed è questa la protesta che gli brucia di più. Più di qualunque attacco di Conte, di video di Saviano, di risposta di Fazio, di lezione di Di Maio. In quel caso, lui usa i nemici importanti per rafforzare il suo messaggio, per sottolineare il contrasto tra lui e i buonisti, per enfatizzare il suo manicheismo da bar. Alla pernacchia del popolo non sa cosa rispondere, perché nella sua narrazione, nella sua propaganda, lui è il popolo. È per questo che la rivoluzione del selfie dovrebbe propagarsi nelle piazze e diventare il peggior spauracchio di Salvini. Altro che Siri, altro che le indagini per sequestro di persone, altro che l' Europa. Bisogna combattere la sua strategia del terrore giocata sulla paura nei confronti degli stranieri con altrettanta strategia del terrore, il terrore dei selfie. Ogni volta che Salvini vedrà una fila di selfisti ad attenderlo in una piazza, dovrà temere che lì in mezzo ci siano dei sovversivi, dei sinistroidi buonisti radical chic mascherati da leghisti, dei ragazzi, dei vecchi, delle donne pronti a percularlo e a restituirgli un' idea di sé ben più accurata di quella che gli restituisce un selfie. Dovrà cominciare a temere pure il panino con la Nutella o la fetta di torta del pasticcere di Nola o di Cremona, perché magari non se ne accorge, ma sul pan di spagna, in controluce, appare la scritta "Salvini pirla". Dovrà guardare i telefonini altrui come fossero granate, dovrà vivere in uno stato perenne di legittima difesa, visto che gli piace tanto il concetto. E che Salvini viva le contestazioni pubbliche con un disagio incontrollabile, lo dimostrano gli ultimi due episodi accaduti proprio nelle piazze. A Salerno una ragazza gli chiede un selfie e intanto, riprendendo tutto col suo cellulare, gli domanda "Ma noi del Sud non eravamo dei terroni di merda?". Non fa neanche in tempo a finire la frase che Salvini le dice "Cancella!" e la Digos le sequestra il telefonino, tra le proteste della ragazza che ne pretende la restituzione. Cioè, dopo l' agghiacciante pubblicazione del loro selfie after-sex in accappatoio non ha fatto sequestrare il cellulare alla Isoardi e lo fa sequestrare a un' anonima contestatrice. Ma la cosa peggiore è accaduta sempre a Salerno e riguarda invece una protesta vecchia maniera, anch' essa però destinata a diventare virale. Una signora ha appeso sul suo terrazzo uno striscione con su scritto "Questa Lega è una vergogna". Le persone in piazza lo fotografano, lo pubblicano sui social. Poco dopo la polizia bussa alla porta della signora, che è invitata a togliere lo striscione, altrimenti ci saranno delle non meglio specificate conseguenze legali. Il 41 bis, probabilmente. Di questo passo attendiamo le prime accuse formali di vilipendio di selfie col ministro o un emendamento alla legge sulla legittima difesa che estenda il diritto di sparare anche a persone che appendono striscioni di protesta sulla facciata di condomini, perché se li esponi nel salotto di casa tua non ti succede niente, ma se mi sbucano fuori all' improvviso tra i fili per i panni e la grondaia io sparo. Morale: la nuova forma di resistenza al pensiero salviniano parte da qui, dalla rivoluzione del selfie. Viralizziamo la nostra protesta usando la sua faccia. Facciamo che i metodi della sua propaganda diventino i nostri e che la nostra telecamera frontale diventi un autentico frontale, per lui e per il suo proselitismo. Facciamolo adesso, finché non gli verrà in mente di chiedere ordine e disciplina pure ai suoi selfisti da piazza, presto tutti in fila, con un grembiule liso, tra militari e cani lupo. P.s. in questi giorni Salvini è nelle Marche. Durante il selfie chiedetegli che almeno, la prossima volta, la Lega 'sti 49 milioni se li spenda tutti in ciauscolo.

CHI DI SELFIE FERISCE, DI SELFIE PERISCE. Da open.online il 12 maggio 2019. Ancora un finto selfie per il ministro Matteo Salvini. Durante un comizio a Fano (Pesaro-Urbino), due ragazze e un ragazzo si sono avvicinati al vicepremier per chiedere una foto.  Al momento dello scatto, però, le due giovani si sono baciate, mentre il ragazzo ha cercato di fare lo stesso con il leader leghista, che si è prontamente spostato evitando il contatto. La stessa scena era successa anche a Caltanissetta: protagoniste, Gaia e Matilde, due ragazze che si erano baciate proprio durante un selfie con il ministro, #GaiaeMatilde era diventato ben presto un hashtag su Twitter. «Era una risposta al Congresso delle Famiglie di Verona di un mese fa - hanno detto in un'intervista a Open le due ragazze -. Anche se è passato del tempo, è importante far sentire il proprio dissenso». L'ultimo "selfie a tradimento" è avvenuto a Salerno, dove una ragazza ha chiesto al ministro: «Grande Salvini! Siamo terroni di merda? Non siamo più terroni di merda?», ottenendo una reazione non troppo diplomatica.

Che tristezza la "resistenza" a colpi di selfie (con insulto). Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 09/05/2019, su Il Giornale. Sono l'esercito del selfie. Ogni era ha i suoi eroi, ed è anche dalla statura di essi che si misura il livello del periodo storico. Dunque, chi sono i nuovi eroi del 2019? I nuovi resistenti (li definisce proprio con questa parola Repubblica, lo avessimo fatto noi ci avrebbe querelato l'Anpi per vilipendio alla memoria) sono quelli che fanno i selfie con Salvini per prenderlo in giro. Gesto di grande coraggio ed eroismo. Massimo argine digitale nei confronti del pericolo neofascista. Pericolo che, ovviamente, non c'è, ma va molto di moda fare gli antifascisti in assenza di fascismo. Sono l'«esercito del selfie», e non è un ritornello estivo. Questi si prendono sul serio. Il partigiano del selfie ha tutta una sua metodologia: assiste per interminabili ore al comizio del leader leghista e poi - presumibilmente camuffato con elmo da vichingo e camicia verde - si mette in fila in attesa di una foto col Capitano. E poi scatta l'agguato. L'ora X. L'imboscata. Sono dei Rambo da Instagram. Roba da alto manuale di strategia militare, Sun Tzu se lo mangiano con un clic, questi qui. C'è chi, appena in posa, gli dice «Sei una merda letale»; chi gli chiede che fine hanno fatto i 49 milioni del Carroccio e chi vuole sapere se i terroni sono ancora «di merda». Una delle performance più creative, roba da Marina Abramovic, è stata quella delle due lesbiche che, accanto al ministro, hanno iniziato a baciarsi con passione. Ormai è un vero e proprio genere fotografico. Non ci stupiremmo se qualche solone (tipo quelli del Salone) si inventasse anche un premio ad hoc per celebrare la nouvelle vague. Il sito di Repubblica, nel frattempo, per non saper né leggere né scrivere, ha già imbastito un sondaggio per decretare l'insulto più riuscito. Per non parlare del festival degli striscioni e dei cartelli, comparsi su e giù per le piazze, dove si sfiorano le vette altissime del pensiero rosso: da «Fischia il vento Salvini stai attento» a «Meglio buonista e puttana che fascista e salviniana». Se la difesa delle nostre libertà è nelle mani di questi qui possiamo stare tranquilli...Secondo Selvaggia Lucarelli, tra il serio e il faceto, quella degli autoscatti è una legittima difesa: «La nuova forma di resistenza al pensiero salviniano parte da qui, dalla rivoluzione del selfie». Il problema non è che qualche cretino perda il suo tempo a sbeffeggiare il vicepremier, il problema è che qualcuno lo voglia trasformare in un resistente e concedergli la dignità dell'eroe. Nel vuoto totale della sinistra persino le pernacchie rivolte dai passanti a Salvini diventano un gesto ideologico e rivoluzionario. Sbertucciando in un solo colpo l'intelligenza e pure quei pochi che hanno davvero fatto la Resistenza.