foto antonio  1.jpgDenuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, calunnia o pazzia le accuse le provo con inchieste testuali tematiche e territoriali. Per chi non ha voglia di leggere ci sono i filmati tematici sul 1° canale, sul 2° canale, sul 3° canale Youtube. Non sono propalazioni o convinzioni personali. Le fonti autorevoli sono indicate.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.

 Dr Antonio Giangrande  

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INCHIESTE IN TESTO: TEMA - TERRITORIO

 

 

http://www.megghy.com/immagini/animated/bobine/bandes-10.gif INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA - ANTONIO GIANGRANDE - TELEWEBITALIA

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FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA   

 

I TARANTINI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?!?

di Antonio Giangrande

(Inchiesta basata su atti pubblici e/o di pubblico dominio. Le fonti sono lincate).

GLI ABUSI DELLA PROCURA DELLA REPUBBLICA DI TARANTO

 

GLI INGIUSTIZIATI DI TARANTO: DOMENICO MORRONE

 

MAFIA, PIZZO ED USURA. MILITARI: PIZZO COME I CLAN MAFIOSI MALAVITOSI

 

MATTEO DI GIORGIO E PIETRO ARGENTINO.

I MAGISTRATI E LA SINDROME DELLA MENZOGNA.

 

CASO ILVA PER LA PROCURA DI TARANTO TUTTI DENTRO

 

ILVA E LE TELEFONATE DELLO SCANDALO. TUTTI DENTRO

 

LA VERITA’. VENDOLA, STEFANO ED I RIVA DELL’ILVA DI TARANTO

 

TARANTO. ILVA, VENDOLA, STEFANO E GLI ALTRI.

 

TARANTO CHE DIFENDE I LADRI

 

IO SO' CARMELA!

 

SALENTO. CARNEADI E DINOSAURI DELLA POLITICA

 

La contrapposizione mafiosa: salute e lavoro

 

MAGISTRATI DENUNCIATI

 

MAGISTRATI CORROTTI MAGISTRATI CORROTTI

 

 

 

ERRORI GIUDIZIARI 1

 

ERRORI GIUDIZIARI 2

 

INQUINAMENTO OMERTA'  

 

 

 


SOMMARIO

INTRODUZIONE

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

IL SISTEMA ILVA ED I MERCENARI AUTOCTONI.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

IL SUD TARTASSATO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

LA MAFIA HA CONQUISTATO IL NORD.

IL BUSINESS DEI BEI SEQUESTRATI E CONFISCATI.

USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

E POI PARLIAMO DELL'ILVA.

PATRIA, ORDINE. LEGGE.

INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO: LITURGIA APPARISCENTE, AUTOREFERENZIALE ED AUTORITARIA.

DISSERVIZI A PAGAMENTO. COSE STRANE AGLI SPORTELLI ASL DI TARANTO? O COSI’ FAN TUTTI?

DEPURATORI. COME CI PRENDONO PER IL CULO.

DEPURATORI DELLE ACQUE E POLEMICHE STRUMENTALI. UN PROBLEMA NAZIONALE, NON LOCALE.

GUERRA DI TOGHE. ANCHE I MAGISTRATI PIANGONO.

I MAGISTRATI FAN QUEL CHE VOGLIONO.

ANCHE BORSELLINO ERA INTERCETTATO.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO.

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

TARANTO MAFIOSA.

EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.

CHI SONO I MAFIOSI? GUERRA IN PROCURA A TARANTO. PIETRO ARGENTINO E MATTEO DI GIORGIO. PROCURATORI DELLA REPUBBLICA ACCOMUNATI DALLO STESSO DESTINO?

I MAGISTRATI E LA SINDROME DELLA MENZOGNA.

COSI’ LE TOGHE HANNO DISTRUTTO L’ILVA…….E TARANTO.

MAI DIRE MAFIA: IL CALVARIO DI ANTONIO GIANGRANDE.

MAI DIRE ANTIMAFIA.

IL SEGRETO DI PULCINELLA. LA MAFIA E’ LO STATO.

C’E’ MAFIOSO E MAFIOSO. LA LETTERA DI ANNA STRANIERI PER IL PADRE VINCENZO.

LA TARANTO CHE DIFENDE I LADRI.

TARANTO. POLITICA E MAGISTRATURA. PARLIAMO DI CLAUDIO SIGNORILE.

POVERA LA MIA TARANTO.

VENDOLA E L’AMBIENTE SVENDUTO.

AMBIENTE SVENDUTO: 53 PRESUNTI RESPONSABILI. VENDOLA, STEFANO E GLI ALTRI. LA POLITICA DI SINISTRA E LA GRANDE INDUSTRIA. TUTTI DENTRO, CAZZO! SI', MA QUANDO?

TARANTO E VADO LIGURE. C’E’ INQUINAMENTO ED INQUINAMENTO. E’ SALUBRE SE E’ DI SINISTRA.

LE TANTE STRANEZZE DELLA SANITA’ PUGLIESE.

LE TANTE STRANEZZE DEL CASO ILVA.

I RIVA, L'ILVA E GLI ESPROPRI PROLETARI.

TASSISTI TAGLIEGGIATI.

CONTRO L'AMBIENTALISMO DEL SEMPRE NO! 

L'AMBIENTALISMO E L'ECOLOGISMO DEI LUOGHI COMUNI.

ILVA, LE VERITA' NASCOSTE DELL'INCHIESTA.

LA LOTTA CON GLI IDOLI DELLA PIAZZA.

TARANTO. TUTTI DENTRO.

TARANTO E GIUSTIZIA. LA RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO (SUSPICIONE): UNA NORMA MAI APPLICATA.

ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

LETTERA AL DEPUTATO MAI ELETTO.

DENUNCIA CONTRO UN MAGISTRATO.

SPECIALE PAOLO PAGLIARO E TELERAMA.

SPECIALE CANALE 8 TV.

SPECIALE ANTENNA SUD.

MAGISTRATI SOTTO INCHIESTA.

MAGISTRATI INDIPENDENTI?

TARANTO, QUANDO IL BUE CHIAMA CORNUTO L’ASINO.

TARANTO IGNAVA. TANTO FUMO E NIENTE ARROSTO.

TARANTO VILE DIMENTICA I SUOI FIGLI.

TARANTO FORO DELL’INGIUSTIZIA. MICHELE MISSERI E BEN EZZEDINE SEBAI, CONFESSI OMICIDI NON CREDUTI E SULLO SFONDO L’ILVA.

LA TARANTO DEI TALEBANI E LA CADUTA DEGLI DEI.

TARANTO, ILVA, LA POLITICA, LA STAMPA E LA GIUSTIZIA. AMBIENTE VENDUTO.

AMBIENTE E GIUSTIZIA: CHI COPRE CHI?

PARLIAMO DELLA MAFIA DEGLI AUSILIARI GIUDIZIARI.

TARANTO, QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

ILVA. LA GRANDE TRUFFA. TARANTO, IN CHE MANI SIAMO MESSI. A QUALI MAGISTRATI CREDERE?

TARANTO MAFIOSA, MA ANCHE CORROTTA.

TARANTO MUORE DI FAME O DI TUMORE, O MUORE DI CODARDIA O DI COLLUSIONE.

ORGE IN CANONICA.

TARANTO COME NON LA SI CONOSCE.

MAI DIRE INTERDIZIONE ED INABILITAZIONE: “MESSI A TACERE PERCHE’ RICERCAVAMO LA VERITA’….”

AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA E RESPONSABILITA' DEI MAGISTRATI: PARLA UNO DI LORO.

CONCORSI TRUCCATI.

TARANTINI, FACCIAMOCI SEMPRE RICONOSCERE!

“TERRONE E’ CHI IL TERRONE FA”.

TARANTO: SUBISCI E TACI! TARANTINI: COLLUSI O CODARDI?

MALAGIUSTIZIA, INSABBIAMENTI E MAGISTRATI CORROTTI.

TARANTO: CULLA DELLA CULTURA SOCIO MAFIOSA E DELLA MAFIOSITA' REALE.

OMERTA' E MEDIOPOLI.

LA STORIA DI GIANCARLO CITO.

ILVA: MADRE E MATRIGNA. TUTTI LA AMANO, TUTTI LA RINNEGANO.

TARANTO: CITTA' PIù INQUINATA DELL'EUROPA OCCIDENTALE.

DIOSSINA A TARANTO: 26 MESI DI RITARDO PER FARE I PRIMI MONITORAGGI.

TARANTO: IL FORO DELL’INGIUSTIZIA. SEBAY, MORRONE, PEDONE E GLI ALTRI.

ANTIMAFIA CLIENTELARE.

CONCORSOPOLI, ACCESSO ALL'AVVOCATURA.

INGIUSTIZIOPOLI:

IL CASO MARTINO SCIALPI.

IL CASO CARMELA CIRELLA.

IL CASO FAIUOLO, ORLANDI, NARDELLI, TINELLI, MONTEMURRO, DONVITO.

IL CASO MORRONE.

IL CASO FRANZOSO.

IL CASO NARDELLI.

IL CASO PEDONE, CAFORIO, AIELLO, BELLO.

IL CASO DEI BRACCIANTI AGRICOLI.

MALAGIUSTIZIA: IL REPORT.

PARLIAMO DI INSABBIAMENTI.

PARLIAMO DI PROCEDIMENTI A CARICO DI MAGISTRATI.

"TOGHE SPORCHE SULLO JONIO".

GIUSTIZIA E SICUREZZA? ABUSI ED INSABBIAMENTI!

DENUNCIA I GIUDICI CHE INSABBIANO: LO PROCESSANO IN UN GIORNO.

MAGISTRATI CRIMINALI: CORSI E RICORSI STORICI.

AVETRANA, DELITTO DI SARAH SCAZZI E DINTORNI.

CASTELLANETA. UN NIDO DI VIPERE.

MANDURIA, LA MAFIA E LA MAFIOSITA'.

MARTINA FRANCA. "TOGHE SPORCHE SULLO JONIO".

PALAGIANO. MAZZETTE AI POLIZIOTTI.

SAVA. ANCHE I VIGILI TRUFFANO.

TORRICELLA. QUELLO CHE LA STAMPA CENSURA. OMICIDI DI STATO E DI STAMPA.

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Perché leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene.  C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”.  Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.

"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie  quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude  quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».

Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione. 

Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte.  Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita.  Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».

Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.

«E io a lui: “Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate ’l verno,

giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;

l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta gittan tanto leppo».

Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.

Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.

Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.

Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.

Mamma l’italiani,  canzone del 2010 di Après La Class

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte? 

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);

L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);

La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);

L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);

La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);

L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);

L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).

Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.

Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti.  Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.

I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.

Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.

In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.

In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.

“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?

Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.

La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.

Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.

La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.

Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.

La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.

Parlare di legge, bene o male, ogni  leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.

Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.

La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.

Essa vien da lontano.

E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.

La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.

Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.

Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.

Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.

Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.

Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.

"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»

Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.

- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?

- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…

- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.

- Le giuro…

- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.

- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.

Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."

A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?

Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.  

Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie. 

Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento  e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. 

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.

Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.

Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.

In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.

I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.

Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.

L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.

L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.

L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40%  dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.

L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.

L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.

Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.

Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.

E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.

Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.

Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?

Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?

E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?

La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”

Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.

Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.

Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.

E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.

Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.

Ma chi e quando le cose cambieranno?

Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".

Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.

Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.

"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere.  «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.

"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".

Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.

Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».

Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.

«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps.  «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto. 

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.

Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.

La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».

Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?

«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».

E come si spiega?

«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».

Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?

«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».

Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.

«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».

Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?

«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».

Quali dati?

«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».

Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?

«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».

Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!

«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».

E com'è andata, questa legge?

«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».

Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?

«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».

TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.

Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase  processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.

Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.

La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. 

Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.

 “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".

Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.

“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”,  dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si  può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!» 

VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri.  Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.

L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.

E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:

1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!

2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;

3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.

Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.

Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil. 

Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati vene sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.

Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode. 

Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.

Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.

Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.

Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.

E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.

Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.

Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista. 

Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.

Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.

Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).

Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.

''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.

D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.

Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.

Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.

"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta,  Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario".  Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".

Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".

Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.

LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.

Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».

Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".

La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento  (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier  di partecipare all’udienza  del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri.  Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".

Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?

Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».

Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.

Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it,  è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali.  Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.

“VADA A BORDO, CAZZO!!”.

E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia.  Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio  il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.

De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?

Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»

De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»

Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»

De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».

Schettino: «Comandante le dico una cosa...»

De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».

Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».

De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.

Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:

« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».

« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».

Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).

Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.  Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.

Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.

In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”

Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.

E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.

Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.

Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile.  Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.  

Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono:  “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.

Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".

I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».

«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.

L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.

Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.

C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.

Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.

Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.

Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è  di nove anni e quattro mesi di reclusione per  aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici.  Spaccarotella  era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.

Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino  è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.

Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.

Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.

Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.

Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle,  accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.

Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene  sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.

Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.

Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori  nei confronti della comunità romena di San Gregorio.

All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.

Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.

«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Taranto, Milano, l’Italia.

“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 150 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.

Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.

«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.

Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.

Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela:  una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri. 

Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.

Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.

Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?

Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?

Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.

Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).

Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.

Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.

INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.

COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.

LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.

LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.

MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.

IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.  Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.

TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.

Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.

Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.

In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.

C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.

Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.

E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.

E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.

Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.

Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.

Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.

La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.

La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.

Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.

L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.

La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.

La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.

Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.  

Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.  

Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.

Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.

La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.

Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta  dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.

I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.

In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media  di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.

113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.

E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».

Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La  sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio». 

A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!! 

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.

Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.

Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con  la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.

Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi.  La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».

La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.

TOGHE ROSA

Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".

È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.

Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».

Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".

Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.

Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.

Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.

Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.

Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?

Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?

Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.

Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.

Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.

Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.

A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.

A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula. 

La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti. 

Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.

Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.

Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre  a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali". 

Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».

Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».

Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.

Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.

Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.

E poi giudice donna è per il processo………

E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».

Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?

Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.

L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi  anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche  - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici,  compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente  intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno  maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile  attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa,  tracciando  un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.

Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?

Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.

PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.

Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.

Bene.  L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri)  e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.

Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.

Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.

Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.

Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie».  Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso.  Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.

Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.

Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.

Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.

Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.

Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.

Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).

Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.

Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.

Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.

Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).

Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.

Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.

Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.

Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.

Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.

Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.

Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.

Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.

Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).

Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.

Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.

Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.

Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.

Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.

Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.

Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?

«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.

«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”  -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?

«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».

Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.

«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».

Chi li aveva presi?

«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».

Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.

 «Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».

Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.

«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».

E la pistola?

«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».

Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?

«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».

Quale?

«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».

Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.

«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».

Ancora i dossier?

«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».

Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».

«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».

Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.

«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».

 Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.

Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».

Ieri come oggi la farsa continua.

Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.

«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in  questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».

Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».

Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.

Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.

MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?

Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali? 

Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".

Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.

Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.

Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.

Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.

Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione  apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa,  ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente,  non può guardare in faccia i giudici di quella che  si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene  a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.

Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.

Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!

E la stampa censura pure…..

Pensavo di averle viste tutte.

La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.

La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di  cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.

Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.

Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.

I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre. 

«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».

«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».

«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio». 

Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".

Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».

Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.

Cosa????

Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.

Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Quando la tv criminalizza un territorio.

7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”

In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».

Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.

In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.

Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.

Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:

L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;

L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.  

Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.

Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?

Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.

La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.

Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.

Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.

Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".

Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?

Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano -  senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del  giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza  entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato  anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”

Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.

La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.

Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.

Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).

Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.

 “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.

Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.

Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.

Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.

Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.

MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.

C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.

Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.

Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare.  Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".

«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.

Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.

Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».

Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?

«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».

Con le sue parole?

«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».

Strategia dei contenuti.

«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».

Il potere ha proprio l'oro in bocca.

«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».

Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?

«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».

Abbiamo perso anche questa occasione.

«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».

Ma era anche un invito a sognare.

«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».

In che senso?

«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».

E di cosa?

«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».

Ci faccia un esempio.

«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».

Cosa otterrà?

«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».

Sono passati un bel po' di anni.

«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».

La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.

STATO DI DIRITTO?

Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo.  Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica.  Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.  Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi.  Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe.  È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno.  Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista.  Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.  Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.» 

Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.

«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.

Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei. 

Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.

Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.

 “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?

Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.

Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?

Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che  - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.

Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.  

E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.

Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga  a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».

Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note.  I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.

Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

CHI E’ IL POLITICO?

Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.

L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.

L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.

Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.

CHI E’ L’AVVOCATO?

Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.

O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.

“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.

La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.

Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.

Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.

La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.

L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.

I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.

Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).

“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.

L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.

Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.

Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.

Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.

Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.

Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.

La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).

Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.

Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.

Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.

Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.

Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.

Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.

Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.

L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“ 

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

CHI E’ IL MAGISTRATO?

"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)».  Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso. 

Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta. http://imageceu1.247realmedia.com/0/default/empty.gif

Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.

L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e  Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.

Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .

Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.

Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.

 “La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LA FAMIGLIA ESPOSITO

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.

La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

LA FAMIGLIA BORRELLI.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.

Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.

Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari.  Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.

Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.

Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?

Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori. 

Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.

Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.

Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».

Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo? 

E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.

Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».

Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.

A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.

COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.

IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.

LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.

LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.

IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.

IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.

IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.

IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.

Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.

Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".

Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".

Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.

E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".

Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.

Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".

Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria". 

Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".

"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.

Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".

FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.

Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».

La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.

2,30 del mattino,  Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".

9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.

Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista  di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice  Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.

Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.

11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00. 

Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.

13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene  per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri.  “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”.  Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.

La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.

Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.

Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza. 

Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".

ITALIA DA VERGOGNA.

Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.

È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.

ITALIA BARONALE.

I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.

Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.

L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.

È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.

Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.

CASA ITALIA.

Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».

Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il bene placido delle Istituzioni.

Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.

L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?

Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.

Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

E gli alloggi di proprietà?

Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.

23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.

23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.

L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.

In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.

Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.

La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!

"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.

Cosa ha veramente la Cassazione?

L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.

Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.

La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Condotta e dolo specifico.

L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).

Flagranza e procedibilità d'ufficio.

Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).

L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).

Come agire?

Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.

Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.

L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.

L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.

L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.

L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.

A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.

L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

Ma come sono cari  (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.

Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci  un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un  “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.

 “LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...

Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?

«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»

Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...

«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»

Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.

«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»

Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..

«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»

Ma Libera non è una struttura indipendente?

«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...

«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?

2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?

«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»

Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?

«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?

«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...

«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?

«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»

In che senso “grande illusione”?

«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»

Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.

«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»

Ma allora Libera...

«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...

«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»

Ma siete gli unici a dire queste cose?

«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...

«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?

«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»

Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?

«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»

ITALIA: PAESE ZOPPO.

Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro  racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.

Che cosa c’è di nuovo in questo libro?

«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»

Filo conduttore?

«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»

Si parte dalla Conferenza di Versailles...

«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»

E l’Italia?

«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»

Che si affacciò al balcone...

«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»

Partiti dilanianti e latitanti?

«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»

Sarebbe a dire?

«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»

E gli italiani non se ne accorgono?

«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»

Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?

«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»

Come si chiama questa malattia?

«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»

La cura?

«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»

E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?

«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»

Beppe Grillo?

«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»

Enrico Letta?

«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»

Matteo Renzi?

«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»

Veltroni?

«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»

Pier Luigi Bersani?

«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»

Massimo D’Alema?

«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»

Silvio Berlusconi?

«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»

Giorgio Napolitano?

«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»

Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè,  quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007.  Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio.  Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.

«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.

E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.

Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.

Ed Ancora. Tre agenti di polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione falsificata.

Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.

Ecc. Ecc. Ecc.

G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.

La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.

Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.

Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”.  Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di  alcuni agenti.  Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.

Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico.  Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”

E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.

Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.

Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?

Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?

Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:

1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti.  Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?

2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.

Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».

Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».

3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.

Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»

La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.

E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.

Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.

Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.

Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?

Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.

Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.

Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.

C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.

Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.

E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.

Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".

Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.

Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.

Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di  convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.

Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".

Ha deciso di rientrare in Italia, subito.

«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».

Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?

«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».

Subito in carcere?

«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».

Quale è la privazione più dura?

«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».

Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.

«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».

Cosa le resta addosso, di quell'anno?

«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».

Cosa pensa della giustizia, oggi?

«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».

Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?

«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».

Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?

«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».

Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?

«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».

Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».

Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.

Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti  alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.

Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.

Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista.  Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.

La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?

«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.

E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.

Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.

Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.

A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).

E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.

E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».

Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.

Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?

Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.

Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.

Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari.  Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente,  che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.

Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere».  E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».

Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho  con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento  di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la  mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.

Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).

«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.» 

La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive  Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti  confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....".  Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico  sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva  cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle   primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni.  Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso  annuncia con tono routinario, quasi  fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise".  Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da  Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E'  l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di  numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci  a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".

Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine  titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times  che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post  preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro  (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".

Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini  su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...

Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam  su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.

In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».

Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle  successive  torture  dell’imam  Abu  Omar,  non  si  è  presentato  mai    al  processo,  non  ha  mai  confessato  alcunché,  non  si  è  mai  pentito  del  gesto,  non  ha  chiesto  scusa  a  nessuno,  non  ha  mai  scontato  un giorno  di  carcere  e  per  la  giustizia  italiana  era  un  latitante  al  pari del  superboss  Matteo  Messina  Denaro.  La  grazia  giunse  dal  Colle dopo  appena  7  mesi  dalla  pronuncia  definitiva  della  Cassazione e  con  il  parere  contrario  dei  magistrati. C’è  ancora  qualche  anima  bella  o  dannata  disposta  a  sostenere  la  tesi  che  il  presidente  della  Repubblica  non  poteva  adottare  lo stesso  metodo  nei  confronti  di  Silvio  Berlusconi?  Chiamiamo  le cose  con  il  loro  nome:  è  mancato  il  coraggio  per  concedere  la grazia.  Il  provvedimento  avrebbe  aperto  una  fase  nuova  nella storia  di  questo  Paese,  sarebbe  stato  l’atto  di  non  ritorno  verso la  pacificazione  dopo  vent’anni  di  guerra  combattuta  nel  nome dell’eliminazione  per  via  giudiziaria  del  Cavaliere  il  quale,  statene certi,  avrebbe  abbandonato  la  politica  attiva.  Il  capo  dello  Stato ha  avuto  l’opportunità  di  consegnarsi  alla  storia  e  non  l’ha  fatto.  E solo  quando  giungerà  quel  famoso  giorno  in  cui  gli  avvenimenti  di oggi  potranno  essere  riletti  senza  veli  e  senza  partigianerie  capiremo se  al  suo  mancato  gesto  dovremo  aggiungere  i  caratteri  poco commendevoli  del  cinismo,  della  pavidità  o  del  calcolo  politico. Nel  quadro  tenebroso  dell’oggi  trova  un  posto  nitido  Enrico Letta,  il  presidente  del  Consiglio  che  ha  conferito  a  questo  Paese una  stabilità  degna  di  un  cimitero,  come  ha  giustamente  notato il  Wall  Street  Journal.  Incapace  di  avviare  le  riforme  oramai  improcrastinabili per  l’Italia,  Letta  non  è  stato  neppure  capace  di imporre  il  più  impercettibile  distinguo  sulla  giustizia  (settima anomalia)  ed  è  rimasto  avvinghiato  al  doroteismo  stucchevole di  una  linea  che  voleva  tenere  distinte  la  vicenda  di  Berlusconi e  le  sorti  dell’esecutivo  quando  anche  un  bambino  ne  coglieva l’intimo  intreccio.  Ma  i  bambini,  si  sa,  hanno  la  vista  lunga.  E  ora tutti  sanno,  anche  quelli  dell’asilo,  che  l’unico  orizzonte  di  Letta non  è  quello  di  varare  le  riforme,  giustizia  compresa,  ma  quello di  mantenere  il  potere. E  infatti  eccoci  all’ottava  anomalia,  Angelino  Alfano:  ha mollato  il  Pdl  per  fondare  il  Nuovo  centrodestra,  che  al  momento si  distingue  solo  per  la  fedeltà  interessata  al  governo.  Sarebbe toccato  proprio  ad  Angelino  costringere  Napolitano  e  Letta  a guardare  la  realtà,  a  spalancare  gli  occhi  sullo  scempio  del  diritto che  si  stava  consumando,  a  denunciare  con  argomenti  solidi  e  di verità  l’inganno  di  una  procedura  interpretata  in  maniera  torbida e  manigolda.  Come  quella  della  retroattività  della  legge  Severino sulla  decadenza  (nona  anomalia),  che  una  pletora  di  giuristi  e politici  di  buon  senso  non  affini  ma  certamente  lontani  dal  mondo berlusconiano  voleva  affidare  al  vaglio  della  Corte  costituzionale per  un’interpretazione  autentica. Anche  per  questo  motivo  il luogotenente  del  Cav  avrebbe  dovuto  elevare  il  caso  B  a  caso internazionale,  avrebbe  dovuto  sfidare  in  campo  aperto  i  satrapi dell’informazione  truccata.  E  invece  ha  preferito  chinarsi  sulla propria  poltroncina,  talmente  affascinato,  e  impaurito  di  perderla, da  consumare  lo  strappo  di  ogni  linea  politica  e  di  ogni  rapporto umano  con  il  proprio  leader. Napolitano,  Letta,  Alfano:  in  questo  triangolo  delle  Bermude, che  si  autoalimenta  nel  nome  dello  status  quo  e  di  un  governo fatto  solo  di  tasse  e  bugie,  c’è  finito  Silvio  Berlusconi.  E  la  conclusione della  storia  è  stata  ovvia:  l’hanno  inghiottito,  macinato  ed espulso  senza  tanti  complimenti.  Neppure  il  colpo  di  reni  finale hanno  sfruttato  i  tre  del  triangolo  mortale,  quello  offerto  dalle nuove  prove  squadernate  dall’ex  premier  per  chiedere  la  revisione del  processo.  Un  percorso  perfettamente  legalitario,  quello del  Cav,  condotto  all’interno  del  perimetro  disegnato  dal  Codice di  procedura  penale  e  che  avrebbe  dovuto  fermare  la  mannaia dell’espulsione  dal  Senato.  Per  mille  motivi,  ma  soprattutto  per una  possibile  e  atroce  beffa:  se  la  Corte  d’appello  darà  ragione al  Cavaliere  e  lo  proscioglierà,  lui  si  troverà  già  fuori  da  Palazzo Madama.  E  nessuno  potrà  dirgli:  «Prego,  ci  scusi,  si  accomodi  e riprenda  il  suo  posto».  Con  il  corollario  non  secondario  che,  senza lo  scudo  da  senatore,  i  picadores  in  toga  potranno  infilzare  il  Cav e  compiere  l’ultimo  sfregio:  l’arresto  (decima  anomalia). In  questa  cornice  assai  triste  tocca  togliersi  il  cappello  di  fronte al  coraggio  di  Francesco  Boccia,  deputato  del  Pd  di  prima  fila (almeno  fino  al  9  dicembre,  quando  Matteo  «Kermit»  si  presenterà sul  palco  della  segreteria  del  partito)  che  martedì  26  novembre, dopo  aver  visto  gli  elementi  esposti  da  Berlusconi,  ha  dichiarato: «Se  fosse  così  mi  aspetto  una  revisione  del  processo  come  per qualsiasi  altro  cittadino».  E  ancora:  «In  un  Paese  normale  si  sarebbe aspettata  la  delibera  della  Corte  costituzionale  sull’interpretazione della  legge  Severino».  Un  Paese  normale  questo?  È  una  battutona, ditelo  a  Matteo  «Kermit»,  che  magari  se  la  rivende.  Dovrà  fare  in  fretta, però.  Perché  adesso  inizia  un’altra  faida,  che  lo  metterà  contro Letta  e  Napolitano.  I  tre  non  possono  convivere:  i  loro  interessi  non sono  convergenti,  i  loro  orizzonti  non  corrispondono.  Per  questo, già  prima  dell’8  dicembre,  ne  vedremo  delle  belle.  Sarà  il  seguito della  politica  da  avanspettacolo  che  ci  hanno  rifilato  negli  ultimi mesi.  Successe  più  o  meno  la  stessa  cosa  ai  tempi  di  monsieur  de Robespierre  e  dei  giacobini.  Fatto  fuori  il  re,  si  illusero  di  avere  la Francia  in  pugno.  Manco  per  niente.  Iniziarono  a  scannarsi  l’un l’altro.  Fin  quando  un  giorno  accompagnarono  Robespierre,  l’Incorruttibile, al  patibolo.  Gli  gridavano  dietro:  «Morte  al  tiranno». Avete  capito  la  storia?

Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.

Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo  su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. - Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.

L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.

A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».

"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non  candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".

Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 -  che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.

E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.

E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.

Parcheggi abusivi, applausi abusivi,

Villette abusive, abusi sessuali abusivi;

Tanta voglia di ricominciare abusiva.

Appalti truccati, trapianti truccati,

Motorini truccati che scippano donne truccate;

Il visagista delle dive è truccatissimo.

Papaveri e papi, la donna cannolo,

Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.

Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.

Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.

Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:

C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.

Commando sì, commando no, commando omicida.

Commando pam, commando prapapapam,

Ma se c'è la partita

Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,

Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.

Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.

Primario sì, primario dai, primario fantasma.

Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;

Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:

"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.

Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".

Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh

Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.

Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.

Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.

Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.

Squerellerellesh, cataraparupai,

Italia perfetta, perepepè nainananai.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.

Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.

Italia sì: uè.

Italia no, spereffere fellecche.

Uè, uè, uè, uè,uè.

Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.

«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».

Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.

La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.

"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.

Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché  nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".

L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.

È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto». 

"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".

Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".

La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.

Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.

Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.

Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.

L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.

La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.

La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.

La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.

Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.

Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".

Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”

Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».

La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.

«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso.  Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica.  La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».

Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».

Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».

Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.

L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.

“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.

Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.

E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.

La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.

Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.

E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...

I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.

Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.

Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.

Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.

''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.

In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.

Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.

Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.

Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.

Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.

Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.

Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.

Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.

Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.

Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".

Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".

Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".

Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.

I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).

Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.

"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa ’classificà. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).

Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??

Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.

Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.

Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….

Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.

Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.

E che dire delle leggi?

Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.

La redazione degli atti deve essere:

chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;

semplice, concisa, esente da elementi superflui;

precisa, priva di indeterminatezze.

Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:

l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;

la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.

Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...

Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.

Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.

GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.

L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".

Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."

Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."

Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.

L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".

Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?

Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:

- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.

- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.

- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.

Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:

- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;

- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);

- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;

- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);

- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.

- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.

Si ha incompetenza assoluta quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è imprescrittibile.

Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.

1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:

a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;

b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;

c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;

d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;

e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.

2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.

a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:

- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;

- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;

- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.

b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.

c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.

La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).

E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.

Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono  un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta  agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che,  in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal  fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.

Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a  formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento  illegittimo,  quindi  fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel  fatto che  si suole  farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti  avvertono come un’applicazione  così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che  la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la  problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.

Ve ne riporto alcune:

“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.

“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.

“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”

“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”

“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”

“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).

Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve  la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero,  l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento  risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni,  dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste  conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.

Il Parlamento abusivo rischia l'arresto. Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio Signorini  su “Il Giornale”.  Illegittimo il sistema elettorale che ha portato quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che, più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e, più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica, la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta. I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese, ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi - regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro. Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare), ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi. Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa. Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la Consulta - eletto con una legge illegittima.

Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.

Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali.  Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?

Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.

Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.

Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.

Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.

Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica.  A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.

«Abusivi».  Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre,  amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013).

Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».

Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?

«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».

Quali, avvocato?

«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».

E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?

«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».

E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?

«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».

Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?

«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».

Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?

«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».

Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?

«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».

Al loro posto chi dovrebbe subentrare?

«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».

Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.

«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».

Che pericoli vede all’orizzonte?

«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».

Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?

«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?

Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?

Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.

IL SISTEMA ILVA ED I MERCENARI AUTOCTONI.

Ecco il sistema Riva, il capitalismo di relazioni che uccide l'Italia, scrive nella sua inchiesta “La Repubblica” con Carlo Bonini e Giuliano Foschini. Nessuno è innocente di fronte ai veleni dell'Ilva. Nel triangolo Taranto-Roma-Milano, tutto e tutti hanno avuto un prezzo. Non necessariamente economico. Tutto e tutti ne sono irrimediabilmente rimasti sporcati e dunque prigionieri. Nei 31 faldoni di atti e nelle 50mila intercettazioni telefoniche dell'inchiesta della Procura di Taranto depositati in questi giorni e di cui Repubblica è in possesso, c'è la prova documentale che il Sistema Riva e il capitalismo di relazioni di cui è stato espressione hanno appestato, insieme all'aria, all'acqua, al suolo di Taranto, il tessuto connettivo della politica, della pubblica amministrazione, dei controlli a tutela dell'ambiente e della salute. La caccia impossibile al tesoro dei Riva.  C'è un tratto peculiare dei Riva - che è poi la loro radicata convinzione di non dover dare alcun conto della gestione dell'Ilva e dei suoi profitti - documentato dalle mosse della famiglia nei giorni e nelle ore della latitanza di Fabio (ancora oggi a Londra in attesa della pronuncia della giustizia inglese sulla richiesta di estradizione). E' il 29 dicembre del 2012 e - come si legge negli atti dell'inchiesta - Fabio, inseguito dall'ordinanza di custodia cautelare della magistratura di Taranto, ritiene che questo non debba e non possa guastare un Capodanno come si deve. Da Londra, sale su un Tgv che lo deposita in Costa Azzurra. A Nizza, da dove raggiunge Beaulieu sur mer, dove è ormeggiato lo yacht di famiglia da 60 metri. Lo aspettano, ansiosi, la figlia Alice, il figlio Emilio jr., la moglie Emanuela e un gruppo di amici. Per un San Silvestro che "ha dovuto subire un cambio di programma", come dice al telefono una delle donne di famiglia. "Quest'anno, niente Sankt Moritz". Fabio festeggia in barca fino al 2 gennaio. Il 3 arrivano sul molo di Beaulieu sur mer la gendarmeria francese e la polizia italiana, di cui ghignano al telefono due amici di Fabio, Andrea Gallo ed Elio Bisi. I due ridono del ritardo - "Sono i tempi tecnici dell'Italia" - ma, soprattutto, sono consapevoli di essere ascoltati. Fabio Riva deve fare attenzione. Ad esempio, "sciogliere nell'acido il rullino", come dice Bisi in un'ulteriore telefonata. Di che rullino si tratti, la Finanza non riesce a capire. Certo, in quei giorni, per i Riva comincia l'operazione di trasferimento e sottrazione dei fondi che devono, insieme, impedire alla magistratura di rivalersi con sequestri preventivi sul patrimonio di famiglia e assicurare un'agiata latitanza a Fabio. "Deve solo avere pazienza", commentano ancora Bisi e Gallo, ignorando questa volta di essere intercettati "Dovrà farsi solo un mese di carcere in Italia e poi è fuori. Tutto sarà come prima. Basta avere qualche miliardo". Le provviste per la latitanza - si legge nei brogliacci della Finanza - arrivano a Montecarlo. Ma non via Londra. Perché in questo modo si scoprirebbe il forziere che, nelle isole del Canale, custodisce, secondo la Procura di Milano, la gran parte degli 8 miliardi di euro che la famiglia Riva ha fatto uscire dall'Italia e su cui la magistratura di Taranto intende rivalersi.

La Storia, scritta da Mario Diliberto. Acciaio e inquinamento uniti da mille complicità. E' lunga cinquantatrè anni la storia di Taranto e dell'Ilva, la grande fabbrica sotto inchiesta per i veleni che uccidono e fanno ammalare. E' una storia fatta di acciaio, lavoro e soldi. Ma anche di inquinamento, dolore, sangue e morte. E di tante complicità. La prima pietra di quel colosso accomodato tra i due mari della città pugliese venne posta il 9 luglio del 1960, quando le ruspe cominciarono a stravolgere quel pezzo di Meridione. Ettari di ulivi secolari e di terreni da sempre destinati all'agricoltura vennero annientati. Al loro posto nacquero le brutali ciminiere, le cokerie, gli altoforni e lo spaventoso parco minerali, dalle collinette nere e inquietanti che si affacciavano sul rione Tamburi, con le sue case proprio ad palmo dal muro di cinta. Già allora quella fabbrica era troppo vicina al centro abitato. A regime sfornò nel primo anno di attività tre milioni di tonnellate d'acciaio. Primo passo del boom della siderurgia di Stato e di Taranto. I contadini di una volta scelsero di indossare la tuta blu, appendendo al chiodo la vanga e il piccone. In pochi all'inizio di questa storia si chiesero se quel mostro di tecnologia poteva fare male. A Taranto l'industria di Stato venne accolta a braccia aperte, perché portava lavoro e benessere. A tirare i fili c'era la politica clientelare che in quella fabbrica si tuffò con tutto il suo peso. Posti di lavoro e voti cominciarono a circolare, conditi dall'esplosione demografica di Taranto. Le segreterie dei partiti pullulavano di elenchi di persone che sognavano il salario di operaio. E gli imprenditori fecero a gara per conquistare le ricche commesse del colosso siderurgico Il matrimonio tra acciaio e città andò così bene che a metà degli anni settanta venne realizzato il raddoppio del centro siderurgico. E' in quegli anni che l'Italsider arriva a dare lavoro a quasi 24.000 dipendenti diretti, che diventano oltre quarantamila con quelli dell'indotto. "Andava bene a tutti"  -  commenterà anni dopo Gianni Florido, ex segretario della Fim Cisl poi diventato presidente della Provincia, anche lui coinvolto nella clamorosa inchiesta sull'Ilva. L'industria di Stato diventa una gigantesca mammella a cui tutti si attaccano voracemente. Eppure alcuni voci di dissenso cominciano a fare capolino. Le analisi svolte in un vigneto coltivato a ridosso della fabbrica rilevano la presenza di sostanze micidiali per l'uomo. Quell'uva va mandata al macero. C'è anche chi si oppone al raddoppio della fabbrica, rivendicando la necessità di salvaguardare le altre attività economiche, come l'allevamento delle cozze nel bacino del mar Piccolo. Quello voci, però, vengono zittite, anche perché non sono neanche lontane parenti del sentimento ambientalista che ora veleggia su Taranto. L'Italsider è sinonimo di ricchezza e quella opulenza consente di sorvolare anche sulle prime condanne per inquinamento, che arrivano nel 1982. E' il pretore Franco Sebastio a condannare la fabbrica, anche se deve applicare le blande normative dell'epoca. Trent'anni dopo, il caso vuole che sia proprio lui alla guida della procura a chiedere e ad ottenere il sequestro degli impianti killer dell'area caldo. L'industria pubblica, però, a metà degli Anni '80 comincia ad avvertire il peso della recessione, aggravato da quello di un organico abnorme. I conti non tornano e comincia il cammino che, nel 1995, culminerà nella privatizzazione. A Taranto sbarca Emilio Riva, imprenditore bresciano che acquista le acciaierie. Nasce così l'Ilva del padrone che fa subito sentire il tallone del comando. La classe operaia viene sradicata e spedita in pensione, anche grazie ai benefici dell'esposizione all'amianto. Scatta il turn over e migliaia di giovani vengono travasati nei reparti. Vengono addestrati da capi che conoscono solo la legge del padrone. L'orgoglio operaio finisce in soffitta. I  numeri della fabbrica colano a picco dal punto di vista dei posti di lavoro, si scende sotto il tetto dei dodicimila, mentre l'anziano drago d'acciaio conosce una nuova giovinezza, con record di produzione. Le ciminiere sfumano a ritmi serrati in quegli anni intensi, mentre in città i numeri dei malati di cancro, in particolare nei rioni vicini alla fabbrica, diventano paurosi. La questione ambientale e sanitaria comincia a bussare alle porte, strillata da uno sparuto gruppo di ambientalisti. Sono gli anni del grande inganno. I Riva si mostrano collaborativi, anche se all'occorrenza agitano lo spettro di una disoccupazione di massa. Un incubo che aleggia sinistramente su ogni tavolo di trattativa che viene aperto. Sul fronte dell'ambientalizzazione, sostengono i nuovi padroni dell'Ilva, di aver investito un miliardo di euro. Il volto accomodante dei Riva è quello di Girolamo Archinà. Tarantino doc ha l'abilità di trasformarsi in un interlocutore di tutti. Conquista credibilità e accredita gli sforzi dei Riva per abbattere l'impatto ambientale dei reparti. Il grande inganno viene svelato dalla magistratura. Che scoperchia un complotto ispirato dalla legge del profitto, in nome della quale si tira ad allontanare i grandi investimenti necessari almeno per provare a centrare sul serio una compatibilità ambientale. Un obiettivo complicato, sul quale, però, si gioca il futuro della più grande acciaieria d'Europa. Soldi alla Curia nel nome di San Cataldo.  I versamenti erano continui, variavano dai cinque ai quindicimila euro. Le occasioni erano Natale e Pasqua, e in un caso anche c'è stato un versamento diretto nei confronti dell'allora Arcivescovo, monsignor Benigno Papa. E' un rapporto costante e diretto quello che lega l'Ilva, e dunque il suo uomo delle pubbliche relazioni, Girolamo Archinà, alla Curia tarantina. Sono dei "benefattori" i Riva. E per questo la Chiesa è sempre stata loro molto grata. Inaugurano nuove opere (grande per esempio fu la soddisfazione, condivisa con il sindaco, quando fu inaugurato il sistema idrico per tutte le fontanelle del cimitero), scoprono targhe e quando servono usano le parole giuste. Emblematiche sono proprio le dichiarazioni di monsignor Benigno Papa, dopo aver ricevuto 365mila euro per la ristrutturazione di una chiesa: "Vogliamo ringraziare Dio per questo dono della Sua Provvidenza: il presidente Riva mi ha espresso le motivazioni che hanno indotto il suo gruppo a tale atto di generosa attenzione...", diceva. Gli ambientalisti provarono a protestare per quelle parole. E lui si infuriò: "Quello che non dovrebbe accadere è cavalcare la giusta tematica della salvaguardia dell'ambiente per motivazioni strumentali. Caso contrario dovrei pensare che ci sia un inquinamento spirituale che è peggiore dell'inquinamento ambientale". Ora nell'inchiesta è indagato don Marco Gerardo, accusato di aver mentito agli investigatori per coprire Archinà. Sostenne di aver preso lui i soldi di Archinà che invece secondo gli investigatori furono destinati per una tangente versata al consulente della Procura, Lorenzo Liberti.

Nessuno può dirsi innocente di fronte ai veleni dell'Ilva. Nel triangolo Taranto-Roma-Milano, tutto e tutti hanno avuto un prezzo. Non necessariamente economico. Tutto e tutti ne sono irrimediabilmente rimasti sporcati e dunque prigionieri. Nei 31 faldoni e nelle 50mila intercettazioni telefoniche dell'inchiesta della Procura di Taranto depositati in questi giorni e di cui Repubblica è in possesso, c'è la prova documentale che il Sistema Riva e il capitalismo di relazioni di cui è stato espressione hanno appestato, insieme all'aria, all'acqua, al suolo di Taranto, il tessuto connettivo della politica, della pubblica amministrazione, dei controlli a tutela dell'ambiente e della salute. Davanti a Girolamo Archinà, il Rasputin dei Riva, l'ex onnipotente capo delle relazioni esterne Ilva da qualche giorno tornato libero dopo un anno e mezzo di carcere, si sono genuflessi nel tempo segretari di partito, ministri della Repubblica, arcivescovi, sindacalisti, giornalisti. Ascoltarne la voce chioccia al telefono mentre blandisce, lusinga, minaccia i suoi interlocutori, dà la misura di quanto estesa, profonda e antica fosse la rete che ha consentito di collocare l'acciaieria in uno stato di eccezione permanente.  Il cuore e il portafoglio dei Riva battono a destra. Da sempre. Dagli anni 2004-2006. E' di 575mila euro il finanziamento assicurato a Forza Italia, di 10mila quello a Maurizio Gasparri e di 35mila quello all'ex governatore della Puglia e poi ministro Raffaele Fitto. Uomo cui la famiglia è particolarmente grata per aver ritirato, il giorno prima della (unica) sentenza di condanna, la costituzione di parte civile della Regione nei confronti dell'Ilva, consentendo un risparmio di qualche milione di euro. Ma il capitalismo di relazioni impone di scommettere anche sui cavalli di altra sponda. "Bersani? Si sentono tutte le settimane", assicura Archinà a chi lo avvisa di un interesse dell'allora segretario del Pd ad un contatto con la famiglia Riva (che per altro ne ha finanziato la campagna elettorale del 2006 con 98mila euro). Quel Pd, il cui deputato Ludovico Vico eletto a Taranto, è telecomandato come un uomo azienda. E anche con il governatore della Regione, Nichi Vendola, che pure sarà l'unico alla fine a battezzare due leggi contro i fumi dell'Ilva, è un salamelecco di "auguri sinceri" per le feste comandate, confidenze, attestati di stima. Non solo nella telefonata ormai nota in cui si ghigna della protervia nell'azzittire un giornalista petulante e per la quale Vendola ha fatto pubblicamente ammenda. Ma anche in un'altra conversazione in cui Archinà si offre di fare da "mezzano" per un incontro tra il governatore e l'allora presidente di Confindustria Marcegaglia ("Così diamo uno scossone al centro-destra"), cogliendo l'occasione per sollecitare un intervento "caro ai Riva" sulle nomine all'autorità portuale di Taranto. Non esattamente il core business dell'acciaieria. "Apriamo gli occhi sull'autorità portuale di Taranto", dice Archinà a Vendola. Che risponde: "L'ammiraglio va bene. Non è un ladro. E' una persona sobria e seria. Siccome è di destra, ho detto al ministro: 'È uno vostro, ma è una persona per bene. Niente da eccepire'". Ma il problema di Archinà non è "l'ammiraglio". È impedire la nomina di tale Russo, "sponsorizzato dal traditore Michele Conte". "Lei lo sa", insiste con il governatore "che Conte è passato coordinatore cittadino del Pdl?". Vendola conviene: "Michele Conte, mamma mia. Uno raccomandato da tutti. Dalle organizzazioni per la liberazione della Palestina ai gruppi comunisti estremisti. Noi abbiamo il potere di fare bene, ma il ministro ha quello di fare le scelte. Comunque grazie di questa informazione". Non c'è ente locale o ministero dove Archinà - e dunque i Riva - non possano arrivare. Dove non si inciampi in "un amico". Come all'Ambiente, dove Corrado Clini, allora direttore generale e futuro ministro del governo Monti, architetto dell'Autorizzazione di Impatto Ambientale che assicurerà la sopravvivenza dell'acciaieria, viene rappresentato come uomo a disposizione. "Stamattina ho visto per altri motivi il nostro amico Corrado", confida ad Archinà Ivo Allegrini del Cnr "Nel casino che adesso praticamente sta investendo il ministero dell'Ambiente, ho praticamente un'opportunità. A Corrado hanno dato la delega che danno pure ad altri direttori generali no! Allora mi ha detto:  'Fatemi una nota di tutto quello che praticamente, del casino che sta succedendo giù a Taranto, poiché nel limite del possibile io, insomma, cerco di rimettere le cose in sesto perché mi rendo conto che qui nessuno ha fatto un cazzo per mesi'". Una solerzia che troverebbe spiegazione - per quanto si ascolta in una seconda telefonata tra Allegrini e Archinà - in qualcosa che "sta a cuore a Clini in Brasile" e per la quale "è necessario un passaggio con i Riva". Già, nel Sistema Riva niente si fa per niente. Anche con gli uomini di Chiesa. Come quando don Marco dell'Arcivescovado di Taranto bussa a quattrini per la presentazione di un libro cui presenzierà monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per i Beni culturali. "Su cosa mi devo sbilanciare?", chiede Archinà. "La sponsorizzazione totale costerà 25mila - fa di conto don Marco - E l'impresa Garibaldi ha detto che vuole contribuire per 7-8 mila. Va bene?". Naturalmente va bene. Come vanno bene i sette assegni da 15mila euro l'uno staccati alla Curia e all'Arcivescovo monsignor Benigno Papa per rendere più liete le feste comandate e far tacere sui veleni dell'acciaieria.  Del resto, per i Riva comprarsi le indulgenze sembra facile quasi quanto scegliersi i sindacalisti. E per giunta, Archinà non deve neppure chiedere. "Senti Girolamo - gli spiega al telefono Daniela Fumarola della Cisl - siccome io sto lavorando sul nuovo gruppo dirigente della Fim, mi fai sapere qualcosa rispetto al ragazzo, al delegato nostro alla Rsu, aspetta come si chiama.. quello di Avetrana.. ora mi salta il nome.. un ragazzo bruno con gli occhi neri, è giovane.. Io ce l'ho sempre a mente perché è una cosa che ti devo chiedere e ora mi è sfuggito il suo cognome. Praticamente io devo fornire indicazioni anche alla segreteria nazionale su chi puntare per il dopo Lazzaro". Non deve sorprendere, allora, che anche dati per politicamente e industrialmente morti, i Riva continuino a incassare i dividendi del loro sistema di relazioni. Ancora oggi e con un nuovo governo. E' diventata recentemente legge dello Stato il decreto voluto dai ministro del governo Monti, Balduzzi (sanità) e Clini (Ambiente) sulla valutazione del danno sanitario per i cittadini di Taranto. Norme che, di fatto, di qui al 2017, lasceranno che i cittadini di Taranto, soprattutto gli abitanti del quartiere Tamburi, continuino ad ammalarsi di cancro senza che questo obblighi l'Ilva a modificare il proprio livello di emissioni. Il governo ha infatti accettato di congelare la valutazione del possibile danno sanitario alla popolazione basandosi sulle rilevazioni dei veleni liberati dall'Ilva in questa fase di produzione limitata. Peccato che, già da oggi, l'azienda sia autorizzata ad aumentare la sua produzione fino a 8 milioni di tonnellate di acciaio. Dice Giorgio Assennato, direttore generale dell'Arpa Puglia, "Il Rompicoglioni", come lo aveva battezzato Fabio Riva: "E' un omicidio di Stato. Identico, nella sostanza, a quello già autorizzato dal ministro Prestigiacomo nel 2011". Contro la legge, Assennato e la Regione hanno presentato ricorso. E non sono gli unici a pensarla così. Un dirigente del ministero dell'Ambiente, in una recente riunione con l'Arpa, ha riassunto così il senso dell'ultimo regalo ai Riva: "E' come quell'uomo che si getta dalla cima di un grattacielo alto cento metri e che, arrivato al sesto piano, dice: 'Fin qui, tutto bene'".

Al telefono con Archinà. Girolamo di qua, Girolamo di là. Un po' Figaro, un po' Rasputin. Archinà e l'Ilva sono stati una cosa sola. E bisogna dunque ascoltarlo l'ex capo delle relazioni istituzionali dell'azienda, sessantasettenne tarantino entrato in acciaieria come operaio di secondo livello ai parchi minerari e promosso dal padrone, Emilio Riva, "Maestro dell'Insabbiamento" (come lo definisce al telefono), mentre dispone di politici, preti, sindacalisti, giornalisti, come fossero roba sua. Nasce democristiano e cattolico devoto, Girolamo Archinà. E poco importa che, nel 2011, il "Cataldus d'argento", massimo riconoscimento dell'Arcivescovado di Taranto al volontariato, costi all'Ilva 35mila euro cash per convincere monsignor Benigno Papa. Ha scontato un anno e mezzo tra carcere e domiciliari senza proferire verbo. Sua moglie ha tentato due volte di togliersi la vita. Per un anno intero, il 2010, la Guardia di Finanza, per ordine della Procura di Taranto, intercetta il telefono dI Girolamo Archinà. Alla fine sono 50mila le telefonate ritenute di interesse. Il telefono dell’ uomo che è protesi, orecchio e ufficiale pagatore dei Riva, squilla in continuazione, le sue giornate sono un suk permanente di richieste e concessioni. Politici, sindacalisti, giornalisti, preti, tutti lo vogliono e lui ne ha per tutti. In questo mastodontico numero di file audio Repubblica, dopo un ascolto complessivo, ha individuato una ventina di conversazioni utili a documentare cosa è stato, ed è, il "sistema Riva", scrive Gloria Bagnariol e Giulia Paravicini su “La Repubblica”.

9 luglio 2010 - 17:20. “Ci pensa il nostro amico Corrado”. Ivo Allegrini, per 22 anni Direttore dell’Istituto sull’Inquinamento Atmosferico del Cnr, poi consulente dell’Ilva, informa Archinà che ha parlato con Clini. L’allora direttore generale del ministero dell’Ambiente si sarebbe dimostrato disponibile a “rimettere le cose in sesto”.

Archinà: Pronto?

Allegrini: Ciao carissimo, sono io

Archinà: Ciao Ivo

Allegrini: Ti disturbo no?

Archinà: no no sto alla guida

Allegrini: che stai da ste parti no?

Archinà: no no da che parti quali, da Roma no

Allegrini: e si dalle parti di casa mia……. Senti io stamattina ho visto per altri motivi  il nostro amico Corrado no e nel casino che praticamente che adesso sta investendo il Ministero dell’ambiente c’è praticamente un’opportunità cioè gli hanno dato la delega che danno pure ad altri direttori generali no allora mi ha detto dice fatemi una nota di tutto quello che praticamente, del casino che sta succedendo giù a Taranto no poiché nel limite del possibile io insomma cerco di rimettere le cose in sesto perché mi rendo conto che qui nessuno ha fatto un cazzo per diversi mesi nel passato…

Archinà: ma perché lui ora ha la delega a questo pure?

Allegrini: esattamente esattamente, adesso non so se gli hanno …

Archinà: alla Ippc, all’Aia?

Allegrini: no no ha la delega di tutti i Direttori generali

Archinà: ah! Di tutti i direttori generali

Allegrini: perché lui è l’unico che praticamente ha tutti i titoli per rimanere tale no

Archinà: ho capito

Allegrini: allora adesso dato che io questa cosa qua gliel’ho promessa per venerdì no, volevo venire giù anche per concordarla pure con la proprietà no

Archinà: però, allora la proprietà oggi la proprietà che conta che è Fabio è partito mezzora fa

Allegrini: va bene senti non fa niente la proprietà per me sei tu, insomma facciamo così no

Archinà: no

Allegrini: allora ecco se tu vuoi condensà, ma veramente in tre righe ogni cosa che potremmo portare alla sua attenzione io poi me la cambio secondo lo schema mio perché non desidero insomma che lui sappia che c’è questo accordo…

Archinà: e certo e certo

Allegrini: … no, e poi gliela faccio recapitare io a mano venerdì quando vado a trovarlo

Archinà: va bene

Allegrini: dovresti fare sto lavoretto un’oretta stasera poi io te l’allungo la pappa non ti preoccupare no

Archinà: va bene

Allegrini: te lo mando e poi vediamo cosa succede insomma

Archinà: va bene va bene

Allegrini: danni sicuramente non ne facciamo quindi

Archinà: va bene

Allegrini: ti saluta allora

Archinà: senti per caso hai approfondito quella relazione

Allegrini: sì sì l’ho approfondita adesso per stasera dovresti finire la relazione finale

Archinà: va bene

Allegrini: ma guarda c’è poco da approfondire l’unico problema è che stanno facendo una tempesta in un bicchiere d’acqua cioè lì hanno superato il limite del 30% no come che cazzo succede a Milano dove il NO2 supera del 100% questa è la domanda che io vorrei fare

Archinà: no vabbè ma se la facciamo così la domanda siamo perdenti  perché…

Allegrini: no, non mi hai capito, io non la faccio così

Archinà: no non perché qua poi ti dico la Moratti fa morire i suoi non me ne frega

Allegrini: eh però appunto, sono girate delle notizie che devono essere assolutamente corrette perché insomma ma la correzione non deve venire dall’azienda deve venire dalle istituzioni quindi bisogna che Assennato quando scrive le cose le scrive chiaramente …

Archinà: infatti

Allegrini: … e se non lo scrive chiaramente…

Archinà: come a te per Corrado lo stesso servono a me

Allegrini: infatti infatti … va bene ci rivediamo domani mattina prestissimo io con la mia osservazione e tu con le tue

22 febbraio 2010 - 10:41. “Hai sentito i Riva per quella storia che interessa a Clini?”. Il nome del ministro dell’Ambiente del governo Monti spunta anche in una precedente conversazione. Questa volta Allegrini vuole sapere se il gruppo dirigente dell’Ilva è stato informato sugli interessi “dell’amico Corrado” in Brasile.

Archinà: pronto

Allegrini: carissimo buon giorno sono Ivo, ti disturbo no?

Archinà: dimmi dimmi no non ti preoccupare

Allegrini: niente ho letto sta cosa su Taranto oggi circa sta cosa che pure questa è stata pubblicata dal sito maledizione

Archinà: su Taranto oggi? No io non ho letto perché sto fuori

Allegrini: beh guarda è del venti… praticamente oltre ad aver pubblicato la storia del modello ha pubblicato pure la valutazione dell’impianto direa no, mettendo in evidenza che questo …… stanno facendo un casino della Madonna dicendo che praticamente che proprio perché è sperimentale non funziona li hanno presi per il culo

Archinà: ma chi è che ha mandati, il CNR?

Allregini: come?

Archinà: il CNR?

Allegrini: si stava sul sito pure sta cosa qua mo sul sito ci mettono tutto

Archinà: e lo so

Allegrini: però questa è una stronzata perché non è Taranto oggi che ci preoccupa sulle sue valutazioni. Ti volevo dire che avevi fatto un passaggio coi Riva su quella storia del Brasile che ti avevo accennato no…

Archinà: quella storia?

Allegrini: del Brasile che interessa  a Clini

Archinà: ah, e si, oggi io sto fuori

Allegrini: ah, e vabbè allora

Archinà: va bene

Allegrini: al ritorno poi…

Archinà: si domani voglio dire

Allegrini: ci sentiamo in settimana e ci mettiamo d’accordo per…

Archinà: va bene ciao

Allegrini: ciao

22 luglio 2010 - 13:41. “Il numero di Bersani? Ma ce l’ha! si sentono settimanalmente”. Ad Archinà vengono chiesti i contatti del gruppo dirigente dell’Ilva perché possano essere raggiunti dallo staff del segretario del Pd Pierluigi Bersani e lui risponde dimostrando una grande consuetudine dei Riva con Largo del Nazareno.

Ad Archinà vengono chiesti i numeri di telefono del gruppo dirigente dell’Ilva perché possano essere contattati dallo staff del segretario del PD Pierluigi Bersani e lui risponde dimostrando una grande consuetudine dei Riva con Largo del Nazareno…

S: certamente chiamerà

Archinà: ma Bersani ce li ha

S: ce li ha?

Archinà: si figurati, si sente quasi settimanalmente ce li ha tutti

S: ce li ha tutti, quindi non c’è problema, no siccome fanno delle manifestazioni eccetera

Archinà: ce li ha tutti Bersani, ce li ha tutti

S: va bene va bene

Archinà: ce li ha tutti e si sentono non ultimo il giorno prima che (Riva) partisse ne gli Stati Uniti si son sentiti

S: ah perfetto, va bene va bene

6 luglio 2010 - 22:01. Quando Vendola rassicura Archinà “non mi sono scordato”. Il governatore della Puglia parla con l’eminenza grigia dell’Ilva, lo tranquillizza, dice che non si è dimenticato dell’impegno con i Riva e si complimenta con Archinà per l’abilità con cui ha ‘placcato’ un cronista. È l’intercettazione già uscita nelle scorse settimane per la quale Vendola ha chiesto pubblicamente scusa per aver riso di un giornalista.

Archinà: pronto?

Vendola: sono Nichy Vendola

Archinà: Oh, come va presidente

Vendola: sono molto colpito da una scena che ho appena visto ora gli amici mi hanno fatto vedere a Roma una conferenza stampa e un’immagine e uno splendido scatto felino (risate) non potevo riprendermi perché ho visto una scena fantastica (risate) io e il mio capo di gabinetto siamo rimasti molto colpiti… se siccome ho capito qual è la situazione volevo dire che mettiamo subito in agenda un incontro con l’ingegnere, state tranquilli non è che mi son scordato

Archinà: no assolutamente

Vendola: e che non so come fare, perché ho paura che metto la faccia mia e si possano accendere di più i fuochi

Archinà: ma ero sicuro soltanto che sta degenerando, veramente sta degenerando…

Vendola: i vostri alleati principali in questo momento sono voglio dire quelli della FIOM, sono preoccupati mi chiamano 25 volte al giorno

Archinà: e lo so, lo so, lo so purtroppo i miei timori del recente passato si stanno dimostrando sempre di più e sempre di più non solo Riva ma anche altre persone sono nell’occhio del ciclone ma tutto è poggiato su una scivolata del nostro stimato amico direttore

Vendola: va bene va bene ognuno fa la sua parte noi dobbiamo sapere però che a prescindere da tutti i procedimenti, le cose, le intercettazioni l’Ilva è una realtà produttiva a cui non possiamo rinunciare e quindi, fermo restando tutto, dobbiamo vederci, volevo dirglielo se poteva chiamare Riva e dirgli che il Presidente non si è defilato

Archinà: ne eravamo assolutamente certi

Vendola: casomai sono stati molto impegnato, sono stato in Cina sto girando il mondo

Archinà: eh lo so lo so anzi mi meraviglia che si ricordi di parlare italiano visto che è stato in Cina a parlare di affari

Vendola: devo dire che ora sono a casa di amici a Roma e mi hanno detto tu devi vedere una conferenza stampa sull’Ilva… come mai a voi interessa l’Ilva… c’è un’immagine molto divertente ma è stupendo, uno scatto fantastico (risate) e complimenti io e il mio capo di gabinetto siamo stati un quarto d’ora a ridere perché è stata una scena fantastica

Archinà: se serve almeno

Vendola: e si… poi quella faccia di provocatore vabbè

Archinà: vabbè comunque

Vendola: per me che le ho fatte veramente le battaglie per la difesa della vita e della salute

Archinà: e lo so, ma grazie a lei se posso dire io ci credo grazie a lei abbiamo dimostrato…

Vendola: gente senza arte ne parte si improvvisano

Archinà: lo so lo so però… vabbè dobbiamo riprendere un percorso

Vendola: avere pazienza e guardare gli obiettivi ci sentiamo presto

Archinà: grazie presidente

Vendola: Arrivederci salve salve

25 ottobre 2010 - 12:57. Archinà a Vendola: “Diamo uno scossone al centrodestra”. L’ormai nota telefonata delle risate non è l’unica. I due si scambiano auguri e confidenze. Qui Archinà invita il presidente a partecipare a un incontro con Emma Marcegaglia e ne approfitta per commentare le nomine dell’autorità portuale di Taranto.

Vendola: buongiorno archinà

Archinà: Oh, come va presidente io la segue sempre eh

Vendola: va bene ho mandato poi le risposte

Archinà: si la ringrazio la ringrazio, no la chiamavo per un’altra cosa allora velocemente poi per non sottrarle… allora anche quest’anno presenteremo il secondo rapporto ambiente e sicurezza e chiaramente il presidente (RIVA) ci tiene moltissimo 

Vendola:  quand’è

Archinà: allora le dico anche di più, abbiamo avuto anche, se lei viene, la Marcegaglia sarebbe ben lieta di venire e ha fissato due date disponibili una delle quali deve scegliere lei il 23 o il 26 di novembre

 Vendola: 23 o 26 novembre… cerco di farvi avere entro domani mattina una risposta

Archinà: si perché la Marcegaglia ci terrebbe, ha parlato con il presidente Riva, ci terrebbe incontrare lei

Vendola: si ma volentieri volentieri

Archinà: può essere un’occasione qui a Taranto così diamo uno scossone qui a questo centro destra, questo è

Vendola: ma io la incontro volentieri senza problemi l’essenziale è che abbiamo un quadro molto positivo di cose da presentare

Archinà: chiaramente io da subito mi metto a lavorare con Antonicelli, con lei con chi dice… poi un’ultimissima cosa, so che non … apriamo gli occhi con l’autorità portuale di Taranto ci sono dei nomi che non sono ben, io poi le vorrei…

Vendola: l’ammiraglio va bene mi pare una brava persona

Archinà: l’ammiraglio certamente

Vendola: non è un ladro è una persona sobria, seria, siccome è di destra io al ministro ho detto: è uno vostro, ho detto ma è una persona per bene per me niente da eccepire

Archinà: soltanto che stanno circolando dei nomi, una ripresa del traditore Michele Conte, lei lo sa che è passato coordinatore cittadino del PDL? Io l’ho detto subito a Manna questo

Vendola: Michele Conte… mamma mia…

Archinà: l’autorità portuale che venne

Vendola: uno raccomandato da tutti dall’organizzazione della liberazione della Palestina ai gruppi comunisti estremisti

Archinà: e infatti questi sono i personaggi, poi ha avuto una disavventura personale che venne arrestato, è stato commissariato

Vendola: non lo sapevo questo fatto

Archinà: eh si lui è stato commissariato perché ha avuto la disavventura di essere arrestato per vicende collegate al suo precedente, diciamo al suo operato in ambito di autorità portuale. Però il nominativo che lui supporta è un nominativo impossibile arrestato come lui

Vendola: chi sarebbe?

Archinà: l’ex direttore ora vice direttore di TCT, Russo. Bisogna aprire gli occhi, quando tornerà e …

Vendola: noi naturalmente abbiamo il potere di fare bene ma il ministro ha il potere di fare le scelte

Archinà: se il ministro lo ha commissariato penso che per similitudine non possa il compare no?

Vendola: va bene va bene grazie di queste informazioni

Archinà: si, io poi ho linea diretta con Francesco Manna gli passo tutte queste informazioni , va bene? Quindi il 23 o il 26 presidente

Vendola: ci sentiamo domani

Archinà: grazie

Vendola: salve salve

6 luglio 2010 - 18:29. “Non scrivere note lunghe che Gasparri non le legge”. A Taranto si prepara il ricorso al Tar e Girolamo Archinà è preoccupato perché vede nel centrodestra “un’inerzia assoluta”. L’interlocutore, Pietro Lospinuso, consigliere regionale in quota Pdl lo rasserena perché a breve incontrerà il capogruppo del partito al Senato e il ministro Fitto, ma avverte: “Non scrivermi una nota di trenta pagine che quella Gasparri non la legge, meglio una cosa succinta”.

Lo spinuso: pronto

Archinà:  ciao pietro

Lospinuso: ehi girolamo

Archinà: so che vabbè sta in Giappone te l’ha detto no?

Lospinuso: e non lo sapevo che stava in Giappone

Archinà: ah no lo sapeva che doveva andarsene i Giappone?

Lospinuso: si mi disse che se ne doveva andare sto periodo qui

Archinà: si mi ha chiamato la Donatella che mi ha avvisato

Lospinuso: e vabbè

Archinà: hai urgenze?

Lospinuso: quando rientra poi

Archinà: vabbè

Lospinuso: va bene, tutto a posto?

Archinà: stiamo in attesa

Lospinuso: hanno fatto la cosa dell’errore materiale , è stata na

Archinà: una dietro all’altra una dietro all’altra… e no vabbè, la questione pure del Benzoapirene che… boh, vedo un’inerzia proprio nel centro destra in maniera assoluta, pure al centro eh… col benzopirene con Legambiente, sta facendo un po’ di casino perché

Lospinuso: manda una specie di canovaccio, un qualcosa su cui possa, capito?

Archinà: ma infatti non, anche se ti mando un canovaccio e non te lo spiego è difficile

Lospinuso: comunque se vieni a Bari chiamami che ci vediamo tu e Tommaso

Archinà: io venerdì dovrei venire a Bari

Lospinuso: io proprio venerdì non ci sto

Archinà: e vabbè vabbè

Lospinuso: chiamami

Archinà: va bene

Lospinuso: ci vediamo una mezzoretta e facciamo come l’altra volta

Archinà: va bene. Perché qua è il Parlamento che mo se ne è uscito con un’altra….

Lospinuso: la settimana prossima c’ho Gasparri e Fitto da me

Archinà: per cui questa è la questione che dovrebbero prendere provvedimenti

Lospinuso: se mi arriva qualcosa succinta che Gasparri oltre 30 pagine non se le legge

Archinà: va bene va bene ciao

Lospinuso: ciao

29 ottobre 2010 - 09:55. “Il centrodestra deve schierarsi in blocco per fermare il decreto legge”. Lorenzo Nicastro, assessore all’Ambiente in Puglia, ha appena presentato un provvedimento che dà fastidio all’Ilva. Archinà suggerisce a Lospinuso il modo migliore per liberarsi del problema.

Archinà: pronto

Lospinuso: ehi Girolamo

Archinà: ciao come va Piè

Lospinuso: io tutto bene te?

Archinà: bene. Senti stai seguendo la vicenda di questa proposta di legge

Lospinuso: guarda io ho letto due tre righe della proposta di legge che vogliono presentare per Taranto

Archinà: l’hanno presentato l’hanno presentato. Ascolta, questa volta siccome io l’altro giorno sono andato a sentire la conferenza stampa al di là delle questioni di legittimità o non legittimità perché loro non possono fare una legge regionale

Lospinuso: contro le direttive europee

Archinà: soprattutto contro Taranto che la vogliono far passare sempre come quella più inquinata al di là di questi aspetti che abbiamo tempo per approfondire quello che serve in questo momento che è un momento preliminare è di non esporre stavolta il governo politicamente a dovere essere esso stesso a fare il ricorso alla consulta perché in un passo della conferenza stampa Nicastro cosa ha detto a fronte di una domanda di un giornalista, la domanda era “ma con questa legge visto che ci stanno le norme comunitarie non è che si rischia di aprire un conflitto istituzionale” lui ha risposto che non pensa anche se formalmente il ricorso potrebbe vincerlo potrebbe avere fondamento il ricorso presentato dal governo alla consulta, però poi politicamente il governo dovrà giustificare ai cittadini di Taranto di esporli ai veleni per cui secondo me il blocco o almeno il primo blocco in termini di centro destra dovreste farlo alla regione perché qua diversamente dalla diossina non ci sono le stesse condizioni

Lospinuso: Girolamo, ipotizziamo per assurdo che cosa comporta se dovesse essere approvata che voi diminuite la produzione di acciaio?

Archinà: e certo, non lo puoi quantificare, devi diminuire la produzione in relazione alle concentrazioni… in questa fase lo imposterei nel senso che esiste una normativa europea che è stata interamente recepita dal governo italiano. Si vuole fare solo per apparire, prima della sostanza ci sta la forma

Lospinuso: se si dovessero fare… vabbè va… c’è una dichiarazione risulta sta cosa in qualche giornale     

Archinà: e certo, no sui giornali no, c’è.. ho fatto io la registrazione, poi te la… da nessuna parte nessuno ha riportato questa parte

Lospinuso: senti Girolamo siccome io sto in macchina ti faccio chiamare da Tommaso Francavilla

Archinà: va bene ciao

Lospinuso: va bene ciao

5 maggio 2010 - 17:55. “Il sindaco o lo legate o lo bruciate vivo”. Archinà è in fibrillazione per la conferenza stampa sul benzoapirene convocata dal sindaco Stéfano e da Giorgio Assennato, direttore dell’Arpa. Chiama Ludovico Vico, onorevole del Pd, impegnato a Roma a votare la fiducia al governo.

Vico: Girolamo

Archinà: ciao Ludovico, come va?

Vico: ciao, stiamo votando il voto di fiducia

Archinà: ah vabbè, quindi è tempo perso. O no?

Vico: eh, insomma si

Archinà: senti, mentre qua tu perdi tempo a Roma… qua succede casino ogni mezzora

Vico: cos’è successo ora?

Archinà: è successo ma io vado sempre un po’ in anticipo, il sindaco o lo legate o lo bruciate vivo. Venerdì prossimo, vabbè oltre al casino, hai visto no che ha combinato con i somministrati che ha costretto Ilva ad azzerare, ora si sta avventurando sul benzoapirene , venerdì avrà una conferenza stampa con Assennato, mi chiama stamattina in maniera informale dicendomi “non deve sapere nessuno” e dice “senti mi devi dare un aiuto” e io dico “che cos’è” se io emetto l’ordinanza di chiusura (si interrompe)

7 aprile 2010 - 11:00. “Si può fare qualcosa per mio figlio?” “Ne parlo con Crosetto”. Francesco Archinà, figlio di Girolamo, sta per essere trasferito a La Spezia per motivi di lavoro con la Marina Militare. Lui in realtà preferisce rimanere a Taranto e così il padre chiede un aiuto a Pietro Franzoso, deputato Pdl, morto nel 2011 dopo un incidente, che assicura un intervento sul sottosegretario alla Difesa.

Franzoso: sì

Archinà: ehi Pietro

Franzoso: ehi

Archinà: mi ha chiamato mio figlio, senti ha avuto informativa che la nave dove sta lui che è di sede a Taranto la trasferiscono il primo di luglio a La spezia tutti sbarcano e rimangono sulle altre navi di Taranto ad eccezione sua che dovrebbe seguire per due anni  la nave a La spezia. Possiamo fare qualche cosa?

Franzoso: ma, parlo con Guido Crosetto, il sottosegretario ne parlo perché lui ha la delega alla Marina

Archinà: vabbè ti do i dati

Franzoso: va benissimo

10 marzo 2010 - 19:35. “Il maestro dell’insabbiamento”. Emilio Riva, patron dell’Ilva, vuole porre fine al “battibecco con Assennato” e chiede ad Archinà come rispondere al comunicato con cui il direttore dell’Arpa svelava il superamento dei limiti degli inquinanti. Il numero uno dell’azienda si innervosisce con il suo factotum che definisce esperto di depistaggi.

Archinà: pronto

Riva: Archinà

Archinà: si

Riva: ma cosa gli rispondiamo nel comunicato non ho capito

Archinà: e no, con Cattaneo abbiamo detto che è da pensare è da pensare cosa scrivere nel comunicato è da pensarci cosa scrivere nel comunicato, questo ho detto io perché sinceramente smentirlo sicuramente in termini di parole

Riva: lei il comunicato dell’Arpa lo ha letto?

Archinà: no, me lo ha letto Albanese, in pratica ripropone l’e-mail

Riva: si si e cosa facciamo?

Archinà: il comunicato lo facciamo, quello che dicevo a Cattaneo, cosa scrivere sinceramente se Cattaneo fa la cortesia di ipotizzarlo, di smentirlo su un paio di punti

Riva: andiamo avanti col battibecco con Assennato?

Archinà: cosa?

Riva: lei non è maestro degli insabbiamenti?  Andiamo avanti con i battibecchi con Assennato?

Archinà: no, ma no per fare il battibecco con Assennato per chiudere alla fine, per dire cioè, dargli due stoccate …

Riva: la richiamo, adesso la richiamo

13 maggio 2010 - 12:43. La chiesa cerca sponsor. Don Marco avvisa Girolamo che il 9 giugno ci sarà “la presentazione di quel libro”. Ottomila euro sono già stati trovati, l’opera intera però ne costa 25mila.

Archinà: pronto?

Don Marco: Si, dottore Archinà buongiorno son Don Marco

Archinà: buongiorno, come và?

Don marco: bene grazie a Dio, lei tutto bene?

Archinà: ottimo

Don marco: bene, senta dottore, noi il 9 giugno dovremmo fare la presentazione di quel libro

Archinà: sì sì sì sì

Don marco: dovrebbe venire il presidente del consiglio del Pontificio consiglio per i Beni culturali Monsignor Gianfranco Ravasi a presentare e naturalmente stiamo procedendo con la stampa però avevo bisogno di sapere se secondo lei quell’idea di…

Archinà: si.. io domani mattina perché siccome sto fuori stabilimento ne parlo, domani mattina ne parlo e poi mi metto in contatto

Don marco: va bene va bene

Archinà: ecco, su cosa posso sbilanciare cioè parliamoci in termini concreti su cosa mi devo sbilanciare

Don Marco: guardi l’intera, tutta l’opera diciamo però è ovvio che non chiediamo una sponsorizzazione totale costerà 25.000

Archinà: si

Don Marco: l’impresa Garibaldi che ha fatto i lavori ha detto che vuole contribuire mi sembra che parli di 7-8 mila

Archinà: va bene va bene

Don marco: va bene?

Archinà: va bene

Don marco: grazie a voi grazie a voi arrivederci

21 aprile 2010 - 17:21. “Ehì Toni’, allora va bene cinquemila”. Dal centralino dell’Ilva arriva una chiamata ad Archinà. Una telefonata breve, trenta secondi. Il tempo necessario per farsi confermare da Laura che la busta con i cinquemila è pronta. Venti minuti dopo il faccendiere dei Riva chiama Antonio Gigante, uomo vicino alla curia, per confermare che i soldi sono pronti.

Archinà: pronto?

Ilva: ti passo Laura

Archinà: si si pronto?

Ilva: buonasera

Archinà: buonasera come va?

Ilva: ok per i 5000

Archinà: va bene grazie

Ilva: le metto in busta alla sigla che mi ha messo tra i provvisori il quattro

Archinà: va bene grazie

Ilva: prego buonasera

20 minuti dopo

Gigante: Pronto?

Archinà: ehi Tonì 

Gigante: chi è?

Archinà: Girolamo

Gigante: ehi Girolamo

Archinà: allora va bene 5000 eh, confermiamo

Gigante: ok, ti ringrazio

Archinà: quest’anno abbiamo fatto qualche giorno prima

Gigante: grazie ciao

Archinà: figurati

12 maggio 2010 - 11:13. “Su chi puntiamo per la segreteria della Fim?”. Tempo di nomine al sindacato, ma c’è incertezza. Così la segreteria provinciale cisl Daniela Fumarola chiede ad Archinà su chi sia più giusto puntare. Girolamo ci pensa un po’ e dopo due ore richiama: “Biagio Prisciano indiscutibilmente”.

Fumarola: pronto?

Archinà: ciao disturbo, Girolamo

Fumarola: no dimmi ciao

Archinà: ascolta io ho già fatto la strada per quel discorso…

Fumarola: io domani vengo alle 11

Archinà: lo so, ho già fatto la strada di dovere

Fumarola: grazie

Archinà: vabbè volevo dirti ma già mi hai anticipato tu, vacci tu

Fumarola: si si ci vado io, mi accompagna Filippo ma ci vado io

Archinà: va bene, quello è un tipo particolare per cui ci tiene a queste formalità De Biasi

Fumarola: senti volevo chiederti una cosa, sto lavorando sul nuovo gruppo dirigente della FIM mi fai sapere qualcosa rispetto al delegato nostro alla RSU, come si chiama, quello di Avetrana, ora mi salta il nome, niente ora mi sfugge il nome, un ragazzo bruno con gli occhi neri, uno bruno è giovane che sta nell’esecutivo

Archinà: Eh, che mi metto a guardare a

Fumarola: devi dire io ce l’ho sempre in mente perché è una cosa che ti devo chiedere e ora mi è sfuggito il suo cognome. Praticamente devo fornire indicazioni anche alla segreteria nazionale su cui puntare per il dopo Lazzaro

Archinà: certo, chiaro

Fumarola: solo che ora mi salta il nome, ti chiamo e te lo faccio sapere

Archinà: può darsi che ci arrivo prima io

Fumarola: ah, può darsi sicuramente. Nel frattempo mi è venuto il nome, si chiama Biagio Prisciano, l’altro è il nipote di Gerardo Giusto, si chiama Pizzolla, mi devi far sapere tra i due quali è il migliore grazie

Due ore dopo

Fumarola: pronto?

Archinà: non è che stai mangiando

Fumarola: no sono a Bari

Archinà: ah, ho capito, senti tra i due Prisciano è indiscutibilmente…

Fumarola: va bene perfetto, allora ci avevo acchiappato

Archinà: tra i due non c’è confronto a favore di Prisciano

Fumarola: benissimo grazie

17 maggio 2010 - 9:27. “Noi non possiamo chiedere il rinvio” Ma voi.. Archinà detta la linea a Daniela Fumarola su come Fim deve gestire le elezioni dei delegati sindacali dentro l’Ilva, poi chiede un favore: rimandare il tavolo previsto in prefettura per il 28 maggio. L’azienda non può farlo, loro sì. E così Fumarola si attiva e dieci minuti dopo conferma con un sms “Sto per inviare la richiesta di rinvio” .

Archinà: ciao disturbo?

Fumarola: no macchè, dimmi tutto buongiorno

Archinà: buongiorno, senti io vedo un’iperattivismo di UILM ed è normale è maggioranza, un’attivismo abbastanza accentuato da parte di FIOM e carenza assoluta da parte di FIM a girare nei reparti a chiedere consensi

Fumarola: ho capito, devo darli una mossa a quelli

Archinà: una mossa perché c’è gente che gira anche sui 3 turni per intenderci

Fumarola: ho capito ho capito. Perché tu lo sai che il personaggio è un personaggio singolare quindi dimmi tu quello che devo fare

Archinà: lo so lo so, un po’ scomodo. Sabato io ho parlato no ed è evidente che noi non è che possiamo andare a dire tu….. noi possiamo ostacolare o favorire determinati flussi però…. E poi darsi una linea politica su che cosa FIM vuole, cioè nel senso si parli di un’unica… vabbè al di là dell’integrativa, questo e quell’altro noi siamo contrari alla chiusura dello stabilimento

Fumarola: cioè  tu dici dare parole d’ordine chiave in modo tale che poi le persone possano dare un consenso convinto no?

Archinà: certo, ti ricordo che più che togliere il consenso a Uilm o a Fiom che sarebbe una questione da perdi tempo bisogna trovare consensi su chi è sfiduciato e non vuole partecipare alle votazioni

Fumarola: certo ho capito

Archinà: e questa fascia è una fascia che ragiona di più, impiegatizia, che ha un livello di almeno di scolarità superiore quindi capisce più certi messaggi

Fumarola: più… certo ho capito va bene va bene, ti ringrazio tanto tanto

Archinà: no figurati, senti poi un’altra cosa

Fumarola: dimmi

Archinà: l’iniziativa di monitoraggio a cui sei stata invitata

Fumarola: quella del 28?

Archinà: siccome la regione non vorrà parlare….. l’idea era di far scadere anche la tensione carattere generale

Fumarola: ma li noi non dovremmo fare …. A parte che noi c’abbiamo l’iniziativa all’università e vabbè,

Archinà: e siccome sta il discorso delle votazioni si potrebbe chiedere il rinvio, non lo so

Fumarola: si noi potremmo chiederlo anche al di là di questa cosa, potremmo chiederlo perché i 3 segretari  di CGIL CISL e UIL siamo stati invitati all’università per lo statuto dei lavoratori, per i 40 anni dello statuto dei lavoratori quindi noi avremmo proprio difficoltà, ora sento gli altri 2

Archinà: per esempio la regione….  Il problema qual è, ti dico, noi non possiamo chiedere il rinvio, altri no per un semplice motivo

Fumarola: noi si però, abbiamo anche questa motivazione, verranno fuori i manifesti, per cui…

Archinà: farlo il 28, il giorno prima della manifestazione sicuramente  sarà letta in maniera negativa. Siccome poi nel 28 non si parlerà dei somministrati, non si parlerà di altro, io immagino che Alta marea si sia arricchita con i somministrati pure

Fumarola: e beh si, perché hai visto come paga o li dicono, li promettono l’eden

Archinà: e infatti, infatti, per cui secondo me comunque qualsiasi cosa, al di là che si tratti di un tavolo di monitoraggio, qualsiasi cosa sarà negativa

Fumarola: certo, facciamo così, ti ripeto noi abbiamo questa motivazione molto forte

Archinà: ce ne sono 2 ce ne sono 2 uno le votazioni  e l’altro il 28 ancora non si sanno i risultati presumo

Fumarola: e no, è il 26, 27 e 28, quindi al pomeriggio. Va bene, ti faccio sapere, io sento gli altri 2 ora

Archinà: beh, certo penso che questa iniziativa sia utile per una manifestazione tranquilla se la vogliono fare

Fumarola: se non tengono niente da fare potevano andare al mare invece

Archinà: e lo so, però non gli si da, perché aspettano ulteriori alibi, chiaro no

Fumarola: si, figurati questi, eh mamma mia. Va bene, d’accordo, ti chiamo più tardi e ti do conferma di quello che abbiamo fatto, va bene, grazie tanto, un abbraccio ciao ciao

Dieci minuti dopo Daniela Fumarola invia un sms ad Archinà “sto per inviare la richiesta unitaria di rinvio dell’incontro per il 28. A presto!

22 giugno 2010 - 17:33. “Questi di Arpa o vengono fatti fuori o sarà la fine”. Girolamo è deluso, credeva di aver raggiunto un accordo con Assennato e invece nulla, dal direttore dell’Arpa arriva la richiesta di riduzione drastica della produzione. Daniela Fumarola ascolta stupita al telefono e si interroga: “Che esigenza c’era?”.

Fumarola: ehi, ciao, come stai

Archinà: bene bene tu?

Fumarola: bene grazie

Archinà: sono tornato da poco da Bari, ti dico una cosa questi dell’Arpa o vengono fatti fuori oppure sarà la fine… concordo che domani cominciamo perché siccome la relazione che hanno fatto è una cavolata scientifica di relazione abbiamo condiviso bonariamente con Assennato che da domani ci incominciavamo a vedere. Ieri pomeriggio che fa? Arriva da Arpa a tutto il mondo compreso la Procura e chiede in realtà drastiche riduzioni delle cockerie

Fumarola: ah, bè, chiede drastiche riduzioni delle cockerie cosa significa

Archinà: anche la chiusura se è necessario

Fumarola: addirittura

Archinà: eh. Allora questi sono pazzi, io sono andato da Vendola stamattina, Vendola incazzatissimo nero con questi di Arpa, ma di brutto incazzato nel senso…

Fumarola: come mai hanno cambiato atteggiamento rispetto ad un atteggiamento più costruttivo

Archinà: per un semplice motivo, perché Arpa non è coordinata da nessuno, questo è firmato da Blonda perché Blonda e Giua e Giua è organico di Altra marea è chiaro che poi vengono fuori

Fumarola: aaaaaaaaaaaaaaaaaaaahh ho capito

Archinà: e allora è un problema nel senso che, questi lo hanno mandato pure alla procura

Fumarola: e infatti che esigenza c’era

Archinà: e vabbè, comunque è incazzatissimo, ora vuole prendere provvedimenti drastici nei confronti di Arpa, e beh, se lo merita. Senti io invece ti ho chiamata, senti l’hai avuta la copia del ricorso tu

Fumarola: si in questo istante la stavo girando ai miei colleghi, la giro anche a te, te la giro immediatamente

Archinà: io ti giro il tuo, dammi l’indirizzo e-mail

Fumarola: daniela.fumarola@libero.it

Archinà: te lo giro subito

Fumarola: senti, io invece domani appena ci metto in punto perché ora l’abbiamo, l’ho riletta insomma ho fatto altre ulteriori modifiche ti invio la relazione in modo che possiate tenerla sia tu sia il vice come cavolo si chiama lui, vabbè?  Te la giro subito allora, ci sentiamo

Archinà:  grazie

Fumarola: grazie a te, ciao ciao

8 settembre 2010 - 12:26. “Il direttore di Taranto Sera è nostro”. Nico Russo, coordinatore di Taranto Futura, non piace ad Archinà. È necessario trovare un modo per bruciarlo. Al telefono con l’avvocato Perli spunta la soluzione ideale, segnalarlo a Michele Mascellaro. L’uomo, alla guida di un quotidiano locale, è abituato a riportare le notizie con i “toni che vogliamo noi”.

Archinà: avvocato, se io per bruciare questo Russo se io la facessi chiamare dal direttore di Taranto sera che poi è quello che trascina le notizie per il giorno dopo, ritiene opportuno che gli spiega lei magari senza interviste glielo spiega

Avvocato: si io non farei interviste eh!

Archinà: non interviste, no no, gli da notizie in modo che lo scrive lui

Avvocato: e come si chiama questo?

Archinà: Michele Mascellaro, la faccio chiamare

Avvocato: ma è … c’è da fidarsi?

Archinà: è nostro! È nostro! È nostro! Si, è nostro per intero

Avvocato: ok

Archinà: è quello che ha fatto scoppiare la questione Berillio

Avvocato: ah, ok, va bene

Archinà: le do il suo numero perché così lui riporta la notizia così con il tono che vogliamo noi

Avvocato: certo

Archinà: in modo che Russo domani se vuole tenere la conferenza stampa deve stare attento

Avvocato: mmhh va bene

Archinà: va bene? Quindi provvedo

Avvocato: mi … mi … m’interessa molto quell’accesso agli atti

Archinà: si si si certo… va bene

Avvocato: grazie arrivederci… ci sentiamo buongiorno

15 aprile 2010 - 17:13. “Ma quanto gli ha chiesto?”. Un’intercettazione tra Mascellaro, direttore di Taranto Sera, e Archinà svela i sistemi usati dalle aziende per gestire i rapporti con la stampa locale.

Archinà: comunque è andato, mò ti faccio una confidenza, non ti far trapelare niente quando lo vedi, è andato ieri in maniera improvvida e senza avermi avvisato Cattaneo da Walter Baldacconi  voleva fare i soliti incontri giornalistici come gli ha fatti con te con gli altri no, in maniera, alla milanese maniera,

Mascellaro: si

Archinà: e si, Baldacconi lo ha portato da Cardamone

Mascellaro: ah, quanto gli hanno chiesto?

Archinà: appena è arrivato dice “sa noi dall’ENI abbiamo ricevuto una promessa di un milione di euro poi Roma l’ha bloccata per questo noi li stiamo attaccando

Mascellaro: ah!

Archinà: ah va buò. Dice che se ne è tornato scandalizzato

Mascellaro: non ti ha detto quanto gli ha chiesto a lui?

Archinà: va bè ma mica la fa così lui (Cardamone) sono tre o quattro volte che mi chiama oggi e non gli rispondo a Cardamone

Mascellaro: ah, ho capito

Archinà: ci sentiamo domani

Mascellaro: beato a chi gli è amico

Archinà: un abbraccio

Mascellaro: ciao Girolamo

21 aprile 2010 - 11:36. “Meglio non svegliare gli appetiti degli esclusi”. Una tavola rotonda al telefono, da una parte della cornetta c’è Girolamo Archinà, dall’altra Emilio Riva, patron dell’Ilva e Alberto Cattaneo, dirigente della comunicazione in azienda. Oggetto della discussione gli spot su una televisione locale.

Archinà: pronto

Riva: si Archinà

Archinà: si dottore l’ho chiamata poco fa e mi hanno detto che era impegnato

Riva: sono qua con Cattaneo

Archinà: ti saluto

Riva: con questi cavolo di spot che vogliamo fare su studio 100 ma ce li mandano in onda o no

Archinà: ma allora io, me lo chiesi, contrattualmente li devono mandare in onda per forza quindi io non vedo nessun problema di questo tipo. Era l’unica cosa quando me lo chiese il ragioniere, era di vedere un po’ se mandare gli spot poi non aumentano gli appetiti degli altri esclusi  questo, l’unico problema ma per studio 100 non è un problema, lo devono mandare punto e basta perché è previsto dal contratto

Riva: Girolamo

Archinà: ehi

Riva: quello che non ho colto da Cardamone è proprio questa volontà però se tu ci assicuri noi stiamo a posto siccome stiamo spendendo dei soldi per gli spot televisivi il nostro problema è se spenderli o no se questi non li mandano, capisci

Archinà: il problema, c’è un contratto firmato per questo, no, per me il contratto firmato va onorato da entrambi le parti

Riva: perfetto

Archinà: punto! E’ un problema che non mi pongo, mi segui?

Riva: si. Sono felice di quello che mi stai dicendo

Archinà: quando la settimana scorsa il ragioniere mi fece cenno di questo io gli dissi l’unico momento di riflessione dev’essere un momento che se attraverso questi spot gli esclusi, mi riferisco a Telerama, Tbm, At6, cioè quelle televisioni escluse

Riva: e vabbè qualcosa faremo pure con loro eh! Non mi preoccuperei di questo

Archinà: infatti, solo di questo avevo detto punto e basta, perché gli altri se vogliono i soldi devono darci gli spazi che invece di fare i redazionali  mandiamo noi, cioè, quindi cosa vogliono?

Riva: si ma il fatto è che siccome questi spot costano poi dobbiamo mandarli in onda

Archinà: si dottore lo so

Riva: costano 120.000 euro andiamo a spendere perché sono fatti bene, sono fatti con una logica

Archinà: no no ma dottore il discorso che dico io contrattualmente ci toccano degli spazi, parlo di studio 100, per cui su questo se vogliamo, se vuole io la prossima settimana oppure anche perché oggi e domani non ci sta che sta a Milano a ritirare un premio, non so, gli vado a parlare, io gli vado a dire in maniera spiccicata

Riva: diciamoglielo, guardi, caro signore che noi stiamo andando avanti non stiamo facendo per finta Ilva sta spendendo dei soldi per fare gli spot non è uno scherzo

Archinà: lunedì vado e glielo dico in maniera spiccicata, ripeto l’unico motivo di riflessione dottore che avevo fatto con suo padre era questo: attenzione perché siccome in quel budget erano escluse alcune televisioni: Telerama, Tbm e così via non svegliamo gli appetiti di questi esclusi, punto.

Tra referendum, analisi e cortei, la battaglia degli ambientalisti, scrive Mario Diliberto.

 Sono davvero pochi gli alfieri storici della battaglia ambientalista di Taranto. Tra loro, però, spiccano i volti di Fabio Matacchiera e Alessandro Marescotti. Due pionieri del cartello verde che hanno affrontato con coraggio il gigante dell'acciaio. Matacchiera, ex campione di nuoto, già nel 1991, mette a segno una serie di blitz in mare, immergendosi all'altezza degli scarichi dello stabilimento. Le immagini della sabbia del fondale resa nera dai detriti della fabbrica, all'epoca di Stato, fanno scalpore. Oggi è presidente del fondo antidiossina ed è tra i fautori delle marce contro l'inquinamento che hanno portato in strada migliaia di tarantini. Marescotti, professore di lettere, è il fondatore del circolo di Legambiente in città, La sua prima battaglia è dei primi anni '80 contro il progetto di realizzare una centrale nucleare ad Avetrana. Come leader di Peacelink nel 2001 diffonde inquietanti foto sulla vita nelle cokerie. Nel 2008 è lui a far analizzare un pezzo di formaggio pecorino prodotto in una masseria vicina all'Ilva. Gli esiti rivelano livelli di diossina e Pcb (micro inquinanti organici) tre volte superiori ai limiti della legge. Al loro fianco nel 2008 anche il pediatra Giuseppe Merico, che fonda l'associazione "Bambini contro l'inquinamento". Il medico vara la prima marcia contro l'Ilva. In strada scendono migliaia di persone con i figli che in corteo raggiungono l'ingresso della fabbrica. La presa di coscienza in città dilaga. Nello stesso anno la marcia dei ventimila battezza la nascita di Altamarea, un cartello in cui confluiscono le associazioni ambientaliste e numerosi cittadini. Nel 2010 il comitato Taranto Futura apre la raccolta di firme per il referendum, finalizzato alla chiusura parziale o totale della fabbrica. La consultazione nel 2013 non raggiunge il quorum, perché alle urne si reca solo il 20% dei tarantini. Il fronte verde presenta alle ultime elezioni anche un proprio candidato sindaco. In campo scende Angelo Bonelli, presidente nazionale dei Verdi, ma nella competizione arriva al terzo posto, senza centrare l'obiettivo del ballottaggio.

La pelle degli operai, scrive Adriano Sofri. "Se fossi il papa"  -  chi non comincia così, oggi. Se fossi il papa, visiterei le discariche dell'Ilva. Ma andiamo per ordine. Nel 2008, in cambio di qualcosa, i Riva padroni dell'Ilva diventarono, versando 120 milioni, il secondo azionista dell'Alitalia rattoppata, dopo Air France. Settantuno di quei milioni sono stati ora sequestrati dalla Guardia di Finanza, insieme al patrimonio che i Riva avevano scorporato dall'Ilva, per metterlo al riparo: il totale di questo secondo sequestro (il primo superava di poco il miliardo) è di 916 milioni di euro. Sono porzioni pazientemente stanate dalle proprietà Riva per coprire la cifra di 8,1 miliardi, fissata dalla magistratura come l'equivalente di quanto i Riva avevano sottratto al risanamento ambientale. "Riva Acciaio" ha annunciato ieri la chiusura di sette stabilimenti, Verona, Caronno Pertusella (Varese), Lesegno (Cuneo), Malegno, Sellero, Cerveno (Brescia) e Annone Brianza (Lecco), e due di servizi e trasporti (Riva Energia e Muzzana Trasporti), per un complesso di 1500 lavoratori. Ritorsione che vuol mettere questi lavoratori contro quelli dell'Ilva tarantina, e gli uni e gli altri contro Procura e Gip di Taranto, Patrizia Todisco. Curiosamente, all'elenco di fabbriche serrate (su cui si è equivocato, scambiando Ilva Acciaio, restata della famiglia Riva, con l'Ilva commissariata di Taranto, Genova ecc.: del resto il garbuglio societario era fatto apposta per confondere le acque) si sono aggiunti i 114 lavoratori tarantini della centrale elettrica, la cui chiusura è impensabile se non progettando un'eruzione vulcanica del siderurgico: ai 114 è però stato annunziato che non ci sono soldi per pagarli. Perché i Riva credano che appartenga ancora a loro l'alimentazione elettrica della fabbrica commissariata è difficile capire: e se una distrazione ci fosse stata, sarebbe bene che il governo si sbrigasse a rimediare con un decreto aggiuntivo, e tanto meglio se vi comprendesse anche gli stabilimenti chiusi per ritorsione. Si sbaglierebbe a vedere nella serrata dei Riva un gioco delle parti col già loro Enrico Bondi, che il governo ha lasciato dov'era nominandolo, da amministratore delegato, commissario. Quasi ottantenne, Bondi non è stanco di rottamare e riparare. È probabile che non tenga in conto i Riva, e ne sia detestato. Non li ha traditi: era andato lì per offrire il suo curriculum alle banche, e raddrizzare un naufragio che nemmeno la Concordia. Se è vero, come sostiene la Guardia di Finanza, che intendeva continuare a servirsi dei "fiduciari", la gerarchia ombra coloniale, dai vertici ai capireparto, cui i Riva si affidavano per il lavoro sporco, ora finita nelle indagini (e in galera), è un bruttissimo scivolone. Il fatto è, spiegano, che per lui  -  aretino, mordace, suo padre fabbricava casse da morto, non sta lì per i soldi ma per la sfida, e lavora sedici ore al giorno  -  raddrizzare significa tagliare, ridimensionare, produrre. Ridimensionare quanto? Fino a sette milioni di tonnellate. Tagliare quanto? 5, 6 mila teste. Dei posti di lavoro, e anche dell'ambiente, ammesso che gli importi  -  non so  -  comunque non pensa che sia propriamente affar suo. I tagli (prepensionamenti, certo, ma il grosso saranno licenziamenti) sono questione di un paio di mesi. I 1500 di ieri sono un anticipo e un sovrappiù. Per i tagli dovrebbero esserci i sindacati, per l'ambiente e la salute il vicecommissario Ronchi. I sindacati confederali l'altro giorno, quando un operaio è stato vendicativamente licenziato, ed è andato sui tetti con altri compagni a discutere se convenisse buttarsi giù o scendere (sono scesi: evviva), hanno fatto finta che non li riguardasse: avevano un'altra sigla sindacale. Con un solo operaio alla manovra ferroviaria c'è più sicurezza, dicono. Claudio Marsella, schiacciato, soccorso con un ritardo sul quale si pronuncerà la magistratura, e morto, è un tragico incidente, dicono. Ci sono decine di km di binari, locomotori da guidare, carri da agganciare, basta sentirsi male (a dicembre è successo di nuovo: un operaio è restato svenuto a lungo; un altro si è fratturato un braccio, ma almeno poteva chiamare) e non c'è nessuno a soccorrere e chiedere aiuto. Più operai si intralciano, dicono! Ma basta che uno accompagni l'altro, e intervenga solo alla bisogna. Ebbene: il consiglio comunale di Taranto, all'unanimità (più unica che rara) ha chiesto che si ripristini la libertà sindacale all'Ilva, condiviso le ragioni del licenziato, e chiesto l'immediato reintegro. L'arcivescovo Santoro, che non viene dall'Argentina ma ha fatto un suo tirocinio in Brasile, ha comunicato la sua "vicinanza e solidarietà a Marco Zanframundo  -  l'operaio licenziato  -  e ai suoi amici". Segni dei tempi, che i sindacati dovrebbero leggere: ai cancelli dell'Ilva e nelle strade dei Tamburi si aggira uno spettro, e anche negli altri posti lasciati sguarniti. Lo spettro, l'avete capito, è papa Francesco. Ci mancava lui, penserà qualcuno. Fatto sta che qualcuno ci mancava. Fossi papa, visiterei le discariche. Dentro l'Ilva hanno una lunga storia da raccontare. Il fatto è, scuote la testa qualcuno, che perfino i suoli e gli argini che dovrebbero contenerle sono fatti di strati di rifiuti speciali, di quelli che la legge dichiara non conferibili. Accanto all'Ilva, la Cementir sta chiudendo la sua area a caldo, il cuore della produzione e dell'occupazione; non smaltirà più la loppa d'altoforno, lo scarto della ghisa dell'Ilva altamente inquinante, che da qualche parte dovrà andare  -  a cementare il mare, come a Trieste o a Bagnoli? ... Del piano che metta insieme la sbaragliata siderurgia italiana si sa poco o niente. La cokeria di Taranto potrebbe esser sostituita da quella meglio governata di Piombino, che potrebbe compensare la chiusura dell'altoforno con il forno elettrico, e guadagnarsi con la Concordia e il porto riattrezzato il credito per le rottamazioni navali a venire, che la legge europea non farà più andare a impestare il terzo e quarto mondo... Altrettanti naufragi di cui fare virtù, se si sapesse. C'è un ministro dell'ambiente giovane e, per così dire, impregiudicato. Ci crede, Andrea Orlando, alla copertura dei parchi minerali (950 milioni, se arrivano), discariche a norma secondo le migliori tecnologie disponibili, controllate da Ispra e Arpa... Non è un papa, solo un ministro, e di un governo tramortito  -  ma anche i papi sono diventati a scadenza. Governo, e suoi commissari, hanno un piano che si aggira sui 2 miliardi, o poco più. Magistratura di Taranto e suoi esperti avevano calcolato 8 miliardi, e ordinato un sequestro equivalente: arrivato a poco più di due, finora. Poi c'è quel problema dei tumori, e quell'altro problema dei posti di lavoro.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma  nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato;  si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia  di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».

Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.

In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.

Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.

LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.

Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:

a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);

b) situazioni di povertà:

c) situazioni di reddito medio – basso.

Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?

Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!

Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?

«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»

Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.

«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?”  La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».

Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.

Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.

Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.

All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».

“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.

Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.

Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.

«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.

FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa.  Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.

«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».

Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?

Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».

Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».

Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».

Alberto Stasi: «Io sono innocente».

Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.

Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?

Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?

Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".

Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.

Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.

I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...

Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.

Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?

Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»

C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)

Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.

Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale

Vengo anch'io? No tu no

Per vedere come stanno le bestie feroci

e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera

Vengo anch'io? No tu no

Con la bella sottobraccio a parlare d'amore

e scoprire che va sempre a finire che piove

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore

Vengo anch'io? No tu no

Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano

un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale

Vengo anch'io? No tu no

per vedere se la gente poi piange davvero

e scoprire che è per tutti una cosa normale

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed  i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:

- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.

- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.

- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.

- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.

- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.

- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.

- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.

- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.

E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.

Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.

Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»

Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI

PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO

“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.

E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.

L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo. 

Le attività professionali svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o contributo.

Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”

NON VI REGGO PIU’.

Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.

"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.

A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:

" E allora amore mio ti amo

Che bella sei

Vali per sei

Ci giurerei. "

È uno sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno solo canzoni d'amore..".  Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica, Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni. Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio dopo quarantaquattro anni.

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè con le canzoni

senza patria o soluzioni

La castità (Nun te reggae più)

La verginità (Nun te reggae più)

La sposa in bianco, il maschio forte,

i ministri puliti, i buffoni di corte

..Ladri di polli

Super-pensioni (Nun te reggae più)

Ladri di stato e stupratori

il grasso ventre dei commendatori,

diete politicizzate,

Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)

Auto blu, sangue blu,

cieli blu, amori blu,

Rock & blues (Nun te reggae più!)

Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)

DC-PSI (Nun te reggae più)

DC-PCI (Nun te reggae più)

PCI-PSI, PLI-PRI

DC-PCI, DC DC DC DC

Cazzaniga, (nun te reggae più)

avvocato Agnelli,

Umberto Agnelli,

Susanna Agnelli, Monti Pirelli,

dribbla Causio che passa a Tardelli

Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)

..Gianni Brera,

Bearzot, (nun te reggae più)

Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio

Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,

Villaggio, Raffà e Guccini..

Onorevole eccellenza

Cavaliere senatore

nobildonna, eminenza

monsignore, vossia

cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)

Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)

abbasso e alè!

Il numero cinque sta in panchina

si e' alzato male stamattina

– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)

Il nostro è un partito serio.. (certo!)

disponibile al confronto (..d'accordo)

nella misura in cui

alternativo
alieno a ogni compromess..

Ahi lo stress

Freud e il sess

è tutto un cess

si sarà la ress

Se quest'estate andremo al mare

soli soldi e tanto amore

e vivremo nel terrore

che ci rubino l'argenteria

è più prosa che poesia...

Dove sei tu? Non m'ami più?

Dove sei tu? Io voglio, tu

Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)

Uè paisà (..Nun te reggae più)

il bricolage,

il '15-18, il prosciutto cotto,

il '48, il '68, le P38

sulla spiaggia di Capo Cotta

(Cardin Cartier Gucci)

Portobello, illusioni,

lotteria, trecento milioni,

mentre il popolo si gratta,

a dama c'è chi fa la patta

a sette e mezzo c'ho la matta..

mentre vedo tanta gente

che non ha l'acqua corrente

e nun c'ha niente

ma chi me sente? ma chi me sente?

E allora amore mio ti amo

che bella sei

vali per sei

ci giurerei

ma è meglio lei

che bella sei

che bella lei

vale per sei

ci giurerei

sei meglio tu

nun te reg più

che bella si

che bella no

nun te reg più!

NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...

LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Vorrei essere libero come un uomo.

Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura

e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,

sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,

incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia

e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,

che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare

e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche avere un’opinione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza

e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,

con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo

e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche un gesto o un’invenzione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e  via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):

Noi fummo da secoli

calpesti, derisi,

perché non siam popolo,

perché siam divisi.

Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:

di fonderci insieme

già l’ora suonò.”

e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci

Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!

IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980

Io se fossi Dio

E io potrei anche esserlo

Se no non vedo chi.

Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente

Non sarei mica un dilettante

Sarei sempre presente

Sarei davvero in ogni luogo a spiare

O meglio ancora a criticare, appunto

Cosa fa la gente.

Per esempio il cosiddetto uomo comune

Com'è noioso

Non commette mai peccati grossi

Non è mai intensamente peccaminoso.

Del resto poverino è troppo misero e meschino

E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto

Lui pensa che l'errore piccolino

Non lo veda o non lo conti affatto.

Per questo io se fossi Dio

Preferirei il secolo passato

Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico

Dove si amava, e poi si odiava

E si ammazzava il nemico.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Non sarei mica stato a risparmiare

Avrei fatto un uomo migliore.

Si, vabbè, lo ammetto

non mi è venuto tanto bene

ed è per questo, per predicare il giusto

che io ogni tanto mando giù qualcuno

ma poi alla gente piace interpretare

e fa ancora più casino.

Io se fossi Dio

Non avrei fatto gli errori di mio figlio

E specialmente sull'amore

Mi sarei spiegato un po' meglio.

Infatti voi uomini mortali per le cose banali

Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti

Ci avete proprio una bontà

Da vecchi un po' rincoglioniti.

Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate

E tutti che ostentate la vostra carità.

Per le foreste, per i delfini e i cani

Per le piantine e per i canarini

Un uomo oggi ha tanto amore di riserva

Che neanche se lo sogna

Che vien da dire

Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.

Io se fossi Dio

Direi che la mia rabbia più bestiale

Che mi fa male e che mi porta alla pazzia

È il vostro finto impegno

È la vostra ipocrisia.

Ce l'ho che per salvare la faccia

Per darsi un tono da cittadini giusti e umani

Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani

E tante altre attenzioni

Per handicappati sordomuti e nani.

E in queste grandi città

Che scoppiano nel caos e nella merda

Fa molto effetto un pezzettino d'erba

E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.

Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti

Che usate gli infelici con gran prosopopea

Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare

Dalla rupe Tarpea.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti

Che certamente non sono brave persone

E dove cogli, cogli sempre bene.

Signori giornalisti, avete troppa sete

E non sapete approfittare della libertà che avete

Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate

E in cambio pretendete

La libertà di scrivere

E di fotografare.

Immagini geniali e interessanti

Di presidenti solidali e di mamme piangenti

E in questo mondo pieno di sgomento

Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:

Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti

E si direbbe proprio compiaciuti

Voi vi buttate sul disastro umano

Col gusto della lacrima

In primo piano.

Si, vabbè, lo ammetto

La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia

Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza

Non avrei certo la superstizione

Della democrazia.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.

Nel regno dei cieli non vorrei ministri

Né gente di partito tra le palle

Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.

E tutti quelli che fanno questo gioco

Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso

Come la febbre e il tifo

E tutti quelli che fanno questo gioco

C' hanno certe facce

Che a vederle fanno schifo.

Io se fossi Dio dall'alto del mio trono

Direi che la politica è un mestiere osceno

E vorrei dire, mi pare a Platone

Che il politico è sempre meno filosofo

E sempre più coglione.

È un uomo a tutto tondo

Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo

Che scivola sulle parole

E poi se le rigira come lui vuole.

Signori dei partiti

O altri gregari imparentati

Non ho nessuna voglia di parlarvi

Con toni risentiti.

Ormai le indignazioni son cose da tromboni

Da guitti un po' stonati.

Quello che dite e fate

Quello che veramente siete

Non merita commenti, non se ne può parlare

Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.

Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli

Sarebbe come scendere ai vostri livelli

Un gioco così basso, così atroce

Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.

Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto

E mi dispiace ma non son proprio capace

Di tacere del tutto.

Ci son delle cose

Così tremende, luride e schifose

Che non è affatto strano

Che anche un Dio

Si lasci prendere la mano.

Io se fossi Dio preferirei essere truffato

E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato

Preferirei la più tragica disgrazia

Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.

Signori magistrati

Un tempo così schivi e riservati

Ed ora con la smania di essere popolari

Come cantanti come calciatori.

Vi vedo così audaci che siete anche capaci

Di metter persino la mamma in galera

Per la vostra carriera.

Io se fossi Dio

Direi che è anche abbastanza normale

Che la giustizia si amministri male

Ma non si tratta solo

Di corruzioni vecchie e nuove

È proprio un elefante che non si muove

Che giustamente nasce

Sotto un segno zodiacale un po' pesante

E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.

Io se fossi Dio

Direi che la giustizia è una macchina infernale

È la follia, la perversione più totale

A meno che non si tratti di poveri ma brutti

Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.

Io se fossi Dio

Io direi come si fa a non essere incazzati

Che in ospedale si fa morir la gente

Accatastata tra gli sputi.

E intanto nel palazzo comunale

C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti

In modo tale che in questa messa in scena

Tutto si addolcisca, tutto si confonda

In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale

È una schifosa facciata immonda.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Vedrei dall'alto come una macchia nera

Una specie di paura che forse è peggio della guerra

Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti

È la camorra.

È l'impero degli invisibili avvoltoi

Dei pescecani che non si sazian mai

Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi

È l'impero dei mafiosi.

Io se fossi Dio

Io griderei che in questo momento

Son proprio loro il nostro sgomento.

Uomini seri e rispettati

Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati

Così sicuri dentro i loro imperi

Una carezza ai figli, una carezza al cane

Che se non guardi bene ti sembrano persone

Persone buone che quotidianamente

Ammazzano la gente con una tal freddezza

Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.

Io se fossi Dio

Urlerei che questi terribili bubboni

Ormai son dentro le nostre istituzioni

E anzi, il marciume che ho citato

È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri

Alla Camera e allo Senato.

Io se fossi Dio

Direi che siamo complici oppure deficienti

Che questi delinquenti, queste ignobili carogne

Non nascondono neanche le loro vergogne

E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi

E mostrano sorridenti le maschere di cera

E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.

Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato

Perché la macchia nera

È lo Stato.

E allora io se fossi Dio

Direi che ci son tutte le premesse

Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.

Con una deliziosa indifferenza

E la mia solita distanza

Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente

Sprofondare lentamente nel niente.

Forse io come Dio, come Creatore

Queste cose non le dovrei nemmeno dire

Io come Padreterno non mi dovrei occupare

Né di violenza né di orrori né di guerra

Né di tutta l'idiozia di questa Terra

E cose simili.

Peccato che anche Dio

Ha il proprio inferno

Che è questo amore eterno

Per gli uomini.

IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista

sono sensibile e altruista

orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista

da un po’ di tempo ambientalista

qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.

Io sono un uomo nuovo

per carità lo dico in senso letterale

sono progressista  al tempo stesso liberista

antirazzista e sono molto buono

sono animalista

non sono più assistenzialista

ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.

Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

forse da buon opportunista si adegua senza farci caso

e vive nel suo paradiso.

Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,

il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza

è un animale assai comune che vive di parole da conversazione

di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori

il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo

e farsi largo galleggiando

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario

sono femminista

son disponibile e ottimista

europeista

non alzo mai la voce

sono pacifista

ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.

Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone

il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione

è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie

poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato

vive e questo già gli basta e devo dire che oramai

somiglia molto a tutti noi

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che si vede a prima vista

sono il nuovo conformista.

Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.

Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.

Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:

“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

 il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

 forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”

La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.

LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997

Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.

DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001

Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.

La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

tutti i films che fanno oggi son di destra

se annoiano son di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po' di destra

ma portarle tutte sporche e un po' slacciate

è da scemi più che di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po' di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze è più che mai di destra

la pisciata in compagnia è di sinistra

il cesso è sempre in fondo a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po' di destra

mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione, l'ossessione

della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa, dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera è di destra

la Nutella è ancora di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il pensiero liberale è di destra

ora è buono anche per la sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po' degli anni '20, un po' romano

è da stronzi oltre che di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare

un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c'è

se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.

Tutto il vecchio moralismo è di sinistra

la mancanza di morale è a destra

anche il Papa ultimamente

è un po' a sinistra

è il demonio che ora è andato a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po' più di destra

ma un figone resta sempre un'attrazione

che va bene per sinistra e destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Basta!

IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003

La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.

TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:

Io G. G. sono nato e vivo a Milano.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

non è per colpa mia

ma questa nostra Patria

non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

che sia una bella idea

ma temo che diventi

una brutta poesia.

Mi scusi Presidente

non sento un gran bisogno

dell'inno nazionale

di cui un po' mi vergogno.

In quanto ai calciatori

non voglio giudicare

i nostri non lo sanno

o hanno più pudore.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

se arrivo all'impudenza

di dire che non sento

alcuna appartenenza.

E tranne Garibaldi

e altri eroi gloriosi

non vedo alcun motivo

per essere orgogliosi.

Mi scusi Presidente

ma ho in mente il fanatismo

delle camicie nere

al tempo del fascismo.

Da cui un bel giorno nacque

questa democrazia

che a farle i complimenti

ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

pieno di poesia

ha tante pretese

ma nel nostro mondo occidentale

è la periferia.

Mi scusi Presidente

ma questo nostro Stato

che voi rappresentate

mi sembra un po' sfasciato.

E' anche troppo chiaro

agli occhi della gente

che tutto è calcolato

e non funziona niente.

Sarà che gli italiani

per lunga tradizione

son troppo appassionati

di ogni discussione.

Persino in parlamento

c'è un'aria incandescente

si scannano su tutto

e poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

dovete convenire

che i limiti che abbiamo

ce li dobbiamo dire.

Ma a parte il disfattismo

noi siamo quel che siamo

e abbiamo anche un passato

che non dimentichiamo.

Mi scusi Presidente

ma forse noi italiani

per gli altri siamo solo

spaghetti e mandolini.

Allora qui mi incazzo

son fiero e me ne vanto

gli sbatto sulla faccia

cos'è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

forse è poco saggio

ha le idee confuse

ma se fossi nato in altri luoghi

poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente

ormai ne ho dette tante

c'è un'altra osservazione

che credo sia importante.

Rispetto agli stranieri

noi ci crediamo meno

ma forse abbiam capito

che il mondo è un teatrino.

Mi scusi Presidente

lo so che non gioite

se il grido "Italia, Italia"

c'è solo alle partite.

Ma un po' per non morire

o forse un po' per celia

abbiam fatto l'Europa

facciamo anche l'Italia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo

per fortuna o purtroppo

per fortuna

per fortuna lo sono.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.

Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.

E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.

Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano).  Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.

Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.

Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio.  Ecco uno stralcio delle intercettazioni:

LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».

GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».

LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».

GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».

LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».

GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.

Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.

PRINCIPI COSTITUZIONALI

L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.

I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.

LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.

E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO  ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.

LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.

IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.

LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.

E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.

L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.

IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.

I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.

GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.

LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.

IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.

I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.

I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.

IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.

LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.

Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.

L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.

« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)

Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.

Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".

Non solo legisti.....

Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.

ADDIO AL SUD.

"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il  pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura  e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione  selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano'  del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.

Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:

«Finita la guerra prenderò congedo

e solo allora dirò a mia figlia

e solo allora dirò a mio figlio:

tu questo sei.

Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.

Adesso anche tu vieni da Sud».

Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.

Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis su "Il Giornale". I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».

Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

QUALCHE PROVERBIO AFORISMO

Amico beneficato, nemico dichiarato.

Avuta la grazia, gabbato lo santo.

Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.

Chi non dà a Cristo, dà al fisco.

Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.

Comun servizio ingratitudine rende.

Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.

Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.

Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.

Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.

Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.

L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.

L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.

L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.

L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.

L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.

Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.

Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.

Non far mai bene, non avrai mai male.

Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.

Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.

Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.

Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.

Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi

Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.

In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.

Philippe Gerfaut

L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)

Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.

Karl Kraus, Di notte, 1918

Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.

Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.

Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.

Luciano di Samosata, Scritti, II sec.

Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.

Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.

Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.

Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:

non sapere;

essere in una posizione subordinata di "potere";

fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;

disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;

vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.

Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.

Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.

Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”.  Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.

Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.

Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera”  — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.

Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.

“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.

L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.

"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.

Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista  raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.

Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.

Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.

Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.

La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.

Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.

Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.

Ed a Taranto la ciliegina sulla torta.

6 marzo 2014. Ilva, chiesto processo per 53, c'è anche Vendola: "Se è reato difendere i lavoratori, sono colpevole". L'inchiesta per disastro ambientale dei magistrati di Taranto sui vertici del siderurgico e il ruolo della politica, scrive Mario Diliberto su “La Repubblica”. Nichi Vendola ed Emilio Riva vanno processati insieme per il disastro ambientale di Taranto. E' questa la conclusione alla quale sono giunti i magistrati jonici, che hanno definito l'inchiesta sull'inquinamento contestato all'Ilva con 53 richieste di rinvio a giudizio. Così, a un anno e mezzo dalle prime manette e dal clamoroso sequestro dei reparti dell'area a caldo, nello stesso calderone giudiziario sono rimaste la politica e la grande industria. "Per decenni a Taranto nessuno ha visto niente e troppi hanno taciuto - ha commentato amaro Vendola - io no. Per decenni gli inquinatori hanno comprato il silenzio e il consenso politico, sociale e dei media. Con regali, finanziamenti, forniture, subappalti e favori. Io no. I miei collaboratori no. Infatti non siamo accusati di corruzione. Siamo accusati di essere stati compiacenti, a titolo gratuito, nei confronti del grande siderurgico". Il patron della grande fabbrica, i suoi figli e i suoi collaboratori, con in prima fila l'ex potentissimo responsabile delle pubbliche relazioni Girolamo Archinà,  sono accusati di aver tramato nell'ombra, aggirando gli investimenti per abbattere l'impatto ambientale della fabbrica jonica in nome del profitto e a spese della salute dei tarantini. Perché le polveri e i fumi delle ciminiere di quell'industria sono indicate come fonte di malattia e di morte, provocate dai veleni sparati sul vicino centro abitato. La politica, a cominciare da Nichi Vendola, è accusata di aver fatto da sponda a quella strategia aziendale bollata come criminale, guardando dall'altra parte o con iniziative blande, nella migliore delle ipotesi. Per il governatore pugliese, per esempio, la contestazione è quella di concussione, per le presunte pressioni che avrebbe attivato sul direttore dell'Arpa Giorgio Assennato. Vendola, secondo i pm, avrebbe rimproverato al numero uno dell'Arpa l'atteggiamento troppo rigido verso l'Ilva al punto di ventilare la sua mancata conferma alla guida dell'agenzia regionale. Una lettura degli eventi che è stata negata da Vendola, ma anche dallo stesso Assennato, anche lui tra gli imputati con l'accusa di favoreggiamento. Una vicenda che ha messo nei guai anche il parlamentare di Sel Nicola Fratoianni, all'epoca assessore regionale, l'attuale assessore regionale all'ambiente Lorenzo Nicastro e il consigliere regionale del Pd Donato Pentassuglia. Sul banco degli imputati, però, la procura tarantina intende spedire anche l'ex presidente della provincia Gianni Florido, arrestato durante le indagini, perché sospettato di aver fatto di tutto per agevolare i Riva con l'autorizzazione di una discarica all'interno dello stabilimento. Sulla graticola anche il sindaco di Taranto Ippazio Stefàno, accusato di abuso e omissione in atti di ufficio, perché non si sarebbe adoperato con le necessarie misure per tutelare la salute dei tarantini. Per Vendola si tratta di accuse infondate, che non rendono giustizia a quanto fatto dalla sua amministrazione sul fronte della tutela ambientale. "Un processo in cui tutti i dati del disastro ambientale - sottolinea il governatore - sono il frutto del nostro lavoro e della ostinata volontà della mia Amministrazione di radiografare e documentare l'inquinamento industriale nel capoluogo ionico. Noi, insieme alle agenzie della Regione Puglia, abbiamo fornito le prove che hanno scoperchiato la realtà". "Noi per la prima volta nelle istituzioni - continua il governatore - abbiamo aperto i dossier su diossina e altri veleni - e lo abbiamo fatto anche sulla spinta di un movimento nato dalla ribellione al destino di morte della città. Noi abbiamo cercato le evidenze scientifiche sul male sputato dall'Ilva, e abbiamo varato leggi e regolamenti che sono oggi all'avanguardia della legislazione ambientale". "Certo, contemporaneamente abbiamo difeso la fabbrica e i lavoratori. Se questo è un reato sono colpevole". "Ma abbiamo agito - aggiunge Vendola - nel rispetto di quei principi costituzionali che ci prescrivono di contemperare beni e diritti fondamentali per i cittadini, come salute e lavoro. Questo è il preciso dovere di chi governa, anche affrontandone le responsabilità e le conseguenze più dolorose".

Il presidente Nichi Vendola ci avrà pure sperato che quelle sei ore di interrogatorio, concesse ai magistrati tarantini l’antivigilia dello scorso natale, sarebbero servite a cancellare il suo nome dall’elenco dei 53 indagati della grande inchiesta sui reati ambientali dell’Ilva, scrive Nazareno Dinoi su “La Voce di Manduria” e Il corriere del Mezzogiorno. La cattiva notizia, per lui e gli altri 52, è contenuta in un breve comunicato stampa diffuso nel primo pomeriggio di ieri dal procuratore capo della Repubblica di Taranto, Franco Sebastio. «Si informa che questa Procura – si legge – ha depositato in data odierna le richieste per la definizione dell’indagine preliminare relativa al noto procedimento penale a carico di Riva Emilio ed altri». Tra gli «altri», oltre a Vendola e ai proprietari e i vertici dell’Ilva per i quali la pubblica accusa chiede il giudizio, ci sono i personaggi più in vista della politica regionale e della provincia di Taranto, del mondo delle professioni e dell’imprenditoria, della ricerca e persino della chiesa e degli ambienti investigativi. Rischiano il processo il sindaco di Taranto, Ippazio Stefàno (Sel), l’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido (Pd), il deputato di Sel Nicola Fratoianni, ex assessore regionale pugliese, il consigliere regionale jonico del Partito Democratico, Donato Pentassuglia. Tra gli imputati odierni anche l’ex capo delle relazioni istituzionali dell’Ilva Girolamo Archinà, l’ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso, un ex consulente della Procura, l’ex assessore provinciale all’Ambiente, Michele Conserva, l’attuale assessore regionale alla Qualità dell’Ambiente, Lorenzo Nicastro, il sacerdote don Marco Gerardo, segretario del vescovo di Taranto. E naturalmente i tre padroni del siderurgico, Emilio Riva e i figli Fabio e Nicola. I reati contestati vanno dall’associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, all’emissione di sostanze inquinanti con violazione delle normative a tutela dell’ambiente. Al governatore Vendola vengono contestate le presunte pressioni esercitate sul direttore generale dell’Agenzia regionale Protezione ambiente, Giorgio Assennato (anche lui indagato per il reato di favoreggiamento personale). Secondo l’accusa il presidente avrebbe chiesto l’ammorbidimento delle prescrizioni in merito ai livelli di inquinanti emessi dall’acciaieria. Accuse pesanti, smentite dagli interessati, di cui sono invece convinti gli inquirenti e gli investigatori della Fiamme Gialle he hanno tracciato un quadro probatorio di questo tipo: il 21 giugno del 2010 il direttore dell’Arpa, sulla scorta di rilevamenti che mostrano dati preoccupanti di benzo(a)pirene, suggerisce la necessità per l’Ilva di di rimodulare i cicli produttivi al fine di ridurre le emissioni nocive. Tale scelta che mandò su tutte le furie i Riva, sarebbe stata criticata anche da Vendola il quale, in un incontro con due suoi assessori (Nicola Fratoianni e Michele Losappio, entrambi imputati), avrebbe stigmatizzato l’operato dell’agenzia per l’ambiente («cosi com’è Arpa Puglia può andare a casa perché hanno rotto…»), ribadendo che «in nessun caso l’attività produttiva dell’Ilva avrebbe dovuto subire ripercussioni». Di diversa natura i reati contestati agli altri politici coinvolti. Il sindaco di Taranto è accusato di mancata cautela e omessa emanazione di misure atte a contrastare l’inquinamento che l’acciaieria procurava alla sua città. Il presidente della Provincia Florido e il suo assessore all’Ambiente per aver permesso all’Ilva di utilizzare due discariche per rifiuti speciali situati all’interno dello stabilimento. Gli assessori regionali con altri funzionari dell’Arpa e della Regione Puglia sono invece sospettati di avere favorito Vendola nascondendo o dicendo di non ricordare il contenuto di alcuni incontri in cui il presidente dava le direttiva tendenti a favorire il gruppo Riva. Tra i reati che si contestano agli imputati c’è anche l’omicidio colposo del gruista morto durante la tromba d’aria che trascinò la gru nel Mar Piccolo. A due capireparto si contesta la mancata osservanza delle misure antinfortunistiche e l’omesso controllo del macchinario che era privo del sistema di frenaggio che avrebbe evitato il ribaltarsi della struttura che precipitò in acqua. Le indagini condotte dalle fiamme gialle del capoluogo jonico hanno portato anche a Roma, nelle stanze del Ministero dell’Interno. Per questo rischia anche il processo Luigi Pelaggi, ex capo della segreteria tecnica del ministro Stefania Prestigiacomo e membro della commissione che nel 2011 rilasciò l’autorizzazione a produrre all’Ilva, secondo l’accusa chiudendo più di un occhi per alleggerire le prescrizioni favorendo così l’industria. Ora la parola passa al gip Patrizia Todisco che dovrà decidere se accogliere o meno le richieste formulate dal pool di magistrati inquirenti composto dal procuratore della Repubblica di Taranto, Franco Sebastio, dal procuratore aggiunto, Pietro Argentino, e dai sostituti procuratori Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile, Remo Epifani e Raffaele Graziano.

Ecco la lista di tutti gli imputati: Emilio Riva (1926), Nicola Riva (1958), Fabio Arturo Riva (1954); Luigi Capogrosso (1955), Marco Andelmi (1971), Angelo Cavallo (1968), Ivan Dimaggio (1969), Salvatore De Felice (1964), Salvatore D'Alò (1959), Girolamo Archinà (1946), Francesco Pervi (1954), Bruno Ferrante (1947), Adolfo Buffo (1956), Antonio Colucci (1959), Cosimo Giovinazzi (1974), Giuseppe Dinoi (1984), Giovanni Raffaelli (1963), Sergio Palmisano (1973), Vincenzo Dimastromatteo (1970), Lanfranco Legnani (1939), Alfredo Cerinani (1944), Giovanni Rebaioli (1948), Agostino Pastorino (1953), Enrico Bessone (1968), Giuseppe Casartelli (1943), Cesare Cotti (1953), Giovanni Florido (1952), Michele Conserva (1960), Vincenzo Specchia (1953), Lorenzo Liberti (1942), Roberto Primerano (1974), Marco Gerardo (1975), Angelo Veste (1938), Giovanni Bardaro (1962), Donato Perrini (1958), Cataldo De Michele (1959), Nicola Vendola (1958), Ippazio Stefàno (1945), Donato Pentassuglia (1967), Antonello Antonicelli (1974), Francesco Manna (1974), Nicola Fratoianni (1972), Davide Filippo Pellegrino (1961), Massimo Blonda (1957), Giorgio Assennato (1948), Lorenzo Nicastro (1955), Luigi Pelaggi (1954), Dario Ticali (1975), Caterina Vittoria Romeo (1951), Pierfrancesco Palmisano (1953), Ilva spa (in persona del commissario straordinario Enrico Bondi), Riva Fire spa (in persona del consigliere delegato e legale rappresentante Angelo Massimo Riva ), Riva Forni Elettrici spa (in persona del presidente legale e rappresentante Cesare Federico Riva).

Ilva, un sistema infetto: concussione, corruzione e disastro ambientale. 50 richieste di rinvio a giudizio, scrive  IBTimes Italia. Ci sono impresentabili di serie A e impresentabili di serie Z. Campagne mediatiche per chiedere la testa di Tizio, mentre i Caio e i Sempronio rimangono al loro posto, nascondendosi dietro il dito della "presunzione d'innocenza", in Italia valida solo per i politici. Il 5 marzo 2014 il ministro Boschi (Riforme) ha spiegato ai pochi deputati presenti in Aula che il governo, proprio per la presunzione d'innocenza, non ha alcuna intenzione di chiedere le dimissioni dei sottosegretari indagati o imputati (Barraciu, De Caro, De Filippo, Bubbico) figuriamoci del ministro Lupi (concorso in abuso d'ufficio). Resta da capire perchè Renzi abbia sostenuto che la Baracciu non andava bene come indagata candidata governatrice della Sardegna, ma è perfetta come sottosegretario alla Cultura.  Dopo pressioni di stampa e opinione pubblica, il sottosegretario Gentile (NCD) si è dimesso. Nessuno ha fiatato (e la notizia è rapidamente scomparsa dai principali quotidiani) per il rinvio a giudizio del compagno di partito Roberto Formigoni, ex governatore della Lombardia, presidente della Commissione Agricoltura. Sul suo capo accuse di corruzione e associazione a delinquere nell'inchiesta Maugeri sulla Sanità. Bazzeccole. Oggi giunge notizia della richiesta di rinvio a giudizio per Nichi Vendola, accusato di concussione aggravata nell'ambito dell'inchiesta sull'Ilva di Taranto, altra indagine che rischia di venire archiviata dai media con troppa fretta. Secondo gli inquirenti il governatore della Puglia avrebbe abusato del suo ruolo e, assieme al patron Fabio Riva e all'ex responsabile delle comunicazioni dell'azienda Girolamo Archinà (quello della famigerata intercettazione pubblicata dal Fatto alcuni mesi fa), avrebbe "implicitamente minacciato" con la "mancata riconferma nell'incarico"  Giorgio Assennato, direttore dell'ARPA (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale), allo scopo di renderlo più 'morbido' nei confronti dell'azienda, in particolare sulle "emissioni nocive prodotte dall'impianto siderurgico dell'Ilva s.p.a. ed a dare quindi utilità a quest'ultima, consistente nella possibilità di proseguire l'attività produttiva ai massimi livelli, come sino ad allora avvenuto, senza perciò dover subire le auspicate riduzioni o rimodulazioni".  E' un'accusa gravissima di un'inchiesta che, non a caso, si chiama "ambiente svenduto". Oltre a quella di Vendola, ci sono altre 50 richieste di rinvio a giudizio: per i Riva (Fabio, Emilio, Nicola), Archinà, il direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso l'accusa è di associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, all'avvelenamento di sostanze alimentari e all'omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Fabio Riva assieme ad Archinà deve rispondere anche del reato di corruzione in atti giudiziari: avrebbero versato una tangente di 10mila euro ad un professore universitario (Lorenzo Liberti) che collaborava con la Procura proprio sulle emissioni dell'Ilva. Tra i neo imputati anche Luigi Pelaggi, che nel 2011, quando venne rilasciata l'autorizzazione ambientale all'Ilva, faceva parte della commissione incaricata a decidere. Pelaggi era anche alla guida della segreteria tecnica dell'allora ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo. Imputati anche il sindaco di Taranto Ippazio Stefàno (omissioni in atti d'ufficio, non avrebbe adottato provvedimenti per "prevenire ed eliminare i pericoli" causati dall'Ilva di cui era a conoscenza) e l'ex presidente della Provincia, Gianni Florido (tentata concussione, pressioni per far ottenere l'autorizzazione alla discarica ILVA). L'inchiesta è partita nel 2009, ma il caso è deflagrato negli ultimi due anni, con il lungo braccio di ferro relativo alla chiusura degli impianti, fino al "sequestro per equivalente di beni, quote societarie e denaro fino alla concorrenza di 8.1 miliardi di euro nei confronti di Riva Fire e Ilva". Decisione poi annullata senza rinvio dalla Cassazione. Ma la questione Ilva si trascina da oltre un decennio. Il patriarca Emilio Riva ha già collezionato due condanne (nel 2002 e nel 2007) per l'inquinamento prodotto dall'azienda, senza che i vertici avessero messo in atto delle contromisure a tutela dell'ambiente. Un caso anche politico, che ha visto i governi e i vari ministri dell'Ambiente che si sono succeduti (Monti-Clini, Letta-Orlando) incapaci di fornire risposte convincenti. E con un evidente conflitto d'interessi: Enrico Bondi è stato nominato dal governo Letta commissario governativo del gruppo Ilva, un mese dopo aver lasciato il precedente incarico: amministratore delegato della stessa azienda. Il processo chiesto dalla Procura di Taranto per stabilire, al di là di ogni ragionevole dubbio, di chi sono state, sempre che ce ne siano state, le responsabilità se gli impianti dell’Ilva sono stati per anni fonte di malattie e morte, segnerà una tappa fondamentale nella ricerca di verità e giustizia per gli operai e i cittadini. Morti, spesso, due volte. La prima respirando sostanze cancerogene non rilevate da adeguati sistemi di monitoraggio, tutt'ora assenti, la seconda subendo il peso di quelle stesse sostanze sulla propria tomba, rossa come il minerale che ricopre il cimitero del rione Tamburi. Per i periti del giudice Patrizia Todisco sono stati ben 174 i decessi nel periodo compreso tra il 2003 e il 2010 attribuibili ai veleni del siderurgico, un dato – drammatico per consistenza ed eloquenza – già processualmente acquisito, come non sarà in discussione, vista la formula dell'incidente probatorio utilizzata, l'aumento di malattie polmonari e cardiovascolari nei residenti nei quartiere più vicini a impianti e ciminiere.

Sì…ma i problemi restano, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Ma la storia dell’Ilva non si è fermata il 26 luglio del 2012, quando furono arrestati proprietari e dirigenti e quando si cercò - senza riuscirci - prima per cause tecniche, data la complessità produttiva dell'acciaieria più grande d'Europa poi per volontà politica, scandita da ben cinque decreti legge - di bloccare gli impianti inquinanti fino alla loro messa a norma, più volte annunciata e sempre puntualmente rinviata. L’inquinamento dell’Ilva non è finito - purtroppo - quel giorno ma continua ancora oggi. Certo, di meno, perché lo stabilimento funziona a regime ridotto, con una produzione pari alla metà di quella degli anni in cui la famiglia Riva macinava utili per centinaia di milioni di euro, e perché lentamente vengono adempiute prescrizioni contenute nelle Autorizzazioni integrate ambientali del 2011 e del 2012, autorizzazioni dalla dubbia utilità e dalla mai del tutto chiarita legittimità, visto quanto emerso nell'indagine. Ma la fabbrica ancora inquina, le nuvole rosse di slopping ancora colorano di rosso il cielo della città dei due mari come risulta dai rapporti, redatti di recente dai carabinieri del Noe e dai custodi, in possesso dell’autorità giudiziaria, senza che di converso si dica ai tarantini, per chi ritiene l’acciaieria strategica per il futuro dell’Italia, il numero di malattie e morti accettabili, il punto reale di equilibrio tra salute e lavoro, il livello di mediazione tra i due diritti. Ammesso, e Costituzione alla mano non concesso, che ce ne sia uno.

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.  

 (Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)   

Lasciatemi votare 

con un salmone in mano 

vi salverò il paese 

io sono un norvegese…  

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”.  Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

Oliviero Toscani, intervenendo alla trasmissione radiofonica "La Zanzara" su Radio 24, ha definito i veneti «un popolo di ubriaconi e alcolizzati. Poveretti, non è colpa loro se nascono in Veneto». «I veneti sono un popolo di ubriaconi - ha proseguito Toscani - Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». «Poveretti i veneti - ha ribadito - non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino. Basta sentire l’accento veneto: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino».

Oliviero Toscani e le offese ai veneti. Un pasticcio geografico da risolvere con le scuse. A «La zanzara» su Radio24 ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». Il presidente del Veneto: «Chieda scusa», scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera”. Si chiama Toscani, è lombardo e ha fatto incavolare i veneti: bel pasticcio geografico. A «La zanzara» su Radio24 - il programma dovrebbe chiamarsi «Il ragno», visto quanti ne cattura nella sua rete - ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri (...) Poveretti i veneti, non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino (...) Basta sentire l’accento: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino». Perché lo ha fatto? Pensava di essere spiritoso. «Era una battuta divertente. Se gli unici a non divertirsi sono alcuni veneti, mi dispiace». Divertente? Mettiamola così: il fotografo Oliviero Toscani è più bravo con gli occhi che con la lingua. E l’umorismo sballato è un’aggravante, non un’attenuante. Infatti, in Veneto, sono partite proteste, querele, class action, dichiarazioni politiche (quelle non mancano mai). Significa che è vietato scherzare su nazioni, regioni, città? Certo che no. Vuol dire, come sostiene la correttezza politica, che «i caratteri dei popoli sono un’invenzione, ed esistono solo le persone»? Macché. Gli ambienti - la storia, la geografia, l’economia, la cultura - condizionano i comportamenti. Esiste un comun denominatore tedesco, come esiste un comun denominatore americano, russo, italiano. Chi lo nega è in malafede. E tra noi italiani esistono i lombardi, i toscani, i siciliani. I primi tendono all’entusiasmo, i secondi alla tattica, i terzi all’attesa. Come Berlusconi, Renzi, Mattarella. Come riassunto dell’elezione del presidente della Repubblica, vi piace? O è banale? Be’, comunque nessuno s’è offeso: non a Milano, non a Firenze, non a Palermo. Per un motivo semplice: lombardi, toscani e siciliani mi piacciono. Mi piace il fatto che esistano italiani diversi. E s’è capito anche in poche righe. Cosa sto cercando di dire? Una cosa semplice. Mai parlare, mai scrivere, mai giudicare pubblicamente un popolo, se non gli vuoi bene. Mai scegliere l’umorismo se non sei certo di saperlo maneggiare. L’ironia è la sorella laica della misericordia; il sarcasmo, il fratello odioso dell’intelligenza. Una sintesi affettuosa è consentita, gradita e utile. Una generalizzazione acida è inopportuna, sgradita e insidiosa. Oliviero Toscani, che non è né cattivo né sciocco, dovrebbe averlo capito. Chieda scusa e finiamola qui. Ostrega!

«Veneti ubriaconi», denunciato Toscani e sul web impazza la satira, scrive”Il Gazzettino”. Alcuni tribunali hanno ricevuto oggi esposti e ricorsi contro il fotografo Oliviero Toscani per le offese ai veneti definiti "Un popolo di ubriaconi, dei poveretti" , ma anche politici di vario colore si stanno attivando con iniziative: «Non può rimanere impunito, la giunta Zaia deve chiedere il rispetto della legge Mancino che punisce, anche col carcere, chi con azioni o dichiarazioni fa discriminazioni per motivi razziali, etnici o religiosi» attacca il consigliere regionale Giovanni Furlanetto del Gruppo Misto, che ha presentato un'interrogazione urgente «È necessario che la giunta difenda il proprio popolo, l'immagine che Toscani ha voluto dare è distorta e mirata a screditare un Popolo. Forse aveva bevuto prima di esternare tali pensieri verso una delle regioni più laboriose ed ingegnose d'Europa». Tornando agli aspetti legali a Padova mezza dozzina di cittadini si sono sentiti particolarmente offesi dalle dichiarazioni dell'ex pubblicitario del gruppo Benetton e ha chiesto un risarcimento danni. L'avvocato Giorgio Destro assiste Renza Pregnolato, interprete, una 59enne, nativa di Vescovana ma residente a Padova e spiega: «Abbiamo già presentato una citazione a giudizio per Toscani a comparire di fronte al Giudice di Pace, chiedendo 5 mila euro di risarcimento per danni morali per ingiuria e diffamazione - dice l'avvocato Destro - Se alla causa, che potrebbe essere discussa il 16 aprile prossimo, si aggiungeranno altre persone si può valutate una class action». Naturalmente ironie, satira e commenti stanno inondando il web.

Oliviero Toscani insiste: "Nessuna scusa ai veneti ''ubriaconi'', loro chiamano terroni i meridionali". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti..., scrive “Radio 24”. Toscani: "Non chiedo scusa ai Veneti, le ricerche mi danno ragione". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti: "Non devo chiedere scusa, non ho detto niente di male. Ci sono anche ricerche e statistiche. Il Veneto era una regione poverissima e l'unica ricchezza era la medicina, il vino e la grappa che si dava anche ai bambini per curarli. Un alcolismo atavico". "Chiedo scusa per loro dice Toscani ironicamente per quelli che non hanno capito la satira". Il governatore Zaia pretende le scuse, insistono i conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo: "Zaia non ha niente da fare (no ga gnente da far, benedetto, dice Toscani in dialetto, ndr) se si cura di una stupidata così. Ci rida sopra. E poi alzi la mano un veneto che non ha mai dato del terrone a un italiano del sud. Ditemi un veneto che non ha mai insultato un nero o un immigrato. Vi ricordate di Gentilini?". "Non penso di aver offeso nessuno spiega ancora il fotografo a Toscani: "Alzi la mano un veneto che non ha mai insultato il Sud o gli immigrati. Ho detto una cosa banale e scontata, un po' di senso di humor, dai. Una volta era un popolo che rideva, adesso hanno la coda di paglia. Forse si sono offesi perché quello che ho detto è un po' vero. Ho letto anche che dovrei sciacquarmi la bocca, sì ma col prosecco". Ma lei ha lavorato tanto tempo con aziende venete, sputa nel piatto dove ha mangiato?: "Che storia questa. Ho lavorato e se non fossi stato bravo non mi avrebbero pagato. Li ho fatto diventare famosi, anche per prodotti in cui i veneti non sono forti. Ho lavorato seriamente, cosa devo ringraziare?".

La mia amica terrona e la paura della Polentonia. Ho un’amica di origini terrone che vive a Milano, scrive “Marteago”. Per motivi di lavoro si dovrebbe spostare in Veneto. La sapete la sua preoccupazione? Ha paura del razzismo dei veneti nei confronti dei terroni. La cosa mi ha fatto pensare. Ma noi polentoni siamo davvero così cattivi? Peggio dei milanesi? La risposta é sì e anche no. Cioé dipende. C’é sicuramente del risentimento del veneto lavoratore che paga le tasse e se le vede sperperare da Roma che li passa a dei brutti soggetti al Sud. C’é anche una forte differenza culturale. Diciamoci la verità. Siamo popoli diversi. L’Italia é un’arlecchino messo assieme a forza. Un napoletano con un veneto centra tanto quanto un veneto con un austriaco. E’ ovvio: l’Austria é più vicina. Mi permetto di fare questa analisi in virtù della mia visione mondiale dei popoli. Cioé viaggio molto, vedo molti popoli, passo le frontiere e mi rendo conto di come spesso queste frontiere non corrispondano con le vere frontiere dei popoli. In Italia, se volessimo avere delle frontiere reali, ce ne sarebbe una dalle parti di Roma. Staremmo meglio noi, e starebbero meglio anche loro, che sono in gran parte vittime della Cassa del Mezzogiorno. Insomma, motivi per non amarci ce ne sono molti. Però…dobbiamo fare uno sforzo e capire un concetto fondamentale: il singolo non può essere ritenuto responsabile delle colpe collettive. Non possiamo incolpare il mio amico Jack di Shanghai del fatto che in Cina c’é la pena di morte. Non possiamo incolpare una ragazza rumena del fatto che ci sono i Rom che rubano. Non possiamo incolpare il Fullio del fatto che la gran parte dei politici sono dei brutti soggetti. Frasi inutili: é sempre più semplice generalizzare. Almeno all’inizio. Qui sta in effetti la soluzione. Ho detto alla mia amica che se viene in Veneto la gente che conoscerà  la tratterà  bene, perché é una brava ragazza. Ci saranno sicuramente delle situazioni poco simpatiche: la cassiera al supermercato che appena sente il suo accento scende di tre gradi centigradi e le crescono le unghie, il benzinaio ignorante e leghista che sfoga la sua frustrazione facendo cadere una goccia della benzina sulle sue scarpe da terrona pagate con le sue tasse e così via. Ma ci sarà  anche gente che le vorrà  bene, nuove amicizie e situazioni simpatiche. Non sarà  sempre facile. Mi sono permesso di usare il termine “terrona” proprio per svuotarlo dell’accezione negativa. Noi siamo polentoni e loro terroni. Domani vado a Riga con quattro catanesi, quindi non posso essere accusato di niente. Voi cosa ne pensate? Avete esperienze al riguardo? E se chi legge é del Sud..come siamo noi veneti? Che difficoltà  ci sono per chi viene da fuori? Perché siamo brava gente in fondo, o no?

Toscani, lettera di scuse a Zaia, «Ma dentro di me confermo tutto». Il fotografo risponde al governatore: sono lombardo e atavicamente leghista, come voi ho nell’anima il sentore di latte vaccino e quella voglia naturale di non pagare le tasse, scrive “Il Corriere del Veneto”.

«Caro Signor Presidente, Le scrivo con l’ansia e la fretta del Suo ultimatum di 48 ore che pende sulla mia testa. Deve riconoscere, Presidente, che persino le ingiunzioni dell’Isis lasciano 72 ore alla risposta. Premesso ciò, le dico che ho una cosa in comune con la lega: l’amore per le cose colorite. Sono leghista atavicamente, essendo lombardo. Ho anch’io, dentro di me, le due anime tipiche dei padani, che sotto l’illuminismo di Cesare Beccaria e Pietro Verri nascondono questo sentore del latte vaccino (che è l’alito della lega) e di quel localismo rurale che è fatto di terra, di cielo, di laghi, di nuvole, di paesaggio, di cibo, di vino; ma anche di naturale voglia di non pagare le tasse, di tenere tutto per sé, di non essere solidali, di essere intolleranti, di mettere i cani da guardia ai cancelli di ferro battuto della propria villetta a schiera, per azzannare chiunque sia diverso: “Va ben el mat in piaza, ma che non sia dea mia raza”. Purtroppo, da tanti anni, io non sono più completamente della Vostra “Razza”, deve capire che io ormai sono toscano di fatto, oltre che di nome, e sono sicuro che se avessi fatto questa battuta ai miei conterranei, saccenti e saputelli come siamo, mi avrebbero subito citato Baudelaire e il suo “Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi sempre!”. Perché proprio così, siamo noi Toscani, sempre ubriachi di virtù, di poesia, di bellezza. E di vino. Però, il Vostro linguaggio, mi piace ancora, perché è eccessivo, iperbolico, espressionista, colorato; un linguaggio che morde e non accarezza, in una parola sola: un linguaggio, secondo me, atavicamente ubriaco. Quindi chiedo ancora scusa a Lei, che è il Presidente di tutti i Veneti astemi, degli alcolisti sobri e dei bevitori moderati per il linguaggio un po’ leghista che ho usato per fotografare i miei simpatici amici del Veneto. Nella sostanza, però, dentro di me, confermo tutto. Perché c’è un rapporto forte tra territorio, aria, fuoco, odori, saperi e sapori, sapori veneti come la polenta, il fegato alla veneziana, il baccalà alla vicentina, risi e bisi, il risotto alla trevigiana, e le bolle acide del Prosecco, l’alcolicità dell’Amarone, la tossicità del Clinto, la bella inconsistenza del Valpolicella, il tannino del Recioto di Soave, l’amarezza del Bardolino, l’asciuttezza del Pinot, il verdognolo del Verduzzo. Caro Presidente, ogni volta che La vedo, scorgo nella Sua faccia la gentilezza sotto l’asprezza, e l’asprezza sotto la gentilezza. Quindi, mi scusi e scusatemi. Sono sicuro che, questa volta, la Sua gentilezza e quella di tutti i Veneti prevarrà, sicuramente mi perdonerete, invece di perdere tempo, denaro, energia e simpatia nelle infinite vie legali. La ringrazio e ringrazio tutti i Veneti, sperando di incontrarvi presto per una fantastica bevuta alla salute dell’Italia Unita.

"L’Unità d’Italia? Da 150 anni gronda sangue dei terroni". Da direttore di Gente a paladino del Mezzogiorno col libro sui misfatti dei Savoia, Pino Aprile racconta come i 150 anni dell’Unità d’Italia grondino sangue dei terroni. A lui Al Bano al Festival di Sanremo dedica un inno, ma c’è chi lo minaccia di morte, scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. La rappresentazione plastica di come sia impossibile mettere d’accordo polentoni e terroni l’ho avuta davanti alla vetrina di una libreria di Verona. Siccome per la copertina del suo Terroni, edito da Piemme, Pino Aprile ha scelto una silhouette capovolta dello Stivale, con la Sicilia a nord e la Campania a sud, una zelante commessa ha pensato bene di correggergliela esponendo il volume col titolo a rovescio. In un solo colpo la libraia ha così ristabilito il primato del planisfero, confermato il sottotitolo dell’opera ( Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali» ) e ribadito senza volerlo la battuta di Marco Paolini riportata nelle pagine interne: «Quando non si vuole capire la storia, la si trasforma in geografia». Uscito dalla tipografia Mondadori printing di Cles, Trento, Val di Non (a dimostrazione che l’Italia unita almeno per gli editori è cosa fatta), Terroni è diventato nel giro di dieci mesi bestseller, oggetto di scontro, manifesto dell’orgoglio sudista, testo sacro per i revisionisti del Mezzogiorno, strumento di lotta politica e ora persino brano del Festival di Sanremo: Al Bano, 67 anni, pugliese di Cellino San Marco, inserirà nel suo Cd l’inno Gloria, gloria scritto da Mimmo Cavallo e ispirato al saggio di Aprile, 60 anni, pugliese di Gioia del Colle. Non basta. Terroni è l’edizione multimediale per iPad, con foto, interviste e spezzoni dal film E li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri, in uscita a febbraio. Terroni è lo spettacolo teatrale che andrà in scena il 21 marzo al Quirino di Roma, «per rispondere a Umberto Bossi e alla sua arroganza, per dire basta a questo massacro che dura da 150 anni », proclama dalle pagine di Facebook l’attore-regista Roberto D’Alessandro, cresciuto alla scuola di Gigi Proietti. Terroni, insomma, è tifo da stadio: non a caso l’autore, pur avendo ormai perso il conto delle ristampe («almeno una ventina»), rivela d’averne venduto 150.000 copie, mentre su Wikipedia un biografo infervorato gliene attribuisce addirittura mezzo milione, il che, anche a voler considerare le brossure veicolate da Mondolibri e gli e­book scaricati da Internet, appare piuttosto esagerato. Pino Aprile è stato vicedirettore di Oggi e poi direttore di Gente. Prima d’avere come target fisso Carolina di Monaco («ho scoperto che era calva: scoop mondiale »), s’era sempre occupato di terrorismo e politica. Da pensionato pensava di dedicarsi alla passione della sua vita: il mare. Ha diretto il mensile Fare vela e ha scritto tre libri dai titoli sanamente monomaniacali: Il mare minore, A mari estremi e Mare, uomini, passioni. Poi gli è scappato Terroni ed è finito nell’oceano in tempesta: «Ho accettato finora quasi 200 presentazioni. Nel frattempo sono giunti all’editore altri 500 inviti. In teoria avrei l’agenda piena di appuntamenti sino alla primavera del 2012, se non ricevessi altre ri­chieste. Invece continuano ad arrivarne. Mi chiamano anche all’estero. La prima trasferta è stata in Svezia, quindi Londra, Zurigo, Manchester, New York... Sono distrutto».

Ma la invitano solo i circoli dei calabresi o anche quelli degli emigrati veneti?

«Università, centri di cultura, associazioni italiane, come la Dante Alighieri».

È il libro di saggistica che resiste da più mesi in classifica o sbaglio?

«Vero. Spero che mi venga perdonato».

Com’è nata l’idea di Terroni?

«Avevo delle domande, cercavo delle rispo­ste. Se davvero a fine Ottocento i meridiona­li erano poveri, arretrati e oppressi, perché mai reagirono contro i “liberatori” venuti dal Nord con una guerra civile durata a lungo e successivamente con la fuga, emigrando? Solo dopo molti anni ho pensato di farne un libro».

Ha ricevuto offese o minacce?

«Offese tante. Qualcuno mi chiede se non ho paura. E di che? Su Facebook un tale mi ha scritto: “Farai la fine di D’Antona”. Ho cercato di rintracciarlo, ma risultava inesistente. Del resto quella è una lavagna collettiva su cui compare di tutto: un estimatore mi ha dedicato lo slogan pubblicitario “Terroni, non ci sono paragoni”. È seccante la supponenza di chi crede di sapere già tutto e non è nemmeno sfiorato dal dubbio».

Alla presentazione di Torino s’è quasi sfiorata la rissa.

«Eravamo nella Sala dei Cinquecento, gli altri sono rimasti in piedi... Una persona ha inveito contro Roberto Calderoli, che non era presente, per gli insulti rivolti dal ministro leghista ai napoletani. Gli interventi di Marcello Sorgi, Massimo Nava e Pietrangelo Buttafuoco sono filati via lisci. Quando ha cominciato a parlare Giordano Bruno Guerri, che ha scritto un libro sul brigantaggio postunitario, la stessa persona lo ha offeso. Lo storico è sceso dal palco per regolare i conti e il contestatore s’è zittito. Meno male: Guerri discende dai pirati etruschi, ha profilo da pugile e mani da cavatore di ciocco».

Si può dire che Terroni abbia fatto venire al Sud la voglia di secessione che fino a ieri serpeggiava solo al Nord?

«No. È stato detto che Terroni incita i meridionali alla sollevazione. Figuriamoci! Il Mezzogiorno non ha voce: tutti i giornali nazionali, eccetto La Repubblica, si pubblicano al Nord e le tre reti televisive private sono di un editore lombardo che, da capo del governo, ha voce in capitolo pure in quelle pubbliche. Per la legge di prossimità, la stampa trova più interessante il miagolio del gatto di casa rispetto al ruggito del leone nella savana. Il Nord scopre che cosa sta accadendo dalle mie parti solo quando s’interroga sul successo di Terroni o del film Benvenuti al Sud . Ma Terroni è il dito che indica la luna, non la luna. Ci sono libri che cambiano il cuore degli uomini. Mi spiace, il mio non è fra questi: sono nato di febbraio e non ho avuto per padre putativo un mite falegname. La voglia di secessione del Sud germoglia come reazione agli insulti dei ministri del Nord. È meno forte e diffusa che in Lombardia o nel Veneto, ma cresce».

Quali sentimenti suscitano in lei i 150 anni dell’Unità d’Italia?

«Di delusione, talvolta di disgusto. In quale Paese può restare in carica un ministro che ha trattato la bandiera nazionale come carta igienica? O un sindaco che ha marchiato con simboli di partito la scuola dei bambini? L’Italia unita era da fare, perché ogni volta che cade una frontiera gli uomini diventano più liberi, più ricchi, più sicuri, più felici. Ma non era da fare con una parte del Paese schierata contro l’altra. La ricorrenza dei 150 anni poteva diventare l’occasione per fare onestamente una volta per tutte i conti con la storia. Così non è».

Che cosa pensa dei Savoia?

«Si sono trovati al posto giusto nel momento giusto. Mentre un’esigua minoranza, non più dell’1-2 per cento della popolazione, era animata dal pio desiderio di unificare l’Italia, loro ne avevano l’impellente necessità: strozzati dai debiti, potevano salvarsi solo con l’invasione e il saccheggio del Sud. Lo scrisse nel 1859 il deputato Pier Carlo Boggio, braccio destro di Cavour: “O la guerra o la bancarotta”. Fino al 1860, per ben 126 anni, i Borbone mai aumentarono le tasse. Nel Regno di Napoli erano le più basse di tutti gli Stati preunitari».

Bruno Vespa mi ha confessato la sua sorpresa nello scoprire solo di recente che nel regno borbonico le imposte erano soltanto cinque, contro le 22 introdotte dai Savoia.

«I soldi del Sud ripianarono il buco del Nord. Al tesoro circolante dell’Italia unita, il Regno delle Due Sicilie contribuì per il 60 per cento, la Lombardia per l’1 virgola qualcosa, il Piemonte per il 4. Negli Stati via via annessi all’Italia nascente, appena arrivavano i piemontesi spariva la cassa».

E di Giuseppe Garibaldi che cosa pensa?

«Romantico avventuriero, di idee forti, semplici, a volte confuse, ma più onesto di altri nel denunciare, solo a cose fatte però, le stragi e le rapine compiute nel Mezzogiorno. Qualche problema di salute, per l’artrosi che gli rendeva doloroso cavalcare: a Napoli arrivò in treno. Qualche disavventura familiare: la giovane sposa incinta di un altro. Qualche pagina oscura nel suo pas­sato sudamericano: la tratta degli schiavi dalla Cina al Perù. Ne hanno fatto un santino. Ma va bene così, ogni nazione ha bisogno dei suoi miti fondanti. Basta sapere chi erano veramente».

E di Camillo Benso conte di Cavour che cosa pensa?

«Grande giocatore, specie nell’imprevisto. Non voleva la conquista del Regno delle Due Sicilie: gli bastavano il Lombardo- Veneto e i Ducati. Già la Toscana gli pareva in più. Ma quando l’avventura meridionale ebbe inizio, in breve la fece propria, persuase il re, neutralizzò Garibaldi, ammansì chi si opponeva. Qualche suo vizietto sarebbe stato da galera. Come molti padri del Risorgimento, non mise mai piede al Sud: lo conosceva per sentito dire».

La peggiore figura del Risorgimento?

«Il generale Enrico Cialdini, poi deputato e senatore del Regno. Un macellaio che menava vanto del numero di meridionali fucilati, delle centinaia di case incendiate, dei paesi rasi al suolo. Prima di diventare eroe pluridecorato del Risorgimento, fu mercenario nella Legione straniera in Portogallo e Spagna. Uccideva i suoi simili a pagamento».

Quali sono gli episodi risorgimentali più rivoltanti, che l’hanno fatta ricredere sulla sua italianità?

«Non si può smettere di essere italiani. Però mi sono dovuto ricredere circa il racconto bello e glorioso sulla nascita del mio Paese che avevo imparato a scuola. Da adolescente fremi d’indignazione per gli indiani sterminati sul Sand Creek e da grande scopri che i fratelli d’Italia nel Meridione fecero di peggio. La mitologia risorgimentale cominciò a vacillare quando lessi La conquista del Sud di Carlo Alianello. Vi si narrava la storia di una donna violentata e lasciata morire da 18 bersaglieri, che già le avevano ammazzato il marito. Il figlioletto che assistette alla scena, divenuto adolescente, si vantava d’aver ucciso per vendetta 18 soldati di re Vittorio Emanuele a Custoza. Poi il massacro di Pontelandolfo e Casalduni, 5.000 abitanti il primo, 3.000 il secondo, due delle decine di paesi distrutti, con libertà di stupro e di saccheggio lasciata dal Cialdini ai suoi soldati, fucilazioni di massa, torture, le abitazioni date alle fiamme con la gente all’interno. E le migliaia di meridionali squagliati nella calce viva a Fenestrelle, una fortezza-lager a una settantina di chilometri da Torino, a 1.200 metri di quota, battuta da venti gelidi, dove la vita media degli internati non superava i tre mesi. Per garantire ulteriore tormento ai prigionieri, erano state divelte le finestre dei dormitori. Viva l’Italia!».

Gianfranco Miglio, ideologo della Lega, mi confidò che era ancora terrorizzato da certe storie atroci udite da bambino, quando il nonno gli raccontava che, giovane bersagliere in Calabria, aveva trovato un suo commilitone crocifisso su un termitaio dai briganti.

«Le ha anche raccontato che cos’aveva fatto quel bersagliere? Era in un Paese invaso senza manco la dichiarazione di guerra. Maria Izzo, la più bella di Pontelandolfo, fu legata nuda a un albero, con le gambe divaricate, stuprata a turno dai bersaglieri e poi finita con una baionettata nella pancia. A Palermo uccisero sotto tortura un muto dalla nascita perché si rifiutava di parlare. Riferirono in Parlamento d’aver fucilato, in un anno, 15.600 meridionali: uno ogni 14 minuti, per dieci ore al giorno, 365 giorni su 365. Ma il conto delle vittime viene prudentemente stimato in almeno 100.000 da Giordano Bruno Guerri. Altri calcoli arrivano a diverse centinaia di migliaia. La Civiltà Cattolica, rivista dei gesuiti, nel 1861 scrisse che furono oltre un milione. La cifra vera non si saprà mai».

Da Terroni :«“Ottentotti”, “irochesi”, “beduini”, “peggio che Affrica”, “degenerati”, “ritardati”, “selvaggi”, “degradati”: così i meridionali vennero definiti, e descritti con tratti animaleschi, dai fratelli del Nord scesi a liberarli». Io sono veneto. Ha idea di quante ce ne hanno dette e ce ne dicono? Razzisti, analfabeti, beoti, ubriaconi, bestemmiatori, evasori fiscali, sfruttatori di clandestini. Non crede che se cominciamo a tenere questo genere di contabilità, non la finiamo più?

«Devono finirla i Bossi, i Calderoli, i Borghezio, i Salvini, i Brunetta. Quella degradazione dei meridionali ad animali preparò e giustificò il genocidio. Ricordo le parole di un intellettuale di Sarajevo: “Non è stato il fracasso dei cannoni a uccidere la Jugoslavia. È stato il silenzio. Il silenzio sul linguaggio della violenza, prima che sulla violenza”. Un ministro della Repubblica ha minacciato il ricorso ai fucili. In Italia, adesso. Non a Sarajevo, allora».

Lei scrive che Luigi Federico Menabrea, presidente del Consiglio dei ministri del Regno, nel 1868 voleva deportare in Patagonia i meridionali sospettati di brigantaggio. Che cosa dovrebbero dire i veneti deportati per davvero da Benito Mussolini nelle malariche paludi pontine per bonificarle?

«Menabrea voleva deportare i meridionali per sterminarli. I veneti nelle paludi pontine non furono deportati: ebbero lavoro, casa, terra risanata con i soldi di tutti e a danno di quelli che vi morivano di malaria da secoli per trarne pane. Ma vediamo il lato positivo: fra poveri s’incontrarono. E dove il sangue si mischia, nasce la bellezza. La provincia oggi chiamata Latina ha dato all’Italia la più alta concentrazione di miss da calendario per chilometro quadrato. E pure Santa Maria Goretti, che si fece uccidere per difendere la propria femminilità».

Scrive anche: «La Calabria non appartiene, geologicamente, al Mezzogiorno, ma al sistema alpino: si staccò con la Corsica dalla regione ligure-provenzale e migrò, sino a incastrarsi fra Sicilia e Pollino». Recrimina persino sull’orografia?

«O è un modo per dire che a Sud vogliono venirci tutti?».

Si dilunga sul caso di Mongiana, che in effetti è impressionante. Però che cosa dimostra? Da Nord a Sud, ogni distretto industriale piange i suoi dinosauri.

«Mongiana, in Calabria, era la capitale siderurgica d’Italia e oggi contende alla confinante Nardodipace lo scomodo primato di Comune più povero d’Italia. I mongianesi, sradicati dal loro paese, si sono trovati a lavorare nelle fonderie del Bresciano: 150 famiglie, circa 500 persone, solo a Lumezzane, che è ormai la vera Mongiana. Dove prima 1.500 operai e tecnici siderurgici specializzati rendevano autosufficiente l’industria pesante del Regno delle Due Sicilie, adesso non è rimasto neppure un fabbro. Il più ricco distretto minerario della penisola fu soppresso dal governo unitario per un grave difetto strutturale: si trovava nel posto sbagliato, nel Meridione. Il Sud non doveva far concorrenza al Nord nella produzione di merci. E questo fu imposto con le armi e una legislazione squilibrata a danno del Mezzogiorno. La vicenda di Mongiana è esemplare, nell’impossibilità di raccontare tutto. Ma accadde la stessa cosa con la cantieristica navale, l’industria ferroviaria, l’agricoltura».

In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, la città di Gaeta vuol chiedere un risarcimento per l’assedio savoiardo del 1861: 500 milioni di euro. Mi ricorda il Veneto, che pretende i danni di guerra dalla Francia per il saccheggio napoleonico del 1797: 1.033 miliardi di euro.

«C’è una differenza: al risarcimento di Gaeta s’impegnò il luogotenente, principe di Ca­rignano, in nome del quale il generale Cialdini, responsabile di quelle macerie, garantì per iscritto: “Il Governo di Sua Maestà provvederà all’equo e maggiore possibile risarcimento”. Quando gli amministratori comunali andarono per riscuotere, il nuovo luogotenente, Luigi Farini, già distintosi con moglie e figlia nel patriottico furto dell’argenteria dei duchi di Parma, consigliò loro di rivolgersi “alla carità nazionale”».

Lei è arrivato al punto da dichiarare che Giulio Tremonti ruba al Sud per dare al Nord. Forse dimentica che il Veneto ha solo 225 dirigenti regionali mentre la Sicilia ne ha 2.150. L’855 per cento in più. Che si aggiungono ai 100.000 dipendenti ordinari. Allora le chiedo: chi ruba a chi, se non altro lo stipendio?

«I fondi per le aree sottoutilizzate sono, per legge, all’85 per cento del Sud, e invece sono stati abbondantemente spesi al Nord. I 3,5 miliardi di euro con cui è stata abbuonata l’Ici a tutt’Italia erano quelli destinati alle strade dissestate di Calabria e Sicilia. I cittadini della Val d’Aosta spendono il 10.195 per cento in più della Lombardia, pro capite, per i dipendenti regionali. Ma è una ragione a statuto speciale, si obietta. Giusto. Pure la Sicilia lo è. Il che non assolve né l’una né l’altra. Ma il paragone si fa sempre con l’altra».

Il sociologo Luca Ricolfi in "Il sacco del Nord" documenta che ogni anno 50 miliardi di euro lasciano le regioni settentrionali diretti al Sud. E lei me lo chiama furto?

«Intanto i conti andrebbero fatti sui 150 anni. E poi lo stesso Ricolfi spiega che quei dati, valutati diversamente, portano a conclusioni diametralmente opposte. Non tutti sono d’accordo sul metodo scelto da Ricolfi. Vada a farsi due chiacchiere col professor Gianfranco Viesti, bocconiano che insegna politica economica all’Università di Bari».

S’ode a destra uno squillo di tromba: Terroni. A sinistra risponde uno squillo: Viva l’Italia! di Aldo Cazzullo. Che l’ha accusata d’aver paragonato i piemontesi ai nazisti solo per vendere più copie.

«Incapace di tanta eleganza, a Cazzullo confesso che scrivo nella speranza di essere letto. E non capisco perché il suo editore spenda tanti soldi per pubblicizzare Viva l’Italia! se lo scopo è quello di non vendere copie. Il mio libro s’è imposto col passaparola».

Non nominare il nome di Marzabotto invano, le ha ricordato Cazzullo.

«Che differenza c’è fra Pontelandolfo e Marzabotto? Mettiamola così: il mio editore ha nascosto l’esistenza di Terroni, l’editore di Cazzullo ha fatto il contrario. Nessuno dei due ha ottenuto il risultato sperato».

Anche Ernesto Galli della Loggia e Francesco Merlo hanno maltrattato il suo pamphlet.

«Libera critica in libero Stato: non si può piacere a tutti. A me piace non piacere a Galli della Loggia, per esempio. Prima ha parlato di “fantasiose ricostruzioni”. Poi, al pari di Merlo e di qualche altro, ha obiettato che le stragi risorgimentali nel Sud erano note e da considerarsi “normali” in tempo di guerra. A parte che a scuola tuttora non vengono studiate, allora scusiamoci con i criminali nazisti Herbert Kappler e Walter Reder per l’in­giusta detenzione; critichiamo gli Stati Uniti che hanno inflitto l’ergastolo all’ufficiale americano responsabile dell’eccidio di My Lai in Vietnam; chiediamoci perché si condanni il massacro dei curdi a opera di Saddam Hussein. Insomma, solo l’uccisione in massa dei meridionali è “normale”?».

Sergio Romano sul Corriere della Sera s’è dichiarato infastidito dai «lettori meri­dionali che deplorano i soprusi dei piemontesi, l’arroganza del Nord, il sacco del Sud, e rimpiangono una specie di età dell’oro durante la quale i Borbone di Napoli avrebbero fatto del loro regno un modello di equità sociale e sviluppo economico». E vi ha ricordato che, per unanime consenso dell’Europa d’allora, «il Regno delle Due Sicilie era uno degli Stati peggio governati da una aristocrazia retriva, paternalista e bigotta».

«Senta, foss’anche tutto vero, e non lo è, questo giustifica invasione, saccheggio e strage?Mi pare la tipica autoassoluzione del colonizzatore: ti distruggo e ti derubo, però lo faccio per il tuo bene, neh? Infatti, l’Italia riconoscente depone ogni anno una corona d’alloro dinanzi alla lapide che ricorda il colonnello vicentino Pier Eleonoro Negri, il carnefice di Pontelandolfo e Casalduni, e nega ai paesi ridotti in cenere rimasero in piedi solo tre case persino il rispetto per la memoria».

Lei ha fatto il servizio militare?

«Arruolato, C4 rosso, se non ricordo male: mi dissero che, se fosse scoppiata la guerra, sarei finito in ufficio. I miei polmoni non davano affidamento: postumi di Tbc e quattro pacchetti di Gauloises al giorno».

Se scoppiasse una guerra, difenderebbe l’Italia o no?

«Oh, ma che domande sono? Lo chieda a Bossi e a Calderoli! Io sono un italiano che pretende la verità critica su com’è nato il suo Paese e la fine della sperequazione e degli insulti a danno del Sud. La questione meridionale non esisteva 150 anni fa, il Consiglio nazionale delle ricerche ha dimostrato che prodotto lordo e pro capite erano uguali al Nord e al Sud. I meridionali, con un terzo della popolazione, diedero circa la metà dei caduti nelle trincee della prima guerra mondiale».

Silvius Magnago, lo storico leader della Svp, mi disse: «La patria è quella cui si sente di appartenere con il cuore. La mia Heimat è il Tirolo. Heimat, terra natia. Voi italiani non possedete questo concetto. Non potete capire». Che cosa significa patria per lei? E qual è la sua Heimat?

«Lo dico nell’esergo del mio libro, con parole rubate allo scrittore francese Emmanuel Roblès: patria è “là dove vuoi vivere senza subire né infliggere umiliazione” ».

Sarebbe favorevole a un’Italia divisa in cantoni, come la Svizzera?

«No. Una frontiera non migliora gli uomini. Al più, può peggiorarli. Ma se la Lega, dopo vent’anni di strappi, recidesse l’ultimo filo che tiene ancora unito il Paese, un attimo prima il Sud dovrebbe andarsene, contrattando l’uscita, per evitare di essere derubato di nuovo».

Su quali basi andrebberifatta l’Unità d’Italia?

«Eque. La forma garantisce poco la sostanza: vada a spiegare ai giovani che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro. O che la legge è uguale per tutti. O che le Ferrovie dello Stato assicurano il servizio in tutto il Paese: Matera, amena località europea, è ignota alle Fs, lì il treno non è mai arrivato».

Fosse lei il presidente del Consiglio, che farebbe per ripulire Napoli dai rifiuti?

«Nominerei commissario Vincenzo Cenname, il sindaco che ha fatto di Camigliano, provincia di Caserta, un esempio virtuoso nello smaltimento, grazie alla raccolta differenziata che copre il 65 per cento del totale. Cenname s’è rifiutato di affidarne la gestione a un ente provinciale, la cui inefficienza è testimoniata dalle immondizie che vengono lasciate nelle strade per scoraggiare la raccolta differenziata a favore degli inceneritori. Per questo Cenname è stato rimosso dal prefetto, quasi fosse a capo d’una Giunta camorrista».

Siamo alla domanda delle cento pistole: i terroni hanno voglia di lavorare sì o no?

«Capisco che la domanda lei deve porla e immagino che le costi dar voce agli imbecilli. Se fossi maleducato, risponderei: ma mi faccia il piacere! Non lo sono e quindi rispondo: quei 5 milioni di meridionali che stanno nelle fabbriche del Nord, dall’abruzzese Sergio Marchionne in giù, come li vede? Sfaticati? Quei 20 milioni di emigrati nel mondo, che per la prima volta nella loro storia millenaria presero la via dell’esilio volontario dopo i disastri dell’Unità d’Italia, sono andati altrove a far nulla? La mia regione fu l’unica in cui per l’aridità della terra fallì il sistema di produzione dell’impero romano, imperniato sulla villa. Ebbene di quei deserta Apuliae, deserti di Puglia, la mia gente nel corso dei secoli, col sudore della fronte, ha fatto un giardino, rubando l’umidità alla notte con i muretti di pietra e piantando 60 milioni di ulivi. Mica come Bossi, che non ha lavorato un giorno in vita sua. Anzi, sa che le dico, senza offesa, eh? Ma mi faccia il piacere!».

Il 52 per cento della popolazione di Terzigno, provincia di Napoli, campa a carico dell’Inps. Sarà mica colpa dell’Inps?

«Se mi togli tutto, mi attacco a quello che c’è. Assistenza? Assistenza! Non mi piace, ma non ho altra scelta. A Parma, 170.000 abitanti, il ministero ha deciso di erogare lo stesso i soldi per la metropolitana progettata per 24 milioni di utenti, poi ridotti a 8, infine abbandonata, per vergogna, spero, nonostante lo studio costato 30 milioni di euro. È la città della Parmalat, la peggior truffa di tutti i tempi. Però la truffa del falso invalido scandalizza maggiormente. Be’, a me le truffe danno fastidio tutte. Quella del povero la capisco di più».

La metà delle cause contro l’Inps si concentra in sei città del Sud: Foggia, Napoli, Bari, Roma, Lecce e Taranto. A Foggia è pendente circa il 15 per cento dell’intero contenzioso nazionale dell’istituto. Tutti i 46.000 braccianti iscritti alle liste di Foggia hanno fatto causa all’Inps. Dipenderà mica dai Savoia.

«Per quanto possa sborsare l’Inps da Terzigno a Lecce, non si arriverà mai ai miliardi di euro che ci costano le multe pagate per colpa degli allevatori padani disonesti, grandi elettori della Lega. O assolviamo tutti, ed è sbagliato, o condanniamo quelli che lo meritano. Con una differenza: la truffa delle quote latte è già accertata. Aspettiamo di vedere come finiscono i procedimenti contro l’Inps».

C’è poco da aspettare: a Foggia, su 122.000 cause presentate, 25.000 sono state spontaneamente ritirate dagli avvocati. Erano state avviate per lo più a nome di persone morte o inesistenti.

«Ma non è detto che tutte le altre siano immotivate. Ripeto: aspettiamo».

Non sarà che lei mi diventa il Bossi del Sud?

«Già l’accostamento è offensivo. Io non giudico il mio prossimo dalla latitudine e ho sempre lavorato; né ho festeggiato tre volte la laurea, senza mai prenderla. Mi hanno offerto candidature, ma ho ringraziato e rifiutato, perché inadatto: sono incensurato, ho pagato la casa con i miei soldi e voglio morire giornalista».

Eppure Giordano Bruno Guerri ha scritto che Terroni è sostenuto da piccoli ma combattivi gruppi neoborbonici e dal Partito del Sud di Antonio Ciano, assessore a Gaeta, e potrebbe diventare il testo sacro di una futura Lega meridionale, contrapposta a quella di Bossi.

«Il libro, una volta uscito, va per la sua strada, come i figli. Non puoi dirgli tu dove andare. Terroni non è sostenuto: è letto. E chi lo legge ne fa l’uso che vuole, a patto di non attribuirlo a me. Stimo Ciano e seguo con attenzione il Partito del Sud, i Neoborbonici, l’Mpa del governatore siciliano Raffaele Lombardo, l’associazione Io resto in Calabria di Pippo Callipo, il movimento Io Sud di Adriana Poli Bortone. Ma resto un osservatore interessato ed esterno. Ero anche amico di Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso dalla camorra con nove colpi di pistola. Ricordo i suoi funerali, con quei fogli tutti uguali attaccati alle saracinesche dei negozi chiusi e ai portoni delle case: “Angelo, il paese muore con te”. Oggi per fortuna Pollica va avanti nel suo nome. In una ventina d’anni da sindaco, Angelo aveva arricchito tutti, senza distruggere niente del territorio, vero capitale del paese. Ammiravo il suo coraggio, la sua fantasia, la sua capacità di trasformare le idee in fatti. Ho pianto accompagnandolo al cimitero. Se avesse potuto vedermi, si sarebbe messo a ridere».

Per chi vota?

«La prima volta votai Dc per ingenuità, su consiglio d’un amico. Delusione feroce. Poi a sinistra, senza mai avere un partito, cosa che ritengo incompatibile col giornalismo. Infine quasi stabilmente per i repubblicani di La Malfa, padre, ovviamente. Alle prossime elezioni forse non voterò, anche se so di fare un regalo ai peggiori».

Non mi pare che la sinistra, con l’unico presidente del Consiglio originario di Gallipoli, abbia migliorato la condizione del Sud.

«Massimo D’Alema ha il collegio elettorale a Gallipoli e la moglie pugliese. Ma è romano. E poi, ripeto, l’essere di qui o di là non significa nulla. Il meridionalismo è una dottrina solo italiana, nel mondo. È stata praticata da uomini eccelsi per cultura e moralità,ma è un’invenzione di italiani del Nord, specie lombardi. Solo dopo una generazione sono sorti i meridionalisti meridionali. Che mi frega di dove sei? Fammi vedere cosa fai!».

Lei lamenta l’invasione burocratica piemontese del Meridione, però Mario Cervi le ha ricordato che oggi il Sud amministra col proprio personale la macchina burocratica e giudiziaria dello Stato nell’Italia intera. E i risultati non sono brillanti.

«Tutti, ma proprio tutti gli enti, le banche, le aziende pubbliche o parapubbliche d’Italia sono in mano a settentrionali, in particolare lombardi, a parte un napoletano e tre romani. Vuol dire che se cotanti capi non riescono a raggiungere buoni risultati la colpa è dei sottoposti? Se si vince è bravo il generale e se si perde sono cattivi i soldati? Quando dirigevo un giornale, la mia regola era: chiunque abbia sbagliato, la colpa è mia».

Vuoi fare successo? Inventati una Gomorra! Uno scrittore fallito inventa un reportage su Scampia. E, sparando "ca...te senza pietà" arriverà alla gloria. La geniale parodia di Roberto Saviano fatta da Francesco Mari, scrive Nicola Mirenzi su “Il Giornale”. Francesco Mari, La ragazza di Scampia, Fazi, 2014. Altro che il vero. È lo spruzzo di realtà, specie se criminale, che scala le classifiche, diventa bestseller e assalto ai botteghini. Ecco la messinscena che Francesco Mari fa a pezzettini con il suo romanzo d’esordio, La ragazza di Scampia (Fazi Editore, 256 pp, 16 euro), prendendosi gioco dei prodigi dello storytelling camorristico nazionale, dove la scena di Napoli è sempre acchitata per compiacere l’occhio di chi guarda, desideroso di confermarsi nell’idea che “i napoletani abitano dentro un noir a cielo aperto”. Il protagonista, Franco, tardo trentenne funzionario del comune, ha una vita noiosa. Il momento di più alta eccitazione della giornata lo raggiunge quando si ficca le cuffie dell’iPod nelle orecchie andando in ufficio. “Niente Radiohead e niente Anthony and the Johnsons da queste parti. Niente nomi giusti e gusti ricercati, di chi di musica ne capisce. Qui si attinge l’illuminazione a botte di Madonna, Jennifer Lopez e Céline Dion”. Poi c’è la depressione del lavoro: “Otto ore quotidiane di ufficio in cui faccio questo: niente”. Per arrivare alla ciliegina sulla torta delle le donne: ““È quasi un anno che non scopo, Vale!”, Chi cazzo se ne frega della crisi economica, la disoccupazione, i problemi preadolescenziali di tuo figlio”. Un monologo interiore che si conclude sempre con la stessa resa: un bacio sulle guance. Franco però scrive. Rimugina la rivincita. Il piano è convincere un editore cool di Milano, uno di quelli che ti fanno svoltare da un giorno all’altro, di pubblicare un libro. S’inventa così di sana pianta un Reportage dall’inferno di Scampia (e dove, senno?). “Come Michael Douglas in Un giorno di ordinaria follia, ho imbracciato la mia arma e ho cominciato a sparare cazzate senza pietà”. Un cantante neo-melodico che svela i segreti dei clan. Il gruppo rap impegnato nel sociale. Una donna-coraggio che perde il fratello e decide di parlare senza paura di morire ammazzata: “I killer che mi verranno a fare fuori li aspetterò qua, a casa mia”. È una storia afrodisiaca. Combacia alla perfezione con l’ideologia del romanzo criminale. Il mafia-reality-show. L’editore si convince d’aver scovato il nuovo Saviano. Firma il contratto. Pianifica di far uscire il libro insieme a un film. “Faranno il botto”, presagisce. Sale su su sino al settimo cielo. Da dove non scenderà neanche quando scopre che è tutta una sceneggiata. Era la Napoli che voleva farsi raccontare. La racconterà. “Vera, falsa, che importanza ha?”.  A sfottere godiamo: siam settentrionali.

Ecco perché abbiamo assolto Calderoli anche se disse “orango” alla Kyenge». Alcuni Pd, con alfaniani e Forza Italia, hanno difeso Calderoli dall’accusa di aver offeso l’ex ministro: «è insindacabile esercizio del mandato». Dalla satira ai leghisti di colore: ecco come il Senato ha perdonato Calderoli, scrive Luca Sappino su “L’Espresso”. L’ex ministro per l’Integrazione del governo di Enrico Letta, Cecile Kyenge, non è certo contenta. La giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato ha assolto il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli dall’accusa di istigazione al razzismo, per aver detto, durante un comizio, «quando vedo la Kyenge non posso non pensare a un orango». Per la giunta del Senato, il leghista scherzava, e soprattutto il suo pensiero è «insidacabile». Vale dunque l’articolo 68 della Costituzione, primo comma, sulle opinioni espresse da un parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni, che il senatore 5 stelle Vito Crimi aveva invece chiesto di non far valere. La decisione della giunta sarà sottoposta alla conferma dell’aula. Spiazzata si è però mostrata Cecile Kyenge, per questo primo voto: «Non stiamo valutando Calderoli come persona» ha detto a Repubblica , «Io lui l'ho perdonato. Quello che bisogna capire è se queste parole possano essere usate in un dibattito politico normale o se siano semplicemente espressioni razziste. Non è compito del Senato assolvere Calderoli. È come se quell'insulto fosse stato fatto a un paese intero per la seconda volta». La delusione di Kyenge viene dal fatto che anche alcuni suoi colleghi del Pd hanno preso le parti di Calderoli: «Evidentemente quest'argomento è mal conosciuto da parte di tanti» dice Kyenge. Non sembrerebbe però, stando a quanto i membri Pd della giunta del Senato hanno spiegato all’Espresso, e a quanto è scritto nei verbali della seduta. La difesa di Calderoli è stata sostenuta con diverse argomentazioni. Il senatore Pd Claudio Moscardelli ha ad esempio difeso Calderoli sostenendo che «le accuse relative alle incitazioni all'odio razziale risultano infondate, atteso il contesto politico nel quale le frasi in questione sono state pronunciate e attesa anche la configurazione del movimento della Lega, nel cui ambito operano anche diverse persone di colore». La Lega dunque non è razzista perché ha alcuni militanti e un paio di amministratori locali di colore, e quella di Calderoli era una normale obiezione politica. Sempre di normale contesa tra protagonisti della scena pubblica parla un altro senatore democratico, Giuseppe Cucca. Cucca aggiunge però un riferimento alla satira. Secondo il senatore - si legge nel resoconto sintetico della seduta - «le parole pronunciate dal senatore Calderoli vanno valutate nell'ambito di un particolare contesto di critica politica, evidenziando altresì che spesso nella satira si paragonano persone ad animali, senza che tali circostanze diano luogo a fattispecie criminose». La difesa, si può notare, è la stessa del senatore berlusconiano Lucio Malan secondo cui «il senatore Calderoli, nell'ambito di un comizio politico, ha svolto delle critiche rispetto agli indirizzi politici per le immigrazioni seguiti dal ministro Kyenge, effettuando altresì talune battute a scopo satirico». Al senatore 5 stelle Vito Crimi, dunque, il caso avrebbe dovuto ricordare molti passaggi dei comizi di Beppe Grillo. A difendere Calderoli, con il Pd, c’era anche l’alfaniano Carlo Giovanardi secondo cui «le opinioni espresse dal senatore Calderoli vanno inquadrate in un contesto meramente politico, avulso da qualsivoglia profilo di tipo giudiziario». Anche Giovanardi, come molti dem, è partito dalla constatazione che sempre più spesso in politica si parla così, per battute e sfottò: «Nella storia politica italiana sono ravvisabili numerosi casi nei quali sono state espresse critiche, anche attraverso locuzioni aspre, rispetto ad avversari politici e ciò non ha mai determinato alcun risvolto sul piano processuale penale». Diversamente dai suoi colleghi la pensa invece la senatrice, sempre Pd, Doris Lo Moro che all’Espresso spiega di aver votato a favore della proposta di Vito Crimi: «Ho ritenuto» dice «che tutte le valutazioni offerte dai colleghi dovessero esser valutate da un giudice, che potrebbe anche decidere che è vero che la satira usa spesso espressioni colorite ma che, come a me sembra, in questo caso la satira c’entri assai poco». Lo Moro critica anche un altro punto della difesa di Calderoli: il fatto che Kyenge non abbia presentato querela. «Mi pare che Cecile abbia invece spiegato quanto si sia sentita offesa, e comunque io penso che da donna, e da donna di colore, io mi sarei offesa, e avrei chiesto, come ho fatto, di valutare il fatto specifico, senza soffermarmi sulla simpatia che si può avere per Roberto Calderoli». Perché questo è l’altro punto. Al Senato Calderoli è quasi un mito. Vi potrà sembrare strano ma quasi tutti, ad esempio, gli riconoscono di esser l più bravo a guidare l’aula durante le sedute.

Le scuse del razzista ridicolo. A tre giorni dagli insulti al ministro Kyenge, paragonato a un orango, Roberto Calderoli si scusa ma non si dimette. 'Ho commesso un errore grave, ho fatto una sciocchezza' ha detto a Palazzo Madama. Dopo aver cercato in tutti i modi di giustificare le sue parole buttandola sulla simpatia, scrive Wil Nonleggerlo su “L’Espresso”. "Il mio errore è grave ma non è razzismo, il ministro Kyenge ha accettato le mie scuse e le manderò un mazzo di rose, non attaccherò mai più un avversario politico con parole così offensive. Ma non farò mai sconti a un governo che consente e quasi incoraggia l'ingresso illegale di stranieri nel nostro Paese, come sta avvenendo, e che ha consentito che una bambina e sua mamma fossero deportate consegnandole proprio nelle mani del tiranno da cui sono perseguitate". Così si è scusato Roberto Calderoli per le parole pronunciate il 13 luglio 2013 a Treviglio, dal palco della festa della Lega Nord con cui aveva paragonato il ministro Kyenge ad un "orango". Con "disagio e imbarazzo" oggi "mi scuso con il Senato" e "con il presidente Napolitano" ha detto. "Ho commesso un errore gravissimo, ho fatto una sciocchezza ma il giudizio sul mio ruolo di vicepresidente deve essere dato su quello che faccio in questa Aula". Il giorno dopo, a scandalo esploso, era cominciata la girandola di "giustificazioni" di Calderoli. Della serie, suvvia, eravamo nei "termini della simpatia". "Io mi consolo quando navigo in Internet e vedo le fotografie del governo. Amo gli animali, orsi e lupi com’è noto, ma quando vedo le immagini della Kyenge penso subito alle sembianze di un orango".

A Radio Capital dichiara (14 luglio):

"Ma dai, è stata una battuta, una battuta nei termini della simpatia. Niente di particolarmente contro, solo mie impressioni: non l'ho paragonata ad un orango, ma ne ha i lineamenti. Ho anche detto che sarebbe un ottimo ministro, ma in Congo. Guardi, avrei rivolto le stesse critiche alla canoista".

Ok, e le dimissioni?

"Dimettermi? Ma da cosa? Ma stiamo scherzando?! Non ci penso proprio". "Io sono stato eletto dal popolo e nominato vicepresidente dal Senato. Forse chi parla delle mie dimissioni vuole aggirare un altro argomento, quello kazako".

All'Ansa, "i problemi sono altri" (14 luglio):

"Non vorrei che il polverone su di me serva a coprire altro, non sarò capro espiatorio: non vorrei che si chiedano le mie dimissioni per evitare di parlare di possibili dimissioni di qualche ministro per la vicenda kazaka. Una mia battuta non può essere paragonata ai danni che questo Governo sta facendo al Paese".

Era un "intervento politico più articolato":

"Ho parlato in un comizio, ho fatto una battuta, magari infelice, ma da comizio. Non volevo offendere e se il ministro Kyenge si è offesa me ne scuso, ma la mia battuta si è inserita in un ben più articolato e politico intervento di critica al ministro e alla sua politica".

E non accusatelo di razzismo:

"Per farmi perdonare dal ministro Kyenge la invito ufficialmente ad un dibattito alla Berghemfest nel mese di agosto, la tradizionale festa della Lega, ma sappia che non le farò sconti sulle critiche al suo modo di fare politica... E non voglio sentire accuse di razzismo da parte di politici che sono razzisti ogni giorno con i cittadini del nord".

Due giorni dopo, e siamo al 15 luglio, si parte con le interviste.

"Amo gli animali, e poi il mio era un giudizio estetico". Al Corriere della Sera dice che c'è pure "Letta l'airone", "Alfano la rana"...:

"Adesso non posso proprio. Scusi, ma inizia la MotoGp. Ci sentiamo più tardi... Ora si dibatte su una frase estrapolata dal contesto, ma al comizio ho fatto una premessa, cioè il mio amore per gli animali. Lì - sbagliando, lo ammetto - ho esplicitato un pensiero: citare l'orango era un giudizio estetico che non voleva essere razzista. Mi lasci spiegare. Io ho una mia forma mentis: quando conosco una persona, faccio paragoni estetici con un animale. Per tutti. Io vedo il presidente Letta un po' come un airone: le gambe lunghe, zampetta nella palude. Il vicepresidente Alfano? Forse un po' rana. Il ministro Cancellieri? Mi dà l'idea del San Bernardo, che è pacioso ma sa anche mordere. Fabrizio Saccomanni, dell'Economia, l'ho sempre visto come Paperon de' Paperoni che sotto le ali ha i miliardi. Il titolare degli Affari europei Enzo Moavero Milanesi lo vedo pavone, con il riporto fa la coda. Per ciascuno ne ho una... Mi è spiaciuto che, di un intervento di 45 minuti tenuto davanti a 1.500 persone, tutto si sia ridotto alla questione dell'orango. Molto è montato ad arte.

A Repubblica conferma: "Vedo le persone come animali, ma non mi dimetto":

"Ho solo detto che le sembianze della Kyenge mi ricordano quelle di un orango. Fa parte del mio modo di essere. Sono abituato ad accostare le persone agli animali. Mi viene spontaneo fare questi accostamenti. Ma le dirò di più: a Napolitano ho regalato una bottiglia di Amarone, scrivendogli che lui è come questo vino, migliora con gli anni. Il presidente non si è offeso, mica ha pensato che volessi dargli dell’ubriacone, anzi mi ha ringraziato con una bellissima lettera. Comunque io non me ne vado, la battuta è stata decontestualizzata e amplificata ad arte. Se avessi detto che Alfano mi sembra un gorilla, nessuno avrebbe gridato al razzismo".

Insomma, "era solo un giudizio estetico, il vero razzismo è contro di noi". E al quotidiano La Stampa confida che c'è pure la "gallina ovaiola":

"C'è stata molta strumentalizzazione. Ho fatto una battuta, forse un po’ sopra le righe, ma non mi riferivo certo all’aspetto razziale. Era solo un riferimento estetico. Io ho un sacco di animali, sa? Alcuni molto strani, che non si potrebbero tenere. Li rispetto molto, per questo li paragono alle persone. Guardo Letta e penso a un airone, che con le zampe lunghe riesce a vivere nella palude... Vedo Alfano come una rana, che salta di foglia in foglia. La Cancellieri? Un San Bernardo, sì, sempre pacioso, ma quando vuole riesce a mordere. Poi c’è la De Girolamo, una gallina ovaiola".

Kyenge: “Calderoli assolto per avermi detto orango, triste il Pd che lo difende”. Per la giunta del Senato le parole del leghista sono “insindacabili” e non razziste. D’accordo tutti i partiti, tranne i 5Stelle, scrive Annalisa Cuzzocrea su “La Repubblica”. Cécile Kyenge ha vissuto con sorpresa il razzismo di cui è stata oggetto durante la sua esperienza di ministro. Ed è sorpresa e delusa ora che la politica ha deciso di lasciarla sola. Ora che - in giunta per le immunità al Senato - la maggioranza ha deciso che la frase "Quando vedo la Kyenge non posso non pensare a un orango", non è istigazione all'odio razziale. Non se lo dice il vicepresidente di Palazzo Madama Roberto Calderoli. Non per i deputati di Forza Italia, Ncd, Lega, Autonomie, Pd che in commissione hanno preso la parola per spiegare che Calderoli non è perseguibile, che le sue parole in quanto politico sono "insindacabili", che nel suo partito ci sono persone di colore e che poi è tanto bravo a presiedere l'aula. Gli unici a protestare sono stati gli esponenti del Movimento 5 Stelle. Inascoltati.

Cos'ha pensato quando gliel'hanno detto?

"Sono stata sorpresa. Poi triste. Non per me. Vorrei uscire da questa logica perché non stiamo valutando Calderoli come persona. Io lui l'ho perdonato. Quello che bisogna capire è se queste parole possano essere usate in un dibattito politico normale o se siano semplicemente espressioni razziste. Non è compito del Senato assolvere Calderoli. È come se quell'insulto fosse stato fatto a un paese intero per la seconda volta ".

Anche alcuni senatori del Pd si sono espressi contro l'autorizzazione. Un'altra sorpresa?

"Evidentemente quest'argomento è mal conosciuto da parte di tanti. Se poi l'abbiano fatto con calcoli elettorali troverei la cosa ancora più grave. Ma io vado avanti, adesso dovrà esprimersi l'aula, spero che questo sia stato solo un incidente di percorso. Se una persona che rappresenta le istituzioni può insultare chiunque mi chiedo: chi protegge i deboli in questo Paese? Si sta creando un precedente molto pericoloso ".

Si aspettava tanti episodi di razzismo contro di lei quando è diventata ministro?

"Non fino a questo punto. La Lega lo faceva coscientemente, con un calcolo elettorale di strumentalizzazione della persona. E in questo modo l'odio e il razzismo sono aumentati. Com'è possibile che non ci si soffermi sui danni culturali di questi episodi? Mi sarei aspettata appoggio e sostegno da parte delle istituzioni".

Si sente abbandonata anche dal Pd?

"Sì, anche dal Pd. Ma è una questione trasversale, mi aspettavo di più da tutti. Ancora oggi ho una decina di cause che ho deciso di seguire personalmente. Devo ringraziare la magistratura, che è molto avanti. Un consigliere regionale leghista è stato condannato a una multa di 150mila euro per aver sostituito il mio volto con quello di un orango in una foto istituzionale. E sa perché posso dire che la Lega è un partito razzista? Perché sono stati loro a pagargli l'avvocato. Sono le azioni, non le parole, che la qualificano come tale. Sfruttano la crisi. Le persone hanno paura, cercano un colpevole, e il colpevole perfetto diventa quello che ti stanno offrendo. Molti partiti fanno coscientemente quest'operazione per dividere la società. Mi rammarica la mancanza di coraggio della classe politica e delle istituzioni".

A ben vedere, però, non è che questi settentrionali e leghisti, addirittura, siano diversi dagli altri.

L'inchiesta. 'Ndrangheta, quella maxi speculazione edilizia e i rapporti tra Flavio Tosi e l'amico del clan. L'indagine sulla mafia padana prosegue e spuntano nuove intercettazioni che chiamano in causa il sindaco di Verona per un terreno che interessava a Moreno Nicolis, l'imprenditore finito agli arresti. Un'area, da quanto risulta a “l'Espresso”, poi resa edificabile dalla giunta guidata dall'esponente leghista, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Flavio Tosi«Per mangiare devi far mangiare». Si è sentito rispondere così il ministro delle finanze della cosca emiliana guidata dal padrino Nicolino Grande Aracri. E lui, Antonio Gualtieri, in fatto di gestione delle relazioni pubbliche non è da meno: «Questi "baluba"... non capiscono che senza politica... non si fa niente». Per questo Gualtieri ha stretto una forte amicizia con Moreno Nicolis, l'industriale del ferro di Verona, vicino all'amministrazione di Flavio Tosi. Un'aspetto quest'ultimo sottolineato anche dal giudice per le indagini preliminari di Bologna che ha firmato i mandati di cattura per 117 persone, tutte legate alla 'ndrangheta di stanza in Emilia. Ora Gualtieri e Nicolis sono entrambi indagati nell'inchiesta Aemilia. Il primo è in cella per associazione mafiosa, il secondo è agli arresti domiciliai per estorsione aggravata dal metodo mafioso. I detective dell'Arma per tre anni hanno messo sotto controllo capi, gregari, politici e colletti bianchi dei Grandi Aracri. E hanno così scoperto che Nicolis godeva di ottimi contatti con il sindaco Flavio Tosi e l'ex vice sindaco, con delega all'Urbanistica, Vito Giacino, condannato in primo grado a cinque anni per concussione. È lo stesso Antonio Gualtieri che racconta, come già rivelato da “l'Espresso” , del pranzo a casa dell'industriale veronese alla presenza di Tosi e Giacino: «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna». Ma non c'è solo questo nelle informative dei Carabinieri. Gli indagati hanno in ballo diversi affari nella città di Romeo e Giulietta. Uno di questi è l'acquisizione dei beni del fallimento Rizzi, l'altro è una speculazione che sta a cuore a Nicolis. E proprio quest'ultima sarebbe andata in porto. Tra i documenti in mano agli inquirenti infatti ci sono una serie di dialoghi in cui una donna fa riferimento all'area di Borgo Roma «vicino alla Glaxo», la multinazionale farmaceutica. E spiega che «Nicolis voleva barattare l’informazione del fallimento della Rizzi Costruzioni con il sindaco di Verona Flavio Tosi, in cambio della variazione sul piano regolatore di alcuni terreni destinati a costruzioni industriali, posti nei pressi della ditta Glaxo, in area commerciale». Di certo, da quanto risulta a “l'Espresso” la variante alla fine è stata fatta: la conferma, appunto, è nel piano degli interventi approvato dalla giunta di Tosi e Giacino. Il “Piano degli interventi” varato proprio quando Giacino era nella giunta è uno strumento urbanistico che in pratica equivale al vecchio piano regolatore. Nel Piano dell'anno 2011-2012, a firma di Giacino e Tosi, compaiono proprio due varianti urbanistiche chiesta dalla Nicofer, la società di Nicolis: la prima riguarda la ristrutturazione della sua fabbrica; la seconda invece rende per la prima volta edificabili ben 16.500 metri quadri in un'area di 42 mila nella zona sud della città, in via Golino, vicino all'ospedale di Borgo Roma, proprio nei pressi della Glaxo, la stessa indicata nelle intercettazioni. Quel piano urbanistico approvato dai politici di Verona ha quindi autorizzato la Nicofer a realizzare un grande centro commerciale. Una volta ottenuta la variante, la società di Nicolis ha poi ceduto la proprietà a un gruppo della grande distribuzione, la Supermercati Tosano. Una manovra che ha trasformato quei terreni in zona edificabile, perciò la vendita è stata molto favorevole per le casse della società veronese. Ma gli interventi della giunta Tosi a favore di quell'affare tra privati non si fermano qui. Dopo l'arresto di Giacino, la Soprintendenza ha bloccato il centro commerciale perché troppo a ridosso del Forte Tomba, la fortezza costruita nell'Ottocento dagli austriaci. Un vincolo comunicato a Nicolis il 3 febbraio 2014. Nonostante ciò, poco dopo, l'area è stata venduta alla Supermercati Tosano. A novembre quest'utltima ha fatto ricorso al Tar contro la Soprintendenza. E in questa battaglia non sarà sola, perché l'amministrazione comunale si è schiarata al fianco dei privati: secondo la l'amministrazione Tosi, la società Tosano, ma anche il venditore, cioè l'amico Nicolis, avrebbero subito un danno ingiusto. Una vera e propria anomalia secondo l'opposizione. Nicolis sa rapportarsi con la politica della sua città. Lo scrivono gli investigatori antimafia, i quali precisano che questi rapporti gli garantiscono la possibilità di «manovrare degli affari e conoscere – in anticipo – eventuali orientamenti su alcune aree cittadine, in relazione all’edificabilità o meno». Per questo Nicolis è per la ‘ndrangheta emiliana una risorsa, un pezzo pregiato del suo “capitale sociale”. E l'industriale veronese con la dote che si porta dietro conquista i cuori degli 'ndranghetisti. Per il capo clan è «l'amico degli amici». E poi è tra i pochi “padani” accettati al cospetto del padrino Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza”. «Una grande persona», avrebbe detto di lui lo stesso “Manuzza”. Il manager del clan Gualtieri è convinto che con Nicolis il clan potrà puntare molto in alto: «Abbiamo un bellissimo rapporto... ma bello davvero... con quel signore che mi ha dato... la macchina... è uno dei primi industriali di Verona!... e che è lui che mi sta dando una mano politicamente per fare questo affare (riferito alla Rizzi Costruzioni ndr)». Non solo, sempre secondo il braccio imprenditoriale del padrino, Nicolis «c’ha la politica in mano.., lui, il sindaco e il vice sindaco mangiano in casa sua!!». Gli investigatori sono riusciti a ricostruire anche un incontro fondamentale per le indagini, che si è tenuto a Cutro, tra “Manuzza”, Gualtieri e Nicolis. Era il Natale del 2011. E il boss, il manager e l'industriale si ritrovano nel feudo calabrese per un summit. Dopo l'incontro, Gualtieri e Nicolis si scambiano qualche opinione sul grande capo. Le cimici piazzate nel Suv dell'emissario della 'ndrangheta intanto registrano. I due non lo sospettano e parlano. Nicolis non sembra affatto stupito dell'incontro con il boss, anzi all'inizio sembra deluso: «Non mi sembra tanto forte questo qua». Ma Gualtieri, che conosce meglio di lui l'autorità criminale, lo zittisce: «Morè, ascolta, lui è quella persona che comanda la Calabria... Senti a me, a un tuo fratello, che io ti voglio bene veramente … Morè, lui comanda». Dialoghi che secondo il giudice per le indagini preliminari che ha confermato i gravi indizi di colpevolezza e concesso gli arresti domiciliari all'incensurato Nicolis, dimostrano «il forte legame con l'associazione mafiosa, di fatto non ricollegato a comuni origini regionali né a vincoli parentali». Come dire, un rapporto allacciato per un proprio tornaconto personale. Insomma, questione di business. E di conoscenze politiche.

Emilia, la 'ndrangheta punta ai politici. Ecco l'inchiesta shock. Nell'ex regione rossa le cosche hanno messo radici. E ora vogliono influenzare la politica nazionale. Dalla processione di Delrio al pranzo del sindaco leghista Tosi, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Flavio Tosi Il ciclone giudiziario che si è abbattuto sull'Emilia scuote la vicina Verona. Anche qui la 'ndrangheta emiliana dei Grande Aracri può contare su un piccolo nucleo. Ma soprattutto è terra santa per il business. Specie se a introdurre negli ambienti giusti il braccio destro del grande capo Nicolino detto “Manuzza” è un'industriale e di nome fa Moreno Nicolis. Un profilo impeccabile: imprenditore del ferro, ambizioso e con buone relazioni nell'amministrazione del sindaco leghista Flavio Tosi. E proprio quest'ultimo finisce ospite di Nicolis nella sua taverna. Un pranzo al quale, secondo gli investigatori dell'Arma, ha preso parte il primo cittadino, l'ex vicesindaco Vito Giacino, poi caduto per corruzione, e alcuni insospettabili manager della cosca emiliana. Uno di questi è Antonio Gualtieri, ritenuto la mente degli affari della 'ndrina e per questo è finito in cella con l'accusa di associazione mafiosa.   «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna», riferisce Gualtieri a un sodale. Una vicenda ancora tutta da chiarire. Ma confermata anche da un altra indagata, un colletto bianco dell'organizzazione che ha avuto l'onore, come lei stessa ammette, di ospitare nel suo ufficio in pieno centro a Bologna il capo dei capi “Manuzza”. È solo uno degli elementi nuovi che stanno emergendo dall'inchiesta Aemilia che ha portato al fermo di 117 persone legate alla cellula mafiosa che dagli anni '80 ha messo radici tra Modena e Piacenza, e che negli ultimi anni si sta espandendo a Est, seguendo la direttrice dell'autostrada del Brennero.  Gettando le basi per un’avanzata che si è spinta ancora più a nord, cercando di abbracciare le figure più importanti. L'avanzata prosegue. Così come l'indagine, che dura dalla fine del 2010. È di due anni fa invece il faccia a faccia tra Graziano Del Rio, ex sindaco di Reggio Emilia e ora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e i pm che hanno condotto l'inchiesta di questi giorni. Il politico era stato sentito in qualità di persona informata dei fatti. Il pool  era interessato alla sua versione sulla ormai famosa processione nel paesone di Cutro, fuedo calabrese del clan Grande Aracri. Lui si è sempre giustificato spiegando che era un atto dovuto visto che Reggio e Cutro sono gemellati. Con lui però a quella processione, oltre agli altri candidati sindaci, c'era anche Antonio Olivo che, secondo fonti de “l'Espresso, ha frequentato alcuni uomini di Nicolino Grande Aracri. Olivo non è indagato. Così come non lo è  Maria Sergio, ex dirigente del settore urbanistica del Comune di Reggio e moglie dell'attuale sindaco democratico Luca Vecchi. Di lei, che è stata sentita dai pm nello stesso periodo di Del Rio, alcuni rapporti di polizia parlano di presunti favoritismi verso imprenditori sospettati di vicinanza alla 'ndrina emiliana. Ombre decisamente più pesanti sulla politica reggiana sono quelle però che si sono addensate sul centro destra che conta i primi due politici indagati per concorso esterno: uno è  Giuseppe Pagliani di Forza Italia, arrestato, l'altro è  Giovanni Bernini, che in passato è stato il consigliere dell'ex ministro Pietro Lunardi.

Truffa dei rimborsi della Lega, chiesto il processo per Bossi e Belsito, scrive “Il Secolo XIX”. Una truffa sui rimborsi elettorali della Lega Nord per circa 40 milioni di euro, un caso sollevato originariamente da un’inchiesta giornalistica del Secolo XIX del gennaio 2011. Con questa accusa è stato chiesto il rinvio a giudizio dalla procura di Genova per l’ex segretario della Lega Umberto Bossi e l’ex tesoriere Francesco Belsito per la presunta truffa sui rimborsi elettorali ai danni dello Stato da circa 40 milioni di euro. Oltre a Bossi e a Belsito, chiesto il giudizio anche per altri tre componenti del comitato di controllo di secondo livello del Carroccio: Stefano Aldovisi, Diego Sanavio e Antonio Turci. A chiedere il rinvio a giudizio è stato il pm Paola Calleri che ha ereditato l’inchiesta dalla procura di Milano, che l’ha trasferita per competenza territoriale. Esiste un’altra tranche della stessa indagine, quella che riguarda il riciclaggio dei fondi elettorali del Carroccio in Africa: l’ex tesoriere Francesco Belsito e i suoi sodali sono indagati con lui per un investimento estero da 5,7 milioni di euro di fondi pubblici dirottati su banche offshore; le accuse nei loro confronti sono a vario titolo di appropriazione indebita, truffa e riciclaggio. Di questi soldi, una prima “tranche” (circa 1,2 milioni di euro) sarebbe stata stornata «dal conto corrente della Lega attraverso un bonifico in favore della società inglese Krispa Enterprises, della quale Paolo Scala era titolare effettivo, presso la banca di Cipro, somma della quale una parte, pari a 850mila euro è stata restituita a febbraio 2012»; un secondo importo (pari a 4,5 milioni) sarebbe stato trasferito, sempre tramite bonifico, dal conto del Carroccio a quello «intestato a Stefano Bonet presso la Fbme Bank della Tanzania, somma non accreditata per il rifiuto di quest’ultima banca, la quale non aveva ritenuto sufficiente la documentazione allegata, ma restituita soltanto a febbraio 2012». Nel provvedimento vengono indicate come parti offese la Camera, il Senato e la Lega Nord. Anche in questo caso della vicenda si occuperà il tribunale genovese.

LA MAFIA HA CONQUISTATO IL NORD.

Così la Mafia conquista il Nord d'Italia. Il nostro Settentrione assomiglia sempre più al profondo Sud degli Anni 80. Eppure ci sono ancora molti esponenti della politica e della società civile che negano l'esistenza della grande criminalità organizzata. Per i magistrati ormai non si deve più parlare di infiltrazione ma di interazione-occupazione. Una presenza capillare che riguarda ogni regione e provincia, fino al singolo municipio. Lo vediamo nella mappa pubblicata nella nostra inchiesta: ricostruisce, per la prima volta, dove si sono piazzati i clan e quali sono le famiglie di riferimento, scrivono Daniele Autieri, Giuseppe Baldessarro, Valerio Gualerzi, Michele di Salvo e Salvo Palazzolo con un commento di Attilio Bolzoni. Tutto su “La Repubblica”.

Il Sistema come agenzia di servizi di Salvo Palazzolo. L'ultimo capomafia siciliano che ha deciso di collaborare con la giustizia, neanche due mesi fa, ha raccontato di aver trasferito la sua residenza a Mestre per "stare un po' più tranquillo". Così ha detto Vito Galatolo, rampollo di un'antica dinastia di Cosa nostra. I suoi fidati lo andavano a trovare ogni settimana, portandogli cassette di pesce fresco e la contabilità degli affari a Palermo. Intanto, in Veneto, Galatolo tesseva nuove alleanze criminali. E nessuno se n'era accorto. Perché di questi tempi il profondo Nord sembra assomigliare tanto al profondo Sud degli anni Ottanta: ancora tanti, nella società civile e nella politica, non vedono la mafia. Mentre i magistrati continuano a denunciare, con le loro inchieste, i processi, ma anche con prese di posizione eclatanti. L'ultima, è quella del presidente della Corte d'appello di Milano, Giovanni Canzio, che sabato 24 gennaio, all'inaugurazione dell'anno giudiziario, ha denunciato: "La presenza mafiosa in Lombardia deve essere ormai letta in termini non già di infiltrazione, quanto piuttosto di interazione-occupazione". A rischio, secondo i magistrati, c'è l'appuntamento simbolo dell'economia del Nord, l'Expo. Perché la presenza di 'Ndrangheta, Cosa nostra e Camorra si fa sempre più insidiosa. Ecco allora perché è urgente tornare a ripercorrere numeri e storie delle mafie. E' l'obiettivo di questo dossier, che traccia una mappa aggiornata del "sistema", come lo chiama la Direzione nazionale antimafia. Un sistema che ha ormai affinato un metodo. Non è più quello del terrore, come nella Milano degli anni Settanta, battuta da estorsioni e sequestri architettati dai clan siciliani e calabresi. Oggi, il sistema delle mafie al Nord è una grande agenzia di servizi, che offre soprattutto capitali piccoli e grandi agli imprenditori in difficoltà, magari acquistando quote societarie. Ma l'abbraccio dei boss è fatale. Prima o poi, tutta l'azienda finirà nelle mani dei padrini. È già accaduto. Eppure, tanti imprenditori continuano a ritenere più conveniente rivolgersi all'agenzia di servizi del crimine organizzato.  Anche nel profondo Nord è ormai scoppiata una grande "voglia di mafia". Ma, in fondo - hanno ragione i magistrati più avveduti - neanche questa è una novità. Nel 1974, un importante imprenditore milanese che temeva un sequestro chiese a un amico palermitano di presentargli qualcuno in grado di proteggerlo. Così fu organizzato un incontro, a cui partecipò uno dei capimafia siciliani più importanti dell'epoca. Era Stefano Bontate: assicurò che un suo uomo avrebbe garantito giornate tranquille alla famiglia dell'imprenditore, fingendo di essere il fattore della loro villa. Quell'imprenditore si chiama Silvio Berlusconi. L'amico palermitano è Marcello Dell'Utri, che sta scontando una condanna a sette anni per aver mediato l'accordo di protezione. Dagli anni Settanta a oggi, i mafiosi sono diventati un po' più insospettabili, e i loro servizi sono aumentati.

Il tabù infranto di Michele Di Salvo. Sono ormai moltissimi i processi e le indagini che certificano la presenza delle organizzazioni criminali, di ogni matrice e origine, nel tessuto socio-economico settentrionale. Nonostante quelle che ormai possiamo considerare certezze consolidate sembra che ammettere che le mafie hanno messo le mani al nord, e in particolare a Milano, nella capitale economica d'Italia, sembra un tabù. L'allora ministro dell'Interno Roberto Maroni si disse "Indignato dalle parole di Saviano" quando lo scrittore nel novembre 2010, ospite della trasmissione "Vieni via con me", accennò alle possibili infiltrazioni mafiose al nord, semplicemente citando articoli di giornale e inchieste. Maroni in quella circostanza chiese e ottenne un contraddittorio a "Che Tempo Che fa". "Come ministro e ancora di più come leghista mi sento offeso e indignato dalle parole infamanti di Roberto Saviano, animate da un evidente pregiudizio contro la Lega". Parole dette mentre era titolare del Viminale, e aggiunge che chi avesse sentito "Saviano parlare senza contraddittorio potrebbe essere indotto a pensare che in quelle parole c'è qualcosa di vero e siccome non è così voglio poter replicare a quelle stupidaggini". "Del resto che non ci fosse la volontà, prima di tutto politica, di mostrare con chiarezza il grado di penetrazione delle organizzazioni criminali nelle regioni settentrionali, è chiaramente mostrato dagli stessi rapporti semestrali preparati dalla DIA per la relazione del Ministro dell'Interno al Parlamento. Quello che dovrebbe essere il momento più elevato della rappresentazione della presenza del crimine organizzato all'organo legislativo, che dovrebbe appunto legiferare in materia anche e sopratutto tenendo conto di un quadro chiaro della situazione nazionale, e quello che dovrebbe essere un documento utile ai rappresentanti dei cittadini di tutte le regioni, omette incredibilmente una "rappresentazione grafica chiara" di ciò che sta avvenendo nel nostro paese, lasciando trasparire un messaggio per cui le organizzazioni criminali sono un fenomeno geograficamente circoscritto e concentrato, e non una questione grave nazionale che tocca anche il più piccolo comune." Il ministro -  di lì a poco segretario della Lega Nord - ammise che le mafie non erano un fenomeno locale e soprattutto non erano un fenomeno leghista. Chissà che avrebbe detto se avesse immaginato che entro tre anni sarebbe scoppiato il caso Belsito che evidenziò diversi tentativi di avvicinamento (durati circa vent'anni che gli inquirenti ipotizzano già sotto il tesoriere Maurizio Balocchi) tra le 'ndrine e d esponenti leghisti. Già, i tempi in cui il leader fondatore incontrastato della Lega era Umberto Bossi che nel 1990 sentenziava: "Basterebbero sei mesi, al massimo un anno di governo della Lega lombarda per far sparire anche l'odore della mafia da Milano". Che Milano fosse indenne dall'infiltrazione mafiosa lo disse anche Letizia Moratti intervenendo, il 25 maggio 2009, ad Annozero. Non solo politica e giornalismo si indignano quando si parla di cosche a Milano. Accade che lo facciano anche i massimi rappresentanti dello Stato. Prima della  querelle a distanza Maroni-Saviano, il 21 gennaio 2010, a negare l'esistenza della 'ndrangheta nel capoluogo lombardo era stato il prefetto della città Gian Valerio Lombardi: "A Milano ci sono mafiosi, ma la mafia non esiste". Lo disse durante la prima audizione della commissione parlamentare antimafia a Milano in vista dell'Expo. Lombardi poi specificò indirettamente che non era in discussione la presenza delle organizzazioni criminali quanto il loro modo di agire: più imprenditoriale che "esecutivo". Sul filo sottile dell'etimologia è l'ex-sindaco ed ex-ministro Letizia Moratti, che  il 23 gennaio 2010 dichiarò "io parlerei più che di infiltrazioni mafiose di infiltrazioni della criminalità organizzata". Sulle barricate anche gli imprenditori. Nel maggio 2007 Roberto Predolin, allora presidente della controllata Sogemi, la società che gestisce tutti i mercati agroalimentari all'ingrosso, alla domanda se ci fosse la 'ndrangheta all'Ortomercato rispose secco: "Che sappia io, no". Oggi le indagini certificano invece che l'Ortomercato di Milano è considerato uno dei centri di controllo della criminalità organizzata. Secondo Paolo Pillitteri, sindaco di Milano e cognato di Bettino Craxi. "Nella nostra città una Piovra, sì una grande criminalità mafiosa, non esiste". Era il 1989 ed aggiunse, a scanso di equivoci: "Il bello della Piovra è proprio che si tratta di una favola, soltanto di una favola". Del resto sia lui che un altro sindaco sindaco Borghini sarebbero stati "rassicurati" dal giudice di Cassazione Corrado Carnevale che nell'agosto del 1991 assolvendo gli imputati scrisse testualmente nelle motivazioni della sentenza: che gli imputati "si frequentassero, concludessero affari con boss del calibro dei fratelli Bono, Salvatore Enea o con società del gruppo Inzerillo, e che questi legami non fossero né privati né occasionali o sporadici, bensì per motivi e ragioni di comuni interessi, assistenza e finanziamenti e operazioni speculative... non può di per sé essere utilizzato come prova dell'organizzazione criminale, né dell'appartenenza a essa". Secondo quanto emerge dalle numerose indagini, dagli studi e dalle audizioni della commissione antimafia, le organizzazioni criminali hanno sviluppato un forte orientamento a privilegiare l'insediamento e la penetrazione al nord nei piccoli comuni. Questa tendenza è dovuta a svariati fattori. In primo luogo l'inesistenza o la debole presenza di presidi delle forze dell'ordine, e il basso interesse riservato alle vicende dei comuni minori dalla grande stampa e dalle stesse istituzioni politiche nazionali. Non secondaria la facilità di accesso alle amministrazioni locali grazie alla disponibilità di un piccolo numero di preferenze, specie in contesti in cui il ricorso alla preferenza sia poco diffuso tra gli elettori. Non secondario è anche l'aspetto di "similitudine dimensionale" tra comune di origine e comune di insediamento. In particolare la 'ndrangheta ha radici nei piccoli comuni e le mette nei piccoli comuni; stabilisce tendenzialmente un rapporto biunivoco tra un comune calabrese e un comune del nord o tra un ristrettissimo gruppo di comuni calabresi (in genere confinanti) e un ristrettissimo gruppo di comuni settentrionali (anch'essi in genere confinanti). Modello questo che tende a replicare anche fuori dal territorio nazionale, si pensi al Canada come alla Germania e agli Stati Uniti. Le 'ndrine tendono a "replicare" un modello: il luogo della massima concentrazione conosciuta di "locali" di 'ndrangheta coincide con la provincia di Milano e della provincia di Monza-Brianza, ossia con un'area che presenta una densità demografica decupla rispetto alla media nazionale. L'elevata densità demografica corrisponde in genere a migrazioni storiche e l'alta densità demografica implica maggiore mimetizzazione sociale e più favorevoli opportunità di costruzione di relazioni sociali e professionali anonime. Infine l'alta densità demografica si associa a una elevata percentuale di cementificazione del territorio, processo che implica una esaltazione delle opportunità di inserimento delle imprese mafiose. Secondo l'Istat (2012) le provincie più cementificate di Italia risultano nel 2011, nell'ordine, Monza-Brianza (54 per cento di superfici edificate), Napoli (43), Milano (37) e Varese (29), e non è un caso che tutte e quattro le provincie si caratterizzino per una forte presenza, antica o espansiva, degli interessi di stampo mafioso. La formula ideale del successo sembra essere quindi "piccoli comuni-alta densità demografica". Sottovalutazione del fenomeno e rimozione, talvolta sfociante in un vero e proprio negazionismo, vanno di pari passo con l'inadeguatezza del grado di informazione sui fenomeni malavitosi e di contrasto all'attività del crimine organizzato. Del resto il modus operandi dei gruppi mafiosi è notevolmente flessibile. Possono avvantaggiarsi dell'alta o della bassa densità demografica, della abbondanza di risorse o della crisi (usura, gioco d'azzardo), dei servizi sociali evoluti o del degrado urbano, del servizio pubblico o dell'economia privata; e nella scelta della propria rappresentanza politica non presentano predilezioni a priori per l'uno o l'altro schieramento. Le organizzazioni mafiose, pur influenti, non sembrano tuttavia disporre di amplissimi "pacchetti" di consensi. Ciò indica che il grado di organizzazione del consenso non si è ancora sviluppato, nelle regioni a maggior presenza mafiosa, come nelle realtà più tradizionali. Sia le inchieste lombarde sia quelle piemontesi rivelano la presenza di un alto numero di esponenti dei clan nati nelle regioni di nuova residenza, perfettamente orientati a riprodurre gli schemi di condotta praticati dalle rispettive organizzazioni nei luoghi di origine.

La mappa regione per regione di Michele Di Salvo.

La Lombardia è una regione di insediamento storico delle organizzazioni criminali: tutte le più importanti vi si sono stabilite non solo per le molte possibilità di investimento nelle attività legali (grandi opere, imprese, locali notturni) e illegali, ma anche per la scarsa resistenza ambientale. La disattenzione istituzionale e sociale al fenomeno mafioso e diversi fenomeni criminali differenti quali terrorismo, tangentopoli, immigrazione che hanno "coperto" il problema, hanno permesso alla criminalità organizzata una penetrazione sociale senza forti ostacoli. Il Nord-Ovest della regione (Como, Lecco, Varese, Milano e Monza e Brianza) è caratterizzato da presenze antiche e solide. Nella fascia meridionale della regione si individua una più recente e preoccupante pressione: la provincia di Lodi sembra svolgere una funzione di nicchia protetta e di area di avvicinamento all'hinterland milanese. Le provincie di Mantova e Cremona, invece, confinano con le provincie emiliane a maggiore presenza mafiosa. Fino alla fine degli anni '80 l'organizzazione predominante è stata Cosa nostra. Oggi ne risultano attivi diversi gruppi. Attualmente, invece, è la 'ndrangheta a essere l'organizzazione più forte: seppur insediatasi nel territorio lombardo nello stesso periodo di Cosanostra, è solo dagli arresti che hanno colpito i siciliani dagli anni '90 che ha affermato una sua indiscussa egemonia sviluppando una sorta di "colonizzazione" in diverse aree della regione, con una solida rete di alleanze e di rapporti istituzionali, nelle pubbliche amministrazioni,  con professionisti e imprenditori privati. Con l'indagine Infinito del luglio 2010 gli inquirenti hanno identificato sedici locali, ognuna rispondente a una propria locale madre calabrese, ma insieme coordinate dalla "Lombardia", ovvero una sovrastruttura federativa che attraversa fasi alterne di autonomia rispetto alla Calabria. Presenza più difficile da analizzare è quella della camorra, da sempre attratta dalla ricchezza e dalle possibilità offerte soprattutto dal mercato della droga lombardo. Dalle più recenti indagini sono risultati attivi nella regione diversi gruppi: la famiglia Di Lauro, il gruppo Nuvoletta, la famiglia Laezza, legata al clan Moccia di Afragola, un gruppo che fa riferimento al clan Di Biase-Savio. È emerso, inoltre, l'interesse del clan dei casalesi e del gruppo Belforte di Marcianise nel settore del gioco, e la presenza del clan Fabbrocino e del clan Gionta.

Il Piemonte, come la Lombardia, ha storicamente esercitato una forte attrattiva sulla criminalità organizzata. L'espansione urbanistica degli anni '60, compresa quella delle zone turistiche, ha contribuito allo sviluppo di un fenomeno di colonizzazione a macchia di leopardo. In Piemonte  si assiste a una netta prevalenza della 'ndrangheta rispetto alle altre forme di criminalità organizzata, evidenziata dalle recenti operazioni Minotauro e Albachiara. Grazie a esse è stato messo in evidenza un radicamento forte e strutturato soprattutto nella città di Torino e nella sua provincia, che conferma quanto scritto nel 2008 dalla DDA di Torino, secondo la quale la criminalità calabrese risulta essere stabilmente insediata nel tessuto sociale mentre "i rapporti tra le varie cosche sono regolati da rigidi criteri di suddivisione delle zone e dei settori di influenza". Ed è stato anche messo in evidenza il progressivo inserimento della criminalità organizzata sia nel tessuto economico sia nell'area di azione della politica e delle pubbliche amministrazioni. Anzi proprio la compiacenza di alcune amministrazioni locali ha favorito la crescente presenza delle organizzazioni mafiose nel settore dell'edilizia e dei lavori pubblici. Nel 2012 l'inchiesta Minotauro ha messo infatti in luce l'esistenza di 9  cosche locali nell'area metropolitana, ma anche di una struttura territoriale non riconosciuta, chiamata "Bastarda", con influenze in provincia di Torino. Gli inquirenti, allo stato delle indagini, ipotizzano l'esistenza in Piemonte del "Crimine", organismo al vertice della struttura criminale sito a Torino e funzionale alla gestione del territorio, mentre manca la "Camera di Controllo" (apparato di coordinamento dell'organizzazione criminale presente in Lombardia e in Liguria), sebbene dalle intercettazioni si evinca la volontà della 'ndrangheta di istituire tale struttura anche in Piemonte. (Secondo il collaboratore di giustizia Rocco Varacalli questa struttura controlla anche i comuni di Rivarolo Canavese, Castellamonte, Ozegna, Favria e Front).

In Valle d'Aosta la stessa Commissione regionale speciale per l'esame del fenomeno delle infiltrazioni mafiose in regione pur sostenendo nel 2012 che non esiste una presenza strutturata di organizzazioni criminali, ha però evidenziato "l'influenza di grandi famiglie della 'ndrangheta che si è manifestata nel corso degli anni con episodi di riciclaggio di denaro, di traffico di stupefacenti e di estorsioni". La Direzione Nazionale Antimafia già nel 2010 era andata oltre, ipotizzando la presenza di una locale di 'ndrangheta. L'ipotesi troverebbe conferma in alcune intercettazioni dell'operazione torinese Minotauro. Nonostante la predominanza della 'ndrangheta, si colgono in Valle i segni di presenza di altre forme di criminalità organizzata di stampo mafioso. Nella seconda metà degli anni '90 hanno operato nella regione soggetti legati alla Stidda e vi si sono trasferite due famiglie legate al clan gelese degli Emmanuello ed è emerso l'interesse della cosca Mandalà per il casinò di Saint Vincent, a seguito di alcune dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Francesco Campanella.

La Liguria rappresenta una regione storicamente interessante per le principali organizzazioni criminali di tipo mafioso: terra di confine, costituisce tuttora una base logistica per la gestione di latitanti che, passando per Ventimiglia, trovano rifugio nelle località contigue francesi; terra di mare, offre strategici snodi portuali in cui far confluire partite illecite di droga; terra di immigrazione, dalla seconda metà degli anni '40 diviene residenza di esponenti criminali all'interno dei flussi migratori, provenienti soprattutto da Sicilia e Calabria, composti da onesti corregionali in cerca di occupazione; terra di soggiornanti obbligati, e terra del gioco d'azzardo - con il casinò di Sanremo - da decenni rappresenta una tra le principali sedi del riciclaggio di denaro di illecita provenienza. Ad oggi si riscontra la presenza delle principali organizzazioni criminali di stampo mafioso, con un evidente primato della 'ndrangheta su camorra e cosa nostra, in linea con lo scenario nazionale ed internazionale in cui la mafia calabrese ricopre da anni un ruolo apicale. La 'ndrangheta si caratterizza per una presenza stabile e strutturata nella regione, con cosche locali  innestate sul territorio secondo una precisa strategia di colonizzazione. Con l'inchiesta Il Crimine (2010), oltre allo scenario della 'ndrangheta in Liguria emerge l'esistenza di una camera di controllo e di "almeno nove locali", rispettivamente a Genova, Lavagna, Ventimiglia, Sarzana, Sanremo, Rapallo, Taggia, Savona e Imperia. La presenza di una camera di controllo, o camera di compensazione, esistente in Lombardia ma assente in Piemonte, sembra sottolineare l'elevato grado di strutturazione della associazione in Liguria, in particolare nella provincia di Imperia. La presenza di Cosa nostra è stata riscontrata nelle diverse provincie. L'esistenza di decine di Cosa nostra nel capoluogo risale agli anni '80. Nel 1979 un importante boss mafioso, Salvatore Fiandaca, venne inviato al soggiorno obbligato nel comune di Genova diventando negli anni successivi capo decina del clan Madonia. Negli anni giunsero in Liguria diverse famiglie mafiose: Vallelunga, Di Giovanni, Lo Iacono, Aglietti, Morso, Monachella e gli Emmanuello attratti dalla presenza di numerosi cantieri, dalle opere di costruzione del tratto autostradale, nonché dalla posizione strategica della regione confinante con la Francia. La presenza della Camorra è rilevante nella città di Genova, dove è attiva nello spaccio di sostanze stupefacenti, nel levante ligure nell'ambito dell'edilizia, degli autotrasporti, dell'agricoltura in serra mentre a Sanremo è dedita prevalentemente al riciclaggio e al traffico di merce contraffatta.

In Emilia Romagna le principali organizzazioni criminali operano pacificamente sul medesimo territorio, talvolta stringendo patti per la conclusione di affari nei settori maggiormente remunerativi. La 'ndrangheta si dimostra, insieme al clan dei casalesi, la realtà criminale più incisiva. Seguono altri clan camorristici presenti nella provincia di Modena e in Romagna, più alcune presenze significative di Cosa nostra. In Romagna il riciclaggio è favorito dalla vicinanza con la Repubblica di San Marino. La 'ndrangheta risulta attiva in particolare nelle provincie di Reggio Emilia, Modena, Parma e Piacenza. Le 'ndrine maggiormente rappresentate sono quelle originarie di Platì, San Luca, della Piana di Gioia Tauro, di Isola di Capo Rizzuto ma in particolare quelle provenienti da Cutro, nel crotonese. La camorra risulta particolarmente attiva in provincia di Modena, benché recenti indagini rivelino un apprezzabile spostamento verso la sponda romagnola. La presenza dei casalesi sul territorio è in aumento e, negli ultimi anni, la magistratura ne ha più volte sottolineato la pericolosità. Si tratta di compagini criminali poco strutturate, sotto-gruppi vincolati da un legame stringente con i clan campani di provenienza. Senza alcuna ambizione di egemonia, spesso stringono affari con esponenti di altre organizzazioni criminali (calabresi o siciliane) con le quali operano soprattutto nell'ambito del gioco d'azzardo e delle estorsioni. Con l'operazione Vulcano del febbraio 2011 i carabinieri del ROS di Bologna hanno tratto in arresto soggetti appartenenti a tre clan camorristici diversi: i casalesi afferenti a Nicola Schiavone, i Vallefuoco di Brusciano e i Mariniello di Acerra. La peculiarità del sodalizio criminale che ne è emerso sta nel fatto che questi clan sono tra loro in conflitto in Campania, ma in Emilia Romagna risultano compartecipi in affari illegali. Di pochi giorni fa la maxiretata sulla 'ndrangheta con 117 richieste di custodia cautelare. Mani delle cosche sugli appalti, anche quelli della ricostruzione con gli indagati che ridono dopo il terremoto del 2012. E che parlano fra loro un linguaggio fatto di allusioni e frasi gergali. Cosa nostra appare oggi meno incisiva rispetto alle altre due principali organizzazioni criminali. L'organizzazione siciliana risulta particolarmente attiva nel modenese, nei comuni di Sassuolo, Carpi e Fiorano, residenze in passato di importanti soggiornanti obbligati o di sorvegliati speciali. Ancora nel 2005 diversi uomini legati al boss Bernardo Provenzano furono arrestati nei comuni di Castelfranco Emilia, Nonantola e Modena. Nella zona di Parma risultano presenti esponenti delle famiglie Emmanuello e Rinzivillo originarie di Gela e appartenenti a Cosa nostra nissena, e nella zona di Piacenza è stata riscontrata la presenza di esponenti del clan Galatolo, operante nel quartiere Acquasanta di Palermo.

Il tessuto economico del Veneto risulta essere particolarmente attrattivo per i gruppi criminali perché caratterizzato da piccole e medie imprese, un alto tasso di industrializzazione e da una fitta rete di sportelli bancari. Al dinamismo del sistema imprenditoriale e alla sua ricca articolazione si sovrappone la perdurante crisi economica in cui versa l'Italia, con la conseguente mancanza di liquidità. Questa situazione, associata alla reticenza delle banche ad erogare prestiti alle imprese a rischio di insolvenza, sembra avere portato molti piccoli imprenditori veneti in difficoltà a rivolgersi alla criminalità organizzata. Basti ricordare l'indagine Aspide del 2011 che ha visto coinvolti soggetti che erogavano crediti agli imprenditori per poi vincolarli al pagamento di interessi altissimi fino ad ottenere l'acquisizione delle attività.  Il Veneto, inoltre, costituisce un potenziale snodo strategico per i traffici illeciti, interni e internazionali, dal narcotraffico al traffico illecito di rifiuti. Tra gli anni '70 e '90, molti boss di Cosa nostra, camorra e 'ndrangheta vi sono stati inviati al confino. Si pensi a Salvatore "Totuccio" Contorno, al boss 'ndranghetista Giuseppe Piromalli oppure ad Anna Mazza, appartenente al clan Moccia di Afragola e conosciuta come la "vedova della camorra". Oggi diverse operazioni di polizia hanno dimostrato una presenza vivace della criminalità organizzata e, in particolare, della camorra, presente soprattutto nelle provincie di Venezia e di Padova. La prevalenza di sodalizi campani rispetto ad altre forme di associazionismo mafioso, si riflette anche sulla natura e sulle modalità di infiltrazione, configurato come delocalizzazione di specifiche attività. Negli ultimi anni si è riscontrata però una sempre più consistente presenza della 'ndrangheta, specialmente nella provincia di Verona. Un esempio significativo è il caso del comune Garda, dove nel 2012 è stato richiesto il commissariamento per sospette infiltrazioni della 'ndrangheta negli appalti e negli uffici comunali. Nella regione non mancano neppure gruppi riferibili a Cosa nostra, che sembrano attivi nella marca trevigiana, nel veneziano e nel padovano.

In Friuli Venezia Giulia nel corso degli anni è stata riscontrata la presenza di soggetti riconducibili alla mafia siciliana, alla camorra, alla 'ndrangheta calabrese e a sodalizi pugliesi. La collocazione geografica della regione, il peculiare tessuto socio-economico e la piccola imprenditoria che caratterizzano l'economia locale costituiscono un'attrattiva per gruppi criminali. Il Friuli ha così assunto un ruolo strategico "di secondo grado", diventando una sorta di area di transito in prossimità del confine con la Croazia e la Slovenia, ma anche uno snodo importante per i traffici illeciti, soprattutto via mare, che ha visto particolarmente coinvolte la città di Trieste e il comune di Monfalcone. L'arresto di diversi latitanti, affiliati a gruppi criminali di diversa provenienza: cosche campane, clan calabresi o gruppi di origine pugliese, induce a ritenere che la criminalità organizzata consideri il Friuli Venezia Giulia un luogo sicuro dove cercare rifugio, una regione in cui è agevole, anche per la disabitudine locale a confrontarsi con il tema, allestire proprie "reti di assistenza".  La predominanza storica è della camorra, particolarmente interessata ad operare nella zona di Trieste, nel comune di Monfalcone e sul litorale udinese. Per quanto riguarda Cosa nostra, invece, la presenza si è concentrata storicamente nella provincia di Pordenone e, in particolare, nel comune di Aviano e dintorni, e nella provincia di Udine.

In Trentino Alto Adige le diverse forme di criminalità organizzata, e in particolar modo la 'ndrangheta, hanno adottato una strategia di infiltrazione "leggera", mantenendo il classico basso profilo, che non si esprime solo nell'assenza di locali. La posizione geografica della regione gioca un ruolo strategico e di attrazione in quanto collocata in prossimità del confine con la Svizzera e proiettata verso il centro dell'Europa. Non è un caso, infatti, se l'attività più diffusa sul territorio sia proprio il narcotraffico.

"Sono ovunque, solo la cultura ci può salvare" di Valerio Gualerzi. Sarebbe il caso di cambiare espressione. Quando si racconta di vicende mafiose lontane da Sicilia, Calabria o Campania il riflesso condizionato ci porta ancora a usare la parola "infiltrazione", ma da anni si tratta ormai in realtà di un vero e proprio radicamento. Il professore Enzo Ciconte, a lungo parlamentare nelle file del Pci-Pds e coautore dell'Atlante delle mafie edito da Rubbettino, ne è convinto. "Sa qual è la prova migliore di quanto le sto dicendo? Provi a leggere un'ordinanza giudiziaria coprendo l'intestazione del tribunale che l'ha emessa. Dalle descrizioni dei fatti e del contesto faticherebbe a capire che non si riferisce a vicende avvenute al Meridione, ma a Pavia piuttosto che a Sanremo. Le mafie sono presenti ormai stabilmente in tutta Italia e in particolare nel triangolo Liguria, Lombardia, Piemonte".

Professor Ciconte, possibile che nessuno sia riuscito a rimanere immune?

"Si tratta di una diffusione non omogenea, a macchia di leopardo, con alcune aree che ancora resistono meglio di altre, come buona parte dell'Emilia Romagna, ma nel complesso la criminalità organizzata, e in particolare la 'ndrangheta, sono riuscite ovunque a conquistare l'economia locale, a stringere rapporti con l'imprenditoria e a far eleggere sindaci, amministratori e consiglieri comunali. In quest'ultimo caso il problema è stata la formulazione dell'articolo 416 ter che punisce i politici solo se aquistano voti in denaro, ma non interviene se la controparte sono favori generici. La presenza mafiosa al nord è talmente forte che ormai anche un tratto considerato tipico del sud, come l'omertà, è ormai una caratteristica del settentrione. Allo stesso modo tante inchieste dimostrano che il rapporto tra imprenditoria locale e mafie non è più subito, ma spesso cercato dagli stessi imprenditori, magari per delegare il recupero crediti".

Che cos'è che ha favorito il radicamento di questa presenza?

"I fattori decisivi sono quelli culturali ed economici, spesso intrecciati. Penso ad una società che negli ultimi decenni è stata dominata dalla parola d'ordine 'arricchitevi' e dal disprezzo delle regole, anni in cui il presidente del Consiglio sosteneva la liceità dell'evasione fiscale. La crisi poi ha fatto il resto, perché se le banche chiudono i rubinetti del credito, la disponibilità di liquido delle mafie è invece illimitata. Anzi, la mafia ha bisogno di far girare il suo denaro per ripulirlo e non stiamo parlando di usura, ma di investimenti".

Eppure gli episodi di violenza continuano ad essere concentrati al sud.

"Certo, la grande criminalità organizzata non vuole attirare l'attenzione su di sé e uccide solo se strettamente necessario. Se possibile poi preferisce aspettare l'occasione giusta, quando la vittima torna nella terra d'origine per le vacanze o per fare visita ai parenti. Lì un omicidio desta meno impressione, fa meno notizia".

Nel loro trapiantarsi al centro nord le mafie hanno assunto caratteristiche diverse in base al luogo di insediamento?

"Direi di no. A parte le scontate attività illecite come il traffico di droga, hanno puntato soprattutto sull'edilizia e sulle imprese per il movimento terra, oltre che su commercio e ristorazione".

Qual è l'antidoto per riconquistare la legalità ed evitare che il contagio si diffonda ancora?

"Innanzitutto bisogna prendere coscienza della portata del problema. Ognuno deve fare la propria parte. Se l'imprenditore fa l'imprenditore non serve l'antimafia. Sembra una banalità, ma non lo è. Come in una banda, affinché ci sia armonia occorre che ogni strumento dia il suo contributo. Senza dubbio però la battaglia si gioca soprattutto sul piano culturale. Le mafie questo lo hanno capito e hanno prima messo da parte la loro tradizionale ritrosia, venendo allo scoperto con interviste e dichiarazioni dei boss, e ora cercano di imporre loro modelli culturali, come con la musica dei neomelodici in Campania".

Il "mondo di sotto" della camorra a Roma di Daniele Autieri. Nel "mondo di sotto" ritratto da Massimo Carminati come il luogo dove si agitano i "morti" e dove regnano crimine e violenza, le leggi, gli equilibri, i regolamenti di conti sono gestiti da un'organizzazione spietata e capillare, dotata di massicci gruppi di fuoco, e protetta da un grande fratello criminale che osserva a 200 chilometri di distanza. Alcuni inquirenti già la chiamano "Camorra Capitale" perché è cresciuta negli ultimi venti anni imbastardendo le origini camorriste con embrioni della criminalità romana. Soprattutto di stampo neofascista. "È la teoria del mondo di mezzo, compà  -  ripeteva Carminati a Riccardo Brugia  -  ci stanno i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo". Scovati gli intrecci e le connivenze con i "vivi" della politica, mancava un tassello per completare il quadro a tinte fosche disegnato dal boss di "mafia capitale". Mancavano i "morti". E il mondo di sotto, quello dei "morti", Massimo Carminati lo fissa negli occhi il 30 aprile del 2013, fuori dal bar "La Piazzetta" in zona Fleming, quando incontra Michele Senese. È quest'uomo nato ad Afragola che tiene in mano lo scettro criminale della città. Estorsioni, traffico internazionale di stupefacenti, ricatti, minacce: un padrone assoluto che impone la sua legge sotto l'egida del piombo. E al suo fianco i "napoletani di Cinecittà", partiti da Roma Est per conquistare la Capitale. Un obiettivo raggiunto perché il gruppo esercita ormai il controllo quasi ovunque, da Tor Bella Monaca a Ponte Milvio e, oltre alle attività più tradizionali delle organizzazioni mafiose, si è infiltrato nel ventre malato dell'imprenditoria romana. Le origini: l'omicidio Carlino. Casa di reclusione di Rebibbia, Roma. Anno 1999. Michele Senese, boss della camorra trapiantato da anni a dirigere il traffico criminale della Capitale si affaccia alla finestra della sua cella e urla in direzione di Carlino, uno dei capi della banda della Maranella. "Se non lo ammazzi tu a tuo fratello, lo ammazzo io. Vi ammazzo a tutti quanti". Due anni dopo la promessa è mantenuta. Il 10 settembre del 2001, mentre Senese è ancora in carcere, un commando di fuoco assalta la villa di Torvajanica dove vive Giuseppe Carlino e lo uccide davanti agli occhi della madre. L'omicidio lava il sangue di Gennaro Senese, fratello di Michele, assassinato dai Carlino a Centocelle il 16 settembre del 1997. Ma quello della faida familiare è solo uno spunto per mettere in chiaro un imperativo rimasto fino ad allora fumoso: Roma è della camorra. E del clan Senese. Lui, Michele, è un astro nascente nel firmamento criminale. Riconosciuto come un fiancheggiatore della banda della Magliana, si stabilisce in pianta stabile a Roma negli anni '80 dopo aver partecipato alla guerra di camorra che insanguina la provincia di Napoli. Affiliato al clan Moccia, costruisce il suo potere criminale a Roma, dove viene conosciuto da tutti come "ò pazzo" per la sua abilità nello scontare le pene all'interno degli ospedali psichiatrici piuttosto che in galera. Ma le indagini del Nucleo investigativo dei carabinieri di via in Selci lo mettono all'angolo, insieme a una parte nutrita della sua organizzazione e il 26 giugno del 2013 viene nuovamente arrestato. Questa volta è diversa dalle altre perché il primo grado di giudizio lo riconosce come il mandante dell'omicidio Carlino e lo condanna all'ergastolo. Occhi di ghiaccio. Se il boss di Afragola è il mandante (quando Carlino viene ucciso Senese è ristretto in un ospedale psichiatrico in Toscana), gli esecutori materiali sono altri. E quegli uomini, negli anni di carcere del capo, hanno imposto la sua legge su Roma. Il primo e più temuto è Domenico Pagnozzi (agli arresti con l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso), chiamato nell'ambiente ice per via dei suoi occhi di ghiaccio. E con lui Fiore Clemente, Giovanni De Salvo, Raffaele Carlo Pisanelli, Giovanni Moriconi, Vicenzo Carotenuto e Antonio Riccardi. Tutti fedelissimi, riconosciuti colpevoli di aver partecipato al delitto Carlino. Eppure la decapitazione del vertice dei "napoletani di Cinecittà" non frena le attività dell'organizzazione. Tor Bella Monaca come Scampia. Il 24 gennaio scorso il Nucleo investigativo dei carabinieri di Frascati, insieme al Nucleo di polizia tributaria della Finanza, arresta 18 persone nella periferia est di Roma: Tor Bella Monaca. L'operazione sgomina un'organizzazione che gestisce lo stoccaggio e lo spaccio nel quartiere, divenuto per mezza Roma il supermarket degli stupefacenti. A guidare il gruppo è Manolo Monterisi, romano, 36enne, soprannominato "il pugile" e definito dai carabinieri del Nucleo "promotore e organizzatore dell'associazione". Tuttavia, fonti investigative confermano che Monterisi non lavora da solo. Anzi. Alcuni pentiti hanno infatti dichiarato che alle spalle del pugile ci sarebbe Michele Senese e il suo clan. La piazza di TorBella è roba loro. Gli imprenditori. "Camorra capitale" è ovunque. Nel traffico di stupefacenti, negli omicidi, nelle gambizzazioni, ma anche nel "business" delle estorsioni. Se è vero che a Roma il pizzo non esiste, almeno non nella sua forma tradizionale, è anche vero che un numero consistente di imprenditori è finito nelle mani della camorra. Perché? Da anni si è sviluppata una indefinita zona grigia, una vasta macchia di petrolio nero che alimenta l'economia sommersa. Sono centinaia le imprese coinvolte, che lavorano senza pagare tasse né contributi, ma soprattutto senza godere delle tutele previste dallo Stato. E quando sorgono questioni la camorra si sostituisce all'autorità pubblica, dirimendole e pretendendo in cambio denari o l'ingresso nel business. Fino a costringere l'imprenditore a diventare uno schiavo dell'organizzazione criminale. Il mistero dell'arsenale. Nonostante le ambizioni imprenditoriali del gruppo, il controllo del territorio viene ancora esercitato con il piombo. Le armi restano la chiave di questa storia, il deterrente più efficace e l'ultimo appello per risolvere questioni pendenti. Armi che i carabinieri hanno cercato negli ultimi anni in ogni anfratto della città. Oggi però una pista riporta al passato, al 17 dicembre del 2011 quando i carabinieri scoprirono in un garage nei pressi della Casilina un vero e proprio arsenale. Mitragliatori, fucili d'assalto di nazionalità cinese, pistole automatiche, fucili AK47, e oltre 1.400 cartucce. Di lì a poco l'inchiesta "Grano nero" identifica i gestori dell'arsenale: Fabio Giannotta, Claudio Nuccetelli, Manolo Pastore e Mauro Santori. Tutti vantano un pedigree da rapinatori a partire da Giannotta, appartenente tra l'altro a una nota famiglia dell'estrema destra romana. Il padre, Carlo, è stato in passato responsabile della sede Msi di Acca Larentia e il fratello, Mirco, fu nominato dall'allora sindaco Gianni Alemanno capo dell'ufficio decoro urbano del Campidoglio. Fabio invece fa rapine e ama la bella vita: i carabinieri lo seguono mentre sfreccia sulla Casilina alla guida di una Ferrari California blu in direzione di casa. Fino ad oggi gli inquirenti non hanno fatto piena luce su chi fossero gli utilizzatori finali di quell'arsenale, tuttavia proprio in questi giorni emerge una nuova pista e indizi inediti che dimostrerebbero la contiguità di alcuni uomini finiti in "Grano nero" con il clan di Michele Senese. La camorra di Ponte Milvio e il poker."Camorra capitale" non si accontenta delle periferie. Roma è grande, e le opportunità sono ovunque. Ponte Milvio diventa così un nuovo crocevia di affari, un presidio strategico allestito intorno al Concept Garage, l'autosalone dove venivano a rifornirsi Massimo Carminati, Giovanni De Carlo, e tanti altri della banda. A gestirlo è Jacopo Sanvoisin, classe '72, una formazione nelle scuole private di Roma Nord e un debole per i "cattivi ragazzi". In uno degli allegati all'informativa di Mafia Capitale, i carabinieri del Ros definiscono Sanvoisin "vicino a soggetti di sicura caratura criminale quali Raffaele Gerbi, inteso Alan, e Angelo Senese", il figlio di Vincenzo Senese e nipote del boss Michele. Dalle indagini Sanvoisin risulta abituale utilizzatore dell'utenza telefonica intestata alla società Professional & Partners Group, all'interno della quale lavorano proprio Raffaele Gerbi e Angelo Senese che, pur essendo solo un dipendente, percepisce uno stipendio pari al doppio di quello previsto per i proprietari. Un privilegio riservato solo al nipote di un boss.

Le Terme di Diocleziano svendute ai clan di Daniele Autieri. Una prova della pervasività delle organizzazioni criminali nella "cosa pubblica" risale al 2008 quando l'Atac, la società romana del trasporto, vende al Gruppo Ragosta per 43 milioni di euro il palazzo Montemartini di via Volturno. Il palazzo ha un enorme valore storico, essendo la sede peraltro delle terme di Diocleziano, ma questo non ferma l'affare. La transazione viene condotta da Atac Patrimonio, controllata di Atac e allora guidata da Gioacchino Gabbuti (già finito in un'inchiesta della Procura di Roma con l'accusa di riciclaggio). Dall'altra parte del tavolo siedono i Ragosta, famiglia di imprenditori particolarmente influenti nel casertano. Nel 2012 un'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli porta in carcere 47 persone, tra cui proprio i tre fratelli Ragosta. Secondo gli inquirenti, le imprese del gruppo sono cresciute in modo così esponenziale negli ultimi anni grazie ad un'enorme iniezione di denaro liquido di provenienza camorrista. Il salto di qualità viene compiuto nel 2001 quando i Ragosta acquistano le fallite Acciaierie del Sud. Gli assegni circolari di 4 miliardi e 683 milioni di lire che servono per la cauzione vengono emessi da una società costituita appena tre giorni prima e coperti da una società di diritto lussemburghese, la Immobilfin SA. Le indagini della Dda dimostreranno che la Immobilfin SA è direttamente riconducibile a Raffaele Ragosta e alla moglie Annamaria Iovino e che, tra il 2001 e il 2003, la finanziaria pompa nelle società italiane del gruppo ben 10,8 milioni di euro. Così l'impero dei Ragosta cresce: arrivano le grandi acquisizioni (come quella del palazzo dell'Atac) e il patrimonio raggiunge le 477 unità immobiliari per un valore stimato di un miliardo di euro. 

'Ndrangheta, la mafia dei cinque Continenti di Giuseppe Baldessarro. Vincenzo Macrì lo diceva quando era magistrato alla Direzione nazionale antimafia, una decina di anni fa: "Non vi è continente che possa considerarsi immune dalla presenza della 'ndrangheta". E' lo stesso concetto espresso più volte dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, che ha inseguito i broker delle cosche calabresi in tutto il mondo: "La 'ndrangheta è l'unica mafia presente in tutti e 5 i continenti". E' un dato di fatto, ormai certificato dalle indagini delle polizie internazionali che hanno fotografato gli interessi e il modus operandi delle "famiglie" che, comunque, restano legate alla terra d'origine e alle regole scritte nel cuore dell'Aspromonte. È la Calabria la "mamma" della 'ndrangheta. E questo a prescindere dal fatto che le cosche si siano poi insediate nel resto d'Italia e del Mondo. Per comprenderlo basta leggere le carte della recente operazione "Aemilia" della Dda di Bologna e la tranche catanzarese delle stessa inchiesta. A Reggio Emilia i "Grande-Aracri" avevano messo basi solide, ma è nella provincia di Crotone che i boss avevano le loro radici. In Emilia Romagna prendevano gli appalti, aprivano attività commerciali, gestivano gli affari e i traffici, tenevano relazioni con il mondo della politica e dell'economia, ma il modello esportato era sempre esattamente quello calabrese. E' questa la peculiarità dei gruppi criminali calabresi, sono in grado di riproporre ovunque un insieme di leggi non scritte e cultura della violenta. Ovunque significa in Italia, in Europa, e nel resto del mondo, dove cellule calabresi si sono trasferite inizialmente al seguito delle rotte dell'emigrazione e, più di recente, dei flussi economico-finanziari. Basta scorrere le relazioni annuali della Dna o delle polizie estere per scoprire che, solo per fare qualche esempio, in Germani da anni ci sono i Nirta, gli Strangio, i Pelle e i Vottari di San Luca. Opure che rappresentanti delle cosche sono attivi in Belgio e Olanda. Che in passato le 'ndrine facevano traffico di Armi con l'Ira in Gran Bretagna e che nella city di Londra, dice sempre Gratteri, "riciclano montagne di denaro sporco". La Francia e la Spagna sono da sempre considerati oasi di pace per boss latitanti e, ancora oggi, piattaforme per il traffico di cocaina. Persino la Svizzera, racconta il pentito Emilio Di Giovine, è terra per far sparire i soldi della droga e per chiudere affari sulle armi. Ma non c'è solo l'Europa. La 'ndrangheta si è già insediata stabilmente in tutti i continenti. In Australia ad esempio, la presenza della 'ndrangheta è radicata ormai da un secolo.  Esistono mappe dettagliate che spiegano come ad Adelaide, nella parte meridionale dell'Australia, siano presenti una dozzina di 'ndrine che fanno riferimento alla provincia di Reggio Calabria. I cognomi sono quelli dei Sergi, dei Barbaro, dei Perre, dei Romeo e dei Piromalli. E ancora quelli dei Polimeni e dei Papalia. A Sidney la famiglia più potente era quella degli Alvaro, mentre nel Nuovo Galles del Sud, e precisamente a Griffith, vengono indicate come potentissime le famiglie di origine "platiota", ossia di Platì nella Locride. Stessa storia per Camberra, Melbourne o Perth, in ogni città c'è una locale di 'ndrangheta. Non meno potenti le "famiglie" calabresi in Canada. Ai primi del novecento quando non si parlava neppure di 'ndrangheta, ma di "mano nera", a incutere rispetto c'erano "uomini d'onore" come Giuseppe "Joe" Musolino e Rocco Perri. Negli anni '50 arrivarono poi i soldati, gli sgarristi e i padrini della cosca guidata da Antonio Macrì e da Michele Racco, detto Mike. Identico il destino delle città del Nord America, come New York, dove già negli anni '60 le cosche calabresi si riunivano in "circolo formato" per spartirsi il territorio di alcuni quartieri della città. Ci sono poi intere colonie di calabresi anche nell'America del Sud. Brasile, Venezuela e Argentina hanno accolto per decenni migliaia di emigranti, al seguito dei quali sono anche arrivate le famiglie di 'ndrangheta. Ci sono poi paesi come la Colombia dove la 'ndrangheta ha trasferito decine di broker mandati a trattare direttamente con i narcos della coca. Il più noto di tutti è certamente Roberto Pannunzi, detto "Bebè" che aveva rapporti stabili con Salvatore Mancuso, di origini campane e  già capo indiscusso delle Auc (le forze di autodifesa colombiane). Entrambi, oggi in galera, erano trafficanti di droga capaci di muovere tonnellate di "roba" ogni settimana. Lo raccontano, ad esempio, storiche maxi inchieste della Dda di Reggio Calabria note con i nomi di "Igres" (Sergi, scritto al contrario), "Decollo", "Marcos" o "Stupor Mundi". Non manca l'appello l'Africa, il Medio Oriente e quasi tutti gli stati dell'ex blocco sovietico. In Urss i clan ci sono arrivati sono per entrare nel traffico di armi e nelle speculazioni edilizie (soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino). E' successo così in Romania e Ucraina. A questo proposito esiste un'intercettazione ambientale del 1991 in cui un boss, che non fu possibile identificare, ordinava ad un suo investitore di spostarsi all'Est: "Compra, compra tutto quello che puoi, compra tutto, non mi interessa cosa, basta che compri". In altri casi, come per il Libano, i clan vi operano nel ruolo di acquirenti di hashish ed eroina. Oggi, in molti continenti sono stabilmente insediate le seconde e terze generazioni di calabresi. Tra di esse si mimetizzano famiglie di 'ndrangheta che non hanno alcuna difficoltà a riprodurre il loro modello, ritenuto universalmente criminalmente il più longevo. Giovanotti che parlano solo dialetto e inglese. Regole vecchie e tecnologie moderne formano insomma un mix che consente ai clan di fare affari d'oro in mille settori. La droga innanzitutto, da dove arriva gran parte della ricchezza e il denaro da reinvestire giocando in borsa o entrando nei business legali. All'estero la nuova generazione di 'ndranghetisti è identica alla vecchia nella mentalità e cultura criminale, ma assolutamente nuova ed mobile nel modo di fare affari. Negli ambienti investigativi, li chiamano gli uomini delle due valigette: in una ci tengono il codice delle 'ndrine e la calibro 38. Nell'altra il denaro contante e i contratti milionari.

La "Linea del pioppo" di Attilio Bolzoni. Pensando alla mafia che ormai è dappertutto è ovvio che ci venga in mente Leonardo Sciascia e la sua "linea della palma". Come ricorderete, verso la metà degli anni Settanta del secolo scorso, lo scrittore siciliano parlò della "linea della palma" ("Forse tutta l'Italia va diventando Sicilia.. gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il Nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno.. ed è ormai già oltre Roma") utilizzandola come metafora della "mafiosizzazione" dell'intera Italia. Sciascia ne capiva molto di mafia, avendola respirata nella sua Racalmuto e nei feudi intorno. E ne capiva molto anche della nostra Italia, intuendo l'avvelenamento che il Paese avrebbe inesorabilmente subito. Sono passati quarant'anni e - se possiamo permetterci un paradosso - oggi non sarebbe poi tanto stravagante parlare della "linea del pioppo" o della "linea del salice", tipiche piante della Padania e dintorni. E ci piacerebbe anche - usando logore frasi come "se abbassiamo la guardia", se "non raccogliamo l'allarme", se "non interveniamo per tempo" - lanciare una provocazione: state (stiamo) tutti attenti, perché se continua così tra qualche anno ci ritroveremo boss e capi mandamento o "santisti" e Cupole di varie dimensioni e forme anche in Sicilia, Calabria e Campania. C'è questo rischio: c'è il pericolo che le mafie prima o poi invadano tutto il Sud per continuare l'opera: depredare quel poco che hanno lasciato prima di spolpare definitivamente il "loro" Nord. Due Italie lontane. Questa premessa mi è venuta quasi spontanea rileggendo le cronache degli ultimi giorni. Quelle dell'imprenditore di Corleone che ha confessato ai carabinieri della locale caserma di avere subito il pizzo e rivelando i nomi dei suoi aguzzini, quelle della grande retata in un'Emilia Romagna infestata dal malaffare mafioso. Due Italie lontane, molto lontane in questo inizio di 2015. A Corleone il muro dell'omertà si è infranto per la prima volta, in Emilia Romagna nessuno ancora se la sente di parlare. Anzi, peggio: tutti rimuovono, tutti che fanno finta di cadere dal pero. I più coraggiosi si spingono a denunciare l'"infiltrazione", parola secondo noi da abolire dal vocabolario delle mafie al Nord. Infiltrarsi significa penetrare in un luogo senza che gli abitanti stessi di quel luogo se ne siano mai accorti, come presi alla sprovvista, alle spalle. In realtà nelle regioni settentrionali sarebbe meglio parlare di "radicamento", di espansione avvenuta con complicità e favoreggiamenti soprattutto locali. E ciò sta accadendo non da ieri o da ieri l'altro ma dal lontano 1963, data in cui - in quell'anno a Palermo ci fu la strage di Ciaculli, cinque carabinieri e due artificieri dell'Esercito saltati in aria davanti a una Giulietta imbottita di tritolo mentre in città infuriava la guerra fra le cosche - il ministro dell'Interno del tempo, Mariano Rumor, ebbe la felice intuizione di far trasferire fra Veneto, Emilia e Lombardia qualche centinaio di "sospetti mafiosi" (l'istituto del soggiorno obbligato, il famoso confino di polizia) esportando mezza Commissione di Cosa Nostra lontano dall'isola e aprendo la strada alla tanto sbandierata "infiltrazione" mafiosa al Nord. Sì, è vero, si sono "infiltrati" tranquillamente da più di mezzo secolo e da mezzo secolo tutti li considerano semplicemente "infiltrati". Questo è il problema. Ogni qualvolta un'indagine giudiziaria o un'inchiesta giornalistica (vedi Giovanni Tizian in Emilia, vedi Lirio Abbate a Roma) svela la loro forza anche là sopra, tutti si meravigliano come se avessero scoperto il giorno prima - e per caso - gli uomini cattivi che si arricchiscono o minacciano qualcuno nel cortile di casa loro. Come appunto in Emilia Romagna, dove il presidente della Regione Stefano Bonaccini il 26 gennaio, prima prendeva le distanze dalle denunce di don Luigi Ciotti sulla "mafiosità" di certi metodi contro il sindaco di San Lazzaro Isabella Conti, e poi - in generale, molto in generale - sosteneva che "per un periodo, magari in buona fede, al Nord non si è voluto vedere il fenomeno mafioso.. ma qui c'è l'anticorpo per potere sconfiggere questo vero e proprio cancro, che fa male a tutti". Gli "anticorpi". Li abbiamo visti quegli "anticorpi" nella recentissima operazione dell'Arma dei carabinieri, affari sul dopo terremoto, voto di scambio, patti tra 'ndranghetisti camuffati da imprenditori e costruttori locali, il business dei rifiuti speciali, sindaci, prelati e giudici nella ragnatela del boss Nicolino detto "Manuzza", appalti pilotati e tanto altro ancora che prima o poi verrà allo scoperto. E poi, cosa intende "per un periodo", il presidente della Regione Emilia? Lo sa quando è arrivato Giacomo Riina (lo zio del capo dei capi di Cosa Nostra) a Budrio, ventitré chilometri da Bologna? Nel 1967. Sposato con una sorella di Luciano Liggio, aveva scelto un piccolo comune alle porte di Bologna come suo quartiere generale. Dal 1967, un periodo lungo, molto lungo. E' sempre una "sorpresa" ritrovarsi la mafia fra i piedi. E di certo non solo in Emilia. Basta ricordare tutti quei sindaci e quegli amministratori da Roma in su, quei prefetti (memorabile la battuta negazionista del rappresentante di governo di Milano di qualche anno fa), quei magistrati distratti o privi di una specifica competenza in materia antimafia, un paio di ministri dell'Interno di qualche governo fa, soprattutto di milioni e milioni di italiani sicuri e convinti che mafia e mafiosi - ancora oggi - siano "patrimonio" di un altro Paese. Solo verso sud, da Napoli fino a Trapani. Non c'è consapevolezza, non c'è coscienza. E c'è anche un po' di tornaconto. Prendiamo come altro esempio la vicenda di Mafia Capitale. Possibile che quasi nessuno si sia mai accorto delle scorrerie de Er Cecato e della sua banda (con amici non solo in Comune ma in tutto il sottobosco politico, non solo nelle zone tradizionalmente criminali della città ma con agganci ministeriali) prima dell'arrivo dei procuratori Pignatone e Prestipino e di un gruppo di carabinieri che venivano dalla Sicilia e dalla Calabria? Vi sembra normale che uno come Er Cecato sia andato liberamente in giro per Roma per così tanto tempo e così indisturbato? Forse qualche complice che l'ha "coperto" ci sarà pure o no? Forse sarà anche arrivata l'ora di ridiscutere tutti insieme cos'è mafia e cosa non è mafia. A meno che, da Roma (compresa) in su, non si voglia condividere il pensiero di Giuseppe Pitrè, illustre letterato e antropologo di fine '800. Quello che sosteneva che la mafia "non era una setta né un'associazione a delinquere". Ma uno stato d'animo. Dei siciliani, solo dei siciliani.

IL BUSINESS DEI BEI SEQUESTRATI E CONFISCATI.

La mafia dell’antimafia. Il business dei beni sequestrati e confiscati. Come si vampirizzano le aziende sane. «L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.»

Il 3 febbraio 2015, nel suo primo discorso di insediamento da Capo dello Stato, Sergio Mattarella ha parlato di lotta alla criminalità organizzata e di corruzione.  "La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute", ha detto nel suo discorso di insediamento. "La corruzione - ha aggiunto - ha raggiunto un livello inaccettabile, divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini, impedisce la corretta espressione delle regole del mercato, favorisce le consorterie e danneggia i meritevoli e i capaci". Il capo dello stato ha citato le "parole severe" di Papa Francesco contro i corrotti, "uomini di buone maniere ma di cattive abitudini". Ed ha sottolineato quanto sia "allarmante la diffusione delle mafie in regioni storicamente immuni. La mafia è un cancro pervasivo, distrugge speranze, calpesta diritti". A giudizio del presidente Mattarella occorre "incoraggiare l'azione della magistratura e delle forze dell'ordine, che spesso a rischio della vita si battono per contrastare la criminalità organizzata. Nella lotta alle mafie - ha ricordato cedendo per un attimo alla commozione - abbiamo avuto molti eroi, penso a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per sconfiggere la mafia occorre una moltitudine di persone oneste competenti tenaci e una dirigenza politica e amministrativa capace di compiere il proprio dovere verso la comunità". Ad ascoltare Mattarella a Montecitorio c'erano il presidente della Regione Rosario Crocetta e il sindaco Leoluca Orlando, che proprio di Falcone era acerrimo nemico.

Molti altri lo hanno ascoltato a Montecitorio: persone oneste e meno oneste. Tra le persone oneste folta schiera è nel centro sinistra: quasi tutti o tutti. Fiancheggiatori della giustizia e della legalità o vittime o parenti di vittime della mafia. Se non lo sono, vale lo stesso. Nel centro destra, poi, son tutti mafiosi (a prescindere). Certo è questo quel che si vuol far intendere. Ma a destra non se ne curano. Basta loro adoperarsi per gli interessi del loro capo. I magistrati, poi, sono gli innominati di manzoniana memoria. Loro sì onesti per davvero, perchè la gente comune non lo sa, ma i magistrati non hanno nulla da spartire con i comuni mortali, perchè loro, i magistrati, vengon da Marte.

Dopo l'elezione di Sergio Mattarella a Capo dello Stato, su Facebook la politica si scatena nei commenti, scrive “Libero Quotidiano” ed “Il Giornale”. Qualcuno non condivide l'elezione come fa Matteo Salvini, ma qualcun altro tra i grillini (che hanno votato Imposimato), ha attaccato il neo-presidente in modo duro. A farlo è Riccardo Nuti che afferma: "Lodare Mattarella come antimafia perché il fratello fu ucciso dalla mafia è falso e ipocrita perché allora bisognerebbe dire anche che il padre era vicino alla mafia". Lo scrive su Facebook il deputato M5s, che aggiunge: "Ma se è vero che gli errori dei genitori non possono ricadere sui figli, allora non possono essere utilizzate altre vicende dei parenti in base alla propria convenienza. L'uccisione di un parente da parte della mafia (i motivi possono essere tanti e diversi fra loro) non da nessun bollino di garanzia di lotta alla mafia". Un commento che di certo farà discutere. 

L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.» Non lo dice Don Ciotti, presidente nazionale di “Libera”, anche perché non oserebbe mai, ci vorrebbe pure. Lo afferma categoricamente il dr Antonio Giangrande, noto scrittore e sociologo storico e fine conoscitore del fenomeno della Mafia, della Massoneria e delle Lobbies e della Caste, oltreché presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Ed è tutto dire. Io sono il presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Sodalizio antiracket ed antiusura riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione iscritta presso la Prefettura di Taranto. Per le problematiche sociali affrontate, siamo l’associazione madre di tutte le associazioni tematiche e territoriali, così come riporta il nostro sito web. Se qualcuno ha un problema me lo segnala. Non ho il potere di risolverlo, (nessuno può) ma di elevarlo agli onori della cronaca, sì. Io sono il Don Ciotti della mia associazione, per intenderci. Però abbiamo un difetto. Io ho un difetto: non sono comunista e non santifico i magistrati. Per questo i media ci ignorano. Ma non i cittadini. Prova a mettere su google il mio nome e vedrai quanti parlano di me. Ho pochi amici su Facebook e sul gruppo associazione contro tutte le mafie, perché dopo un po’ di tempo cancello gli amici o gli iscritti, quando verifico che hanno sbagliato amico o gruppo. Noi siamo diversi e ce ne vantiamo. Ogniqualvolta mi hanno interpellato, le vittime hanno preteso la soluzione. Mai una volta che abbiano offerto il loro appoggio, il loro sostegno. Non ho potere, ne sono sostenuto da alcuno e pure i coglioni mi dicono: che ci stò a fare. A prendere le ritorsioni dei magistrati che tentano in ogni modo di tacitarmi. Ogni volta che qualcuno si è confrontato con me per forza di cose voleva alzare la sua bandiera ed il suo nome, per un interesse personale. Gli onori a lui, le rogne a me. Le lotte si portano avanti insieme e non per la propria guerra. E’ un tallone di Achille parlare di sé. Si sarà sempre additati di mitomania o pazzia o di interesse personale. Pensi che qualcuno abbia pensato a me per competenza, capacità, esperienza e coraggio per portare avanti in Parlamento le aspettative del popolo. No. Pur incapaci son tutti pronti ad ante mettersi. Io parlare di voi o di altri e come se parlassi per me. Ma parlo di voi e ne sono contento. Perché è come se fossi uno di voi. Quest’ultima inchiesta è pubblicata su 500 siti web di portali di informazione a me collegati in tutta Italia. Pensi che ciò non basti a dare spazio alla tua storia, che non è la tua: è di mille come te? Pensi che lo abbia fatto per un interesse personale e che abbia chiesto a qualcuno un compenso? Quindi non serve avere una associazione in più, ma basta avere la consapevolezza di avere una guida o di avere uno strumento che porti ad un risultato. E mi dispiace dirlo, sarà solo quello di aver fatto conoscere la propria storia e non sarà quello di avere giustizia in questa Italia e con questi italiani. Segui me, vediamo fin dove arriviamo, perché il mio cammino è iniziato 20 anni fa. Io son Antonio Giangrande e basta questo basta. Pensa a Berlusconi: se è successo a lui, e non è stato capace di difendersi, figuriamoci ai poveri cristi. C'è qualcosa da fare: far conoscere la verità a tutti ed in tutti i modi. Solo quello ci rimane da fare. I miei siti web. I miei canali youtube. La mia tv web. I miei libri. Sono tutti strumenti di divulgazione che fanno male al sistema e ciò serve a cambiarlo. Come azione politica noi combattiamo, oltre che per cambiare il sistema, anche per una proposta concreta: il difensore civico giudiziario a tutela del cittadino che abbia i poteri del magistrato ma che non sia uno di essi: corporativo ed amicale. Questo sì che cambierebbe le cose in fatto di garanzia per le vittime di giustizia.

L’antimafia non combatte i mafiosi. Il suo intento è osannare i magistrati (i Pubblici Ministeri in particolare) per asservirli ai loro fini. Ossia: eliminare i rivali politici (avete mai visto qualcuno di sinistra condannato per mafia o per il reato inventato dai magistrati quale l’associazione o la partecipazione esterna alla mafia?) e sfruttare economicamente i beni sequestrati ed espropriati, spesso ingiustamente.

L’Antimafia: o si è con loro, o si è contro di loro. Ti chiami Giangrande o Sciascia uguale è. E’ inutile rivolgersi ai parlamentari per ottenere giustizia. Molti sono genuflessi alla magistratura, qualcuno è colluso, tanti sono ricattati o sono ignavi. La poltrona vale qualsiasi lotta di civiltà. Per questo nessuno di loro merita il voto degli italiani veri.

Ecco allora che nasce impettito il fenomeno mediatico dell’invasione virulenta della mafia in tutta Italia. L’Italia all’estero è una nazione ormai infetta. Non è più la Sicilia martoriata da Cosa Nostra o dalla Stidda, con vittime illustri uccise dai boss (dello Stato), o non è più la Calabria martirizzata dalla ‘Ndrangheta, o non è più la Campania tormentata dalla Camorra. Oggi l’Italia per i magistrati è tutta una mafia. E gli intellettuali di sinistra ci marciano. Ed all’estero ringraziano per il degrado del Made in Italy. Fa niente se prima l'illegalità diffusa si chiamava tangentopoli e guarda caso i comunisti non son stati colpiti. Oggi nel fenomeno criminogeno (sempre di destra, sia mai) ci sono di mezzo siciliani, napoletani e calabresi: allora è mafia!

L’antimafia per creare consenso e proselitismo monta campagne stampa di sensibilizzazione che incitano le vittime a denunciare. “DENUNCIA IL RACKET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito.

Le vittime, diventate testimoni di giustizia, successivamente sono abbandonate al loro destino, che porta questi a pentirsi ed a  rinnegare quanto fin lì fatto. Esemplari sono le testimonianze da tutta Italia tra i tanti di: FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

A cosa porta per davvero l'interesse dell'Antimafia se non tutelare le vittime dell'estorsione e dell'usura, così come propinata?

Il fenomeno taciuto è la gestione dei beni sequestrati, prima, e confiscati, poi. Per capire bene il fenomeno di cui si crede di essere unica vittima bisogna andare al di là di quello che si conosce.

I beni di sospetta leicità sono sequestrati con un provvedimento giudiziario come misura di prevenzione ed eventualmente confiscati con successiva pena accessoria in sentenza, che spesso non arriva. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Ma no è così.

I beni sotto tutela sono appetibili da tutti coloro che agiscono all’interno del sistema. Apparato non accessibile a tutti.

Firma l'appello: "Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra", si legge sul sito web di "Libera". "Cosa nostra"? Mi sembra di aver già sentito da altri lidi questa affermazione. "Cosa vostra"? Con quale diritto?

"Attorno ai beni confiscati e all’assegnazione di essi si può sviluppare l’unica vera opportunità per coinvolgere attivamente la società civile nella lotta alle mafie, portandola al suo esito più elevato: quello di estirpare culturalmente il fenomeno mafioso sul territorio a cominciare dal riuso di beni confiscati che devono essere effettivamente restituiti alla collettività", si legge su vari siti web di associazioni e comitati fiancheggiatori di "Libera" e della CGIL.

Una espropriazione proletaria nel nome dell’antimafia? Una buona trovata.

Rock e sociale incrociano le loro strade in Il silenzio è dolo. Il brano è di Marco Ligabue e si intitola "Il silenzio è dolo". Marco Ligabue l'ha scritta quando ha scoperto la storia del contestato sorteggio con cui sono stati "selezionati" gli scrutatori per le recenti elezioni europee nei seggi di Villabate, in Sicilia. L'iniziativa è stata presentata a Montecitorio e ha riscosso l'appoggio del presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati Nino Di Matteo, convinto che "la mafia ha sempre prosperato nel silenzio, i mafiosi vogliono che di mafia non si parli". Della selezione e dell'operato degli scrutatori e dei presidenti di seggio, uguale in tutta Italia, sorvoliamo, anche perché è cosa di sinistra, ma attenzioniamo un fatto. I Parlamentari e l'associazione Nazionale Magistrati non hanno posto uguale attenzione all'appello di Pino Maniaci. Ed i media neppure.

«Mafia dell’Antimafia: l'inchiesta di Telejato audita in Parlamento - scrive Pino Maniaci - C’è ancora un business di cui non si parla, un business di milioni di euro. Il business dell’Antimafia. Quattro mesi dopo il brutale assassinio di Pio La Torre, nel 1982, viene approvata la legge Rognoni-La Torre, che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato aveva le armi per attaccare gli ingenti patrimoni mafiosi. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità. Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono l'uno dopo l’altro. Il 90% di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. A non essere rispettata e ad aver bisogno di una riforma strutturale è la Legislazione Antimafia - Vittime della mafia e relativo Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. I beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40%. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un business di circa 30 miliardi di euro, solo qui a Palermo. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Questa fase di sequestro secondo la legge modificata nel 2011 non deve superare i 6 mesi, rinnovabile al massimo di altri 6, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se il bene è pulito viene restituito al precedente proprietario. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempistiche. In media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti che è stato costituito nel gennaio 2014 per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. E non per capacità, perché la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro. Anche se poi vengono dichiarati esterni alla vicenda e gli imputati assolti da tutte le accuse. Telejato, la piccola emittente televisiva comunitaria siciliana che gestisco dal 1999 e che da allora non ha mai smesso di denunciare e lottare contro la mafia, ha sede a Partinico e copre un bacino d’utenza caratterizzato storicamente da una forte presenza mafiosa. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro, è abbastanza consolidata, e ci si ritrova con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, che sia di confisca o di dissequestro. Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le - forse volute - incapacità del sistema. Posso fare nomi, esempi, citare numeri e casi. Chiedo alla Commissione Antimafia di essere audito per esporre questa inchiesta che stiamo portando avanti a Telejato, con notevole fatica, perchè non abbiamo nessuno al nostro fianco».

Il business dell'Antimafia. Conoscete Cavallari, il re mida della sanità? A bari si son fottuto tutto di questo signore. Tutte le sue cliniche private. Per i magistrati era mafioso perchè era associato con sè stesso. E poi come si dice, alla mano alla mano…Ossia conoscere altre storie similari ma non riuscire a cambiare le cose?!? Perché ognuno pensa per sé. Una voce è una voce; tante voci sono un boato che scuote. Peccato che ognuno pensa per sé e non c’è boato. Basterebbe unirsi e fare forza.

Si prosegue con Matteo Viviani, che raccoglie la testimonianza  di una famiglia siciliana di imprenditori: Mafia, antimafia e aziende che affondano. I Cavallotti hanno subito estorsioni dal braccio destro di Provenzano, irruzioni armate in casa, finendo poi in galera per aver pagato il pizzo. Erano glia anni di Cosa Nostra, spiegano, e tutti pagavano il pizzo. Nonostante dopo anni di processo sia stato appurato che i Cavallotti non siano mafiosi, continuano a non poter gestire la loro azienda. L'amministratore che se ne sarebbe dovuto occupare infatti, ha effettuato operazioni di vendita poco chiare di cui, alla fine, ha beneficiato economicamente. Viviani lo raggiunge, ma lui non dà risposte. Il 29 gennaio 2015 è andato in onda Italia Uno, nel corso della trasmissione “Le Iene” un lungo e documentato servizio sui fratelli Cavallotti, su come chi dovrebbe rappresentare lo Stato abbia distrutto un’azienda florida che dava lavoro a circa 200 dipendenti e su come questa vicenda, che ormai si protrae da 16 anni, malgrado le assoluzioni del tribunale e la riconosciuta estraneità dei fratelli Cavallotti a qualsiasi  forma di collusione mafiosa, per decisione dell’ineffabile magistrato che dirige l’Ufficio Misure di Prevenzione di Palermo, ancora continua, scrive Salvo Vitale. I dati e i contatti con l’azienda sono stati forniti in gran parte da Telejato. Vista la complessità dell’inchiesta che l’emittente conduce da tempo, lo staff delle Iene ha deciso, per il momento di affrontare solo un’impresa, quella dei Cavallotti, ma riservandosi di portare all’attenzione  le altre malversazioni che, su questo campo, sono consumate in nome e con l’avallo dello Stato.  Davvero meschina e al di là di ogni umano senso di dignità la figura dell’ ex amministratore giudiziario, che non ha saputo dare spiegazioni delle sue malversazioni e delle false fatturazioni girate a un’azienda del fratello. In pratica abbiamo assistito in diretta alle prove dimostrate di come si commette un reato, con l’avallo dei magistrati delle misure di prevenzione e come, chi dovrebbe rappresentare lo Stato e tenere in piedi le aziende che gli sono state affidate, fa di tutto per distruggerle ai fini di un  utile personale. Le riprese di un’azienda con i mezzi di lavoro arrugginiti, abbandonati, con i capannoni spogli, non possono che generare tristezza. Come succede in Italia, non succede niente, anzi, se succede qualcosa, succede per danneggiare chi chiede giustizia. Come nel caso dell’ultimo recentissimo  sequestro operato ai figli dei Cavallotti, che cercavano di raccogliere i cocci dell’azienda. Questo è quello che la redazione di Telejato  vorrebbe andare a dire alla Commissione Antimafia, se questa si decidesse di tenere conto della richiesta di ascoltarla, già sottoscritta da 40 mila cittadini.

Ma per la Commissione Antimafia la mafia è tutt’altra cosa…

La differenza tutta politica tra il 1992 e adesso sta nei numeri che ho dato prima. Il sistema politico è esangue. E neppure il grillismo è riuscito a trasfondervi qualcosa. Il sistema politico è stretto nella tenaglia tra il renzismo (che, va ricordato, non ha mai avuto alcun suffragio elettorale) e l’astensionismo ormai dilagante. Paragonate l’affluenza in Emilia Romagna nel 1992 (per la Camera, Circoscrizione Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì: 94,44 per cento; Circoscrizione Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia: 92, 99 per cento) con il misero 37,7 per cento delle regionali del 2014, e si capisce di cosa stia parlando. Gli italiani, soliti ignavi, non lo dicono, ma dimostrano il loro odio e disprezzo, o comunque il loro distacco dalla politica contemporanea che viene da lontano con l’astensionismo od altre forme di protesta. La politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari. Secondo Renato Mannheimer su “Il Corriere della Sera” la politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari, dico io, proprio perché interessati dai favori richiesti e ricevuti. I risultati delle ultime amministrative hanno dato una scossa violenta alla vita dei partiti. L'elevato tasso di astensione, il gran numero di schede bianche e nulle (di cui troppo poco si è parlato) e il successo di un movimento antipartitico come la lista 5 stelle hanno mostrato tutta la debolezza delle forze politiche tradizionali nell'opinione pubblica italiana. D'altra parte, questo scarso appeal dei partiti era già stato indicato dalle ricerche che mostravano il decrescere progressivo del grado di fiducia nei loro confronti. La sfiducia verso i partiti si inquadra in un più generale trend di disaffezione da tutte le principali istituzioni politiche, anch'esso accentuatasi negli ultimi anni. L'indice sintetico di fiducia per le istituzioni politiche elaborato da Ispo (che misura, attraverso un algoritmo statistico, il consenso verso diverse istituzioni, dall'Ue al Parlamento, al Governo, fino al presidente della Repubblica) mostra al riguardo un calo drastico al valore del 25,5 di oggi. Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere. Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……

Ma non solo la politica paga fio. Non si fidano della magistratura 2 italiani su 3, scrive Errico Novi su "Il Garantista". E’ un crollo. Il tasso di fiducia nei magistrati passa dal 41,4% di un anno fa ad appena il 28,8%. Lo dice il Rapporto 2015 dell’Eurispes, presentato ieri a Roma dal presidente dell’istituto Gian Maria Fara. Che definisce il dato su giudici e pm «preoccupante e inatteso». Di fatto quello della magistratura è il potere che perde maggiori consensi: più del 30% di quelli che già aveva. Il governo è messo male, il dato della fiducia è al 18,9%, eppure è in lieve crescita rispetto a un anno fa. Il che autorizza a credere che nella lite tra le toghe e l’esecutivo sul taglio delle ferie, i cittadini parteggino decisamente per quest’ultimo. I dati rischiano di galvanizzare Renzi. Soprattutto nella sua guerra a distanza con i magistrati. Secondo il Rapporto Italia 2015 dell’Eurispes la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni tende al ribasso. Ma se si va nel dettaglio, le cose si mettono davvero malissimo per la magistratura, che ha un tasso di consenso ridotto ormai al 28,8% e diminuito nel giro di un anno di ben 12,6 punti percentuali (nel 2014 era dunque al 41,4%, tutta un’altra cosa). Il governo come istituzione nel suo complesso ha un punteggio da incubo, sta al 18,9%. Ma seppur di qualche decimale, e in un clima di generale scoramento, è in salita. Non che ci sia da festeggiare visti i numeri, ma insomma il presidente del Consiglio potrebbe dedurne che gli italiani parteggiano più per lui che per le toghe, nella contesa sul taglio delle ferie. Interpretazioni a parte, le statistiche presentate ieri alla Biblioteca Nazionale di Roma da Gian Maria Fara, che dell’Eurispes è presidente, fanno impressione. Il giudizio degli italiani nei confronti delle istituzioni resta complessivamente negativo, il 69,4% dice di riporvi minore fiducia che in passato. E questo in un quadro complessivo di certezze sempre più scarse, di valutazioni molto critiche nei confronti dell’Unione europea e della moneta unica e in un generale clima di oppressione percepita nei confronti di fisco e burocrazia. Nulla di sorprendente, però. Tranne il dato sui magistrati. Che tracollano in modo davvero verticale – di fatto perdono oltre il 30% dei consensi che avevano – nonostante il grande impatto mediatico di inchieste come quella su Mafia Capitale. E’ la pietra tombale sul ricordo stesso della stagione di Mani pulite. Un cambio di paradigma che tra l’altro è stato ampiamente rappresentato pochi giorni fa all’inaugurazione dell’anno giudiziario dal primo presidente della Cassazione, Giorgio Santacroce, proprio con il riferimento alla golden age di Tangentopoli. Nella sua esposizione pubblica Fara non si dilunga granché sul dato. Si limita a definirlo «preoccupante e inatteso». E a proporlo anche in versione capovolta: «La quota di cittadini che non ripongono fiducia nella magistratura è passata dal 54,8% del Rapporto 2014 al 68,6% dell’ultimo rilevamento». Il clima del Paese non è certo colorato di rosa, dice lo studio presentato. Gli aspetti patologici da rimuovere in fretta sarebbero la pervasività della burocrazia e le tasse asfissianti. Soprattutto il primo elemento potrebbe indurre il sospetto che il crollo della magistratura nell’indice di gradimento degli italiani sia parte di una più generale ripulsa nei confronti di tutto ciò che è apparato e potere pubblico. E invece non è così. Niente da fare, le toghe non possono aggrapparsi neppure a questo. Perché nonostante l’analisi del presidente Fara parta da quello che lui chiama il «Grande Fardello» degli adempimenti infiniti e del fisco, la fiducia nei confronti della pubblica amministrazione non è in calo, anzi: è in clamorosa ascesa, fa registrare un +18,1% e si risolleva così da un dato precedente molto basso, fino a raggiungere il 39,1%. Meglio i travet e gli impiegati, meglio i ministeriali di giudici e pm. Chi l’avrebbe mai detto. Persino i partiti si riprendono un po’ (arrivano al 15.1% con un significativo +8,6% rispetto a un an anno fa), addirittura i vituperatissimi sindacati hanno consensi più che doppi rispetto alle forze politiche (tasso di fiducia al 33,9%, con un +14,7). La magistratura niente, è così penalizzata dalla ricerca dell’Eurispes da far pensare a un rancore profondo, diffuso, quasi a una voglia di fargliela pagare. Figurarsi se davvero insisteranno con il piagnisteo per quei 15 giorni su 45 di vacanza in meno.

Tutto il potere alle toghe. Dai la parola all’imputato? Favoreggiamento, scrive Guido Scarpino su "Il Garantista". Da 17 anni scrivo sui giornali e denuncio la mafia. Mi hanno anche bruciato la macchina e minacciato. Mi è capitato poi di dare diritto di replica agli imputati. Per esempio a un certo Serpa. Perché lo ho fatto? Perchè vivo – o così credo – in uno stato di diritto. Non è che se uno è accusato di un reato mafioso perde il dirtto a difendersi, no?. E invece un Pm, durante la requisitoria, se l’è presa con quei giornalisti che danno la parola ai boss e di conseguenza «favoreggiano la mafia…» Il diritto di replica può essere concesso anche ad un boss di ‘ndrangheta in semilibertà o ad un presunto “capoclan” a piede libero? E’ una domanda, a mio avviso superflua - soprattutto se posta dal cronista di un giornale che si chiama il Garantista – che pongo a me stesso dopo aver udito la requisitoria di un pubblico ministero antimafia, svoltasi a Paola, in provincia di Cosenza, che, bontà sua, ha distribuito bacchettate a destra e a manca: ai politici, ai parlamentari e finanche – mi chiedo cosa ci sia dietro – al “solito articolista”, che avrebbe condotto una “attività di favoreggiamento” per aver offerto il diritto di replica. In un clima di omertà e condizionamento denunciato dal pm, mi sarei atteso, dallo stesso pm, quanto meno nomi e cognomi. Tuttavia, ciò non è accaduto, ed il quesito di cui sopra lo pongo a me stesso, anche perché il sottoscritto, in diciassette anni di professione in cui ha documentato quasi quotidianamente le attività delittuose delle cosche tirreniche, nonostante le auto bruciate (la sua auto) e le tante minacce mafiose subite (“spedizioni punitive” sotto casa e proiettili inclusi), ha avuto il buon senso di far parlare, in replica, il boss della cosca Serpa, a quel tempo in semilibertà. Mario Serpa ha infatti contattato, anni addietro, il cronista perché voleva replicare a chi, come il sottoscritto, lo accusava d’aver mandato alcuni parenti – che incutevano terrore facendo il suo nome – a taglieggiare gli esercenti commerciali; anticipava telefonicamente, al giornalista, l’invio di una lettera a sua firma, concordata con l’avvocato Gino Perrotta, che il giornale pubblicò sulle pagine regionali a corredo di un altro pezzo, a dir poco “cattivo”, sempre a firma del sottoscritto, in cui si riportava il curriculum criminale dello stesso boss di Paola. Quella missiva (che non è stata sequestrata, come erroneamente riferito) è stata consegnata, dal sottoscritto, ai carabinieri, dopo essere stata pubblicata. In diciassette anni di attività, dunque, ho fatto parlare Mario Serpa e non credo d’aver “favorito” nessuno. Era un suo diritto parlare, in uno Stato di diritto e dopo centinaia di batoste a mezzo stampa. Peraltro era stato promesso dal detenuto in semilibertà, sempre al sottoscritto, l’invio di un corposo “dossier-confessione” a sua firma, da trattare – era questo l’intento – in una serie di articoli o attraverso la stesura di un libro. Una inchiesta giornalistica che mi avrebbe consentito di raccogliere una importante “verità di parte” da mettere in contrapposizione ai fatti storici ed ai fatti processuali della mala nella provincia di Cosenza.  Poi Mario Serpa venne arrestato e quel dossier venne trovato in carcere e finì – questo sì – sotto sequestro. Ho fatto parlare, poi, Nella Serpa, cugina di Mario e presunta “reggente” della cosca di Paola. Mi ha inviato delle lettere dal carcere che ho pubblicato (due, di cui una in ricordo del suo avvocato, il noto compianto penalista Enzo Lo Giudice), mentre altre tre/quattro missive (credo anche telegrammi), contenenti dure accuse e velate minacce al sottoscritto, non le ho rese note – ma consegnate (e non sequestrate) ai carabinieri quando mi è stata bruciata l’auto – solo perché di scarso interesse pubblico. Ricordo ancora, quando lavoravo a Calabria Ora, di essere stato contattato da un “gancio” per una intervista al boss di Cetraro, Franco Muto, che poi, nonostante la mia piena disponibilità a recarmi in quel di Cetraro, dove sono sempre stato odiato per le innumerevoli pagine da me stilate contro la cosca, non venne mai rilasciata. Ricordo ancora, diversi anni or sono, di essere stato convocato dai carabinieri, su richiesta dello stesso pm, per aver ospitato sulle mie pagine la denuncia di un avvocato penalista (Gino Perrotta) a discolpa di un suo assistito, un aspirante pentito prelevato dal carcere senza autorizzazione per indurlo a contattare telefonicamente i suoi “compari” al fine di raccogliere indizi nell’ambito di indagini antimafia. In questo caso, il magistrato perse mezz’ora del suo prezioso tempo solo per pormi una domanda: “Ma lei con chi sta? Con noi o con loro?”.  Io risposi: “Io sto con me stesso. Faccio il giornalista”. Una risposta che mi portò, poco dopo ad un’altra convocazione, questa volta in caserma a San Lucido – pare sempre su richiesta dello stesso pm - per rispondere sulla fonte di una notizia di cronaca nera apparsa sul mio giornale ed a mia firma. Chiaramente mi rifiutai di fare nomi, ma fornii ai carabinieri (me l’ero portato dietro, perché avevo previsto la mossa del “nemico”) copia di un articolo apparso il giorno prima su un giornale concorrente in cui il giornalista intimo amico di quel pm, pubblicò la stessa notizia, precedendomi, ma lui – il collega – non venne convocato da nessuno. Dunque, dopo migliaia di articoli contro le cosche del Tirreno (ospitando anche tante veline dei “buoni”), dare spazio in replica, con tre articoli, ai “cattivi”, può anche non fare piacere a tutti, ma a me interessa poco proprio perché opinione “interessata”.  Mi sono sempre guardato le spalle dalla ‘ndrangheta e dalla malapolitica ed ho imparato ad essere guardingo anche verso “padroni” in cerca di “servi” e verso quei pochissimi pm che vivono di visibilità ad ogni costo. Dopotutto, se un giornalista che fa parlare un mafioso è accusato – verbalmente, e non certo sulla carta – di essere un “favoreggiatore” (opinione personale non condivisa), un magistrato che acquista consapevolmente una villa abusiva (è la motivazione di un giudice), è uno che non rispetta le regole e non è in condizioni di dare lezioni a nessuno. P.S.: Oggi sono in vena di consigli: non dimenticate di chiedere al neo pentito Adolfo Foggetti chi è il mandante e chi l’esecutore dell’incendio della mia auto. Poi confrontate i nomi con quelli da me forniti al magistrato di Paola.

Ma questi magistrati non sono coerenti.

L'ex pm antimafia Ingroia difende un boss pluriomicida. È il legale del camorrista La Torre, accusato di 40 delitti. Di lui Saviano disse: "È solo uno smargiasso ambiguo", scrive Gianpaolo Iacobini su "Il Giornale". Antonio Ingroia, l'ex pm antimafia che difende un camorrista. Più d'uno è saltato sulla sedia quando il nome del magistrato che dava la caccia ai capi di Cosa Nostra è risuonato nelle aule del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere insieme a quello di Augusto La Torre, fino ai giorni dell'arresto - e pure oltre - boss del clan dei Chiuovi di Mondragone, alleato dei Casalesi ed egemone nell'alto Casertano, nel basso Lazio e lungo la costa domizia tra il 1980 e gli inizi dei Duemila. Davanti ai giudici sammaritani La Torre - che dietro le sbarre s'è laureato in Psicologia - è comparso da testimone nel processo a carico di Mario Landolfi, imputato di corruzione e truffa aggravata dal metodo mafioso per la vicenda d'un consigliere comunale dimessosi, secondo la Procura, in cambio dell'assunzione trimestrale della moglie in una società di servizi. L'ex ministro s'è sempre detto innocente e La Torre, in videoconferenza, ha smentito avesse contatti col clan, ma a far notizia è stata la nomina del nuovo legale del boss psicologo, poi confermata dal portavoce dell'ex procuratore aggiunto. Quello che, all'indomani del giuramento da avvocato, assicurava: «Per coerenza con la mia storia non difenderò né mafiosi né corrotti». E invece alla fine s'è ritrovato al fianco d'un barone del crimine organizzato, condannato in via definitiva a 22 anni per associazione camorristica e ad altri 9 per estorsione aggravata ed a tutt'oggi sotto processo anche per omicidio. La replica: «Nessuna contraddizione: è un collaboratore di giustizia». Insomma, un conto sarebbe difendere i mammasantissima tutti d'un pezzo, un altro assistere mafiosi contriti, anche quando, confidando nell'impunità, confessano i peggiori misfatti. Come La Torre, autoaccusatosi di una quarantina di omicidi, con le vittime crivellate di colpi, gettate nei pozzi di campagna e dilaniate con le bombe a mano, per smembrarne i corpi e lasciarli a marcire sotto acqua e terra. Di sicuro, c'è collaboratore e collaboratore: l'imperatore di Mondragone, detenuto dal 1996, saltò il fosso nel 2003, ma poco dopo la protezione gli fu revocata per un'estorsione. E i Tribunali hanno fin qui preso con le molle le sue dichiarazioni, negandogli sconti di pena, mentre proprio uno degli Ingroia-boys, lo scrittore Roberto Saviano, nel luglio del 2012 ne stroncava l'attendibilità, definendolo su Facebook «un pentito pieno di lati ambigui: smargiasso e feroce, è arrivato a far pentire l'intero clan per ricevere sconti di pena, in cambio della possibilità di uscire tutti dal carcere dopo una manciata di anni e conservare un potere economico legale, avendo ormai demandato il potere militare ad altri. Il boss, pur se pentito, dal carcere dell'Aquila tempo fa chiedeva anche danaro: aggirando i controlli scriveva lettere di ordini e richieste». Avesse ragione Saviano, che a sentire gli ingroiani ha ragione per definizione, è questo il nuovo cliente di Antonio Ingroia, un avvocato che non difende né mafiosi né corrotti. Ipse dixit.

USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.

Magistrati coraggiosi contro le banche cercasi, scrive Enzo Di Frenna su “Il Fatto Quotidiano”. C’è qualcosa di legale in questo meccanismo? A novembre 2011 il presidente della Banca centrale europea, l’italiano Mario Draghi, incontra i vertici di alcune grandi banche – tra cui Goldman Sachs, Morgan Stanley, Barclays Capital– e dopo qualche settimana annuncia prestiti fino a tre anni per le banche europee con l’obiettivo di “ridare fiato all’economia” ed evitare il “credit crunch”, cioè la chiusura dei rubinetti monetari alle piccole e medie imprese. I soldi, in pratica, sono regalati (tasso 1%). Non si ha notizia che Draghi abbia fatto firmare alle banche un contratto che le costringesse ad usare quel denaro per sostenere gli imprenditori. Insomma, una roba del tipo: se li usi per speculare, il tasso passa al 15% e paghi anche una penale. È una soluzione elementare, non ci vuole una laurea in economia per usare una tale precauzione. Invece, cosa succede? Le banche succhiano un torrente di denaro alla Bce – cioè soldi dei cittadini europei – e li usano per speculare e acquistare titoli di Stato, sui cui guadagnano somme elevate. Ecco cosa è accaduto in Italia. Il 21 dicembre 2011 la Bce di Draghi mette a disposizione delle banche italiane 116 miliardi di euro lordi, ma – attenzione – l’incasso netto è intorno ai 60 miliardi. Nell’ultimo bollettino della Banca d’Italia si scopre che tra dicembre 2011 e gennaio 2012 le banche  hanno speso 28 miliardi di euro per acquistare BTP e altri titoli: in soli trenta giorni la loro quota complessiva è passata da 209 a 237 miliardi. Altri 41 miliardi li hanno spesi per acquistare bond e il totale arriva a 69 miliardi di euro. Quindi hanno usato i soldi per speculare e arricchirsi, invece che “ridare fiato all’economia” e aiutare le imprese. Tra febbraio e marzo 2012 si suicidano diversi imprenditori, anche con metodi violenti come darsi alle fiamme. Poi scopriamo che 12 mila aziende hanno chiuso nell’ultimo anno e 50 mila lavoratori sono stati licenziati. Emergono storie di imprenditori a cui le banche hanno chiuso i rubinetti del credito. Michele Santoro a Servizio pubblico, la scorsa settimana ha intervistato Maria Teresa Carlucci, la moglie di un imprenditore suicida a cui la banca ha rifiutato un prestito di 500 euro. Posso aggiungervi che anche un paio di amici – titolari di piccole attività commerciali – mi hanno riferito che sono in gravi difficoltà a cause della stretta creditizia applicata improvvisamente dalle loro banche. Ecco invece un commento copiato dal mio profilo Facebook: “Vedo che la gente è spaventata, che tante attività chiudono o che stanno per chiudere. Negozi chiusi da tanti mesi che nessuno prende in affitto perché avviare qualsiasi attività è troppo rischioso. Sono molto preoccupata per il futuro. Tanto tanto preoccupata. Non capisco perché la crisi la devono risolvere le classi meno abbienti» (Antonella). Quindi abbiamo la seguente situazione: la Bce ha fallito il suo obiettivo. Le imprese sono strangolate nel “credit crunch” e altri padri di famiglia potrebbero decidere di uccidersi. Ci sono i presupposti per avviare un’inchiesta giudiziaria? Si possono sequestrare i contratti che Mario Draghi ha firmato con le banche italiane? Possiamo conoscere i nomi degli amministratori delegati di quelle banche che hanno preso i soldi della Bce per comprare titoli e speculare? Mi rivolgo dunque alla magistratura. E chiedo ad Antonio Di Pietro, ex magistrato, di farsi portavoce di questa istanza presso la categoria che ha rappresentato negli anni di Mani Pulite. È possibile trovare magistrati coraggiosi che possano indagare su questo meccanismo e – se saltano fuori le prove di illegalità – far scattare le manette a chi usa il denaro in modo così spregiudicato? È’ possibile vedere in galera qualche banchiere senza scrupoli, che non arrossisce neppure quando nega un prestito di 500 euro a un padre di famiglia e anzi – cosa atroce – usa gli spiccioli per fare profittto con manovre speculative? Avete presente Callisto Tanzi dimagrito e col sondino al naso? Avete presente il suo pentimento in tribunale per aver causato sofferenze ai suoi clienti truffati? «Non mi rendevo conto dell’esaltazione…», ha detto. Ecco, vorrei vedere decine banchieri in galera e poi cospargersi il capo di cenere per aver causato così tanta sofferenza. Vorrei vederli pentiti per l’ubriacatura finanziaria e rinchiusi al sicuro dietro le sbarre. I giornalisti con la schiena dritta hanno fatto il loro dovere denunciando queste anomalie. Ora tocca ai magistrati.

Il seguito è cosa scontata. Trasmettiamo di seguito un esposto del commerciante di Nardò, Luigi Stifanelli, sull'assoluzione di Luigi De Magistris e pubblicata su Agenparl.it.

"Luigi De Magistris è stato assolto perché il fatto non sussiste: è la sentenza del Tribunale di Salerno nel processo per omissione in atti d'ufficio all'eurodeputato, per fatti risalenti a quando era ancora magistrato. ''Era un'accusa ingiusta e infamante - ha commentato De Magistris - ma sono stato assolto difendendomi nel processo e non dal processo, senza usare l'immunità parlamentare nè il legittimo impedimento''. Per il leader dell'Idv Antonio Di Pietro ''giustizia è stata fatta''. Questa nota dell’Ansa tace la circostanza che il Giudice che ha assolto De Magistris è la Dr.ssa Maria Teresa Belmonte, moglie dell’avv. Giocondo Santoro, fratello del Santoro famoso conduttore di Annozero. Questo Giudice costituisce il simbolo della imparzialità quando deve giudicare De Magistris. Con tale Giudice il De Magistris ha fatto certamente un grande sforzo a difendersi “nel processo”!!! E’ notoria l’attività di sponsorizzazione dell’europarlamentare dell’Idv De Magistris da parte del Santoro televisivo su di una televisione pubblica. Nessuno ha prove per dire che la decisione dell’assoluzione sia stata presa davanti al focolare dei coniugi Santoro-Belmonte allargato al noto conduttore di Annozero; è innegabile, però è che il Santoro televisivo cognato della Belmonte è il padrino dell’europarlamentare. Ciò che è certo è che la sentenza, così come formulata, getta un’ombra lugubre sulla Giustizia, quella vera. Luigi De Magistris era imputato di un grave delitto. Egli, secondo l’accusa, “...indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio..." quando era sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed aveva omesso di “procedere alle indagini ordinate…dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro” in un “procedimento…a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO”, che si era aperto a loro carico su denuncia del sottoscritto per ipotesi delittuose di “associazione per delinquere, favoreggiamento, falsità, concorso in estorsione ed usura” a carico di “alcuni magistrati di Lecce e di Potenza”. Nel fascicolo del Giudice certamente ci sarà stata l’ordinanza del GIP di Catanzaro che ordinava al De Magistris P.M. di proseguire le indagini nei confronti di altri magistrati di Potenza e di Lecce. Nel fascicolo del Giudice certamente vi è carenza assoluta delle indagini svolte dal De Magistris. Ci si attendeva nella ipotesi più rosea per l’europarlamentare l’assoluzione con la formula che il fatto che un P.M si rifuti di eseguire un ordine del GIP non costituisca reato; invece, l’assoluzione è stata con la formula più ampia, cioè, che il fatto non sussiste, che sta a significare che non vi è stato mai ordine di alcun GIP. Invece, l’ordine del GIP rivolto al De Magistris di proseguire le indagini era ben preciso. L’assoluzione perchè il fatto non sussiste può significare anche che il De Magistris abbia compiuto uno straccio d’indagine; invece, no; è proprio egli stesso che sul suo blog ha scritto di essersi considerato il “dominus” e di non aver inteso indagare per non fare spendere denaro. Dunque, la sentenza che ha assolto il De Magistris è smaccatamente falsa. Ciò che colpisce in questo processo è la rapidità con cui si è concluso; certamente, era necessario sgomberare le ombre sul candidato sindaco di Napoli: tre udienze velocissime a distanza di pochi giorni l’una dall’altra; con la scelta mirata del giorno dell’udienza in cui vi era lo sciopero degli avvocati, e, quindi, svolta in assenza del difensore della parte civile. Ammirevole la velocità con cui il Giudice Belmonte ha concluso questo processo; sarebbe interessante sapere se questa velocità nel concludere il processo De Magistris, abbia penalizzato qualche altro imputato vero innocente, che attende prima di lui da anni la conclusione del suo processo. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il suo rifiuto di indagare, all’epoca in cui egli era P.M. a Catanzaro, sulle sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Lecce di procedimenti penali a carico di soggetti bancari che praticavano e praticano tuttora usura ed estorsione. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati escussi i testi che avevo proposto al mio difensore, l’avv. Licia Polizio; infatti, avevo proposto come “testi i soggetti menzionati nell’opposizione alla richiesta di archiviazione”, che avrebbero dovuto riferire su sistematiche archiviazioni facili da parte di magistrati di Lecce nei confronti di banche che operano usura ed estorsione e, precisamente i seguenti soggetti: l’On. Nichi Vendola, il sig. Franco Carignani, l’Avv. Fedele Rigliaco, Il giornalista de "Il Mondo" che scrisse l’articolo dal titolo "Com'è stretta la Puglia" il12 giugno 1998 N. 24, l’ex Ministro della Giustizia, on. Diliberto, il Giudice di Lecce Dr. Pietro Baffa, l’ex P.M. Dr. Aldo Petrucci, il presidente dello SNARP, sindacato nazionale antiusura, dell’anno 1999, il Giudice Dr. Gaeta di Lecce, l’ex Gip Dr. Francesco Manzo, l’ex Gip Dr. Fersini il consulente del P.M. di Lecce, Dr. Daniele Garzia, che dovrà riferire sulla seguente circostanza: la tabella dove erano indicati i tassi praticati allo Stifanelli da parte della banca erano abbondantemente superiore a quelli consentiti dalla legge il Dr. Leonardo Rinella che è stato P.M. presso la Procura di Bari, il quale aveva accertato, per il tramite del suo consulente, che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi; il consulente della Procura di Bari, Dr. Egizio De Tullio, il quale aveva accertato che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati acquisiti dal Giudice del dibattimento alcuni fascicoli che avevo proposto al mio difensore come richieste istruttorie. Così, infatti, scrivevo al mio difensore avv. Licia Polizio: “E’ necessario chiedere al Giudice del dibattimento l’acquisizione di alcuni fascicoli che dimostrano l’attività di “protezione dell’usura nel Salento” da parte di alcuni magistrati e che sono raccolti tutti nel Dossier a firma del Sig. Franco Carignani: 3445/94 rgnr. Tribunale di Lecce, n. 8133/ 95 RGNR del Tribunale di Lecce (Capoti), n.15950/97 RGNR del Tribunale di Bari (Bisconti - Durante), n. 2011/G/96 Presso la Direzione Nazionale Antimafia, n. 508/97 RGNR del Tribunale di Lecce, n. 1885/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 800/96/21/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 6647/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 3926/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 9725/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 19797/97/21 RGNR”. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il rifiuto di indagare sulle altrettante sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Potenza di procedimenti penali a carico di quei magistrati di Lecce che consentono tali “facili” archiviazioni. La carenza delle suindicate indagini ha consentito ad alcuni magistrati criminali di Potenza e di Lecce di crearsi l’usbergo della immunità e, così, proseguire con la loro opera delinquenziale di copertura di gravi reati, come l’estorsione, il favoreggiamento, l’usura, la falsità, di Banche, di società di riscossione dei tributi e di personaggi importanti. Insomma, per De Magistris e per il Giudice cognato del Santoro di Annozero tutto questo è cosa da nulla; che i magistrati di Lecce o di Potenza consentano ad estortori o usurai bancari o ad esattori delle tasse usurai a proseguire nella loro attività criminale con conseguente distruzione di molte imprese, di molte famiglie e dell’economia salentina è una cosa di poco conto. Oggi, affrancato dal peso dell’accusa, il De Magistris - che aveva il dovere d’indagare e d’impedire la prosecuzione di questi reati - si appresta con estremo candore a governare la città di Napoli massacrata dall’usura bancaria. Con la sentenza della “Giudicessa” cognata del Santoro televisivo alcuni magistrati di Lecce possono proseguire impunemente a favorire l’usura e l’estorsione delle Banche e dell’esattore delle tasse in danno dei salentini; tali magistrati sanno che troveranno, prima o poi, una Dr.ssa Belmonte che scriverà una sentenza perché “il fatto non sussiste”. Eppure le archiviazioni di procedimenti penali a carico di soggetti che, con minacce di pregiudizi, riuscirono ad estorcere del denaro crearono disagio, malessere e sconcerto nella popolazione salentina. In particolar modo furono gl’imprenditori che esternarono - con esposti a tutte le Autorità ed a tutte le Istituzioni dello Stato, alla Direzione Nazionale Antimafia, alla Commissione antimafia, alle Cariche istituzionali più importanti dello Stato - il disagio per la mancata tutela penale della proprietà; nell’immaginario collettivo si ebbe a formare l’idea di una sorta di sodalizio fra magistrati, banchieri ed altri soggetti. A seguito di ciò in data 24/09/’98 l’on. Nichi Vendola, all’epoca vice-presidente della Commissione antimafia, ora Governatore della Puglia, pose il dito su questa piaga del Salento; e, con atto di sindacato ispettivo n. 4/19855 sollevò questioni riguardanti le numerose e facili archiviazioni da parte della Procura della Repubblica di Lecce dei procedimenti penali “per i reati di estorsione, usura, truffa ed altro commessi da rappresentanti delle banche a danno di imprenditori Salentini” per sapere come mai molti salentini non avevano avuto la tutela penale, nonostante che i magistrati della Procura di Lecce avessero constatato l’applicazione di alti tassi d’interesse da parte di Banche; la vicenda ebbe vasto clamore, scaturito dalla divulgazione delle notizie attraverso la stampa. Nel succitato atto l’onorevole interrogante faceva riferimento ad un articolo comparso sul settimanale “Il Mondo” del 12 giugno 1998, n. 49 che dettagliava numerosi casi di archiviazioni di procedimenti penali. Quell’interrogazione venne archiviata perché il Ministro della Giustizia dell’epoca, on. Diliberto, ebbe a fornire una risposta contenente notizie false che gli furono fornite dalle articolazioni ministeriali competenti. L'On.le Consiglio Superiore della Magistratura con le circolari nn° 8160/82 e 7600/85, 4° commissione, e con la delibera del plenum dell'11 dicembre 1996 ha esplicitato che "l'esigenza generale, consistente nella tutela dell'imparzialità e della libertà da condizionamenti che devono connotare anche nell'apparire, l'attività giudiziaria, si pone quale specificazione del principio di tutela del prestigio della Magistratura inteso come apprezzamento sociale della corretta amministrazione della Giustizia". Secondo la Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 03 aprile 1988, n. 2265 "La responsabilità disciplinare del Magistrato, per comportamento pregiudizievole al prestigio suo e dell'Ordine Giudiziario, può conseguire anche da atti non illegittimi, ma meramente inopportuni od avventati”. Questo esposto pubblico è rivolto alle autorità in indirizzo per quanto di loro competenza, in particolare al Presidente della Repubblica, per valutare se vi sono gli elementi per promuovere procedimento disciplinare nei confronti della Dr.ssa Belmonte se per accelerare il procedimento a carico del De Magistris abbia trascurato qualche altro procedimento che aveva delle priorità o per valutare se la decisione di assolvere il De Magistris con la formula “perché il fatto non sussiste” sia stata avventata in presenza di un’ordinanza ineseguita di un GIP."

Usura, un imprenditore accusa: «Ora a Milano i giudici stanno con le banche». Da qualche mese il Tribunale del capoluogo lombardo, dove hanno sede legale parecchi istituti di credito, ha iniziato a respingere le cause di usura bancaria. Motivando così la scelta: le perizie tecniche devono essere svolte secondo i criteri fissati dalla Banca d'Italia. I cui azionisti, però, sono gli stessi istituti, scrive Stefano Vergine “L’Espresso”. «Grazie all’azione di lobbying, le banche hanno fatto breccia nel Tribunale di Milano. Da qualche mese i giudici della corte lombarda stanno infatti rigettando le cause per usura che imprese come le mie stanno continuando a proporre, e questo è paradossale considerando che invece nel resto d’Italia le ragioni dei consumatori continuano a prevalere». A parlare è G.P., un imprenditore del settore immobiliare, titolare di due società e amministratore di altrettante imprese. Preferisce non rivelare il suo nome perché - dice – «ho ancora diverse cause in corso e questa intervista potrebbe danneggiarmi». Il suo è però un attacco diretto. Contro le banche, accusate di applicare tassi d’usura all’insaputa di imprese e cittadini. E contro l’orientamento prevalente nel Tribunale di Milano che, spiega l’imprenditore, «ultimamente ha iniziato ad accettare acriticamente la posizione sostenuta dagli istituti di credito». Sul tavolo c’è una questione spinosa come quella dell’usura. Non quella applicata dalla criminalità organizzata, ma l’usura bancaria. Un fenomeno difficile da quantificare con precisione. Le uniche cifre sono quella della Fondazione SDL, un centro studi basato a Brescia, di cui fanno parte avvocati, commercialisti e imprenditori come G.P. Analizzando circa 150 mila prodotti bancari, SDL dice di aver rilevato nel 71 per cento dei casi la presenza di usura oggettiva ai sensi del codice penale. E sulle 19 mila pratiche giudiziarie intentate finora contro le banche, afferma di aver ottenuto per i propri clienti, quasi sempre tramite transazioni, diverse decine di milioni di euro. «Tutte queste vittorie hanno costretto le banche a reagire», sostiene G.P., convinto che ora «la loro attività di lobbying abbia attecchito al Tribunale di Milano».

G.P., ci racconti in breve la sua storia personale.

«Nel 2012, grazie ad un amico che fa il perito per le banche, ho scoperto che sui conti correnti e sui mutui delle mie aziende venivano praticati tassi d’usura. Mi sono allora rivolto alla studio legale SDL, del professor Serafino Di Loreto, il quale mi ha spiegato come, in base alla legge 108 del 1996, mi veniva effettivamente praticata usura».

Ha fatto causa alle banche?

«Sì, ho fatto una decina di cause. Ovviamente per recuperare quanto pagato ingiustamente, ma anche per un senso di responsabilità civile: riflettendo su quanto mi stava accadendo, ho capito che dovevo farlo per non lasciare ai miei figli una società in cui la classe dirigente, in questo caso quella bancaria, esercita usura sulla piccola e media impresa e sulle famiglie».

Alla fine le cause le ha vinte?

«La prima l’ho vinta, a Milano: nel conto corrente di una mia azienda la perizia disposta dal tribunale ha rilevato usura penale per 50 mila euro. Le altre cause sono ancora in corso».

E cosa c’entra il Tribunale di Milano allora?

«Al Tribunale di Milano l’orientamento predominante è pro-banche, e questo è particolarmente importante visto che gran parte degli istituti ha la propria sede legale proprio nel capoluogo lombardo».

In che cosa consiste questo orientamento pro-banche di cui parla?

«Le cause per usura bancaria a Milano incontrano resistenze molto maggiori rispetto al resto d’Italia. Questo lo dico perché, da collaboratore di una fondazione che si occupa a livello nazionale di difendere i consumatori dall’usura bancaria (la fondazione SDL, ndr), ho avuto modo di notare la differenza di trattamento che ultimamente Milano sta riservando alle banche».

Concretamente, in che cosa consiste questo trattamento privilegiato?

«Tutto si gioca sulle perizie che il tribunale dispone per analizzare i conti correnti e ravvisare se vi è stata o meno usura. Nel resto d’Italia prevalgono le indicazioni di redigere la perizia sulla base dei criteri della legge 108 del 1996 e delle successive conferme della Cassazione. A Milano, invece, la linea predominante è quella di analizzare i conti correnti non sulla base della legge dello Stato, ma seguendo le istruzioni secondarie della Banca d’Italia».

E qual è il problema?

«Il problema è che le istruzioni della Banca d’Italia sono decisamente più vantaggiose per gli istituti. E non è un caso, visto che gli azionisti della Banca d’Italia sono le stesse banche. E’ un po’ come se, dopo un incidente d’auto provocato dallo scoppio di una gomma, il perito valutasse le cause dell’incidente seguendo le indicazioni della ditta costruttrice di pneumatici e non quelle previste dalla legge».

Lei però ha detto che a Milano una causa l’ha vinta, in realtà.

«Sì, è vero. L’ho vinta perché la banca aveva talmente esagerato che, nonostante siano stati applicati i criteri favorevoli della Banca d’Italia, il conto corrente è risultato essere comunque in usura».

Quindi alla fine le imprese che fanno causa alle banche continuano a vincere anche a Milano?

«La gravità della situazione è proprio questa. Ultimamente, sia personalmente che alla Fondazione SDL, risulta che l’orientamento prevalente del Tribunale di Milano sia quello di rigettare le cause per usura se la perizia con la quale si presenta il caso non è redatta sulla base delle istruzioni della Banca d’Italia. Questo mi sembra gravissimo perché le istruzioni di una società privata, seppur autorevole come la Banca d’Italia, disattendono diverse sentenze della Cassazione. Mi pare inoltre molto grave precludere la via del contenzioso a tutte quelle aziende piccole e medie che non hanno la forza economica per ricorrere in appello e cassazione, dove invece potrebbero ottenere ragione».

Adesso cosa farà?

«Continuerò a seguire le mie cause, che fortunatamente sono state presentate prima di questa ulteriore virata pro-banche del Tribunale di Milano. Di certo se subirò delle sentenze ingiuste ricorrerò, con il mio avvocato Biagio Riccio, in appello e in Cassazione, perché sono sicuro che alla fine otterrò giustizia. Al di là delle questioni personali, però, vorrei che questa intervista desse origine a un dibattito, aperto a tutte le parti in causa, perché sulla questione dell’usura bancaria e più in generale del credito alle imprese si gioca la ripresa italiana e il futuro dei nostri figli».   

Banche, tassi usurai alle aziende. Una società di consulenza bresciana ha scoperto che i tassi applicati sui prestiti si sono alzati, al limite dello strozzinaggio. Ma pochi imprenditori denunciano e l'ABI e la Banca d'Italia non controllano. Cronaca di una nuova, pericolosa deriva, scrive Massimiliano Carbonaro su “L’Espresso”. Anche le banche, in Italia, prestano 'a strozzo', attraverso meccanismi complessi nel rilascio dei finanziamenti a favore delle imprese. Sono molti gli istituti di credito coinvolti in questa nuova e pericolosa deriva. Sul fenomeno non esistono cifre complessive esatte, così come non si conosce la quantità di questi prestiti a tassi usurai. Questo perché, nelle occasioni in cui finora il problema è emerso in sede giudiziale, le stesse banche attraverso accordi di conciliazione sono riuscite a non far diventare pubblica la questione. La stessa Banca di Italia, pur ammettendo di non avere il polso complessivo della situazione, ha annunciato che deve rivedere il sistema di rilevazione dei tassi bancari. Come è noto, il grosso del tessuto imprenditoriale italiano è fatto da piccole e medie imprese che non sono strutturate per affrontare problematiche di natura finanziaria. Solo quando i costi di gestione dei loro conti correnti diventano particolarmente alti, gli imprenditori cominciano a porsi domande: così i titolari delle aziende hanno cominciato a rivolgersi a consulenti esterni per cercare di capirci di più. Tra queste società di consulenza c'è la bresciana SDL Centro Studi. Si tratta di una società con una trentina di dipendenti, unica rispetto al panorama delle concorrenti perché offre gratuitamente il primo screening sui conti. Negli ultimi due anni e mezzo ha esaminato oltre 29mila conti correnti intestati ad aziende, scoprendo che il 90% è afflitto da questo problema. Tutto è cominciato nel 2010 quando l'avvocato bresciano Serafino di Loreto è stato coinvolto nel fallimento della società di un amico che per la disperazione si è tolto la vita. A una attenta analisi della situazione societaria della ditta fallita è emerso che i conti erano infettati da usura e soprattutto che la somma degli interessi non dovuti estorti dalle banche l'avrebbe salvata dal fallimento. Questa scoperta ha spinto Di Loreto a creare una società in grado di scandagliare in maniera rapida la situazione finanziaria di un'impresa evidenziandone le anomalie. L'accertamento della SDL sui conti aziendali procede secondo vari step. In primo luogo si verifica se il tasso applicato è inferiore o meno al tasso oltre il quale siamo davanti all'usura. Ogni tre mesi Banca di Italia segnala i tassi effettivi medi rilevati e segnala i tassi 'soglia' su base annua per ogni categoria di operazione e per differenti range di importo oltre cui si verifica l'usura. L'altro fronte su cui lavora la SDL riguarda l'anatocismo, ovvero l'applicazione di interessi sugli interessi maturati che fanno crescere esponenzialmente il debito. «Il risultato degli accertamenti è per molti versi inaspettato. Tendenzialmente non sei portato a credere che una banca possa fare una cosa simile» commenta l'avvocato Di Loreto, responsabile legale della SDL «ma la cosa impressionante è che in pratica sono coinvolte tutte le banche italiane. Si stanno accanendo sulle nostre aziende, infliggendo costi ben superiori a quanto dovuto». Nel dettaglio la SDL è entrata dentro le carte di 9845 imprese, prevalentemente dislocate tra il Piemonte, la Lombardia, il Veneto e la Toscana: il 90% dei conti presentava usura e anatocismo. Secondo i calcoli, poi certificati da commercialisti esterni, quello che le banche non avevano diritto a percepire oscilla tra il 30% e il 70% di quanto prelevato dai conti: si varia molto in base agli istituti di credito e alle tipologie di conto. Non sono solo i conti correnti delle imprese ad essere attaccati: ciò che emerge è un sistema perverso in cui le banche colpiscono gli imprenditori stessi rivalendosi sul loro patrimonio con l'intento di riuscire a rientrare dei debiti contratti per portare avanti l'attività dell'azienda: spesso, però, una parte di questi è frutto di interessi illegittimi. Il quadro del fenomeno fatica a venir fuori perché quando un imprenditore si ribella, utilizzando le perizie fornite da Di Loreto, e cita la banca in tribunale, l'istituto di credito preferisce arrivare a una transazione amichevole e soprattutto segreta. E' molto chiaro in tal senso l'accordo raggiunto tra un'azienda bresciana cui SDL ha fatto da consulente e una banca (non si può rendere noto il nome dei soggetti coinvolti altrimenti l'intesa potrebbe saltare) in cui l'istituto di credito ha preferito rinunciare a 350 mila euro dei 650mila concessi come prestito all'azienda. Questo dopo che era intervenuta una sentenza relativa ad un decreto ingiuntivo in cui il giudice rilevava che 42mila euro di debiti dell'impresa con la banca erano frutto di usura e anatocismo. Secondo il panorama delle conciliazioni esaminate, nessun gruppo creditizio italiano sembra sfuggire a questa strategia. C.C., un imprenditore del milanese attivo nel settore dei servizi che preferisce rimanere anonimo, si è sentito dire da un direttore di banca: «Non siamo un ente di beneficenza». «Sono furente» commenta l'imprenditore «non solo per i soldi che mi hanno rubato, ma anche i mancati investimenti e la perdita di competitività in campo internazionale». L'analisi finanziaria dei suoi conti ha evidenziato una richiesta di interessi non dovuti per 200mila euro. «Fino a un anno fa, spiega Di Loreto, si trattava esclusivamente di un recupero crediti legittimo. Ora invece stiamo assistendo da parte delle banche a una vera caccia alle imprese per far rientrare a tutti i costi e in tempi rapidi i clienti dei crediti concessi». Uno scenario per G.P., un imprenditore edile che con il suo gruppo di società detiene un patrimonio di immobili da circa 30 milioni di euro, definisce drammatico: «Sono 40 anni» spiega «che lavoro con le banche, ma in una situazione simile non mi ero mai trovato. Tra l'altro questo attacco indiscriminato alle imprese farà sì che quando ci sarà la ripresa rimarremo bloccati. Il tessuto di piccole e medie aziende che sostengono l'economia italiana nel frattempo sarà stato distrutto». Manco a dirlo, l'analisi finanziaria dei suoi conti ha evidenziato crediti estorti dalle banche per 1,5 milioni di euro. L'aspetto più assurdo della vicenda è che gli istituti procedono pressoché impuniti e che l'Abi (Associazione bancaria italiana) non rilascia alcuna dichiarazione. Il motivo? Non sono tenuti a esercitare il controllo sui loro soci. Banca d'Italia, che invece questo controllo lo dovrebbe effettuare, sottolinea come «le numerose denunce per usura siano basate sull'impiego di criteri di calcolo difformi». A questo però aggiunge che «sta rivedendo le istruzioni in materia di rilevazione dei tassi effettivi globali». Insomma, la situazione sembra priva di reale controllo.

I magistrati indagano i banchieri, poi ci vanno pure a scuola, scrive “Alètheia”. E pensare che ci stupivamo della telefonata fatta dal ministro della giustizia Cancellieri alla famiglia Ligresti. Le banche, tramite l’Abi (Associazione bancaria italiana), hanno sempre cercato di condizionare la giustizia, con protocolli di intesa (novembre 2006) con il Ministero della giustizia per progetti di formazione destinato a magistrati, cancellieri, ed altri operatori del settore giudiziario, per favorire la conoscenza e l’adozione degli strumenti del processo civile telematico, contribuire allo scambio di informazioni e best practice tra gli addetti ai lavori e agevolare la costruzione di una cultura italiana sulla giustizia telematica. Molti gli episodi di evidenti conflitti di interessi, come quella di alcune banche di finanziare i corsi dei magistrati, o la poco trasparente gestione delle esecuzioni immobiliari tra la società Asteimmobili di natura privatistica, chiamata a svolgere nei tribunali compiti di natura pubblicistica, nonché il palese conflitto di interessi sotteso alla decisione di assegnare all’Abi la gestione integrata di tutte le informazioni relative ai procedimenti giudiziari nei fallimenti ed esecuzioni immobiliari e l’invio informatico degli atti processuali. Lo scorso 4 luglio 2014 ed a seguito chiusura indagini per il reato di usura a carico di alcune banche e di ex dirigenti Bankitalia da parte del Pm di Trani Michele Ruggiero, la Scuola superiore della magistratura ha organizzato, d’intesa con la Banca d’Italia e l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) i cui ex vice-presidenti sono stati indagati (Emilio Zanetti scandalo Ubi-Banca) o arrestati (Giovanni Berneschi, scandalo Banca Carige Genova), un corso interdisciplinare sul tema dell’usura, riservando 30 posti per magistrati addetti al settore civile e 40 posti per magistrati addetti al settore penale (funzioni giudicanti e requirenti). Come si può leggere dalla lettera, Prot.n. 1980/2014USSM; inviata alla Direzione Generale dei Magistrati, Ispettorato Generale, Al Presidente della Corte di Cassazione Dr. Giorgio Santacroce, Al Procuratore Generale della Corte di Cassazione Dr. Gianfranco Ciani, Ai Presidenti delle Corti d’Appello, Ai Procuratori Generali delle Corti d’Appello, con l’oggetto: incontro di studi ”L’Usura: profili civilistici e penalistici“ 14-15 luglio 2014 Roma; Piazza del Gesù n. 49 – Sala della Clemenza, Palazzo Altieri. Roma, 4 luglio 2014. Firmato: la Segreteria della Scuola Superiore della Magistratura. Essendo gravissimo questo ultimo tentativo di indottrinamento degli operatori della Giustizia ad interessi di parte, che si consumerà il 14 e 15 luglio a Roma, nella sede Abi di Palazzo Altieri, dove è stato convocato un incontro di studio organizzato in fretta e furia dalla SSM (Scuola Superiore della Magistratura) d’intesa con la Banca d’Italia e l’ABI, proprio sul tema dell’usura bancaria, dove sono stati ammessi 70 magistrati, che potrebbe avere la finalità di condizionare indagini penali in corso, che vedono tra gli indagati primari esponenti delle banche associate all’Abi, che annovera molti banchieri incriminati e perfino arrestati, con sede in Piazza del Gesù, 49, a Roma proprio a Palazzo Altieri, e la Sala della Clemenza è tra le più prestigiose sale dove vengono svolti incontri, dibattiti, convegni, conferenze. Adusbef e Federconsumatori hanno denunciato un aspetto ancor più grave, che vede l’ex ministro della Giustizia del Governo Monti, prof.ssa Paola Severino nella duplice funzione di docente e partecipante attiva al corso sull’usura somministrato ai magistrati nella tavola rotonda di apertura per disquisire, assieme ad altri illustri relatori, sui profili civili e penali della legislazione antiusura, ed allo stesso tempo nella veste di avvocato difensore e consulente legale di celebri indagati (probabilmente anche nel processo penale istruito dal Pm di Trani Michele Ruggiero), accusati di aver violato la legge 108/96 ed il reato sull’usura. Poiché tale palese commistione tra organi giudiziari come il SSM, che avrebbe finalità di offrire formazione oggettiva ai magistrati, con i rappresentanti di dirigenti indagati o arrestati come Abi e Banca d’Italia, fa sorgere il dubbio di una giustizia addomesticata a misura di potenti, al contrario di quanto sancito dalla Costituzione Repubblicana ancora vigente, configura insanabile vulnus per la necessaria terzietà materiale e sostanziale, con lo studio dell’usura “a casa” del principale indiziato di attività usuraria, analogamente a corsi di formazione sui reati di mafia organizzata a Corleone, a casa di Totò Rjina o Bernardo Provenzano, Adusbef e Federconsumatori hanno inviato un corposo esposto alle maggiori cariche istituzionali italiane ed alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, denunciando il grave pericolo per le garanzie Costituzionali ed i diritti delle persone, specie se correntisti e risparmiatori, da una giustizia molto spesso ingiusta per i comuni cittadini.

Corso anti-usura per pm. In cattedra le banche, scrive Giorgio Meletti su Il Fatto Quotidiano, 12/07/2014 pagina 10. Il problema è molto complesso. Da quando il codice penale è stato modificato e il reato di usura non è più tipico dello strozzino ma anche dei banchieri qualora applichino tassi esagerati, le nostre scienze giuridiche si arrovellano: quando si può considerare superato il tasso-soglia oltre il quale scatta il reato? Pare che dopo quasi vent'anni non siano " ancora sopiti i problemi interpretativi", e così il presidente della Scuola Superiore della Magistratura, Valerio Onida, ex presidente della Corte costituzionale, ex candidato a sindaco di Milano ed ex saggio di Giorgio Napolitano, ha avuto un'idea notevole. Ha organizzato un corso di formazione per magistrati in collaborazione con l'Abi (associazione bancaria italiana) e con la Banca d'Italia. Gente che di usura se ne intende, ovviamente, ma con il difetto di essere potenzialmente nel mirino dei magistrati che sono chiamati a formare. I Presidenti di Adusbef e Federconsumatori, Elio Lannutti e Rosario Trefiletti, hanno preso carta e penna per scrivere una lettera di protesta alle Nazioni Unite, alla Corte Europea per i diritti dell'uomo, al presidente Napolitano, al premier Matteo Renzi e al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Chiedono che Onida sia severamente censurato, e lo fanno con parole forti: " Chi ha ordito questa turpe trovata merita di essere sollevato dagli incarichi. Tanto al fine di evitare che altri magistrati magari siano costretti in futuro a partecipare a corsi antimafia a Corleone, nelle ville di Totò Riina o Bernardo Provenzano". Il corso si tiene il 14 e il 15 luglio 2014 nella sede dell'Abi, gentilmente messa a disposizione dal presidente dell' Abi, Antonio Patuelli. Colpisce che settanta magistrati provenienti da tutta Italia vengano mandati a scuola di usura presso un' associazione che si è trovata in pochi giorni con un vicepresidente arrestato, Giovanni Berneschi ex presidente di Carige, e uno indagato, Emilio Zanetti, ex presidente di Ubi-Banca. Lo stesso Patuelli deve la nomina alle dimissioni del predecessore Giuseppe Mussari, travolto dallo scandalo Montepaschi e oggi rinviato a giudizio anche per usura. Competenza per competenza, non si capisce perché non abbiano invitato anche Mussari a spiegare ai magistrati in cerca di formazione professionale i segreti dell'usura. C'è però, tra i docenti, Paola Severino, ex ministro della Giustizia e penalista di primo piano. Prima di diventare Guardasigilli a novembre 2011, era impegnata nel processo sull'aeroporto di Ampugnano che coinvolgeva Mussari e altri esponenti del Monte dei Paschi. E proprio a causa della nomina dovette abbandonare la difesa di una banca accusata di usura. Non è dato sapere se le due giornate di aggiornamento professionale prevedano anche esercitazioni pratiche. Ci sarebbe un ottimo caso di scuola a disposizione, l'inchiesta per usura del pm di Trani Michele Ruggiero, che vede indagati, tutti insieme, il presidente della Rai Anna Maria Tarantola come ex capo della Vigilanza della Banca d'Italia, l'ex ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni in quanto ex direttore generale della Banca d'Italia, e poi i capi o ex capi di alcune della maggiori banche italiane: Luigi Abete e Fabio Gallia della Bnl, Alessandro Profumo di Unicredit e il suo successore Federico Ghizzoni, Mussari per il Montepaschi insieme all'ex vicepresidente Francesco Gaetano Caltagirone, di cui Severino è da sempre difensore di fiducia. Peccato solo che il pm Ruggiero non sia stato invitato al corso, poteva essere l'occasione per i vertici di Abi e Bankitalia, e per la stessa Severino, di spiegargli per le vie brevi l'eventuale esagerazione delle sue ipotesi investigative. Per Adusbef e Federconsumatori, che hanno sollevato il problema, in gioco c'è la separazione dei poteri, "il doveroso distacco tra Abi e Ordine Giudiziario il cui collante risalente nel tempo stride con un paese ad ordinamento costituzionale e democratico". Una questione antica. Nel 2010 Lannutti, da senatore, interrogò il ministro dell' Economia Giulio Tremonti e il Guardasigilli Angelino Alfano, per sapere come mai l'Abi, con il patrocinio del ministero della Giustizia, avesse "sviluppato un progetto di formazione e-learning destinato a magistrati, cancellieri, avvocati e a tutti gli operatori del settore giudiziario per favorire la conoscenza e l'adozione degli strumenti del processo civile telematico". E riproponendo il tema della società Asteimmobili, costituita dall'Abi per gestire l'esecuzione dei fallimenti. Un' altra invasione di campo.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

ANTONIO GIANGRANDE. Alla domanda rispondo come dr. Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, iscritta presso la Prefettura di Taranto e per gli effetti riconosciuta dal Ministero Dell’Interno.

Per dare una risposta un po’ lunghina, ma estremamente esauriente ed esaustiva, bisogna partire dalla concezione che si ha dei mafiosi in Italia. Nel calcio, così come nella politica, specie a sinistra, vige il concetto che se si vince e si ha successo, si vale, se si perde, gli altri han rubato. Ergo: tu sei ricco e di successo, allora sei un mafioso. Così come molte associazioni antiracket ed antiusura, che non sono di sinistra o riconducibili alla CGIL, la mia associazione non è inserita nel sistema precostituito dell’antimafia Grasso-Ciotti-ANM/MD e per gli effetti vedo e denuncio le storture di una struttura mediatico-giudiziaria. Non ho il megafono dei media di sinistra col paraocchi ideologico, né tantomeno di quelli di destra, occupati ad osannare Berlusconi. Per questo non mi rimane che testimoniare il presente nei miei libri. In particolare: “Mafiopoli” e “Usuropoli e fallimentopoli”. Tornando alla domanda. La risposta la danno gli stessi protagonisti più noti della cronaca dimenticata. Mi astengo dal dilungarmi sulla mia storia. Un ristorante bruciato e dalla burocrazia mai risarcito, né fatto ricostruire. Dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Comunque in regime di sottomissione ideologica l’establishment ha altre cose da pensare rispetto a quello che il popolo anela.

PINO MANIACI. Beni sequestrati, Maniaci: “Gli dei delle misure di prevenzione”. Il direttore di Telejato è stato ascoltato in Commissione regionale antimafia. In quella sede ha presentato il suo dossier sui curatori dei patrimoni sottratti ai boss di Cosa nostra: “Sono sempre gli stessi e gestiscono patrimoni immensi. A volte con problemi di incompatibilità”, scrive Riccardo Campolo su “L’Ora Quotidiano”. “A fronte di quattromila richieste per fare l’amministratore giudiziario, vengono nominati sempre i soliti noti: Dara, Modica de Mohac, Benanti e soprattutto Cappellano Seminara. Quest’ultimo, tutt’ora, continua a gestire capitali immensi, nonostante qualche problema di incompatibilità”. Pino Maniaci, direttore di Telejato, ricostruisce per loraquotidiano.it le denunce portate davanti alla Commissione regionale antimafia durante la sua audizione dello scorso 17 dicembre. Secondo quanto riferito da Maniaci, il sistema delle misure di prevenzione farebbe acqua da tutte le parti, non rispettando il principio ispiratore della legge Rognoni-La Torre. “Non sono riuscito a scalfire con le mie denunce – ha spiegato – il sistema delle assegnazioni degli incarichi a pochi privilegiati. Quando ho riferito ciò che sapevo, mi sono reso conto che la politica era consapevole di ciò che stava succedendo. Forse i parlamentari non sono nelle condizioni di intervenire, al massimo hanno il potere legislativo per correggere”. Nessuno ha preso provvedimenti nei confronti delle persone denunciate dal direttore di Telejato? ”Non funziona così, funziona così per le persone normali, ma non per gli dei delle misure di prevenzione”. “Un lungo e intenso confronto in Commissione Antimafia regionale. Abbiamo appena finito di ascoltare Pino Maniaci, direttore di Telejato. Pino dipinge un quadro a tinte fosche, tante ombre e poche luci, ci fornisce spunti interessanti, soprattutto sulla gestione dei beni confiscati, e nei prossimi giorni ci consegnerà un dossier dettagliato che studieremo con attenzione. Gli ho detto, salutandolo, che non è solo e che deve continuare a fare il suo lavoro, il giornalista, come sempre ha fatto: con la schiena dritta e la testa alta”. Lo scrive sui social network il vicepresidente della Commissione regionale Antimafia, Fabrizio Ferrandelli. a conclusione dell’audizione del direttore della Tv di Partinico al centro di continue intimidazioni.

LE IENE. Le Iene e Mafia, antimafia e aziende che affondano. Nella puntata di giovedì 29 gennaio 2015, de Le Iene Show uno dei servizi proposti ha toccato il tema della mafia e l’inviato Matteo Viviani ha voluto raccontare la storia della famiglia Cavallotti ed ambientata a pochi chilometri da Palermo. Una vita, quella dei fratelli Salvatore, Vincenzo, Giovanni, Gaetano, dedicata a svolgere il proprio lavoro, con passione e dedizione con l’intento di lasciare ai figli un modo migliore in cui vivere, salvo poi trovarsi, da un giorno all’altro, senza nulla a causa dello stato che sottrae tutto in nome della legalità. In poco tempo vedere i frutti di anni di lavoro, mandati in fumo da qualcun’altro che è stato messo a gestire il tutto al posto di proprio dallo stato. I fratelli raccontano la loro storia sin dagli inizi: dalle idee geniali che frutta una grande molo di lavoro, all’infiltrazione della mafia che spinge per riscuotere il pizzo, fino ad arrivare ad una situazione insostenibile fatta di arresti assurdi e condanne per associazione a delinquere. Il resto ve lo facciamo vedere senza svelarvi altro, per farvi gustare a pieno quanta assurda è questa storia.

A Le Iene Show nella puntata andata in giovedì 29 gennaio 2015, Matteo Viviani racconta la storia di un’azienda di famiglia siciliana affondata dalla mafia e dal mancato sostegno dello Stato. Siamo a pochi chilometri da Palermo, nella ditta familiare gestita dai fratelli Salvatore, Vincenzo, Giovanni e Gaetano Cavallotti. Tutti e quattro hanno dedicato anima e corpo a questo lavoro per sperare di poter lasciare qualcosa ai rispettivi figli. Ma neppure la loro realtà imprenditoriale in crescita è passata inosservata alla mafia locale che ha bussato alla loro porta pretendendo il pagamento del pizzo. Da qui è iniziato un calvario in cui l’intervento dello Stato non ha fatto che peggiorare le cose. Nel 98 i Carabinieri hanno eseguito perquisizioni e arrestato le vittime della vicenda, ovvero proprio loro che erano “costretti” a pagare il pizzo. Chi ha pagato viene trattato alla stregua di complice: le banche prendono le distanze e l’attività inizia a dare segni di cedimento. A capo delle aziende sono state messe persone terze (amministratori delegati) e ai proprietari originari non resta che assistere inermi al graduale fallimento, alla distruzione inesorabile del frutto di anni di sacrifici. I contratti già in essere decadono e passano ad altre società. Ma c’è di peggio: il patrimonio di famiglia viene sequestrato in via preventiva fino a quando, sostengono le autorità, “non riusciranno a dimostrare la provenienza lecita dei beni”. La “giustizia” arriva dopo 12 anni e 4 gradi di giudizio: i Cavallotti vengono dichiarati innocenti, estranei alla Mafia. Viviani ha intervistato l’amministratore delegato per capire se veramente ha sempre agito a favore dell’azienda vittima del sequestro. Spunta una differenza sospetta di un milione di euro circa di cui i Cavallotti non hanno visto un centesimo. Se volete vedere il servizio completo su questa assurda vicenda di in-giustizia italiana cliccate nel link sotto.

Le Iene parlano dei Cavallotti, scrive Salvo Vitale su “Peppino Impastato”. Ieri sera è andato in onda Italia Uno, nel corso della trasmissione “Le Iene” un lungo e documentato servizio sui fratelli Cavallotti, su come chi dovrebbe rappresentare lo stato abbia distrutto un’azienda florida che dava lavoro a circa 200 dipendenti  e su come questa vicenda, che ormai si protrae da 16 anni, malgrado le assoluzioni del tribunale e la riconosciuta estraneità dei fratelli Cavallotti a qualsiasi  forma di collusione mafiosa, per decisione dell’ineffabile dottoressa Saguto, il magistrato che dirige l’Ufficio Misure di Prevenzione di Palermo  ancora continua . I dati e i contatti con l’azienda sono stati forniti in gran parte da Telejato Vista la complessità dell’inchiesta che l’emittente conduce da tempo, lo staff delle Iene ha deciso, per il momento di affrontare solo un’impresa, quella dei Cavallotti, ma riservandosi di portare all’attenzione  le altre malversazioni  che, su questo campo, sono consumate in nome e con l’avallo dello stato.  Davvero meschina e al di là di ogni umano senso di dignità la figura dell’ ex amministratore giudiziario Modica de Moach, che non ha saputo dare spiegazioni delle sue malversazioni e delle false fatturazioni girate a un’azienda del fratello. In pratica abbiamo assistito in diretta alle prove dimostrate di come si commette un reato, con l’avallo dei magistrati delle misure di prevenzione e come, chi dovrebbe rappresentare lo stato e tenere in piedi le aziende che gli sono state affidate, fa di tutto per distruggerle ai fini di un  utile personale. Le riprese di un’azienda con i mezzi di lavoro arrugginiti, abbandonati, con i capannoni spogli, non possono che generare tristezza. Come succede in Italia, non succede niente, anzi, se succede qualcosa, succede per danneggiare chi chiede giustizia. Come nel caso dell’ultimo recentissimo  sequestro operato ai figli dei Cavallotti, che cercavano di raccogliere i cocci dell’azienda. Questo è quello che la redazione di Telejato vorrebbe andare a dire alla Commissione Antimafia, se questa si decidesse di tenere conto della richiesta di ascoltarla, già sottoscritta da 40 mila cittadini.

La storia allucinante dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, estratto da I Siciliani Giovani aprile 2014 n°19: Beni Confiscati: così non funziona di Salvo Vitale, Pino Maniaci, Christian Nasi e pubblicato su “La Nuova Belmonte”.

La Comest. Quella dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno è una storia allucinante. Sono cinque fratelli che, negli anni ‘90 cominciano a lavorare per alcune aziende legate al nascente affare della metanizzazione in Sicilia. Fiutano che c’è in ballo un fiume di miliardi in arrivo, si parla di 400 miliardi delle vecchie lire, specialmente da parte della Comunità Europea, che li affida alla Regione e decidono di mettersi in proprio, ognuno con una propria azienda relativa a uno specifico settore. E’ tutto in ordine, partecipano ai bandi della Regione, hanno i requisiti richiesti, cominciano ad avere numerosi appalti, specie nelle Madonie, con la clausola del possesso di una gestione trentennale, per poi tornare tutto all’Ente Committente, cioè ai comuni. Sul mercato nasce, a far concorrenza a loro l’Azienda Gas spa, per iniziativa di un impiegato regionale, di nome Brancato, il quale chiede, per fondare la società, i soldi a Vito Ciancimino, allora all’apice della carriera politica: Ciancimino si serve di un suo commercialista, Lapis, legato ai più discussi politici siciliani, da Cintola a Vizzini: viene stipulato, con l’avallo, a Mezzoiuso, dell’allora Presidente della Commissione Antimafia Lumia, un protocollo di legalità e si aprono le porte per gli appalti: unico ostacolo la Comest e le altre aziende dei fratelli Cavallotti, ma si fa presto a metterli fuori gioco: Belmonte è la patria di Benedetto Spera, uno dei più temuti mafiosi legati a Bernardo Provenzano: attraverso il collaboratore di giustizia Ilardo, infiltrato appositamente, viene trovato un “pizzino” nel quale, con riferimento a un appalto ottenuto ad Agire, è scritto: “Cavallotti due milioni”. Si fa presto a incriminare i Cavallotti, che, come tanti pagavano il pizzo, per associazione mafiosa, e a far disporre il sequestro di tutti i loro beni. Siamo nel 1998, allorchè Vito Cavallotti viene arrestato per reati legati al 416 bis, da cui, nel 2001 viene assolto. Dopo che nel 2002 la Corte d’Appello ha ribaltato la sentenza con una condanna e dopo una serie di vicende processuali, nel 2011 Vito Cavallotti è assolto definitivamente e prosciolto da ogni accusa, ma, qualche mese dopo, nei suoi confronti scattano altre misure di prevenzione personale e patrimoniale, sino ad arrivare al 22.10.2013, allorchè il PG Cristodaro Florestano propone il dissequestro dei beni e la sospensione delle misure di prevenzione nei confronti di tre dei fratelli Cavallotti: ad oggi le motivazioni della sentenza non sono state ancora depositate. All’atto della prima denuncia viene nominato come amministratore giudiziario un certo Andrea Modìca di Moach, il quale già dispone di altre nomine da parte del tribunale , oltre che essere il terminale di altre aziende, tipo la TOSA, di cui si serve per complesse partite di giro, sino ad arrivare all’Enel gas. L’ammontare dei beni confiscati è di circa 30 milioni di euro , ma ben più alto è il valore di quello che i Cavallotti avrebbero potuto incassare nei lavori di metanizzazione dei comuni, mal’azienda non è stata ancora dissequestrata, malgrado siano passati quasi tre anni, anzi, per, viene confiscata una nuova azienda di uno dei fratelli, che si è spostato a Milazzo e nel dicembre 2013 estrema beffa, viene disposto un nuovo sequestro ad un’azienda creata dal figlio, nel tentativo di risollevare la testa, la Euroimpianti plus, e l’amministrazione giudiziaria, revocata al Modìca, viene affidata a un certo Aiello, che si rifiuta di far lavorare in qualsiasi modo, il ragazzo titolare, la cui sola colpa è di essere figlio di uno che è stato indagato, condannato e poi prosciolto dall’accusa di associazione mafiosa. Gli ultimissimi sequestri riguardano un complesso di aziende edili di Vito Cavallotti, figlio di Salvatore, la Energy clima, la Sicoged la Tecnomet e la Ereka CM, una parafarmacia già chiusa dal 2013. La prima seduta svoltasi il 30.1.2014 è stata rinviata nientemeno che al 22.5 per ritardo di notifica. Tutto ciò malgrado la proclamata innocenza dei Cavallotti. Per non parlare della rovina nella quale si sono trovate circa 300 famiglie che ruotavano attorno alle aziende. Rimane ancora senza risposta la domanda di questa gente: perché questo accanimento? E il motivo è forse da ricercare nell’ingente somma che il tribunale dovrebbe pagare per risarcire queste imprese che sono state smantellate da amministratori giudiziari voraci e spregiudicati.

Questo sistema non guarda in faccia a nessuno.

ITALGAS. Italgas: il colosso commissariato dall’antimafia. A dicembre 2014 ascoltati anche i vertici Snam in commissione parlamentare, scrive Luca Rinaldi su “L’Inkiesta”. Commissariata per sei mesi dal 9 luglio 2014 da parte della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, e commissariamento prorogato di altri sei mesi lo scorso dicembre. È l’attuale situazione della società Italgas, controllata al 100% da Snam, i cui principali azionisti di Snam sono Cassa Depositi e Prestiti Reti, Cassa Depositi e Prestiti e per un altro 49% altri investitori istituzionali. È la prima volta che una società quotata subisce una misura del genere. Italgas conta 1.500 concessioni, una rete di distribuzione di 53mila chilometri e 6 milioni di utenze a cui fornisce gas per quasi 7,5 miliardi di metri cubi. Un colosso che per gli inquirenti ha però trovato tra i suoi affari anche quelli di alcune società riconducibili a cosa nostra. E il gas storicamente attrae gli interessi della mafia siciliana da Mattei ai giorni nostri. Così capita che il cane a sei zampe si trovi tra le società cui appalta la metanizzazione del Sud Italia strutture in mano a soggetti destinatari di misure di prevenzione patrimoniali in passato accusati (ma poi assolti) di concorso esterno in associazione mafiosa e altre società su cui le procure antimafia hanno messo la lente d’ingrandimento. I pm di Palermo hanno richiesto e ottenuto per Italgas il commissariamento in seguito a una inchiesta partita sulla società Gas spa, società riconducibile a Vito Ciancimino e invece gestita formalmente dall’imprenditore Ezio Brancato. La stessa Gas nei primi anni duemila risulta però essere sotto il controllo di del figlio di don Vito, Massimo, che tramite due legali, la cede alla spagnola Endesa. Nel maggio del 2013 tre società del gruppo Gas finiscono in amministrazione giudiziaria e l’inchiesta della procura di Palermo, coordinata dai pm Petralia e Scaletta prosegue. Si arriva così ai fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, e poi assolti. Tuttavia i due sono destinatari di alcune misure di prevenzione patrimoniale. Vengono sequestrati ai due beni per il valore di circa otto milioni di euro nel dicembre 2013, e nell’inchiesta fanno capolino due società, la Imet e la Comest. Quest’ultima, che già compariva in un pizzino di Bernardo Provenzano e un’altra, la Euroimpianti, mettono nei guai Italgas. Proprio la Comest fa parte di un pacchetto di acquisizioni di Italgas, che ne prende il controllo successivamente all’amministrazione giudiziaria nel 2009. Ma la società che segna un punto di svolta per la vicenda è la EuroImpianti, che secondo la procura di Palermo sarebbe sempre riconducibile ai fratelli Cavallotti. EuroImpianti vince l’affidamento di alcuni appalti in Sicilia e Liguria e si occupa della manutezione di altre strutture controllate da Eni. Il 22 dicembre 2011 Euroimpianti entra in amministrazione giudiziaria in seguito alle inchieste della procura di Palermo, e nel luglio 2014 è il turno di Italgas, che secondo i giudici «aveva sicuramente cognizione del fatto che la Euroimpianti pur se formalmente intestata ai giovanissimi figli di Cavallotti Vincenzo e Cavallotti Gaetano, era di fatto gestita dai predetti imprenditori». Per il tribunale di Palermo ci sono sospetti di infiltrazioni mafiose all'interno di Italgas, che è anche quotata in Borsa: ora si trova affidata a un amministratore giudiziario. Sullo sfondo della vicenda una interdittiva antimafia atipica nei confronti della Euroimpianti arriva il 2 novembre del 2011 dalla procura di Messina. L’interdittiva atipica, presente nell’ordinamento italiano e ora non più in vigore dopo l’approvazione del codice antimafia del 2013, faceva accendere una spia nei confronti di un’azienda che prendeva parte a un appalto, ma senza effetti immediati: l’appaltatore può discrezionalmente valutare se interrompere o meno il rapporto. Per il tribunale di Palermo ci sono sospetti di infiltrazioni mafiose all'interno di Italgas, che è anche quotata in Borsa: ora si trova affidata a un amministratore giudiziario. A ricostruire la vicenda è Luca Schieppati, per tre mesi amministratore delegato di Italgas prima del commissariamento, in audizione alla Commissione Parlamentare Antimafia. L’11 novembre del 2014 Schieppati si siede davanti alla commissione parlamentare antimafia per riferire sulla vicenda Italgas. Esordisce specificando che «il racconto di questa sera è quello di una persona che, fino al 10 aprile 2014, era direttore generale operations di SNAM Rete Gas, dopodiché dall'11 aprile è stato in Italgas, dove in questi tre mesi esatti, dall'11 aprile 2014 all'11 luglio 2014, non ha mai saputo di questa vicenda». Fatto sta che dopo la sospensione EuroImpianti viene riabilitata nell’ottobre del 2012: per 14 mesi la società non ha partecipato a gare di Italgas, poi riprende il servizio. Arriva il commissariamento anche per Italgas nel luglio 2014. «misura - dice Schieppati in audizione - che ha colto Italgas di sorpresa, perché non ci era mai pervenuta, prima di quella data, nessuna richiesta né alcuna informazione relativamente ai fatti». Viene sentito anche Leonardo Rinaldi, Ex amministratore delegato di Gas Natural Distribuzione Italia SpA, altra società che ha portato le indagini dei pm su Italgas, ma la sua audizione in commissione è rimasta secretata. A dicembre vengono sentiti in commissione anche Paolo Mosa, amministratore delegato di Snam Rete Gas e Carlo Malacarne, Amministratore delegato di Snam, i quali ricalcano le parole di Schieppati sulla sorpresa del provvedimento di commissariamento, e indicano che la società ha già avviato un monitoraggio interno per la selezione delle ditte che partecipano agli appalti. Malacarne, amministratore delegato di Snam: «Non solo non ne ero al corrente, ma non è nel mio compito normale essere al corrente di un rapporto fra la società che ha l'indipendenza operativa e i suoi appaltatori». «Mi sento di dire - ha riferito Malacarne ai commissari - che ci sono state delle carenze, sicuramente, a livello locale, localizzate. Queste carenze vanno comunque individuate». E ancora «Il discorso di Eurimpianti Plus e Cavallotti l'ho letto nella notifica. Non solo non ne ero al corrente, ma non è nel mio compito normale essere al corrente di un rapporto fra la società che ha l'indipendenza operativa e i suoi appaltatori. Io non ne ero al corrente non solo nel 2009, ma neanche nel 2014. Questo discorso di Cavallotti l'ho letto, ma non ne ero assolutamente al corrente. Lo dico molto sinceramente». Uno scarico di responsabilità che forse chiarisce ancora poco i rapporti tra le società in gioco, cioè Italgas e quelle dei Cavallotti. Dopo sei mesi, dal giugno al dicembre 2014 i commissari di Italgas e i giudici sembrano non vederci ancora chiaro e, come riporta La Stampa, in Italgas permangono «condizioni di potenziale agevolazione degli interessi di soggetti collegati alla criminalità organizzata» mentre il pm «ha rappresentato di aver in corso il completamento di ulteriori attività investigative». È uno dei passaggi del provvedimento, secondo quanto riferito da chi ha visionato i documenti, con il quale il tribunale di Palermo ha prorogato per altri sei mesi il commissariamento della società controllata da Snam Rete Gas. In sostanza le indagini della procura di Palermo non si sono fermate, e si è in cerca di altri elementi utili, in particolare su negligenze nella gestione del sistema informatico degli appalti. Letta dunque la relazione degli amministratori giudiziari (Sergio Caramazza, Luigi Giovanni Saporito, Marco Frey, Andrea Aiello), depositata lo scorso 18 dicembre e fatta propria dai giudici nel provvedimento del 24, avrebbe fatto emergere in particolare una serie di carenze nel sistema di concessione degli appalti per i lavori sulla rete. I commissari: in Italgas permangono «condizioni di potenziale agevolazione degli interessi di soggetti collegati alla criminalità organizzata». Carenze, scrive ancora La Stampa, in grado di avere impatti negativi sul budget e sui conti della società. Proprio alla luce di queste carenze, i pm avevano chiesto e ottenuto nel novembre scorso il sequestro dei dati storici del sistema che gestisce gli appalti dell’intero gruppo Snam, al fine di «estrarre» i contratti relativi a Italgas. A poco è servito, secondo il giudice, l’attività posta in essere da Snam , che lo scorso 13 dicembre aveva a sua volta proposto una serie di misure per eliminare i problemi riscontrati dagli amministratori. Insomma, il rischio che Italgas rientri tra gli appetiti di cosa nostra è ancora alto e i giudici dicono che i commissari nella stessa Italgas che genera un terzo dei ricavi del gruppo Snam, pari a 1,3 miliardi di euro, devono restarci almeno fino al prossimo luglio.

«Ringrazio Riccardo Spagnoli e Matteo Viviani per avere, per la prima volta, portato a conoscenza degli italiani una verità che ancora oggi nei media, nelle aule di Tribunale, financo in Commissione Nazionale Antimafia si tenta di mistificare. Ringrazio anche il dott. Antonio Giangrande per avere ora - come in passato - trattato in maniera imparziale e professionale la storia della mia famiglia. Un ringraziamento particolare va a Pino Maniaci per avere per primo dato ascolto alla richiesta di aiuto della mia famiglia - scrive sul suo profilo Facebook Pietro Cavallotti - Ciò che più dà fastidio non è tanto il costatare che i sacrifici di due generazioni sono andati in fumo perché non siamo mai stati attaccati ai beni materiali; non è tanto vedere che un amministratore giudiziario si è impunemente arricchito sulle tue spalle con l'avallo - non so se consapevole o meno - del giudice che lo ha nominato, che ne avrebbe dovuto controllare l'operato e al quale avevamo a tempo debito segnalato le irregolarità compiute da questo signore amministratore. La cosa che più ci mortifica è continuare ad essere accostati alla mafia nonostante una sentenza di assoluzione passata in giudicato. Per chi ha subito le vessazioni della mafia nell'attività di impresa, financo nella vita privata non c'è nulla di peggio che essere accostati alla criminalità mafiosa. La mafia ci fa schifo! Noi siamo assolutamente lontani dalla logica mafiosa della prepotenza e della prevaricazione. Noi giovani abbiamo vissuto la nostra infanzia tra aule di Tribunale e case circondariali. Ma non abbiamo mai perduto la speranza nella giustizia. Pensavamo che l'assoluzione dei nostri padri ci avesse restituito la dignità che il fango di quelle infamanti accuse ci aveva tolto. Ci siamo messi in gioco e, ispirandoci ai valori che ci sono stati trasmessi dai nostri padri - l'amore per lavoro, il senso della legalità, il rispetto per il lavoratore che abbiamo sempre anteposto al bene personale - abbiamo costituito con le nostre mani una società che con impegno e sacrificio siamo riusciti a far crescere producendo il benessere per le famiglie dei nostri collaboratori e una aspettativa di vita migliore per noi stessi. Pensavamo di avere recuperato quello che la cattiva giustizia aveva tolto a noi e ai nostri padri. Avevamo per un attimo accarezzato il pensiero di vivere in un Paese civile. Ma evidentemente ci sbagliavamo. Nel 2012, infatti, viene sequestrata la nostra azienda. Sapete perché? Perché l'amministratore giudiziario che si vede nel video ha fatto una segnalazione al Tribunale dicendo che la nostra società faceva concorrenza alla Comest. Nel provvedimento di sequestro si continua a ripetere che i nostri padri sono vicini alla mafia. Ma come si può dire una cosa del genere a fronte di una sentenza ampiamente assolutoria? Ed ecco che proprio quando pensi di esserti rimesso in carreggiata, precipiti di nuovo in basso. Ti ritrovi isolato, emarginato dai media e da qualcuno che fino a poco prima ritenevi essere amico, tutto intorno terra bruciata. Siamo letteralmente impossibilitati nella ricerca di trovare un lavoro. Nessuno è disposto ad assumerci per paura di ripercussioni giudiziarie. Sono addirittura stati capaci di porre in amministrazione giudiziaria la Italgas perché questa ha avuto dei regolari rapporti commerciali con la nostra società che, secondo l'accusa, sarebbe riconducibile ai fratelli Cavallotti "vicini ad esponenti di spicco della criminalità organizzata". Questo ci ferisce e ci sconforta. Con la massima - e forse ingenua - fiducia nelle istituzioni, mandiamo una lettera alla Commissione Nazionale antimafia chiedendo di essere ascoltati per chiarire la vicenda giudiziaria della nostra famiglia e i rapporti che ci sono stati tra la nostra società e la Italgas, esprimiamo la più ampia disponibilità a collaborare per l'accertamento della verità. Ad oggi non ci è stata data alcuna risposta. Qualcuno potrebbe dire <<le colpe dei padri non devono ricadere sui figli>>. Ma talvolta nello sconforto ci chiediamo: quale sarebbe la colpa dei nostri padri? La loro colpa è forse quella di essere innocenti? Quella di avere subito le minacce della mafia in un periodo storico in cui opporvisi significava sottoscrivere la propria condanna a morte? Noi siamo orgogliosi di tutto quello che i nostri padri hanno fatto, di tutto quello che ci hanno insegnato. Ci dicono che noi siamo i prestanome dei nostri padri. Cosa falsa. Noi portiamo con orgoglio il loro nome e non lo prestiamo! E se la conseguenza dell'amore che noi proviamo nei loro confronti deve essere quella di portare insieme a loro questa croce noi siamo disposti a farlo, mai abbandonando la fiducia nella giustizia che siamo certi, prima o dopo, arriverà. L'auspicio è che giornalisti seri come Antonio Giangrande, Pino Maniaci, Marco Salfi, le stesse Iene, tutti gli altri protagonisti della antimafia vera (come Salvo Vitale), tutti i protagonisti della lotta contro tutte le mafie - per dirla con il dott. Giangrande -, tutti gli uomini liberi non asserviti al potere e non inclini a fare aprioristicamente da eco alla voce delle procure, possano ancora impegnarsi per far luce sul malaffare che ruota attorno al sistema criminale delle misure di prevenzione, dietro il quale spesso si nasconde e si arricchisce impunemente sotto il manto della legalità la criminalità meglio organizzata».

La Mafia dell’Antimafia: l'inchiesta di Telejato audita in Parlamento, scrive Pino Maniaci su “Change”. C’è ancora un business di cui non si parla, un business di milioni di euro. Il business dell’Antimafia. Quattro mesi dopo il brutale assassinio di Pio La Torre, nel 1982, viene approvata la legge Rognoni-La Torre, che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato aveva le armi per attaccare gli ingenti patrimoni mafiosi. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità. Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono l'uno dopo l’altro. Il 90% di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. A non essere rispettata e ad aver bisogno di una riforma strutturale è la Legislazione Antimafia - Vittime della mafia e relativo Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. I beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40%. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un business di circa 30 miliardi di euro, solo qui a Palermo. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Questa fase di sequestro secondo la legge modificata nel 2011 non deve superare i 6 mesi, rinnovabile al massimo di altri 6, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se il bene è pulito viene restituito al precedente proprietario. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempistiche. In media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti che è stato costituito nel gennaio 2014 per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. E non per capacità, perché la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro. Anche se poi vengono dichiarati esterni alla vicenda e gli imputati assolti da tutte le accuse. Telejato, la piccola emittente televisiva comunitaria siciliana che gestisco dal 1999 e che da allora non ha mai smesso di denunciare e lottare contro la mafia, ha sede a Partinico e copre un bacino d’utenza caratterizzato storicamente da una forte presenza mafiosa. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro, è abbastanza consolidata, e ci si ritrova con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, che sia di confisca o di dissequestro. Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le - forse volute - incapacità del sistema. Posso fare nomi, esempi, citare numeri e casi. Chiedo alla Commissione Antimafia di essere audito per esporre questa inchiesta che stiamo portando avanti a Telejato, con notevole fatica, perchè non abbiamo nessuno al nostro fianco.

La famiglia Cavallotti è solo la punta dell'iceberg, scrive Pino Maniaci su “Change”. I fratelli Cavallotti, sono stati assolti con sentenza definitiva dalla infamante accusa di concorso esterno in associazione mafiosa con la formula "perchè il fatto non sussiste". In riferimento all’assoluzione dei fratelli Cavallotti il dott. De Lucia ha dichiarato che tale pronuncia giudiziale “come tutte le sentenze di assoluzione, però, deve essere letta. Una serie di dati processuali lì non hanno trovato, per una serie di questioni di natura formale, soddisfazione”. Ebbene, i fratelli Cavallotti sono stati assolti non per “questioni di natura formale”, ma perchè, a seguito di un lungo e complesso procedimento penale, sono stati ritenuti vittime e non complici della mafia per i motivi di cui adesso si dirà. Gli elementi da cui è scaturito il processo penale sono gli stessi su cui si basano le misure di prevenzione avverso le quali pende ricorso in Cassazione. Si tratta di una serie di pizzini e di dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia che, se interpretate correttamente, dimostrano come le imprese dei fratelli Cavallotti, piuttosto che essere state avvantaggiate illecitamente dalla mafia, alla stregua di tutte le imprese operanti in Sicilia negli anni '80 e '90 - periodo della massima recrudescenza del fenomeno mafioso - sono state costrette a pagare il pizzo e a subire furti e danneggiamenti nei propri cantieri, tutti denunciati alle autorità competenti. I Cavallotti non hanno mai partecipato al sistema di spartizione illecita degli appalti (c.d. "Accordo Provincia") ideato dal Siino; ciò è dimostrato in maniera irrefutabile dall'elenco dei lavori che il gruppo Cavallotti ha svolto dalla data della costituzione della prima società di capitali alla data del sequestro, dal quale si evince che mai alcuna impresa riconducibile al gruppo Cavallotti si è aggiudicata lavori di importo superiore ad un Miliardo di lire indetti dall'Anas o dalla Provincia tra la seconda metà degli anni ottanta e il 1991 - periodo della riferita operatività dell'accordo suddetto avente ad oggetto, come spiegato dallo stesso Siino, la spartizione dei lavori indetti da Anas e Provincia di valore superiore ad un Miliardo di Lire . Quanto poi alla non meglio precisata - e perciò suggestiva - “documentazione riferibile a Bernardo Provenzano, che parla di appalti all'epoca di natura miliardaria, che riguardavano il gruppo Cavallotti” cui ha fatto cenno il dott. De Lucia secondo il quale tale documentazione avrebbe avuto “una valorizzazione diversa in sede processuale, ma questo non toglie che quel materiale trova nuovo utilizzo nella misura di prevenzione attualmente pendente”, può essere di aiuto alla comprensione della vicenda processuale ricordare che si tratta di missive dattiloscritte inviate dal Provenzano all’Ilardo e da questi consegnate al Colonnello Riccio. In queste missive si fa cenno, da una parte, ai lavori di metanizzazione dei comuni di Agira e Centuripe, eseguiti dalle società dei fratelli Cavallotti, dall’altra, alla Cooperativa “Il Progresso”, di cui a breve si dirà. Il carteggio in parola va letto - ed è stato valorizzato dai giudici del processo penale - come pagamento del pizzo, e ciò per le seguenti ragioni. Le gare per i lavori per la metanizzazione dei comuni di Agira e Centuripe sono state indette e aggiudicate a Palermo dalla Siciliana Gas. Queste missive sono del seguente tenore:

1- "Ti prego se puoi mettere a posto questi tre bigliettini che ti mando che cadono tutti e tre nella Provincia di Enna dammi risposta di quello che fai".

2- "Imp. Coop. Il Progresso deve fare un lavoro a Piazza Armerina - devono fare il consolidamento Pile sul Fiume Gela sotto il viadotto Fontanelle al km 48 strada Statale 117 bis importo 500 m circa questo lo cominceranno verso fine Febbraio 95. Imp. Cavallotti. Lavoro Gas Agira dopo Leonforte Provincia di Enna. Imp. 4 ml. Imp. Cavallotti. Lavoro Gas Centuripe Provincia di Enna Imp. 4 ml. Dammi risposta se li raccomandi o nò".

Va precisato che nel gergo mafioso con l'espressione "raccomandazione", come affermato incidentalmente nella sentenza che ha assolto dalla accusa di turbativa d’asta il sig. Pavone, titolare della Cooperativa “Il Progresso” menzionata nello stesso bigliettino, si intende fare riferimento alla messa a posto. Pur non contenendo una datazione, tali missive vengono fatte erroneamente risalire all'Ottobre del 1994 così da essere collocate, nella prospettazione accusatoria, in epoca antecedente alla aggiudicazione dei lavori (Dicembre 1994). Inoltre, la Cassazione ha stabilito che le dichiarazioni dell’Ilardo e le sintesi delle stesse contenute nella relazione del Riccio (dove si fa cenno al dato temporale) sono inutilizzabili perché ritenute prove formate in violazione di legge in assenza del contradditorio. Ma non è tutto. Sulla base di una nota "regola di mafia", se Provenzano avesse voluto favorire l'aggiudicazione dei lavori ai Cavallotti, avrebbe dovuto rivolgersi al referente locale della consorteria mafiosa competente su Palermo - luogo, nel quale vengono indette e aggiudicate le gare - e non di certo all'Ilardo, referente della famiglia mafiosa di Caltanissetta ed Enna. Viceversa, l'indirizzamento delle missive all'Ilardo dimostra, in verità, ancora una volta, che Provenzano faceva riferimento alla messa a posto. E ciò risulta compatibile con una ulteriore "regola di mafia" secondo la quale la riscossione del pizzo compete alla famiglia del luogo in cui i lavori vengono eseguiti. Alcune delle concessioni ottenute con regolare procedura dai Cavallotti, dopo il loro arresto avvenuto nel 1998, sono state sottratte alla Comest, già in amministrazione giudiziaria, e affidate, senza alcuna gara con il c.d. "patto di legalità" siglato dall'allora prefetto Profili, proprio alla Gas s.p.a., in corrispondenza dello stanziamento dei fondi europei per la metanizzazione della Sicilia al fine di, come si legge nell’atto prefettizio, “prevenire e reprimere ogni possibile tentativo di infiltrazione della malavita organizzata nel mercato del lavoro, nella fase di aggiudicazione degli appalti e negli investimenti, nonchè nello svolgimento dei lavori presso i cantieri e nell’esercizio delle attività produttive”. Con riferimento a questa operazione è di interesse, inoltre, riportare le dichiarazioni rese da Massimo Ciancimino presso il Tribunale di Palermo alla presenza dei magistrati dott. Ingroia e dott. Di Matteo il 09/07/2008: "si erano occupati insieme anche di fare levare l'aggiudicazione della, dei lavori dell'impresa quella dei Cavallotti per farla aggiudicare sempre all'impresa Brancato - Lapis". L'allora Presidente della Commissione Antimafia Giuseppe Lumia in data 17/06/2000 partecipava a Mezzojuso alla inaugurazione dei lavori di metanizzazione eseguiti dalla Gas s.p.a. spiegando al suo uditorio la necessità di coniugare lo “sviluppo con la legalità”. Nel processo di appello del processo di prevenzione il Procuratore Generale, Florestano Cristodaro, ha chiesto la revoca delle misure di prevenzione sia personali che patrimoniali ritenendo ancora una volta i Cavallotti "vittime della mafia" ed invitando i giudici a "leggere serenamente le carte processuali". Ora, se un Procuratore della Repubblica italiana, ha chiesto di revocare le misure di prevenzione, ciò significa, che con riferimento alla vicenda dei Cavallotti non è ravvisabile neppure l'indizio della loro vicinanza alla mafia; E se questo dato così significativo viene letto insieme alla sentenza di assoluzione definitiva la conseguenza non può che essere una: i Cavallotti non hanno mai avuto nulla a che fare con la mafia! Veniamo adesso all'audizione della commissione Nazionale Antimafia nella quale sul sequestro Italgas sono stato audito il dott. Dario Scaletta “Belmonte Mezzagno è un paesino della provincia di Palermo, per chi non lo conoscesse, ed è il paese di Benedetto Spera, un noto esponente mafioso assicurato alle patrie galere”) del dott. De Lucia (DE LUCIA: “(a) Belmonte Mezzagno, un paese di poche migliaia di anime, (i Cavallotti) sono ben noti sia per le capacità imprenditoriali sia per il tipo di rapporti che hanno con la criminalità mafiosa in quel territorio, che è stata per anni rappresentata dal braccio destro di Bernardo Provenzano, Benedetto Spera”), dell’On.le Lumia (LUMIA: “Belmonte Mezzagno, un comune dove agiva un boss mafioso del calibro di Benedetto Spera, che stava nel Gotha mafioso insieme a Provenzano e a Giuffrè”). Sembra quasi che le imprese gestite da cittadini belmontesi siano per ciò stesso dotate, in chiave indiziaria, di un marchio registrato che ne certifica l’origne criminale. Questo modo di argomentare che segue il noto detto di “fare di tutt’erba un fascio” è inamissibile oltre che offensivo nei confronti di una intera comunità cittadina. Vale la pena di ricordare che Belmonte Mezzagno non è soltanto il paese che ha dato i natali a Benedetto Spera, ma il paese in cui vivono e da cui provengono centinaia di lavori infaticabili e imprenditori onesti che lottano tra mille difficoltà a fianco dei propri collaboratori non soltanto contro la crisi economica ma anche contro un pregiudizio che talvolta fa più male della crisi. Belmonte Mezzagno, “per chi non lo conoscesse”, è il paese di artisti, di musicisti e sportivi di fama internazionale, dei migliori studenti dell’Università di Palermo. Continueremo con la Nostra battaglia e vi preghiamo di sostenere la petizione.

FRANCESCO DIPALO. Imprenditore di Altamura, testimone di giustizia, minaccia di darsi fuoco, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Un testimone di giustizia, Francesco Di Palo, ha minacciato di darsi fuoco nella serata di ieri davanti alla Prefettura di Monza, procurandosi comunque delle ustioni alle mani con liquido infiammabile. Francesco Di Palo è un imprenditore di Altamura, diventato testimone di giustizia e recentemente uscito dal programma di protezione. Tuttavia lui e la sua famiglia continuano a sentirsi in pericolo. Di Palo era il titolare della 'Venere srl' di Matera, società che produceva vasche idromassaggio, dichiarata fallita un anno prima che l’imprenditore decidesse di denunciare alla magistratura barese i soprusi subiti dalla mala altamurana e il presunto intreccio tra mafia, politica e Forze dell’Ordine. A causa delle ristrettezze economiche derivanti dal suo status di testimone di giustizia, l’uomo ha più volte protestato pubblicamente contro il ministero dell’Interno e la procura di Bari. Nell’ottobre 2011 chiese di uscire dal programma di protezione perchè – disse ai giornalisti – il Viminale non gli pagava più l’affitto della casa nella località protetta in cui viveva: per questo, il 27 ottobre 2011, protestò con un megafono davanti al tribunale di Bari dove era giunto in treno ("senza pagare il biglietto") e senza scorta. Raccontò che anche i suoi tre figli erano tornati a casa, ad Altamura. «Ero disposto a tutto per la giustizia, ma sono stato buttato al vento come un pezzo di carta. Protesto – disse in quell'occasione ai cronisti – per dire a questa procura che i testimoni di giustizia sono trattati come pezze per pulire le scarpe».

Altamura: nuove minacce per i fratelli Di Palo  Scritte intimidatorie contro il giornalista ed il testimone di giustizia, scrive Savino Percoco su “Antimafia Duemila”. Lo scorso dicembre 2014, all’indomani di alcune denunce, testimoniate in diretta radiofonica ai microfoni di Radio Regio Stereo, Alessio e Francesco Di Palo, sono stati destinatari di minacciose frasi intimidatorie scritte su alcuni muri della città di Altamura. Non è la prima volta che i due fratelli, entrambi molto attivi nella lotta contro la criminalità organizzata, sono destinatari di inquietanti messaggi o minacce. In passato sono stati vittime anche di violente aggressioni fisiche e verbali ed hanno subito danni anche su alcuni beni mobili. Alessio è giornalista e conduttore radiofonico e nei suoi programmi denuncia senza timore il malaffare mafioso e le sue connessioni. Francesco invece è un ex imprenditore e titolare della Venere S.r.l. di Matera, produttrice di vasche idromassaggio, divenuto testimone di giustizia dopo aver coraggiosamente denunciato i suoi estorsori. Dal dicembre 2009 su richiesta del pm antimafia Desirèe Digeronimo, oggi consigliere comunale di Bari, è entrato nel programma di protezione, iniziando così la dura vita dei testimoni di giustizia in località protetta fatta di segretezza, difficoltà economiche e limitazioni di movimenti e spostamenti. Nonostante ciò nei loro confronti regna un certo silenzio. Nessuno, tra i media, ha dato risalto alle intimidazioni subite ed anche tra le istituzioni sono latitanti nell'esprimere vicinanza verso questi due uomini che a distanza di anni, continuano il duro commino in nome della giustizia e della legalità. Francesco Di Palo, assieme al fratello, qualche mese fa ha presentato una serie di esposti alla Procura della Repubblica di Bari, denunciando continue estorsioni ai danni di imprenditori, commercianti ed artigiani altamurani. Nella sua denuncia Di Palo ha spiegato come, a suo parere, vi sia una nuova famiglia criminale che sta prendendo il controllo sulle attività estorsive un tempo condotte dal boss Bartolomeo Dambrosio, trucidato da 50 colpi di arma da fuoco nelle campagne altamurane il 6 settembre del 2010. “Inoltre sono stati inviati esposti - aggiunge Francesco - con i quali abbiamo denunciato fatti gravi e penalmente rilevanti che vedono coinvolti imprenditori deviati di Altamura, affiliati al clan Dambrosio e ad un clan di Bari. Non abbiamo più avuto notizie. Mai in nessuna Procura d’Italia un Testimone di Giustizia non è stato convocato dai Magistrati dopo aver denunciato fatti gravi e penalmente rilevanti. Mai in nessuna Procura della Repubblica d’Italia un soggetto che denuncia una organizzazione criminale per estorsioni, non è convocato dai magistrati per confermare le denunce rese e/o approfondire i fatti oggetto delle stesse denunce”. Alla luce di ciò, qualche settimana fa i due fratelli lanciarono un appello dagli studi di Radio Regio Stereo indirizzato al Prefetto di Bari, chiedendo non solo un intervento a riguardo ma anche spiegazioni per il mancato scioglimento del Consiglio Comunale di Altamura per condizionamento mafioso.Su quest’ultio punto, l’ex imprenditore ricorda importanti deposizioni rilasciate agli inquirenti dalla vedova del boss Bartolomeo Dambrosio (oggi testimone di giustizia) riguardo presunti coinvolgimenti tra mafia, imprenditoria e politica altamurana. Nello specifico, risalta i punti e afferma “che il Sindaco di Altamura Mario Stacca chiedeva al boss supporto per le sue campagne elettorali …  il Presidente del Consiglio Comunale di Altamura, si recava a casa del boss per chiedere sostegno per la sue candidature a consigliere comunale di Altamura … e che gli amministratori e politici Altamurani erano quasi tutti nel libro paga del Columella”.

A tutela delle sue accuse, il testimone di giustizia fa riferimento anche ad alcune intercettazioni telefoniche apparse sui giornali, tra il figlio di Carlo Dante Columella (patron della discarica di Altamura) e il Presidente del Consiglio comunale di Altamura Nico Dambrosio, quando “parlavano delle presunte mazzette che i Columella pagavano al segretario del sindaco tanto che quest’ ultimo era definito dagli intercettati, mani viola (dal colore delle banconote da 500 euro. Nelle stesse intercettazioni si faceva riferimento a presunte mazzette che andavano anche al Sindaco Stacca”. Il senso di solitudine da parte del testimone di giustizia si manifesta anche dopo un ulteriore atto intimidatorio nei suoi confronti, avvenuto negli ultimi tempi. “Uno dei principali indagati per Mafia murgiana, recentemente raggiunto da nuova ordinanza di custodia cautelare per reati di mafia - spiega Francesco - ha persino lanciato, tramite una rete televisiva privata, una sorta di petizione per non farmi mettere più piede ad Altamura. Tutto questo nella più assoluta indifferenza delle Autorità Giudiziarie. Io ho sacrificato la mia famiglia, le mie aziende, il futuro dei miei figli perché ho creduto nella Giustizia e la Procura di Bari non risponde alle mie missive: ma lo Stato con chi sta?”.

Francesco Dipalo: "Io, testimone di giustizia contro la Mafia Murgiana". La lettera dell’imprenditore: “Entrati nel programma di protezione, un incubo senza fine". Pubblichiamo di seguito la lettera inviata al direttore Giorgio Bongiovanni di “Antimafia duemila” da Francesco Dipalo, testimone di giustizia di Altamura che ha denunciato i clan della Mafia Murgiana.

«Egregio Direttore, chi Le scrive è un Imprenditore di Altamura che alcuni anni fa denunciò una organizzazione criminale denominata Mafia Murgiana che imponeva il pizzo al sottoscritto e ad una intera classe imprenditoriale. A seguito delle mie dichiarazioni rilasciate alla DDA di Bari e dopo sei anni di indagini, la dottoressa Desirèe Digeronimo, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari, e il dott. Roberto Pennisi Sostituto Procuratore della Direzione Nazionale Antimafia, applicato alla DDA di Bari, chiesero ed ottennero dal GIP di Bari il rinvio a giudizio di numerosi soggetti tra i quali figuravano, affiliati al clan Dambrosio di Altamura, imprenditori deviati, esponenti delle forze dell’ordine, professionisti, politici ed amministratori pubblici accusati a vario titolo di associazione mafiosa, omicidi, occultamento di cadavere, detenzione illegale di armi da guerra e relative munizioni, estorsione, usura, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, rapimento (per avere rapito un imprenditore di Altamura rilasciato per aver pagato un riscatto) ecc. Sempre dalle mie denunce si svilupparono altri filoni di indagini che consentirono al Tribunale di Lecce (competente su quello di Bari), di rinviare a giudizio una ventina di soggetti tra i quali figuravano magistrati togati, giudici di pace, avvocati ecc. tutti accusati di aver pilotato sentenze in favore del boss Bartolomeo Dambrosio e dei suoi affiliati. Sempre dalle mie denunce si sono sviluppati altri filoni di indagini tra i quali vi sono quello della sanità pugliese, e delle escort. Il mio vero dramma ha inizio quando, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari e della Direzione Nazionale Antimafia, io e la mia famiglia, esattamente 5 anni fa fummo inseriti nello speciale programma di protezione e condotti in località segreta. Da allora per tutta la mia famiglia ha avuto inizio un incubo senza fine. Siamo stati umiliati, derisi, vessati, maltrattati e ci siamo sentiti dire anche che rompevamo i coglioni quando contestavamo comportamenti irresponsabili, ingiustificati ed ingiusti messi in atto da funzionari del Ministero dell’Interno nei confronti di soggetti che in questa maledetta storia sono solo vittime. È stato distrutto il futuro affettivo dei miei figli che hanno dovuto lasciare amici e parenti per essere destinati all’isolamento più totale. Una delle mie figlie solo dopo pochi mesi non sopportava più lo stato di solitudine e di sofferenza a cui era sottoposta e tornò a casa ad Altamura. Come se tutto ciò non bastasse, da quando sono stato sottoposto allo speciale programma di protezione, il Servizio Centrale di Protezione non ha provveduto a notificarmi gli atti giudiziari. Nel frattempo alcuni dei soggetti arrestati e/o rinviati a giudizio, mi avevano querelato per diffamazione e/o reati simili. A seguito delle predette querele, sono stato rinviato a giudizio, processato e condannato in contumacia dai giudici di pace di Altamura mentre io ero all’ oscuro di tutto. Io non sapevo neanche di essere stato querelato. Ovviamente gli imputati hanno utilizzato le condanne inflitte in contumacia al sottoscritto dal giudice di pace di Altamura per tentare di screditarmi nei processi nei quali erano imputati. Ad un testimone di giustizia sotto protezione in una località segreta, lo Stato non gli ha notificato gli atti giudiziari. Mi è stato impedito di esercitare il diritto di difesa nei processi. Con gli atti e i documenti in mio possesso, avrei potuto dimostrare ai giudici di pace che le querele sporte nei miei confronti dagli affiliati al clan Dambrosio erano pretestuose e facevano parte di una strategia difensiva finalizzata a screditarmi. Ma vi è di più: lo Stato non mi ha concesso di presenziare nei processi nei quali sono persona offesa e mi sono costituito parte civile contro i miei estorsori, contro soggetti accusati di reati gravi come omicidi, ecc. Mi è stato impedito di puntare il dito contro i miei estorsori. Inoltre mi è stato impedito di poter raggiungere altre procure per acquisire atti a mia firma di procedimenti penali a carico di altri soggetti da me denunciati, e che erano strettamente attinenti ai procedimenti penali in corso a Bari. Il risultato è che i colletti bianchi della mafia murgiana sono stati assolti. Uno dei principali imputati assolti, solo poche settimane dopo la sentenza di assoluzione è stato raggiunto da una nuova ordinanza di custodia cautelare per reati simili. Lo Stato mi ha impedito di esercitare il diritto di difesa nei processi ed ha agevolato le posizioni processuali di soggetti legati ad una potente organizzazione criminale che da oltre un decennio ha condizionato la vita sociale ed economica di una intera comunità. Ora sono tornati a delinquere più forti di prima grazie alla inerzia dello Stato. Ovviamente il sottoscritto ha provveduto ad inviare al Ministro dell’Interno, oltre che al vice Ministro, una serie di esposti con i quali denunciavo tutto quello che si stava verificando e che stavano inclinando i processi a beneficio degli imputati. Nessuno mi ha mai risposto. Si sta per volgere al termine il processo in Corte di Assise a Bari nei confronti di tutti gli altri affiliati al clan e al sottoscritto non è stato concesso di presenziare ad una sola udienza. Si continua ad impedire ad un testimone di giustizia di presenziare alle udienze. Ma nonostante le decine di esposti che ho inviato a mezzo raccomanda a/r al Ministro Alfano, mai nessuna risposta mi è pervenuta e nessun provvedimento e stato adottato per consentirmi di avere giustizia. Ho anche denunciato al Ministro Alfano con decine di missive, che nonostante i processi in corso, nonostante le indagini tuttora in corso, il Servizio Centrale di Protezione ha reso pubblica la mia residenza nella località dove attualmente vivo e nessuna tutela è stata predisposta per la mia famiglia ed in particolare nei confronti di mia figlia che vive ad Altamura. Non mi ha mai risposto. Ora tutti sanno che vivo a Monza. Ho scritto decine di missive ai Prefetti di Bari e di Monza e Brianza con le quali ho chiesto se sono in state attuate misure di tutela idonee a garantire la incolumità dalla mia famiglia. Nessuno mi ha mai risposto. Si continua a favorire le posizioni processuali di esponenti della mafia murgiana e il Ministro Alfano non risponde. Egregio direttore, in questo Paese per garantire la incolumità dei propri cari che rischiano di essere lasciati nelle mani dei carnefici, bisogna ricorrere ad atti estremi. Questo è lo Stato. Cordialità. Francesco Dipalo»

LUIGI ORSINO. Vittime di camorra abbandonate dallo Stato – L’invito a denunciare il racket è una trappola? Scrive “Pensare Liberi”. Ci ritroviamo a parlare di malagiustizia, ma questa volta la protagonista indiscussa è la camorra. Abbiamo raccolto la testimonianza di un nostro concittadino napoletano che riporteremo integralmente nel presente articolo. Questa vuole essere una denuncia nei confronti della politica, delle istituzioni, della magistratura, delle forze dell’ordine e nei confronti di quei cittadini collusi e quindi omertosi. Sappiamo tutto, i vari “stacci tu qua e poi vediamo se fai l’eroe!” Bene, la storia che portiamo oggi alla luce parla proprio di un caso eroico, di chi ha detto no alla camorra, di chi ne ha pagato pesantissime conseguenze, di chi non trova dalla sua parte nemmeno l’opinione pubblica, i media, o famosi giornalisti o scrittori. Perchè quando si fanno i nomi, quando dal generico si passa al pratico, allora le cose si fanno davvero serie. Questo articolo non diverrà un best-seller, ma bisogna avere il coraggio di denunciare soprattutto i casi reali e stringersi intorno a questi. Tutti devono sapere cosa accade a un nostro concittadino nel momento in cui cade in questo vortice di violenza e disumana realtà. Belle parole? Vediamo se siamo bravi anche con i fatti? Ci incontriamo per strada a parlarne da uomini? Questa storia, come tante altre, dimostra come lo Stato sia completamente assente nel momento in cui bisogna difendere i cittadini che hanno avuto il coraggio di denunciare il racket. Politicamente scorretto dirlo? Denunciare il racket è un dovere? Solo così si può sconfiggere la camorra? L’omertà… di chi? Slogan di un certo effetto, di quelli che suscitano gli applausi delle platee… peccato che spesso questo invito a denunciare il racket si riveli solo una ingegnosa, quanto sospettosamente premeditata, trappola mortale. I fatti parlano in questi termini. Lo Stato? Assente ingiustificato…Veniamo al coraggioso e disperato racconto del protagonista cittadino Luigi Orsino e della sua famiglia. «La nostra attività imprenditoriale (mia e di mia moglie Esposito Giuseppina) inizia nel 1979, all’epoca eravamo studenti, con l’apertura di un piccolo negozio di mobili in Portici (Na). Nel tempo la nostra attività si ingrandì e arrivammo a possedere 2 aziende, una ditta individuale ed una S.r.l., proprietarie di 3 negozi di abbigliamento in Portici, di un grosso negozio di arredamenti sempre in Portici e di un ancor più grande negozio di arredamenti in Sant’Anastasia. Ovviamente avevamo molti dipendenti ed eravamo divenuti benestanti. Comperammo una villa al mare in Calabria, due proprietà a S. Sebastiano al Vesuvio (villa con giardino e dependance con giardino), un appartamento di lusso ad Ercolano e due appartamenti in pieno centro di Roccaraso ( circa 130 mq + 60 mq), un locale commerciale in Portici. Ad un certo punto entrammo nelle mire del clan Vollaro che pretese cifre sempre più consistenti per farci lavorare in pace, ovviamente ad ogni nostra resistenza corrispondevano minacce, atti intimidatori e attentati. L’esosità degli estorsori ci costrinse a ricorrere all’aiuto finanziario di una persona, che credevamo essere nostro amico e con cui effettivamente intrattenevamo rapporti di amicizia a livello familiare, tale individuo si offerse di prestarci il denaro per poter tacitare le richieste estorsive dei camorristi. In seguito questa persona, noto professionista napoletano, si rivelò essere un avido usuraio che in complicità con altri svolgeva questa ignobile attività. In seguito l’usuraio si rivelò essere un personaggio molto pericoloso ed aggressivo, arrivando a minacciarmi con una pistola ed a vantarsi dei suoi stretti legami con il feroce clan camorristico dei Vollaro. Quest’individuo arrivò a pretendere interessi che, fatti i dovuti calcoli e grazie ad un perverso meccanismo, arrivano a raggiungere finanche il 400%. Sempre questo viscido personaggio, quando non potei onorare prontamente i prestiti, si appropriò con minacce ed atti violenti delle mie proprietà di Ercolano e di Roccaraso, una vera e propria estorsione perpetrata usando la violenza per vincere la mia riottosità. L’eccessiva avidità dei camorristi e del loro affiliato, e forse una sopravvalutazione delle mie disponibilità finanziarie, causarono il tracollo economico delle mie aziende ed il loro conseguente fallimento. Ovviamente tutti i miei beni furono pignorati a favore dei creditori, tra cui per altro avevano avuto la sfacciataggine d’inserirsi anche gli usurai. Il Giudice delle esecuzioni immobiliari del Tribunale di Nola si rifiutò di voler considerare il caso nel suo insieme e ritenne che non era sua competenza valutare i risvolti penali (intanto avevo denunciato il tutto alla Procura della Repubblica), in tal modo equiparava il mio caso, di fatto, ad un fallimento doloso, quanto in realtà  era sempre stato, e tale riconosciuto dallo stesso tribunale fallimentare, fallimento semplice non fraudolento. E’ pur vero che il giudice è tenuto a salvaguardare i diritti dei creditori ma è altrettanto vero che egli è tenuto a verificare la validità dei crediti vantati. Tra i miei creditori vi sono gli usurai e banche che si sono comportate come usurai e continuano a farlo tutt’ora. Le banche hanno applicato l’anatocisma finchè la legge non ha comparato tale pratica all’usura, ora applicano comunque pratiche che fungono da moltiplicatore del debito, va, inoltre considerato che le stesse banche hanno commesso atti illegali, dimostrati, ma su cui il Giudice civile non ha mai indagato. Il G.E. Si è limitato a dichiararsi incompetente a ripartire tra i creditori il ricavato delle vendita all’asta dei miei beni, compreso la casa in cui abito con la famiglia. Veniamo al risvolto penale della vicenda: Nel 2004 presentammo denuncia alla Procura della Repubblica contro usurai ed estorsori, tale denuncia, su consiglio pro bono di un giovane legale, tracciava per grandi linee la vicenda perché ci aspettavamo di essere convocati da un magistrato per poter scendere nei particolari. La denuncia fu presentata alla Procura e non alle locali forze dell’ordine perché negli anni precedenti si erano verificati episodi di collusione tra tali organismi e la malavita organizzata, i fatti ebbero grande rilevanza e furono promosse azioni giudiziarie, inoltre noi stessi avemmo a costatare strani comportamenti. Ascoltati dai CC di San Sebastiano rendemmo  dettagliata deposizione circa i fatti riguardanti l’usura ma fummo più vaghi sugli estorsori, per le ragioni già dette. Dal 2004 al 2010 nessuno ci ha ascoltato, ad eccezione dei CC 2 volte, in ogni caso mai nessun giudice, ed anzi la procedura è stata divisa in due tronconi, uno per l’usura ed uno per l’estorsione, nonostante noi avessimo dimostrato che i reati erano contigui e perpetrati da personaggi in complicità tra loro, Proc. N° 52969/05 e 11335/10. A giugno del 2010 il Giudice che si occupava delle indagini sull’usura ha archiviato la procedura senza neanche avvertirci, privandoci del nostro diritto di fare opposizione. Inoltre non si spiega come mai lo stesso magistrato, su nostra richiesta ci abbia concesso i benefici previsti dall’art. 20 della legge 44/1999 (il 25/11/2010) che prevede la sospensione dei termini esecutivi per le vittime della criminalità organizzata, riconoscendoci, dunque, tale status, e poi poco dopo (comunque prima dello scadere dei canonici 300 gg) archivia il tutto, bloccando in tal modo la nostra richiesta di poter accedere ai fondi di solidarietà destinati alle vittime di camorra. Veramente la spiegazione è che il Signor Giudice in 5 anni non ha fatto indagini ma ha tenuto la pratica a raccogliere polvere, dopo di che dovendo rispondere della sua ignavia si è cavato d’impaccio archiviando. La motivazione dell’archiviazione “ perché non eravamo credibili in quanto esistevano rapporti antecedenti con gli usurai” è una vera beffa. Tali rapporti li avevamo già riferiti noi nella nostra denuncia, specificandone la natura e furono proprio tali rapporti a far conoscere agli usurai la nostra florida situazione finanziaria, (l’usuraio era il nostro commercialista sin dal lontano 1979, mai avevamo prima sospettato la sua vera attività). Ancora maggiormente inspiegabile è l’archiviazione della procedura contro gli usurai se si considera il fatto che abbiamo prodotto prove non solo testimoniali (testimonianza mia e di mia moglie) ma anche prove documentali incisive e verificabili. Resta in piedi la procedura contro gli estorsori, ma l’archiviazione della procedura contro gli usurai non fa ben sperare. Nel frattempo tutti i miei beni sono stati venduti forzosamente dal Tribunale, la casa in cui abitiamo è stata anch’essa venduta e il 07 settembre u.s. l’Ufficiale Giudiziario , con l’appoggio della forza pubblica, mi voleva gettare materialmente per strada, solo le mie precarie condizioni di salute lo hanno costretto a rinviare al 19 ottobre 2011, quando interverrà un’ambulanza per sgomberarmi senza correre il rischio di essere denunciati per tentato omicidio. In quale modo noi si possa sopravvivere senza più una casa, senza un lavoro, nell’indigenza più assoluta, io gravemente cardiopatico, con tre by-pass, e mia moglie malata anch’essa, nessuno mi ha mai spiegato. Tutti gli sforzi fatti in questi anni per rientrare nel tessuto produttivo (vari tentativi di iniziare una nuova attività) sono stati vanificati dall’aggressività dei criminali che mi hanno perseguitato e continuano ancor oggi. Nel tempo abbiamo subito minacce, intimidazioni ed attentati di ogni genere: spari contro i nostri esercizi (molte volte), furti di automezzi carichi di merce, spari conto la mia casa e la mia vettura, furti negli esercizi, rapimento di mio figlio (durato pochi minuti per fortuna), auto con mia moglie a bordo spinta fuori strada, percosse a me e a mia moglie, uccisione del nostro amato cane a colpi d’arma da fuoco. E ultime in ordine di tempo atti vandalici contro la mia vettura (settembre 2010), un ordigno incendiario gettato nel cortile di casa (07/12/2010) che ha causato un principio d’incendio da me domato con un estintore, dopo di che sono intervenuti i CC. Il 3 gennaio 2011 un messaggio anonimo contenente una minaccia, scritto su un biglietto d’auguri, è stato lasciato nella buca delle lettere. Il 17 gennaio 2011 un individuo introdottosi nel giardino di casa ha aggredito mia moglie,verso le ore 19, picchiandola e poi spingendola per le scale interne al giardino stesso. Evidentemente i malavitosi vogliono mantenere costante la pressione su di noi ed anzi rincarano vieppiù la dose. Il 21/03/2011 un individuo aggredì in giardino mia moglie ponendo in essere un tentativo di strangolamento. Lo stato economico attuale è disastroso, viviamo della carità del Comune (ogni tanto ci paga qualche bolletta) e della Chiesa di San Sebastiano al Vesuvio che ci fornisce pacchi alimentari. Faccio notare che per volere del comitato per l’ordine e la sicurezza siamo sottoposti a protezione di tipo 4, cioè i Carabinieri della locale caserma passano più volte al giorno a controllare che non vi siano pericoli incombenti. Sicuramente la costanza e la tenacia del Comandante la stazione di San Sebastiano al Vesuvio e dei militi ai suoi ordini ha evitato che nuove e,  forse più gravi, violenze fossero commesse a nostro danno. Ci risulta incomprensibile come sia possibile proteggerci se saremo in ridotti a vivere in strada (realmente, non retoricamente). Come è incomprensibile che la polizia si mobiliti in otto, dico otto, agenti, alcuni della DIGOS per sfrattarci mentre contemporaneamente il Comandante dei CC e il suo vice erano presenti per garantirci la protezione. Una assurda ed incomprensibile contraddizione. Il prossimo 19 ottobre l’ufficiale giudiziario accompagnato probabilmente da un plotone di poliziotti, con l’ambulanza pronta nel caso mi dovesse venire un altro infarto mi butteranno in strada, con la famiglia, a calci nel di dietro. Se fossi stato il boss Provenzano forse mi avrebbero trattato meglio. E’ molto facile fare i forti con i deboli, salvo poi a farsi deboli con i forti. Luigi Orsino»

“DENUNCIA IL RACHET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito. Vogliamo fare luce su un particolare che ci ha colpito molto e che, a nostro avviso, rappresenta la chiave del “problema camorra” e nello stesso tempo la sua vera forza. La collusione tra questa e le istituzioni, ma soprattutto, la collusione tra camorra e cittadini. Chiunque, inaspettatamente, può rivelarsi un camorrista, anche il più insospettato e insospettabile amico di famiglia. In questo caso è venuta fuori la figura di un commercialista il cui vero lavoro è quello di segnalare alla camorra le aziende che fatturano bene e che vanno a gonfie vele, arrotondando con attività di estorsione, mentre il lavoro contabile è soltanto una copertura. Che questo principio entri bene nelle nostre teste. Il nemico non è soltanto fuori.

PINO MASCIARI: «Costretto a sparire e autoproteggermi perché abbandonato dalla scorta in Calabria», scrive Roberto Galullo su “Il Sole 24Ore”. Il suo telefono cellulare torna raggiungibile 19 minuti dopo la mezzanotte ma il Sole-24 Ore riesce a mettersi in contatto con Pino Masciari – il testimone di giustizia calabrese che per oltre 36 ore era scomparso a Cosenza – solo alle 9.31 di oggi. Ha la barba lunga e sta poco al telefono. «La scorta mi ha detto che non mi avrebbe riportato a casa. Mi ha girato le spalle e se ne è andata. A quel punto ho dovuto tutelarmi e sono stato costretto a fare tutto da solo senza dare notizie a nessuno, neppure a mia moglie. Mi sono mosso da solo e non nascondo che nel primo tratto di strada mi hanno riconosciuto e sono stato preso dal panico. Con mezzi di fortuna mi sono messo all'opera per tornare a casa, a Torino, dove sono giunto ieri sera tardi». In altre parole, come lui stesso scrive sul sito, «mi sono sentito costretto ad auto-proteggermi e a tornare a casa, non ritenendo giusto di esporre i civili che mi stavano accompagnando in quanto versavo, per l'ennesima volta, privo di protezione in terra di Calabria». Da quel momento ha staccato il cellulare perché, dice, «sarebbe stato possibile essere rintracciato da chiunque». A casa l'aspettavano moglie e figli che – a quanto dichiara al Sole-24 Ore lo stesso Masciari - nulla sapevano. E che per 36 ore hanno cercato di avere notizie. E che per 36 ore nulla hanno intuito se è vero che la coniuge di Pino ha cercato di averne in ogni modo e che ancora nel pomeriggio di ieri aveva un rappresentante del servizio scorte di Torino accanto a lei in casa. Notizie sulla sua scomparsa che - a quanto si apprende solo questa mattina nel momento in cui è stato pubblicato il comunicato stampa nel sito di Pino Masciari – la prefettura (di Torino? Di Cosenza?, non è dato sapere visto che manca l'intestazione) sapeva. E lo Stato (qualunque fosse la prefettura) non le ha comunicate alla moglie? A quanto sembra no anche se è umanamente difficile da credere. Alle ore 9 di ieri mattina la prefettura ha infatti ricevuto questo comunicato spedito via fax dallo stesso Masciari: «Oggetto: Urgente Comunicazione Giuseppe Masciari. La presente, quale documento ufficiale, è per comunicare che in questo momento sono a Cosenza, Calabria, e sono stato " abbandonato" dal personale di scorta, con la conseguenza che sto provvedendo di rientrare a Torino con mezzi pubblici o di fortuna. Vani sono stati i tentativi di contattare il personale di scorta di riferimento di ………… . Pertanto mi rivolgo a Lei per un intervento immediato che tuteli la mia persona e per denunciare il susseguirsi di mancate condizioni di sicurezza che avvengono, in particolar modo in Calabria, e che mi espongono a serio rischio. Reputo le autorità preposte responsabili se dovesse accadere qualcosa alla mia persona. Cordialità» . Questa la nuda cronaca (conclusiva o dovremo aspettarci la versione dello Stato, attraverso le spiegazioni del Viminale?) di due giornate delle quali non si sentiva francamente il bisogno.

Chi è Giuseppe Masciari?

Il mio nome è Giuseppe Masciari, un imprenditore edile calabrese, nato a Catanzaro nel 1959. Sono stato sottoposto a programma speciale di protezione dal 18 ottobre 1997, insieme a mia moglie (medico odontoiatra) e ai miei due bambini. Dal 2010, fuoriuscito dal Programma Speciale di Protezione, vivo sotto scorta. Ho denunciato la ‘ndrangheta e le sue collusioni con il mondo della politica. La criminalità organizzata ha distrutto le mie imprese di costruzioni edili, bloccandone le attività sia nelle opere pubbliche che nel settore privato, rallentando le pratiche nella pubblica amministrazione dove essa è infiltrata, intralciando i rapporti con le banche con cui operavo. Non ho accettato le pressioni mafiose dei politici e del racket della ‘ndrangheta. Il sei per cento ai politici e il tre per cento ai mafiosi, ma anche angherie, assunzioni pilotate, forniture di materiali e di manodopera imposta da qualche capo-cosca o da qualche amministratore, pretese di regali di appartamenti e costruzioni gratuite, finanche acquisto di autovetture: questo fu il prezzo che mi rifiutai di pagare. Fummo allontanati dalla nostra terra per l’imminente pericolo di vita in cui ci siamo trovati esposti, insieme alla mia famiglia. Da quando operavo nella mia attività con le mie aziende, non mi sono arreso mai ai soprusi della ‘ndrangheta, mi ribella, riferisco tutto all’Autorità Giudiziaria e denuncio; tanto fu ferma la mia scelta di non cedere ai ricatti che  arrivai al punto di dover chiudere tutte le mie imprese licenziando nel settembre 1994 gli ultimi 58 operai rimasti.

Ingresso nel Programma Speciale di Protezione. Il 18 Ottobre 1997 io, mia moglie Marisa e i miei due figli appena nati entrammo nel programma speciale di protezione e scompariamo dalla notte al giorno: niente più famiglia, lavoro, affetti, niente più Calabria. Testimonio nei principali processi contro la ‘ndrangheta e il sistema di collusione, quale parte offesa costituendomi come parte civile. Divento “il principale testimone di giustizia italiano”, così definito dal procuratore generale Pier Luigi Vigna. Inizia il CALVARIO: accompagnamenti con veicoli non blindati, con la targa della località protetta, fatto sedere in mezzo ai numerosi imputati denunciati, intimidito, lasciato senza scorta in diverse occasioni relative ai processi in Calabria, registrato negli alberghi con il mio vero nome e cognome, senza documenti di copertura. Troppi episodi svelano le falle del sistema di protezione che dovrebbe garantire sicurezza per me e la mia famiglia.

Lo Stato istituisce la figura del testimone di giustizia. 2001. Con la legge 45/2001 si istituisce la figura del testimone di giustizia, cittadino esemplare che sente il senso civico di testimoniare quale servizio allo Stato e alla Società. Il 28 Luglio 2004, la Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi notifica che “sussistono gravi ed attuali profili di rischio, che non consentono di poter autorizzare il ritorno del Masciari e del suo nucleo familiare nella località di origine. Ritenuto che il rientro non autorizzato nella località di origine potrebbe configurare violazione suscettibile di revoca del programma speciale di protezione”.

Revoca del programma speciale di protezione. Il 27 Ottobre 2004, tre mesi dopo, la stessa Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi notifica il temine del programma speciale di protezione. Tra le motivazioni si indica che i processi erano terminati. Cosa non vera: i processi erano in corso e la D.D.A. di Catanzaro emetteva in data , 6 febbraio 2006 successiva alla delibera, attestato che i processi era in corso di trattazione.

Ricorso contro la revoca. 19 Gennaio 2005, faccio ricorso al TAR del Lazio contro la revoca, azione che mi permette di rimanere sotto programma di protezione in attesa di sentenza.

Il programma cessa in ogni caso. 1 Febbraio 2005, senza tenere conto del ricorso già in atto, la Commissione Centrale del Ministero dell’Interno delibera ancora una volta di “ invitare il testimone di giustizia Masciari Giuseppe ad esprimere la formale accettazione della precedente delibera ricordando che alla mancata accettazione da parte del Masciari, seguirà comunque la cessazione del programma speciale di protezione”.

Non posso testimoniare ai processi. Il 19 Maggio 2006, il mio legale invia una nota alle Autorità competenti per segnalare che i Tribunali erano stati notiziati “della fuoriuscita del Masciari dal programma di protezione” e che pertanto non risultavo essere più soggetto a scorta per accompagnamento nelle sedi di Giustizia. Mi sono recato ugualmente nei processi con senso di DOVERE, accompagnato dalla società civile.

Sentenza del TAR: diritto alla sicurezza. Gennaio 2009, dopo 50 mesi a fronte dei 6 mesi stabiliti dalla legge 45/2001 art.10 comma 2 sexies-, il TAR del Lazio pronuncia la sentenza riguardo il ricorso e stabilisce l’inalienabilità del diritto alla sicurezza, l’impossibilità di sistemi di protezione o programmi a scadenza temporale predeterminata e ordina al Ministero di attuare le delibere su sicurezza, reinserimento sociale, lavorativo, risarcimento dei danni. Per tramite del mio legale faccio richiesta formale dell’ottemperanza della sentenza.

Sciopero della fame e della sete. Aprile 2009 Non avendo ricevuto nessuna risposta dalla Commissione Centrale del Ministero dell’Interno, annuncio la volontà di cominciare il 7 aprile lo sciopero della fame e della sete, fintanto che non vedrò rispettati i diritti della mia famiglia ancor prima che i miei. Lo sciopero della fame è l’ultima risorsa, supportata dlla società civile e dagli “Amici di Pino Masciari” vista l’urgente necessità di tornare a vivere che dichiarano: «Grazie a Pino Masciari abbiamo imparato ad amare lo STATO. Dodici anni di sofferenza e esilio sono un prezzo altissimo che i Masciari hanno pagato con dignità, senza mai rinnegare la scelta fatta. E’ ora che questo STATO riconosca loro quanto dovuto. Noi, Società Civile, non possiamo accettare questa scelta senza lottare fino all’ultimo istante al fine di evitare l’ennesimo estremo sacrificio della famiglia Masciari. Basta una firma, e la volontà di apporla. Per i cittadini, lo STATO e la Costituzione. Per la Famiglia Masciari.» Il 14 maggio termina lo sciopero della fame e della sete a seguito dell’impegno preso dalla Presidenza della Repubblica attraverso la nota del 12 maggio, che da quel momento mi  assegna scorta e tutela adeguata e ulteriori vetture di staffetta, che mi hanno accompagnato.

Due eventi preoccupanti. Il 21 luglio 2009, sul davanzale della mia ex sede della ditta di costruzioni (attualmente ufficio legale di mio fratello), a Vibo Valentia, è stato ritrovato un ordigno inesploso. Il 19 agosto l’abitazione in località segreta nella quale risiedo con la mia famiglia, è stata violata. In questo caso si è trattato probabilmente di ladri comuni (cosa comunque gravissima, a riprova della vulnerabilità cui siamo soggetti), nel precedente è stata invece la ‘ndrangheta, che ricorda di non avere fretta, non dimentica.

L’uscita dal Programma speciale di protezione. Nel 2010 ho concordato la conclusione del Programma Speciale di Protezione in comune sintonia con il Ministero dell’Interno, dando cosi inizio ad una nuova fase della mia vita e quella della mia famiglia, con le Istituzioni e la società civile al mio fianco. Oggi vivo alla luce del sole, pur rimanendo “sotto scorta”.

L’inizio di una nuova vita. «”Quando istituzioni e società civile si assumono le proprie responsabilità lo Stato vince. In questo credo e continuo a credere ed è per questo che sono certo che la mia vicenda si concluderà con la giusta reintroduzione sia in ambito lavorativo che sociale ed umano“.» In questi anni ho girato l’Italia, ho solidarizzato con i familiari delle vittime di mafia ed altre associazioni, persino oltre confine, sono stato a raccontare la mia storia in numerosissimi istituti scolastici e incontri organizzati dalla società civile. Inoltre ho ottenuto la cittadinanza onoraria di molte città.  E infine, si è deciso – insieme a mia moglie – di raccontare la nostra storia in un libro. Si intitola “Organizzare il coraggio. La nostra vita contro la ‘ndrangheta”, lo ha pubblicato la casa editrice torinese “Add”.

COSIMO MAGGIORE. L’ultimatum del testimone di giustizia Cosimo Maggiore: “Mi hanno lasciato solo”, scrive Paolo de Chiara il 14 gennaio 2015 su “19 luglio 1992”. “Nella mia azienda non entrerà nessuno. Io non sono come loro, sono una persona perbene. Ho ricevuto una proposta indecente: fare un accordo con la mafia. Cosa devo fare per uscire da questa drammatica situazione? Devo rivolgermi ad un usuraio? Devo fare il gioco dei mafiosi che ho denunciato? Devo vendere la mia anima al diavolo, alla Sacra Corona Unita? Non ho ritirato le mie denunce, neanche dopo le innumerevoli pressioni. Ho mandato in galera i miei estorsori. Continuerò su questa strada, sino alla fine. Sino alla morte”. Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato. Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella della Sacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi. Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli. “Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, ‘Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura’), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche ‘pentiti’) e con dei reati sulle spalle. “Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”. L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”. Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile. “Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi. L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti. Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia. “Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”.

Si barrica nella sua azienda venduta all’asta e tenta il suicidio, l’imprenditore che denunciò il racket: “Vaffanculo Stato”. L’intervista realizzata da Maristella De Michele su “Brindisi Oggi”. Ha perso tutto, ora anche la sua azienda venduta all’asta. Questa mattina i nuovi proprietari hanno cambiato il lucchetto e si sono appropriati dell’azienda di Cosimo Maggiore, l’imprenditore di San Pancrazio Salentino che nel 2008 denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma come la maggior parte dei testimoni è stato abbandonato dallo Stato.  In un paese dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket e il malaffare. Una volta raccolte le  testimonianze poi vengono lasciati al loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni di giustizia  è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Ma questi ultimi servono, e quindi vengono protetti. I testimoni, come molti di loro raccontano “vengono usati e poi mandati via… per loro siamo solo dei rompiglioni” Questa è una delle frasi più volte lette nel libro del giornalista Paolo De Chiara che in “Testimoni di giustizia” riporta la storia e le interviste ad molti di coloro che hanno denunciato e si sono opposti alle organizzazioni criminali. La storia di Cosimo Maggiore ve l’abbiamo già raccontata in un nostro reportage.  Alla sua triste vicenda oggi si aggiunge un nuovo tassello. Lui  non solo non  ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti ma la sua azienda è stata venduta all’asta  perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. Oggi è sfiorato nella sua mente il pensiero di farla finita, di saltare in aria in quel capannone che è stata la sua vita. Ma non ce l’ha fatta, ha guardato la foto dei suoi e ha deciso di continuare a vivere. Arrabbiato, amareggiato, deluso, con la dignità calpestata si lascia sfuggire in questa intervista: “vaffanculo allo Stato”.

Azienda va all’asta e imprenditore tenta il suicidio, scrive A.P. su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Vaff... allo Stato». Sono le ultime durissime e sofferte parole dell’imprenditore Cosimo Maggiore, che nel 2008 denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma è stato abbandonato dallo Stato. Uno schiaffo in un paese dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket. Ma una volta raccolte le testimonianze persone come Maggiore vengono abbandonate al loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni di giustizia è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Al termine di una mattinata convulsa l’imprenditore si è barricato in azienda tentando di farla finita. L’ultimo disperato grido d’allarme dopo che alla fine di una vicenda che va avanti da quasi 7 anni, la sua attività è stata venduta all’asta. Maggiore non solo non ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti, ma ha finito anche col perdere la sua azienda che è stata venduta all’asta perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. E ieri mattina quando ha visto che i lucchetti all’ingresso della sua attività erano stati sostituiti ha pensato di compiere un insano gesto vedendo che tutte le battaglie sostenute negli ultimi anni erano perse. Amaro il suo sfogo: «È finita oltre che la mia vita si sono presi anche la mia azienda. Fanno bene a non denunciare. Non denunciate il racket. Ecco cosa succede, sbattuto fuori da casa mia! La mia banca la Popolare pugliese non ha accettato l’art. 20 della legge 44/99, la legge che tutela chi è colpito dal racket. Grazie Stato». Con la voce rotta dall’amarezza spiega perchè non ha portato a termine il suo gesto: «Mi sono barricato nel capannone perchè avevo deciso di farla finita. C’era già tutto pronto anche le bombole di propano. Poi... ho guardato le foto dei miei figli... e... non ce l’ho fatta». Poi conclude: «Vaff... allo Stato!».

L’azienda del testimone di giustizia finisce all’asta. “Pronto a barricarmi dentro”, scrive Paolo De Chiara su “Resto al Sud”. “Nella mia azienda non entrerà nessuno. Io non sono come loro, sono una persona perbene. Ho ricevuto una proposta indecente: fare un accordo con la mafia. Cosa devo fare per uscire da questa drammatica situazione? Devo rivolgermi ad un usuraio? Devo fare il gioco dei mafiosi che ho denunciato? Devo vendere la mia anima al diavolo, alla Sacra Corona Unita? Non ho ritirato le mie denunce, neanche dopo le innumerevoli pressioni. Ho mandato in galera i miei estorsori. Continuerò su questa strada, sino alla fine. Sino alla morte”. Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato. Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella della Sacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi. Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli. “Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche pentiti) e con dei reati sulle spalle. “Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”. L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”. Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile. “Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi. L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti. Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia. “Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”.

Il testimone di giustizia abbandonato dallo Stato. “Maledetto il giorno che ho denunciato, maledico questo Stato e le persone che mi hanno convinto a denunciare e che mi hanno lasciato solo”. È l’imprenditore Cosimo Maggiore che parla, un testimone di giustizia di San Pancrazio Salentino, in provincia di Brindisi. La stessa località che ospita la figlia del capo dei capi di Cosa Nostra, Totò Riina. Cosimo è stanco, è abbattuto. Ha denunciato i suoi estorsori, uomini della Sacra Corona Unita, finiti in galera e condannati grazie al suo senso civico. Alla sua onestà di cittadino perbene. Vittima di estorsione e di minacce da parte dei mafiosi del posto. La mafia pugliese, sanguinaria e violenta, che sembra quasi dimenticata. Lo stesso ‘trattamento’ riservato alla ‘ndrangheta, sino a qualche tempo fa. Ha perduto la sua azienda e la speranza. “Oggi non lavoro più, cazzeggio tutto il giorno su facebook, la mia valvola di sfogo. Il mio capannone è stato messo all’asta. Mi hanno fatto terra bruciata intorno. Sono solo, con la mia famiglia. Sai chi ha acquistato all’asta il mio capannone? Un prestanome delle persone che ho denunciato. Ma nessuno entrerà nella mia struttura, a costo di farmi saltare in aria”. Cosimo ha scritto una lettera al presidente della Repubblica Napolitano, al ministro Alfano, al Prefetto, al Generale dei Carabinieri. “Non ho ricevuto risposta da nessuno. L’unica cosa che hanno fatto è stato il ritiro delle armi, legalmente detenute. Le ho regalate ai miei amici dell’Arma”. Cosimo Maggiore ha una scorta, due carabinieri (“tutto ciò che mi resta, due angeli custodi”) che lo seguono ovunque. “Ho ricevuto premi come imprenditore coraggio, tutti mi dicono sei coraggioso, hai le palle, servono persone come te. Sono uno scemo, mi sento solo e abbandonato”. Ma quando inizia la sua storia di testimone di giustizia? “Otto anni fa, nel 2006, quando vennero da me dei soggetti per una proposta”. Una ‘assicurazione’, un’estorsione di 500euro al mese, da destinare alle famiglie dei carcerati. “Non accettai la proposta”. Cosimo pensa a lavorare, ha diversi cantieri aperti, costruzioni da ultimare. Si occupa di infissi. Va avanti per la sua strada, a testa alta. Ma i delinquenti non mollano la presa. Si rifanno vivi dopo qualche mese. “Vengo convocato in un appartamento, dove trovo una bella sorpresa. Non c’erano lavori da effettuare, ma una nuova proposta da accettare. Pretendevano anche gli interessi arretrati, circa 2mila euro al mese”. Nella stanza erano “presenti Occhineri Antonio e Musardo Mario”, entrambi detenuti. Cosimo continua a subire pressioni, strani sguardi, avvertimenti. Racconta la sua drammatica storia a un ispettore della squadra mobile e denuncia nel 2007. “Ho avuto paura, questa è brutta gente. Hanno collegamenti con le forze dell’ordine e non solo”. Sino ad oggi ha collezionato 32 denunce, “è stato tutto inutile”. Le pressioni continuano senza soste. “Un mio compare, vicino a questa organizzazione criminale, mi avvicina diverse volte. Pretendono che ritiri la querela, mi incontrano”. È presente anche Bruno Andrea, capo indiscusso della zona, oggi in carcere con una trentina d’anni da scontare. Fratello di Ciro, capo storico della Scu, già condannato all’ergastolo. “Mi fanno parlare con un avvocato, che a tavolino, mi spiega cosa devo fare”. Il ‘compare’ continua la sua azione, “non potevo immaginare che anche lui potesse appartenere all’organizzazione. Gli dissi che non doveva farsi più vedere, ricordo una sua frase, non potrò mai più dimenticarla: ‘fai attenzione, non sai chi hai sfidato. Sono gli stessi criminali che, tempo fa, hanno ammazzato e seppellito sotto un terreno due giovani”. Cosimo Maggiore è una brava persona, non la ritira la denuncia. Si posiziona dalla parte dello Stato (che in molte circostanze non si dimostra tale e con la ‘S’ maiuscola), vuole e cerca giustizia. La sua dettagliata testimonianza manda in galera sette soggetti. Diventa quasi un eroe. Nel 2007 a San Pancrazio il Presidente della Provincia convoca un consiglio monotematico, coinvolgendo tutti i sindaci (di Brindisi e provincia), i politici, la Camera di Commercio e le autorità locali. Tutti insieme per celebrare “l’imprenditore coraggioso, tutti volevano aiutarmi. Ad oggi non ho mai visto nessuno. Dopo la denuncia è cominciato il mio calvario”. Nel 2008 i riconoscimenti pubblici: il premio 112 dell’Arma dei Carabinieri e il premio imprenditore coraggio. Iniziano i problemi anche con la sua attività. “Mano a mano comincio a perdere i lavori”. ‘Non possiamo saltare anche noi in aria’ – le parole ripetute all’infinito – potevi pensarci prima. Te la sei cercata. Perde tutti i lavori. “Ed iniziano altri problemi, le ingiunzioni. Mi avevano avvisato, me lo avevano detto chiaramente: ‘te la faremo pagare. Rimarrai da solo come un cane’. Si è avverato tutto”. Il testimone di giustizia non si dà pace. “Il mio capannone è stato messo all’asta, nessuno ha applicato l’articolo 20 della legge 44 del 1999 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura). La banca non ha mai accettato questa legge, nessuna sospensione. Solo una presa per il culo”. Si legge nell’interrogazione dell’aprile 2014, a firma del senatore Iurlaro: “Chi denuncia il racket dovrebbe essere tutelato ai sensi di quanto stabilito dalla legge del 1999. Chi è vittima dell’estorsione e denuncia il racket, si rivolge alle associazioni anti racket proprio perché ne presume l’adeguata esperienza assistenziale, invece, nel territorio brindisino, il signor Maggiore ha ricevuto solo danni per inadeguata assistenza. È stato persino danneggiato pesantemente, per il mancato interessamento volto alla sospensione dei termini di 300 giorni ex art.20, come era suo diritto e come, da prassi, ottiene la vittima di estorsione e/o usura che abbia denunciato ed abbia presentato domanda di accesso al Fondo”. Cosimo ha 47 anni, una moglie e due figli. Ma come vive la famiglia Maggiore questa assurda situazione? “Preferisco non parlarne. Con me hanno vinto loro, i mafiosi. Siamo rimasti soli, tremendamente soli. Vado sempre in giro con una lettera intestata alla mia famiglia. Mi resta soltanto una strada: il suicidio”.

Un ex imprenditore chiede aiuto: “La SCU ha mantenuto la sua promessa: Io non vivo più”, scrive Maristella De Michele su “Brindisi Oggi”   “Se non paghi finirai di lavorare”; “Se denunci avrai finito di vivere”; “Se ti fai parte civile, muori”. Firmato La Scu (Sacra corona unita). Questo e molto altro lo ha vissuto – e continua a vivere – sulla sua pelle Cosimo Maggiore, oggi 47enne, ex imprenditore di San Pancrazio Salentino, piccolo paese in provincia di Brindisi. ‘Ex’ perché oggi Maggiore si ritrova senza un lavoro e senza la sua azienda. Perché? Perché un bel giorno mentre nel Salento stava per sbocciare la Primavera al cancello della sua azienda di infissi si è presentato il pizzo. Una macchia nera che avvolge e distrugge tutto: il lavoro, la libertà, la serenità, la vita. L’imprenditore, che si è piegato pochissime volte ai ricatti della criminalità organizzata, è stato costretto al pagamento attraverso intimidazioni e minacce, ma poi aggrappandosi alle sue forti spalle ha deciso di recarsi dalle forze dell’ordine e denunciare. Dal 2006 ad oggi per Cosimo Maggiore e la sua famiglia, sono stati anni di lotte, minacce, denunce, arresti, paure. L’imprenditore da otto anni vive sotto protezione. Al suo fianco ci sono sempre due carabinieri – definiti da lui gli angeli custodi – che non lo perdono di vista. Una vita che oramai non si può più definire vita. Un’azienda ereditata dal padre che dopo venti anni di duro lavoro si è sgretolata, ma non a causa della crisi o della mancanza di lavoro, ma a causa del giro del racket. Cosimo Maggiore non si è inginocchiato ai piedi della Scu e ha denunciato, non una sola volta, ma più volte fino a far arrestare anche il boss della frangia torrese della Sacra corona unita, Andrea Bruno insieme ai suoi compari. Oggi però dopo anni di inferno, Cosimo Maggiore – considerato dallo Stato un Testimone di giustizia e vittima del racket – sostiene che a sbattergli le porte in faccia sia stato proprio lo Stato e le associazioni Antiracket e sostiene, ancora, che a vincere sia stata la Scu. Il suo capannone, infatti, lo Stato lo ha venduto all’asta. Una parte, quindi, della sua ex azienda è stata acquistata da terze persone. L’imprenditore di San Pancrazio Salentino lo scorso settembre ha presentato un’ennesima denuncia presso l’Arma dei carabinieri. In quella querela Maggiore dichiara a chiare lettere che il suo capannone sarebbe stato acquistato da un prestanome. Già in passato Maggiore aveva rilasciato qualche dichiarazione, ma oggi per la prima volta ha accettato di parlare in una video-intervista.

LUIGI COPPOLA. Sono disposto a darmi fuoco. Parla il testimone di giustizia Luigi Coppola. Abbandonato dallo Stato, scrive Paolo De Chiara sul suo blog. “La camorra ha iniziato, ma le Istituzioni stanno continuando il lavoro”. Non usa mezzi termini il testimone di giustizia Luigi Coppola per spiegare la sua situazione. Difficile e drammatica per lui e per la sua famiglia. La famiglia Coppola, per una scelta coraggiosa e dignitosa, è costretta ad elemosinare un posto per dormire. Tutto è cominciato nel 2001. Luigi era un commerciante di auto a Boscoreale, in provincia di Napoli. Stanco delle vessazioni della camorra, denuncia le estorsioni e l’usura. Grazie alle sue denunce si aprono le porte del carcere per alcuni esponenti camorristici locali. Oggi la famiglia Coppola è stata abbandonata dallo Stato. Ritornati nella loro terra, dopo aver girato il Paese, hanno toccato con mano la diffidenza della gente comune. “Un giorno sono entrato insieme alla mia scorta in un noto ristorante di Pompei. A me e mia moglie è stato impedito di sederci a tavola”. Nel gennaio del 2010 il Viminale ha revocato la scorta e la vigilanza fissa. Per lo Stato l’imprenditore Coppola non rischia nulla. Solo per un ricorso al Tar viene risparmiata la scorta. Non è facile, nel BelPaese, la vita dei testimoni di giustizia. Per l’europarlamentare Sonia Alfano: “le loro storie, purtroppo, sono tutte uguali: eroi civili che hanno denunciato i fatti criminosi che hanno subito o di cui sono venuti a conoscenza e che, dopo i processi (le cui sentenze quasi sempre si soffermano sulla nobiltà del loro gesto) sono stati abbandonati dallo Stato, estromessi dai programmi di protezione, lasciati senza sicurezza e senza mezzi di sostentamento”. Luigi Coppola, membro della consulta anticamorra del comune di Boscoreale e coordinatore di uno sportello antiracket, continua la sua solitaria battaglia. “Sono anche disposto a darmi fuoco davanti al Viminale. E’ un mese che ho lasciato l’albergo per motivi economici e nessuno si è curato di noi”.

Coppola, a chi si riferisce?

“Allo Stato”.

Cosa chiede allo Stato?

“Di essere ricevuto e di cercare una soluzione al mio grosso problema. Nel momento in cui lo Stato mi abbandona definitivamente sotto il profilo della sicurezza la camorra metterà in atto il proprio atto criminale”.

Ha ricevuto altre minacce?

“Sto vivendo temporaneamente presso l’abitazione di mio fratello. Ultimamente si sono registrati degli sgradevoli episodi. Qualcuno, scambiando mio fratello per me, gli ha dato del cornuto. C’è stata una regolare denuncia fatta da mio fratello”.

Esiste una petizione promossa dal comitato per la tutela dei testimoni di giustizia, tra i firmatari Salvatore Borsellino, Sonia Alfano, Angela Napoli, Giuseppe Lumia, Elio Veltri. A che punto siamo?

“Non ricordo bene se siamo a 1300 o 1400 adesioni. C’è l’intenzione, entro questo mese, di portarla all’attenzione del Capo dello Stato per vedere se almeno lui ci riceva”.

Nel luglio scorso Sonia Alfano ha inviato una lettera al Presidente della Repubblica per illustrare la situazione dei testimoni di giustizia. Siete stati ricevuti dal Capo dello Stato?

“No, l’incontro non c’è mai stato. A parte la lettera dell’onorevole Alfano, mi ci sono recato personalmente al Quirinale. Insieme a mia moglie abbiamo fatto lo sciopero della fame, ma in tre giorni e tre notti nessuno si è visto. Ho avuto una sola risposta dal Quirinale. In quei giorni sono scesi dei funzionari che mi hanno comunicato che il Capo dello Stato non può interferire in decisioni che devono essere prese da altri organi dello Stato”.

Il neo ministro degli Interni, Anna Maria Cancellieri, ha dichiarato che “si interesserà al caso”.

“Il ministro ancora non si è interessato. L’altro giorno sono stato ricevuto dal senatore Giuseppe Lumia e prima dell’incontro sono riuscito ad ascoltare le dichiarazioni della Cancellieri alla Camera dei Deputati, un’interrogazione a risposta immediata sull’altro caso del testimone di giustizia Cutrò. Il ministro ha risposto anche sugli altri testimoni, affermando che il Viminale si è sempre preso cura dei testimoni e nulla sarebbe stato lasciato al caso. Io sono la prova che tutto ciò è falso e sfido la Cancellieri a smentirmi”.

Lei era un rivenditore di automobili a Boscoreale. Nel 2001 denuncia l’estorsione e l’usura della camorra…

“E viene decapitato definitivamente il clan Pisacane di Boscoreale, vengono tratti in arresto un reggente del clan Cesarano, più due suoi cognati. In più vengono arrestati appartenenti al clan Gionta di Torre Annunziata e numerose persone che avevano fatto usura nei miei confronti. In totale 30 persone. Per pagare la camorra fui costretto ad acquisire denaro a tassi usurai. Grazie alle mie dichiarazioni è stato anche sciolto il Comune di Boscoreale per infiltrazioni camorristiche”.

Nel 2002 venite inseriti nel programma di protezione per i testimoni di giustizia…

“Grazie al sostituto procuratore Giuseppe Borrelli, che lavora attualmente presso la Procura di Catanzaro. Prima stava alla Dda di Napoli. Prima di lui, chi aveva preso la situazione in mano non aveva ritenuto opportuno attivare nessuna misura di sicurezza. In quel periodo ho subito due aggressioni e ci sono i referti ospedalieri che lo provano”.

Nel 2007 la famiglia Coppola rientra in Campania, precisamente a Pompei. 

“Avevamo scelto Pompei perché ritenuta tranquilla”.

E come siete stati accolti dalle Istituzioni, dalla gente?

“Peggio della camorra. Al sindaco sono state portate delle petizioni che sono state girate alla Direzione Distrettuale Antimafia e all’ex prefetto di Napoli. Il sindaco non ha mai dimostrato sensibilità nei nostri confronti, anche quando siamo stati costretti a vivere nelle auto blindate”.

Come spiega la frase “a voi non si loca e non si vende…”.

“Mi auguro che sia solo un fattore di paura, ma non credo che il Comune di Pompei possa avere paura. Questa è discriminazione”.

Dopo i vari gradi di giudizio, nel 2009, i processi aperti grazie alla sua testimonianza arrivano in Cassazione.

“Ventitre di loro vengono definitivamente condannati per associazione di stampo mafioso. Da un mesetto è uscito il reggente, il braccio destro del clan Pisacane. Stiamo parlando di un clan che fino ad oggi non ha prodotto pentiti e che ha tutta la voglia di rimettersi in piedi, di riprendersi il territorio per continuare con la droga, con le estorsioni e con l’usura”.

Per lo Stato la famiglia Coppola non rischia nulla. Viene revocata la vigilanza fissa e la scorta.

“Alla revoca mi oppongo con un ricorso al Tar. La scorta viene mantenuta, ma la vigilanza non viene rimessa. La camorra dà il proprio segno di apprezzamento con proiettili inesplosi e una bottiglia incendiaria. Attualmente ho ancora la scorta, ma so che stanno operando per eliminarla”.

Oggi come vive la famiglia Coppola?

“A carico di mio fratello e di mia madre, senza un centesimo. Il 24 gennaio le banche mi iscriveranno al recupero crediti e sarà per me la morte civile. E se tutto questo avverrà mi darò fuoco davanti al Viminale”.

Lei ha due figlie.

“Frequentano il liceo”.

A scuola come vengono trattate?

“Non bene. Vengono viste come degli appestati dai loro amici, sicuramente condizionati dai genitori”.

L’ex sottosegretario Mantovano le disse: “cerchiamo di non prenderci il dito, la mano e il braccio”.

“Ho presentato regolare denuncia alla Procura di Roma”.

Esiste lo Stato nei suoi territori?

“Stato è una parola troppo grossa. La camorra ha preso il posto dello Stato”.

L'IMPRENDITORE LUIGI COPPOLA, PERSEGUITATO DALLA CAMORRA E ABBANDONATO DALLO STATO. Inizia nel lontano 1993 la triste storia di Luigi Coppola , 47enne sposato, con 2 figlie, scrive E. Lampitella su “Globuli Azzurri”. Da venditore d’auto a perseguitato dalla Camorra. Coppola è uno dei tanti che denunciano i propri aguzzini ma rimangono sotto traccia. Grazie alle sue deposizioni, nel 2001 sono state arrestate più di 34 persone di 4 Clan diversi, tra cui il Boss Pesacane. L’imprenditore è rimasto vittima delle attenzioni di tre clan diversi. Colpa, la sua, vendere auto in un trivio che è sotto la “giurisdizione” di 3 clan diversi, tra Bosco Reale, Boscotrecase e Torre Annunziata, che lo vedevano come potenziale riciclatore. Rappresentava un boccone prelibato per il loro malaffare . E’ così entrato in una vera e propria spirale del terrore, a causa dei rifiuti alle pesanti richieste di estorsione e riciclaggio di più esponenti malavitosi che si palleggiavano il cittadino onesto di turno. Ma La storia di luigi Coppola non si ferma qui, dopo aver collaborato con la giustizia alla fine di 10 anni passati in mano ad usurai per pagare il pizzo ai camorristi, Coppola è rimasto solo. Abbandonato dallo stato e ridotto alla fame, costretto a dormire in auto con la scorta. Un’ordinanza del Viminale, che fa seguito alle richieste avanzate da Coppola, nega al collaboratore di giustizia il programma di protezione. Luigi Coppola stasera racconterà la sua storia a Globuli Azzurri, programma di Samuele Ciambriello, sempre sensibile a queste tematiche.

LUIGI LEONARDI. Camorra, denunciò chi gli chiedeva il pizzo: abbandonato dallo Stato e dalla famiglia, scrive Giovanni Gaudenzi su Theblazonedpress.it. Luigi Leonardi ha 39 anni, ed è stato per molti anni uno degli imprenditori più ricchi di Napoli. Guadagnava anche 250 mila euro a settimana, con la sua attività di fabbricazione d’impianti d’illuminazione e 4 negozi sparsi per la provincia partenopea. Oggi non guadagna praticamente nulla, e le sue imprese non esistono più. Perchè ha osato denunciare i taglieggiatori mandati dalla camorra, che gli chiedevano oltre 24 mila euro al mese per garantirgli la loro protezione. Lui, invece di sottostare al vile ricatto dei clan, ha scelto di ribellarsi, presentando 18 denunce negli ultimi 12 anni. Sulle sue dichiarazioni sono basati 2 processi, il primo dei quali ha portato a 63 condanne in primo grado. Per il commerciante nessuna protezione, nessuna misura precauzionale come quelle previste per i pentiti. Perché Leonardi, con i camorristi, non ha mai voluto avere nulla da spartire. E’ stato aggredito a sprangate, nel 2009, ed è finito in ospedale con una diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. L’uomo è stato anche sequestrato per 24 ore, a Secondigliano. Ma non si è arreso, sfidando la mala e perdendo tutto quello che aveva, negozi compresi. Ora chiede solo che lo Stato provveda a proteggerlo e che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia, insieme al risarcimento dei danni subiti. “Rifarei tutto- spiega- Con la camorra non ho mai voluto compromettermi.” Il cugino del padre, Antonio Leonardi, è sospettato di essere affiliato alla famiglia mafiosa dei Di Lauro. Ed è questa la ragione per la quale la sua famiglia lo ha abbandonato, lasciandolo solo a combattere la sua battaglia: “Se mi fossi rivolto a lui- dice- avrebbe risolto immediatamente la questione. Ma ho scelto di stare dalla parte della legalità. Adesso, alla mia situazione, deve pensarci lo Stato.” 

Camorra, denunciò i clan. La famiglia lo lascia solo, lo Stato non lo risarcisce. Luigi Leonardi, a causa delle estorsioni, ha perso due fabbriche di impianti di illuminazione, i negozi e la casa. Negli anni ha subito minacce ed è stato sequestrato. Le sue dichiarazioni hanno portato a due processi, per questo la famiglia, sospettata di essere vicina ai Di Lauro, non gli rivolge più la parola da 5 anni. Adesso l'imprenditore chiede che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e un risarcimento, scrive Antonella Beccaria su “Il Fatto Quotidiano”. Ha 39 anni e da 5 non riceve dalla sua famiglia un messaggio, nemmeno un augurio per Natale. Ma fino a qualche anno fa le feste comandate, però, gliele ricordavano gli “esattori” della camorra, gli stessi che gli chiedevano il pizzo e che per l’occasione, oltre ai 6 mila euro a settimana, gli volevano imporre un’integrazione di 1500 euro. Luigi Leonardi, nato a Napoli nel 1974 e oggi riparato in una località in provincia di Salerno, a causa del racket ha perso le sue due fabbriche di impianti di illuminazione e i relativi negozi, distribuiti tra Cardito, Nola, Giugliano e Melito, nel Napoletano. Ed è accaduto nonostante si sia ribellato al “sistema” che cercava di stritolarlo presentando 18 denunce nell’arco di 12 anni. Denunce che hanno portato a due processi, il primo celebrato davanti al tribunale di Nola e giunto a sentenza di primo grado il 31 maggio 2010 con condanne per 63 persone e periodi di reclusione che vanno tra 5 ai 17 anni. Il secondo processo, invece, è ancora in corso a Napoli. Partito a rilento con udienze rinviate per 5 volte a causa di difetti di notifica, sta entrando nel pieno e il 22 ottobre Luigi Leonardi racconterà davanti al collegio giudicante la sua vicenda che ha ricostruito in due incontri con ilfattoquotidiano.it, il primo a Sasso Marconi, in provincia di Bologna, e il secondo a Firenze, nella sede dell’Associazione stampa Toscana. Qui esordisce affermando che, rispetto ai testimoni di giustizia, “i pentiti hanno più voce in capitolo. Chi invece non ha mai voluto avere a che fare con i clan, avrebbe diritto almeno allo stesso tipo di protezione offerto ai collaboratori”. L’affermazione trova ragione nel fatto che l’imprenditore napoletano, nel corso degli anni, ha subito diversi atti di violenza. Oltre alle intimidazioni dei clan napoletani di Secondigliano, Melito, Marano e Ottaviano, ognuno dei quali pretendenva la propria fetta sul fatturato di Leonardi, poi si è passati alle vie di fatto. Prima c’è stata l’auto dell’imprenditore sbalzata fuori strada al termine di un inseguimento. Poi un’aggressione, a metà 2009, a suon di spranghe di ferro che l’hanno fatto finire in ospedale con una diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. E ancora, nel settembre dello stesso anno, l’uomo è stato sequestrato e tenuto per 24 ore prigioniero nelle Case Celesti di Secondigliano, un rione ad alto degrado soprannominato “terzo mondo”. “In quelle ore”, racconta Leonardi, “mi hanno puntato contro una pistola e mi hanno fatto vedere cambiali per un valore di 26 mila euro che ovviamente non erano mie. Ma pretendevano che le pagassi e per assicurarsi che lo facessi, nonostante li avessi già denunciati, mi hanno preso l’automobile e la moto, che secondo loro valevano la metà dell’importo che mi chiedevano”. Poi lo hanno rilasciato pensando di averlo “ammorbidito”. Invece l’imprenditore è andato avanti, presentandosi a carabinieri, polizia e sostituti procuratori ogni volta che lo convocavano per stendere un nuovo verbale. “Così, alla fine, mi hanno bruciato l’ultimo negozio che mi era rimasto, quello di Melito: in due ore se n’è andato in fumo l’ultimo pezzo della mia attività commerciale”. Oggi le fabbriche non esistono più e nemmeno i punti vendita. Erano stati aperti a partire dal 1997. Allora Luigi Leonardi, giovanissimo, aveva investito il denaro che con la madre era riuscito a mettere da parte, circa 75 milioni di vecchie lire. Con lui c’erano i fratelli e per i primi due anni tutto era sembrato andare per il meglio tanto che nel 1999 le imprese di famiglia erano riuscite ad accedere a un finanziamento regionale di 5 miliardi di lire per costruire un capannone industriale a San Giorgio del Sannio, in provincia di Benevento. Con la prima tranche da 1 miliardo e 200 milioni erano stati eseguiti i lavori edili e i contratti con i fornitori dei macchinari erano stati firmati. Ma a quel punto erano iniziati i problemi con i riscossori dei clan. Problemi che sono l’inizio della fine e che portano alla rinuncia dell’importo restante del finanziamento, a una denuncia penale contro lo stesso Leonardi, accusato – e poi prosciolto – di essersi appropriato di denaro pubblico senza aver concluso il progetto presentato e al tentativo di contenere le richieste dei clan. Ai quali tuttavia non sono bastati gli oltre 70 mila euro che, in un primo tempo, l’imprenditore paga nell’arco di 11 mesi. “A un certo punto mi sono ribellato, ho deciso che di soldi, a loro, non gliene avrei più dati”, spiega. “Fare impresa vuol dire essere liberi, la ‘protezione’ che i camorristi invece offrono è esattamente il contrario della libertà d’impresa. Non si può accettare di finire in quella spirale, ogni cittadino dovrebbe denunciare, malgrado il prezzo da pagare”. Il prezzo, per Luigi Leonardi, è stato elevatissimo. Con l’entrata in funzione del capannone del beneventano, contava di portare da 20 a 30 i suoi dipendenti, che invece hanno dovuto essere licenziati. Dai 250 mila euro a settimana che fatturava versando regolamente tasse e contributi, è passato a dover farsi bastare 200 euro al mese. Sfrattato dalla casa dove abitava, per un periodo ha occupato un appartamento sopra il negozio di Melito e ha trascorso anche un periodo dormendo in macchina. E ora che ha cambiato città e ha ripreso da libero professionista la sua attività, chiede solo che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e la protezione dello Stato. “Nel processo in corso a Napoli proveranno a farmi passare per un mafioso”, dice. Il cugino di suo padre, infatti, è Antonio Leonardi, arrestato a fine 2012 e sospettato di essere affiliato al clan Di Lauro. “Con la camorra, però, non ci ho mai avuto a che fare. Il paradosso di questa situazione è che so che se mi fossi rivolto a lui, i miei problemi si sarebbero risolti in un attimo, ma la mia scelta è stata quella di mettermi dalla parte della legalità”. Per questo la famiglia lo ha cancellato. “Ti stavi zitto e non succedeva niente”, gli hanno detto. Invece lui ha parlato, prima con i carabinieri del nucleo operativo di Castello di Cisterna e poi con gli agenti della squadra mobile di Napoli venendo sentito in un primo tempo dal sostituto Luigi Alberto Cannavale e in seguito dal collega Francesco De Falco, che oggi rappresenta l’accusa contro i boss che Leonardi accusa. “Se rifarei tutto?”, afferma alla fine. “Sì, non mi pento di aver parlato, starei solo più attento a conservare meglio le carte”. Si riferisce alle fatture e ai documenti bruciati nel negozio di Melito, quelli che oggi gli impediscono di essere risarcito a causa di un altro muro che si è trovato davanti, la burocrazia. “Mi hanno detto che non avendo più alcuna pezza d’appoggio non posso dimostrare l’entità del danno che ho subito. E allora, per fare qualcosa, sto pagando di tasca mia perizie che accertino quest’altro sopruso. Anche a queste assurdità lo Stato dovrebbe pensare”.

TIBERIO BENTIVOGLIO. Tiberio Bentivoglio, imprenditore antimafia: «Ho denunciato, Equitalia mi porta via la casa». Rompe il muro di omertà contro la 'ndrangheta, ma resta solo. Così, tra silenzi, lentezze burocratiche e casa ipotecata, si umilia il coraggio di chi denuncia le cosche di Reggio Calabria, scrive Gelsomino Del Guercio su “L’Espresso”. «Sto perdendo casa e lavoro, ho già perso la serenità familiare. Allora oggi mi chiedo: conviene denunciare i propri aguzzini come ho fatto io?». E' il grido di un uomo disperato quello che affida a "l'Espresso" Tiberio Bentivoglio, imprenditore reggino 61enne sotto scorta e testimone di giustizia dal 1992, cioè da quando si è ribellato ai suoi estorsori. Da allora per Tiberio è iniziato un lungo calvario. Gli hanno voltato le spalle gran parte dei suoi concittadini di Condera, la frazione di Reggio Calabria dove abita e dal 1979 è titolare di un negozio, la "Sanitaria S.Elia" che vende prodotti elettro medicali e articoli per la prima infanzia. Perché da quelle parti sfidare i boss è un sacrilegio. Ma sopratutto gli hanno voltato le spalle le istituzioni, che lo hanno abbandonato a se stesso nonostante gli appelli al consiglio regionale della Calabria, alla Commissione Parlamentare Antimafia , al ministro dell'Interno Angelino Alfano e persino a papa Francesco. In questi giorni la parabola di Tiberio è giunta al capolinea. Sommerso dai debiti, con un fatturato crollato negli ultimi nove anni del 75% (cioè 2 milioni e mezzo di euro in meno) e un conseguente danno per mancato guadagno che si aggira ad oltre 800 mila euro, l'imprenditore è sull'orlo del crac e dirà addio al suo negozio e non solo. Il colpo finale è arrivato tra le fine di settembre e i primi giorni di ottobre. Equitalia gli ha inviato l'avviso di vendita all'asta della sua abitazione, già ipotecata da oltre un anno per 991mila euro. L'iter prima dello sfratto durerà circa sei mesi. L'ipoteca di Equitalia era arrivata perché da nove anni non paga più i contributi all'Inps dei propri dipendenti (ora rimasti in due, prima erano in cinque) ai quali fino all'anno scorso riusciva a versare a mala pena gli assegni con gli stipendi. «Ho sempre pagato tutto regolarmente ai lavoratori fin quando ho potuto», sottolinea l'imprenditore. Per il danno erariale relativo ai contributi Inps, sua moglie (la loro è un'azienda familiare) ha subito due condanne in primo grado dal tribunale di Reggio Calabria per appropriazione indebita (pena sospesa): la prima un anno fa, la seconda una settimana fa. «Il paradosso è che adesso diventiamo noi i "pregiudicati"…», afferma sconsolato Tiberio. Come se non bastasse, da qualche settimana si è fatto incalzante il pressing delle banche, che dopo l'ipoteca sull'abitazione hanno ritirato gli affidamenti: non concedono più alcuna forma di credito, mutui e prestiti a Bentivoglio. Sono stati ridotti i carnet degli assegni a lui destinati perché sui suoi conti correnti non c'è abbastanza denaro per pagare i fornitori del negozio (circa 150). Il risultato è che le banche, come da legge, hanno inoltrato gli assegni scoperti ai notai - il cosiddetto "protesto" - e per l'imprenditore si prospettano nuove sanzioni amministrative (che comunque non riuscirà a pagare). L'ennesima batosta è arrivata sabato 4 ottobre quando ha ricevuto il preavviso di sfratto dai proprietari del negozio, perché, ormai da un anno, non ha i soldi per pagare l'affitto. Invece il 10 dicembre 2014 il tribunale di Reggio stabilirà se Tiberio dovrà abbandonate il deposito annesso al negozio perché anche in quel caso è "forzatamente" moroso nei confronti del proprietario. Ma perché un uomo libero, un imprenditore coraggioso, un testimone di giustizia, fondatore peraltro di "Reggio Libera Reggio", iniziativa anti racket nata in città il 20 aprile 2010, si è ritrovato in una condizione così assurda, al punto da ritenere che sia stata una cosa sconveniente, un errore, denunciare la 'ndrangheta? E' giusto che in un Paese civile si debba pagare tacitamente il pizzo per non ridursi in questo stato di disperazione? Quest'ultima domanda, tanto più in queste ore, se la stanno ponendo Tiberio, la moglie e sopratutto i suoi figli, «psicologicamente devastati da questa vicenda», dice lui. Nelle sue parole traspare un rimorso rabbioso per quella battaglia iniziata 20 anni fa. «Mi sono rifiutato di riconoscere il loro sistema criminale e sono stato costretto a subire una serie di punizioni e perfino un tentato omicidio che si verificò dopo la condanna di alcuni malavitosi da me nominati nelle denunce». Episodi agghiaccianti, sette in totale. Il primo nel 1992 (furto al negozio), altri due nel 1998 (furto e attentato). Quindi un attentato dinamitardo al negozio nell’aprile 2003 e un incendio nel 2005. Nel giugno 2008 va a fuoco il capannone-deposito. Nel febbraio 2011 gli sparano mentre sta andando nel suo frutteto, alle 6 del mattino. «Solo il caso ha voluto che il proiettile, probabilmente quello fatale, si fermasse nel marsupio di cuoio, che quel giorno portavo a tracolla sulle spalle. Gli autori del tentato omicidio a oggi restano ignoti, mentre io continuo a trascinarmi su una sola gamba in quanto l’altra ha riportato lesioni permanenti causati dai proiettili». Da quel momento a Bentivoglio è stata potenziata la scorta, ora di "terzo livello", cioè assegnata ad una persona "ad alto rischio". Questa serie di intimidazioni ha scatenato un primo, ma graduale allontanamento della clientela dal negozio. E' lunga la lista degli amici che hanno cominciato a far finta di non vederlo, a non salutarlo in strada, a schivarlo. Peggio ancora dopo che il testimone di giustizia, nel 2007, ha denunciato la presunta connivenza del parroco locale don Nuccio Cannizzaro con Santo Crucitti, presunto boss di Condera-Pietrastorta. Il reato di favoreggiamento di cui era accusato il sacerdote è stato prescritto a luglio 2014 e a Condera, dopo la pronuncia del Tribunale di Reggio, si è festeggiato con caroselli d'auto e fuochi d'artificio. «Don Nuccio da queste parti è molto temuto, ma sta di fatto che in Italia la giustizia è lentissima», ammonisce Bentivoglio. Non solo la giustizia, ma lo è anche la burocrazia, che ha scagliato il colpo di grazia contro la "Sanitaria S.Elia". C'è una legge, la 44 del 1999, che prevede aiuti alle vittime di mafia. «Per l'attentato al negozio del 2003 ho ricevuto 3400 euro a fronte di 120mila euro di danni. Per l'incendio del 2005 ho avuto circa 300mila euro in tre anni, e per l'incendio al capannone del 2008 circa 400mila euro, tanto quanto il valore della merce bruciata, ma sempre dopo tre anni». In teoria la normativa stabilisce che lo Stato ripaghi la vittima entro 60 giorni dal fatto. «In realtà la media di attesa è molto più lunga - sentenzia Bentivoglio - intanto, ogni volta che ho subito un agguato, in attesa di ricevere quei soldi sono rimasto anni ed anni con il mio negozio e il deposito distrutti». I clienti in fuga, la liquidità che viene a mancare, le difficoltà nel pagare i fornitori, un mix micidiale, «che mi è costato 2 milioni e mezzo di euro in nove anni, a tanto ammonta il calo del mio fatturato e 800mila di mancato guadagno che è alla base del mio indebitamento verso Stato, fornitori, locatari. In confronto a ciò gli indennizzi ricevuti in tre anni, non compensano praticamente nulla». Sempre per la legge 44/99, gli è valso 16mila euro il tentato omicidio del 2011 (soldi ricevuti nel 2014), e poiché quella norma sospende i provvedimenti esecutivi per 10 mesi, è rimasto tutelato dall'avviso di sfratto del proprietario del deposito fino a settembre 2013. «Non ho mai trovato gente disponibile ad affittare un locale ad una persona come me, che ha già subito una serie di attentati». Eppure l'imprenditore-coraggio non vuol rassegnarsi ad un epilogo che sembra scritto. «Griderò fino all’ultimo giorno di vita - chiosa Bentivoglio - non voglio e non posso finire così. Io ho fatto il mio dovere ma sto perdendo tutto. Se non avessi una famiglia mi sarei già suicidato».

IGNAZIO CUTRO'. L'imprenditore Ignazio Cutrò chiude per mafia "Lo Stato mi ha lasciato solo". Aveva denunciato il racket: “Tante parole al vento perchè alla fine sono stato abbandonato. Mi chiedo quale sia oggi il posto della lotta alla mafia nell’agenda del governo”, scrivono Piero Messina e Maurizio Zoppi su “L’Espresso”. Chiuso per mafia: è il titolo adatto per l’ultimo capitolo della storia imprenditoriale di Ignazio Cutrò. Ultimo, perché l’imprenditore in prima linea contro Cosa Nostra, pronto a denunciare i suoi estortori, alla fine si è arreso e ha chiuso la sua azienda. La procedura è stata avviata al registro delle Imprese di Agrigento.  Così, l’azienda che aveva detto no al racket, nei fatti, oggi non esiste più. A Cutrò resta solo una montagna di debiti col fisco e le banche per evitare il fallimento. “Che dire? Un bel segnale per tutti gli imprenditori che sono assaliti dalla mafia e dagli estortori – è il commento caustico di Cutrò – da oggi per tutti è chiaro quale sia la fine delle aziende che si oppongono alla mafia”. Ma come si è arrivati al default? Dopo aver denunciato i suoi estortori, accusandoli pubblicamente e contribuendo all’attività di magistrati e investigatori, l’imprenditore di Bivona, un piccolo comune della provincia di Agrigento, s’era trovato letteralmente solo. Lo Stato all’inizio, sembrava volesse prendere a cuore la causa dell’imprenditore, sul cui operato – nella sentenza che seppelliva il sistema del racket mafioso agrigentino – i giudici esprimevano ben 19 pagine di riflessioni. Cutrò e la sua famiglia finiranno sotto scorta per le continue minacce. A quel punto, l’imprenditore si trova di fronte al classico bivio: scegliere di essere trasferito in località protetta ed essere stipendiato dallo Stato o rinunciare ai sussidi e tentare di far ripartire la sua attività. “ In quel momento ho scelto di restare – ricorda Cutrò – perché ho tentato di essere coerente fino in fondo. Che lotta alla mafia è quella che costringe gli imprenditori ad abbandonare la propria terra e la propria attività?”. Non mancano le stille di curaro: “io sono tra i pochi imprenditori che ha iniziato a collaborare senza versare un centesimo agli esattori della mafia. Non tutti erano nella mia stessa condizione. Molti hanno saltato il fosso soltanto dopo che gli investigatori avevano scoperto e accertato il loro soggiacere alle richieste economiche della mafia”. Che Cutrò credesse fino in fondo  alla scelta di restare in Sicilia lo dimostra l’utilizzo dei fondi ricevuti dallo Stato come danno biologico. “A me ed ai miei familiari – spiega – è stato riconosciuto un risarcimento di circa 100 mila euro. Quei soldi avrei potuto metterli da parte, invece li ho usati per pagare tasse e contributi. Insomma, volevo il Durc a posto (durc è l’acronimo di documento unico di regolarità contabile, necessario per lavorare nel settore pubblico, ndr) per poter essere chiamato a lavorare. Forse ho sbagliato”. Ogni tentativo di far ripartire l’azienda sarà inutile. Cutrò e la sua azienda verranno isolati. L’imprenditore tenterà persino di mettere in vendita tutti i mezzi della sua azienda, camion, macchine scavatrici, bulldozer e utensili. Non si è presentato nessuno. “Messaggio chiaro – dice – messaggio non detto che vale più di mille parole: le cose di Cutrò non si toccano”. L’ultimo tentativo è dell’estate scorsa, quando Cutrò viene chiamato a lavorare dal general contractor dell’impianto fotovoltaico di Gela. Missione fallita, di quel sogno declinato nel segno dell’energia verde resta solo una collina rasa al suolo e tante imprese, come quella dell’ormai ex imprenditore antimafia, che non vedranno mai il risultato del lavoro svolto. Eppure sarebbe bastato poco per salvare quella piccola impresa edile in prima linea nella lotta alla mafia, bastavano solamente 38.500 euro. A tanto ammontavano i debiti fiscali che Cutrò avrebbe dovuto pagare per restare con il Durc pulito. Ma lo Stato ha erogato soltanto 20 mila euro, il resto non è mai arrivato. Cutrò sostiene di avere sperato sino all’ultimo nell’intervento del Viminale: “Resta solo l’amarezza – ricorda – per decine e decine di riunioni, tempo perso e parole al vento. Perchè alla fine sono stato abbandonato. Mi chiedo quale sia oggi il posto della lotta alla mafia nell’agenda del governo. A parte le vetrine della legalità, mi sembra tutto fermo e tutto inutile. Non vorrei fare polemica, ma non ritengo giusto che uno Stato in grado di pagare un riscatto di 12 milioni di euro per salvare la vita di due ragazze italiane prese in ostaggio dai terroristi, non trovi le risorse, o molto più probabilmente la voglia, di trovare quei 18 mila euro che rappresentavano la mia salvezza” . “Ora – conclude Cutrò – non mi resta che prendere atto di aver fallito, di avere distrutto la mia vita e quella dei miei figli. Ma in fondo dal Viminale mi avevano avvertito,  me l’avevano detto che non avrei più potuto lavorare nella mia terra”.

Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?

EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.

Equitalia, strozzini di Stato: per 2.100 euro ne vogliono 3 mila, scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Avviene tutti i giorni in gran parte delle case degli italiani. A metà mattina suona il postino «Raccomandata!», apri e ti trovi fra le mani una missiva di Equitalia, che sono sempre dolori. Si tratta delle solite multe prese magari senza nemmeno accorgersene (soste, infrazioni al traffico, eccessi di velocità etc..) o di contestazioni della Agenzia delle Entrate per rilievi formali magari di poco conto sulle dichiarazioni dei redditi. Al signor Marco Rossi (il nome è di fantasia) proprio quest'ultima è arrivata: una cartella Equitalia con una contestazione per irregolarità formali da parte della Agenzia delle Entrate su una dichiarazione dei redditi di cinque anni prima. «Ma come? Sono lavoratore dipendente, l’unica cosa che aggiungo è qualche detrazione di spese mediche e per questo invio tutto al commercialista». Marco manda la cartella di Equitalia al commercialista, che allarga le braccia: «La cifra non è enorme. Bisogna pagarla». Marco sospira: «Per lei non saranno enormi 2.114,66 euro. Ma per me sono più di un mese di stipendio. Almeno si può pagare a rate?». Con l’aiuto del commercialista è subito pronta la lettera da spedire ad Equitalia: non c’è bisogno di allegare documentazione che comprovi le difficoltà del momento per cifre così basse. E infatti Equitalia tempo un mese risponde a Marco, che apre la lettera tutto felice: «Le abbiamo accordato la ripartizione del pagamento di tale documento in n.28 rate mensili». Rateizzare - Il piano di ammortamento - scrivono - è stato «formulato secondo il criterio alla francese, che prevede rate di importo costante con quota di capitale crescente e quota interessi decrescente». Il signor Rossi non ci capisce molto: qualcosa cresce, qualcosa altro decresce. Ma vede il conto totale a fine operazione: 3.076,44 euro. Rateizzare quel debito che nemmeno capisce gli costa insomma 950 euro più che pagare subito. Sono 20 giorni di stipendio che si involano un po’ salendo un po’ scendendo «alla francese» per finire in tasca ad Equitalia. Le varie colonne dicono «quota capitale», «quota interessi di mora», «quota interessi di dilazione», «quota compensi di riscossione». Si fa due calcoli e significa che in due anni e 4 mesi il suo debito aumenta del 45,2%. Se va da uno strozzino dal cuore buono finisce che per una cifra così i prestito riesce perfino a risparmiare rispetto a quanto gli chiede il fisco italiano. Equitalia vuole il 32,58% in interessi di mora, poi il 4% di interessi di dilazione e l’8,6% di compensi di riscossione. Avranno ragione? Naturalmente hanno ragione: sono le leggi e i regolamenti che prevedono questo lievitare del debito dei contribuenti. Ogni governo di questi ultimi anni ha fatto finta di addolcire la pillola, si è sgolato parlando di «fisco amico», di «sportello amico», di una Equitalia dal volto umano, magari ha anche allargato e allungato le possibilità di rateizzare il debito per cifre via via più consistenti e perfino in tempi più lunghi, per venire incontro alle difficoltà che la crisi economica crea nel bilancio familiare o aziendale di milioni di contribuenti. Ma al ruolo vocazionale di strozzinaggio lo Stato non ha mai rinunciato, in nessuno dei volti in cui si presenta. Tassi di interesse - Il primo gennaio 2014 scorso sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana è stato pubblicato il nuovo tasso di interesse legale stabilito dal governo italiano: è l’uno per cento. Il contribuente non si deve attendere di più quando presta soldi o li dà in custodia a Stato o privati secondo le leggi vigenti. Ma se il percorso è quello contrario: è lo Stato che li deposita da te (ad esempio facendoti rateizzare il tuo debito con lui), quella regola non vale più, e sono dolori per il cittadino. Oltretutto non c’è solo Equitalia: quel debito potrebbe essere con l’ufficio tributi di un comune, o con un ufficio giudiziario, o con un altro ente pubblico. E ognuno applica il tasso che vuole. Ad esempio gli interessi sulle dilazioni sono diversissimi in ogni posto di Italia: si va da zero fino al 6 per cento. Ed è questione di fortuna: gli uffici giudiziari applicano il 4,5%. L'ufficio tributi del comune di Monza (e di pochi altri piccoli comuni) non chiede interessi (il tasso sulle dilazioni è 0%). Quello di Livorno vuole il 4,5%, quello di Perugia si accontenta dell'1% che sarebbe poi il tasso legale, quello di Pitigliano chiede il 3,5%. A Messina vogliono il 4%, a Torino il 5%, a Milano sulla tassa per i rifiuti viene applicato un interesse dilazionatorio del 2%, a Novara l'ufficio tributi chiede il 2,5%, in un posto vip come Courmayeur si accontentano dell’1,5% (a Cortina invece è 1%).

Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?

Usura ed estorsioni, in manette il figlio del prefetto Sessa, scrive “Il Mattino”. Daniele Sessa, 31 anni, figlio del prefetto di Avellino, Carlo, è stato arrestato ieri dai militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto, su disposizione del giudice per le indagini preliminari. Sessa è finito in carcere all’alba insieme a Cosimo De Pasquale. I due, entrambi tarantini, sono dietro le sbarre con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all'usura e all'estorsione. Nel corso delle indagini della Guardia di Finanza, eseguite anche con l'ausilio di intercettazioni telefoniche ed ambientali, è emerso che Sessa e De Pasquale, gestivano nel capoluogo ionico un giro di usura nei confronti di numerosi commercianti, con il supporto anche di altre tre persone, delle quali due legate da vincoli di parentela. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, mentre Daniele Sessa si occupava principalmente di procurare i capitali e di gestire la parte contabile, Cosimo De Pasquale, sfruttando la sua fama di uomo violento, si assicurava con continue minacce e intimidazioni fisiche e psicologiche, il rispetto delle scadenze da parte delle vittime finite nel giro di usura.

Gli altri tre componenti dell’associazione a delinquere, denunciati a piede libero, fungevano, a loro volta, da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell'associazione malavitosa. Ai due arrestati, su disposizione del pubblico ministero della Procura tarantina, sono stati sequestrati i conti correnti bancari, a titolo preventivo d'urgenza. L'operazione, condotta dalla Guardia di Finanza, è stata denominata «Ultima chanche». Le indagini delle Fiamme Gialle di Taranto sono andate avanti per circa un anno. I finanzieri sono entrati in azione dopo la denuncia di alcuni commercianti finiti nella rete degli strozzini. Secondo quanto accertato dagl inquirenti, Sessa e De Pasquale imponevano agli esercenti del rione Italia, che avevano chiesto piccole somme di denaro in prestito, tassi usurai che si aggiravano tra il 150-180 per cento.

Assistente sociale e usuraio. Nel blitz coinvolto Daniele Sessa, figlio di un Prefetto. Disponeva di macchine costose e con l’hobby delle competizioni motociclistiche, scrive “Taranto Buonasera”. Uno dei due  presunti usurai, arrestati ieri dalla Guardia di Finanza,  lavorava anche come assistente sociale. Daniele Sessa, 31 anni, incensurato e figlio di Prefetto, ufficialmente aiutava i bisognosi e, così come emerge dalle indagini delle Fiamme Gialle “ricavava redditi nell’ordine soltanto di poche centinaia di euro mensili, tanto da non presentare neppure le relative dichiarazione fiscali”. Di Daniele Sessa, che è attualmente in carcere con le pesanti accuse di associazione a delinquere e usura, gli investigatori del nucleo di polizia tributaria nel corso delle indagini hanno tracciato un preciso identikit. “Tra il 2011 e il 2013 era ancora a carico dei genitori, e tuttavia ciò non gli ha impedito di disporre di macchine costose, due Audi A6 e di coltivare l’hobby delle competizioni motociclistiche, anch’esso notoriamente  piuttosto impegnativo dal lato finanziario”. Arrestato  nella operazione “Ultima chance” anche il 46enne Cosimo De Pasquale che secondo l’accusa avrebbe a curato con continue minacce il “rispetto” delle scadenze da parte delle vittime. Altri  tre, tra cui zio e nipote, tutti commercianti, sono indagati a piede libero.  E’ emerso che fungevano da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell’organizzazione. I due arrestati sono attualmente detenuti nella casa circondariale di largo Magli, a disposizione del giudice delle indagini preliminari che li interrogherà  lunedì prossimo. Nei confronti di De Pasquale e Sessa, su ordine del pm Lucia Isceri è stato operato anche il sequestro preventivo d’urgenza dei conti correnti bancari. Nel corso delle indagini, durate oltre un anno e  condotte anche con intercettazioni telefoniche, è emerso che De Pasquale e il suo amico Sessa avrebbero gestito nel capoluogo jonico il giro di usura. Tra le vittime una decina di titolari di esercizi commerciali e di laboratori artigianali.  Avrebbero pagato tassi usurari che arrivavano fino al 180% annui, titolari di ristoranti, di negozi di abbigliamento e imprenditori. Secondo l’accusa le vittime sarebbero state minacciate anche in casa o nei luoghi di lavoro. In alcune circostanze Sessa avrebbe proceduto anche personalmente a richiedere i pagamenti degli interessi usurari.  Avrebbe comunque ricoperto il ruolo di mandante delle azioni estorsive che avrebbe, invece, messo in atto, il suo amico Cosimo De Pasquale.

La Guardia di Finanza di Taranto ha arrestato ieri due tarantini con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all’usura e all’estorsione. Si tratta del 46enne Cosimo De Pasquale e del 31enne Daniele Sessa, scrive “La Voce di Manduria”. Quest’ultimo è figlio di Carlo Sessa, attuale prefetto di Avellino, già prefetto della neo costituita Prefettura della Provincia Bat e commissario prefettizio del comune di Manduria dove possiede ancora un’antica  villa nelle campagne tra Manduria e Sava. Secondo l’accusa, i due arrestati, con la complicità di altri tre indagati a piede libero, avrebbero gestito un giro di attività usuraia nei confronti di numerosi commercianti ai quali praticavano interessi sino al 180% annui. L’inchiesta delle fiamme gialle assume particolare spessore proprio grazie alla presenza, tra gli indiziati di reato, del figlio del prefetto Sessa. Il giudice delle indagini preliminari, Martino Rosati, nella sua ordinanza, descrive il giovane come «vocato alla violenza». Seppure ancora a carico dei genitori – scrive il gip -, dichiarava redditi per poche centinaia di euro mensili, disponeva di autovetture costose e coltivava l’hobby altrettanto costoso delle competizioni motociclistiche.

Da un fatto ad un al'atro.

Il Prefetto (poco perfetto) del Bunga Bunga. Guarda un po’: il prefetto Carlo Ferrigno, uno dei testi chiave dell’atto di accusa di "papponaggio" a Berlusconi (“A casa di Berlusconi c’era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione. Che puttanaio…”), è un esperto della materia: risulta iscritto nel registro degli indagati per violenza sessuale da sette donne: ricattate in cambio di pompini…, scrive “Dagospia”.

1 - IL PREFETTO SOTTO INCHIESTA PER VIOLENZA SESSUALE...Franco Bechis per "Libero". Uno dei testi chiave dell'atto di accusa a Silvio Berlusconi, il prefetto Carlo Ferrigno, è stato intercettato non su ordine di Ilda Boccassini e dei pm di Milano che stavano indagando sui festini di Arcore, ma del pm Stefano Civardi, che lo ha iscritto nel registro degli indagati per ipotesi di reato gravissime, fra cui la violenza sessuale. Il clamoroso particolare filtra con discrezione dal palazzo di Giustizia di Milano, e fa leggere sotto altra luce l'inchiesta principale. Ferrigno infatti è protagonista delle 389 pagine di intercettazioni telefoniche che Milano ha inviato in parlamento per inchiodare Berlusconi. Lo è perché Ferrigno è prefetto della Repubblica, e fra il 2003 e il 2006 è stato anche commissario anti-racket nominato dal governo Berlusconi. È attraverso le sue parole intercettate in tre telefonate che gli inquirenti e la stampa hanno disegnato il quadro delle feste di Arcore. Ferrigno non ha avuto mezze parole. È stato lui a definirle «un puttanaio» e a dare questo quadro alla stampa nelle prime ore. Lui a giudicare - alla luce dei festini - «un uomo di merda» il presidente del Consiglio, raccontando: «[...] tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine, quelle strette [...], capito? Bella roba, tutta la sera [...], pensa un po', che fa questo signore [...], ma che schifo quell'uomo». Trattandosi di un prefetto, di «un servitore dello Stato», quel giudizio è stato la chiave di lettura di quelle carte. Nessuno degli inquirenti però, inviandole a Montecitorio, si è premurato di fare sapere i guai giudiziari in cui il prefetto che si scandalizzava è incappato, e per cui il suo telefonino era sotto controllo del pm. Ferrigno è stato denunciato nel febbraio scorso dal presidente di Sos usura, Frediano Manzi, e dal presidente della Associazione Sos Italia Libera, Paolo Bocedi. Alla denuncia erano allegate sette testimonianze di donne che raccontavano ricatti e violenze sessuali subìte dal prefetto per sbloccare i loro mutui dal fondo anti-usura. Fatti avvenuti anche dopo l'abbandono dell'incarico di commissario, perché a loro dire il prefetto Ferrigno sosteneva di avere ancora in mano il commissariato. Le sette donne sono state convocate in procura e hanno confermato parola per parola i fatti. Una vittima dell'usura aveva consentito di filmare la sua denuncia, chiedendo di oscurare il volto. Il filmato è visionabile sul nostro sito www.libero-news.it. In procura sono arrivate altre due testi di accusa nei confronti di Ferrigno che hanno raccontato episodi di violenza sessuale svoltisi negli uffici o nelle abitazioni di Torino, di Milano e di Roma in cui si trovava il prefetto. Tutti e nove i verbali sono stati segretati dalla procura che ancora ha indagini in corso. Le accuse delle testi - lo capisce bene chi può visionare il video - sono gravissime. I presunti ricatti subiti sono di incredibile e odiosa violenza, le parole crude. Ferrigno - secondo il racconto - imponeva rapporti sessuali completi e talvolta orali in cambio dello sblocco dei mutui. E minacciava le malcapitate di non fare denuncia, perché tanto lui aveva relazioni con molti pm e molte procure e non le avrebbero mai prese sul serio. Il pubblico ministero Civardi invece le ha prese molto sul serio e così è nata l'inchiesta. Quando sono emerse le prime notizie, Ferrigno ha negato ogni responsabilità, sostenendo che le signore si erano inventate tutto. Sfortuna vuole che pochi giorni dopo, in tutt'altra procura - quella di Fermo - ma per episodi non dissimili si sia presentato un imprenditore, G.G., denunciando di avere subito analoghi ricatti dal prefetto per sbloccare la somma da lui attesa dal fondo anti-usura. Ha raccontato di avere dovuto pagare 5 mila euro per una serata che Ferrigno voleva trascorrere con alcune ragazze di un night club della riviera marchigiana. Il prefetto anche in questo caso è stato iscritto nel registro degli indagati, non per reati sessuali ma per corruzione. Entrambe le indagini sono ancora in corso, e per Ferrigno vale naturalmente la presunzione di innocenza. Anche se sembra singolare la sua inclinazione allo scandalo per le feste di Berlusconi. È curioso però come i verbali di intercettazione di Ferrigno siano finiti dentro un altro faldone che poco aveva a che vedere con il prefetto. Ferrigno infatti ha solo sfiorato le feste di Arcore, grazie a un suo rapporto assai stretto con una ballerina marocchina, Maria Makdoum, che la sera del 13 luglio ballò ad Arcore e nel cuore della notte telefonò a Ferrigno per un resoconto. Di quella telefonata ci sono solo i tabulati. Ma è citata come fosse avvenuta il giorno precedente in altre due telefonate, contenute in un brogliaccio di intercettazioni relative a telefonate che il prefetto ha fatto a un amico e al figlio il 22 e il 29 settembre 2010, a due mesi e mezzo dai fatti. Un giallo ulteriore che dovrà essere chiarito.

2 - LE INTERCETTAZIONI...Da "Libero". Che uomo di merda (...) Praticamente questo sai che faceva? Facevano le orge lì dentro, non con droga, non mi risulta, capito? E facevano quel lavoro lì. Bevevano tutte mezze discinte, e poi lui è rimasto con due o tre di queste (...) tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine quelle strette (...) capito? Bella roba, tutta la sera (...) pensa un po\', che fa questo signore (...) ma che schifo quell'uomo.

La testimone X.Y su Ferrigno....Sua Eccellenza il prefetto Carlo Ferrigno mi chiamò a Roma per vedere la mia pratica perché diceva che c'erano novità. Mi mandò a prendere da Tonino, il suo autista. Suonai. Mi venne ad aprire Sua Eccellenza e io ero un po' imbarazzata perché lo vidi in accappatoio. (...) La situazione era imbarazzante perché era nudo. Lui lasciava aperto l'accappatoio e quindi si vedevano i genitali. Cominciò con dei convenevoli (...) mi chiese di toccarlo. Mi disse proprio "Mi fai il favore di toccarmi?". Dissi che non ci pensavo proprio. Lui reagì sostenendo che non avevo capito, non dovevo pensare male... Mi prese per mano e mi portò in camera da letto... (...) Mi prese le mani e le mise sui suoi genitali... Io mi ritrassi. Lui disse che non avevo capito niente, (...) ma che ero abbastanza intelligente per capire che questa situazione mi avrebbe portato dei benefici. Lui (il prefetto Carlo Ferrigno) chiuse la porta dietro di me a chiave. Mi sono sentita sicuramente in trappola (...). Mi disse che non pretendeva tanto, che gli bastava anche un rapporto orale. Gli dissi che non se ne parlava proprio. Lui mi spinse sul letto e mi infilò la mano nei calzoni. Nel frattempo si era slacciato i suoi e aveva fuori il pene e i testicoli (...) Mi disse che le pratiche potevano restare ferme fino alla prescrizione, che lui aveva tanti amici nelle procure e anche fra i giudici e che la mia denuncia sarebbe finita in niente... Mi portò nei sotterranei... Mi prese la mano, la portò sui calzoni. Si slacciò la cerniera e in quella occasione mi disse che era la soluzione a tutti i miei problemi... se non vuoi avere un rapporto con me possiamo avere almeno un rapporto orale. Chiaramente mi rifiutai e lui mi disse che avevo deciso comunque la mia fine...

Ferrigno su Berlusconi. A casa di Berlusconi c'era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione, insomma, senti, proprio un puttanaio eh? Quella Minetti lì, dice che poi non è nemmeno tanto bella, quella sera che c'erano tutte donne, Emilio Fede, Lele e lei, c'era anche la Minetti (...) quella mi chiamava, pur essendo lei una puttanella è rimasta esterrefatta quando stavano tutte discinte con le mutande, mezze ubriache, in braccio a Berlusconi e se le baciava tutte, le toccava tutte....

Si allarga la “tangentopoli” della Marina. Il Tribunale del Riesame di Taranto ha deciso di concedere i domiciliari ad alcuni ufficiali finiti in carcere a gennaio. Ma nelle prossime settimane altri potrebbero finire agli arresti, scrive Guido Ruotolo su “La Stampa”. Dopo gli arresti del 7 gennaio scorso di diversi alti ufficiali della Marina militare, per concussione, perché gli imprenditori erano stati costretti a versare una tangente del 10% (su tutti gli appalti e forniture), il Tribunale del Riesame di Taranto ha deciso di concedere gli arresti domiciliari ad alcuni ufficiali finiti in carcere. Ma negli atti depositati ai giudici, il pm Maurizio Carbone ha scritto che diversi imprenditori hanno chiamato in causa altri ufficiali della Marina militare di Taranto. Il pm ha glissato i nomi di questi ufficiali che sono stati anche loro iscritti sul registro degli indagati. Scrive nella sua memoria il pm Carbone: «I verbali delle sommarie informazioni degli imprenditori ascoltati contengono numerosi “omissis” nelle parti concernenti il coinvolgimento di altri ufficiali che sempre all’interno del Commissariato della Marina (Maricommi) di Taranto avrebbero preteso tangenti dagli imprenditori anche per gli altri reparti, sempre con la regia della direzione di Maricommi». Insomma, la Marina di Taranto rischia di essere affondata dalla inchiesta della Procura di Taranto, che sta svelando le tante falle di un «sistema» di corruzione che si tramandava da generazioni di ufficiali. E che non riguardava solo «il quinto reparto», ma anche gli altri. Dagli atti delle indagini risulta addirittura che dopo il primo fermo in flagranza di reato di un ufficiale della Marina che intascava le mazzette, e questo avveniva nel marzo scorso, le tangenti hanno continuato a essere pagate dagli imprenditori. «Si è rotto il muro dell’omertà», scrive il pm Carbone nella sua memoria. Ed ė facile ipotizzare che nelle prossime settimane altri ufficiali della base di Taranto finiranno agli arresti. Una falla. Enorme, continua Ruotolo. Cinque ufficiali e un sottufficiale della Marina militare in carcere per concussione. Le tangenti arrivavano anche a Roma, allo Stato Maggiore della Marina. Il 10% su tutti gli appalti. Ma il quadro potrebbe aggravarsi ancora di più. Ci sono altri indagati e gli arresti potrebbero scattare per altri ufficiali se quelli finiti in carcere stanotte dovessero decidere di collaborare, di ammettere, di confermare le ipotesi del pm Maurizio Carbone. Uno schizzo di fango, anzi peggio sulla Marina militare. Mare nostrum, il salvataggio di decine di migliaia di profughi è alle spalle. L’inchiesta della Procura di Taranto apre uno scenario inedito. Non si tratta di semplici «mele marce». È un sistema di corruzione radicato in quella che è la base aeronavale della nostra Marina. È stato un imprenditore che si è ribellato nel marzo scorso a svelare il sistema, facendo arrestare in flagranza di reato un capitano di Fregata, Roberto La Gioia, mentre intascava una busta con 2.000 euro. I carabinieri sequestrarono una pen drive e un appunto nella cassaforte dell’ufficiale che documentavano appalti, percentuali, spartizioni delle tangenti. Decine e decine di migliaia di euro finiti nelle tasche di diversi ufficiali. La Gioia ha ammesso che il suo predecessore gli fece le consegne. Insomma, ereditò il «sistema». Adesso c’è solo da aspettare, per vedere quanto esteso sia il marcio, alla Marina militare.

Appalti e mazzette, nuovo terremoto per la Marina a Taranto, scrive Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Si allarga anche agli altri reparti di Maricommi l’inchiesta sul sistema di tangenti imposto agli imprenditori. È quanto emerge dalla memoria presentata ieri mattina dinanzi al tribunale del riesame dal sostituto procuratore Maurizio Carbone con la quale aveva chiesto la conferma del carcere per i quattro indagati che avevano appellato l’ordinanza emesso lo scorso 13 gennaio dal gip Pompeo Carriere e che invece il collegio di magistrati ha scarcerato. Si tratta del capitano di vascello Attilio Vecchi, assistito dall’avvocato Susanna Carraro, del capitano di fregata Riccardo Di Donna, del capitano di fregata Marco Boccadamo, difeso dai legali Raffaele Errico e Rocco Maggi, e del maresciallo Antonio Summa difeso dagli avvocati Raffaele Errico e Alessandra Semeraro. Il pubblico ministero Carbone ha depositato diverse testimonianze di imprenditori raccolte negli ultimi giorni nelle quali gli stessi avrebbero raccontato agli inquirenti che le tangenti venivano pagate anche ad altri ufficiali di altri reparti della Direzione di commissariato della Marina militare di Taranto. L’inchiesta sulla tangentopoli in divisa, quindi, non si ferma. Anzi. L’indagine ora sembra mettere sotto la lente di ingrandimento anche gli altri reparti di Maricommi. Dalle poche notizie trapelate, infatti, i verbali di interrogatorio depositati dal pm Carbone sarebbero in diverse parti coperti da «omissis» per nascondere i nomi di altri ufficiali che, secondo quanto raccontato negli ultimi giorni da una serie di imprenditori, avrebbero intascato mazzette. Tra i diversi indagati, al momento, la posizione più delicata è quella di Marco Boccadamo, l’ex vice direttore di Maricommi a cui il riesame ha concesso i domiciliari. Contro di lui, infatti, hanno testimoniato diversi imprenditori sostenendo di aver pagato mazzette all’ufficiale sia quando ricopriva l’incarico di comandante del V Reparto che di vice direttore. Inoltre dopo le prime dichiarazioni di La Gioia che avrebbe raccontato di aver suddiviso le mazzette con Boccadamo, ora si sarebbero aggiunti anche altri due imprenditori che al pubblico ministero avrebbero ammesso di aver versato tangenti all’ex vice direttore per ottenere appalti anche negli altri reparti. Conferme non da poco, quindi, che per gli inquirenti possono significare solo che gli elementi raccolti finora rappresentano solo una parte di quello che avviene all’interno del comando militare. Elementi raccolti, secondo il pm Carbone, grazie agli arresti effettuati che hanno consentito agli imprenditori di abbattere il muro di omertà che per anni ha garantito la sopravvivenza del sistema concussivo. Infine contro Boccadamo pesano anche le dichiarazioni del suo pari grado Giovanni Cusmano avrebbe ammesso di aver ereditato direttamente da lui «la prassi» del 10 percento e di aver diviso con lui almeno in una occasione una tangente da 4mila euro versata dall’imprenditore tarantino che per primo ha dato il via a questo terremoto giudiziario. Cusmano ha spiegato al pm Carbone e al gip Carriere di essere arrivato al comando del V Reparto quasi consapevole che avveniva qualcosa di sospetto: «Che Boccadamo facesse queste cose, si sapeva all’interno».

"Pizzo come i malavitosi", 7 arresti per le tangenti su appalti della Marina militare. Secondo l'accusa, da più di 10 anni, gli imprenditori erano tenuti a pagare il 10 per cento del valore delle commesse per aggiudicarsi i lavori. In manette cinque ufficiali, un sottufficiale e un dipendente civile, scrive Vittorio Ricapito su “La Repubblica”. Scandalo in Marina Militare. Per la procura di Taranto ufficiali e responsabili degli uffici imponevano il pizzo  alle aziende fornitrici e dell'appalto. Un sistema di tangenti a percentuale fissa, il dieci per cento sull'importo di ogni appalto o fornitura, sotto minaccia di rallentare o ostacolare i pagamenti.  "Come la malavita organizzata", il pizzo veniva imposto "in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia", scrive il gip Pompeo Carriere nell'ordinanza di custodia cautelare, causando danni notevoli sia alle singole imprese che all'intera economia locale. Con l'aggravante che il giro di tangenti era imposto da dipendenti dello Stato, per la maggior parte militari, "che hanno giurato fedeltà alla Repubblica e all'osservanza delle regole, innanzitutto deontologiche, dell'ordinamento di appartenenza". Secondo gli investigatori, il "sistema del 10 per cento" andava avanti da almeno dieci anni, una prassi illecita che tacitamente si trasferiva da un comandante all'altro, come un passaggio di consegne. All'alba di questa mattina sono scattate le manette. I carabinieri del comando provinciale di Taranto guidati dal colonnello Giovanni Tamborrino hanno portato in carcere l'attuale e due ex vice direttori del commissariato militare marittimo di Taranto (Maricommi), un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina militare, tutti accusati di concussione. Gli arresti sono stati eseguiti a Roma, Napoli e Taranto. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Secondo gli investigatori le tangenti venivano riscosse dall'ufficiale alla guida del quinto reparto e poi divise in percentuali a seconda degli accordi con chi aveva seguito l'iter amministrativo della pratica. C'era da oliare diversi ingranaggi: chi dal comando di vertice assicurava la copertura finanziaria sui relativi capitoli di bilancio, chi autorizzava l'atto di spesa, chi sottoscriveva l'atto dispositivo, chi materialmente contabilizzava assegni e provviste ed infine chi si interfacciava direttamente con la vittima del sistema. Il tutto naturalmente suddiviso in percentuali formulate in base all'importanza che rivestiva nel procedimento ogni singolo attore. L'inchiesta del sostituto procuratore Maurizio Carbone è decollata il 13 marzo del 2014 quando i carabinieri arrestarono in flagranza di reato il capitano di fregata Roberto La Gioia, 45 anni, comandante del 5° reparto di Maricommi, fermato nel suo ufficio subito dopo aver intascato una tangente di 2mila euro da un imprenditore. Questo aveva già denunciato tutto ai carabinieri sostenendo di aver subìto per anni il "sistema del 10 per cento" e versato tangenti per circa 150 mila euro per mantenere l'appalto dello smaltimento delle acque di sentina delle navi militari. Fra casa ed ufficio del militare, gli investigatori trovarono circa 44mila euro ma soprattutto alcune pen drive su cui era annotata la contabilità occulta e la lista delle imprese che pagavano tangenti. Il 5° reparto di Maricommi, guidato da La Gioia fino al suo arresto, è quello che si occupa dell'approvvigionamento, stoccaggio e rifornimento di combustibili e lubrificanti delle unità navali della Marina Militare e dei mezzi aeromobili, assicurando rifornimenti h24 e 365 giorni all'anno. Nei successivi nove mesi gli investigatori si sono concentrati sulle dichiarazioni dell'ufficiale arrestato, hanno ascoltato i titolari delle imprese che lavorano con la Marina militare, messo sotto controllo telefoni e sequestrato documenti, computer e buoni carburanti, portando alla luce un giro di pizzo di notevoli dimensioni. La Marina militare, si legge in una nota, "ribadendo il proprio pieno sostegno all'azione della magistratura, ha incrementato al proprio interno le attività ispettive e di controllo finalizzate a prevenire e contrastare il fenomeno della corruzione, a salvaguardia del personale che presta quotidianamente servizio con spirito di sacrificio e senso dello stato, compiendo il proprio dovere anche a rischio della vita".

Marina Militare e appalti, 7 arresti per concussione, scrive “la Gazzetta del Mezzogiorno”. Un “vero e proprio pizzo imposto in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia, e che ha causato nel complesso danni notevoli sia alle singole imprese che all’intera economia locale, sostanzialmente alla stregua dell’agire della malavita organizzata”. Lo scrive il gip di Taranto Pompeo Carriere nell’ordinanza di custodia cautelare, richiesta dal pm Maurizio Carbone, notificata a 7 indagati, tra militari e civili, nell’ambito di una inchiesta sugli appalti gestiti dalla Marina militare. La tangente imposta era pari al 10% dei profitti. I carabinieri del comando provinciale di Taranto hanno arrestato il vice direttore di Maricommi, due ex vice direttori, un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina Militare per concussione. In concorso tra loro – secondo l'accusa – abusando delle loro qualità e dei loro poteri, con la minaccia di ostacolare la regolare emissione dei mandati di pagamento per la esecuzione dei lavori di manutenzione e forniture di servizi e materiale loro affidati per conto della Marina militare, gli indagati hanno costretto “vari imprenditori a versare materialmente al capo del V Reparto di Maricommi, in tempi diversi, più somme di denaro non dovute per importi variabili e altre utilità, per un valore complessivamente comunque equivalente al 10% circa dei profitti derivanti dai servizi svolti”. Somme che il capo reparto, precisa una nota dei carabinieri, “provvedeva a distribuire successivamente in diverse parti percentuali secondo gli accordi tra loro intervenuti”.

Gip: imponevano «pizzo» come malavitosi, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. E' in corso, nelle provincie di Taranto, Roma e Napoli, l’esecuzione, da parte dei Carabinieri del Comando Provinciale di Taranto, di sette ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dal gip su richiesta della locale Procura della Repubblica. Le misure restrittive e contestuali perquisizioni vedono fra i destinatari appartenenti della Marina Militare fra i quali Ufficiali, Sottufficiali e personale civile, ritenuti responsabili, in concorso tra loro, del reato di concussione nell’ambito di appalti in favore dell’ente. L'inchiesta, avviata dopo la denuncia presentata da un imprenditore che sosteneva di aver pagato tangenti in relazione ad un appalto, sfociò il 12 marzo 2014 nell’arresto del capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, comandante del quinto reparto di Maricommi, che si occupava di contratti e appalti. L'ufficiale fu bloccato dopo aver ricevuto una busta con 2mila euro dall’imprenditore, che rappresentava – secondo l'accusa – una tranche di una tangente imposta per emettere i mandati di pagamento nei confronti della sua azienda. Il sospetto degli investigatori è che il militare abbia chiesto una tangente del 10 per cento. I carabinieri successivamente perquisirono l’appartamento e l’ufficio di La Gioia trovando altro denaro ritenuto frutto della concussione. Furono sequestrate anche due pen drive dell’arrestato, in cui furono scoperti file con un elenco di imprese. Accanto a ognuna di esse era riportato il valore dell’appalto aggiudicato e il pagamento di tangenti. Sono cinque ufficiali in servizio a Napoli, Roma e Taranto, un sottufficiale e un impiegato, entrambi in servizio a Taranto, le sette persone portate in carcere dai carabinieri nell’ambito dell’indagine sulle tangenti imposte sugli appalti della Marina Militare. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Sono tutti indagati in concorso con il capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, ex responsabile di Maricommi, arrestato il 12 marzo del 2104 ed attualmente e sottoposto all’obbligo di firma. L’ufficiale fu indagato per concussione nei confronti di una serie di imprenditori locali, assegnatari di servizi per conto della Pubblica Amministrazione nell’ambito degli appalti gestiti dalla direzione di Commissariato per la Marina Militare di Taranto. Al graduato fu sequestrata una somma di denaro contante, suddivisa in singole mazzette, per un ammontare complessivo pari a 44mila euro. Il gip scrive nell’ordinanza di custodia cautelare eseguita oggi che il sistema ideato dagli indagati faceva sì che gli imprenditori concussi fossero vittime di una “vera e propria prassi illecita che si trasferisce da un comandante all’altro, in un ideale passaggio di consegne, più o meno tacito”.

Ma non è la prima volta.

Un provvedimento di interdizione dagli incarichi è stato chiesto dal sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Taranto Vincenzo Petrocelli nei confronti di quattro ufficiali della Marina Militare, coinvolti in un’inchiesta su appalti assegnati dalla Marina Militare per lavori nell’Arsenale di Taranto, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La richiesta è stata accolta dal gip del tribunale di Taranto Michele Ancona: trattandosi tuttavia di personale militare è necessario prima procedere agli interrogatori di garanzia, già fissati per il 28 e il 31 marzo 2008. Per i quattro ufficiali era stato chiesto l’arresto, ma il gip ha respinto la richiesta di misura cautelare. In tutto sono nove gli indagati. I quattro destinatari del provvedimento interdittivo sono l’ammiraglio Giulio Cobolli, attuale comandante dell’Arsenale militare, l’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino, ex direttore dell’Arsenale di Taranto, trasferito a Roma; Pietro Covino, in servizio a La Spezia, e Nicola Giustino, contrammiraglio in servizio a Taranto. Si ipotizzano anche i reati di truffa e turbativa d’asta perché alle gare di appalto avrebbero partecipato ditte che non avevano requisiti. L'inchiesta sfociò, il 9 novembre 2005, nel sequestro preventivo e probatorio di un’area di circa 18.000 metri quadrati all’interno dell’Arsenale della Marina Militare, nella quale lavorano numerose ditte appaltatrici, e delle attrezzature utilizzate per la manutenzione delle navi. Successivamente fu notificato il provvedimento di sequestro preventivo ai titolari delle ditte, alcune delle quali avrebbero la sede legale in un bar o in campagna. All’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino fu affidata la custodia giudiziale dell’area interessata dal sequestro. Le indagini dei carabinieri del Nil e dei funzionari dell’Ispettorato del lavoro facevano riferimento a presunte violazioni della normativa sulla sicurezza sul lavoro. Durante le ispezioni, sarebbe emersa la mancanza dei requisiti utili per poter partecipare alle gare di appalto espletate dalla Marina militare. Per altre aziende, invece, furono avviati accertamenti sulle modalità con le quali era stato ottenuto il certificato Nato necessario per compiere interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sulle navi militari.

Lecce, confessano altri due poliziotti della Stradale, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno. Altri due poliziotti della Stradale confessano. E’ accaduto ieri mattina nel corso dell’udienza davanti al Tribunale del Riesame. Stef ano Simonetto, 42 anni, e Luigi De Vincenzo, di 55, entrambi di Nardò, hanno ammesso di essersi «adeguati un andazzo che era generalizzato» fra gli agenti in servizio nella sezione di Polizia stradale di Lecce. I due sono in carcere dal 12 maggio scorso sulla scorta di u n’ordinanza di custodia cautelare in cui si contestano i reati di associazione per delinquere e concussione. Gli agenti sono accusati di aver preteso mazzette e regali da commercianti ed imprenditori. In cambio furgoni e camion delle aziende «compiacenti » non sarebbero stati multati. Il sistema delle «regalie» e delle mazzette è già stato illustrato da altri due agenti: l’ispettore capo Fr ancesco Reggio di Lecce e l’assistente Anna Maria Petrelli di Lizz anello. Ieri sono arrivate le dichiarazioni degli altri due agenti che hanno ammesso di aver ricevuto i regali e di aver fatto qualche «giro» fra gli imprenditori per ottenere buoni benzina. Simonetto e Di Vincenzo sono difesi dagli avvocati Giuseppe Bonsegna e Donato Mellone. Nel corso dell’udienza il pubblico ministero Guglielmo Cataldi ha depositato anche nuovi verbali con le dichiarazioni di altri imprenditori i cui nomi compaiono nella lista di coloro che avrebbero versato «mazzette» e fatto regali agli agenti della Stradale. I titolari di alcune aziende sono già stati sentiti. Ed hanno confermato di aver consegnato denaro, regali e buoni benzina ai poliziotti per evitare il rischio di essere multati.  Ieri davanti al collegio del Tribunale del Riesame sono arrivate le posizioni di altre cinque agenti raggiunti dall’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Si tratta di Leonardo Impero Delle Donne 45 anni, di Caprarica; di Franco Carlà, 58, di Lizzanello; di Maurizio Scarofo n e , di Lecce; Giuse ppe Piccinno, 51, di Aradeo; di Giuseppe Amenini, 46, di Maglie. Fra di loro c’è stato chi ha preferito rinunciare al ricorso al Riesame. Gli agenti sono assistiti dagli avvocati Giancarlo Dei Lazzaretti, Luigi Rella, Luigi Greco, Pantaleo Cannoletta, e Laura Minosi. Intanto continuano da parte degli ufficiali della sezione di pg della Polizia di Stato gli ascolti degli imprenditori come persone informate sui fatti.

Rossana di Bello, fa fallire Taranto e si prende un vitalizio a 58 anni, scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. La domanda l’ha fatta all’inizio di settembre, ed è bastata una sola seduta dell’ufficio di presidenza del Consiglio regionale della Puglia per esaudirla, perfino in modo retroattivo. Dal primo settembre scorso c’è un ex politico in più a prendere quel vitalizio che da anni ci raccontano falsamente di avere abolito: è Rossana di Bello, una delle pioniere di Forza Italia. Ci sono non poche anomalie in quel vitalizio che era stato abolito e continua a correre come un fiume. La prima anomalia è quella di uno Stato che premia per tutta la vita un politico che non ha particolarmente brillato: la Di Bello è stata sindaco di Taranto per lunghi anni e con lei la città è stata fra i pochi comuni italiani a fallire, con un dissesto finanziario per oltre 900 milioni di euro (è stata anche sotto inchiesta penale, ma in secondo grado l’hanno assolta dando la colpa ai suoi collaboratori. La Corte dei Conti però ce l’ha ancora nel mirino per danno erariale). La seconda anomalia è che la Di Bello con soli cinque anni lavorati prende da settembre e prenderà fino all’ultimo suo giorno (con possibilità di rendere reversibile ai suoi cari) un assegno mensile da 3.862,27 euro lordi. La terza anomalia riguarda l’età pensionabile della fortunata politica: ha compiuto 58 anni il 28 agosto scorso. La legge Fornero vale dunque per tutti, ma non per i politici italiani, che con soli 58 anni e per avere lavorato solo 5 anni hanno diritto a una pensione reversibile che è quasi il triplo della pensione media degli italiani che hanno lavorato 40 anni. Quarta anomalia, chi sul lavoro combina un disastro come è evidente nella storia di Taranto, alla fine ci rimedia un bel premio.

Lecce, aumentano processi a magistrati, 12 indagati, 92 parti offese. L'inaugurazione dell'anno giudiziario a Lecce con competenza su Taranto: tra i temi caldi l'ambiente, con l'Ilva, il fotovoltaico, gli abusi edilizi e i rifiuti interrati. In crescita durata media procedimenti civili, in lieve calo quella dei processi di primo grado, scrive Chiara Spagnolo su “La Repubblica” L’Ilva, i parchi fotovoltaici, i rifiuti interrati e poi le colate di cemento sulle aree protette, vittime di “reati perpetrati oltre che da privati spesso anche dal pubblico”. È stato l’ambiente uno dei settori più impegnativi per la magistratura salentina, come emerge dalla relazione fatta per l’inaugurazione dell’anno giudiziario dal presidente vicario della Corte d’appello di Lecce, Mario Fiorella: “In tutto il Salento è grave la situazione del traffico di rifiuti pericolosi di varia provenienza, spesso sparsi in discariche abusive o anche interrati con danni per i terreni e le falde acquifere”.  Relazione sintetica, quest’anno, perché racconta il lavoro fatto sotto la presidenza di Mario Buffa, da due settimane in pensione, al quale è stato rivolto un plauso unanime. L’anno appena trascorso - nei tribunali di Lecce, Brindisi e Taranto – è stato caratterizzato da difficoltà legate alla perdurante carenza di organico, sia dei magistrati che del personale amministrativo, a cui si è reagito con un impegno che ha consentito “di mantenere inalterato il trend relativo alla durata dei processi”, ha detto il presidente. I numeri, a quanto pare, descrivono una situazione sotto controllo: aumenta la durata media dei processi civili, ma solo in fase d’appello (891 giorni contro gli 806 dell’anno precedente), ma aumenta anche il contenzioso, che non viene alleggerito dalla mediazione civile “che non ha dato effetti positivi”, con solo 63 procedimenti iscritti nel 2013. Risulta addirittura leggermente diminuita, invece, la durata media dei processi di primo grado a Lecce e Brindisi (663 giorni a Lecce e 419 a Brindisi rispetto ai 675 e 442 dell’anno precedente) mentre è leggermente aumentata a Taranto (619 giorni a fronte dei 580 del 2012). I processi d’Appello invece sono risultati più veloci in entrambe le sedi (560 giorni a Lecce e 733 a Taranto, contro i 674 e gli 823 dell’anno precedente). E se le lungaggini della giustizia pongono il 2013 in perfetta linea con gli anni passati, risulta invece in crescita il numero di processi a carico di magistrati: ben 113 sono stati infatti quelli iscritti nel registro degli indagati, comprendendo sia quelli in servizio nel Distretto di Lecce (inchieste poi trasferite per competenza a Potenza) sia quelli in servizio a Bari, mentre 92 sono i magistrati che risultano parti offese. La relazione sull’andamento della giustizia ha preso poi in esame il lavoro effettuato dalle Procure, scavando anche nelle metodologie di indagine utilizzate ed evidenziando, per esempio in materia di intercettazioni telefoniche, come la Procura di Brindisi sia quella che ne ha fatto un maggiore utilizzo (con 647 utenze controllate a fronte delle 437 di Lecce e 641 di Taranto), mentre 1.267 sono i telefoni intercettati dalla Dda nell’ambito del controllo delle organizzazioni criminali. Proprio in tema di mafia, è stata sottolineata dal presidente Fiorella la diminuzione degli omicidi (2 a Taranto e 2 a Lecce) “dettato dall’esigenza di non richiamare l’attenzione di polizia e magistratura con azioni eclatanti”. Usura ed estorsioni, invece, continuano ad essere terreno privilegiato d’azione dei clan ma molto spesso “non vengono denunciate dalle vittime per paura di ritorsioni”, confermando l’appellativo di “reati sommersi”, che danno infatti origine a pochi procedimenti giudiziari: 40 per usura e 182 per estorsione nelle tre province.

E poi....

Denuncia un concorso ma l'Ateneo la accusa: «Collezionava incarichi», scrive Luca Barile su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Un assegno di ricerca, pagato dall’Ateneo dal 2007 al 2011, entra a gamba tesa in un processo non ancora incominciato, ma che sta già facendo discutere. Dalla procura di Taranto, è notizia dell’altro ieri, il pubblico ministero Remo Epifani ottiene il rinvio a giudizio per una decina di professori universitari, accusati a vario titolo di aver favorito, nella fase di valutazione dei titoli, il candidato risultato vincitore di un concorso per ricercatore, bandito nel dicembre del 2009. Ma dalla direzione generale dell’Ateneo, nel frattempo, era partita una lettera, datata 12 dicembre 2014 scorso, indirizzata all’avvocatura dello Stato. Nella missiva si chiede un parere su come comportarsi nei confronti di Monica Bruno, titolare dell’assegno di ricerca. Da una verifica interna parrebbe che la signora, moglie del magistrato tarantino Ciro Fiore, possa aver percepito quella borsa senza averne avuto diritto. E quindi l’Università è pronta a pretenderne la restituzione. Quello che non è chiaro, ed ecco perché il parere richiesto all’avvocatura, è se si possa anche annullare il contratto che, a suo tempo, l’assegnista Bruno firmò con l’Ateneo. Questione non da poco (senza contratto, niente titolo) considerando che la signora è l’autrice dell’esposto dal quale è partita l’indagine sul concorso da ricercatore, un posto nel settore del diritto commerciale nella sede distaccata, a Taranto, dell’ateneo barese. Perché il titolo di assegnista ha il suo valore in una procedura di valutazione comparata. Tanto più che proprio sui titoli, Bruno sta giocando la sua partita contro Giuseppe Sanseverino, vincitore del concorso. La tesi, accolta da una sentenza del 2013 del Consiglio di Stato, è che i commissari valutarono positivamente alcuni titoli presentati da Sanseverino, in particolare delle esperienze scientifiche all’estero, senza accertarne la veridicità. Il Consiglio di Stato ordinò all’Università di ripetere la comparazione dei titoli, per i due concorrenti in causa ed il rettore, Antonio Uricchio, annullò il precedente decreto di nomina di Sanseverino, con cui questi era stato dichiarato vincitore. Inoltre, ha messo in moto la procedura per formare una nuova commissione. Della vecchia, sono indagati alcuni docenti baresi e non, compreso il professor Gianvito Giannelli, noto per aver svolto l’incarico di curatore fallimentare del Bari Calcio. È indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, anche se non faceva parte della commissione. Sanseverino, però, ha denunciato all’Ateneo che la sua concorrente avrebbe ottenuto incarichi, come amministratore giudiziario, curatore e revisore dei conti durante il periodo dell’assegno di ricerca. La cosa è incompatibile con l’esclusivo impegno richiesto ad un assegnista. E' stata fissata per il 13 febbraio 2015 prossimo l’udienza preliminare, dinanzi al gup del tribunale di Taranto Vilma Gilli, a carico di 11 persone per un presunto concorso truccato per un posto di ricercatore in diritto commerciale alla sede tarantina della Facoltà di Economia dell’università di Bari.

Concorso Università a Bari: 11 indagati tra cui 4 professori, scrive Massimiliano Scagliarini “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una dottoranda con il registratore sempre acceso in tasca e un concorso da ricercatore in Diritto commerciale annullato dal Consiglio di Stato. Un calderone di vita universitaria che ha scatenato una guerra tra Procure, coinvolgendo 11 persone (tra cui 4 docenti) che oggi si ritrovano indagati con l’accusa di aver truccato non solo le selezioni, ma persino l’assegnazione degli incarichi gratuiti di supplenza. Il punto è che la dottoranda Monica Bruno, che dal 2009 ha inviato diverse denunce sulla questione, è moglie di un magistrato di Taranto, Ciro Fiore, all’epoca dei fatti gip nel Tribunale jonico ed oggi trasferito al Minorile. A febbraio il procuratore aggiunto di Bari, Lino Giorgio Bruno, aveva chiesto e ottenuto l’archiviazione delle accuse per una parte dei fatti, ma a inizio giugno il pm di Taranto, Remo Epifani, ha inviato l’avviso di conclusione delle indagini ad 11 persone: oltre ai commissari del concorso annullato, nell’elenco ci sono il vincitore, Giuseppe Sanseverino, 46 anni, di Massafra, ed i docenti baresi Gianvito Giannelli, 54 anni, e Ugo Patroni Griffi, 48 anni. Ce n’è abbastanza per parlare di liti in famiglia. Anche perché Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, della Bruno è stato non solo tutor ma anche testimone di nozze. E Giannelli, ultimamente molto noto alle cronache per l’incarico di curatore fallimentare del Bari calcio, è a sua volta sposato con un sostituto procuratore. Ma quando la commissione che doveva nominare un ricercatore in Diritto commerciale ha prescelto Sanseverino rispetto agli altri tre partecipanti (tra cui c’erano il figlio del professor Giorgio Costantino e la figlia della professoressa Eda Lofoco), la dottoressa Bruno ha preso carta e penna e con l’avvocato Carlo Raffo ha denunciato una serie di presunte irregolarità, arrivando a formulare persino i capi di imputazione: nell’avviso di conclusione delle indagini la procura di Taranto li ha ripresi quasi tutti, e quasi parola per parola. In particolare, la Bruno ha denunciato quello che lei stessa chiama il «metodo del cappello» per l’assegnazione delle supplenze: il professor Patroni Griffi (che per questo è accusato di truffa e falso ideologico) avrebbe presentato domanda salvo poi ritirarla all’ultimo momento, avvantaggiando così - questa è la tesi - il dottor Sanseverino. Un punto su cui la procura di Bari, chiedendo l’archiviazione, aveva però espresso un’opinione contraria: semplicemente perché anche in quei casi Sanseverino poteva comunque vantare i titoli migliori dell’unica altra candidata. Il concorso per ricercatore del 2009, che a breve dovrà essere ripetuto con una nuova commissione e presumibilmente vedrà di nuovo la Bruno ai blocchi di partenza, è stato annullato sulla base di una decisione della giustizia amministrativa sulla valutazione comparativa dei titoli. Per questo la procura di Taranto accusa di abuso d’ufficio sia Sanseverino sia i commissari, tra cui oltre a Giannelli ci sono il bolognese Filippo Paolucci e il campano Ermanno Bocchini. Ma soprattutto, nei guai dopo le denunce (e le registrazioni) della Bruno sono finiti alcuni suoi ex colleghi dottorandi, accusati di favoreggiamento aggravato per aver negato ciò che probabilmente hanno detto a proposito del concorso mentre non sapevano di essere intercettati. Al di là dei docenti di ruolo, il vero beffato di tutta questa storia finora è proprio Sanseverino, che oltre a non aver ottenuto il posto è accusato anche di aver «barato» nel curriculum. Sanseverino ha depositato in procura una lunga memoria, in cui esamina in dettaglio i propri titoli accademici, si toglie qualche sassolino dalla scarpa, ma passa anche al contrattacco nei confronti della Bruno: ha infatti documentato che la collega, mentre percepiva l’assegno di dottorato da parte dell’Università di Bari, continuava a svolgere l’attività professionale di revisore dei conti. Nel frattempo il dossier di Sanseverino è finito alla Corte dei Conti: questa storia non finirà mai...

Concorso all'Università, 11 indagati illustri. "Truccarono le carte". La selezione per il posto di ricercatore in diritto commerciale internazionale, la procura di Bari archivia, Taranto verso il giudizio. Il Consiglio di Stato annulla la prova, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Un concorso universitario. Undici indagati illustri. Un dibattito tra due procure, quella di Taranto e quella di Bari, che sullo stesso fatto hanno opinioni diverse: a Bari archiviano, nel capoluogo jonico sono pronti ad andare a giudizio. La storia è quella del concorso da ricercatore in diritto commerciale internazionale bandito dall'università di Bari per la sede di Taranto. La selezione viene vinta dal professor Giuseppe Sanseverino. Ma una delle partecipanti, Monica Bruno, non ci sta e presenta il ricorso amministrativo: il Tar le dà torto mentre il Consiglio di Stato ribalta la sentenza e di fatto annulla la prova che infatti si sta rifacendo in queste settimane. Non è chiaro, dicono i giudici amministrativi, in una sentenza in cui parlano tra le altre cose di "eccesso di potere", quali criteri abbia utilizzato la commissione per "sovvertire il diverso peso dei titoli di ricerca esibiti da ciascun candidato", dunque è tutto da rifare.  Il giudizio amministrativo però rappresenta soltanto una fetta di questa storia. La Bruno ha presentato un corposissimo esposto in procura, preparando persino i capi di imputazione. In un primo momento Taranto ha inviato gli atti a Bari, iscrivendo nel registro degli indagati ventinove persone, cioè tutto il consiglio di dipartimento. Con un provvedimento del 26 febbraio del 2014 firmato dal sostituto Luciana Silvestris e dall'aggiunto Giorgio Lino Bruno, Bari però archivia il reato di falso inizialmente ipotizzato. E rimanda le carte a Taranto per ulteriori valutazioni. Nei giorni scorsi la doccia fredda: il pm di Taranto Remo Epifani ha fatto notificare a undici persone un avviso di garanzia. E' indagata l'intera commissione di esame composta dai professori Gianvito Giannelli, Luigi Paolucci ed Ermanno Bocchino. L'accusa è di falso e abuso di ufficio perché "con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, procuravano intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale al candidato Sanseverino in concorso con il quale agivano, consentendogli il positivo superamento della procedura di valutazione contributiva. Cagionano così un danno ingiusto alla candidata Bruno". Non solo: dice il pm che ci sono anche dei falsi compiuti per "riconoscere al Sanserverino titoli preferenziali inesistenti" per "formulare giudizi favorevoli su pubblicazioni che non potevano essere valutate", il tutto chiaramente per consentire al professore di vincere la prova a scapito della Santoro. Nell'inchiesta è indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi che però non faceva parte della commissione ma che è accusato dalla Santoro e dalla procura di aver favorito Sanseverino, perché suo allievo. Agli atti sono state depositate alcune intercettazioni fatte dalla stessa Santoro nella quale altri docenti, ora iscritti nel registro degli indagati (gli altri sono i professori Ermanno Bocchini, Luigi Paolucci, Anna Zaccaria, Francesco Sporta Caputi, Laura Tafaro, Giuditta Lagonigro, Rosa Calderazzi e Francesco Costantino) raccontavano alla collega di sapere che Sanseverino avrebbe dovuto vincere il concorso perché "aveva dei titoli fortissimi". Sanseverino a sua volta è passato al contrattacco depositando una memoria contro la Bruno (moglie del magistrato Ciro Fiore scrive nella memoria) nella quale fa notare tra le altre cose che la collega avrebbe ricevuto un assegno di ricerca mentre svolgeva altri ruoli, tra i quali “perizie contabili e societarie, curatele fallimentari e procedimenti penali” presso gli uffici giudiziari tarantini. Eppure al titolare dell'assegno è "inibito lo svolgimento - dice Sanseverino - in modo continuativo di rapporti di lavoro nonché l'esercizio di attività libero professionali". Oltre questo c'è poi la questione amministrativa. Come detto il Consiglio di Stato ha annullato il concorso perché la commissione avrebbe favorito Sanseverino a scapito della Bruno. 'Confrontando le relative attività di ricerca - si legge infatti nella sentenza emerge, in termini oggettivi, un dato di prevalenza per la dottoressa Bruno". Dopo la decisione dei giudici amministrativi è stata formata una nuova commissione che però ha interrotto i lavori. La Santoro ha mandato loro una diffida, spiegando che avrebbero dovuto rivalutare soltanto i suoi titoli e quelli di Sanseverino e non quelli di tutti gli altri candidati. Una teoria che non ha convinto però il rettore, Antonio Uricchio, che infatti ha chiesto un parere al Consiglio di Stato per capire come comportarsi ed è in attesa di ricevere una risposta. Per il momento il concorso è bloccato. Intanto però l'avviso è diventato un caso in ambito accademico. Anche se tutte le persone coinvolte si dicono serenissime. Se da una parte il legale di Patroni Griffi, Ugo Paliero, si dice sicurissimo di chiarire tutto in tempi stretti anche vista la "posizione marginale" del suo assistito, il difensore del professor Giannelli, Vito Mormando spiega: "I rilievi che gli vengono mossi fanno riferimento a presunte e opinabili irregolarità amministrative, tra l'altro già travolte dalla sentenza del Tar e dal decreto di approvazione degli atti da parte del rettore. Comunque un dato è pacifico: il concorso si è svolto presso l'università di Bari. La competenza non è tarantina".

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

L’irresistibile ascesa di Cicci e le mille luci della città che pensava in grande. Il rappresentante di farmaci che divenne il re Mida della sanità privata. Nella sua villa cenò Liza Minnelli, scrive Angelo Rossano su “Il Corriere del Mezzogiorno”. È un’alba livida e umida. E’ l’alba di martedì 28 marzo 1995. Se, alla fine, questa storia diventerà davvero la trama per un film, ebbene, la prima scena non potrà che essere questo momento in questa città: Bari. I blitz vengono fatti sempre all’alba, sia che si tratti di criminalità comune, organizzata o di colletti bianchi. Sia che si tratti di sicari di malavita o del sindaco o del direttore della Gazzetta del Mezzogiorno. L’appuntamento con le manette è a quell’ora lì. E lo fu anche quel giorno. Quando 35 persone finirono coinvolte in un’inchiesta sulla sanità privata. Una storia di tangenti, giri miliardari e rapporti mafiosi. Così si disse e si scrisse. Il Corriere della Sera titolò il pezzo: «Tangenti, in manette i padroni di Bari». E poi finirono tutti assolti. Quell’inchiesta era iniziata qualche tempo prima: il 3 maggio del 1994, un altro martedì. Francesco Cavallari finì in manette con alcuni suoi collaboratori per una storia di ricoveri poco chiara. Da lì, alle sue agendine, ai racconti e alle testimonianze sui suoi rapporti con la politica e con i pezzi che contavano nella società barese, il passo fu breve. E’ l’operazione «Speranza» coordinata dall’allora procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia Alberto Maritati (poi divenne parlamentare prima dei Ds e poi del Pd e anche sottosegretario). Al centro di tutto c’è lui: Francesco Cavallari, detto Ciccio solo da chi voleva far credere di conoscerlo bene, mentre il suo vero nomignolo era «Cicci». E con lui finirono nell’inchiesta e agli arresti domiciliari gli ex ministri Vito Lattanzio (Dc) e Rino Formica (Psi), accusati di corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Furono pesantemente coinvolti l’allora sindaco di Bari, Giovanni Memola (Psi), accusato di corruzione, l’ex sindaco Franco De Lucia (Psi), ma ancora un ex presidente della Regione, Michele Bellomo (Dc), ex assessori regionali come Franco Borgia (Psi) e Nicola Di Cagno (liberale), il direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, Franco Russo. E anche appartenenti alle forze dell’ordine, capiclan, magistrati. In vent’anni sono stati tutti assolti. Tutti, tranne uno: Cicci. Lui aveva patteggiato. Ma l’altro ieri (che giorno era? il 6 maggio, un altro martedì) la Cassazione - proprio in occasione del suo compleanno - ha stabilito di fatto che Francesco Cavallari, l’ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. I giudici hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi, Cavallari nel 1995 patteggiò una condanna a 22 mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione e gli fu confiscata gran parte del patrimonio, circa 350 miliardi di lire. Chiariamo: la corruzione resta, ma la pena andrà rideterminata. Il patrimonio? Si vedrà. Un vero tesoro accumulato a partire dalla fine degli anni ’70, grazie alla legge che istituì il servizio sanitario nazionale e che prevedeva le convenzioni con i privati. Il rappresentante di medicinali Cavallari compie il grande passo: «Rileva le quote di una società che possedeva la clinica Santa Rita, in via Bottalico, a Bari», racconta Antonio Perruggini, che fu suo stretto collaboratore ed è l’autore del libro Il botto finale, sottotitolo: «Morì un giudice, un imprenditore finì in esilio. Storia dello scandalo giudiziario più clamoroso di Bari e delle sue inaspettate fortune» (Wip edizioni, 10 euro). Fu quella la porta che Cavallari attraversò per entrare negli anni Ottanta da protagonista. Era la Bari da bere, la Bari governata dall’asse socialisti-democristiani. Nelle elezioni del 1981 per la prima volta in città il Psi superò il Pci. Era la Bari del giro vorticoso di soldi e favori, di affari e carriere, di rapporti opachi con il malaffare e la malavita, di assistenza medica privata in cliniche che sembravano alberghi a 5 stelle e posti di lavoro da chiedere e da garantire. Una città dove tutto si teneva insieme. Ma era soprattutto una città che aspirava al ruolo di capitale e poggiava le sue ambizioni su quattro pilastri: la sanità privata, la cultura, la finanza, la tecnologia. Erano le Ccr (le Case di cura riunite), il Petruzzelli, la Cassa di risparmio di Puglia e Tecnopolis. Era quindi anche la città del Petruzzelli e di Ferdinando Pinto, un altro socialista. Un lustro per la città che toccò l’espressione più alta con la produzione dell’Aida in Egitto, tra le vere Piramidi. Altri tempi, si dirà: rubinetti della spesa pubblica sempre aperti e politica compiacente. Certo, ma anche altre ambizioni, altre visioni, altra borghesia. Com’è finita lo ricordano tutti. Teatro in fiamme e a Pinto ci sono voluti dieci anni per dimostrare di essere innocente. Erano anche gli anni delle cene a casa Cavallari: villa su corso Alcide De Gasperi, lato destro andando verso Carbonara, con due piscine (una era coperta e l’altra scoperta), interni progettati dallo studio barese dell’ingegnere Dino Sibilano. Una volta, lì cenò Liza Minnelli, ma c’è chi ricorda anche Umberto Veronesi e Renato Dulbecco. Nulla di strano, in fondo nel frattempo Cavallari era diventato il capo di un’azienda, le Case di Cura Riunite, «cui facevano capo - ricorda Perruggini - 11 strutture a Bari e provincia specializzate in cardiochirurgia, dialisi, cardiologia, chirurgia, geriatria: è stata fino alla metà degli anni ’90 la prima azienda sanitaria privata di Italia con un fatturato prossimo ai 300 miliardi di lire annui e oltre 4mila dipendenti. All’epoca le Case di Cura Riunite erano per dimensioni seconde solo all’Ilva di Taranto». Bari era diventata l’eldorado della medicina convenzionata. Antonio Gaglione cardiochirurgo, già deputato, senatore e sottosegretario, ricorda ancora quell’8 maggio del 1992, oggi sono esattamente 22 anni, era il giorno che i baresi dedicano a San Nicola: a Villa Bianca (clinica Ccr) eseguì per la prima volta in Puglia un’angioplastica su un malato di cuore. Non era un paziente qualunque: si trattava di quel Nicola Di Cagno, politico e docente universitario, che tre anni dopo sarebbe finito coinvolto nell’inchiesta. E se la sera, dopo il teatro, si andava a cena da «Cicci» e dalla moglie, la signora Grazia Biallo, la mattina si facevano affari anche grazie al ruolo che aveva assunto la Cassa di Risparmio di Puglia, presidente Franco Passaro, socialista, docente universitario. Sotto la presidenza Passaro (dal 1981 al 1994) la Cassa diventa banca leader della Puglia assieme al Banco di Napoli. Com’è finita? L’ex presidente ha raccontato nel 2010 la sua versione in un libro La Resa. Piccola storia di una banca e di un processo. Infine, la quarta gamba di questa sorta di «primavera tecnocratica» barese anni ’80. Tecnopolis, il primo parco scientifico e tecnologico d’Italia, nasce alle porte di Bari da un’intuizione del professore di fisica Aldo Romano (prima socialista, poi vicino ai democristiani), allievo di Michelangelo Merlin che era a capo di un dipartimento di fisica, quello barese, dove ci fu la prima laurea d’informatica del Sud, seconda in Italia. Tecnopolis viene inaugurato nel 1984, per l’occasione arriva anche il vice governatore della California e assiste al convegno di battesimo intitolato «Finanza, tecnologia e imprenditorialità». L’Università di Bari, la Banca d’Italia, la Cassa per il Mezzogiorno e il Formez erano insieme nell’incubatore che consentirà la nascita del parco. Il modello del parco scientifico e tecnologico fu esportato in tutta Italia. Anche su Tecnopolis fu aperta un’inchiesta giudiziaria. Romano lasciò la presidenza del parco e andò a insegnare a Roma. Dall’inchiesta, alla fine, non emerse nulla. Nel 1982, intanto, la Regione Puglia, presidente Antonio Quarta varò il «Piano regionale di Sviluppo centrato sull’innovazione». Era l’82 e alla Regione si parlava di innovazione. Oggi Tecnopolis di fatto è InnovaPuglia, società della Regione che progetta e gestisce programmi di tecnologia dell’informazione e della comunicazione ed è anche una società per la promozione, gestione e sviluppo del Parco Scientifico e Tecnologico. Forse si farà davvero un film su un pezzo di questa storia. E se la scena iniziale sarà quella dell’alba sul lungomare di Bari, quella finale non potrà che essere il tramonto di Santo Domingo, dove adesso Francesco Cavallari, detto Cicci, gestisce una gelateria.

Francesco Cavallari, ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. Lui lo aveva sempre sostenuto, ma le sue dichiarazioni dinanzi a pubblici ministeri e giudici erano rimaste inascoltate. E vent'anni dopo arriva la clamorosa decisione della Cassazione: è stata annullata la sentenza con la quale la corte di appello di Lecce aveva respinto l'istanza di revisione del processo al termine del quale nel gennaio 2013 era stato condannato per associazione mafiosa. I giudici della Suprema corte hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associazione mafiosa con se stesso non può esistere. Cavallari è stato assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi. Bari. Tutti assolti: con questo verdetto, 14 anni dopo gli arresti, si è concluso il processo d’appello per trentuno imputati coinvolti nell’operazione Speranza, in cui la procura di Bari ipotizzava un intreccio tra mafia, politica e affari. E così l’unico colpevole è rimasto Francesco Cavallari, noto come Cicci, per lungo tempo il re Mida della sanità privata pugliese e italiana: l’imprenditore, infatti, dopo essere stato arrestato, patteggiò una pena a ventidue mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione subendo un sequestro patrimoniale di circa 350 miliardi di vecchie lire. A questo punto, però, visto che tutti i presunti componenti di quella organizzazione criminale sono stati scagionati nei vari processi relativi all’inchiesta che si sono susseguiti nel corso degli anni, Cavallari di fatto risulta associato con se stesso: proprio per questa ragione l’imprenditore, un tempo ex presidente delle Case di Cura Riunite e adesso gestore di una gelateria a Santo Domingo, ha chiesto la revisione del processo. L’inchiesta sul presunto intreccio tra politica, affari e criminalità organizzata nella gestione delle case di Cura Riunite di Bari, denominata speranza, fu diretta dall’allora pm Alberto Maritati, successivamente parlamentare del partito democratico e più volte sottosegretario, e coinvolse politici, magistrati e giornalisti. Tutti, naturalmente, non toccati dalla vicenda. Il vicenda giudiziaria che travolse Bari nel 1995 vide coinvolti oltre all’imprenditore esponenti politici di primo piano (tra i quali gli ex ministri Lattanzio e Formica poi assolti) amministratori regionali e infine esponenti della criminalità organizzata barese. Cavallari da anni vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria.

Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associazione mafiosa con se stesso non può esistere. Le carte, adesso, torneranno a una diversa sezione della Corte d’Appello salentina che dovrà rideterminare la pena che Cavallari aveva patteggiato: corruzione sì, falso in bilancio anche, ma mafia davvero «no». Così ha stabilito la Suprema Corte che ha accolto la richiesta della stessa Procura generale, oltre che quella dei difensori dell’ex «Re Mida» della sanità privata pugliese. «Sono contento che sia stata ristabilita la verità storica su quello che abbiamo sempre sostenuto da molto tempo», ha commentato l’avvocato Mario Malcangi, difensore di Cavallari, insieme con il principe del foro, il professor Franco Coppi. Si chiude così, dopo qua-si vent’anni, non solo la vicenda privata di Cavallari, ma anche quella della imponente operazione denominata «Speranza». Gli inquirenti teorizzarono la sussistenza, nel territorio barese, di u n’associazione a delinquere di stampo mafioso nata da un ben preciso accordo criminoso intervenuto tra Cavallari, maggior azionista e presidente del consiglio d’amministrazione della società «Case di Cura Riunite» s.r.l. e titolare effettivo della Geoservice s.r.l. - e i principali capi clan baresi. Nel mirino degli inquirenti «il controllo di attività economiche e servizi di pubblico interesse » anche «attraverso la manipolazione del consenso elettorale a beneficio di candidati compiacenti». L’operazione rappresentò un «cataclisma» per il sistema politico e imprenditoriale locale. Il primo vero scandalo nella gestione della sanità privata. Pesanti accuse che non hanno retto al vaglio della magistratura giudicante. Personaggi del calibro di Antonio, Sabino, Mario e Giuseppe Capriati, tra gli altri sono stati strada facendo assolti in via definitiva. Era il 1995 quando il gup del Tribunale di Bari aveva ratificato il patteggiamento a una pena (sospesa) di 22 mesi anche per l’accusa di associazione mafiosa per Cavallari. Un patteggiamento criticato dalla stessa sentenza con cui il Tribunale di Bari assolse alcuni suoi computati. Il re della sanità privata, che oggi vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria, non poteva essere considerato credibile quando ammise «di avere posto in essere molteplici e gravi condotte di corruzione di pubblici amministratori e di reati finanziari, e una serie di assunzioni di malavitosi» e non attendibile quando «pur riconoscendo di avere intrattenuto rapporti di connivenza con alcuni boss della malavita» negò «di avere stipulato un rapporto con i clan » . Nel corso del tempo tutti gli altri imputati erano stati assolti in via definitiva dalla stessa accusa. Di qui la richiesta di revoca della sentenza con proscioglimento «dal menzionato delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso, perché il fatto non sussiste, con conseguente rideterminazione della pena inflitta ». La Corte d’Appello di Lecce aveva detto «no». Di diverso avviso la Cassazione. Dalle sentenze di merito è persino emerso come «Cicci» «sia stato sottoposto ad atti di intimidazione da parte dei clan». A seguito del patteggiamento, i giudici confiscarono numerosi beni tra i quali ville, appartamenti e terreni. Tra questi, anche la villa di corso De Gasperi a Bari e l’appartamento in via Putignani, nel centro del capoluogo, ora in uso alle forze dell’ordine. Un sequestro disposto ai sensi del codice antimafia. Adesso il rischio è che potrebbero ritornare nelle mani di Cavallari. Con tante scuse.

«Anzitutto, devo precisare che sono stato difeso da prof. Franco Coppi, ma anche dall’avv. Mario Malcangi di Bari, che mi ha seguito in questa vicenda. Qual è la mia prima reazione? Sono molto, molto felice, perché è tornata serenità e pace in famiglia e, finalmente, penso che potrò ritornare con un bel rapporto con mia moglie, perché purtroppo all’epoca non resse a tutto quel tam tam che ci fu tra carabinieri, guardia di finanza, ecc. Tanto che arrivammo al divorzio. Adesso, penso che lei si sia definitivamente convinta che in casa non ha mai avuto un Totò Riina o un Bernardo Provenzano. Quindi sono molto felice. Anche se in questa grande gioia che provo in questo momento c’è grande dolore per come sono ridotte le mie strutture, che erano un gioiello all’epoca. Non lo dico io, lo dicevano tutti. E soprattutto per le migliaia di dipendenti che hanno perso il posto di lavoro. Io non sono d’accordo con chi dice, con chi ha sempre detto che mi hanno tolto i magistrati, Maritati, Scelsi, 20 anni di vita. Io ho guadagnato 20 anni di vita in questo periodo. Perché se fossi rimasto a Bari, con quelle ansie, preoccupazioni, anni di dolore che ho provato, sarei crepato. Ecco perché io non sono crepato a Bari, ma finalmente, posso dire oggi, che loro mi hanno regalato 20 anni di vita. Quindi, sembrerà un paradosso. Sono grato a quei provvedimenti, che all’epoca presero per la mia libertà personale, che mi consentì, dopo tanti anni, di fare degli accertamenti diagnostici. Da qui venne fuori che ero un cardiopatico. Sto aspettando la mia famiglia, che mi raggiungerà in questi giorni, proprio per chiarire alcune situazioni tra di noi, di famiglia, e, quindi, penso di ritornare al momento debito. Perché adesso voglio completare tutto l’iter giudiziario. Certamente ritornare a Bari. Vedere quello strazio. Quelle condizioni in cui versano le mie strutture. Io penso che eviterò di passare da via Fanelli. Eviterò di passare da via Salandra, da via Ciro Petroni. Ecco quindi cercherò di non frequentare quei posti, per non rivivere certi momenti che ho vissuto. Molto belli. Ho maturato in me una grande decisione, che mi fa piacere, in primis, riportare attraverso Telenorba. Io creerò una fondazione per assistere coloro i quali sono senza difesa, perché non hanno la possibilità di permettersi un avvocato, ed anche un assistenza a parenti di persone che sono incarcerate».

Cavallari fu arrestato nel ’94 e patteggiò la pena di 22 mesi per associazione mafiosa ed alcuni episodi di corruzione. Dalle sue dichiarazioni racconta, rimasero coinvolti una sessantina di politici e tra loro l’ex assessore regionale Alberto Tedesco, che però, non venne indagato. Cavallari affermò di aver dato 20 milioni di lire anche a Massimo D’Alema, ma i pm baresi chiesero ed ottennero l’archiviazione dell’accusa per finanziamento illecito ai partiti. Ha riferito anche che alla fine degli anni 80 un amico gli segnalò per un’assunzione Patrizia D’Addario, ma non se ne fece nulla.

Sanità, Politia ed Affari. E’ già successo a Bari nei primi anni 90, dice Antonio Procacci in un suo servizio su Telenorba. Fu un vero terremoto. Un’ottantina le persone indagate e una trentina gli arrestati. Alla fine ha pagato solo uno: Francesco Cavallari. Il re delle cliniche private. Fu arrestato nel maggio ’94 e scarcerato a novembre, quando cominciò a svuotare il sacco. Fece i nomi, e che nomi: da i ministri Lattanzio e Formica al sottosegretario Lenoci; dall’ex presidente della giunta regionale Michele Bellomo all’ex senatore Alberto Tedesco, a cui, secondo il racconto fatto all’allora pm Alberto Maritati, oggi compagno di partito dell’ex assessore, diede un contributo di 40 milioni di lire per la campagna elettorale di Lenoci, pochi mesi prima del sui arresto. E poi parlò di magistrati, funzionari pubblici, direttori generali di ASL e persino di giornalisti. Partito come informatore scientifico, Cavallari ha costruito un impero. Il più grande della sanità italiana ed europea. Con 10 cliniche private e 4000 dipendenti: pagando mazzette finanziano campagne elettorali ed assumendo centinaia di dipendenti sponsorizzati dai politici e dalla malavita locale. Tutto annotato in agende e sul computer in un file denominato, non a caso, mala.doc. “Sono l’unico imprenditore che non si è potuto sottrarre ai ricatti dei politici, malavita organizzata, magistrati e forze dell’ordine” ha sempre sostenuto e dichiarato Cicci Cavallari, che era solito favorire l’acquisto di materiale sanitario da fornitori che li venivano segnalati dai politici. Nulla di nuovo nella successiva inchiesta “Tarantini”. All’epoca non c’era la droga e neanche le escort, anche se una giovanissima Patrizia D’Addario fu presentata pure a Cavallari, ma con l’intento di fargli eseguire giochi di prestigio in alcune serate nelle sue cliniche. C’erano già, invece, i viaggi regalati, però, non ai medici, bensì ad alcuni giudici e funzionari regionali. La grande differenza di ieri, rispetto ad oggi, la fanno, però, soprattutto i soldi. Davvero tanti: 4,5 miliardi di vecchie lire, secondo le ultime stime che l'ex re delle CCR avrebbe pagato a tutti: dal PCI, come ammesso da Massimo D’Alema, fino all’MSI. Chi più, chi meno, un po’ tutti confermarono di aver intascato mazzette da Cavallari, anche se alla fine, gogna mediatica a parte, nessuno, o quasi, ha pagato. Anzi, è la Regione Puglia che deve pagare a Cavallari 63 milioni di euro per TAC, risonanze magnetiche e ricoveri in esubero non saldati ai tempi dello scandalo. Fu proprio Tedesco, all’epoca assessore alla Sanità, a stoppare i pagamento alle CCR, come ha ricordato recentemente il re Mida della Sanità. Per non parlare delle parcelle degli avvocati, che hanno difeso molti di quei politici e rigorosamente a carico dello Stato. Alcuni di essi si sono ritirati dalla scena, altri invece, sono ancora sugli scudi.

Guardia di finanza in azione: finiti in prigione anche l'ex assessore regionale Marroccoli e un consigliere comunale di Bari. TITOLO: Puglia, manette alla sanità privata. Tra le accuse più pesanti: truffa aggravata, falso e corruzione. Ricoveri mai effettuati, pagati dall'Usl 600 mila lire al giorno. Coinvolti anche i vertici di "Apulia Salus" e "Santa Maria". Ventisei arresti, il carcere attende Francesco Cavallari padrone di dieci cliniche, scriveva Piraino Giancarlo su “Il Corriere della Sera” il 4 maggio 1994. Per qualche ora s'è temuto che, avvertito in tempo, fosse riuscito a riparare all'estero. Poi, a metà pomeriggio, è giunta notizia che stava tornando da Milano per costituirsi ai giudici baresi. Francesco Cavallari, "re" della sanità privata in Puglia, era stato infatti raggiunto da due ordinanze di custodia cautelare. Al mattino era già finito in cella Paolo Biallo, suo cognato e braccio destro nella gestione delle Case di cura riunite (10 cliniche, 4 mila dipendenti, 250 miliardi di fatturato all'anno), il direttore sanitario Nicola Simonetti (piantonato in ospedale), e altri quattro tra medici e dirigenti del gruppo. Sempre in mattinata erano stati arrestati l'ex assessore alla Sanità della Regione Puglia, Tommaso Marroccoli, e un consigliere comunale di Bari, Giuseppe Pellecchia. Il blitz della Guardia di finanza aveva raggiunto anche i vertici dei due gruppi concorrenti delle Case riunite: i fratelli Franco e Giuseppe Cacurri, proprietari dell'Apulia Salus (tre cliniche, più altre tre partecipate) e Vincenzo Traina, della Santa Maria. Coinvolti anche tre funzionari della Regione, Maria Grazia De Luca, Nicola Armenise e Lorenzo D'Armento. In tutto 34 ordinanze di custodia cautelare, che hanno interessato 27 persone (qualcuno ne ha ricevuta più d'una). Truffa aggravata, falso, reati contro la pubblica amministrazione e corruzione, i reati contestati dai giudici Giovanni Colangelo ed Annamaria Tosto. I provvedimenti sono stati firmati dal gip Maria Iacovone. In ballo i ricoveri in regime di convenzione e soprattutto quelli d'urgenza. Negli uffici dei funzionari regionali sono stati sequestrati documenti riguardanti il periodo 1990-93. Alle sole Case di cura riunite sarebbero stati versati 85 miliardi per ricoveri mai effettuati. Un soggiorno di degenza, alla Mater Dei o altra clinica del gruppo, costava sino a 600 mila lire. L'indagine sarebbe partita da una denuncia riguardante le risonanze magnetiche e le Tac. Differenziate le accuse: quella di corruzione riguarderebbe solo i vertici delle Case di cura riunite, l'ex assessore Marroccoli e i funzionari regionali. Marroccoli, i funzionari regionali e i vertici delle Case di cura sono finiti in carcere; per tutti gli altri, arresti domiciliari. Per Bari è un autentico terremoto. I personaggi sono tutti notissimi. Cavallari era nel mirino della magistratura da tempo. Il sostituto procuratore Nicola Magrone (ora deputato progressista) aveva accusato lui e il cognato Paolo Biallo d'assunzioni fatte negli ambienti della malavita. L'indagine gli era poi stata tolta, alla vigilia, pare, del coinvolgimento di alcuni personaggi politici. Magrone era stato anche deferito al Csm e poi completamente prosciolto. Di fronte al plenum del Csm era invece finito nel gennaio scorso il procuratore generale di Bari, Michele De Marinis. A lui erano stati contestati anche l'atteggiamento tenuto in quella vicenda e la sua supposta amicizia con Cavallari, ma nei suoi confronti non era poi stato assunto alcun provvedimento. La sanità privata pugliese è sempre stata al centro di polemiche politiche. Le opposizioni, di destra e di sinistra, alla giunta regionale hanno sempre contestato l'entità dei finanziamenti. Cifre imponenti: nel solo bilancio 1993 94, 310 miliardi, più altri 100 per la sola assistenza nelle malattie da tumore. Dei 310 miliardi i due terzi sarebbero finiti ai tre gruppi ora sotto indagine; i 100 miliardi per l'oncologia quasi tutti alla sola "Mater Dei", clinica di Cavallari in regime di convenzione con la Regione sino al 31 dicembre di quest' anno. Dopo quella data il governo della Puglia dovrebbe decidere se rinnovare la convenzione o acquistare la clinica. Ma in questo caso Cavallari aveva già pronta la soluzione di ricambio: proprio in questi giorni stava per varare l'Istituto oncologico del Mediterraneo, con i soldi dell'Isveimer e della Cassa di risparmio di Puglia; benchè il suo gruppo abbia con la Cassa barese un'esposizione di 65, qualcuno dice 100 miliardi.

Il giudice morto che turba un pm e un senatore Pd, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”,  Lun, 26/09/2011 con  Massimo Malpica. Le inchieste sulla sanità pugliese, le accuse tra magistrati, gli esposti al Csm, le denunce in Procura. I veleni tra le toghe baresi di questi giorni, che vedono l'ex pm Scelsi contrapposto al capo dell'ufficio giudiziario del capoluogo, Laudati, ricalcano una storia oscura di 15 anni fa. Nel 1994 la Procura di Bari indaga su un re della sanità pugliese, Francesco Cavallari, presidente delle Case di cura riunite. Al lavoro ci sono quattro pm. Alberto Maritati (l'attuale senatore Pd che a detta di Scelsi, nel 2009, gli chiese notizie sull'affaire Tarantini per conto del dalemiano De Santis) e Corrado Lembo della Direzione nazionale antimafia, Giuseppe Chieco e Pino Scelsi (lo stesso che oggi accusa Laudati) della Dda locale. Procuratore capo facente funzioni è Angelo Bassi.

Bassi non è una toga rossa. Non ha colori. A dicembre '94 difende Antonio Di Pietro: «Si sono disfatti di un magistrato scomodo facendo disperdere intorno a lui il senso della giustizia», detta alle agenzie. Quando però il mese prima Silvio Berlusconi era stato raggiunto da un avviso di garanzia alla conferenza Onu sulle mafie, Bassi aveva apertamente parlato di «scempio». Non sui giornali, ma in ufficio sì. Tanto era bastato, racconta oggi la moglie, Luigina, per inquadrarlo come «non allineato». Di certo, da quel momento la sua vita prende una piega drammatica. Bassi, come tanti a Bari, conosce Cavallari, che è sotto intercettazione. Viene registrato un colloquio tra l'aggiunto e l'indagato. I due si danno del tu, si chiamano per nome. E poi, un giorno, a dicembre del 1994, Bassi va a casa di Cavallari per interrogarlo. «Essere andato a interrogare Cavallari, che intendeva collaborare, a casa sua (...) bastò a far decretare la mia fine», racconta lui stesso, a luglio del 1997, a Carlo Vulpio del Corriere della Sera. I «colleghi» che indagano su Cavallari lo denunciano alla procura di Potenza (allora competente per i magistrati baresi, ora è Lecce, come Laudati sa bene) e al Csm. Bassi si ritrova indagato: abuso di potere e omissione di atti d'ufficio le ipotesi di reato. Il Csm a settembre del 1995 lo trasferisce a Napoli: incompatibilità ambientale. E l'otto novembre '96 viene rinviato a giudizio dalla procura di Potenza. Proprio due dei suoi «accusatori», Scelsi e Chieco, in udienza confermano che Bassi «li raggiunse nel loro ufficio per informarli dell'incontro con Cavallari», nel corso del quale Bassi aveva raccolto una confidenza, utile per un'indagine che vedeva Maritati parte lesa a Potenza, subito trasmessa dagli stessi pm alla procura lucana. Non sembra un comportamento da favoreggiatore. Infatti il 14 marzo '97 Bassi viene assolto perché il fatto non sussiste. La motivazione della sentenza è devastante per gli accusatori dell'ex procuratore, e stigmatizza in particolare Maritati. Che, pur in conflitto di interessi, come inquirente e come parte lesa di quelle dichiarazioni, secondo il giudice «non ha avvertito la necessità di astenersi dal prendere parte a qualsiasi iniziativa del suo ufficio in relazione ad un fatto che lo riguardava personalmente, ed abbia anzi redatto unitamente ai colleghi Chieco e Scelsi la relazione inviata in data 23-12-94 al procuratore della Repubblica di Potenza». Bassi, assolto in tribunale, il giorno dopo la sentenza viene condannato in ospedale, dove gli viene diagnosticata una malattia in fase terminale. Morirà un anno dopo, non prima di aver denunciato i suoi accusatori Maritati, Scelsi, Chieco e Lembo che si ritrovarono sotto indagine a Potenza in un fascicolo. Archiviato. Come archiviata finì la denuncia degli stessi pm da parte di Cavallari, che nella maxi-inchiesta barese che aveva coinvolto anche big della politica come Massimo D'Alema (percettore per sua stessa ammissione di un finanziamento da Cavallari, ma il reato era prescritto) era stato, alla fine, l'unico condannato, patteggiando 22 mesi. Decisivo per chiudere l'indagine potentina in cui Cavallari denunciava «gravi violazioni» dei pm, fu il nastro di un colloquio in procura a Bari di Maritati e Chieco con lo stesso Cavallari, in cui l'imprenditore rivelava ai suoi interlocutori una sorta di «complotto» della politica contro di loro. Deja-vu? Fatto sta che Cavallari, di fatto, li scagiona mentre, a Potenza, li accusa. Tutto normale? Insomma. Maritati, come rimarcava in un'interrogazione del '97 l'allora senatore di An Ettore Bucciero, era «al contempo indagato (...) e magistrato inquirente che raccoglie e registra le dichiarazioni confidenziali del suo accusatore». Un delirio. Ma non è la sola stranezza. Quel verbale viene chiuso con Maritati che fa presente come alle «11.50 del giorno 12 febbraio 1996, Cavallari è uscito dalla nostra stanza», a Bari. Eppure lo stesso Cavallari quel giorno, secondo gli atti del procedimento della procura lucana, venne convocato e interrogato dai pm Nicola Balice ed Erminio Rinaldi. Alle 12: dieci minuti dopo, a 140 chilometri di distanza. E i due magistrati, ascoltando il nastro barese dell'ubiquo imprenditore, invece di stupirsi della strana coincidenza di date, chiesero (e ottennero) l'archiviazione per il futuro senatore Maritati e per i suoi colleghi. Chi tocca certi fili muore, come Bassi.

“Cavallari? Il male lo ha subito”. "In punta di piedi mi permetto di rivolgermi alla Sua persona in qualità di amico di Francesco Cavallari, dopo aver appreso dagli organi di informazione della consegna, anche alla Sua presenza, della villa di Rosa Marina in favore di una nobile causa sociale. Annoveri anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato". "In punta di piedi mi permetto di rivolgermi alla Sua persona in qualità di amico di Francesco Cavallari, dopo aver appreso dagli organi di informazione della consegna, anche alla Sua presenza, della villa di Rosa Marina in favore di una nobile causa sociale. Annoveri anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato". Una lettera aperta, (pubblicata da Nicola Quaranta su “Brindisi Report”) una difesa a tutto campo dell'imprenditore barese Francesco Cavallari. Antonio Perruggini, ex responsabile delle Pubbliche relazioni del Gruppo Case di Cura Riunite di Bari, all'indomani dell'inaugurazione, presso l'ex villa del Re delle Ccr di Bari, del Centro per l'autonomia, ripercorre le tappe della vicenda giudiziaria di Cicci Cavallari: fondatore delle "Case di Cura Riunite" di Bari, coinvolto negli anni Novanta nella tangentopoli barese. E lo fa rivolgendosi in prima persona al Vescovo di Brindisi e Ostuni, monsignor Rocco Talucci, che nel corso della cerimonia di benedizione ha sottolineato il senso e il valore dell'evento che ha sancito la consegna ai volontari del Centro per la riabilitazione dei disabili del patrimonio immobiliare a suo tempo confiscato: "Come nella Resurrezione, siamo a celebrare il passaggio dal male al bene". Queste le parole del vescovo. Ma chi, al fianco di Cavallari, ha lavorato per anni, vivendo la stagione fortunata delle Case di cura Riunite (all'epoca azienda leader in Europa nella Sanità Privata, con 250 miliardi di fatturato, undici presidi e oltre 4000 dipendenti), non ci sta: "Il Procuratore della Repubblica di Bari Angelo Bassi, il magistrato integerrimo che si permise di trattare Francesco Cavallari con umanità pur non avendo mai avuto alcun rapporto con lo stesso imprenditore imputato per mafia, mentre era in preda a atroci sofferenze, mi disse poco prima di morire che il caso Cavallari sarebbe terminato con un botto finale. E così è stato, anche se quello più fragoroso deve ancora arrivare. Non so se Cavallari assisterà a quell'esplosione, ma di sicuro il suo nome, la sua storia e quella dei suoi carnefici, ci saranno. In prima fila, ognuno con le proprie responsabilità e meriti. Proprio come diceva l'indimenticabile magistrato". La ragione dello sfogo: "Ancora oggi - scrive Perrugini - le cronache regalano pezzi di ingiustizia, così eclatante da far rabbrividire. Mi chiedo come si può non sapere che quell'uomo è innocente e ha subito ingiustamente un martirio durato 17 anni. Invece ancora oggi in pompa magna autorevolissimi esponenti della politica, dello Stato e della Chiesa partecipano all'affidamento di un bene di Cavallari, sequestrato perché lo stesso era accusato (mai condannato !) di ipotesi mafiose risultate penosamente infondate. Anzi infondatissime. E così l'azione devastante verso quell'uomo e l'azienda che aveva realizzato, ovvero di quelle cliniche che furono un vanto per il territorio pugliese e un esempio di eccellenza clinica per il meridione di Italia, pare non terminare mai, nonostante ben tre gradi di giudizio che hanno urlato la stessa parola finale: innocente. Dopo 17 anni". E la difesa continua: "Era il 17 dicembre del 2009 quando per l'ennesima volta un collegio giudicante di appello aveva sconfessato sonoramente tutta l'opera costata miliardi, contro Cavallari. Ma non bastò. Chi volle il suo sacrificio, quello della sua famiglia e dei suoi dipendenti, non si dette per vinto e in un ultimo disperato tentativo, tentò la strada della Cassazione, che con decisione ha consacrato quanto per anni e in tutte le lingue aveva riferito e avevano motivato i suoi legali. Non bastarono le testimonianze, i riscontri inesistenti, le rogatorie internazionali in mezzo mondo finite con un nulla di fatto, e la leale collaborazione dell'imprenditore a far ragionare i suoi accusatori". "Doveva sparire. E così avvenne. Ora è esiliato a Santo Domingo. Oggi è gravissimo e in certi versi sconvolgente, che la "signora con la spada" pronta a troncare ogni ingiustizia, non ottenga il giusto rispetto. E così mentre si scrive la parola fine "all'assalto alla diligenza", ora deve essere il tempo della presa d'atto di un fallimento e del riconoscimento morale e materiale di quanto è avvenuto in danno di un innocente. Di mafia si intende. Perché Francesco Cavallari è stato accusato di altri reati, che non potevano procurare l'attacco verso tutto il suo essere e consentire di entrare anche nei "buchi delle sue serrature" e incenerire anche la polvere che calpestava. Quindi l'affondo, nelle parole di Peruggini: "L'affare ciclopico c.c.r". ha sorpassato da tempo i limiti della decenza politico-economico - istituzionale e nonostante le urla di giustizia consacrate in coerenti sentenze penali e civili, non ha fatto muovere nulla e nulla è stato fatto, come se in una sorta di limbo imbalsamato e maledetto da un diabolico sortilegio, "la bestia" doveva restare vittima, in attesa della tanto adorata "bella". Quello che è stato più volte e chiaramente scritto "in nome del popolo italiano", evidentemente ha infastidito i pochi reduci della "lotta verso Cavallari" e così mentre viene consacrato che quanto ha subito è stato davvero troppo, attraverso le ipotesi di mafia e truffa naufragate insieme alle loro congetture, l'unica vittima di questo affare colossale, resta Cicci Cavallari che ha creato lavoro e sviluppo economico, restando completamente estraneo alle insussistenti accuse del naufragio annunciato". Ed in fine le conclusioni: parole rivolte direttamente a monsignor Talucci. "Mi aspetto che almeno un Vescovo, con il suo noto senso di Carità avverta la opportunità di condividere una atroce sofferenza, agevolmente da conoscere con un minimo cenno, al fine di poter annoverare anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato. Penso che qualsiasi uomo che sente il dovere della giustizia terrena e divina, debba avere la gioia di conoscere una storia, a maggior ragione quando questa è costellata da grandi sofferenze trasformate spesso in altre versioni lontane dalle sentenze e dai fatti per il tramite di articoli e menzogne riportate in centinaia di "cronache", e in libri pubblicati e venduti sulla pelle di Cavallari e di una azienda passata di mano senza troppe esitazioni". "La storia vera, che in tutta solitudine Cavallari, ormai stremato, ha invocato per anni e che non è stata mai ascoltata ha sostenuto invece varie fortune politiche, una drammatica disoccupazione e l'affermazione di un nuovo modello di gestione della sanità che viviamo ogni giorno. Basta ancora oggi alzare il telefono e chiedere la disponibilità di una Risonanza Magnetica o di una Tac per rendersene conto". La chiosa, in calce alla lettera indirizzata al vescovo: "Ringrazio il Signore - scrive Perruggini - per avermi donato la gioia di essermi rivolto alla Sua pregevole persona e di aver vissuto nel mio cuore un glorioso momento di giustizia, pregandoLa di perdonare il mio sfogo e di rivolgere la Sua preghiera e il Suo perdono anche verso chi a Cavallari volle così male". La storia giudiziaria di Cavallari, in sintesi: negli anni Novanta l'imprenditore barese finì in manette nell'ambito di un'operazione che portò la magistratura a scoperchiare un presunto intreccio affaristico, politico, criminale. Una vicenda giudiziaria che scosse nel capoluogo i palazzi del potere. Cavallari a suo tempo patteggiò la pena, quella di associazione per delinquere di stampo mafioso, e uscì dal carcere. Riacquistata la libertà, perse però i suoi averi. Quel patteggiamento, infatti, segnò la fine del suo impero economico e portò alla confisca di gran parte dei beni di famiglia, compresa la lussuosa villa nel residence più esclusivo del litorale ostunese. Nei mesi scorsi la Cassazione ha chiuso anche l'ultimo capitolo di quella vicenda giudiziaria, dichiarando inammissibile il ricorso che era stato presentato dalla Procura generale avverso la sentenza con la quale nel 2009 i giudici d'appello mandarono assolti, perché il fatto non sussiste, anche le dodici persone ritenute vicine ai clan baresi a cui, sempre secondo la Pubblica accusa, Cavallari aveva concesso una serie di aiuti, a partire dalle assunzioni presso le sue cliniche. Nel corso del tempo furono assolti anche gli altri personaggi eccellenti coinvolti in quella inchiesta: ex assessori e funzionari regionali, ex ministri, giornalisti. Cavallari, l'unico all'epoca a scegliere la strada del patteggiamento, risulta così anche l'unico colpevole.

Maritati & C.: “liberammo Bari”. Adesso chi ci libererà da loro? Si chiede Nicola Picenna su “Toghe Lucane”. L'inchiesta “Speranza” (31 imputati) e l'inchiesta “Toghe Lucane” (34 indagati) hanno molto in comune, oltre al numero degli indagati che quasi quasi coincide. Entrambe ipotizzano una vasta rete di corruttela fra imprenditori, politici, magistrati e delinquenza comune e non. Entrambe sembrano destinate a finire in un nulla di fatto. Tutti assolti in appello (tranne Francesco Cavallari che aveva scelto il patteggiamento) quelli di “Speranza”. Tutti in attesa che si pronunci il Gip sulla richiesta di archiviazione tombale, per “Toghe Lucane”. Uno dei PM che aveva condotto le indagini nell'inchiesta “Speranza”, Alberto Maritati, difende il suo operato: “può anche succedere che l'accusa venga rovesciata con una sentenza di assoluzione, ma non per questo si deve pensare che il pm sia stato un cieco persecutore”. Anche il Procuratore Capo, Giuseppe Chieco, difende l'operato della Procura di cui ha la responsabilità, criticando quello del dr Luigi de Magistris dopo che gli indagati da quest'ultimo – nel “filone” Marinagri, troncone rilevante del “Toghe Lucane, sono stati assolti. Nel processo “Speranza”, “non si deve pensare che il pm sia un cieco persecutore. I provvedimenti cautelari da noi richiesti sono passati al vaglio di tre giudici: il gip, il Tribunale del Riesame e la Cassazione”, così parla Alberto Maritati. Nel procedimento “Toghe Lucane-Marinagri” il provvedimento (cautelare) del sequestro del cantiere è stato confermato dal Gip, dal Riesame, dalla Cassazione e, per altre due volte, nuovamente dal Gip. Ma De Magistris viene dipinto come un “cattivo magistrato”. Nel procedimento penale “Toghe Lucane” il pensiero infamante è obbligatorio. “Di regola il pm che svolge le indagini è lo stesso che sostiene l'accusa anche nel dibattimento e, a certe condizioni, anche in appello. I pm non hanno seguito il procedimento fino alla conclusione... e il processo è stato spezzettato in tanti tronconi: questo secondo me ne ha decretato la fine”. Così parla Maritati del processo “Speranza” e non si sbaglia. Per “Toghe Lucane” è lo stesso. Il primo pm (Luigi de Magistris) viene sottratto all'inchiesta; gli subentra Vincenzo Capomolla che spezzetta “Toghe Lucane” in tanti tronconi. Nel momento topico del processo anche Capomolla evapora. Arriva Cianfrini che in pochi minuti valuta quintali di atti giudiziari e chiede l'assoluzione. Gabriella Reillo, Gup dalle indiscusse capacità valutative, assolve. “Quell'inchiesta ha liberato Bari da una cappa... Cavallari controllava la città. Così come ha detto egli stesso a noi e come ha detto a voi (Corriere del Mezzogiorno, ndr) nell'intervista conferma di aver distribuito 4 miliardi di lire ai politici e non solo”; sempre Maritati che parla apertis verbis. Anche per “Toghe Lucane” emergeva la “cappa” o, come scrisse De Magistris, “l'associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, alla truffa aggravata ai danni dello Stato ed al disastro doloso”. Che Bari si sia liberata da quella cappa, alla luce delle recenti inchieste sulla sanità pugliese, appare affatto certo. Come accade in Basilicata, dove gli indagati da De Magistris (in buona parte) occupano ancora i posti di comando e controllo. Se non che, a guardare tutto, si scopre che Giuseppe Chieco, oggi fra gli indagati in “Toghe Lucane” è stato fra i PM dell'inchiesta “Speranza” insieme con Maritati. Che Chieco e Maritati furono indagati per abuso d'ufficio in una inchiesta tenuta dalla Procura di Potenza da cui vennero prosciolti grazie alle improvvide dichiarazioni rese loro (che strano) proprio da Francesco Cavallari. Era il 12 febbraio 1996, in Procura a Bari, presenti Chieco, Maritati e Cavallari. Ma Cavallari nega e si scopre che in quello stesso giorno, a quella stessa ora, Cavallari Francesco veniva interrogato a Potenza. Carte false, Chieco e Maritati vennero salvati da carte false autoprodotte. “Liberammo Bari” dice Maritati, ma chi ci libererà da loro? p.s. Qualcuno chieda ad Alberto Maritati, perché la quota parte dei 4 miliardi finita nelle tasche di Massimo D'Alema finì con la prescrizione e come mai egli decise di candidarsi proprio nel partito di Max e come fu che, eletto alle suppletive, D'Alema lo volle immediatamente sottosegretario nel I e II governo di cui era Presidente del Consiglio. Qualcuno chieda a Maritati perché non indagò Alberto Tedesco, indicato fra i percettori di una quota consistente dei “soliti” 4 miliardi; come oggi risulta indagato per analoghe operazioni poste in essere da assessore della giunta “Vendola”. Qualcuno chieda a Maritati come fa a sostenere lo sguardo dei parenti di quel magistrato coperto da accuse infamanti ma poi assolto per non aver commesso il fatto. Qualcuno gli chieda perché, ancora oggi, non sente vergogna ogni qualvolta ne richiama la memoria, tradendolo anche da morto, come di un magistrato colpevole di inqualificabili (ma inesistenti) reati.

E POI PARLIAMO DELL'ILVA.

Il tribunale fallimentare di Milano ha dichiarato lo stato di insolvenza dell'Ilva di Taranto, nell'ambito della procedura di amministrazione straordinaria. Come giudice delegato per la procedura stessa è stata nominata Caterina Macchi. Si apre quindi il capitolo finale per la tormentata azienda siderurgica, ormai destinata al fallimento.  L'azienda "presenta un indebitamento complessivo pari a 2.913.282.000 euro", scrivono i giudici nella sentenza. Secondo i giudici l'Ilva "si trova in stato di insolvenza come adeguatamente illustrato nel ricorso" del commissario straordinario presentato lo scorso 21 gennaio e "comprovato dalle allegazioni documentali, risultando - si legge nel provvedimento - che la società presenta capitale circolante negativo per circa 866 milioni di euro, una posizione finanziaria netta negativa per 1583 milioni di euro, una progressiva riduzione del patrimonio netto contabile e una redditività negativa della gestione" sempre in riferimento al 30 novembre 2014. Mancano materie prime, stop alcuni impianti - Intanto a rendere ancora più complicata una situazione non facile, è arrivato l'annuncio dell'Ilva ai sindacati metalmeccanici di fermare alcuni impianti a causa del mancato rifornimento delle materie prime provocato anche dalla protesta degli autotrasportatori. "L'azienda - dice Vincenzo Castronuovo della Fim Cisl di Taranto - ha precisato che la situazione potrebbe cambiare in caso di ripartenza degli approvvigionamenti".

“Il futuro dell’Ilva è legato a filo doppio a quello di Taranto e a quello di un intero comparto, strategico per gli interessi nazionali. Per questo qualsiasi intervento inerente lo stabilimento va ben oltre l’ambito locale, e merita di essere affrontato in maniera approfondita e valutato in tutti i suoi possibili aspetti e in tutte le sue profonde ripercussioni, al netto da contrapposizioni demagogiche e pregiudiziali, cercando di alimentare e stimolare confronto e dialogo e non uno scontro sempre più esasperato” ha affermato  Nuovo Centrodestra in Consiglio regionale, Domi Lanzilotta. “E la preoccupazione per il contesto ambientale e per la tutela dei posti di lavoro va ovviamente estesa anche al considerevole indotto: apportando quindi i dovuti correttivi al decreto che ha restituito allo Stato una necessaria centralità per evitare la svendita dell’impianto, ma al tempo stesso non chiedendo e auspicando ripensamenti e retromarce in palese contraddizione con le precedenti, dure e motivate critiche e preoccupazioni per la gestione -piena di ombre- dei privati. Il momento così critico deve indurre allora a stemperare la tensione e a una piena assunzione di responsabilità da parte delle parti chiamate in causa. Per la ricerca di un difficile equilibrio, alla luce delle numerose difficoltà e criticità emerse, ma che va trovato nelle sedi istituzionali, per non lasciare sprofondare Taranto in un nuovo incubo, dopo anni di buio e colpevole silenzio”.

Lospinuso: “Non può essere lo Stato a far fallire le imprese, si paghino subito i debiti indotto Ilva”. “Confindustria Taranto lancia un grido di allarme: il decreto per Taranto, anziché salvarla, rischia di affossare la città con una crisi occupazionale senza precedenti. Eppure, Forza Italia ha presentato emendamenti risolutori, proposti anche dal Senatore Amoruso, che rappresentano la strada maestra per garantire i crediti vantati dalle aziende dell’indotto, evitandone il fallimento”. Lo sostiene in una nota il consigliere regionale di Forza Italia, Pietro Lospinuso. “Oltre ai 3000 dipendenti delle aziende dell’indotto che rischiano il posto di lavoro – aggiunge – anche l’Ilva potrebbe mettere in cassa integrazione 5000 dipendenti. Ciò vuol dire che l’intera città di Taranto rischia il fallimento. Pensare che le aziende abbiano fornito materiali e prestazioni per l’Ilva in questi mesi, contando sull’affidabilità dello Stato che l’amministrava tramite i suoi commissari; e che oggi queste realtà economiche siano sul filo del rasoio, è veramente il colmo. Non può essere lo Stato a far fallire le imprese ed anzi, deve pagare i debiti pregressi del siderurgico: il senatore Amoruso propone una soluzione che ritengo condivisibile e concreta per la salvaguardia del sistema-impresa di Taranto. Come proposto negli emendamenti presentati, il governo potrebbe garantire i debiti al 100% presso le banche con la Cassa Depositi e Prestiti, e così gli istituti di credito presterebbero le somme necessarie. Agli imprenditori non resterebbe che pagare gli interessi alle banche per i prestiti ricevuti e per lo Stato sarebbe una manovra quasi a costo zero. In alternativa, potrebbe essere la stessa Cassa depositi a finanziare le imprese dell’indotto in forza dei crediti da riscuotere dall’Ilva. Il governo, inoltre, potrebbe prevedere, nel decreto in questione, la sospensione dei debiti delle imprese interessate verso Equitalia, come prima misura di sostegno per le realtà economiche che non vengono pagate ormai da mesi. Come pure si potrebbe immaginare un sistema di compensazione fiscale per le imprese interessate”. “Siamo aperti ad ogni altra alternativa – conclude Lospinuso – purché non sia una chiacchiera per perdere altro tempo. Taranto è una questione nazionale e adesso non c’è più tempo per scherzare”.

Come si fa a salvare l’Ilva senza la collaborazione della procura di Taranto? Si chiede Luigi Amicone  su “Tempi”. Siamo stati facili profeti quando abbiamo ricostruito le pazzesche vicende di questo tipico caso di “catastrofe italiana” indotta per via giudiziaria. Eppure una via di uscita che non sia il fallimento o la statalizzazione si può ancora trovare due numeri a fotografare lo spartiacque tra cos’era prima della “cura” a cui è stata sottoposta dalla procura di Taranto e cos’è oggi, dopo tre anni di inchieste, arresti, sequestri, blitz della polizia giudiziaria, la più grande acciaieria d’Europa: da una media di utili annua che sfiorava i 100 milioni, Ilva è passata a perdite secche di 1 miliardo l’anno. Siamo stati facili profeti quando ricostruimmo le pazzesche vicende di questo tipico caso di “catastrofe italiana” indotta per via giudiziaria. Adesso, dopo che l’azienda è stata commissariata (e naturalmente indagato anche il commissario governativo Enrico Bondi, sostituito nel giugno scorso con Piero Gnudi dal governo Renzi) la fotografia è la seguente: permanendo il sequestro giudiziario su due terzi dello stabilimento, le banche hanno staccato un assegno di 125 milioni come seconda rata di un prestito che servirà a pagare stipendi di dicembre e tredicesime agli 11 mila dipendenti. Dopo di che, buio completo. Non si sa come verranno pagati gli stipendi a partire dal prossimo gennaio. E soprattutto non si sa chi salderà i circa 400 milioni di debiti scaduti con i fornitori. Non bastasse, quale investitore straniero può essere così matto da prendersi sul gobbo un’azienda condannata a intervenire con bonifiche ambientali per 1,8 miliardi di euro (pena il mancato dissequestro degli impianti) e sul cui capo pendono richieste di risarcimento danni per 35 miliardi? Essendo un caso tragico di zelo giudiziario, il genio della giustizia italiana si è inventato di tutto. Perfino il prelievo forzoso (e l’uso per ricapitalizzare l’acciaieria commissariata dallo Stato) degli 1,2 miliardi sequestrati ai Riva (tutt’ora, almeno per il diritto nazionale e internazionale, proprietari al 90 per cento delle acciaierie) nell’ambito di un’inchiesta milanese che li accusa di truffa ai danni dello Stato. Le banche e gli otto trust a cui i Riva hanno affidato il loro “tesoretto” (oltre che un ricorso pendente in Cassazione), hanno fatto sapere che, mancando una sentenza definitiva sulla partita giudiziaria (che nulla ha a che vedere con il caso Ilva) non se ne parla nemmeno di utilizzare quei soldi. Di qui l’impasse che lascia presagire il peggio. Ad oggi sono solo chiacchiere le notizie che circolano di aziende italiane ed estere che sarebbero disposte a entrare nell’“affare” Ilva. Corre ad esempio la leggenda secondo cui il più grande gruppo europeo dell’acciaio (gli anglo-indiani di Arcelor-Mittal, alleati con Marcegaglia) avrebbe presentato un’offerta. E si racconta che anche il lombardo Arvedi sarebbe disposto a entrare nella cordata. In realtà, vere e proprie offerte per l’Ilva non ce ne sono. Per questo si è dato inizialmente spago alla voce di un intervento dello Stato che consentisse di sfruttare anche per le acciaierie tarantine la legge Marzano. Uno schema che in pratica prevederebbe il fallimento pilotato dell’Ilva e la sua cessione. Ma è difficile immaginare un percorso per cui, prima si fa fallire un’azienda per via giudiziaria. Poi la si sottrae con un commissario governativo (esproprio) ai suoi legittimi proprietari. Infine il governo la rivende al migliore offerente. Ora, sebbene alla Fiom non dispiaccia questa via (tant’è che a Repubblica Landini dice «no, assolutamente no» a un piano di salvataggio dell’Ilva che coinvolga anche gli attuali proprietari), Renzi ha capito in fretta che non può essere questa la strada di un paese che sta in Europa e che vorrebbe ricominciare ad attrarre gli investitori stranieri piuttosto che gli avvoltoi. Dunque? «Dunque stiamo a vedere», dicono a Federacciai. «Renzi è intelligente. Capisce bene che l’Ilva non può fallire e non può mettere per strada 11 mila operai, più un centinaio di imprese che lavorano nell’indotto. Se lo Stato fa la sua parte e i Riva, come hanno fatto sapere, faranno la loro, una via d’uscita si trova». E magari una via d’uscita modello Alitalia. Con un bad company che si accolla le passività e la giungla di pendenze giudiziarie. E una new company che riparte grazie a un mix di ricapitalizzazione privata (banche, Riva, Arvedi, Arcelor-Mittal-Marcegaglia) e intervento statale (Cassa depositi e prestiti, attraverso il Fondo strategico). Certo, la condizione perché si possa ipotizzare una via d’uscita al disastro, è che la procura di Taranto molli la presa sui sequestri e consenta all’azienda di tornare sul mercato producendo e vendendo acciaio e non avvisi di garanzia. A questo proposito, conversando in pubblico con il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, si era da parte nostra avanzata la modesta proposta di dare al Pil italiano la possibilità di schizzare all’in su di un paio di punti grazie alla messa in mora (ad esempio con un anno sabbatico) di quei pubblici ministeri che, come ci ha detto l’ex capo procuratore di Napoli Lepore, fanno danni perché «si credono dei padreterni» . Quando funzionava a pieno regime l’Ilva valeva il 75 per cento del Pil tarantino e l’1 di quello italiano. Se invece di continuare a tenere sotto sequestro due terzi dello stabilimento la procura di Taranto si mostrasse meno intransigente, forse una via d’uscita per l’Ilva si troverebbe.

Il romanzone del caso Ilva, una catastrofe italiana. Ecco come abbiamo distrutto la più grande acciaieria d’Europa, scrive Luigi Amicone su "Tempi". Stanziamenti, tre leggi ad hoc, l’ingaggio di due governi, della Suprema Corte e della Corte Costituzionale. Niente da fare. L’Ilva chiude e riapre l’Iri. I magistrati sono scatenati, Enrico Letta è imbelle. Nei prossimi giorni il parlamento varerà una serie di provvedimenti per rilanciare la commissariata Ilva. La più grande acciaieria d’Europa. Almeno fino a due anni fa. Dopo di che, nel biennio di massimo protagonismo della Procura di Taranto, tra il 26 luglio 2012 (data del primo sequestro degli impianti) e il 20 dicembre 2013 (pronuncia della Cassazione contro il sequestro del patrimonio della famiglia Riva, maggiore azionista dell’azienda), l’Ilva ha perso un terzo della sua produzione di acciaio, ha dimezzato i ricavi e nel 2014 attuerà un massiccio piano di messa a “contratti di solidarietà” di 3.579 lavoratori. 26 luglio 2012. 20 dicembre 2013. Segnatevi queste due date. Corrispondono all’arco temporale durante il quale due magistrati, il procuratore capo Franco Sebastio e il giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, impegnati a perseguire per “disastro ambientale” la proprietà e gli amministratori dell’Ilva, hanno di fatto determinato la politica ambientale e industriale di un pezzo importante del sistema Italia (prerogative che, per legge, spetterebbero al governo e alle amministrazioni pubbliche). Non solo. Questa coppia di magistrati è stata sufficiente a polverizzare ogni record in materia di conflitto tra funzione giudiziaria e gli altri poteri dello Stato. Anticipato in rapide sequenze da trailer, il film è il seguente. Dopo aver ordinato le due prime e pesantissime raffiche di arresti e di sequestri all’Ilva (26 luglio e 26 novembre 2012), prima la procura e il gip di Taranto si oppongono con ricorso alla Corte costituzionale a una legge dello Stato del 3 dicembre 2012. Poi, alla sentenza (9 aprile 2013) che dichiara “costituzionale” una legge dello Stato (la cosiddetta “salva Ilva”), la Procura attende un mese prima di predisporre il dissequestro, previsto per sentenza, di prodotti Ilva che la stessa Procura aveva impedito di commercializzare a partire dal 26 novembre 2012. Prodotti che in data 15 maggio 2013, giorno in cui il gip di Taranto firma il dissequestro, hanno perduto (per deperimento e caduta dei prezzi sul mercato dell’acciaio) oltre un terzo del loro valore di 1 miliardo di euro. Ancora. Il 25 maggio 2013, cioè dopo essere stati contraddetti dalla Corte costituzionale (sentenza del 9 aprile e deposito delle motivazioni del 10 maggio 2013), i magistrati di Taranto sequestrano altri 8,1 miliardi di patrimonio dei proprietari dell’Ilva e mantengono ferrignamente tale sequestro (col rischio di far collassare l’intera filiera aziendale dei Riva) fintanto che, sette mesi dopo, la Corte di Cassazione cancella senza rinvio tale provvedimento, dichiarandolo «abnorme» e «fuori dall’ordinamento». Infine, dopo l’incredibile braccio di ferro tra Procura e leggi dello Stato, dopo che i più gravi e importanti provvedimenti assunti dai magistrati nei confronti dell’Ilva sono stati demoliti da ben due sentenze delle massime Corti, invece che chiedere conto di quanto siano costati allo Stato (e a Taranto) l’intransigenza e gli errori della Procura, Enrico Letta riesce nell’impresa di rinunciare a esercitare le prerogative di un primo ministro e di un governo. Così, con l’alibi che nel giugno 2013 la proprietà Ilva (con tutto quello che aveva addosso) non era ancora riuscita a mettersi completamente a norma rispetto alle severe regole ambientali approvate nel decreto “salva Ilva”, il governo vara un ennesimo decreto legge che, a partire dall’agosto 2013, sancisce il “commissariamento straordinario” dell’Ilva. Azienda privata che viene in questo modo trasformata in azienda parastatale per almeno i prossimi 36 mesi. E ora, secondo le richieste del commissario Enrico Bondi, l’Ilva dovrebbe essere ricapitalizzata con i soldi (1,2 miliardi di euro) che i Riva si sono visti porre sotto “sequestro cautelativo” dalla Procura di Milano. Non per violazioni all’Ilva, ma su tutt’altra partita di una (ad oggi presunta) «maxi-evasione fiscale». E ora godiamoci il film (si fa per dire), distesamente. Il 27 novembre 2012, Stefano Saglia, vicepresidente della commissione Camera per le Attività produttive è ancora ottimista. Il giorno prima era scattata una seconda retata, dopo quella del 26 luglio con cui il gip di Taranto, Patrizia Todisco, aveva sequestrato sei impianti dell’area a caldo dell’Ilva, emesso otto mandati di arresto cautelare per manager dell’acciaieria (compreso l’allora 87enne Emilio Riva, ex patron dell’Ilva) e nominato quattro custodi giudiziari. Dunque, il 26 novembre 2012 una seconda ondata di arresti aveva portato in carcere altre sei persone e posto sotto sequestro 1,8 milioni di tonnellate di prodotti Ilva del valore commerciale di 1 miliardo di euro. Nonostante queste notizie, per Saglia l’acciaieria di Taranto resta «una grande realtà siderurgica di cui il paese non può privarsi. L’Ilva vale lo 0,5 per cento di Pil nazionale». E poi naturalmente ci sono in ballo migliaia di posti di lavoro. Per la precisione: 11.611 impiegati nelle acciaierie di Taranto più gli addetti in società strettamente collegate all’Ilva. In totale, senza contare l’indotto del Nord, nel novembre 2012 Ilva occupa ancora 15.358 persone e il suo fatturato consolidato (oltre 6 miliardi di euro nel 2011) è in netta ripresa rispetto al biennio 2009-2010. Ed ecco una fotografia dell’azienda esattamente un anno dopo, dicembre 2013, quando il commissario straordinario Bondi scrive nella sua relazione che le vendite sono in picchiata, costi e perdite in paurosa ascesa. Colpisce il brusco calo di produzione. L’Ilva perde due milioni di tonnellate d’acciaio, un terzo della produzione, in un solo anno. Nel 2013  produce 6 milioni e 300 mila tonnellate, contro gli 8 milioni e 300 mila del 2012. Rispetto al 2011, quando a bilancio risultavano ricavi superiori a 6 miliardi di euro, in aumento del 30,4 per cento rispetto al 2010, la relazione di Bondi prevede per il 2013 ricavi quasi dimezzati, 3,65 miliardi, oltre il 40 per cento in meno rispetto al 2011, anno che precede gli interventi della Procura. Insomma, benché goda della speciale rete di protezione messa a disposizione dai governi Monti e Letta (che nell’ultimo biennio hanno approvato ben tre decreti legge ad hoc e cospicue risorse economiche per interventi emergenziali, a cominciare dai 336 milioni di euro resi disponibili fin dall’agosto 2012) l’Ilva è inchiodata. Si deve procedere alla sua ricapitalizzazione. «All’Ilva servono 3 miliardi», dichiara Bondi al vertice ministeriale del 9 gennaio scorso. E la legge sull’emergenza ambientale, la cosiddetta “Terra dei fuochi-Ilva” in corso di definitiva approvazione in Senato, dovrebbe servire a procurarli. Come? In parte utilizzando il miliardo e rotti di euro sequestrati ai Riva dal procuratore di Milano (e attualmente anche consulente di Palazzo Chigi) Francesco Greco. In parte provando a convincere banche e investitori a entrare nella partita Ilva. E veniamo al “disastro ambientale” di cui sono accusati imprenditori, manager, funzionari pubblici, che hanno gestito l’Ilva negli ultimi 15 anni. Prima, però, facciamo un bel passo indietro. Il 13 aprile 1972, in un elzeviro di pagina 3 sul Corriere della Sera, Antonio Cederna, fondatore di Italia Nostra, descrive così la Taranto dell’Ilva-Italsider a gestione statale: «Una città disastrata, una Manhattan del sottosviluppo e dell’abuso edilizio. Mille camion al giorno scaricano a mare il materiale sbancato a monte e i velenosi residui degli altiforni: un’enorme distesa di mare è già colmata e i lavori procedono senza tregua». Cederna annota sgomento: «Un’impresa industriale a partecipazione statale, con un investimento di quasi duemila miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sottovento». Il riferimento è al quartiere Tamburi, quello che nel 2013 è stato segnalato per l’alta incidenza di tumori. A distanza di oltre quarant’anni, 3 febbraio 2014, è Adriano Sofri a raccontare la visita e il ritorno da Taranto con animo «desolato». La magnifica penna di Repubblica non si lascia tentare dagli sforzi compiuti da ben due governi, dalle istituzioni locali e dalla stessa Corte costituzionale che il 9 aprile 2013 aveva richiamato la necessità di contemperare le esigenze del lavoro, della salute e del rispetto dell’ambiente, spettando al governo e alla pubblica amministrazione, non alla magistratura, dettare indirizzi e scelte in questi ambiti. Si ha l’impressione che per giustizia Sofri intenda questo: «Poi, nella notte fra l’11 e il 12 gennaio i custodi giudiziari hanno compiuto un’ispezione a sorpresa senza preavviso nell’Ilva e hanno trovato gli impianti (quelli che dovrebbero funzionare a ritmo ridotto) “tirati al massimo”. Anomale accensioni delle torce dell’acciaieria…» e via di altre illegalità. Bene. Dai primi anni Settanta, quando Cederna descriveva lo sversamento e inquinamento a cielo aperto dell’Ilva statale, pare che non sia successo niente. Poi, dai primi mesi del 2012, per la procura, i suoi periti e, a seguire, ambientalisti e dipietristi 2.0, l’Ilva diventa “il mostro di Taranto”. E i Riva – che pure hanno documentato investimenti a Taranto per 3 miliardi in tecnologia e 1,5 miliardi per l’ambiente – gli emblemi di un capitalismo selvaggio, feroce sfruttatore dei lavoratori, dell’ambiente e della salute. In effetti, sussurrano i collaboratori degli (ex) patron dell’Ilva, i Riva hanno commesso due gravi errori. Primo: sono scesi a Taranto col piglio bauscia del “sciur parun” del Nord. Secondo: il 17 febbraio 2012 non si sono presentati all’incidente probatorio dove avrebbero potuto giocarsi una sentenza del Tar di Lecce che aveva dato loro ragione in tema di emissioni di diossina. Detto ciò, sembra veramente arduo che l’accusa riesca a dimostrare in sede processuale che «in 13 anni» (13 anni? E i precedenti 50?) l’Ilva dei Riva è stata l’unica ed esclusiva responsabile di “disastro ambientale”. Tanto più che, oltre alla siderurgia, il sito industriale di Taranto comprende una grande raffineria, una grande centrale elettrica, un grande cementificio, un grande arsenale militare pieno di amianto. Non solo. A complicare le cose a quelli che vedono nei Riva il diavolo e nell’Ilva l’inferno, c’è un particolare rivelato da Corrado Clini, ex ministro dell’Ambiente del governo Monti che conosce ogni piega del caso e se ne è occupato personalmente fino al passaggio di testimone al suo omologo ministro Orlando del governo Letta. Dice Clini: «Il 4 agosto 2011 è stata data l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) per Ilva di Taranto, dopo un’istruttoria di 5 anni, con 462 prescrizioni. 5 anni è un tempo superiore 10 volte a quanto prevede la legge. E le 462 prescrizioni erano in gran parte in contraddizione tra loro e non applicabili, perché espressione di un compromesso “politico” tra la resistenza dell’impresa ad assumere impegni in linea con le migliori tecnologie disponibili e le istanze della Regione e degli enti locali in gran parte non sostenibili sul piano della fattibilità tecnica e giuridica. Ilva ricorre al Tar contro gran parte delle prescrizioni, ritenute in contrasto tra di loro e nei confronti delle norme vigenti. Il Tar riconosce la fondatezza del ricorso di Ilva e disapplica una parte rilevante delle prescrizioni. Nello stesso tempo, con valutazioni opposte a quelle del Tar, la procura della Repubblica di Taranto rileva che l’Aia non è adeguata per risolvere le molte problematiche ambientali e per la salute causate dallo stabilimento Ilva». Giusi Fasano, giornalista del Corriere della Sera, è a Taranto nei giorni dei sequestri e arresti che mettono a rischio quasi 12 mila posti di lavoro. Il 17 agosto 2012 l’inviato del Corriere segue il vertice che si svolge in città tra le istituzioni e le parti coinvolte nella crisi delle acciaierie. Il governo Monti è presente con due carichi da novanta, il ministro dell’Ambiente Corrado Clini e il ministro per lo Sviluppo economico e le infrastrutture Corrado Passera. Manca qualcuno? Sì. Manca il procuratore capo Franco Sebastio che pure è l’artefice, diciamo così, di tutto il can can. Giusi Fasano ha il suo cellulare, chiama, lasciamoli chiacchierare. «Sebastio risponde da Soverato, Calabria, “dove vengo in vacanza da 35 anni”, dice. Ma come? È a tre ore di distanza, arrivano i ministri a Taranto perché una sua inchiesta ha fatto dell’Ilva un caso nazionale e lei non torna nemmeno per una stretta di mano? “L’ho detto anche a loro in una telefonata, cordialissima: vedrete che non mancherà l’occasione”. Più che una promessa sembra una minaccia. “Non mancherà occasione nel senso che c’è sempre tempo per farlo. Presentarmi nell’incontro di venerdì non mi è sembrato opportuno. Lì c’era spazio per politici, amministratori, sindacalisti… che c’entrava un magistrato?”». Ecco, bisogna aggiungere altro? Sì, bisogna aggiungere che alla fine del 2012 il procuratore Sebastio metterà in un libro-intervista le sue riflessioni. «Quando arriva a Taranto con la toga sulle spalle? “Vengo trasferito nella mia città sempre da pretore nel ’76”. Che situazione trova? “Una situazione non certo facile. L’emergenza ambientale c’era tutta, ma non era agevole rendersene conto e, soprattutto, documentarla”. Ostacoli? “Diciamo che non mancavano ostacoli oggettivi”. In che senso? “Beh, in generale l’inquinamento ambientale non sempre provoca danni immediati. In alcuni casi, come per l’amianto, occorre aspettare anche decenni per rilevare le conseguenze sulla salute delle persone. E poi non c’era una sensibilità diffusa sulla qualità del lavoro e la tutela dell’ambiente. Naturalmente, anche la Giustizia soffriva della stessa miopia”». (Il mio Salento, la mia Puglia, dicembre 2012, edizione Affari Italiani). Dunque, alla fine del 2012 apprendiamo dal pm accusatore degli ultimi quindici anni di Ilva che dei 40 anni precedenti in cui lo stesso pm era a Taranto c’è ben poco da ricordare. Eppure, già all’inizio degli anni Settanta Antonio Cederna scriveva quel che scriveva sulla Iri-Italsider-Ilva di Stato. Ma certo, sono anni in cui «ostacoli oggettivi» non consentivano interventi come quelli odierni. E dal 1982 al 2012? Sempre in prima linea. Però «diciamo che la società civile non era consapevole del problema». La società civile? Ascoltiamo in proposito l’ex ministro Corrado Clini. «Nel marzo 2012, per superare le contraddizioni ed uscire dalla situazione di stallo che si era venuta a creare, sulla base di gran parte delle valutazioni della procura della Repubblica di Taranto ho disposto la revisione dell’Aia. Contestualmente al riesame dell’Aia, ho avviato una ricognizione sullo stato dell’ambiente nel territorio di Taranto. È stato messo in evidenza che molte iniziative strategiche per il risanamento ambientale di Taranto, programmate e finanziate a partire dalla fine degli anni ’90, non erano state avviate o completate. E straordinariamente, nessuno aveva avuto nulla da ridire. In particolare. Primo, il piano di disinquinamento per il risanamento del territorio della provincia di Taranto, finanziato nel 1998 con 50 milioni euro, era stato in gran parte disatteso. Secondo, le risorse destinate al risanamento ambientale del Mar Piccolo nel 2005 (26 milioni euro) erano state successivamente destinate ad altri interventi nella regione Puglia. Terzo, le risorse stanziate per il risanamento del quartiere Tamburi di Taranto (49,4 milioni di euro) il 3 luglio 2007 erano state successivamente destinate ad altri progetti». E adesso occhio alle date. Clini spiega: «Il 26 ottobre 2012, dopo una procedura di sei mesi ho rilasciato la nuova Aia, con la prescrizione dell’adeguamento degli impianti agli standard europei più severi e avanzati e che impone  investimenti per 3 miliardi di euro». È un’Aia draconiana. Impone all’Ilva standard che in Europa si devono adottare entro il 2016 (mentre i tedeschi hanno ottenuto un posticipo al 2018). L’Ilva deve adottarli entro il 2014. I primi due interventi prevedono la copertura di 65 ettari – l’equivalente di circa settanta campi di calcio di serie A – di parchi minerali. Il secondo, l’intubamento di novanta chilometri di nastri trasportatori. «Il 15 novembre 2012 – spiega Clini – Ilva accetta  le prescrizioni e presenta il piano degli interventi per dare attuazione alla nuova Aia. Nello stesso tempo Ilva ritira tutti i contenziosi aperti nel 2011 e 2012 dall’azienda contro l’Amministrazione. Insomma, Ilva aveva finalmente deciso di allinearsi alle direttive europee, voltando pagina». Con la retata del 26 novembre, naturalmente tutto cambia. Si era creata una via d’uscita rispettosa di tutte le esigenze (salute, lavoro, ambiente) al dramma di Taranto. Ma “la legge è legge”. Stessa storia accade il 24 maggio 2013, dopo la sentenza del 9 aprile con cui la Corte Costituzionale aveva sbloccato i sequestri e confermato la legittimità del “salva Ilva” di Monti. Il gip di Taranto passa a sequestrare l’intero patrimonio dei Riva. È la mazzata finale. Vero che alla procura di Taranto non basterà il bel servizio di Report del 18 novembre scorso, completamente allineato con le tesi della Procura degli 8,1 miliardi sequestrati perché questa, dicono i periti del gip, «è la cifra da noi stimata delle risorse sottratte dai Riva al risanamento ambientale Ilva». Vero che, 7 mesi dopo il teorema della procura e dell’affetto sostenitore di Report, arriverà la sentenza della Cassazione che disintegra l’ordinanza del gip di Taranto e ordina la restituzione degli 8,1 miliardi di patrimonio sequestrati ai Riva. Ma ormai il danno è fatto, l’Ilva è a pezzi, l’aria che tira a Taranto è di scontro permanente, insormontabile. E il governo Letta che fa? Invece di affrontare di petto l’incredibile anomalia di una procura che ha sbagliato pesantemente e che è stata due volte sonoramente stroncata nei suoi atti dagli stessi vertici del potere togato (Corte costituzionale e Suprema corte), ecco, invece di affrontare due magistrati, il governo batte in ritirata e si inventa una legge di “commissariamento straordinario”. Il resto è storia di questi giorni. Le acciaierie di Taranto sono tornate sotto amministrazione parastatale. E forse, chissà, invece che Ilva domani si chiameranno Iri.

La saggezza di un Capo magistrato: «I pm non sono padreterni. Devono servire il cittadino», scrive Luigi Amicone su “Tempi”. Giovandomenico Lepore, l’ex numero uno della procura di Napoli, la più grande d’Italia, si confessa a Tempi. Separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati, poco garantismo o troppo garantismo. Per una volta non parliamo dei problemi della giustizia. Per una volta parliamo di un magistrato “vecchio stampo”. Che poi significa semplicemente funzionario dello Stato, piuttosto che vincitore di concorso che si dà arie di primo ballerino alla Scala. Bene, coadiuvato dal giornalista Nico Pirozzi, l’ex capo procuratore di Napoli Giovandomenico Lepore (foto a fianco) ha scritto un libro apolide rispetto alle correnti dell’Anm e controcorrente sul mestiere più delicato e terribile. Un libro di bilanci e di vicende giudiziarie narrate con precisione, gustosi aneddoti e statistiche. Un libro che per il fatto stesso di suggerire saggezza e ironia fin dal titolo pirandelliano – Chiamatela pure giustizia (se vi pare), Edizioni Cento Autori –, il rifiuto di sedurre il lettore con la sgamata tecnica dell’“indignazione”, rappresenta un buon viatico all’azione, non giudiziaria ma educativa e culturale, di contrasto alla proliferazione di cervelli all’ammasso che da un ventennio hanno messo in capo alla magistratura il vasto programma di creazione di un Mondo Nuovo. Giovandomenico Lepore, 78 anni, sposato, napoletano, uomo del buon umore e della lingua del popolo, cinquant’anni di vita trascorsi in magistratura. Dopo essere stato pretore, pm, aggiunto, sostituto, presidente della procura generale, ha diretto per sette anni (2004-2011) la procura di Napoli, la più grande e tormentata d’Italia. Il Csm lo scelse all’unanimità come capo degli uffici requirenti (per una volta trovando l’accordo il correntismo politico di destra e di sinistra), «perché alla procura generale stavo troppo tranquillo e sereno». Mentre occorreva che qualcuno di forte e autorevole mettesse fine allo scontro che, un po’ come succede oggi a Milano, spaccava la procura partenopea all’epoca della gestione di Agostino Cordova. Fu così che Lepore venne incardinato al vertice e in breve riportò ordine (e perfino una certa armonia) tra i centosedici pubblici ministeri della città delle emergenze per antonomasia. «Non ho fatto niente di particolare se non tenere la porta aperta, ascoltare, dialogare, assumere le mie responsabilità, decidere. E all’occorrenza anche correggere certe storture». È stato il regista di alcune delle inchieste più rumorose della Seconda Repubblica (le cosiddette Calciopoli, P4, escort a Palazzo Grazioli, emergenza rifiuti, bonifiche fantasma, mega truffe sulle invalidità civili, appalti al Comune) e ha stroncato il clan dei Casalesi. Cioè quel pezzo di potente camorra con a capo Michele Zagaria «che le forze dell’ordine mi arrestarono proprio qualche giorno prima di andare in pensione, fu per me un regalo quasi più bello della buonuscita». Tempi ha incontrato Lepore a Milano, tra una conferenza e l’altra organizzate nell’ambito dei corsi (obbligatori, legge del governo Monti) di aggiornamento professionale per i giornalisti. Conversazione all’Ata Hotel e aperitivo al bar dei cinesi.

Nei confronti dei magistrati di Prima Repubblica emerge talvolta, da parte dei colleghi della Seconda, l’accusa più o meno velata di “collusione col potere”. Certa attuale magistratura è così consapevole del potere e della centralità che ha assunto in un ventennio di scandali, che a quei pochi che eventualmente contestano loro certi metodi (tipo l’uso disinvolto della carcerazione preventiva), essi rispondono che «la legge è la legge». Il che sarebbe un’ovvietà se, di fatto, non fosse uno scaricare la coscienza personale dall’orizzonte del proprio operare. Che ne pensa?

«Penso che la legge vada sempre interpretata con buon senso e equilibrio. Lo lasci dire a uno che è stato per cinquant’anni al penale, tranne nei due anni che ho fatto il pretore a Genova, quando il pretore era un magistrato magnifico, stava nei piccoli centri ma era a contatto con la gente e, se era di buon senso, risolveva i problemi veramente secondo giustizia. Queste sono anche le finalità per cui ho scritto il libro. Proprio per dare indicazioni ai colleghi giovani. Infatti, durante i miei sette anni da capo procuratore a Napoli, mi sono accorto che arrivano in Procura giovani magistrati – magari hanno appena vinto il concorso – e ognuno di loro che va a ricoprire l’ufficio di pubblico ministero si crede un Padreterno, si crede al di sopra delle parti, e non si rende conto che invece è solo un servitore del cittadino. Perciò quando sento dire: “Ma io sono un magistrato!”, con quel tono sopracciglioso di chissà chi, a me scappa da ridere. Un magistrato? Beh, io non lo so fare, ma bisognerebbe fargli un bel pernacchio. Ma è così, sono duecento anni che in Italia la giustizia non funziona, rassegniamoci, non funzionerà per altri duecento…»

Eppure c’è una parte di magistratura che è convinta di avere una missione salvifica nella società…

«Guardi, io capisco che con la velocità dei nuovi mezzi di comunicazione e qualche ansia di protagonismo – la televisione, i titoli sui giornali, la gente che vuole “giustizia” – ci si esponga e si creda di rendere un buon servigio alla società. Il magistrato risponde alla legge. È vero. Ma risponde tanto meglio quanto più serve lo spirito e le finalità della legge: servire lo Stato e prima ancora i cittadini. Dunque, per essere dei buoni magistrati non occorre protagonismo per poi magari un giorno, sull’onda della notorietà, procacciarsi un posticino in politica. È anche a questo riguardo che la riforma del 2006 diede funzioni ordinatrice e coordinatrice al capo dell’ufficio. I pubblici ministeri non possono pretendere di godere della stessa indipendenza e autonomia del giudice. Sono parti e quindi devono in qualche modo rispondere al capo ufficio. Capisco le resistenze, ciascuno ha la propria testa ed è giusto che la utilizzi. Però il capo ha la responsabilità degli uffici e io non mi sono mai tirato indietro dal ricordarlo ai miei colleghi. Quando stralciai l’inchiesta su Bertolaso e due prefetti perché ritenevo che non vi fossero elementi che giustificassero provvedimenti restrittivi, l’ho fatto e non me ne sarei pentito, anche se poi li avessero condannati. Grazie a Dio ho avuto ragione, perché tutte e tre le posizioni vennero poi assolte. Per questo è di fondamentale importanza la valutazione attenta dei candidati prima di nominare i capi degli uffici requirenti. È il vertice dell’ufficio che dà l’impronta, in un verso o nell’altro, negativamente o positivamente, all’azione della procura».

Lei ci sta dicendo che la magistratura è l’ultimo posto in Italia dove si fa politica?

«Purtroppo non abbiamo ancora trovato un sistema che prescinda dalle correnti. Però, secondo la mia modesta opinione, il Csm dovrebbe essere composto solo da togati. Che ci stanno a fare i cosiddetti “membri laici”, spesso reduci o trombati della politica?»

Non mi riferivo ai politici in Csm, mi riferivo proprio al fatto che gli incarichi, così come i capi delle procure, vengono decisi nei negoziati tra le correnti dell’Anm e con criteri lottizzatori molto simili al tanto vituperato Cencelli della politica di Prima Repubblica. O sbaglio?

«Per me il problema è solo la eventuale malafede. Le correnti sono una realtà e non ci possiamo fare niente. E poi è normale che un magistrato abbia le sue idee politiche. L’importante è che non agisca in malafede. Vede, l’ho detto anche in conferenza qui a Milano. In un certo senso anche il delinquente ha una sua buona fede. E se tu magistrato sei corretto, stai tranquillo che le disgrazie non succedono. Ma se tu sei scorretto, ricorri ai trabocchetti, sei in malafede, è chiaro che raccogli quello che hai seminato. E poi non è vero che le nomine sono sempre lottizzate. Pensi al mio caso, ma ce ne sono anche molti altri. Ripeto, secondo me non sono le idee politiche, di destra o di sinistra che siano, a ostacolare la giustizia. L’ostacolo è il magistrato che si fa trascinare dalla sua ideologia e insiste, in malafede, a farsi trascinare».

L’ex procuratore di Bari Michele Emiliano ha lasciato la procura nel 2003, è stato eletto sindaco e poi segretario regionale Pd. Adesso dice che  ritorna a fare il magistrato. Le pare possibile?

«Beh, sì, se la legge lo consente… Però, no. Dal mio punto di vista se un magistrato va in politica deve lasciare la magistratura. Come fa il cittadino ad avere fiducia? Quale garanzia di imparzialità può dare ai cittadini?»

Condivide lo zelo con cui certe procure “attenzionano” i pochi grandi asset che sono rimasti in Italia? Pensi al caso delle presunte tangenti che l’accusa era certa fossero state pagate da Finmeccanica per piazzare elicotteri italiani in India. È finito in nulla ma l’Italia ci ha perso un mercato da 75 miliardi di dollari e commesse da due-tre miliardi di euro. Non le sembra distruzione del sistema-paese, per di più in un contesto di recessione e disoccupazione di massa?

«Capisco. Una cosa sono le tangenti che rientrano in Italia come provviste al manager o al politico che ha procacciato l’affare. Un’altra è quando sui mercati dell’Est, o dell’estremo oriente, per non parlare dell’Africa, l’azienda italiana deve passare, diciamo così, dalle forche caudine di sistemi corrotti in loco. Non è certo bello a vedersi. Ma questo è il mondo. Che senso ha metter tanto zelo e indagare i rapporti tra aziende e soggetti esteri? Ripeto, mi riferisco al contesto ambientale di certi mercati, non alle eventuali bustarelle che rientrano in Italia al manager o al politico per un affare che, poniamo, l’azienda italiana ha fatto in Africa e che vanno senz’altro perseguite. Sto parlando di come il mondo funziona realisticamente in certe aree geografiche. Lei ha fatto il caso di Finmeccanica. Lì non c’è stata nessuna tangente dice il dispositivo assolutorio. Ma anche se ci fossero state provviste da parte di soggetti esteri per ottenere all’azienda italiana la possibilità di entrare in un mercato – d’accordo, non sarebbe un bel vedere e infatti non si deve proprio vedere – non capirei lo zelo investigativo. Mettetevi al posto del soggetto straniero, come pensate che prenda la nostra attività? “Sapete che c’è? La commessa che dovevo dare a voi italiani la giro al belga piuttosto che all’inglese”. Questo è il punto. Il buon magistrato deve sempre ricordare che la legge lo pone al servizio del cittadino non astrattamente, ma realisticamente e prudentemente, considerando tutti i fattori di contesto in cui è chiamato a operare. Altrimenti io cittadino posso anche pensare che qualche interesse indicibile ce l’hai pure tu. E magari non è di questo paese».

De Magistris ha fatto cadere Prodi…

«Veramente quello lo ha fatto cadere un collega che sta dalle parti di Santa Maria Capua a Vetere, se si riferisce al caso Mastella».

Al di là del caso Mastella, Luigi De Magistris, questo singolare personaggio che condannato in prima istanza e obbligato a dimettersi da sindaco di Napoli – così come tutti i politici (in primis Berlusconi) sono stati obbligati a dimettersi in ottemperanza alla legge Severino – è il solo caso di politico che ottiene una sospensiva (dal Tar della Campania) e torna sindaco. E quanti danni ha fatto, da magistrato, con i suoi flop?

«Conoscevo suo padre, era un magistrato straordinario, eccezionale, equilibrato, direi impeccabile. Adesso questo figlio, che è pure intelligente e, devo dire, assolutamente onesto, pecca un pochino di impulsività. Quanto alle sue inchieste finite in flop devo dire che il problema non è suo. Ha fatto indagini, si è appassionato al suo quadro probatorio. Insomma, ha fatto il mestiere del pubblico ministero. È vero, ha sbagliato a farsi trascinare in televisione e a farsi rappresentare come una Giovanna D’Arco che sta sulle barricate. Però, chi lo poteva o doveva fermare – se c’erano le ragioni per fermarlo – era il capo ufficio. Allora, o il capo è stato un pusillanime e non ha avuto il coraggio di fermare cose sbagliate. Oppure il capo ha condiviso l’inchiesta e un certo modo di procedere. Terzo non è dato».

Arresti cautelari. Non c’è un sistema giudiziario in Europa che come il nostro vi ricorra così disinvoltamente. Con la conseguenza che le carceri italiane sono piene di persone ancora in attesa di giudizio. Non è tortura questa?

«Guardi che sono tre le motivazioni per giustificare provvedimenti cautelari restrittivi. Tu devi provare che c’è rischio di inquinamento delle prove, di fuga e di reiterazione del reato. Il problema è che la pressione dei media e della cosiddetta “opinione pubblica” non aiutano. Vai a spiegare, poniamo nel caso di un omicidio per gelosia, con reo confesso e magari pure pentito, che ci sono tutti i presupposti per concedere la libertà provvisoria. Vai a spiegare che se non c’è pericolo di fuga e naturalmente non c’è pericolo di inquinamento delle prove essendo il reo confesso, il rischio di reiterazione è nullo, ovviamente, per la particolare fattispecie di reato (quello ha ucciso la moglie per gelosia, non è che adesso c’è il rischio che ammazzi il primo che passa). Se li immagina i titoli dei giornali? Ci vuole più coraggio a fare le cose bene che a farle strizzando l’occhio alla vox populi, o meglio, alla vox media».

Ma lei, quando i suoi sostituti chiesero l’arresto di Bertolaso e dei due prefetti, si mise di traverso.

«E perché avrei dovuto rovinare la vita a tre persone quando il quadro probatorio non mi sembrava giustificare gli arresti? Poi, come le ho detto, mi andò bene, furono tutti e tre assolti. Ma anche se fossero stati condannati io ero il capo e dovevo assumermi le mie responsabilità. Dopo di che, non vorrei sembrare un’anima bella: se ci sono elementi per giustificare un provvedimento di restrizione della libertà si deve provvedere. Bisogna anche capire, però, che un arresto cautelare non è una prova di colpevolezza, perché poi la prova si forma in dibattimento. È chiaro che, purtroppo, proprio per le ragioni del giornalismo alla velocità della luce poi succede che chi finisce agli arresti cautelari viene marchiato a vita, perde la reputazione, l’onore, il lavoro, a prescindere. Per questo bisogna ponderare con prudenza ed equilibrio ogni provvedimento di questo genere. Purtroppo l’opinione pubblica è stata abituata ad avere la certezza di colpevolezza già dall’avviso di garanzia. E questo non va bene».

Cosa pensa dello scontro in atto alla Procura di Milano tra il capo Bruti Liberati e l’aggiunto Alfredo Robledo?

«Il dissidio è forte. Ci penserà il Csm. Mi spiace soltanto che queste cose finiscano sui giornali. La gente cosa capisce della magistratura? E soprattutto, a che serve alla gente sapere che questo e quello stanno litigando? È tutto gossip che fa solo male alla giustizia».

Come disse una volta Luciano Violante, bisognerebbe separare le carriere dei magistrati da quelle dei giornalisti?

«Sì, bisognerebbe tagliare il cordone. Anche se io ho sempre avuto rapporti splendidi con i giornalisti. Se dicevo a uno di loro: “Guarda questa cosa che ti hanno spifferato è vera, ma non la scrivere sennò mi comprometti le indagini”, beh questi mi obbediva e non usciva niente. Poi è capitato qualcuno con l’ansia dello scoop che ha creduto di farmi fesso. Peggio per lui, l’ho messo nel libro nero e non s’è visto più. Così la pubblicazione delle intercettazioni, a mio parere non va bene. Però capisco la pressione che avete addosso voi giornalisti… Comunque è sempre una questione di persone. Con me non è potuto mai succedere. Chiaro che poi non è che puoi controllare tutti gli uffici. Come si vide con l’inchiesta Calciopoli, dove molti verbali vennero rubati e pubblicati in un vero e proprio volumetto e questo ci rovinò l’indagine».

Però, se il Csm funzionasse bene, sarebbe già una mezza riforma della giustizia, non crede?

«Credo che il Csm dovrebbe essere composto solo da magistrati. Che c’entra il cosiddetto “laico”? Il Csm svolge una funzione importantissima. Come le dicevo, l’ufficio del capo procuratore è decisivo per l’organizzazione e il coordinamento dell’attività requirente. Per questo il problema è come scegli e chi scegli ai vertici delle procure…»

Da quale corrente è stato portato all’ufficio di capo a Napoli?

«Da nessuna. Ho avuto la fortuna o la sfortuna, veda un po’ lei, di essere prescelto all’unanimità. Me ne stavo tranquillo e sereno in procura generale quando mi hanno chiesto di mettermi a disposizione per sanare un pesante conflitto che spaccava in due la procura. Non voglio parlare della situazione che trovai negli uffici, dico soltanto che grazie a un paziente lavoro di ascolto e di mediazione siamo riusciti a ricompattare la più grande procura d’Italia, con 116 procuratori. Le assicuro, non è stato uno scherzo».

Beh, i risultati insegnano…

«Ripeto, quando si devono scegliere i capi degli uffici requirenti bisogna ponderare bene le scelte. Fortunatamente io sono stato scelto sopra, sotto e oltre ogni corrente. E mi scusi se cambio argomento pensando alle correnti politiche in generale: che spettacolo è questo che non si riesce a eleggere due membri della Corte costituzionale perché, così si dice, la Corte ormai è un organismo politico? E allora aboliamola questa Corte invece di assistere a questo spettacolo indecoroso!»

In effetti Svizzera e Gran Bretagna, tanto per citare i primi due paesi che vengono in mente, non hanno la Corte costituzionale e non pare siano paesi incivili…

«Ma l’Italia ne ha bisogno, abbiamo una Costituzione che la prescrive, va interpretata, la Corte è indispensabile per dirimere i conflitti istituzionali».

Cosa pensa del moltiplicarsi delle leggi anti-corruzione, anti-riciclaggio, anti-autoriciclaggio e via discorrendo? Ormai si pensa che le leggi siano la bacchetta magica per risolvere tutto e non si risolve niente, anzi.

«È vero che il costume italiano è peggiore di altri. Però è anche vero che la corruzione c’è sempre stata. Che fai, fermi lo sviluppo perché prima dev’essere tutto pulito e moralizzato? Che fai, blocchi i cantieri perché c’è sempre qualcuno in “odore di mafia”? E poi che significa “in odore di mafia”? Che se c’è un tale, un operaio o un impiegato di una certa impresa che è legato a qualche cosca o ha la fedina penale macchiata, fermi tutto in nome della normativa antimafia? Adesso vedo che a Milano è arrivato Raffaele Cantone, un bravissimo collega, per vigilare sull’Expo. Ma che vuol dire “super magistrato”, “super procuratore”? E poi, in concreto, che vuole dire “vigilare”, che può fare? Non mi sembra che sia la via giusta quella di moltiplicare le authority e gli istituti cosiddetti “anticorruzione”. Cantone è bravissimo, per carità. Ma che può fare in concreto? Rischia di aggiungere carte a carte, burocrazia a burocrazia.  Vede, si moltiplicano gli organismi e le autorità, ma ancora non si fa abbastanza per far comprendere che il problema della corruzione è di cultura e di educazione. È qui che devi intervenire. Non puoi ridurre la giustizia a feticcio e aspettarti dalla magistratura la bacchetta magica per risolvere tutti i problemi. Il mestiere del magistrato non è quello di salvare il mondo. È quello di fare rispettare le leggi nell’interesse della giustizia, dello Stato e, prima di tutto, dei cittadini».

Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?

PATRIA, ORDINE. LEGGE.

Patria-ordine-legge: lo slogan che unifica destra e sinistra, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Quando si decide di fronteggiare l’emergenza terrorismo con nuove leggi speciali – in uno Stato che annega, da anni, nelle leggi speciali – in realtà si realizza un’operazione molto semplice: quella di approfittare dell’insorgenza di un problema di sicurezza per ridurre il grado di libertà dell’intera comunità nazionale. E’ così da sempre. Da sempre le classi dirigenti – o , almeno, una parte consistente delle classi dirigenti – ritiene che per governare una società complessa sia necessario evi- tare livelli troppo alti di libertà. Alle classi dirigenti piace poco la libertà, per- ché la libertà, quando non è ingabbiata e controllata e plasmata, crea problemi di ogni genere: di sicurezza, di efficienza, di produttività, di gestione dell’economia, di difesa dei profitti. E la libertà, rafforzata da un sistema di diritti eccessivamente sviluppato, rende molto complicato il funzionamento – cioè il governo – sia dell’economia, sia dello Stato, sia – più in generale – del potere. Quando dico le classi dirigenti, non penso solo al ceto politico. Penso ai grandi manager, ai capitalisti, ai giudici, ai militari, e a un pezzo molto molto vasto dell’intellettualità e del giornalismo. E’ questo blocco, molto composito – sia politicamente, sia socialmente, sia come formazione culturale – quello che si compatta e diventa una testuggine che ogni volta produce nuove misure di ”blindatura” della libertà e di riduzione dello Stato di diritto. Una volta – tanti anni fa – questo blocco era essenzialmente un blocco reazionario, che si ispirava al principio di patria-ordine-legge. Ora le cose sono molto diverse. La parte più robusta e propositiva del blocco, e che svolge la funziona dirigente, è – seppure vagamente – catalogabile nella sinistra politica. La parola d’ordine, più o meno, resta la stessa: patria-ordine-legge. Il trasferimento in questo blocco di gran parte della sinistra politica (sia moderata che radicale, con qualche sfumatura nelle parole d’ordine, perché la sinistra radicale ha in uggia la patria, sopporta appena l’ordine, e ama solo la legge, che usa chiamare ”legalità”) ha cambiato radicalmente il terreno dello scontro politico sui questi temi. Anzi, ha più o meno cancellato sia il terreno che lo scontro. Una volta c’era l’urto tra la destra legalista e la sinistra libertaria. Ora lo scontro è tra un agglomerato fortissimo di pensiero unico, che unisce – ad esempio- giornali diversissimi come Il Giornale e ”Il Fatto”, e una piccola minoranza di ”sovversivi” , assolutamente minoritari anche dentro l’opinione pubblica. Quando è avvenuta questa svolta? In realtà è successo tanti, tanti anni fa. Quando in Italia imperversava la lotta armata – dico negli anni settanta – e il più importante partito della sinistra, e cioè il Pci, decise di schierarsi al fianco della magistratura per battere l’eversione. Il risultato fu quello di lasciar passare senza fiatare, anzi, con un po’ di godimento, un gran numero di leggi speciali, dette leggi d’emergenza, che hanno modificato il Dna del nostro stato di diritto. Iniziò nel 1975, se non ricordo male, con la famosa legge-Reale, che dava grandi poteri alla polizia, e aumentava anche il potere della magistratura, e fu usata per stroncare i movimenti di lotta di quel decennio. La Legge-Reale fu approvata quando la lotta armata era ancora allo Stato nascente, e certo non servì per colpire la lotta armata, servì per colpire l’estrema sinistra. Il Pci sostenne quella legge, con la sola opposizione di uno dei suoi padri nobili – un personaggio eccezionale e amabilissimo che ormai non si ricorda più nessuno, aveva 80 anni suonati e si chiamava Umberto Terracini. D quel momento è stata una cascata di leggi speciali. Contro il terrorismo, contro la mafia, contro la politica corrotta, contro qualunque cosa capitasse a tiro. Leggi antiterrorismo, leggi sui pentiti, ampliamento delle intercettazioni, carcere duro (41 bis) eccetera. E il nostro paese, dove regnava il conflitto sociale ma anche un certo grado di libertà e di liberalismo, divenne sempre più arcigno. I pentiti e le intercettazioni, come sapete, oggi sono gli unici due strumenti di indagine giudiziarie. Sebbene tutti sappiano che i pentiti quasi sempre mentono e che le intercettazione sono immensamente discutibili, interpretabili, manipolabili o del tutto incomprensibili. Ora siamo al nuovo atto. Lo spunto sono gli attentati francesi. L’obiettivo dichiarato è la Jihad. Il risultato sarà un ulteriore arretramento della nostra civiltà giuridica. Voi pensate che questa sia la strada per entrare nella modernità?

INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO: LITURGIA APPARISCENTE, AUTOREFERENZIALE ED AUTORITARIA.

Ogni anno, dopo il Natale, Capodanno e la Befana, si reitera la liturgia pagana dell’osanna all’ordine della Magistratura, con la liturgia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario.

LITURGIA APPARISCENTE, AUTOREFERENZIALE ED AUTORITARIA.

Il commento del Dr. Antonio Giangrande, esperto di Diritto e di Giustizia, in quanto sul tema ha scritto “Impunitopoli, Legulei ed Impunità” e “Malagiustiziopoli” con “Giustiziopoli”: disfunzioni del sistema che colpiscono la collettività o il singolo. Il quale ritiene i magistrati, unti dal delirio di onnipotenza, gli unici responsabili del degrado sociale, culturale ed economico del nostro paese.

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Corruzione nel cuore dello Stato. Solo alla Difesa 130 dipendenti sotto accusa. Al Mef c'è chi si porta via pure i timbri. Nel giro di due anni hanno subito provvedimenti disciplinari per reati penali anche 800 dipendenti della Guardia di Finanza. Neppure la Presidenza del Consiglio e il Consiglio di Stato sono immuni. Ecco la radiografia degli illeciti nelle istituzioni che non avete mai letto. Eppure la corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato.

LITURGIA APPARISCENTE

Da Wikipedia si legge. L'Anno giudiziario, nell'ordinamento giudiziario italiano, è il periodo di tempo, corrispondente all'anno solare, nel quale è scandito lo svolgimento dell'attività giudiziaria, attraverso la fissazione del cosiddetto calendario giudiziario. Le modalità di svolgimento della cerimonia sono state modificate recentemente: fino al 2005, per ogni anno giudiziario, il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione e il Ministro della giustizia pronunciavano davanti al Presidente della Repubblica e alle altre autorità presenti una relazione generale sull’amministrazione della giustizia. Similmente, i procuratori generali presso ciascuna Corte d’appello comunicavano al Consiglio Superiore della Magistratura e al Ministro della giustizia la relazione per il proprio distretto. Questo in conformità all’articolo 86 del regio decreto n. 12 del 1941, più volte modificato negli anni. Dal 2006, a seguito di una modifica normativa, il Ministro della giustizia rende direttamente comunicazioni al Parlamento, sull’amministrazione della giustizia nell'anno appena trascorso e sugli interventi per l’organizzazione e il funzionamento dei servizi che si intende attuare nell’anno che inizia. Successivamente si riuniscono in forma pubblica e solenne (cioè con la partecipazione di tutte le sezioni, i procuratori generali, i magistrati delle procure generali e i rappresentanti dell’Avvocatura dello Stato) prima la Corte suprema di cassazione e quindi le corti d'appello per ascoltare la relazione generale del Primo Presidente della Corte di cassazione e le relazioni per i singoli distretti dei Presidenti di corte d’appello; si passa quindi agli interventi (facoltativi) dei Procuratori generali e dei rappresentanti dell’Avvocatura dello Stato. L'inizio dell'Anno giudiziario è celebrato con apposite cerimonie solenni (nelle quali i magistrati indossano le toghe cerimoniali di colore rosso e bordate d'ermellino) presso la Corte suprema di cassazione e presso le corti d'appello dei distretti giudiziari italiani. Le cerimonie inaugurali sono occasione di prolusioni dei massimi esponenti dell'ordine giudiziario circa lo stato dell'amministrazione della giustizia nel territorio di competenza. In questo senso assume particolare rilevanza l'inaugurazione dell'Anno giudiziario presso la Corte suprema di cassazione, che precede di un giorno quelle presso i distretti giudiziari, e che si svolge alla presenza del Presidente della Repubblica. Anche i giudici speciali, come la magistratura amministrativa e quella contabile (il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti), ovvero la magistratura militare, hanno una propria cerimonia inaugurale dell'anno giudiziario, che si svolge secondo modalità e con contenuti analoghi a quelli degli organi della magistratura ordinaria.

In queste occasioni si coglie in estrema sintesi la genuflessione dei media all’ordine giudiziario osannandone le virtù artefatte e riportandone le deliranti espressioni. I magistrati, che non vengono da Marte, si sentono e sono essi stessi giudici e legislatori. Il potere in mano al popolo: sia mai.

LITURGIA AUTOREFERENZIALE

In queste manifestazioni pubbliche, spesso, mancano le componenti contraddittorie insite nei processi, ossia l’Ordine degli avvocati. Sovente di leggono delle note, ignorate dai media, come questa: Le Camere penali di Basilicata, di Matera e la Camera penale "Alfredo Marsico" di Lagonegro (Potenza) "hanno deciso di non partecipare alla cerimonia d'inaugurazione dell'anno giudiziario" in programma domani, 24 gennaio, a Potenza, "raccogliendo l'invito dell'Unione Camere penali italiane di disertare una cerimonia ancora autoritaria e appariscente che non consente un concreto dibattito sui problemi della giustizia".

Il rito stantio delle toghe rossocerimonia, dell'anno giudiziario, è un rito destinato alla liturgica dei monologhi autoreferenziali e dell’elencazione dei problemi della Giustizia da addebitare agli altri.

Excusatio non petita, accusatio manifesta è una locuzione latina di origine medievale. La sua traduzione letterale è "Scusa non richiesta, accusa manifesta", forma proverbiale in italiano insieme all'equivalente "Chi si scusa, si accusa".

Il senso di questa locuzione è: se non hai niente di cui giustificarti, non scusarti. Affannarsi a giustificare il proprio operato senza che sia richiesto può infatti essere considerato un indizio del fatto che si abbia qualcosa da nascondere, anche se si è realmente innocenti. Liturgia inutile, i magistrati si autoassolvono.

E così, è andata anche quest’anno. L’Italia, pur sede del Vaticano – specialista in coreografie religiose dalle quali emerge comunque la presenza dello Spirito – si segnala per una particolare tenacia nella ripetizione ad oltranza di liturgie laiche (che è, si badi, una inutile ripetizione, poiché liturgia altro non significa se non “opera del popolo”) tanto ostinate quanto inutili, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”.

Per i magistrati il malfunzionamento della Giustizia va ricondotto alla Prescrizione.

LITURGIA AUTORITARIA

C’è un passaggio della solenne cerimonia del 2015 che traccia un bilancio crudo, amaro. Giorgio Santacroce, primo presidente della Cassazione, parla a un certo punto di «parabola discendente». Si riferisce ai suoi colleghi magistrati, scrive Errico Novi su “Il Garantista”. E se pure parte dalla «campagna irresponsabile di discredito» condotta «per anni» contro le toghe, e dà così la colpa anche alla politica, poi fa una diagnosi assai brutale: siamo davanti a «una situazione di crescente disaffezione verso la magistratura, dopo l’alto consenso dei tempi di Mani pulite è iniziata», appunto, «una parabola discendente».soprattutto, «i magistrati appaiono, anche quando non lo sono, conservatori dell’esistente e portatori di interessi corporativi». Di più: devono superare i loro «arroccamenti », e il richiamo pronunciato «davanti al Csm dal presidente Giorgio Napolitano» deve costituire per loro «un monito perché non ostacolino il rinnovamento, ma anzi si rinnovino essi stessi».

Alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario le toghe finiscono dunque sul banco degli imputati, quanto meno al pari della politica. Le parole di Santacroce sono nette, ancora di più quando parla delle «tensioni» e delle «cadute di stile» che si registrano soprattutto fra i pm. Non è da meno il pg di Cassazione Gianfranco Ciani, che una mezz’ora più tardi interviene a sua volta nell’aula magna del Palazzaccio romano e si scaglia contro quei pm «troppo deboli alle lusinghe della politica». Due relazioni (di cui riportiamo ampi stralci nelle due pagine successive, ndr) che lasciano almeno intravedere una svolta. I riferimenti dei due più alti magistrati della Suprema Corte alle mancanze dei colleghi, ai limiti e alle storture del Csm, al vizio del correntismo in toga, sono numerosissimi.

Si sentono stretti nella morsa. E reagiscono, scrive “Il Garantista”. Dopo le scudisciate della cerimonia in Cassazione, i magistrati delle Corti d’Appello di tutta Italia tentano di replicare ai massimi vertici della Suprema Corte. Venerdì il primo presidente Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani avevano parlato di toghe arroccate nel corporativismo, di pm cedevoli alle lusinghe dei media, di sacche d’inefficienza che il Csm spesso non riconosce.  Insomma l’avevano fatta nera. E così nel day after, cioè nella giornata di ieri dominata dalle cerimonie inaugurali nei singoli distretti giudiziari, si è sentito di tutto. Non su Santacroce e Ciani, ma contro l’altro polo del potere: la politica. Si va dalla riforma di Renzi giudicata «ben misera cosa» a Milano al presidente di Reggio Calabria Macrì secondo cui «l’assenza di iniziative legislative di vasta portata» farà affondare «la giustizia nella palude». E poi si contano gli anatemi contro la corruzione che soffoca Roma da parte del presidente capitolino Antonio Marini, il quadro apocalittico delle collusioni tra camorra e e malapolitica di Antonio Buonajuto a Napoli, e insomma una batteria di denunce che stavolta si spostano dai vizi di giudici e pm a quelli delle altre, corrotte istituzioni.

Da Torino è partita la bordata più pesante, scrive “La Stampa”. Il procuratore generale Marcello Maddalena usa l’arma del sarcasmo per affrontare uno dei temi più controversi del piano del governo: «Il presidente del Consiglio non ha trovato niente di meglio che ispirarsi al personaggio di Napoleone della Fattoria degli animali di orwelliana memoria, che aveva scoperto il grande rimedio per tutti i problemi della vita: far lavorare gli altri fino a farli crepare dalla fatica, come il cavallo Gondrano». 

Dottor Maddalena, perché questo affondo rivolto al presidente del Consiglio?  

«Adottare un decreto di quel tipo, ammissibile solo in casi di necessità e urgenza, significa additare un’intera categoria di fronte all’opinione pubblica considerandola responsabile del cattivo funzionamento della Giustizia. Sono convinto che ciascuno possa dare di più, ma in questo caso i contenuti sono discutibili. E il modo offende». 

Eppure aumentano i processi che cadono in prescrizione.  

«Appunto. In un panorama segnato da migliaia di processi finiti in prescrizione sostenere che i problemi da affrontare sono le ferie dei magistrati e la responsabilità civile mi pare difficilmente tollerabile». 

Durissimo affondo da Maurizio Carbone, segretario nazionale dell'Anm: "Respingiamo fortemente questa idea demagogica che il problema della giustizia siamo noi magistrati e non di chi intasca le tangenti". La proposta di riforma dell’Anm è quella sulla prescrizione. "Non ci possiamo più permettere una prescrizione, soprattutto per i reati di corruzione, che parta dal momento in cui si commette il fatto per tutti e tre i gradi di giudizio. Questo significa non avere una risposta di giustizia. Noi chiediamo - ha concluso Carbone - che i termini di prescrizione vengano sospesi con l’inizio del processo di primo grado o almeno dopo la sentenza di primo grado".

PER I MAGISTRATI IL CITTADINO DEVE ASPETTARE I LORO COMODI!!

Eppure, secondo lo studio fatto da Dimitri Buffa su “L’Opinione” i procedimenti prescritti sono dimezzati.

Prescrizioni penali rilevate in un decennio

2004: 219.146

2005: 189.588

2006: 159.703

2007: 164.115

2008: 154.671

2009: 158.335

2010: 141.851

2011: 128.891

2012: 113.057

2013: 123.078

Per Sabelli "il tema della responsabilità civile è sempre fondamentale ma - conclude - non può essere mortificato attraverso soluzioni che non tengono conto della giurisdizione e della compatibilità con il principio di indipendenza e autonomia dei magistrati". 

«Basta con lo strapotere delle correnti della magistratura - dice il Premier Matteo Renzi -Oggi di nuovo le contestazioni di alcuni magistrati che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il governo e mi dispiace molto perché penso che la grande maggioranza dei giudici italiani siano persone per bene, che dedicano la vita a un grande ideale e lo fanno con passione. Ma trovo ridicolo - e lo dico, senza giri di parole - che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia: “Il premier ci vuol far CREPARE di lavoro”. Noi vogliamo solo sentenze rapide, giuste. Vogliamo che i colpevoli di tangenti paghino davvero e finalmente con il carcere ma servono le sentenze, non le indiscrezioni sui giornali. L’Italia che è la patria del diritto prima che la patria delle ferie, merita un sistema migliore di giustizia. La memoria dei magistrati che sono morti uccisi dal terrorismo o dalla mafia ci impone di essere seri e rigorosi. A chi mi dice: ma sei matto a dire questa cose? Non hai paura delle vendette? Rispondo dicendo che in Italia nessun cittadino onesto deve avere paura dei magistrati».

Dopo il botta e risposta tra l’Associazione nazionale magistrati e il premier Matteo Renzi, una sferzata ai giudici e al loro protagonismo è arrivata anche da Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica, intervenuto al Consiglio superiore della magistratura, ha ribadito che politica e giustizia devono restare separati e che i giudici devo evitare comportamenti «impropriamente protagonistici».

«I Tribunali non sono proprietà dei giudici», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Vogliono rovinare la “festa”. Oggi sarebbe la giornata della giustizia, proclamata dall’Anm per protestare contro la riforma del ministro Orlando e in particolare contro il taglio delle ferie. I penalisti intervengono con una certa, brutale franchezza e mettono in discussione i dati che oggi i magistrati proporranno ai cittadini, per l’occasione liberi di entrare nei Palazzi di giustizia. Intanto, dice il presidente dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci, l’iniziativa del sindacato delle toghe è «la dimostrazione, come se ce ne fosse bisogno, di una concezione proprietaria della giustizia e dei luoghi in cui essa si celebra, da parte dei magistrati». I cittadini, dice, «non hanno bisogno di alcun invito per accedere al Tribunale, luogo sacro in cui si svolgono i processi in nome del popolo italiano». Dopodiché «i numeri forniti dall’Associazione magistrati rischiano di offrire una visione autoreferenziale e alterata della situazione in cui versa la giustizia italiana, nella quale si enfatizza la loro efficienza a tutto discapito di una realtà che ci vede fra i primi paesi in Europa per numero di condanne dalla Corte di Strasburgo». I numeri sono altri, secondo il presidente dei penalisti, «a cominciare dalla sostanziale inattuazione del sistema di controllo sulla responsabilità dei magistrati, dalle frequentissime sentenze di riforma dei giudizi di primo grado, per passare al cospicuo importo dei risarcimenti che lo Stato è costretto ogni anno a pagare per indennizzare le vittime degli errori giudiziari, all’inevitabile ricorso, da parte della magistratura togata, all’ausilio di magistrati onorari, il cui apporto è determinante per il raggiungimento di quegli obiettivi di produttività che la Anm enfatizza». Su una delle “contro-statistiche” proposte da Migliucci interviene anche il cahier de doleance del viceministro della Giustizia Enrico Costa, che dà notizia del boom di risarcimenti per ingiusta detenzione ed errori giudiziari pagati dallo Stato nel 2014. «L’incremento rispetto all’anno precedente è del 41,3%: 995 domande liquidate per un totale di 35 milioni e 255mila euro». Dal 1992, osserva Costa, «l’ammontare delle riparazioni raggiunge così i 580 milioni: sono numeri che devono far riflettere, si tratta di persone che si sono viste private della libertà personale ingiustamente e per le quali lo Stato ha riconosciuto l’errore. Dietro c’è una storia personale, ci sono trepidazioni, ansie, che un assegno, anche di migliaia di euro, non può cancellare». Le contromisure di Parlamento e governo sono note: da una parte la legge sulla custodia cautelare, che naviga ancora in acque incerte, dall’altra quella sulla responsabilità civile dei giudici, prossima all’approvazione della Camera. Sui problemi più generali del processo penale è ora all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio l’atteso ddl del governo, che si accoda al testo base adottato proprio ieri dai deputati sulla prescrizione. «Sono soddisfatta, abbiamo avviato tutti e due i provvedimenti, coerenti tra loro», dice la presidente Donatella Ferranti. Su un altro capitolo della riforma, la soppressione di alcuni Tribunali, arriva dalla Consulta la bocciatura del referendum con cui alcune regioni avevano impugnato le chiusure. Tra queste, c’erano anche le sedi delle zone terremotate dell’Abruzzo.

Eppure c’è ancora un’altra verità che si tace nella liturgia laica giudiziaria.

Sono Procure o nidi di vipere? Si chiede Piero Sansonetti su “Il Garantista”. In un giorno solo tre casi che dovrebbero scuotere la credibilità della magistratura (ma in Italia è difficile scuoterla…). Il più clamoroso è l’atto di accusa dell’architetto Sarno, che è il testimone chiave del processo contro l’ex presidente della Provincia Filippo Penati (Pd). Sarno ha dichiarato: «Lo ho accusato, ingiustamente, perché la Procura mi ha fatto capire che se non lo accusavo non uscivo più di cella». Il secondo caso viene dalla Calabria: una Pm (la dottoressa Ronchi) accusata di abuso di ufficio e falso ideologico per avere provato a incastrare un collega (Alberto Cisterna, all’epoca numero due dell’antimafia nazionale). Il terzo caso è quello del sostituto Procuratore di Milano, Robledo, intercettato (abusivamente?) e affondato giornali se ne occupano poco di queste cose, cioè delle lotte di potere, violentissime, che scuotono la magistratura italiana e lasciano molte vittime sul terreno. Se ne occupano poco non perché le notizie non abbiano un buon interesse giornalistico, semplicemente perché il patto tra giornali e magistratura, che vige da molti anni, ha creato un sistema di assoluta omertà. Vediamo: un sindaco indagato per abuso di ufficio fa un bello scandalo, e sulla base delle leggi vigenti – se condannato in primo grado – porta pressoché automaticamente alla rimozione del sindaco stesso e a elezioni anticipate. 

I capi della Cassazione sgridano (un po’) i Pm, scrive Errico Novi su  “Il Garantista”. C’è un passaggio della solenne cerimonia che traccia un bilancio crudo, amaro. Giorgio Santacroce, primo presidente della Cassazione, parla a un certo punto di «parabola discendente». Si riferisce ai suoi colleghi magistrati. E se pure parte dalla «campagna irresponsabile di discredito» condotta «per anni» contro le toghe, e dà così la colpa anche alla politica, poi fa una diagnosi assai brutale: siamo davanti a «una situazione di crescente disaffezione verso la magistratura, dopo l’alto consenso dei tempi di Mani pulite è iniziata», appunto, «una parabola discendente».soprattutto, «i magistrati appaiono, anche quando non lo sono, conservatori dell’esistente e portatori di interessi corporativi». Di più: devono superare i loro «arroccamenti », e il richiamo pronunciato «davanti al Csm dal presidente Giorgio Napolitano» deve costituire per loro «un monito perché non ostacolino il rinnovamento, ma anzi si rinnovino essi stessi». Alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario le toghe finiscono dunque sul banco degli imputati, quanto meno al pari della politica. Le parole di Santacroce sono nette, ancora di più quando parla delle «tensioni» e delle «cadute di stile» che si registrano soprattutto fra i pm. Non è da meno il pg di Cassazione Gianfranco Ciani, che una mezz’ora più tardi interviene a sua volta nell’aula magna del Palazzaccio romano e si scaglia contro quei pm «troppo deboli alle lusinghe della politica». Due relazioni (di cui riportiamo ampi stralci nelle due pagine successive, ndr) che lasciano almeno intravedere una svolta. I riferimenti dei due più alti magistrati della Suprema Corte alle mancanze dei colleghi, ai limiti e alle storture del Csm, al vizio del correntismo in toga, sono numerosissimi. Più che in altre occasioni l’inaugurazione dell’anno giudiziario vede la magistratura indicata tra le componenti responsabili della crisi della giustizia. Alla fine, mentre il primo presidente Santacroce e il pg Ciani sono piuttosto severi con i colleghi, deve provvedere il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, che è un politico e non un giudice, a una difesa d’ufficio delle toghe. Dice che «una magistratura compressa dalle inefficienze del sistema, suo malgrado non viene percepita come autorevole». Certo, dopo di lui, e su bito prima di Ciani, ci prova anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando a sussurrare qualche parola dolce. Oltre a definire i giudici «protagonisti del cambiamento» promette loro una mano un po’ più delicata sulla spinosa questione dei pensionamenti: «Il governo si riserva un’ulteriore riflessione sull’applicazione della nuova disciplina» che abbassa a 70 anni l’età pensionabile dei magistrati, spiega il Guardasigilli. Ma cambia poco. Continuerà a percepirsi assai più l’eco delle parole di Ciani a proposito della «magistratura requirente» che «nell’anno appena decorso», in taluni dei suoi appartenenti, ha dimostrato «un eccesso di debolezza nei confronti delle lusinghe dell’immagine, della popolarità, e soprattutto della politica ». E qui per giunta arriva un’altra stoccatina allo stesso Csm: sulla questione, dice ancora il procuratore generale della Cassazione, «è necessario un tempestivo intervento del legislatore per una più adeguata regolamentazione della materia: quella secondaria del Consiglio superiore si è rivelata insufficiente». Viceversa sia il pg che il primo presidente Santacroce promuovono seppur con riserva la riforma di Orlando. Plaudono soprattutto ad alcuni degli interventi sul civile, in particolare alla negoziazione assistita che dovrebbe aiutare ad alleggerire il carico dei tribunali. Un motivo di sollievo, per il ministro della Giustizia, in una fase in cui sul suo ruolo si allunga l’ombra di Nicola Gratteri, che pochi giorni fa ha annunciato la ”sua” riforma del processo penale. Ma l’altro tema forte nel Palazzo di giustizia capitolino è quello delle carceri, e della condizione dei detenuti in particolare. «C’è ancora molto da fare», avverte Santacroce, «le misure prese vanno senz’altro nella direzione giusta ma non sono risolutive. Anche se il numero dei detenuti tende a diminuire, l’emergenza sovraffollamento, suicidi e tensioni nelle strutture penitenziarie non è ancora rientrata e non può protrarsi ulteriormente». Bisogna assicurare, ricorda il primo presidente della Suprema Corte, «il rispetto della dignità della persona nella fase dell’esecuzione della pena: le carceri sono lo specchio della civiltà di un Paese, sono la carta di identità dello Stato costituzionale di diritto. Se è legittimo toglier a un uomo la libertà, non è legittimo togliergli la dignità». Persino qui non mancano critiche alla magistratura: «Il problema dell’eccesso di carcerazione chiama in causa anche i giudici, che non possono limitarsi a sollecitare sempre e comunque l’intervento della politica e del legislatore », avverte Santacroce, «è necessario che assumano anche su di loro la responsabilità di rendere effettivo il principio del minimo sacrificio possibile, che deve governare ogni intervento, specie giurisdizionale, in tema di libertà personale». Un passaggio che riscuote il plauso dell’associazione Antigone («Santacroce ha totalmente ragione, anche sull’illegittimità della pena per chi non se l’è ancora vista rideterminare dopo la bocciatura della Fini-Giovanardi da parte della Consulta») e dell’Unione Camere penali. «Siamo d’accordo sulla visione delle sanzioni penali e del carcere come extrema ratio» e sul «richiamo ad approvare il reato di tortura», dice il presidente Beniamino Migliucci. Una svolta c’è. Almeno sui limiti della magistratura e sul tema delle carceri. E un po’ di merito, su questo, a Napolitano andrà dato.

«Quella riforma mai». Lo stop dei magistrati, scrive “Il Garantista”. Si sentono stretti nella morsa. E reagiscono. Dopo le scudisciate della cerimonia in Cassazione, i magistrati delle Corti d’Appello di tutta Italia tentano di replicare ai massimi vertici della Suprema Corte. Venerdì il primo presidente Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani avevano parlato di toghe arroccate nel corporativismo, di pm cedevoli alle lusinghe dei media, di sacche d’inefficienza che il Csm spesso non riconosce.  Insomma l’avevano fatta nera. E così nel day after, cioè nella giornata di ieri dominata dalle cerimonie inaugurali nei singoli distretti giudiziari, si è sentito di tutto. Non su Santacroce e Ciani, ma contro l’altro polo del potere: la politica. Si va dalla riforma di Renzi giudicata «ben misera cosa» a Milano al presidente di Reggio Calabria Macrì secondo cui «l’assenza di iniziative legislative di vasta portata» farà affondare «la giustizia nella palude». E poi si contano gli anatemi contro la corruzione che soffoca Roma da parte del presidente capitolino Antonio Marini, il quadro apocalittico delle collusioni tra camorra e e malapolitica di Antonio Buonajuto a Napoli, e insomma una batteria di denunce che stavolta si spostano dai vizi di giudici e pm a quelli delle altre, corrotte istituzioni. Palermo, le scorte e i giudici scoperti. Prevedibile. Ma non privo di incidenti. C’è n’è uno spiacevole a Palermo, dove il procuratore generale facente funzioni Ivan Marino esclama «pausa caffè», s’incammina sul tappeto rosso, inciampa, batte la testa e riprende la cerimonia con un cerottone sul volto. Dopodiché, nella sua relazione, si concede un passaggio destinato ad alimentare polemiche. Alla sala gremita in cui spicca l’assenza dei pm della “Trattativa” (marcano visita tutti, dall’aggiunto Vittorio Teresi ai pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia) Marino dice: «Non si può sottacere che la indubitabile, contingente e pericolosissima esposizione a rischio in determinati processi di taluno dei magistrati della requirente», ovvero Di Matteo, «con conseguente adozione di dispositivi di protezione mai visti prima, finisca per isolare e scoprire sempre di più i magistrati della giudicante titolari degli stessi processi». Come a dire: per proteggerne uno, particolarmente in vista, lasciano alla mer-cè di ritorsioni e proiettili noialtri. Obiezioni che ricordano tanto quelle rivolte a Giovanni Falcone venticinque anni fa. E’ proprio d’altronde Marino a dirlo: «Si sta verificando la stessa identica situazione degli anni ’80, allorché la protezione era garantita per lo più, se non esclusivamente, ai magistrati facenti parte dei pool antimafia dell’ufficio Istruzione e della Procura della Repubblica, con indifferenza verso la situazione della giudicante». «Il problema non siamo noi» Si avverte un certo nervosismo, tra le toghe. Contro quelle palermitane arriva la stoccata del presidente della corte d’Appello di Milano Giovanni Canzio, secondo il quale «la dura prova dell’audizione al Quirinale » poteva essere risparmiata «al Capo dello stato, alla magistratura e alla Repubblica» (un ampio estratto della relazione di Canzio è pubblicato nella pagina a fianco, ndr). Ma a dare l’dea della sindrome da accerchiamento di giudici e pm sono soprattutto le polemiche montate dall’Associazione magistrati. Il sindacato delle toghe organizza conferenze stampa per criticare la riforma della Giustizia. A Milano con il segretario Rodolfo Sabelli e a Bari con il presidente Maurizio Carbone, che sbotta: «Respingiamo fortemente questa idea demagogica secondo cui il problema della giustizia siamo noi magistrati e non chi intasca le tangenti». E ancora: «Vediamo riforme banalizzate con slogan, che ci mettono al centro del problema attribuendoci colpe che non sono nostre per nascondere l’inadeguatezza di queste riforme». A Milano si registrano anche le critiche durissime dell’avvocato generale Laura Bertolè Viale, indirizzate a Renzi e anche al nemico storico, Silvio Berlusconi: intanto liquida le riforme come un «pacchetto» che è «ben misera cosa rispetto a i progetti elaborati prima: non poche norme peccano di distonia, cioè sono irragionevoli ». Prima fra tutte la cosiddetta salva-Berlusconi che non rispetterebbe «quei criteri di progressività in materia tributaria sanciti dalla stessa Costituzione. Inoltre da questo pacchetto è stato escluso il reato di falso in bilancio». In realtà è stato da poco riproposto al Senato nel ddl Grasso. In sala, il viceministro Costa appare perplesso. Sempre nel Palazzo di Giustizia del capoluogo lombardo si assiste alla sfilata del procuratore capo Bruti Liberati con tutti i suoi aggiunti, escluso Robledo che non si fa vedere. Nel coro di rivendicazioni e critiche ce n’è qualcuna non scontata come quella del pg di Torino Marcello Maddalena, che boccia l’idea di una «nuova Procura nazionale antiterrorismo». Il presidente della Corte d’Appello di Roma Marini accenna a una generica commistione tra malavita e ultras, con il ripescaggio del caso di Genny ’a carogna. Lo dice in un’aula disertata dalla Camera penale: «L’inaugurazione dell’anno giudiziario, ancor più nelle sedi locali, è un rito anacronistico, asimmetrico e vuoto», dice il presidente Francesco Tagliaferri. Vuoto o meno che sia, di sicuro c’è molto nervosismo.

Giustizia, scontro aperto tra Renzi e i magistrati, scrive “La Stampa”. Il pg di Torino Maddalena: vuole farci crepare di fatica. Il premier: «Polemiche ridicole, quelle toghe hanno perso il contatto con gli italiani che lavorano». Scontro rovente tra i magistrati e Matteo Renzi nella settimana già calda del Quirinale. Dimenticati i fasti della Merkel, il premier è stato improvvisamente riportato alle vicende di casa nostra dai molteplici attacchi piovuti dai magistrati durante l’inaugurazione 2015 dell’anno giudiziario. Da Torino è partita la bordata più pesante. Il procuratore generale Marcello Maddalena usa l’arma del sarcasmo per affrontare uno dei temi più controversi del piano del governo: «Il presidente del Consiglio non ha trovato niente di meglio che ispirarsi al personaggio di Napoleone della Fattoria degli animali di orwelliana memoria, che aveva scoperto il grande rimedio per tutti i problemi della vita: far lavorare gli altri fino a farli crepare dalla fatica, come il cavallo Gondrano». Parole feroci. Renzi, dopo averle lette, in serata si è rivolto amareggiato ai suoi più stretti collaboratori: «Accusarci di voler far “crepare” i magistrati per una settimana di ferie in meno significa che hanno un disegno o più semplicemente che hanno perso il contatto con gli italiani che lavorano». E oggi su Facebook rincara la dose: «Sono contestazioni ridicole. Non vogliamo far “crepare di lavoro” nessuno, ma vogliamo un sistema della giustizia più veloce e più semplice. E, polemiche o non polemiche, passo dopo passo, ci arriveremo». «Bisogna valorizzare i giudici bravi, dicendo basta allo strapotere delle correnti che oggi sono più forti in magistratura che non nei partiti», rilancia Renzi. Stop quindi ai magistrati «che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il Governo». «E mi dispiace molto - aggiunge il premier - perché penso che la grande maggioranza dei giudici italiani siano persone per bene, che dedicano la vita a un grande ideale e lo fanno con passione. Ma trovo ridicolo che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia: “Il premier ci vuol far crepare di lavoro”».  Facile prevedere strascichi. Anche perché le critiche piovute dai magistrati durante le cerimonie che si sono svolte in tutta Italia investono svariati aspetti della riforma del governo. A Milano, Laura Bertolè Viale, avvocato generale dello Stato, si scaglia contro il decreto fiscale e la clausola di non punibilità: «Chiamata giornalisticamente anche “licenza a delinquere”, introduce una clausola espressa in termini solo percentuali che crea una sostanziale differenza di trattamento tra i contribuenti di minori e maggiori dimensioni». A Bari, Maurizio Carbone, segretario nazionale dell’Anm, è molto critico per la storia delle ferie tagliate: «Respingiamo questa idea demagogica che il problema della giustizia siamo noi magistrati e non di chi intasca le tangenti». A Bologna, il presidente della Corte di Appello, Giuliano Lucentini, parla del pericolo che l’Italia corre se i suoi giudici sono delegittimati: «Pensavo, finito un certo periodo, che le cose potessero cambiare». Il riferimento è ovviamente a Berlusconi. E proprio il sostanziale parallelismo sulla questione giustizia rischia di rinvigorirei critici del premier. 

“Quello di Renzi è un attacco alla categoria, piuttosto agisca per limitare le prescrizioni”. Intervista di Andrea Rossi su  “La Stampa” al procuratore generale di Torino dopo le polemiche all’inaugurazione dell’anno giudiziario.

Dottor Maddalena, perché questo affondo rivolto al presidente del Consiglio?

«Adottare un decreto di quel tipo, ammissibile solo in casi di necessità e urgenza, significa additare un’intera categoria di fronte all’opinione pubblica considerandola responsabile del cattivo funzionamento della Giustizia. Sono convinto che ciascuno possa dare di più, ma in questo caso i contenuti sono discutibili. E il modo offende».

Al di là dei modi, esiste un problema di produttività?

«Le faccio un esempio. La Corte d’Appello di Torino nel 2014 ha esaurito 5735 provvedimenti contro i 4490 del 2013». 

Eppure aumentano i processi che cadono in prescrizione.

«Appunto. In un panorama segnato da migliaia di processi finiti in prescrizione sostenere che i problemi da affrontare sono le ferie dei magistrati e la responsabilità civile mi pare difficilmente tollerabile».

È questa - la prescrizione - la vera emergenza dunque?

«L’amministrazione della giustizia non può permettersi di lavorare a vuoto, a maggior ragione quando la prescrizione interviene durante l’appello: significa che nelle fasi precedenti giudici, pubblici ministeri, gip, gup e tutto il personale amministrativo hanno lavorato per niente, svolgendo inconsapevolmente il ruolo di Penelope, con la differenza che Penelope lo faceva apposta». 

Esistono soluzioni in grado di arginare il problema?

«I rimedi non mancano: assegnare ai procedimenti criteri di priorità, archiviare i casi minimali e soprattutto, ovviamente, modificare la prescrizione».

Come?  

«Suggerisco due ipotesi. Far decorrere la prescrizione dal momento dell’iscrizione nel registro degli indagati, perché è in quel frangente che scatta l’interesse della persona (e dello Stato) a risolvere al più presto la sua posizione. In secondo luogo, interrompere la prescrizione dopo la sentenza di condanna di primo grado. In questo modo, tra l’altro, si scoraggerebbero molti imputati dal fare ricorso con la sola speranza di dilatare i tempi per arrivare alla prescrizione».

Il rito stantìo dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, scrive Dimitri Buffa su “L’Opinione”.

Prescrizioni penali rilevate in un decennio. 

2004: 219.146

2005: 189.588

2006: 159.703

2007: 164.115

2008: 154.671

2009: 158.335

2010: 141.851

2011: 128.891

2012: 113.057

2013: 123.078

La magistratura dopo Mani pulite ha iniziato “una parabola discendente”, con la “disaffezione” dei cittadini per le “credenziali mortificanti” che esibisce, come i processi lumaca e il degrado delle carceri, ma a questa crisi di fiducia concorrono anche le “frequenti tensioni e polemiche” soprattutto tra pubblici ministeri con “forme di protagonismo, cadute di stile e improprie esposizioni mediatiche”. Giorgio Santacroce, primo presidente della Corte di Cassazione, e umana dimostrazione di come con la Legge Breganze - che fa avanzare automaticamente le carriere dei magistrati - anche un pm che negli anni Settanta non era noto alle cronache per l’iperattivismo giudiziario (fu requirente nello scandalo Italcasse che grosso modo finì tutto a tarallucci e vino, tranne modeste condanne a Giuseppe Arcaini e soci nel 1989) possa arrivare ai vertici della magistratura, ce l’ha messa tutta per colorire la propria relazione di inizio anno giudiziario tenutasi a Roma nella mattinata di ieri nella consueta aula magna del “Palazzaccio”. Ma certo non ha sottolineato quei dati, come quelli sulle prescrizioni forniti un mese fa dal vice ministro Enrico Costa senza dire niente a nessuno nel governo, che dimostrano come la lentezza dei processi penali e il fatto che un milione e mezzo di loro finiscano in vacca ogni dieci anni è al 74 per cento imputabile al non lavoro dei pm e dei gip, non certo alla “melina” degli avvocati. Così come Santacroce non ha di certo rievocato i dati scoperti dal sito errorigiudiziari.com di Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi che parlano mai smentiti di un dossier nascosto sugli errori giudiziari in Italia dal 1989 al 2013: 50mila in 25 anni, pari a duemila l’anno. Una percentuale da Terzo Mondo. Sempre ascrivibile agli errori di pm e gip che aprono inchieste su qualsiasi cosa si muova sulla terra ma spesso con risultati disastrosi. Certo, è difficile chiedere all’“oste” di smentire la qualità del vino. E i magistrati ormai sono definiti persino nei saggi dei giornalisti de “L’Espresso” come Stefano Livadiotti come l’“ultra casta”. Ma oramai che il re in toga sia nudo è sotto gli occhi di tutti. I dati di Costa ad esempio sono disarmanti: “Su poco più di un milione e mezzo di casi in dieci anni... i numeri indicano che nell’ultimo decennio i decreti di archiviazione per prescrizione emessi dai gip sono stati 1.134.259: il 73 per cento del totale. A questi si aggiungono le 63.892 sentenze di avvenuta prescrizione emesse dai Gup. La quota restante è spalmata tra Tribunali (209.576), Corti d’appello (131.856), Cassazione (3.293) e Giudici di pace (9.559)”. Se questi dati nelle inaugurazioni degli anni giudiziari vengono tenuti quasi nascosti, o con poco rilievo, ogni dibattito sulla giustizia parte male in termini di onestà intellettuale. Questo grazie anche ai giornalisti che militano nel partito della forca: il convegno in cui Costa distribuì anche la tabella dei dati ministeriali in questione, sebbene trasmesso da Radio radicale, è stato bellamente ignorato dai quotidiani cartacei e anche on-line ha avuto un rilievo pari a zero. Proprio Costa in quell’occasione disse che “oltre il 70% delle prescrizioni si determina in fase di indagini preliminari. Un’anomalia che non può essere ricondotta ad azioni dilatorie della difesa, ma spesso è legata a un dribbling non dichiarato dell’obbligatorietà dell’azione penale che si traduce in una selezione dei casi da prendere in carico”. Parole che ieri non si sono sentite da parte di Santacroce, che ormai aspetta solo di andare in pensione con il massimo dell’anzianità prevista (ex Legge Breganze di cui sopra). Chi oggi vorrebbe abolire l’appello o allungare a dismisura i termini della prescrizione con quale buona fede chiede queste misure e ignora i dati di via Arenula? Va detto che già nel 2007 una ricerca dell’Eurispes commissionata sempre dalle Camere penali allora presiedute da Giuseppe Frigo (la ricerca fu condotta sotto la supervisione di Valerio Spigarelli che poi sarebbe succeduto a Frigo in quella carica) aveva avuto analoghi risultati. Stesso discorso sugli errori giudiziari strettamente legati alla vexata quaestio della mancata responsabilizzazione civile per colpa grave dei magistrati. Sapere che ci sono 2mila errori giudiziari l’anno, che diviso per 365 giorni è come dire che ogni 24 ore sei persone finiscono in carcere innocenti, lascia del tutto indifferenti Anm e quotidiani nazionali che vendono al volgo che i veri problemi dell’Italia sono “la corruzione e l’evasione fiscale”. E che invocano sceriffi e leggi speciali per qualunque cosa e con qualsivoglia pretesto. Con questo dialogo tra sordi che ormai continua da almeno vent’anni quel che è chiaro è che il Paese che ritiene di essere la culla del diritto oggi come oggi rischia di diventarne la bara. E all’estero questo problema viene visto in un’ottica meno moralista e più pragmatica. Cosa che spiega gli investimenti con il contagocce delle imprese straniere in Italia. Più che paura della corruzione c’è il terrore di finire in qualche tritacarne mediatico giudiziario con un pm di provincia in cerca di notorietà per fare carriera. Allora sì che son dolori...

Nuovo anno giudiziario. L'Anm la butta in rissa contro i politici corrotti. IL segretario Anm: "Respingiamo tesi che il problema della giustizia siamo noi magistrati e non di chi intasca le tangenti". Il ministro Orlando: "La giustizia inefficiente rallenta la crescita", scrive Raffaello Binelli su “Il Giornale”. Come ogni anno l'inaugurazione dell'anno giudiziario fornisce uno spaccato sullo stato di salute della giustizia in Italia. "La crisi sociale e l’indebolimento della struttura statale - afferma il ministro della Giustizia Andrea Orlando - rende quest’ultima sempre più fragile di fronte agli interessi particolari che la condizionano e ai poteri illegali che la insidiano. In un Paese come il nostro - ha proseguito Orlando - caratterizzato dalla storica presenza di potenti organizzazioni criminali, la prostrazione dei corpi intermedi e delle istituzioni apre spazi crescenti ai fenomeni criminali in ambito economico, sociale e politico". Orlando ha poi sottolineato che "questi poteri in termini assoluti, non sono più forti di prima, ma piuttosto è più debole l’organismo che attaccano. La criminalità organizzata - ha detto - non ha più le forme tradizionali e la tradizionale collocazione geografica circoscritta ad alcune regioni del sud Italia. Si è espansa, ha cambiato forme e metodi mimetizzandosi nei contesti in cui si sviluppa. Si confonde e si sovrappone alle reti collusive che avvolgono le pubbliche amministrazioni". Durissimo affondo da Maurizio Carbone, segretario nazionale dell'Anm: "Respingiamo fortemente questa idea demagogica che il problema della giustizia siamo noi magistrati e non di chi intasca le tangenti", ha detto a margine della cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario a Bari. In una conferenza stampa convocata nell’ambito della mobilitazione permanente contro la riforma della giustizia che prevede la responsabilità civile dei magistrati, Carbone ha parlato di «riforme banalizzate con slogan che ancora una volta hanno messo al centro del problema noi magistrati, attribuendoci colpe che non sono nostre per nascondere l’inadeguatezza di queste riforme». I magistrati esprimono "assoluta insoddisfazione". "Le risposte noi con le sentenze e con le indagini le stiamo dando - ha continuato Carbone - siamo primi in Europa per produttività nel settore nella giustizia penale e secondi per smaltimento di cause civili, ma abbiamo il dovere di dire che alcune riforme non sono all’altezza della situazione". La proposta di riforma dell’Anm è quella sulla prescrizione. "Non ci possiamo più permettere una prescrizione, soprattutto per i reati di corruzione, che parta dal momento in cui si commette il fatto per tutti e tre i gradi di giudizio. Questo significa non avere una risposta di giustizia. Noi chiediamo - ha concluso Carbone - che i termini di prescrizione vengano sospesi con l’inizio del processo di primo grado o almeno dopo la sentenza di primo grado". E da Milano il presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli, rincara la dose: "Siamo i primi a volere le riforme ma ci vuole coerenza, agli annunci devono corrispondere i fatti". Sabelli non esita a sottolineare come "il dibattito sulla giustizia è ancora troppo pieno di pregiudizi". I magistrati "non si chiudono in una forma corporativa e non rifuggono dal principio di responsabilità ma l’approccio del governo non è stato sufficientemente meditato". Se il testo sulla responsabilità civile "è stato purificato da aspetti che avrebbero leso il principio di indipendenza della magistratura", restano ancora degli aspetti di "un approccio non attento", in particolare contro "l’eliminazione del filtro di ammissibilità e l’introduzione della categoria del travisamento del fatto e delle prove". Per Sabelli "il tema della responsabilità civile è sempre fondamentale ma - conclude - non può essere mortificato attraverso soluzioni che non tengono conto della giurisdizione e della compatibilità con il principio di indipendenza e autonomia dei magistrati". ll procuratore generale presso la Corte d’Appello di Torino, Marcello Maddalena, si sofferma sulle misure anti-terrorismo di cui si parla da giorni, dopo gli attentati di Parigi. "Più lo Stato possiede dati certi meglio è. Parlo anche di quelli relativi al Dna e alle impronte digitali". E prosegue: "Se questi dati li posseggo correttamente, non capisco perché non li possa utilizzare. Invocare la privacy mi pare del tutto fuori luogo in generale, invocarla poi in questo momento mi sembra privo di ogni ragionevolezza e di ogni senso dello Stato". Il presidente della Corte d’Appello di Milano, Giovanni Canzio, dedica un ampio capitolo del suo intervento alla penetrazione della ’ndrangheta in Lombardia, sottolineando come vi sia, da parte della mafia una "interazione-occupazione". "La forma di penetrazione e la veloce diffusione del potere della ’ndrangheta all’interno dei diversi gangli della società lombarda - ha detto Canzio - può paragonarsi all’opera distruttiva delle metastasi di un cancro". Quanto all'Expo Canzio osserva che lo Stato è vigile. "Nel distretto milanese e in vista di Expo 2015, lo Stato è presente e contrasta con tutte le istituzioni l’urto sopraffattorio della criminalità mafiosa, garantendo - nonostante la denunciata carenza di risorse nel settore giudiziario - la legalità dell’agire e del vivere civile con coerenza e rigore".  Ma l’esercizio della giurisdizione, prosegue Canzio, "non può essere frutto di accelerazioni o improvvisazioni, dettate, di volta in volta, da frammentarie emergenze, senza una chiara visione dei diritti e degli interessi in gioco". Poi denuncia il rischio che "dal pensiero corto alla sentenza tweet o al verdetto immotivato il passo è breve. Ma - si chiede- che ne resterebbe della cultura democratica della giurisdizione?". A margine dell'inaugurazione Canzio commenta la notizia dello smarrimento e danneggiamento dei faldoni degli atti di alcuni processi che la Corte d’Appello ha spedito via posta nell’ultimo mese alla Cassazione (atti che, secondo quanto riporta oggi il Corriere della Sera, non sono mai arrivati a Roma): "Si tratta di un fatto indegno di uno Stato moderno, che non deve succedere". Il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, sottolinea che "mentre sul fronte della normativa antimafia si prevedono provvidenze e sostegni economici per gli imprenditori che denunciano gli estorsori mafiosi rompendo il vincolo di omertà, all’opposto sul fronte della corruzione si minacciano sanzioni penali a chi denuncia gli estorsori in guanti gialli, rafforzando così il vincolo di omertà. Neanche l’incessante susseguirsi di scandali nazionali attestante il dilagare irrefrenabile della corruzione - dice - sembra a tutt’oggi sufficiente per una riforma legislativa di svolta che incida sui nodi cruciali per restituire efficacia dissuasiva all’azione repressiva". Nella sua relazione il procuratore generale della Corte d’appello di Roma, Antonio Marini, evidenzia che "i procedimenti di prostituzione minorile sono stati ben 190 a fronte dei 35 iscritti nel precedente anno giudiziario, quindi si deve prendere atto di un incremento nelle nuove notizie di reato del 442%". Violenze sessuali, maltrattamenti contro familiari e conviventi, atti persecutori (stalking). Nel distretto di Roma e Lazio, nel periodo che va dal primo luglio 2013 al 30 giugno 2014, si è registrato un vero e proprio "boom" di reati contro la libertà sessuale.  Per Marini da tempo diversi gruppi criminali hanno scelto Roma e il Lazio per poter mettere in piedi i loro affari, sfruttando così la vastità del territorio, la presenza di tantissimi esercizi commerciali, attività imprenditoriali, società finanziarie e di intermediazione e immobili. Ed evitano di farsi la guerra per non dare nell’occhio. Nella relazione del procuratore generale c’è un lungo capitolo dedicato ai "gruppi criminali, compresi quelli dediti al narcotraffico», nel mirino dei magistrati della Dda. "Dalle indagini - ha evidenziato Marini - emerge che c’è un patto esplicito per evitare che questi contrasti, che pure ci sono, degenerino in atti criminali eclatanti che rischierebbero di attirare l’attenzione degli inquirenti e dei media. Meglio trovare un compromesso e continuare a fare affari".

Renzi replica ai magistrati: "Italia patria del diritto, non delle ferie". Su Facebook parole dure del premier dopo le inaugurazioni (e le polemiche) dell'anno giudiziario. Risposta a Maddalena: sulle vacanze critiche ridicole, scrive “La Repubblica”. L'Italia "che è la patria del diritto prima che la patria delle ferie, merita un sistema migliore. La memoria dei magistrati che sono morti uccisi dal terrorismo o dalla mafia ci impone di essere seri e rigorosi. Non vogliamo far 'crepare di lavoro' nessuno, ma vogliamo un sistema della giustizia più veloce e più semplice. E, polemiche o non polemiche, passo dopo passo, ci arriveremo". E' dura la replica di Matteo Renzi alle polemiche sollevate ieri durante le inaugurazioni dell'anno giudiziario. In particolare in risposta alle parole del procuratore generale di Torino Maddalena. Sono "ridicole" le "contestazioni" di alcuni magistrati contro il taglio delle ferie, dice Renzi su Facebook. Che poi lancia un altro affondo:  "Bisogna anche valorizzare i giudici bravi, dicendo basta allo strapotere delle correnti che oggi sono più forti in magistratura che non nei partiti". "Oggi di nuovo le contestazioni di alcuni magistrati che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il Governo. E mi dispiace molto perchè penso che la grande maggioranza dei giudici italiani siano persone per bene, che dedicano la vita a un grande ideale e lo fanno con passione. Ma trovo ridicolo, e lo dico, senza giri di parole, che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia il premier ci vuol far crepare di lavoro". "Noi - chiarisce Renzi - vogliamo solo sentenze rapide, giuste. Un Paese civile deve avere una sistema veloce, giusto, imparziale. Per arrivare rapidamente a sentenza, bisogna semplificare, accelerare, eliminare inutili passaggi burocratici, andare come stiamo facendo noi sul processo telematico, così nessuno perde più i faldoni del procedimento come accaduto anche la settimana scorsa". "Bisogna anche valorizzare i giudici bravi, dicendo basta - torna a dire - allo strapotere delle correnti che oggi - accusa - sono più forti in magistratura che non nei partiti". "A chi mi dice 'ma sei matto a dire questa cose? non hai paura delle vendette?' rispondo dicendo che in Italia nessun cittadino onesto deve avere paura dei magistrati. E i nostri giudici devono sapere che il Governo, nel rispetto dell'indipendenza della magistratura, è pronto a dare una mano. Noi ci siamo. L'Italia che è la patria del diritto prima che - rimarca - la patria delle ferie, merita un sistema migliore. La memoria dei magistrati che sono morti uccisi dal terrorismo o dalla mafia ci impone di essere seri e rigorosi. Non vogliamo far crepare di lavoro nessuno, ma - puntualizza Renzi - vogliamo un sistema della giustizia più veloce e più semplice. E, polemiche o non polemiche, passo dopo passo, ci arriveremo".

Renzi: «Basta con lo strapotere delle correnti della magistratura». Il premier replica alle toghe: «Oggi di nuovo le contestazioni di alcuni magistrati che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il governo», “il Corriere della Sera”. «Basta con lo strapotere delle correnti della magistratura». Non usa mezzi termini il premier Matteo Renzi e attacca duramente i magistrati che a loro volta, come nel caso di Torino, avevano contestato alcuni presunti provvedimenti del governo nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. «Bisogna valorizzare i giudici bravi, dicendo basta allo strapotere delle correnti che oggi sono più forti in magistratura che non nei partiti» spiega Renzi su Facebook. «Oggi di nuovo le contestazioni di alcuni magistrati che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il governo» scrive ancora Renzi sul celebre social network. «E mi dispiace molto perché penso che la grande maggioranza dei giudici italiani siano persone per bene, che dedicano la vita a un grande ideale e lo fanno con passione. Ma trovo ridicolo - e lo dico, senza giri di parole - che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia: “Il premier ci vuol far CREPARE di lavoro”». «Noi vogliamo solo sentenze rapide, giuste. Vogliamo che i colpevoli di tangenti paghino davvero e finalmente con il carcere ma servono le sentenze, non le indiscrezioni sui giornali», sottolinea Renzi. «L’Italia che è la patria del diritto prima che la patria delle ferie, merita un sistema migliore di giustizia. La memoria dei magistrati che sono morti uccisi dal terrorismo o dalla mafia ci impone di essere seri e rigorosi», sottolinea ancora il premier. «A chi mi dice: ma sei matto a dire questa cose? Non hai paura delle vendette? Rispondo dicendo che in Italia nessun cittadino onesto deve avere paura dei magistrati. E i nostri giudici - aggiunge ancora su Facebook - devono sapere che il Governo (nel rispetto dell’indipendenza della magistratura) è pronto a dare una mano. Noi ci siamo». La replica dell’Associazione nazionale magistrati alle parole di Renzi non si faceva attendere. «Il problema non sono i magistrati, ma le promesse mancate, la timidezza in materia di prescrizione e corruzione, la proposta, alla vigilia di Natale, di depenalizzare l’evasione fiscale fino al 3%» scrive l’Anm in un post pubblicato su Facebook. Per l’associazione: «Le critiche che vengono dai magistrati sono dettate dalla delusione: noi riponevamo e vorremmo riporre fiducia nella volontà di fare le buone riforme, ma chiediamo coerenza tra parole e fatti. Renzi vuole un sistema più veloce e più semplice? Blocchi la prescrizione almeno dopo la sentenza di primo grado, introduca sconti di pena ai corrotti che collaborano con la giustizia, estenda alla corruzione gli strumenti della lotta alla mafia: i casi di corruzione clamorosi più recenti e più noti non sono indiscrezioni». L’Anm rileva: «Il Governo trovi le risorse per coprire le oltre 8.000 scoperture nell’organico del personale amministrativo. Accanto alla messa alla prova, alla non punibilità per tenuità del fatto, al processo civile telematico, sono troppe le riforme timide o assenti. Quanto alle correnti, riaffermiamo il valore delle diverse sensibilità che costituiscono una risorsa dell’associazionismo, da sempre respingiamo ogni degenerazione ispirata a logiche di potere. Non si può non trovare di cattivo gusto - conclude il post - il richiamo ai magistrati uccisi. Noi stessi siamo molto cauti nel richiamarci al ricordo dei colleghi caduti per il loro servizio: lo facciamo solo per onorare la loro memoria e il loro sacrificio, non per accreditare la nostra serietà». In serata sul tema è intervenuto anche il ministro della Giustizia, Andrea Orlando: «Le critiche delle ultime ore al progetto organico di riforma sono ingenerose. Dispiace che l'Anm non colga il passaggio solenne dell'inaugurazione dell'anno giudiziario per recuperare obiettività».

Napolitano contro i giudici: «Basta protagonismi», scrive Virginia Spada su “Il Garantista”. Dopo il botta e risposta tra l’Associazione nazionale magistrati e il premier Matteo Renzi, una sferzata ai giudici e al loro protagonismo è arrivata anche da Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica, che ieri è intervenuto al Consiglio superiore della magistratura, ha ribadito che politica e giustizia devono restare separati e che i giudici devo evitare comportamenti «impropriamente protagonistici». «Lo Stato di tensione – ha detto – e le contrapposizioni polemiche che per anni hanno caratterizzato i rapporti tra politica e magistratura, determinando un paralizzante conflitto tra maggioranza e opposizione in Parlamento sui temi della giustizia e sulla sua riforma, non hanno giovato né alla qualità della politica, né all’immagine della magistratura». Il capo dello Stato, che per tutto il mandato non ha mai smesso di criticare le esternazioni dei magistrati, ieri si è sentito in dovere di rincarare la dose e le critiche, dopo le proteste dell’Anm contro la legge sulla corruzione (considerata troppo debole) e soprattutto contro la riforma della giustizia. Se a via Arenula, si chiede ai magistrati di occuparsi delle sentenze e non delle scelte del governo, il Quirinale non è da meno: «Ho ripetutamente richiamato l’esigenza che tutti facessero prevalere il senso della misura e della comune responsabilità istituzionale. La credibilità delle istituzioni e la salvezza dei principi democratici si fondano sulla divisione dei poteri e sul pieno e reciproco rispetto delle funzioni di ciascuno». Al capo dello Stato, con le valigie ormai pronte per lasciare il posto al suo successore, premono le riforme. Tra cui quella della giustizia. Non si tratta di una questione per lui secondaria. Più e più volte ha rilanciato la questione dell’indulto e dell’amnistia, ma dal Parlamento le sue parole non sono state accolte. Ora si aspetta che la macchina-giustizia migliori. «È indubbio – ha continuato davanti al Csm – che ciò cui occorre mirare è un recupero di funzionalità, efficienza e trasparenza del sistema della giustizia». Ma per Napolitano questo non può avvenire se i magistrati continuano a sovrapporsi alle scelte che spettano al Parlamento e al governo. L’Associazione nazionale magistrati ha annunciato una mobilitazione in vista dell’inaugurazione anno giudiziario. Ma il messaggio del Quirinale è chiaro e irrevocabile: sono da evitare «i comportamenti impropri e altamente protagonistici e iniziative di dubbia sostenibilità assunte nel corso degli anni da alcuni magistrati della pubblica accusa».

Liturgia inutile, i magistrati si autoassolvono, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”. E così, è andata anche quest’anno. L’Italia, pur sede del Vaticano – specialista in coreografie religiose dalle quali emerge comunque la presenza dello Spirito – si segnala per una particolare tenacia nella ripetizione ad oltranza di liturgie laiche (che è, si badi, una inutile ripetizione, poiché liturgia altro non significa se non “opera del popolo”) tanto ostinate quanto inutili. Infatti, mentre la liturgia religiosa si offre quale mediazione necessaria con il divino, quella laica, consumata anche ieri per l’ennesima inaugurazione dell’anno giudiziario, si presenta del tutto priva di senso e perciò completamente autoreferenziale. Prova ne sia un esame anche superficiale delle argomentazioni svolte sia da Giovanni Legnini, vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, sia da Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione. Il primo, probabilmente per esigenze legate al ruolo ricoperto, ha svolto argomenti del tutto allineati con le prospettive tipiche delle correnti della magistratura, mettendo in primo piano l’esigenza di tutelare ed accrescere il prestigio della stessa magistratura, oltre che dei singoli magistrati, messa così, la cosa ha dell’incredibile. Ma davvero, per Legnini e per i suoi colleghi del Csm, oltre che naturalmente per i magistrati italiani – o meglio per le loro correnti (in quanto, grazie a Dio, c’è una bella differenza fra le persone concrete che esercitano la giurisdizione e le correnti in cui si organizzano) – ciò che occorre garantire in sommo grado sarebbe il prestigio dei magistrati e della magistratura nel suo complesso? Si trattasse solo di questo, sarebbe facilissimo ottenere lo scopo desiderato: basterebbe – che so? – nominare tutti i magistrati italiani cavalieri della Repubblica o, in alternativa, accademici della Crusca ad honorem. In questo modo, il prestigio sarebbe assicurato una volta per tutte e saremmo tutti contenti. Evidentemente, non passa per la testa di Legnini e dei suoi colleghi che il vero prestigio, anzi l’unico prestigio, lo si conquista sul campo; ed è quello di cui un magistrato giunge a godere dopo aver dato ad avvocati, colleghi e cittadini, ripetuta prova, negli anni, di possedere, equilibrio, buon senso e senso del diritto, coefficienti indispensabili per rendere giustizia. A ben guardare – e bisogna annotarlo con crescente preoccupazione – è proprio questa, la giustizia, ad essere tragicamente assente dalla discussione pubblica di queste liturgie laiche : nessuno se ne interessa, nemmeno per accennarvi, e credo il termine medesimo neppure compaia. La giustizia insomma scompare anche come concetto da pensare, sostituita da altri concetti oggi assai di moda, quali efficienza, tempestività, utilità: semplici sciocchezze, incidenti del pensiero, ma oggi tenuti in gran conto, perché non si capisce che se si fosse in grado di rendere giustizia, lo si farebbe celermente e che invece i deprecabili ritardi son dovuti alla reale incapacità di renderla come si dovrebbe. Accertato dunque ciò che Legnini ed i suoi colleghi non sanno, cioè che il prestigio dei magistrati è solo un traguardo (faticoso ed impegnativo) e non mai un punto di partenza, è il caso di prestare attenzione agli argomenti svolti da Santacroce. Il presidente della Cassazione ha mostrato certo maggior senso della realtà allorché ha invitato i pubblici ministeri a non litigare fra loro (con l’occhio rivolto alle recenti vicende che hanno contrapposto Robledo a Bruti Liberati) e ad evitare sovraesposizioni mediatiche, ma è incappato pure lui in uno scandalo (nel senso evangelico di “inciampo”) del discorso, allorché ha esordito notando che dopo mani pulite la magistratura avrebbe dato inizio ad “una parabola discendente”. Saremmo davvero curiosi di sapere di cosa si tratti e se per caso la parabola attuale – che si dice appunto discendente – possa mai sperare di tornare ad “ascendere”. Forse si vuole alludere al consenso che i magistrati di mani pulite – con Di Pietro in testa – incontravano in quel periodo fra la gente. Meglio si farebbe allora ad affermare che i magistrati non debbono godere di alcun consenso perché non sono politici di professione e che fu invece proprio in forza di quel consenso anche mediatico (ma del tutto sprovvisto di elementari principi di diritto) che una modifica della custodia cautelare, che la vedeva limitata ai soli casi di delitti “di sangue,” naufragò in poche ore: fu sufficiente che Di Pietro arringasse le folle dagli schermi riuniti di Rai e Mediaset per ottenere lo scopo desiderato, tanto che il governo di allora barcollò, per cadere dopo poche settimane. Come volevasi dimostrare: fra due forze politiche, una per natura – il governo – ed una contro- natura – la magistratura – a prevalere fu questa. Non basta. Santacroce si è anche addentrato nel merito di varie proposte di legge in tema di appello, ricorso per cassazione, ed altri simili intenti riformatori: è appena il caso di ricordare che chi è chiamato ad applicare la legge, cioè il giudice, farebbe bene ad evitare di concorrere direttamente o indirettamente alla sua formazione. O no? Se qualcosa è cambiato, che qualcuno me lo dica. La triste verità è che l’unica domanda che varrebbe davvero la pena di porsi – in modo martellante ed ostinatissimo, perché è la domanda dell’intera vita – viene accuratamente taciuta in queste liturgie. La domanda suona: noi tutti giudici italiani, con tutto l’ambaradàn di risorse, personale, organizzazioni e polemiche di vario genere, siamo riusciti, in questo ultimo anno, ad assicurare agli italiani che hanno fatto ricorso alla nostra opera non dico tanto, ma almeno un tasso di giustizia pari al 20% di quello richiesto? E se non ci siamo riusciti, perché ciò è accaduto? E, se è accaduto, cosa fare per rimediare? Invece, nulla: silenzio assoluto. Della giustizia e del tasso di giustizia che ogni sentenza sia in grado di assicurare (o non assicurare) ai nostri simili non importa a nessuno, neppure al vicepresidente del Csm o al presidente della Cassazione. Ma non crediate sia una novità. Si va avanti così da decenni, e non sorprende perciò che le cose vadano di male in peggio: si parla del nulla e si tace l’essenziale. Da qui l’inutilità. Avanzo perciò una irriverente proposta: il prossimo anno, diamo da leggere a presidenti e vicepresidenti una relazione redatta tre, sei, dieci, vent’anni or sono. Scommetto che nessuno se ne accorgerebbe, nemmeno i giornalisti, tanto essa conterrebbe, più o meno, la medesima litania di geremiadi sulla mancanza di denaro, di personale, di mezzi e così via: come se a saldare il conto della giustizia fossero il denaro, il personale, i mezzi e non il senso di giustizia dei giudici, il loro esercitato equilibrio, il loro essere e mostrarsi esperti d’umanità. Preoccupati, come dev’essere, non solo di sbagliare il meno possibile: ma anche di saper rimediare agli errori commessi. Ma mi rendo conto: di questo è meglio tacere.

DISSERVIZI A PAGAMENTO. COSE STRANE AGLI SPORTELLI ASL DI TARANTO? O COSI’ FAN TUTTI?

Ritardi, disservizi e cose varie…….negli uffici pubblici.

Esercizio di un privilegio o abuso del diritto a danno dei più deboli?

Per esempio, 10 minuti di pausa  ogni ora per l’unico terminalista e, al fine dell’esenzione per reddito, essere considerati disoccupati solo se si è cessato un lavoro dipendente. Per chi non ha mai trovato lavoro e per chi da anni ha chiuso bottega: niente!!!

Mi capita spesso di vedere cose strane in giro per l’Italia, che regolarmente riporto nei miei libri, giacchè il mio lavoro di sociologo storico lo impone.

Mi viene il dubbio, però, che io sia più un alienato che un alieno, tenuto conto che quello che vedo io, gli altri non lo vedono.

Per esempio parliamo dell’ufficio anagrafe dell’ASL TA presso l’ospedale di Manduria. In quell’ufficio le esenzioni per reddito vengono rilasciate dopo circa un mese dalla loro richiesta. Non so quanti addetti ci lavorino dentro, ma, spesso, c’è un solo sportello front office operativo. Ergo, vi è sempre una fila bestiale e non raramente cessano la distribuzione dei numerini del turno giornaliero di fila. Nell’attesa del proprio turno, però, non si può fare a meno di leggere tutti gli avvisi appesi al muro. Nell’imbarazzo non ti rapporti con il vicino per evitare di tediarlo ed  allora gli occhi cadono su quei pezzi di carta indistinti affissi alle pareti ed inizi a leggere, giusto per darti l’aria di essere affaccendato in altro ed evitare, quindi, di attaccar bottone.

L’occhio, anzi, tutt’e due, questa volta mi son caduti su un avviso che diceva: “AVVISO. Il termine disoccupato è riferito esclusivamente al cittadino che abbia cessato per qualunque motivo (licenziamento, dimissioni, cessazione di un rapporto a tempo determinato) un’attività di lavoro dipendente e che sia iscritto al centro per l’impiego in attesa di nuova occupazione. Non è considerato disoccupato né chi ha mai lavorato, né chi ha cessato un lavoro autonomo”. La sottolineatura era apposta per evidenziare il concetto.

Da lasciare sgomenti, specie nella terra di Niki Vendola, leader di SEL, il porta bandiera della sinistra. Sono rimasto indignato dal fatto su come si possa pensare che uno che sta a casa senza lavoro da sempre, sia diverso da un altro che sta a casa dopo essere stato licenziato. Va be’! I meandri della burocrazia sono infiniti, dirà qualcuno … che sicuramente non conosce l’art. 3 della Costituzione. Ma come disse Dante, ….non ragioniam di loro, ma guarda e passa.

Ed io nella lunga attesa di ore son passato oltre….ad un altro cartello, in cui era scritto in maiuscolo: “L’ADDETTO AL VIDEOTERMINALE E’ AUTORIZZATO AD UNA PAUSA DI 10 MINUTI OGNI ORA DAL MEDICO COMPETENTE”. Il termine “pausa di 10” ed “ogni ora” è evidenziato oltre che essere sottolineato. Tutto in rosso, come per far capire chi è che comanda negli uffici pubblici.

Quando qualcosa non mi torna, cerco di approfondire la tematica. E così ho fatto.

Le Pause sul lavoro: Noemi Ricci su PMI scrive che il loro effetto benefico sulla salute è comprovato, visto che servirebbe fisiologicamente una pausa ogni 90 minuti o massimo 120, pena la decadenza della soglia di attenzione e quindi anche della produttività lavorativa. Ma la gestione delle pause (sigaretta, caffè, aria fresca,..) non è cosa facile per il datore di lavoro, che tende a prendere provvedimenti anche se in realtà esiste una norma in materia, seppur lacunosa. Se da un lato si arriva a obbligare i dipendenti a timbrare il cartellino quando vanno a fumare ecc. (vedi il caso del Comune di Firenze), dall’altro ci si appella al Decreto n. 66 del 2003 secondo cui, a meno di diversi accordi contrattuali, ogni lavoratore ha diritto ad almeno dieci minuti di pausa per ogni turno di lavoro che superi le sei ore giornaliere (e undici ore di riposo consecutive tra un turno e l’altro). Le modalità e la durata della pausa dovrebbero essere stabilite dai contratti collettivi di lavoro, in difetto della quale «al lavoratore deve essere concessa una pausa, anche sul posto di lavoro, tra l’inizio e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro, di durata non inferiore a dieci minuti e la cui collocazione deve tener conto delle esigenze tecniche del processo lavorativo».

Certo, è difficile quantificare il tempo perso sul lavoro per “staccare un pò la spina”: chiacchiere tra colleghi, telefonate e email personali, sigarette, caffè, persino l’uso del bagno!

L’argomento rimane controverso e di difficile regolamentazione, come in molte cose quello che dovrebbe prevalere, sia da parte dei datori di lavoro che dei dipendenti, è la misura e il buon senso.

Cosa a parte è il lavoro al Pc. Datori di lavoro obbligati a concedere pause ai dipendenti in caso di lavoro continuato al videoterminale: ecco cosa prevede la legge, scrive invece Alessandro Vinciarelli  sempre su PMI. Il computer è diventato parte integrante della vita professionale e la presenza dei computer sul posto di lavoro è diventata la normalità. Una pervasività alla quale non fa seguito un’adeguata attenzione agli obblighi stabiliti per legge dalla contrattazione collettiva - anche aziendale - volta a garantire la salute sul lavoro nel caso in cui i dipendenti aziendali utilizzino il Pc (videoterminale) per il proprio lavoro. Inizialmente a regolamentare questo tipo di attività era l’art. 54 del d.lgs. 626/94  della contrattazione collettiva (con obbligo di concedere al lavoratore una interruzione nel caso di lavoro continuato davanti al Pc e in assenza di una disposizione contrattuale). Dal 15 maggio 2008 è poi in vigore il decreto legislativo n.81 (del 9 aprile 2008) in attuazione all’articolo 1 della legge 3 agosto 2007 n. 123:  anche in questo caso l’obiettivo è scongiurare i rischi per la salute (vista, postura e affaticamento) connessi all’attività lavorativa tramite videoterminali, confermando l’obbligo per il datore di lavoro di tutelare i dipendenti con misure ad hoc e con interruzioni di un quarto d’ora ogni due ore (sempre mediante pause o cambiamento di attività di lavoro). In generale, qualora i propri impiegati svolgono la propria attività per almeno quattro ore consecutive, a questi spetta di diritto ad una interruzione che può essere esplicata tramite pause o mediante cambiamento di attività. Per ogni centoventi minuti (2 ore) passati in maniera continuativa davanti al computer il lavoratore debba avere quindici minuti interruzione, se si raggiunge un accordo aziendale, magari per una pausa caffè – o comunque un intervallo di tempo per “staccare” e rilassare la vista. In caso di diverse necessità personali, il lavoratore può, presentando apposito certificato medico, richiedere al proprio datore di lavoro di stabilire temporaneamente a livello individuale diverse modalità e durata delle interruzioni.

Da precisare che tale obbligo deve essere osservato dal datore di lavoro per preservare la salute sul lavoro dei propri dipendenti, i quali possono quindi usufruire di tale diritto solo a questo scopo. La legge non consente pertanto di cumulare le pause per entrare dopo o uscire prima dal lavoro. Allo stesso modo la pausa deve essere considerata parte integrante dell’orario di lavoro e quindi non può essere riassorbita all’interno di accordi che prevedono la riduzione dell’orario complessivo di lavoro. Infine il datore di lavoro non deve considerare pause i tempi di attesa davanti al Pc: aspettare una risposta dal sistema elettronico è considerato a tutti gli effetti tempo di lavoro, non potendo il lavoratore abbandonare il posto di lavoro.

A Taranto, dove da una parte muore per inquinamento e dall’altra i reparti ospedalieri chiudono, alla ASL di Taranto preme proprio tutelare la salute dei suoi dipendenti. Non so se la ASL tuteli la salute di tutti i suoi dipendenti od il benessere di quelli più furbi, con l’aiutino del medico compiacente. Certo è che agli utenti proprio non ci pensa. Per limitare l’isteria dei cittadini, però, potrebbe applicare agli sportelli front office gli addetti meno cagionevoli di salute. Od aprire più di uno sportello, affinchè di due o più addetti con salute malferma se ne sostanzi uno per evitare inutili esasperazioni degli utenti in fila da ore. E’ superfluo, altresì, consigliare che, al di là degli impiegati allo sportello, di impegnarsi a smaltire in fretta l’arretrato, affinchè qualche indigente, nell’attesa di veder concessa l’esenzione per effettuare gli esami necessari, nel mese canonico di attesa non tiri le cuoia.

Da rimarcare il fatto che i privilegi della funzione pubblica, con il sostegno dei sindacati, si scontra da sempre con i diritti dei cittadini. C’è l’uniformità nazionale del fenomeno. E’ da mentecatti, quindi, pensare che questo succeda solo a Taranto. Spesso gli avvisi analoghi non sono affissi, ma di fatto sono operativi negli uffici pubblici di tutta Italia . E come se lo sono!!! 

A tanto zelo, però, si riscontrano situazioni allarmanti.

Nella notte tra l’11 e il 12 luglio 2014 era stata portata al pronto soccorso dell’ospedale di Manduria per dei forti dolori ad un fianco. Da lì è stata trasferita nel reparto urologia dell’ospedale Santissima Annunziata di Taranto dove, il 13 luglio, è stata operata per l’asportazione di un calcolo. Per delle complicanze è stata infine trasferita al Policlinico di Bari dove è morta. E’ questo il tragico epilogo della 26enne Valeria Angela Lepore, di Toritto, provincia di Bari, agente di custodia nel carcere San Vittore a Milano, in vacanza a San Pietro in Bevagna. Per la sua morte la Procura della Repubblica di Bari hanno aperto un inchiesta in cui risultano indagati 11 medici. Il pm Fabio Buquicchio, che coordina le indagini, conferirà lunedì l’incarico a un medico legale per eseguire l’autopsia. Stando alla denuncia dei genitori, per le complicazioni nella sala operatoria del Santissima Annunziata di Taranto la ragazza è stata trasferita (nella notte tra il 13 e il 14 luglio) nel reparto di rianimazione del Policlinico di Bari. Nell’ospedale barese la ragazza  il 16 luglio è stata sottoposta ad un intervento neurochirurgico per complicazioni cerebrali. È morta al policlinico il 17 luglio. Il Comune di Toritto (Bari), dove la famiglia della ragazza risiede, proclamerà il lutto cittadino per il giorno dei funerali.

DEPURATORI. COME CI PRENDONO PER IL CULO.

Dal 23 luglio 2014 una piattaforma attrezzata per le trivellazioni marine ha effettuato dei carotaggi (trivellazioni per prelevare campioni da esaminare), nei fondali in zona Specchiarica, marina di Manduria, scrive “La voce di Manduria”. La società che se ne occupa è la Ce.Sub. di San Giorgio, incaricata dalla ditta Putignano, l’impresa aggiudicataria dei lavori di realizzazione del depuratore con scarico a mare. I lavori già autorizzati dalla Capitaneria di porto prevedono «l’esecuzione di un’indagine stratigrafica dei fondali marini tramite attività di carotaggio continuo e l’esecuzione di video riprese subacquee lungo l’asse di varo della condotta negli specchi acque meglio di seguito individuati, propedeutici alla costruzione di una condotta sottomarina asservita all’impianto di depurazione e collettori di scarico a servizio degli abitanti di Sava e Manduria».  Di tali lavori di carotaggio sono stati già informati sia la Regione Puglia che il Comune di Manduria. A quest’ultimo la comunicazione è pervenuta proprio mercoledì 23. Sicuramente prima al presidente Nichi Vendola e al suo assessore ai Lavori Pubblici, Giovanni Giannini che proprio lunedì (due giorni prima che al comune di Manduria arrivasse il fax dell’Aqp), ha incontrato i sindaci di Manduria, Sava, Avetrana e Maruggio ai quali – invitati a Bari proprio per discutere la questione depuratore -, non è stata data comunicazione di un iter oramai più che avviato. Alla vigilia dell’importante incontro sulle sorti del depuratore consortile tra gli assessori regionali Giannini e Nardoni, rispettivamente ai lavori pubblici e all’agricoltura, e i sindaci di Sava, Manduria e Avetrana, il primo cittadino di Sava, Dario Iaia, che ha chiesto e ottenuto l’incontro, prende posizione e lancia la proposta che «potrebbe mettere d’accordo tutti». «E’ necessario – dice – che vi sia un ulteriore sforzo da parte degli organi regionali per finanziare e rendere concreto un maggiore affinamento delle acque reflue ed il riuso in agricoltura, con lo sversamento dei reflui nelle cave di Avetrana o nei terreni messi a disposizione dal comune di Manduria, prevedendo la condotta sottomarina solo per i casi di emergenza». Consapevole delle resistenze che opporranno alla sua proposta «gli oltranzisti dell’ambiente i quali si opporranno sempre e comunque a qualunque soluzione», il sindaco Iaia presenta per la prima volta una proposta alternativa al vecchio progetto dell’acquedotto pugliese che, allo stato dei fatti, prevede un depuratore sulla costa manduriana con lo sversamento nel mare di Specchiarica attraverso una condotta sottomarina, dei reflui non affinati. La proposta del sindaco di Sava è sostanzialmente identica a quella che il sindaco di Manduria ha ribadito nel corso di una riunione avuta venerdì mattina nel suo studio con i rappresentanti dei comitati ambientalisti di Manduria e Avetrana. Il sindaco savese ha le idee chiare in proposito. «Ho chiesto ai miei colleghi sindaci ed agli assessori Nardoni e Giannini di insediare un tavolo politico – afferma Iaia – per confrontarci, ancora, su quale possa essere la soluzione più condivisa per risolvere questa annosa questione. Come abbiamo avuto modo di chiarire anche in altre occasioni – continua il primo cittadino di Sava – questo non può più essere il tempo dell’attesa, ma deve essere quello della decisione e della responsabilità che deve essere assunta da chi ha ruoli politico amministrativi. Il mio comune con 17 mila abitanti – sottolinea Iaia – non può più attendere la realizzazione di quest’opera perché le condizioni igienico sanitarie sono al limite, a meno che – avverte – non si voglia che si ritorni a parlare di colera anche da noi. Queste considerazioni, avverte il sindaco Iaia, valgono anche per Manduria, per Avetrana e per le marine, «ancora oggi – ricorda – prive completamente o in gran parte di sistema fognario». Rivolgendosi agli ambientalisti soprattutto avetranesi, il sindaco di Sava conclude così il suo intervento: «dovrebbero ammettere – dice – che oggi tutti noi stiamo inquinando la falda acquifera e quindi il mare; anche se non lo vediamo lo sappiamo ed è sufficiente guardare i dati dell’Arpa sul decadimento della qualità delle acque nei mesi estivi, causato dagli scarichi in falda». Alla luce di questo nuovo intervento di Sava le posizioni delle parti si possono così delineare. Le istituzioni di Manduria e Sava, mantenendo ferma la necessità di un nuovo depuratore, spingono per l’ambientalizzazione dell’opera: sì al depuratore; sì all’affinamento dei reflui da utilizzare per uso irriguo; sì alla condotta sottomarina a Specchiarica ma solo per il troppo pieno quando cioè le falde o le cave non riusciranno a smaltire la quantità dei reflui prodotta in eccesso. Le istituzioni di Avetrana e gli ambientalisti più convinti (questi ultimi quasi tutti avetranesi), dicono no al depuratore sulla costa, no alla condotta sottomarina e sì alle alternative delle cave o trincee drenanti. Insieme alla comunicazione di inizio lavori di carotaggio, l’Acquedotto pugliese ha fatto sapere come si muoverà sino al completamento dell’opera (depuratore tabella 2 con condotta sottomarina di un chilometro) che dovrebbe entrare in esercizio il 15 marzo del 2017 mentre i lavori, sempre secondo il cronoprogramma della società che lo gestirà (l’Aqp stessa), termineranno il 15 luglio del 2016. L’apertura vera e propria del cantiere invece, è stata fissata per il prossimo 15 settembre 2014.

Questo non basta. In piena estate e in periodo di fulcro turistico si impedisce la balneazione. Secondo quanto previsto dall’ordinanza della Capitaneria di Porto che autorizza l’impresa «Ce. Sub», incaricata di effettuare i sondaggi e le videoriprese dei fondali dove sarà ancorata la condotta del depuratore, tutta la zona interessata deve essere interdetta alla balneazione, navigazione e pesca. Questo sino alla fine delle operazioni prevista per il 10 agosto. Sino a quella data, quindi, una vasta zona di mare (una lingua larga 400 metri e lunga un chilometro in direzione di Specchiarica) è off-limits. «Negli specchi d’acqua sopra indicati – si legge infatti nell’ordinanza della capitaneria – durante le attività specificate sono vietate la navigazione di qualsiasi unità navale, la pesca e qualsiasi altra attività legata all’uso del mare».

Non hanno perso tempo e sono passati ai fatti gli avetranesi che per protesta hanno bloccato la litoranea. Sin dalle prime ore del pomeriggio gli attivisti dei comitati avetranesi e semplici residenti della zona di Specchiarica si sono raccolti sul tratto di spiaggia dove, al largo, erano in corso i lavori di trivellazione e carotaggio. Ne è nata una manifestazione spontanea cresciuta a dismisura. Il gruppetto di protestanti si è trasformato in folla rumorosa e arrabbiata composta anche da ambientalisti manduriani. I manifestanti tra cui alcuni amministratori di Avetrana, hanno detto che non si muoveranno da lì sino a quando non si fermeranno i lavori. Disagi intanto sono stati creati alla circolazione per l’interruzione della litoranea all’altezza del Bar D’Alì nella Marina di Specchiarica. Tra le proposte di lotta avanzate, oltre al sit in permanente, la raccolta firme e l’occupazione pacifica con imbarcazioni civili del tratto di mare interessato ai saggi della ditta di San Giorgio. Durante i comizi improvvisati non sono mancate accuse di lassismo al popolo e alle istituzioni di Manduria. Assenti gli amministratori messapici.

Già tutte anime candide. E vi si elencano.

Gli Amministratori di Manduria e Sava vogliono sversare la loro “merda” nel territorio di avetrana: «E’ necessario – dice – che vi sia un ulteriore sforzo da parte degli organi regionali per finanziare e rendere concreto un maggiore affinamento delle acque reflue ed il riuso in agricoltura, con lo sversamento dei reflui nelle cave di Avetrana o nei terreni messi a disposizione dal comune di Manduria, prevedendo la condotta sottomarina solo per i casi di emergenza» Dice il Sindaco di Sava Daio Iaia. La proposta del sindaco di Sava è sostanzialmente identica a quella che il sindaco di Manduria Roberto Massafra ha ribadito nel corso di una riunione avuta nel suo studio con i rappresentanti dei comitati ambientalisti di Manduria e Avetrana.

I manduriani, si sa, sono inconcludenti dal punto di vista amministrativo; litigiosi e polemici dal punto di vista politico; sono molto volpini, così come i savesi, se devono fottere i vicini stupidi, come sono quelli di Avetrana. Il progetto sul depuratore e sullo scarico a mare fu avviato da Antonio Calò e proseguito da Francesco Saverio Massaro, Paolo, Tommasino Roberto Massafra.

I governatori e le giunte regionali hanno autorizzato i depuratori e gli scarichi a mare, (quindi non solo quello consortile di Manduria-Sava posto a confine al territorio di Avetrana e sulla costa). I vari governatori sono stati Raffaele Fitto del centro destra e Nicola Vendola del centro sinistra. Entrambi gli schieramenti hanno preso per il culo le cittadinanze locali, preferendo fare gli interessi dell’Acquedotto pugliese, loro ente foriero di interessi anche elettorali.

Le popolazioni in rivolta, in particolare quelle di Avetrana, sono sobillate e fomentate da quei militanti politici che ad Avetrana hanno raccolto, prima e dopo l’adozione del progetto, i voti per Antonio Calò alle elezioni provinciali e per tutti i manduriani che volevano i voti di Avetrana. Il sindaco Luigi Conte, prima, e il sindaco Mario De Marco, dopo, nulla hanno fatto per fermare un obbrobrio al suo nascere. Conte ha pensato bene, invece, con i soldi pubblici, di avviare una causa contro Fitto per la riforma sanitaria. In più, quelli del centro destra e del centro sinistra, continuavano e continuano ed essere portatori di voti per Raffaele Fitto e per Nicola Vendola, o chi per loro futuri sostituti, e per gli schieramenti che li sostengono.

Certo, però, è che la ritorsione non si è fatta attendere.

Gestiva un chiosco-bar in muratura con tanto di tettoria ricoperta in legno per la sistemazione di tavolini e sedie per gli avventori direttamente realizzato sulla spiaggia libera, in un tratto di pubblico demanio marittimo del litorale del comune di Manduria, per la precisione in località Specchiarica, per una superficie totale abusivamente occupata di circa 200 mq., all’interno della quale i militari accertatori appartenenti al Nucleo Difesa mare della Guardia Costiera di Taranto hanno rinvenuto anche un ripostiglio in legno, una vasca di stoccaggio e persino una fossa imhoff, il tutto in difetto di alcun titolo concessorio che legittimasse l’occupazione di pubblico demanio oltre che di alcuna concessione edilizia rilasciata dal Comune competente, scrive “La Voce di Manduria” in questo lunghissimo periodo senza soluzione di continuità sintattica. All’atto del controllo, condotto in prima mattinata del 24 luglio 2014 , il chiosco, ubicato in un tratto di litoranea altamente frequentato da turisti e bagnanti, iniziava ad affollarsi per il sopraggiungere di clienti, che sorpresi del fatto che l’intera struttura fosse completamente abusiva, hanno assistito agli accertamenti condotti dal personale militare procedente. Di tutta l’operazione è stata prontamente informata la Procura della Repubblica di Taranto che ha disposto l’immediato sequestro penale di tutte le opere abusive realizzate. Il titolare del chiosco-bar è stato quindi denunciato dai militari procedenti per la abusiva occupazione ai sensi dell’articolo 1161 del Codice della Navigazione.

“Ecco un esempio come in Italia funzionano i controlli. Quel kiosco si trova là da minimo 40 anni, prima era invisibile o altro!!!”, commenta Maria.

“Ma dai un ristoro come ce ne sono a centinaia. Proprio un comune pochissimo virtuoso come quello di Manduria che fa le pulci ad un poveraccio che tira a campare. Ma mi faccia il piacere se volete controllare andate a vedere quello che non viene fatto per gli abitanti di tutta la Marina di Manduria.Mancanza di acqua potabile e fognatura per cominciare. Ma proprio per cominciare……”, scrive invece Rossiandrea900.

L’acquedotto Pugliese, invece, fa gli affari suoi. Non riusa i reflui della depurazione per l’agricoltura perché troppo oneroso. Come se l’acqua resa non se la facesse pagare.

La stampa, poi, più che altro è manduriana o tarantina. Sai quanto se ne fottono di quei quattro indigeni avetranesi?

Basta guardare cosa succede a chi sputa nel piatto in cui si mangia.

E’ stato licenziato Luigi Abbate, il giornalista di Taranto divenuto famoso per le sue domande scomode e il microfono che gli fu strappato dalle mani durante una conferenza stampa da Girolamo Archinà, il responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva, arrestato nell’ambito dell’inchiesta della magistratura tarantina "Ambiente Svenduto". Lo scrive in una nota il presidente di Assostampa Puglia, Raffaele Lorusso. Già un anno fa, nell'assordante silenzio delle istituzioni e delle forze politiche di Taranto, Blustar Tv - scrive Lorusso - licenziò quattro giornalisti adducendo quale motivazione il venir meno dei centomila euro annualmente garantiti dall'Ilva.

DEPURATORI DELLE ACQUE E POLEMICHE STRUMENTALI. UN PROBLEMA NAZIONALE, NON LOCALE.

Come si butta via l’acqua. Lo spreco di una risorsa naturale essenziale per la vita e lo sviluppo economico.

Diritto alla salute o idolatria naturista? Politica malsana o interessi economici? Disatteso fabbisogno di acqua o inquinamento delle acque superficiali? Tutto questo parlame coinvolge tutti i cittadini, mentre la magistratura sta a guardare…..

«Per secoli si sono sversate in falda sotterranea o nei canali di scolo le acque reflue di origine urbana, quando esse non erano riutilizzate. La natura auto depurava l’insano liquido. Poi con l’industrializzazione sono nati i problemi di inquinamento delle risorse idriche. E sono nati i depuratori ed il business del trattamento delle acque reflue. Oggi è una vergogna solo starne a parlare. Scegliere tra il riuso e lo spreco o l’inquinamento? Solo i mentecatti possono decidere di buttare a mare o in falda una risorsa naturale limitata! Solo i criminali scelgono di inquinare l’ambiente e impedire lo sviluppo economico!»

Questo denuncia il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” ed autore del libro “Ambientopoli” pubblicato su Amazon.

Si definisce trattamento delle acque reflue (o depurazione delle acque reflue) il processo di rimozione dei contaminanti da un'acqua reflua di origine urbana o industriale, ovvero di un effluente che è stato contaminato da inquinanti organici e/o inorganici. Le acque reflue non possono essere reimmesse nell'ambiente tal quali poiché i recapiti finali come il terreno, il mare, i fiumi ed i laghi non sono in grado di ricevere una quantità di sostanze inquinanti superiore alla propria capacità autodepurativa. Il trattamento di depurazione dei liquami urbani consiste in una successione di più fasi (o processi) durante i quali, dall'acqua reflua vengono rimosse le sostanze indesiderate, che vengono concentrate sotto forma di fanghi, dando luogo ad un effluente finale di qualità tale da risultare compatibile con la capacità autodepurativa del corpo ricettore (terreno, lago, fiume o mare mediante condotta sottomarina o in battigia) prescelto per lo sversamento, senza che questo ne possa subire danni (ad esempio dal punto di vista dell'ecosistema ad esso afferente). . Il ciclo depurativo è costituito da una combinazione di più processi di natura chimica, fisica e biologica. I fanghi provenienti dal ciclo di depurazione sono spesso contaminati con sostanze tossiche e pertanto devono subire anch'essi una serie di trattamenti necessari a renderli idonei allo smaltimento ad esempio in discariche speciali o al riutilizzo in agricoltura tal quale o previo compostaggio.

Il problema che ci si pone è: la depurazione è effettivamente eseguita? Le acque reflue depurate dove possono essere reimmesse? In grandi vasche o bacini per il riuso in agricoltura od industria, o smaltite inutilizzate in mare o nei fiumi o direttamente in falda? Quale è la valenza economica per tale decisione? Quale conseguenza ci può essere se la depurazione è dichiarata tale, ma non è invece effettuata?

L'acqua di riuso, costa di più dell'acqua primaria, sotterranea o superficiale, per questo è conveniente smaltire ed inquinare il mare o la falda con le acque che i gestori dicono essere depurate. Affermazioni infondate? No! Peggiora lo stato di salute del nostro mare. Imputato numero uno è la «mala depurazione»: 130 i campioni risultati inquinati dalla presenza di scarichi fognari non depurati - uno ogni 57 km di costa - sul totale delle 263 analisi microbiologiche effettuate dal laboratorio mobile di Goletta Verde, storica campagna di Legambiente, in quest'estate. Un dato in aumento rispetto all’anno precedente,quando era risultato inquinato 1 punto ogni 62km.

Su queste basi ultimamente è salita alla ribalta la presa di posizione con relative proteste di alcune località costiere. La popolazione non vuole lo scarico a mare. Ma come sempre nessuno li ascolta.

Ogni estate la bellezza incontaminata del nostro mare è messa a rischio dalla pessima gestione di depuratori e scarichi a mare da parte di istituzioni e amministrazioni pubbliche. Ed il turismo ne paga le conseguenze. E’ da qualche anno ormai che l’inizio della bella stagione ci pone l’inquietante dubbio di quale sarà il tratto di costa a chiazze marroni che dovremo evitare e, quel che è peggio, leggiamo distrattamente delle proteste del comitato di turno, quasi la cosa non riguardasse tutti noi. La situazione è molto delicata e non mette a rischio solo ambiente e salute, ma anche la possibilità di fare del nostro mare il principale volano di sviluppo del territorio. Le maggiori criticità riguardano i comuni di Manduria, Lizzano, Pulsano e il capoluogo Taranto ed è perciò facile capire come la situazione vada letta nel suo insieme, poiché finisce per riguardare tutta la litoranea orientale.

Oggi in Puglia il servizio di depurazione copre il 77% del fabbisogno totale, secondo i dati forniti dal Servizio di tutela delle acque della Regione e contenuti nel Piano di tutela delle acque. Numeri che evidenziano come poco meno di un milione di cittadini pugliesi scarica i propri reflui senza che questi vengano depurati. Sono 187 i depuratori che coprono il servizio su tutto il territorio regionale, ma su cui insistono ancora problemi di funzionamento, criticità e situazioni irrisolte che in alcuni casi rendono inefficace la depurazione dei reflui. Innanzitutto c’è la questione dei 13 impianti che scaricano in falda, con grave rischio di inquinamento delle acque sotterranee. Poi ci sono i depuratori che presentano problemi nel funzionamento e i cui scarichi risultano non conformi, come certificano i dati Arpa relativi al 2012. La causa di queste anomalie deriva dal cattivo funzionamento degli impianti, causato in alcuni casi anche all’ingresso nei depuratori di reflui particolari (scarti dell’industria casearia o olearia, industriali o un apporto eccessivo di acque di pioggia spesso legate alla incapacità dei tessuti urbani di drenare l’acqua). Un problema che riguarda il 39% degli impianti a livello regionale secondo i dati a disposizione dell’Acquedotto pugliese, ma che in alcune province arriva ad oltre l’80%, come nel caso dei depuratori della BAT. La Puglia, inoltre, come si evince dal dossier Mare Monstrum di Legambiente, è la quarta regione a livello nazionale per numero di illeciti legati all’inquinamento del mare riscontrati, con 261 infrazioni, pari al 10,1% sul totale, 328 fra le persone denunciate e arrestate e 156 sequestri.

Le norme violate sono quelle previste dal Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152, Norme in materia ambientale e comunque il reato contestato è il getto pericoloso di cose. Ma non tutte le procure della Repubblica si muovono all’unisono.

Avetrana, Pulsano, Lizzano, Nardò, ecc. Il problema, però, come si evince, non è solo pugliese. Il riuso delle acque nessuno lo vuole. Eppure il fabbisogno di acqua cresce. Recentemente, con la crescita della sensibilità ambientale in tutto il pianeta, il tema del riutilizzo delle acque si sta diffondendo sempre più: anche l’Unione Europea si è spesso occupata di riutilizzo delle acque reflue, ma solo recentemente questo tema è entrato nel Piano di Azione volto ad individuare criteri e priorità per il finanziamento di nuovi progetti nel campo della gestione delle risorse idriche. Il riutilizzo in agricoltura delle acque usate è una pratica diffusa in molti paesi e sempre più spesso raccomandata dagli organismi internazionali che promuovono lo sviluppo sostenibile; tra i paesi che hanno la maggior esperienza nel settore è bene ricordare gli Stati Uniti e lo Stato di Israele.

La vicepresidente e assessore all'Assetto del Territorio della Regione Puglia, Angela Barbanente, ha diffuso questa nota sulla questione della depurazione in Puglia. «La mia opinione è che “la politica si manterrà chiacchierona, rincorrendo ora l’uno ora l’altro contestatore” sino a quando, in questo come in altri campi, mancherà di una visione chiara, condivisa, realizzabile. La visione che occorre perseguire, questa sì senza tentennamenti se si hanno a cuore la salvaguardia e il risanamento dell’ambiente, e quindi la salute dei cittadini, dovrebbe innanzitutto prevedere il massimo possibile riutilizzo delle acque depurate in agricoltura o per usi civili.  Non è ammissibile, infatti, che nella Puglia sitibonda si butti in mare l’acqua depurata mentre nei paesi nordeuropei ricchi di acque superficiali si adottano ordinariamente reti duali per evitare di sprecare la risorsa! Inoltre, ove possibile e specialmente nelle aree turistiche, si dovrebbe fare ricorso a tecnologie di depurazione naturale quali il lagunaggio o la fitodepurazione.»  

Non ha tutti i torti e sentiamo di sposare le sue parole. Nell'ultimo decennio sono state registrate annate particolarmente siccitose con una ridotta disponibilità di risorse idriche tradizionali. Le cause sono dovute in parte ai mutamenti meteo climatici ma anche al crescente peso demografico e turistico, ai maggiori fabbisogni connessi allo sviluppo economico industriale, agricolo (anche se in questi ultimi anni pare affermarsi un'inversione di tendenza complice la crisi economica) e civile. Ciò implica la necessità di avviare cambiamenti radicali nei comportamenti e nelle abitudini di cittadini e aziende finalizzati al risparmio idrico, di reperire nuove fonti di approvvigionamento e al contempo di incentivare in tutte le forme possibili il riuso delle acque depurate. Il riutilizzo delle acque reflue costituisce una fonte di approvvigionamento idrico alternativo ai prelievi da falda, e rappresenta una buona pratica di gestione sostenibile delle acque che consente di fronteggiare lo stato di crisi quali-quantitativa in cui versa la risorsa idrica. Infatti attraverso il riutilizzo si limita il prelievo delle acque sotterranee e superficiali e si riduce la riduzione dell'impatto degli scarichi sui corpi idrici recettori.

Questa lotta di civiltà ci deve coinvolgere tutti, senza tentennamenti ed ipocrisie, fino all’estremo gesto di non votare più i nostri partiti di riferimento con gli amministratori regionali che decidono contro gli interessi della collettività.

E passiamo oltre al fatto che i sindaci ci obbligano a contrarre in termini perentori il servizio di smaltimento delle acque con i gestori locali, che sono anche i gestori dei depuratori. I sindaci si mettono a posto per eventuali screzi legali. I cittadini pagano un oneroso tributo in termini di spese di allaccio e di smaltimento per un servizio che non si sa se e quando si attiverà. Un altro balzello che si dovrebbe invece chiamare “Pizzo”.

CONTRO IL DEPURATORE CONSORTILE SAVA-MANDURIA AD AVETRANA E SCARICO A MARE. LOTTA UNITARIA O FUMO NEGLI OCCHI?

Sentiamo la voce del dissenso dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e dell’Associazione Pro Specchiarica entrambe di Avetrana. La prima a carattere nazionale e la seconda prettamente di interesse territoriale. Il perché di un rifiuto a partecipare alla lotta con gli altri, spiegato dal Dr Antonio Giangrande, componente del direttivo di entrambe le associazioni avetranesi.

«L’aspetto da affrontare, più che legale (danno emergente e lucro cessante per il territorio turistico di Avetrana) è prettamente politico. La gente di Avetrana non si è mobilitata in massa e non vi è mobilitazione generale, come qualcuno vuole far credere, perché è stufa di farsi prendere in giro e conosce bene storia e personaggi della vicenda. Hanno messo su una farsa poco credibile, facendo credere che vi sia unità di intenti.» Esordisce così, senza giri di parole il dr Antonio Giangrande.

«Partiamo dalla storia del progetto. La spiega bene il consigliere comunale Arcangelo Durante di Manduria: “Che la realizzazione a Manduria di un nuovo depuratore delle acque reflue fosse assolutamente necessario, era già scontato; che la scelta del nuovo depuratore non sia stata fatta dall’ex sindaco Francesco Massaro,  ma da Antonio Calò, sindaco prima di lui, ha poca importanza. Quello che invece sembra molto grave, è che il sindaco Massaro, in modo unilaterale, nel verbale del 12 dicembre 2005 in allegato alla determina della Regione Puglia di concessione della Via (Valutazione d’Impatto Ambientale), senza informare e coinvolgere il consiglio comunale sul problema, ha indicato il mare di Specchiarica quale recapito finale del depuratore consortile”. Bene. Da quanto risulta entrambi gli schieramenti sono coinvolti nell’infausta decisione. Inoltre questa decisione è mirata a salvaguardare il territorio savese-manduriano ed a  danneggiare Avetrana, in quanto la localizzazione del depuratore è posta sul litorale di Specchiarica, territorio di Manduria (a poche centinaia di metri dalla zona residenziale Urmo Belsito, agro di Avetrana)».

Continua Giangrande, noto autore di saggi con il suffisso opoli (per denotare una disfunzione) letti in tutto il mondo. «L’unitarietà della lotta poi è tutta da verificare. Vi sono due schieramenti: quello di Manduria e quello di Avetrana.  Quello di Manduria è composto da un coordinamento istituito solo a fine maggio 2014 su iniziativa dei Verdi e del movimento “Giovani per Manduria” con il comitato “No Scarico a mare” di Manduria. Questo neo coordinamento, precedentemente in antitesi, tollera il sito dell’impianto, purchè con sistema di filtrazione in tabella IV, ma non lo scarico in mare;  quello di Avetrana si oppone sia alla condotta sottomarina che alla localizzazione del depuratore sul litorale di Specchiarica. Il comitato di Avetrana (trattasi di anonimo comitato ed è tutto dire, ma con un solo e conosciuto uomo al comando, Pino Scarciglia)  ha trovato una parvenza d’intesa fra tutti i partiti, i sindacati e le associazioni interpellate, per la prima volta sabato 17 maggio 2014, e si schierano compatti (dicono loro), superando ogni tipo di divisione ideologica e ogni steccato, che sinora avevano reso poco incisiva la mobilitazione. In mattinata del 17 maggio, il Consiglio Comunale di Avetrana si è riunito per approvare, all’unanimità, la piattaforma di rivendicazioni già individuata nella riunione fra il comitato ristretto e i rappresentanti delle parti sociali. In serata, invece, maggioranza e minoranza sono saliti insieme sul palco di piazza Giovanni XXIII per rivolgere un appello alla comunità composta per lo più da forestieri. Si legge nel verbale dell’ultima riunione del Movimento. “E’ abbastanza chiaro, inoltre, che le Amministrazioni Comunali di Manduria, che si sono succedute nel tempo da 15 anni a questa parte, non hanno avuto nè la volontà nè la capacità di modificare o di bloccare questo obbrobrio, trincerandosi dietro a problematiche e a questioni tecniche/burocratiche, a parer loro, insormontabili”. Il gruppo di lavoro unitario avetranese è composto da consiglieri di maggioranza e minoranza (Cosimo Derinaldis, Antonio Baldari, Pietro Giangrande, Antonio Lanzo, Emanuele Micelli e Rosaria Petracca). “Vorrei innanzitutto far notare come, finalmente, si stia superando ogni tipo di steccato politico o ideologico – afferma l’assessore all’Agricoltura e al Marketing Territoriale, Enzo Tarantino. Steccato veramente superato? A questo punto reputo poco credibile una lotta portata avanti da chi, di qualunque schieramento, continui a fare propaganda politica contrapposta per portare voti a chi è ed è stato responsabile di questo obbrobrio ai danni dei cittadini e ai danni di un territorio incontaminato. Quindi faccio mia la domanda proposta da Arcangelo Durante “Bisogna dire però, che il presidente Vendola è in misura maggiore responsabile della questione, poichè di recente ha firmato il decreto di esproprio, nonostante che, prima il consiglio comunale dell’ex amministrazione Massaro e dopo quello dell’amministrazione Tommasino, si siano pronunciate all’unanimità contrarie allo scarico a mare. Presidente Vendola, ci può spiegare come mai, quando si tratta di opere che riguardano altri territori, vedi la Tav di Val di Susa, reclama con forza l’ascolto e il rispetto dei cittadini presenti sul territorio; mentre invece, quando si tratta di realizzare opere che interessano il nostro territorio, (dove lei ha il potere) non rivendica e utilizza lo stesso criterio, come l’ultimo provvedimento da lei adottato in qualità di Commissario Straordinario sul Depuratore?”» 

L’associazione “Pro Specchiarica” promuove una “Class Action” contro il Comune di Manduria per l’abbandono della sua marina orientale. A tal fine invita tutti i cittadini interessati che ivi hanno terreni, suoli, case, aziende, ad aderire all’azione civile di risarcimento per danno di immagine e svalutazione della proprietà, oltre che per danno esistenziale dovuto al degrado ed all’abbandono cinquantennale, in aggiunta alle privazioni subite per omesso investimento di opere primarie e secondarie in zona densamente edificata. Abbandono, degrado e disservizi nonostante milioni di euro incassati da Manduria in un territorio dove ci sono pochi manduriani. Milioni di euro incassati tra oneri concessori, ici, addizionale irpef, tarsu, quota enel, ecc. Il tutto con destinazione vincolata, ma impiegati altrove e per altri scopi.”

Tutto ciò è uno scandalo ed un abuso che non deve dare assuefazione, ma va denunciato.

L’Associazione “Pro Specchiarica” in base al suo statuto, dove si prevede la promozione, lo sviluppo e la tutela del territorio, propone una “Class Action” contro il Comune di Manduria per l’abbandono della sua marina orientale. L’invito è rivolto a tutti i cittadini che hanno una loro proprietà in tutte le contrade di “Specchiarica”, anche se residenti a Manduria, Avetrana, Erchie, Torre Santa Susanna od in altri comuni anche extraprovinciali, extraregionali o extranazionali.

Tenuto conto del disinteresse mostrato dai giornalisti per questo argomento, si invitano le redazioni di stampa e tv a divulgare tale nota stampa ed altresì a documentare e denunciare finalmente e mediaticamente lo stato di abbandono della costa manduriana, affinchè vi sia maggiore attenzione dedicata sul territorio. Territorio ove vale più la tutela della Macchia mediterranea, che infesta ogni terreno incolto, che i diritti dei cittadini che abitano la zona.

Fatto questo che obbliga od agevola l’abusivismo e costringe i pochi operatori economici ad operare in modo illegittimo. D'altronde ogni iniziativa culturale o ludica, o comunque di spettacolo od intrattenimento, che si vuol organizzare in loco per la delizia dei turisti è impedita per mancanza di posto idoneo dove svolgerla.

Inoltre siamo al paradosso. L’associazione non può essere iscritta all’albo delle associazioni di Manduria, che dista circa 20 Km da Specchiarica, in quanto opera nel territorio manduriano, ma ha sede legale nella limitrofa Avetrana, posta a 6 km dalla stessa Specchiarica. L’associazione non può essere iscritta ad Avetrana in quanto ha sede ivi, ma non opera per quel territorio. L’associazione non può trasferire la sede a Specchiarica, in quanto la zona è mancante di qualsivoglia struttura urbanistica: toponomastica, numeri civici, acqua, fogna, illuminazione pubblica, piazze, marciapiedi, strade, ecc. Cosa questa che inibisce qualsiasi sede fissa.

SPECCHIARICA

Specchiarica è Salento. Specchiarica è un territorio costiero posto sul lato orientale della marina di Taranto. E' una lontana frazione decentrata di Manduria, provincia di Taranto, attigua al confine territoriale di Porto Cesareo, provincia di Lecce. Specchiarica confina con altre frazioni manduriane: ad est con Torre Colimena; ad ovest con San Pietro in Bevagna. Specchiarica è meno nota delle precedenti località pur se, in periodo estivo, ospita il doppio dei loro villeggianti. Le sue spiagge sono alternativamente sabbiose e rocciose ed il mare è incontaminato. Specchiarica è delimitata da due importati risorse ambientali. Sul lato est di Specchiarica vi è la Salina dei Monaci, sul lato ovest vi è il fiume Chidro. Specchiarica è formata da 7 contrade: quota 10; quota 11; quota 12; quota 13; quota 14; quota 15; quota 16. Le contrade non sono altro che delle strade di campagna comunali perpendicolari alle parallele strade provinciali e statali: la litoranea Salentina e la Tarantina. Le strade contradaiole oggi asfaltate alla meno peggio, sono bucate da tutte le parti. Ai lati di queste strade comunali da sempre si è lottizzato e costruito abusivamente. Prima a ridosso della litoranea e poi man mano, fino all'interno senza soluzione di continuità. Migliaia di case e decine di strade che da private sono divenute pubbliche. Gli organi preposti giudiziari ed amministrativi, anzichè regolare questo scempio, lo hanno agevolato.

A Specchiarica è quasi impossibile arrivarci: non ci sono vie di collegamento degne di un paese civile. Non vi è una ferrovia: i treni si fermano a Taranto (50 km). Non vi è un aeroporto: gli aerei si fermano a Brindisi (50 km). Non vi sono autostrade: l'autostrada si ferma a Massafra (60 km). Non vi sono porti: le navi si fermano a Taranto o Brindisi. Non vi sono autolinee extraurbane: gli autobus si fermano a Manduria (20 km) e qualche volta ad Avetrana (6 km).

Di questo diciamo grazie a chi ci amministra a livello provinciale, regionale, statale, ma diciamo grazie anche alla maggioranza di chi abita il territorio, abulici ad ogni autotutela e servili con il potere per voto di scambio o altre forme di clientelismo. Compromessa con la politica, la maggior parte degli abitanti di Specchiarica sono consapevoli del fatto che tutte le abitazioni della zona (Specchiarica, ma anche San Pietro in Bevagna e Torre Burraco e Torre Colimena) sono insalubri (mancanza di fogna e acqua potabile) e quindi inabitabili, oltre che inquinanti la falda acquifera. Devono solo ringraziare le omissioni delle Autorità preposte allo sgombero degli immobili per sanità e sicurezza pubblica, se si può ancora usufruire di quelle case.

Gli abitanti di Specchiarica sono degni e meritevoli dell'irridenza e dello sberleffo dei "Polentoni" (mangia polenta ovvero un pò lentoni di comprendonio) che definiscono i "Terroni" retrogradi ed omertosi, anche se molti settentrionali abitano la zona e non si distinguono per niente dalla massa. Gli specchiarichesi anziché ribellarsi, subiscono e tacciono. In questo modo, per non pretendere quello che gli spetta, le loro proprietà sono svalutate ed improduttive.

Percorrendo la litoranea Salentina, Specchiarica, a guardarla dal lato del mare è un paradiso vergine ed incontaminato, ma volgendo gli occhi all'interno ci si trova un ammasso di immobili, per lo più seconde case, costruite tutte abusivamente nell'indifferenza delle istituzioni. L'urbanistica del posto non esiste, e quello che c'è, di fatto, è mancante di qualsivoglia servizio civico. Mancano: acqua potabile e sistema fognario, la cui mancanza incide sull'inquinamento della falda acquifera; percorsi di viabilità pedonale ed automobilistica; illuminazione pubblica e luoghi di svago e di ritrovo. Assurdo, ma manca addirittura una piazza e perfino i marciapiedi per camminare o passeggiare. Tempo fa a Specchiarica vi era un luogo di ritrovo. Un bar-ristorante-pizzeria con annesso parcheggio roulotte, parco giochi e sala da ballo all'aperto. Vi era movimento, luci, suoni, svago, intrattenimento. Svolgeva altresì la funzione di ufficio informazioni. Era frequentato per lo più dai turisti, ma era malvisto da molti locali, erosi dal tarlo dell'invidia, abituati all'assistenzialismo e disabituati all'iniziativa imprenditoriale ed all'emancipazione culturale ed economica. In precedenza quel luogo era usato come campo di calcio da comitati estemporanei di gente locale, per lo più di Avetrana, avendoselo appropriato illegalmente, senza ristoro economico per il proprietario. Un intrattenimento gratuito per chi si accontenta di poco o di niente e pretende che gli altri facciano lo stesso. Hanno perso il giocattolo nel momento in cui chi ne aveva diritto ha creato un'azienda. Pur essendo proprietà privata, dei "Pesare" noti possidenti di Avetrana prima di passare all'attuale legittima proprietà, le malelingue diffamatorie divulgarono la convinzione che il terreno fosse stato usurpato illegalmente a danno del demanio. Il venticello della calunnia tanto soffiò forte che un giorno d'inverno qualcuno appiccò il fuoco alla struttura. Un avvertimento del racket a chi non voleva pagare il pizzo o una mano armata dall'invidia. La calunnia ancor oggi è un venticello che non smette di soffiare. L'amministrazione pubblica non ha più dato modo ai proprietari di ricostruire quello che la mafia o l'invidia aveva distrutto. La mafia ti rovina la vita; lo Stato ti distrugge la speranza. Le rovine di un passato sono ancora lì a ricordarci l'incapacità degli amministratori pubblici di governare e gestire un territorio.

Il paradosso è che a Specchiarica ha più diritto una pianta vegetale, pur non inserita in un sistema protetto di macchia mediterranea, che un essere umano, la sua proprietà, la sua azienda.

Se tocchi una pianta o bruci le erbacce le autorità ti distruggono con la delazione di pseudo ambientalisti. Vi è indifferenza, invece, se si abitano case insalubri ed inabitabili, in zone prive di ogni strumento urbanistico.

L'amministrazione comunale di Manduria è incapace di dare un'immagine ed una regolamentazione affinchè il territorio sia una risorsa economica e sociale per il territorio. Specchiarica è un luogo desolato ed abbandonato a sè stesso. Posto nel limbo territoriale e culturale tra i comuni di Avetrana e Manduria è un luogo di vacanze. Ambìto da entrambi i Comuni, il territorio è oggetto di disputa sulla sua titolarità. Avetrana ne vanta l'autorità per precedenti storici e per l'infima prossimità. L'argomento ad Avetrana è l'unico tema per le campagne elettorali. I proprietari delle case o i locatari che li occupano temporaneamente (pagando affitti in nero) sono gente  di varie origini anche estere o extra regionali o provinciali. I specchiarichesi per lo più sono di origini autoctone, ossia sono cittadini di Avetrana, ma anche di Erchie, Torre Santa Susanna, Manduria e di altri paesi pugliesi limitrofi che si affacciano sulla costa ionica.

Specchiarica ha un solo ristorante, un solo bar, un posteggio per roulotte: troppo poco per sfruttare economicamente la risorsa del turismo. Ma i locali son contenti così. I saccenti amministratori locali ed i loro referenti politici provinciali e regionali, anzichè impegnarsi a porre rimedio ad un danno economico e d'immagine incalcolabile, nel deserto hanno pensato bene di progettare lo sbocco a mare del depuratore fognario di Manduria e Sava (paesi lontani decine di chilometri), arrecando addirittura un probabile danno ambientale.

Un comitato si è formato per fermare quello che il Comune di Manduria, l'Acquedotto Pugliese e la Regione Puglia vogliono fare in prossimità della località "Ulmo Belsito", frazione turistica di Avetrana, ossia il depuratore con lo scarico a mare nella marina incontaminata di Specchiarica, frazione di Manduria; nessuno, invece, ha mai alzato la voce per obbligare a fare quello che si ha sacrosanto diritto a pretendere di avere come cittadini e come contribuenti che sul posto pagano milioni di euro di tributi.

Comunque i comitati in generale, non questo in particolare, sono composti da tanti galletti che non fanno mai sorgere il sole e guidati da personaggi saccenti in cerca di immeritata visibilità o infiltrati per parte di chi ha interesse a compiere l'opera contro la quale lo stesso comitato combatte. Questi comitati sono formati da gente compromessa con la politica e che ha come referenti politici gli stessi che vogliono l'opera contestata, ovvero nulla fanno per impedirlo. Valli a capire: combattono i politici che poi voteranno alle elezioni. Spesso, poi, ci sono gli ambientalisti. Questi a volte non sanno nemmeno cosa significhi amore per la terra, la flora e la fauna, ma per ideologia impediscono il progresso e pretendono che si torni all'Età della Pietra. Ambientalisti che però non disdegnano i compromessi speculativi, tanto da far diventare le nostre terre ampie distese desertiche tappezzate da pannelli solari e fotovoltaici che fanno arricchire i pochi. Pannelli solari che offendono il lavoro dei nostri nonni che hanno conquistato quei terreni bonificandoli da paludi e macchie. Sicuramente non vi sono professionisti competenti a intraprendere le azioni legali e giudiziarie collettive adeguate, anche con l'ausilio delle norme comunitarie. Di sicuro i membri del comitato non vogliono sborsare un euro e si impelagano in proteste infruttuose fine a se stesse. Se il singolo può adire il Tar contro un atto amministrativo che lede un suo interesse legittimo (esproprio), la comunità può tutelare in sede civile il diritto alla salute ed all'immagine ed alla tutela del proprio patrimonio.

Per quanto riguarda la costruzione ed il funzionamento del depuratore vi sono norme attuative regionali che regolano la materia. A livello nazionale invece, si fa riferimento ai due decreti legislativi il n. 152/06 (“Norme in materia ambientale”) e il n. 152/99 (recante “Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole”) che, recependo la normativa comunitaria allo scopo di tutelare la qualità delle acque reflue, disciplinano che gli scarichi idrici urbani siano sottoposti a diverse tipologie di trattamento in funzione della dimensione degli agglomerati urbani. Altro è il controllo successivo rispetto ai parametri microbiologici di riferimento, gli stessi fissati dal D. lgs. 116 del 30 maggio 2008 ad integrazione del D.p.r. n. 470 dell’ 8 giugno 1982, norma emanata in recepimento della direttiva 79/160/CEE sulla qualità delle acque di balneazione e ora sostituita dalla più recente direttiva 2006/7/CE.

Secondo i neretini Mino Natalizio e Massimo Vaglio, due noti ed attivi ambientalisti di Nardò, la direttiva della Commissione delle Comunità Europee n°87/22/CE del 22 maggio 2011 inviata al Parlamento e al Consiglio Europeo per la pubblicazione in merito al trattamento delle acque reflue urbane costituisce uno dei punti chiave della politica ambientale dell’Unione Europea. Tale normativa, una volta pubblicata, entrerà in vigore a partire dal 31/12/2012 e dovrà essere “recepita“ dagli stati membri entro il 31/12/2013. In sostanza si vieterà lo scarico a mare delle acque fognarie per i nuovi impianti e l’obbligatorio adeguamento di quelli esistenti. Entro il 31/12/2015 gli agglomerati con più di 10.000 abitanti equivalenti che scaricano i loro affluenti in zone particolarmente sensibili (nel nostro caso l'Area Marina Protetta), dovranno intervenire per rispettare tali obblighi. Naturalmente questa direttiva rafforza la nostra convinzione che il progetto della Regione e dell'AQP non dovrebbe neanche essere più discusso. Che senso avrebbe, infatti, realizzare un'opera faraonica di decine di milioni di euro, che come ammette la stessa Europa sarebbe dannosa verso l'Ambiente, se sappiamo che tra pochi mesi sarà in contrasto con le indicazioni Comunitarie e quindi si dovranno spendere altri milioni di euro (che avremmo a disposizione se e chissà quando...), per adeguare il sistema di smaltimento a mare dei reflui fognari entro tre anni. Cioè quando l'eventuale opera dovrebbe essere appena terminata. Sarebbe davvero il colmo! Si rafforza, quindi, la necessità di modificare il piano di Tutela delle Acque della Regione Puglia, ormai superato dai fatti e dal prossimo quadro normativo dell'Unione Europea, nella direzione auspicata del riuso in agricoltura e/o per altri usi, dal momento che dal 31/12/2012 sarà vietato lo scarico a mare delle acque fognarie e che dalla ricezione della direttiva CE da parte degli Stati membri sarà consentita la realizzazione di appropriati sistemi depuranti atti a garantire un valido livello di protezione ambientale. Possibile che Regione ed AQP non siano a conoscenza di tali prossime disposizioni comunitarie e vogliano "buttare a mare" oltre ai reflui, anche milioni di euro?

Comunque in base alla normativa imminente che incombe, ovvero alla lesione del diritto d’immagine e di proprietà, vi sono ampi spazi per intraprendere azioni giudiziarie collettive, anche d’urgenza, senza che ci si avvalga di strumentali proteste fine a se stesse.

Invece, sia la stampa e le tv locali, sia tutti i facenti parte il comitato contro lo scarico a mare a Specchiarica hanno pensato di non divulgare all'opinione pubblica questa opportunità giuridica per stoppare il nefasto progetto approvato dall'amministrazione di Manduria (sinistra) ed avallato dalla Regione Puglia (sinistra), in quanto rivoluzionaria e proveniente dal Dr Antonio Giangrande. 

Insomma, con l'accidia e la negligenza si fa di tutto per impedire il turismo e con l'illogica inerzia o mala fede si impedisce la vera tutela dell'ambiente e si frena la volontà imprenditoriale che crea lavoro ed investimenti.

Di certo è che se Specchiarica a vederla così è una vergogna, la colpa è tutta dell'ignavia e l'accidia di chi la abita, che supinamente subisce l'abbandono e la mala amministrazione della cosa pubblica, nonostante gli stessi cittadini abbiano pagato gli oneri concessori urbanistici (con vincolo di destinazione urbanistica) e paghino regolarmente tutti i tributi (ICI o IMU). I calcoli li faccia il leggente. Si moltiplichi l'importo della "Bucalossi" pagata (migliaia di euro) per sanare migliaia di abitazioni (seconde case); si moltiplichi l'importo dell'ICI o l'IMU pagata (centinaia di euro l'anno) per migliaia di terreni e seconde case; si moltiplichi l'addizionale IRPEF per i migliaia contribuenti domiciliati; si moltiplichi l'importo destinato all'illuminazione pubblica delle migliaia di utenze ENEL sul territorio. Si sommi gli importi e si compari con quanto si è investito sul territorio.

Se la matematica non è un opinione il risultato è una incazzatura pazzesca!!!

Chi non è omologato nell'arretratezza culturale si muove per emancipare luogo e persone, ma si scontra con l'ostruzionismo della maggior parte dei locali collusi e/o codardi servili all'invidia, all'ignoranza o al sistema di potere inadempiente. Gli amministratori pubblici criticati, anzichè reagire allo sprono ed alle critiche, sono indifferenti alle proposte di cambiamento.

Per questo è nata l'Associazione "Pro Specchiarica". Per dare vita al territorio e per dare una speranza di progresso sociale ed economico ad una comunità. Se occorre: contro tutto e contro tutti.

E’ inutile, poi, rivolgersi ai magistrati. Mai toccare i poteri forti.

GUERRA DI TOGHE. ANCHE I MAGISTRATI PIANGONO.

Non solo Milano. Tribunale di Taranto. Guerra di toghe.

Cosa è che l’Italia dovrebbe sapere e che la stampa tarantina tace?

«Se corrispondesse al vero la metà di quanto si dice, qui parliamo di fatti gravissimi impunemente taciuti», commenta Antonio Giangrande, autore del libro “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”, pubblicato su Amazon.

Mio malgrado ho trattato il caso dell’ex Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, Matteo Di Giorgio, così come altri casi della città di Taranto. Questioni che la stampa locale ha badato bene di non affrontare. Prima che iniziassero le sue traversie giudiziarie consideravo il dr. Matteo Di Giorgio uno dei tanti magistrati a me ostile. Ne è prova alcune richieste di archiviazione su mie denunce penali. Dopo il suo arresto ho voluto approfondire la questione ed ho seguito in video la sua conferenza stampa, in cui esplicava la sua posizione nella vicenda giudiziaria, che fino a quel momento non aveva avuto considerazione sui media. Il contenuto del video è stato da me tradotto fedelmente in testo. Sia il video, sia il testo, sono stati pubblicati sui miei canali informativi. Il seguito è fatto noto: per Matteo Di Giorgio quindici anni di reclusione per concussione e corruzione semplice. Tre in più rispetto ai dodici chiesti dal pubblico ministero. Il Tribunale di Potenza  (presidente Gubitosi), competente a trattare procedimenti in cui sono coinvolti magistrati in servizio presso la Corte d’appello di Lecce, ha inoltre inflitto la pena di tre anni di reclusione all’ex sindaco di Castellaneta (Taranto) Italo D’Alessandro e all’ex collaboratore di quest’ultimo, Agostino Pepe; 3 anni e 6 mesi a Giovanni Coccioli, 2 anni a Francesco Perrone, comandante dei vigili urbani a Castellaneta, 2 anni ad Antonio Vitale e 8 mesi ad un imputato accusato di diffamazione.

L'ex pm Di Giorgio, sospeso cautelativamente dal Csm, fu arrestato e posto ai domiciliari nel novembre del 2010. Le contestazioni riguardano presunte minacce in ambito politico e ai danni di un imprenditore, altre per proteggere un parente, e azioni dirette a garantire l’attività di un bar ritenuto dall’accusa completamente abusivo. Il Tribunale di Potenza ha inoltre disposto la trasmissione degli atti alla procura per valutare la posizione di diversi testimoni in ordine al reato di falsa testimonianza. Tra questi vi sono l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto di Taranto Pietro Argentino. Complessivamente il Tribunale di Potenza ha trasmesso alla procura gli atti relativi alle testimonianze di 21 persone, quasi tutti carabinieri e poliziotti. Tra questi l’ex vicequestore della polizia di Stato Michelangelo Giusti.

Eppure Pietro Argentino è il numero due della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati.

Pietro Argentino è il pubblico Ministero che con Mariano Buccoliero ha tenuto il collegio accusatorio nei confronti degli imputati del delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana.

Possibile che sia un bugiardo?  I dubbi mi han portato a fare delle ricerche e scoprire cosa ci fosse sotto. Ed è sconcertante quello che ho trovato. La questione è delicata. Per dovere-diritto di cronaca, però, non posso esimermi  dal riportare un fatto pubblico, di interesse pubblico, vero (salvo smentite) e continente. Un fatto pubblicato da altre fonti e non posto sotto sequestro giudiziario preventivo, in seguito a querela. Un fatto a cui è doveroso, contro censura ed omertà, dare rilevanza nazionale, tramite i miei 1500 contati redazionali.

«Come volevasi dimostrare nessuno dei giornali italiani nazionali o locali ha più parlato dopo il primo maggio 2014 dei quindici anni di galera inflitti al Magistrato di Taranto Matteo Di Giorgio e dell’incriminazione per falsa testimonianza inflitta al Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino - scrive Michele Imperio -. Ma “La Notte” no. “La Notte” non ci sta a questa non informazione o a questa disinformazione. Quando assunsi la direzione di questo glorioso giornale, che ora sta per riuscire nella sua versione cartacea, dissi che avremmo sempre raccontato ai nostri lettori tutta la verità, solo la verità, null’altro che la verità e avremmo quindi sfidato tutte le distorsioni giornalistiche altrui, tutti i silenzi stampa, tutti i veti incrociati dei segmenti peggiori del potere politico. Strano cambiamento. Sarà stata l’aspirazione di candidarsi Presidente della Provincia di Taranto per il centro-destra, maturata nel 2008. Ancora alcuni anni fa infatti il giudice Matteo Di Giorgio era ritenuto il più affidabile sostituto procuratore della Repubblica della Procura della Repubblica di Taranto, tanto da essere insignito della prestigiosa carica di delegato su Taranto della Procura Distrettuale Antimafia di Lecce. Subì perfino un attentato alla persona per il suo alacre impegno contro il crimine organizzato. Sette capi di imputazione! Però sin poco dopo il mandato di cattura tutti hanno capito subito che qualcosa non andava in quel processo, perché in sede di giudizio sul riesame di quei capi di imputazione la Corte di Cassazione ne aveva annullati ben tre (censure che la Cassazione, in sede di riesame, non muove praticamente mai!) e il resto della motivazione della Cassazione sembrava un’invocazione rivolta ai giudici di marito: Non posso entrare nel merito – diceva la Cassazione – ma siete sicuri che state facendo bene? Tutti i commenti della Rete su questo caso sono stati estremamente critici, quanto meno allarmati. Invece i vari giornali locali, dopo aver dato la notizia il giorno dopo, non ne hanno parlato più. Scrive invece sulla Rete – per esempio – il prof. Mario Guadagnolo, già sindaco di Taranto dal 1985 al 1990: “Premetto che io – scrive (Guadagnolo) – non conosco il dott. Di Giorgio nè ho alcuna simpatia per certi magistrati che anzichè amministrare la giustizia la usano per obbiettivi politici. Ma 15 anni sono troppi se paragonati ai 15 anni di Erika e Omar che hanno massacrato con sessanta pugnalate la madre e il fratellino di sette anni o con i 15 anni comminati alla Franzoni che ha massacrato il figlioletto Samuele. Qui c’è qualcosa che non funziona. Non so cosa ma è certo che c’è qualcosa che non funziona”. Trovo molto singolare che il Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino sarà incriminato di falsa testimonianza a seguito del processo intentato contro il dott. Matteo Di Giorgio - scrive ancora l’avv. Michele Imperio su “Tarastv” e su “La Notte on line” -  A parte la stima che tutti riservano per la persona, il dott. Pietro Argentino aveva presentato al CSM domanda per essere nominato Procuratore Capo proprio della Procura di Potenza e il CSM tiene congelata questa delicata nomina da diversi anni. L'attuale Procuratore Capo di Potenza Laura Triassi è solo un facente funzioni e sicuramente anche lei aspirerà alla carica. Certamente questa denuncia terrà bloccata per molti anni una eventuale nomina del dott. Pietro Argentino a Procuratore Capo di una qualsiasi Procura. La sua carriera è stata quindi stroncata. Laura Triassi è inoltre sorella di Maria Triassi, professoressa dell'università di Napoli la quale fu incaricata della perizia epidemiologica nel processo Ilva dal noto Magistrato Patrizia Todisco, la quale è lo stesso Magistrato che già aveva denunciato alla Procura della Repubblica di Potenza il collega Giuseppe Tommasino, poi assolto e che aveva invece lei stessa assolto dal reato di concorso esterno in associazione a delinquere il noto pregiudicato A. F., mandante - fra l'altro - di un grave attentato dinamitardo a sfondo politico, che poteva provocare una strage. Il conflitto Di Giorgio-Loreto lo conosciamo già. Ma di un altro conflitto che sta dietro questo processo non ha parlato mai nessuno. Alludiamo al conflitto Di Giorgio-Fitto. Se infatti il dott. Matteo Di Giorgio fosse stato nominato presidente della provincia di Taranto sarebbero saltati per aria tanti strani equilibri che stanno molto cari all'on.le Fitto e non solo a lui. Inoltre trovo molto strano che l'on.le Raffaele Fitto, il quale fa parte di un partito molto critico nei confronti di certe iniziative giudiziarie, quanto meno esagerate, non abbia mai detto una sola parola su questa vicenda, che vedeva peraltro coinvolto un Magistrato dell'area di centro-destra. Come pure non una sola parola, a parte quelle dopo l'arresto, è stata mai detta sulla vicenda dall'attuale Procuratore Capo della Repubblica di Taranto dott. Franco Sebastio. E nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni telefoniche fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell'area del P.D. ostile al sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazzarano, nel corso delle quali il dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a Procuratore Aggiunto del dott. Pietro Argentino. Nel corso di una dichiarazione pubblica il dott. Sebastio espresse invece, in modo del tutto sorprendente, soddisfazione per l'arresto del dott. Matteo Di Giorgio e disse che auspicava che anche un secondo Magistrato fosse stato allontanato dalla Procura della Repubblica di Taranto (Argentino?). Ora, guarda un pò, anche il dott. Argentino potrebbe essere sospeso dalle funzioni o trasferito di sede....Ciò che è accaduto al Tribunale di Potenza è, quindi, come ben comprenderete, un fatto di una gravità inaudita e sottintende un conflitto fra Magistrati per gestioni politiche di casi giudiziari, promozioni e incarichi apicali, mai arrivato a questi livelli. Voglio fare alcune premesse utili perchè il lettore capisca che cosa c’è sotto. Sia a Taranto che a Potenza, patria di Angelo Sanza, sottosegretario ai servizi segreti quando un parte del Sisde voleva assassinare Giovanni Falcone e un’altra parte del Sisde non era d’accordo (e lui da che parte stava?), come forse anche in altre città d’Italia, opera da decenni una centrale dei servizi segreti cosiddetti deviati in realtà atlantisti, che condiziona anche gli apparati giudiziari e finanche quelli politici della città. Di sinistra. Così pure altra sede dei servizi segreti atlantisti questa volta di destra, opera a Brindisi. La sezione di Taranto in particolare appartiene sicuramente a quell’area politica che Nino Galloni avrebbe chiamato della Sinistra politica democristiana cioè una delle tre correnti democristiane, in cui si ripartiva la vecchia Sinistra Democristiana che erano – lo ricordo a me stesso – la Sinistra sociale capeggiata dall’on.le Carlo Donat Cattin, il cui figlio è stato suicidato-assassinato; la Sinistra morotea capeggiata dall’on.le Aldo Moro, assassinato, e poi inutilmente e per brevissimo tempo riesumata dal Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, anche lui assassinato; la Sinistra politica capeggiata dai vari De Mita, Mancino, Rognoni, Scalfaro e Prodi, i quali non sono stati mai nemmeno scalfiti da un petardo. Ma torniamo a noi e ai giudici tarantini Pietro Argentino e Matteo Di Giorgio. La cui delegittimazione – per completezza di informazione – è stata preceduta da un’altra clamorosa delegittimazione di un altro Giudice dell’area di centro destra, il capo dei g.i.p. del Tribunale di Taranto Giuseppe Tommasino, fortunatamente conclusasi con un’assoluzione e quindi con un nulla di fatto. Quindi Tommasino, Di Giorgio, Argentino, a Taranto dovremmo cominciare a parlare di un vero e proprio stillicidio di incriminazioni e di delegittimazioni a carico di Magistrati della Procura o del Tribunale non appartenenti all’area della Sinistra Politica Democristiana o altra area alleata, ovvero all’area della Destra neofascista finiana. L’indagine a carico del Dott. Matteo Di Giorgio è durata circa due anni ed è stata condotta da un Maresciallo dei Carabinieri espulso dall’arma e caratterizzata dall’uso di cimici disseminate in tutti gli uffici del Tribunale di Taranto e della Procura. E’ capitato personalmente a me di essere invitato dal giudice Giuseppe Di Sabato, (g.i.p.), un Magistrato che non c’entrava niente con l’inchiesta, di essere invitato a interloquire con lui al bar del Tribunale anziché nel suo ufficio, perchè anche nel suo ufficio c’erano le cimici di Potenza. Ma c’è di più! La Sinistra Politica democristiana vuole diventare a Taranto assolutamente dominante sia in Tribunale che in tutta la città, perché corre voce che due Magistrati, uno della Procura l’altro del G.I.P., resi politicamente forti dalla grande pubblicità e visibilità del processo Ilva, starebbero per passare alla politica, uno come candidato sindaco l’altro come parlamentare, quando sarà.»

Sembra che il cerchio si chiuda con la scelta del Partito democratico caduta su Franco Sebastio, procuratore capo al centro dell’attenzione politica e mediatica per la vicenda Ilva, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

Procuratore Sebastio, si può giocare a carte scoperte: il senatore Alberto Maritati alla Gazzetta ha ammesso di averle manifestato l’idea del Partito democratico di averla in lista per il Senato...

«Io conosco il senatore Maritati da tempo, da quando era pretore a Otranto. Siamo amici e c’è un rapporto di affettuosa stima reciproca. Ci siamo trovati a parlare del più e del meno... É stato un discorso scherzoso, non ricordo nemmeno bene i termini della questione».

Quello che può ricordare, però, è che lei ha detto no perché aveva altro da fare...

«Mi sarà capitato di dire, sempre scherzosamente, all’amico e all’ ex collega che forse ora, dopo tanti anni, sto cominciando a fare decentemente il mio lavoro. Come faccio a mettermi a fare un’attività le cui caratteristiche non conosco e che per essere svolta richiede qualità elevate ed altrettanto elevate capacità? É stato solo un discorso molto cordiale, erano quasi battute. Sa una cosa? La vita è così triste che se non cerchiamo, per quanto possibile, di sdrammatizzare un poco le questioni, diventa davvero difficile».

«Candidare il procuratore Franco Sebastio? Sì, è stata un'idea del Partito democratico. Ne ho parlato con lui, ma ha detto che non è il tempo della politica». Il senatore leccese Alberto Maritati, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”, conferma così la notizia anticipata dalla Gazzetta qualche settimana fa sull’offerta al magistrato tarantino di un posto in lista per il Senato.

Senatore Maritati, perchè il Pd avrebbe dovuto puntare su Sebastio?

«Beh, guardi, il procuratore è un uomo dello Stato che ha dimostrato sul campo la fedeltà alle istituzioni e non solo ora con l'Ilva. Possiede quei valori che il Pd vuole portare alla massima istituzione che è il Parlamento. Anche il suo no alla nostra idea è un esempio di professionalità e attaccamento al lavoro che non sfocia mai in esibizionismo».

I MAGISTRATI FAN QUEL CHE VOGLIONO.

La toga rossa ammette: i giudici fanno quello che vogliono, scrive di Cristiana Lodi su “Libero Quotidiano”. La sintesi è che i giudici fanno quello che vogliono. Perché hanno margini di discrezionalità sconfinati nella ricostruzione e nella valutazione dei fatti. Perché anche le possibilità d’interpretazione delle norme non conoscono limiti. Perché in Tribunale il clima è cambiato (o forse è tornato ancora più uguale a quello di un tempo), nel senso che il principio dell’uguaglianza di tutti (deboli e forti) davanti alla legge, di fatto, non esiste. O, di fatto, non è proprio mai esistito. La sintesi che noi riportiamo, non l’ha esposta un individuo qualunque, ma una toga. Un magistrato che di nome fa Livio Pepino, membro del Consiglio superiore della magistratura (l’organo di autogoverno dei giudici) dal 2006 al 2010, ex sostituto procuratore generale a Torino. E presidente di Magistratura democratica. Dunque una toga rossa, anche. In un articolo pubblicato ieri sul giornale comunista il Manifesto, Livio Pepino spiega come la sentenza Ruby che assolve Silvio Berlusconi dai reati di concussione per costrizione e prostituzione minorile, sia la prova provata che i giudici - anche i più irreprensibili e convinti di agire in piena indipendenza - alla fine fanno quello che vogliono. Questo con buona pace dei giornalisti vari o dei sostenitori della giurisdizione, i quali si sono sprecati nel giudicare, considerare e spiegare l’assoluzione dell’ex capo del governo come «una conseguenza (quasi) obbligata della modifica del delitto di concussione operata con la cosiddetta legge Severino (in realtà, precedente alla sentenza di primo grado)». Ma vi pare? Tempo buttato cimentarsi in simili esercizi interpretativi. Perché, scrive il magistrato, «come sempre le ragioni di una decisione sono molte, ma certo le principali stanno non nelle modifiche legislative bensì nelle scelte dei giudici». Che fanno quel che gli gira in quel momento. «E l’esercizio di tale discrezionalità risente del clima in cui essi stessi operano». Con una disinvoltura che ricorda, dice ancora il giudice Pepino, il caso dell’ex ministro Scajola: «Accusato di avere ottenuto un illecito finanziamento mediante il pagamento di parte cospicua del prezzo di acquisto di un prestigioso alloggio romano e assolto in primo grado per essere tale pagamento avvenuto “a sua insaputa”». Come contraddirlo? Difficile. Così com’è complicato sostenere che il magistrato ha torto quando afferma che «mai» si è visto un pubblico ufficiale macchiarsi del reato di concussione per costrizione perché ha usato la minaccia di una pistola puntata alla tempia del concusso. Anche se, aggiungiamo noi, non lo ha certo inventato il prete che l’elemento costitutivo del delitto di concussione, dal quale Berlusconi viene assolto dalla Corte d’Appello, è proprio la minaccia grave ed esplicita (come ad esempio quella con armi). Le interpretazioni giuridiche, in tal caso possono sì essere infinite e lasciare gran margine di decisione ai giudici, ma se la minaccia grave non esiste, diventa improbabile inventarla. Perfino quando l’imputato si chiama Berlusconi Silvio, giudicato a Milano. Il quadro nei tribunali «è mutato», insiste Livio Pepino, «una fase si sta chiudendo. Accade quotidianamente. In forza del nuovo/antico ruolo attribuito alla giurisdizione si divaricano le regole di giudizio adottate nei processi contro i “briganti” (poveri o ribelli che siano) e in quelli contro i “galantuomini”: qui il canone probatorio del “non poteva non sapere” di Scajola è sacrilegio; là è regola». Dunque nessuno è uguale davanti alla legge. E i giudici decidono quel che loro garba. Ergo: fanno quello che vogliono. E se a dirlo è una toga. Per di più rossa...

ANCHE BORSELLINO ERA INTERCETTATO.

Riina: "Borsellino era intercettato". Il Capo dei capi parla in carcere: "Sapevamo doveva andare perché le ha detto 'domani mamma vengo'", scrive “La Repubblica”. Riina e il boss Lorusso ripresi in carcere Cosa nostra teneva sotto controllo il telefono del giudice Paolo Borsellino o dei suoi familiari. E' lo stesso Totò Riina, in una conversazione intercettata, a rivelarlo a un compagno di carcere. "Sapevamo che doveva andare là perché lui gli ha detto: 'domani mamma vengo'", racconta il boss, riferendo le parole dette dal magistrato alla madre. "Questa del campanello però è un fenomeno...Questa una volta il Signore l'ha fatta e poi basta. Arriva, suona e scoppia tutto". E' un pezzo della conversazione intercettata in cui il boss Totò Riina, racconta all'uomo con cui trascorre l'ora d'aria in carcere, Alberto Lorusso, che a innescare l'esplosione che uccise Paolo Borsellino fu lo stesso magistrato, suonando al citofono in cui era stato piazzato un telecomando. La conversazione - il cui contenuto era noto, ma non il testo - è stata depositata al processo sulla "trattativa". "Il fatto che è collegato là è un colpo geniale proprio. Perché siccome là era difficile stare sul posto per attivarla... Ma lui l'attiva lo stesso", commenta Lorusso il 29 agosto del 2013. Il boss detenuto racconta di avere cercato di uccidere Borsellino per anni. "Una vita ci ho combattuto - dice - una vita... Là a Marsala (il magistrato lavorava a Marsala ndr)".  "Ma chi glielo dice a lui di andare a suonare?" si chiede Riina. "Ma lui perché non si fa dare le chiavi da sua madre e apre", aggiunge confermando che a innescare l'esplosione sarebbe stato il telecomando piazzato nel citofono dello stabile della madre del magistrato in via D'Amelio. "Minchia - racconta - lui va a suonare a sua madre dove gli abbiamo messo la bomba. Lui va a suonare e si spara la bomba lui stesso. E' troppo forte questa". Secondo gli inquirenti Cosa nostra avrebbe predisposto una sorta di triangolazione: un primo telecomando avrebbe attivato la trasmittente, poi suonando al citofono il magistrato stesso avrebbe inviato alla ricevente, piazzata nell'autobomba, l'impulso che avrebbe innescato l'esplosione. La tecnica, per i magistrati, sarebbe analoga a quella usata per l'attentato al rapido 904 per cui Riina è stato recentemente rinviato a giudizio come mandante. Questo genere di innesco si renderebbe necessario quando è pericoloso o impossibile per chi deve agire restare nei pressi del luogo dell'esplosione.

Se potesse aiutarmi….

Illustre parlamentare, inanemente non è la prima volta che mi rivolgo a lei od ai suoi colleghi. Ma a chi dovrei rivolgermi per avere un interessamento? Una richiesta di ispezione o di inchiesta. Una interrogazione al Ministro. Io non dispero che in questo Parlamento, finchè dura, possa trovare qualcuno con il cuore d’oro. Le farebbe onore se, con analitica cognizione di causa che io le prospetto, potesse affrontare una questione che attanaglia me dal 1998, ma anche centinaia di migliaia di giovani meritevoli impediti all’accesso ad una professione o ad un impiego pubblico. La differenza tra il dire e il mare è il fare. Vediamo quanto lei vale e quanto lei sia propenso a battersi per i diritti calpestati. Giusto per non avere io vergogna di essere un italiano.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO

Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?

Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.

Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.

Perché Bruxelles?

Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso  e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour  Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.

Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.

Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti.  Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.

GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.

Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.

Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.

Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce  il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”

Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad  accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.

Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato,  mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata  istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?” 

Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni,  perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di  Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.

Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.

Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.

Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato.  Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.

Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.

Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.  A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati.  Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non  previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.

Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.

A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.

Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.

Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.

A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.

La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.

Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.

Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………

Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.

Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…

Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.

Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.

Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!

Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino,  (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.

Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.

In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….

Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.

Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.

Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.

Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.

«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.

Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.

Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?

Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.

Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.

Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)

La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.

Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta,  “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi  hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.

Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.

Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).

Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.

Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.

Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.

Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.

Di che ci stupiamo?

Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che  sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore  della provincia di Bergamo, sposato e  padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio  2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno  ancora stato messo sotto processo come  inequivocabilmente colpevole. 

Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su  “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.

Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.

Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…

Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni  ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...

Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.

Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?

«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».

Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?

«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».

I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?

«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».

L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?

«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».

Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?

«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».

Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?

«Spero di scoprirlo presto».

In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.

«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».

Di fronte a tale affermazione come ha reagito?

«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».

In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…

«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».

Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?

«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».

Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…

«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».

Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?

«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».

Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?

«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».

Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?

«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».

Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di  appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.

Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.

Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.

Il signor Scialpi ed il 13 maledetto. Cerca di riscuotere la vincita dal 1981. Il venditore ambulante di Taranto combatte da 33 anni una guerra legale contro il Coni. La sua vincita (1 miliardo di lire) non è stata mai riconosciuta ma lui non si arrende, scrive di Angela Geraci  su “Il Corriere della Sera”. Il pomeriggio del 1° novembre 1981 un ragazzo pugliese di 28 anni si ritrova all’improvviso straricco. Si chiama Martino Scialpi, fa il venditore ambulante e quella domenica ha appena fatto 13 al Totocalcio. Ha comprato una schedina in una ricevitoria di Ginosa, in provincia di Taranto, e ha indovinato tutti i risultati delle partite: ha vinto più di un miliardo di lire. Non sa ancora che tutti quei soldi, però, non li vedrà mai. O, almeno, non li ha visti fino a oggi che ha 61 anni e ha passato gli ultimi 33 a combattere nelle aule di giustizia per riscuotere la sua vincita, tirando in ballo anche il Coni che quella vittoria non l’ha mai riconosciuta. Adesso con la rivalutazione (e il risarcimento danni), ha calcolato Scialpi, quella schedina varrebbe circa 9 milioni di euro. L’ultima speranza rimasta al commerciante è un udienza fissata il 4 novembre al tribunale di Roma: dopo aver ascoltato le parti, il giudice deciderà se accogliere o meno la richiesta di archiviazione dell’indagine contro il Coni fatta dalla pm. E allora Scialpi saprà se deve rassegnarsi o può ancora continuare a sognare. Tutta colpa di una lunga e complicata serie di eventi che parte dalla «sparizione» della matrice della sua schedina vincente. Il Totocalcio si è sempre rifiutato di pagare la vincita affermando che la titolare della ricevitoria aveva smarrito la matrice della schedina. Di fatto il tagliandino che avrebbe cambiato la vita di Scialpi non è mai arrivato nell’«archivio corazzato» della commissione del Totocalcio di Bari. Ma la storia è più complessa e inizia a rimbalzare da un aula di tribunale all’altra, di ricorso in ricorso. Perché c’è un problema anche per quanto riguarda il posto in cui l’uomo ha comprato la schedina. Scialpi coinvolge i vertici del Coni che si difendono esibendo un documento che prova la cessione dell’attività della ricevitoria da un proprietario all’altro, con la conseguente revoca della concessione. Insomma, la ricevitoria dove Scialpi aveva tentato la fortuna non avrebbe avuto le carte in regola per vendere le schedine in quel momento. Scialpi viene anche accusato di truffa e falso ma poi è assolto con formula piena. Una sentenza del tribunale di Taranto nel 1987 accerta l’autenticità della schedina e gliela restituisce. Passano gli anni, il commerciante continua a chiedere giustizia in un turbinio di carte bollate, perizie, ricorsi e richieste di annullamento di sentenze, fra il penale e il civile. Come quando, nel 2008, chiede che venga annullato il verdetto della corte d’appello-sezione civile di Roma che nel 1985 ha dato ragione al Coni. Scialpi e il suo avvocato portano ai magistrati una doppia perizia grafologica e merceologica disposta nel 2004 dal gip del tribunale di Bari: gli esperti (il chimico Roberto Ciarrocca e il grafologo Romeo Di Desiderio) sostengono che le carte presentate dal Coni sul passaggio di proprietà della ricevitoria sono state «manipolate». Sembra addirittura che il documento datato 5 agosto 1981 sia stato in realtà redatto in un’epoca vicino al 1991. I processi vanno avanti, tra i tribunali di Taranto, Bari e Roma. Nel 2012 il giudice civile di Roma emette un’ordinanza in cui intima al Coni di riconoscere a Scialpi oltre 2 milioni e 340 mila euro. Ma il venditore ambulante di Martina Franca deve aspettare ancora: il 19 settembre è prevista l’udienza in cui si dovrà decidere sul procedimento di pignoramento, avviato dal legale del commerciante ai danni del Coni, per un ammontare di circa 4 milioni di euro, su beni immobili e presso terzi riconducibili al Comitato Olimpico. Intanto sono stati indagati, con l’accusa di aver prodotto documenti falsi, l’avvocato Luigi Condemi del Coni, l’avvocato Enrico De Francesco di Taranto e l’ex responsabile Coni per la zona di Bari Mario Bernacca. Ma il pm ha chiesto l’archiviazione dell’indagine. Scialpi si è opposto e il 4 novembre ci sarà l’ennesima discussione fra le parti, dopo di che il giudice deciderà se accogliere la richiesta di archiviare il procedimento o meno . «Da trenta anni inseguo una vincita che doveva cambiarmi la vita e invece me l’ha rovinata - diceva Scialpi all’Ansa nel 2011 - Ho speso più di 400 mila euro, guadagnati con umile lavoro di commerciante in aree pubbliche, in perizie, spese legali, fotocopie e viaggi per seguire in mezza Italia le decine di cause contro il Coni». Da parte sua il Comitato Olimpico non rilascia più commenti su questa storia (che periodicamente, da oltre tre decenni, torna a galla) e rimanda all’ultima nota diffusa, un anno fa: «Non esiste alcuna sentenza del tribunale di Taranto, della Cassazione o di qualsiasi altro giudice che abbia accertato il preteso diritto del signor Scialpi al pagamento di una vincita al Totocalcio - si legge nella nota dell’8 luglio 2013 -. Il signor Scialpi è sempre uscito soccombente da tutti i giudizi intentati al Coni». «Continueremo a tutelare il denaro pubblico che gestiamo - dice ancora il Coni - dai tentativi di aggressione del signor Scialpi». L’avvocato Guglielmo Boccia, legale di Scialpi, è invece fiducioso quando parla al telefono da Martina Franca: «Siamo sereni perché iniziamo a vedere la fine di un percorso lungo decenni e abbiamo fiducia nella giustizia: solo così si spiega la tenacia di Scialpi che ha 33 procedimenti aperti e ha perso casa e lavoro per avere la sua vincita». Un muro contro muro, dunque, che dura dal 1981. I casi sono due: o il commerciante è un folle che ha dedicato metà della sua vita a perseguitare il Coni oppure è un uomo che lotta per un sogno a cui ha diritto. Da una lontana domenica d’inverno di trentatrè anni fa.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruo – scrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….

La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.

Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.

Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.

"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.

Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?

«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».

Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?

«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».

Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?

«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».

Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.

«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».

Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?

«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».

Ma all'inaudito non c'è mai fine....

Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.

TARANTO MAFIOSA.

A PROPOSITO DI RIMESSIONE DEL PROCESSO ILVA.

ISTANZA RESPINTA: DOVE STA LA NOTIZIA?

Lo chiediamo al dr Antonio Giangrande, sociologo storico che sul tema ha scritto : “Malagiustiziopoli. Ingiustizia contro la collettività”, ovvero “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”.

«E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com, CreateSpace.com.

Il processo all’Ilva resterà a Taranto e non sarà trasferito a Potenza: lo ha deciso la Corte di Cassazione la sera del 7 ottobre 2014. A presentare la richiesta di rimessione ad altra sede, per legittimo sospetto, erano stati i difensori di alcuni dei 52 imputati per disastro ambientale. I legali di Riva Fire, Ilva spa e di 13 imputati (tra i quali gli avvocati Franco Coppi, Francesco Mucciarelli, Adriano Raffaelli, Nerio Diodà, Stefano Goldstein e Marco De Luca) avevano depositato l’istanza il 5 giugno 2014. Il rigetto è avvenuto il 7 ottobre 2014. In poco meno di 200 pagine, i legali avevano cercato di far perno sull'articolo 45 del codice di procedura penale. Ovvero, come recita l’articolo, "la sicurezza o l'incolumità pubblica", o ancora "la libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo sono pregiudicate da gravi situazioni locali" che possono turbare lo svolgimento del processo stesso e non sono neppure eliminabili. Ovvero per “legittimo sospetto”. Dopo l’annuncio i colpevolisti hanno festeggiato, pensando di trovare a Taranto un humus giudiziario favorevole per le loro aspettative.

Ma quale è la notizia? Il rigetto scontato dell’istanza? Non ne era convinto del buon esito il buon Franco Coppi, che già ci aveva provato per Sabrina Misseri per il processo sul delitto di Sarah Scazzi. Ma ciò non gli ha impedito di presentare l’istanza insieme agli altri legali. Tarantini non lo sono e per questo hanno avuto il coraggio di presentare l’istanza di rimessione per legittimo sospetto che i magistrati del foro di Taranto non potessero essere sereni per il clima generato dalle campagne di stampa che hanno sobillato l’opinione pubblica. Quella stampa che prima era prona alla grande industria e come escort foraggiata.

In attesa delle ovvie motivazioni degli ermellini, i giornalisti, degni di tale titolo facciano una ricerca approfondita dei precedenti ricorsi di Rimessione fatti in tutta Italia. Se non vi è capacità o volontà possono sempre attingere ai miei saggi di inchiesta: “Malagiustiziopoli. Ingiustizia contro la collettività”, ovvero “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”. Il tema è stato trattato e ci si accorgerà che la legge Cirami mai è stata applicata. Perché la legge si applica per i poveri cristi e si interpreta per i poteri forti, specie se corporativi. Una norma disapplicata in abuso di potere ed a spregio dei diritti di difesa.

“L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) - spiega Edmondo Bruti Liberati, già Presidente dell’Associazione nazionale magistrati. - E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del tutto eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate restrittivamente. Nella rinnovata attenzione sull’istituto della rimessione, determinata dalla discussione della proposte di modifica (2002, legge Cirami), numerosi commenti – comparsi sulla stampa – rischiano di aver indotto nell’opinione pubblica l’impressione che l’istituto del trasferimento dei processi trovi applicazione ampia e che dunque la magistratura italiana ricorrentemente non sia in grado di operare con serenità di giudizio. Vi fu una sola difficile stagione dei primi decenni della nostra Repubblica, in cui numerosi processi per fatti di mafia furono trasferiti dalle sedi giudiziarie siciliane in altre regioni: era il segno umiliante della fragilità delle istituzioni, di uno Stato incapace di assicurare serenità allo svolgimento del processo e di garantire protezione ai giudici popolari di fronte alle minacce. Era una stagione in cui i processi, pur trasferiti ad altra sede, si concludevano pressoché ineluttabilmente con le assoluzioni per insufficienza di prove. Superata questa fase, e pur sotto la vigenza della norma del Codice di procedura penale del 1930 – che prevedeva la formula del «legittimo sospetto» –, in un periodo di diversi decenni i casi di rimessione sono stati pochissimi: intendo dire poche unità. I casi più noti di accoglimento, di norma ad iniziativa degli uffici del Pm, determinarono polemiche e reazioni. (Ad esempio, i fatti di Genova del luglio 1960, la strage del Vajont, la strage di Piazza Fontana, l’appello sul ‘caso Zanzara’, il caso delle schedature alla Fiat). Avanzava tra i giuristi la tesi che fosse necessaria una più puntuale e rigorosa indicazione dei motivi suscettibili di determinare il trasferimento. Il Parlamento, dopo le polemiche per il trasferimento del processo per la strage di Piazza Fontana da Milano a Catanzaro, interveniva per dettare dei criteri stringenti per la designazione del nuovo giudice (legge 773/1972 e successivamente legge 879/1980, che introdusse il criterio automatico tuttora vigente). La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi in materia e dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di casi, in cui si fa riferimento alle più disparate situazioni di fatto per concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che si può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda il periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale: le istanze di rimessione accolte sono state solo due.»

Di queste due istanze accolte, però, non ve ne si trova traccia per farne un attendibile riferimento.

Il collegio della prima sezione penale è stato presieduto da Umberto Giordano, consigliere relatore Margherita Cassano che entro trenta giorni, circa, depositerà i motivi del «no» al trasloco del processo Ilva. Senza successo, quindi, i difensori degli imputati - tra i quali il professor Franco Coppi - hanno sostenuto che i giudici tarantini non sarebbero sereni nell’affrontare una vicenda che coinvolge tanta popolazione della città pugliese dove sorgono gli insediamenti dell’acciaieria che riversa le sue polveri sui quartieri vicino agli stabilimenti.

Via libera al Gup Vilma Gilli, allora. Alla sbarra compaiono non solo i vertici Ilva, accusati di aver creato un’associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale della città, ma anche politici, amministratori, funzionari regionali e del ministero dell’Ambiente: dal presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, all’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, al sindaco della città, Ippazio Stefano, per arrivare ad avvocati (c'è anche un legale Ilva), un poliziotto, un carabiniere e un sacerdote.

Per i manettari: Tutti dentro!!

L’accusa è portata dalla Procura della Repubblica di Taranto, guidata da Franco Sebastio, al quale sono affiancati in questa inchiesta il procuratore aggiunto, Pietro Argentino, e quattro sostituti procuratori.

Da ricordare che mina la credibilità del pool d’accusa l’indagine della procura di Potenza a carico di Pietro Argentino per falsa testimonianza, come tutti sanno, per una deposizione resa a favore del’ex Pm di Taranto Matteo di Giorgio, condannato a 15 anni di carcere dal Tribunale di Potenza.

Come ne sono tutti a conoscenza del conflitto interpersonale tra Sebastio ed Argentino. Nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni telefoniche fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell'area del P.D. ostile al sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazzarano, nel corso delle quali il dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a Procuratore Aggiunto del dott. Pietro Argentino.

Quindi un iter giudiziario travagliato che, data la mia esperienza, mi permette, così come ho fatto per il processo Sarah Scazzi, di prevederne il finale: condanna per tutti, salvo prescrizione».

Una città mafiosa. O, meglio, una città dove la mafia si era infiltrata in centri sportivi alla moda, nei ristoranti lussuosi, nei bei negozi, scrive “Taranto Buona Sera”. E - su questo sono al lavoro gli uomini dell’Antimafia - anche nella macchina amministrativa del Comune di Taranto. Un’ipotesi di lavoro più che concreta, quella di cui ha accennato il procuratore della Dda, Cataldo Motta, censurando il comportamento del Comune. Impossibile non accorgersi che il Centro Magna Grecia - frequentatissimo, va detto, dalla ‘Taranto bene’ - fosse moroso per centinaia di migliaia di euro. Quel centro era affidato a Fabrizio Pomes, ex consigliere comunale e - per i magistrati - referente del clan De Vitis-D’Oronzo, che aveva rimesso le mani sulla città. Lo stesso Pomes che a D’Oronzo, in una intercettazione, dice di aver piazzato un “uomo loro”, un consigliere comunale amico, nella Commissione Assetto del territorio del Comune, quella in cui si scrive il futuro della città. Quel consigliere non è indagato. Ma certo è inquietante quanto emerge dalle parole dell’imprenditore- politico, (conosciuto in città pure per la passione per l’Inter, con tanto di foto con allenatori e calciatori nerazzurri) anche in ragione di altri episodi. C’è un consigliere comunale che viene avvicinato, in modi poco amichevoli, in città vecchia, da quattro persone che dicono di parlare per conto dei boss. C’è Michele De Vitis, fratello del mamma-santissima Nicola e marito del consigliere comunale Castellaneta (anche lei non indagata), che è presente in consiglio, insieme ad un ispettore della Polizia Provinciale “del quale peraltro sono stati accertati rapporti diretti e confidenziali con Orlando D’Oronzo”. Il Gip scrive di “insopportabile pressione operata” da parte del gruppo criminale De Vitis-D’Oronzo “non solo sulla sicurezza pubblica ma anche sugli imprenditori e sui palazzi delle Istituzioni”.

6 ottobre 2014. Buon risveglio, Taranto, scrive “Siderlandia”. E’ stato un risveglio amaro quello di ieri per Taranto. 52 arresti nell’ambito di un’operazione antimafia coordinata dalla Dda di Lecce per capi di imputazione che spaziano dall’omicidio all’estorsione, dal traffico di droga all’associazione a delinquere di stampo mafioso. Infatti, secondo il procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia, Cataldo Motta, i soggetti coinvolti stavano provando a riorganizzare le attività illecite nel capoluogo jonico: in particolare, estorsioni e traffico di droga. A finire in manette sono stati alcuni nomi di peso della malavita locale (De Vitis, D’Oronzo, Scarcia). Nomi che fanno tornare alla memoria i momenti tragici vissuti dalla città a cavallo fra anni ’80 e ’90, quando Taranto divenne tristemente nota alle cronache nazionali non tanto per l’avvelenamento provocato dalle grandi industrie, ma soprattutto per le sparatorie in strada, per gli omicidi feroci, per le stragi di innocenti. Vicende che la nostra comunità ha quasi del tutto rimosso negli anni a venire. Ed è forse proprio questo che rende tanto traumatico il risveglio. Fra gli arrestati c’è anche un “nome eccellente”, che lascia trapelare scenari inquietanti sotto il profilo del rapporto triangolare mafia-politica-imprenditoria. Si tratta di Fabrizio Pomes, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni. Personalità poliedrica, in bilico fra politica (dirigente del PSI jonico in epoca craxiana, poi sostenitore del centrodestra, infine promotore della lista “La Puglia per Vendola/PSI” a sostegno della rielezione di Ezio Stefàno, nel 2012) e imprenditoria, Pomes è stato fino a pochi mesi fa il titolare di una struttura di proprietà comunale, il centro sportivo Magna Grecia. I reati contestatigli riguardano proprio il suo rapporto con quella struttura: secondo gli inquirenti, alcuni esponenti del clan D’Oronzo sarebbero stati coinvolti nell’amministrazione di cooperative allestite per la gestione del centro. Sarà compito della magistratura accertare tali circostanze, intanto a noi non resta che evidenziare alcuni fatti politici della massima gravità. Il “centro sportivo Magna Grecia” è uno dei casi più clamorosi di rapporto perverso fra politica e imprenditoria a Taranto. Quasi un anno fa un giovane giornalista tarantino, Gaetano De Monte, in un articolo che il giornale per il quale allora lavorava non ha mai voluto pubblicare, ricostruiva passo per passo le fasi di questa strana storia. Nel 2003 il Comune di Taranto, allora amministrato dal centrodestra di Rossana Di Bello, stipulava un contratto di affidamento quindicennale con un’associazione temporanea di impresa (Ati) costituita da Coop Europa (società mandataria, di proprietà di Armando Parnasso, meglio noto per un giro di tangenti che in quegli stessi anni si verificò all’interno della sanità jonica), Associazione Delfini Azzurri Onlus e Associazione Calcio Club Dellisanti (mandanti). A seguito del fallimento della Coop Europa, nel 2007, il contratto sarebbe dovuto decadere, e le società mandanti avrebbero dovuto rimborsare, al Comune, i canoni di affitto fino ad allora non pagati e, ai creditori della Coop Europa, debiti per 250 mila Euro circa. E’ in questo momento che arriva Pomes con la sua cooperativa Corda Fratres. Di fatto questa subentrava alla Coop Europa senza tuttavia aver mai stipulato un atto formale col Comune di Taranto – che nel frattempo aveva cambiato amministrazione, con l’elezione a sindaco di Ezio Stefàno. La direzione patrimonio, nel 2011, e quella ai lavori pubblici, nel 2013, invitarono quindi i gestori ad abbandonare i locali per permettere al Comune di indire un bando pubblico per l’affidamento della struttura. La Corda Fratres e le altre cooperative hanno lasciato il Centro sportivo Magna Grecia, fra le polemiche, solo un anno dopo l’ultima ingiunzione degli uffici comunali; nel frattempo i debiti sono raddoppiati e lo stesso Comune di Taranto aspetta che gli siano rimborsati i canoni di affitto che i gestori avrebbero dovuto versare. L’affidamento anomalo del Magna Grecia è stato censurato dallo stesso procuratore Motta, che ha fatto esplicito riferimento a procedure poco chiare da parte del Comune. Intanto però lo stesso “Magna Grecia” in tutti questi anni è diventato un punto di riferimento per associazioni, gruppi spontanei e partiti politici. Nel desolante vuoto di spazi pubblici che ancora oggi caratterizza Taranto, incontri, dibattiti, seminari, presentazioni di libri, congressi ecc. sono stati ospitati dalla struttura di via Zara. Pomes è stato abile nel costruire questa centralità: affitti modici e ampia disponibilità erano gli elementi di una “strategia del consenso” che magari sarebbe potuta tornare utile nei momenti di difficoltà. Una strategia che è stata indirettamente sostenuta dalle istituzioni pubbliche (Comune, in primis), la cui politica sugli spazi sociali in questi anni è stata improntata su due assi fondamentali: indifferenza e repressione. Parla chiaro, ad esempio, la vicenda dell’ex scuola Martellotta. Occupata dalle ragazze e dai ragazzi del Cloro Rosso nel 2008, la struttura viene sgomberata a più riprese: in occasione dell’ultima “cacciata”, nel gennaio del 2011, l’amministrazione comunale si impegna a restituire alla città quello spazio abbandonato destinandolo proprio alle attività giovanili.  Passano gli anni, si verifica una nuova occupazione (da parte del collettivo politico “Mestiza”), vengono rinnovate ancora una volta le promesse dei rappresentanti politici, ma la Martellotta è ancora lì: un monumento alla considerazione che il Comune di Taranto ha dei giovani e della socialità. Ma non si tratta dell’unico caso. Si pensi al Cantiere Maggese in Città Vecchia: inaugurato a ridosso delle elezioni regionali del 2010 come Laboratorio Urbano, avrebbe dovuto essere un centro propulsore per la vita sociale dell’isola, ma ben presto la gestione della cooperativa incaricata dal Comune si rivela fallimentare e il Cantiere finisce per essere affittato a privati che lo trasformano in locale “da movida”. Si è dovuto aspettare l’interessamento della Scuola di Bollenti Spiriti, la scorsa estate, perché fra le mura di Largo San Gaetano si vedessero (forse per la prima volta) attività sociali degne di nota – attività che, alla chiusura della Scuola, sembrano però cessate. Eppure alle istituzioni occasioni di confronto con le realtà che animano la società civile locale non sono mancate. Nell’autunno del 2010 più di cento associazioni tarantine creano una “Rete per gli spazi“, sottoscrivendo un documento che chiede alle istituzioni pubbliche (Comune e Provincia) di discutere dell’assegnazione di alcuni grandi contenitori a scopi sociali. Appello che, neanche a dirlo, cade nel vuoto. Analogamente accade alla richiesta avanzata dai ragazzi di Officine Tarantine, che nell’estate del 2013, stanchi di mancate risposte, decidono di occupare i Baraccamenti Cattolica. Anche in quel caso all’indifferenza fa seguito la repressione, con il tentativo di sgombero di qualche mese fa. C’è un rapporto fra la politica fallimentare del Comune di Taranto sul fronte degli spazi aggregativi e il successo del Centro sportivo Magna Grecia? E’ una domanda che inevitabilmente resta aperta, ma che chiunque abbia a cuore il destino della nostra comunità non può eludere. Perché questa domanda richiama quasi spontaneamente una riflessione. Quando si parla di “spazi” infatti non si fa riferimento semplicemente all’elementare esigenza di tutti gli esseri umani di condividere determinati luoghi fisici per fare insieme qualcosa (“l’uomo è animale  sociale”, diceva qualcuno). Quando si parla di “spazi” – e, in particolare, di “spazi sociali” – si parla di democrazia. Perché, checché ne pensi qualche ingenuo entusiasta della rete, la democrazia nasce in un luogo fisico – l’agorà degli antichi, le piazze dei comuni, dal Medio Evo ad oggi – ed è destinata a morire quando quei luoghi fisici, per una ragione o per l’altra, vengono sottratti alla collettività. E che democrazia è quella che è costretta a dipendere da uno spazio come il Magna Grecia – col suo retroterra di malaffare, di collusioni ancora non chiarite, di “zone d’ombra”? Evidentemente è una democrazia “sotto la tutela” di quegli stessi gruppi che hanno il massimo interesse a controllare e indirizzare tutti i movimenti che emergono in città, al fine di preservare gli equilibri di potere di cui essi stessi sono i principali beneficiari. Ed ecco allora, per chi ancora non lo avesse capito, che la questione degli spazi – almeno a Taranto, ma non solo a Taranto – non è semplicemente l’ossessione di un gruppetto di “giovani estremisti”; è una delle questioni fondamentali per la sopravvivenza della democrazia nella nostra città. Una questione che troppo spesso è stata guardata “dall’alto verso il basso” da chi prospettava sempre “ben altri problemi”. Forse il brusco risveglio che la Dda di Lecce ci ha riservato ieri può essere un’occasione per riprenderci dalle tante (troppe) illusioni che abbiamo coltivato in questi anni. Una su tutte, la vulgata per cui il principale fronte di conflitto è quello che vede contrapposta la comunità tarantina nella sua interezza alle “potenze colonizzatrici” provenienti dall’esterno (Ilva, grande industria, Roma ecc.). Per usare un’espressione brutta, ma efficace… “il nemico è fra noi”. Non è la “quinta colonna” che indebolisce la lotta contro le potenze esterne, o la “mela marcia” che fa sfigurare il resto del cesto. E’, al pari di certe potenze esterne, una galassia di soggetti il cui solo interesse è accumulare denaro e potere – sfruttando, opprimendo, avvelenando. Il nemico è la borghesia stracciona che non disdegna di entrare in affari con la mafia, se questo può garantirgli un ritorno, e che si insinua nella politica e nell’amministrazione pubblica con uomini fidati e scambi di favori. E si arricchisce, e accresce il proprio potere, mentre tutto intorno noi, esclusi da queste dinamiche, subiamo gli effetti di quella economia di rapina – che in realtà è il volto autentico di ciò che chiamiamo “capitalismo” o “economia di mercato” -: disoccupazione, precarietà, avvelenamento. Ecco, quando capiremo questo, e ci disporremo ad agire di conseguenza, forse per Taranto sarà davvero l’alba di un giorno nuovo.

Strutture pubbliche e fini privati, scrive Gaetano De Monte. Un'inchiesta che mostra come il Comune di Taranto abbia gestito, negli anni, una struttura destinata alla collettività. C’è da giurare che i profeti della legalità già si staranno scandalizzando. Perché un gruppo di giovani, sabato scorso, è entrato all’interno dei Baraccamenti Cattolica, - la struttura di sedici mila metri quadri, ex dopolavoro dei dipendenti dell’Arsenale - occupandone i locali, ed iniziandone la riqualificazione, dopo venti anni di abbandono. Sappiamo quanto la politica, a volte, sa essere ipocrita di fronte a gestualità come queste. Invece, forse, lo stesso concetto di legalità, meriterebbe una maggiore, attenta, interpretazione, soprattutto in un Comune come Taranto, dove sono stati tantissimi, i casi di strutture pubbliche consegnate, nel corso degli anni, su affidamento diretto, senza bando o gara d’appalto, ad associazioni, cooperative, ed anche a singoli. Che in molti casi ne hanno fatto un uso privatistico, (di tali strutture) a volte addirittura ai limiti del saccheggio della cosa pubblica. Emblematiche, in questo senso, furono le gestioni dei Giardini Virgilio, del Paddy’s Bar, del Parco Cimino, della Villa Peripato, del Centro Sportivo Magna Grecia. Per questo ultimo, dovrà essere bandita, a breve, una gara pubblica. E’scaduta infatti, il 26 Agosto 2013, la concessione temporanea data all’associazione sportiva dilettantistica centro sportivo Magna Grecia per la direzione della struttura di Via Zara. Un affidamento che è costato all’associazione, secondo la scrittura privata stipulata con l’amministrazione comunale, dieci mila euro. Per la gestione di diversi campi da calcetto, una sala convegni, una palestra, due campi da tennis e un punto ristoro. Per un periodo di cinque mesi. Secondo lo stesso contratto, le spese per le utenze e la vigilanza sono a carico del privato. E menomale. Perché a causa della mala gestione del Magna Grecia, negli anni passati, le casse pubbliche ci hanno rimesso un sacco di soldi. Lo si scoprì soltanto l’undici agosto del 2011, quando fu approvata dalla Giunta Comunale di Taranto un atto di ricognizione della situazione giuridica, contabile e giudiziale relativo alla struttura. Una deliberazione, questa, con cui si individuavano le azioni necessarie alla salvaguardia del patrimonio e alla tutela del pubblico interesse. Ma che ripercorreva, soprattutto, in quelle carte, l’iter che aveva portato l’amministrazione, nel 2003, alla stipulazione del contratto per quindici anni con l’associazione temporanea di impresa (Ati) costituita da Coop Europa (mandataria), Associazione Delfini Azzurri Onlus e Associazione Calcio Club Dellisanti (mandanti). Un rapporto tra pubblico e privato che si complica subito, comunque. Con l’Ati che risulta già gravemente inadempiente, a partire dal 2005. E con la coop. Europa, società mandataria dell’Ati appaltatrice, che viene dichiarata fallita con sentenza del tribunale di Brindisi nel maggio del 2007. Quest’ultima cooperativa faceva riferimento all’imprenditore faccendiere Armando Parnasso, e proprio a lui era diretta una bomba che esplose una notte di qualche anno fa, all’interno dei locali, piazzata, come riveleranno gli atti dell’operazione Scarface, dalla malavita, come avvertimento – estorsione nei confronti dell’ imprenditore. Nel frattempo, - tornando alla struttura - così come prevedeva il disciplinare allegato all’atto di affidamento della gestione, il contratto viene rescisso ipso iure, a causa di una grave inadempienza della parte concessionaria: il mancato pagamento dei canoni previsti. A carico delle mandanti, (Associazione Delfini Azzurri Onlus e Associazione Calcio Club Dellisanti) essendo fallita l’impresa mandataria, risultavano debiti per complessivi 283.533.000 euro. Questo, alla data del 31 dicembre 2008. Intanto, nel 2007, era stato modificato il  raggruppamento temporaneo d’impresa, rideterminando la costituzione dell’Ati: sostituendo alla fallita Coop Europa, la Soc. Coop Corda Frates, società di servizi presieduta da Fabrizio Pomes, consigliere comunale ed assessore di lungo corso, segretario provinciale del partito socialista a cavallo tra gli anni 80 - 90, ora vicino al cartello elettorale “Puglia per Vendola”. Ma, “a far data dall’atto modificativo già citato, l’Ati detiene senza alcun titolo legittimante il centro sportivo Magna Grecia, proseguendo, di fatto, e ai fini di lucro, la gestione della struttura comunale” si legge così nella deliberazione della Giunta Comunale che ha per oggetto la ricognizione contabile della struttura sportiva. In particolare, “la mandataria Corda Fratres è soggetto che non detiene alcun rapporto giuridicamente rilevante con il Comune di Taranto, inoltre, le mandanti Associazione Delfini Azzurri Onlus e Associazione Calcio Club Dellisanti avrebbero dovuto lasciare la struttura e contestualmente provvedere al pagamento dei canoni insoluti” si legge ancora, così, in quelle carte che risalgono a due anni fa. Contestualmente, i debiti sono cresciuti, raddoppiati. Fino al 2011, la somma complessiva dovuta da parte di chi continuava ad occupare senza titolo era lievitata a 541.000 euro, comprensivi di Iva, rivalutazione, ed interessi per canoni non dovuti. In un documento della direzione Patrimonio, sempre risalente a quell’anno, si considerava, inoltre, per poter esperire ogni azione utile alla salvaguardia del bene pubblico, “l’indizione di una gara con procedura ad evidenza pubblica nelle forme previste dalla normativa vigente in materia di concessione di pubblici servizi, al fine di ristabilire la piena legittimità dell’affidamento”. E si demandava alla direzione affari legali il compito di predisporre tutti gli adempimenti conseguenti in merito alla restituzione dei crediti maturati e maturandi per canoni non corrisposti. Dunque, tutto ciò era scritto in calce ad un documento redatto nell’agosto 2011. Passano due anni, questa volta è un’ordinanza della direzione  dei lavori pubblici che invita i gestori a lasciare i locali. Il 13 marzo, sempre di quest’anno, l’Ati costituita da Associazione Delfini Azzurri Onlus, Associazione Calcio Club Dellisanti e Coop Corda Frates, dichiara la propria disponibilità  a lasciare la struttura. E nel frattempo, lo stesso giorno, una nota dell’associazione sportiva dilettantistica Centro Sportivo Magna Grecia - che già gestisce una serie di servizi all’interno della struttura - dichiara la propria disponibilità a continuarne la gestione, in attesa di un nuovo affidamento, che venga stabilito con una procedura ad evidenza pubblica. Ma, - come un dirigente comunale ci ha raccontato – al Comune di Taranto ci sono appalti che durano anni. Altri, invece, solo pochi giorni. E ci sono anche, come nel caso del Magna Grecia, (ma è costume che riguarda tante altre strutture comunali, specie quelle sportive) strani affidamenti. Nel frattempo, rimane massima la disponibilità - di chi ancora gestisce la struttura - nei confronti di quelle forze politiche che governano la Città. Chissà se uguale disponibilità, la mostrerà, il partito al Governo (della Città) nei confronti di chi ha occupato, di recente, una struttura pubblica. Ma per riqualificarla, nell’interesse della collettività. Non certo per fini privati, come purtroppo hanno fatto in tanti, negli anni.

Chi comanda qui?, si chiede Gaetano De Monte. Perché la verità storica non si scriva nei tribunali. Note brevi a margine di un inchiesta della Dda. Chi comanda qui? E’ la frase pronunciata da un manager di una multinazionale interessata ad installare in Provincia di Taranto alcuni impianti fotovoltaici, e in cerca di protezione tra i due mari, evidentemente, per evitare il danneggiamento degli stessi. La frase è contenuta nelle centinaia di pagine che compongono l’ordinanza con cui il Gip del Tribunale di Lecce Alcide Maritati ha eseguito cinquantadue provvedimenti cautelari richiesti dalla direzione distrettuale antimafia salentina. E che ha condotto in carcere, all’alba di ieri, quasi tutti i vecchi capi-clan della malavita storica tarantina, e insieme a loro, un imprenditore molto noto in Puglia, - ex assessore e consigliere comunale con il Psi a cavallo tra anni’80 e i primi anni’90 - Fabrizio Pomes, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa ed intestazione fittizia di beni. Già, chi comanda qui? E’ anche la domanda che tutti noi dovremmo porci - quando le inchieste giudiziarie per mafia sfiorano o toccano addirittura, come in questo caso, il livello del politico - cercando di allargare lo sguardo e la prospettiva, oltre l’inchiesta giudiziaria e tutto quello che si apprende dal lavoro, egregio in questo caso, svolto dai magistrati. Sforzo di analisi ampio che viene richiesto in primis a noi giornalisti, che i fatti e gli eventi siamo tenuti / costretti, a raccontarli. Perché d’accordo, da oggi tutti sappiamo a quali commercianti hanno chiesto il pizzo i Clan, a quali affari erano interessati, quanta cocaina riuscivano a movimentare in un mese, quali relazioni intessevano con altri boss pugliesi della Sacra Corona Unita. Ma la domanda di fondo, ad avviso di scrive, resta soltanto una. Chi comanda qui? Nei 29 comuni che compongono la Provincia di Taranto, ad esempio, chi ha attentato dal 2011 ad oggi alle vite di alcuni consiglieri comunali e pure di qualche sindaco? E soprattutto, perché? A cosa si erano opposti? O perlomeno avevano tentato, di farlo. Al traffico di rifiuti tossici che ogni giorno avvelena i nostri territori? Alle speculazioni legate agli impianti di energia rinnovabile? A nuove lottizzazioni edilizie? Ad alcune opere gigantesche, utili solo per rimpinguare le casse personali di qualche amministratore che aveva “speso” tanto in campagna elettorale? Queste restano solo ipotesi, dato che sui responsabili di quegli attentati, (l’ultimo appena una settimana fa, il terzo ai suoi danni, al sindaco di San Giorgio Jonico) non è stata fai fatta piena luce. Supposizioni possibili,  però, attraverso un’opportuna conoscenza della nostra storia recente, quella degli ultimi trent’anni, perlomeno, e dei  meccanismi che in taluni casi presiedono alla scelta delle rappresentanze politiche, da queste parti più che altrove. E allora, non possiamo non concordare con quello che oggi scrive Mimmo Mazza sulla gazzetta del mezzogiorno di oggi e cioè: “c’era davvero bisogno dell’intervento della Direzione distrettuale antimafia per venire a conoscenza che nel consiglio comunale di Taranto siede dal 2007 Giuseppina Castellaneta, appena transitata al nuovo centro destra del Ministro Alfano, a cui ieri hanno arrestato il marito per tentata estorsione ai danni del presidente dell’azienda municipalizzata di nettezza urbana Amiu, e il cognato, ritenuto il capo dell’associazione? Non solo. Nel consiglio comunale di Taranto, tuttora, sia tra i banchi della maggioranza che tra quelli dell’opposizione siedono almeno quattro consiglieri comunali che vantano amicizie o parentele con famiglie “di rispetto”. E a giudicare dalle “facce” di un tempo che si sono riviste domenica 28 settembre in Prefettura durante lo spoglio per le elezioni di secondo livello delle Province, c’è poco da stare tranquilli, politicamente si intende. Tant’è. Quel che è certo è che per dirlo ancora con le parole scritte dal caporedattore della Gazzetta del Mezzogiorno: “è arrivato il momento di finirla con il voler affidare alla magistratura l’attività di supplenza, con il delegare ai giudici scelte e selezioni che una classe politica matura, libera e trasparente potrebbe adottare da se, abbandonando per sempre logiche di ricerca del consenso che non portano mai a qualcosa di buono”. Implicitamente, si fa riferimento ai meccanismi di scambio perversi che regolano la vita elettorale prima, e quella amministrativa, poi. Ricordatevelo la prossima volta che un sindaco della nostra città sarà eletto con quasi il 70% dei consensi, in una città che in dieci anni esatti è passata dall’eleggere il picchiatore fascista Giancarlo Cito, al pediatra dei poveri Ezio Stefano (eletto una prima volta addirittura come indipendente nelle file di Rifondazione Comunista  e poi passato a Sel). qualcosa si poteva già comprendere. Ovvero, che  non c’era stata nessuna rivoluzione culturale introdotta attraverso il voto popolare, ma forse, più semplicemente, che i burattinai dei buoni benzina, gli stessi che procuravano i posti di lavoro nell’indotto Ilva o al Porto, avevano cambiato casacca. Perché sono loro che comandano qui. I gattopardi, cresciuti all’ombra di un potere politico debolissimo. Usciti “vincitori” e ricchissimi, dalla guerra di mala che ha insanguinato le strade di Taranto a cavallo tra anni’80 e ’90. La borghesia cozzarizzata che gestisce il ciclo dei rifiuti, del cemento, di parte della produzione industriale in serie, che gioca in borsa, investe capitali e promette posti di lavoro in cambio del voto. Sono loro che comandano qui. Non esiste nessuna gomorra, né qui né altrove in realtà. Esiste la cattiva politica e l’economia criminale. E quella buona, semplicisticamente, per dirla con un’ espressione ora inflazionata che un tempo ha avuto un senso, la Puglia Migliore. Da non confondere, però, con “la Puglia per Vendola”. Quella purtroppo è diventata un’altra cosa, almeno qui tra i Due Mari.

Mafia, solidarietà alla consigliera per l'arresto del marito: bagarre in Comune a Taranto. L'operazione che ha portato in carcere 49 persone tra cui fratello del boss, sposato con l'esponente Ncd. In aula: "Grazie a tutti per il sostegno". Insorge l'opposizione, che chiede lo scioglimento dell'assemblea per infiltrazioni mafiose, scrive Vittorio Ricapito su “La Repubblica”. "Grazie della solidarietà colleghi consiglieri". La bufera della valanga di arresti per mafia della scorsa settimana (49) si abbatte anche sul consiglio comunale di Taranto, dove l'opposizione abbandona l’aula e va dal prefetto per chiedere lo scioglimento del Comune di Taranto per infiltrazioni mafiose, guidata dalla protesta del leader dei Verdi e consigliere Angelo Bonelli. In apertura dei lavori la consigliera Ncd Giuseppina Castellaneta, moglie di Michele De Vitis, uno degli arrestati nel blitz e fratello del boss Nicola De Vitis, legge una lettera con cui ringrazia per l'affetto ricevuto in occasione del maxi blitz contro la criminalità locale che si è scoperto avere ramificazioni importanti negli ambienti 'bene' della città. "Sono rimasta colpita - dice - dalle manifestazioni di vicinanza e affetto di molti colleghi consiglieri, che pubblicamente ringrazio per la loro sensibilità. Difenderò con tutta la mia forza di madre e di moglie - la promessa pubblica rivolta all'aula - la mia famiglia e mio marito. Sono sicura che la magistratura ci renderà giustizia". Quarantanove arresti a Taranto per mafia, tra cui il marito della consigliera Ncd Giuseppina Castellaneta, moglie di Michele De Vitis, uno degli arrestati nel blitz e fratello del boss Nicola De Vitis. La bufera degli arresti per mafia della scorsa settimana si abbatte anche sul consiglio comunale di Taranto, dove in apertura dei lavori viene letta la lettera della consigliera Castellaneta che ringrazia i colleghi per la solidarietà. L'opposizione attacca e chiede al prefetto lo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiosi. Il consigliere d’opposizione Angelo Bonelli prende la parola in consiglio dopo l'accorato intervento: "Quello che ha detto il procuratore antimafia di Lecce Cataldo Motta è inquietante. Il sindaco Ippazio Stefàno deve dare una risposta alla città su un'accusa che è stata rivolta in pubblico circa le ipotesi di condizionamento mafioso sull'amministrazione comunale". Il riferimento è alla censura del procuratore circa un particolare dell’inchiesta che ha portato alla raffica di arresti : la gestione del centro sportivo comunale Magna Grecia. Secondo l’accusa dell’antimafia, c’erano uomini del clan D’Oronzo-De Vitis nella cooperativa che gestiva gli impianti. Era presieduta dall’imprenditore Fabrizio Pomes, ex segretario provinciale del nuovo Psi, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni. Già in un0altra occasione Motta aveva censurato gli amministratori locali perché nonostante il canone di gestione mai pagato - con un debito di quasi un milione di euro per le casse del Comune - la gara d’appalto fu bloccata e trasformata in proroga dell’affidamento. Alla parola mafia, però, in consiglio si scatena il putiferio. Fischi e urla dai banchi della maggioranza. Il presidente del consiglio comunale Bitetti toglie la parola a Bonelli: l’argomento non è all’ordine del giorno e si deve proseguire con i lavori interrotti durante l’ultima riunione. E’ il caos. Bonelli rincara la dose: "Se qualcuno viene definito nelle intercettazioni dell’inchiesta 'uomo nostro', non può continuare a fare il presidente della commissione assetto del territorio", riferendosi al consigliere Giovanni Guttagliere, anche lui di Ncd, citato in alcuni passi delle intercettazioni riportate nell’ordinanza di custodia cautelare. I consiglieri d’opposizione Gianni Liviano, Francesco Venere e Dante Capriulo abbandonano l’aula insieme a Bonelli e vanno dal prefetto. I primi sollevano un problema di agibilità democratica in consiglio, il secondo chiede senza mezzi termini di valutare lo scioglimento per infiltrazione mafiosa alla luce delle notizie di stampa diffuse negli ultimi giorni. "Chiederò al sindaco l’elenco degli immobili comunali, come sono stati affidati, se con gara e se risultano elementi legati alla criminalità organizzata che usano questi beni". Ipotizzare condizionamenti mafiosi all'interno dell'amministrazione comunale "è di una volgarità e cattiveria che offende l'ente - dice il sindaco Ippazio Stefano - chi insinua questo dimostra di non volere bene alla città. Non spetta a loro esprimere un giudizio. Lasciamo alle autorità preposte fare una diagnosi del problema".

I dolori di Taranto, dove anche il calcio è mafia. Il direttore dell’agenzia per l’ambiente: per risanare questa città servono 3 miliardi. ll capo dei pm: «Qui la criminalità controlla ogni cosa. E la gente sta con lei», scrive Goffredo Buccini su “Il Corriere della Sera”. Quando hanno scarcerato don Cataldo Ricciardi, qui hanno fatto i botti. A un pugno di chilometri da dove è stato ammazzato Mimmo, tre anni, in braccio al suo patrigno malacarne. Alla faccia dei cortei di don Ciotti e dei proclami antimafia sui giornali. Sparano spesso i mortaretti, quaggiù, dai Due Mari fino al Salento profondo, per festeggiare ogni scarcerazione di boss, e nei prossimi dodici mesi molti mammasantissima della Sacra Corona Unita usciranno di galera. «Io la chiamo la stagione dei fuochi», mastica amaro nel suo ufficio leccese di procuratore antimafia Cataldo Motta, bestia nera degli uomini del disonore pugliesi: «La mafia qui guadagna consenso, la gente sta con lei. Falcone su questo sbagliava: non è finita, anzi. Dà lavoro e controlla persino le squadre di calcio».

FUOCHI - L’Ilva ha invece smesso di proiettare nel golfo i sinistri bagliori di altri fuochi, quelli dei gas in eccesso bruciati nelle torce, le fiammate che quattro anni fa attirarono l’attenzione dei carabinieri del Noe, dal cui rapporto nacque il clamoroso sequestro del luglio 2012 voluto da Franco Sebastio, un altro procuratore, pure lui una bestia nera, però dei Riva e degli inquinatori. La gestione commissariale - con in prima fila un ecologista come Edo Ronchi - piuttosto che tornare alle famigerate fiammate ha fermato a turno gli altiforni quando, giorni fa, s’è guastata la centrale elettrica dell’acciaieria: «Cautela ambientale». Qui, mentre incombe il processo ai Riva e ai loro solerti estimatori sparsi nella politica, nel giornalismo, nel sindacato e perfino nella Chiesa (il 19 giugno un’udienza preliminare con 53 indagati si terrà nella palestra dei pompieri), la nuova parola magica è un neologismo: ambientalizzazione. L’idea sarebbe di salvare il lavoro senza condannare a morire di cancro i lavoratori e i cittadini. Ma, appunto, è una parola.

«AMBIENTALIZZAZIONE» - Il cancerogeno benzopirene nel rione Tamburi è sceso di dieci volte. Ma Giorgio Assennato, direttore dell’Arpa, scuote la testa: «Quelli hanno spento sei o sette cokerie su dieci. Quando però nel 2016 l’autorizzazione integrata ambientale, la famosa Aia, sarà pienamente realizzata, le cokerie torneranno a funzionare e abbiamo già proiezioni secondo cui il danno non sarà accettabile. Certo ora è tutto a posto. Ma è come vedere uno che si butta dal sesto piano e finché non si sfracella dirgli che sta in perfetta salute». L’ambientalizzazione? «Servono tre miliardi. Però i soldi non si trovano. Quindi le cose non andranno bene, ma non lo scriva». Di miliardi Sebastio e la gip Todisco ne avevano in verità individuati otto: soldi che secondo l’accusa il gruppo Riva avrebbe negli anni sottratto all’ammodernamento e alla sicurezza dell’acciaieria, in sostanza ai tarantini e al loro futuro. Tuttavia il clamoroso sequestro è stato annullato in Cassazione, quindi quelle della magistratura tarantina vanno ritenute congetture.

FESTE MAFIOSE - Non è però una congettura la scarsità di quattrini. Nella sua relazione di fine 2013, il commissario Enrico Bondi dà conto di una produzione ridotta di due milioni di tonnellate e di una perdita del 30 per cento nei ricavi lordi rispetto al 2012. Servono, spiega il commissario, «percorsi finalizzati alla ricostituzione del corretto equilibrio finanziario». Servirebbero, subito, 500 milioni di prestito ponte. La sensazione è che l’equilibrio vada cercato necessariamente in basso. Con esuberi e disoccupazione. I fuochi dell’acciaieria sembrano destinati ad affievolirsi quanto quelli delle feste mafiose a brillare sempre più. A Taranto e nelle terre del Salento che gravano sul vecchio polo produttivo, quelle dove Tobagi scoprì col sociologo Aurora i metalmezzadri degli anni Settanta, la crisi italiana assume una declinazione particolare. L’Ilva, illusione di benessere perenne, ha risucchiato valori e vite. «Fino ai sequestri di luglio 2012, era una caserma. Riva comandava coi suoi, tutti ubbidivano», racconta Francesco Bardinella, Fiom: «Ora nei reparti ci sono tanti piccoli focolai da non sottovalutare, smarrimento e rivolta. Bondi è uno tosto, ha allontanato quasi tutta la struttura ombra dei Riva. Molti responsabili dei reparti erano legati a loro...».

FERRARI BLINDATA - Nel vuoto di potere tutto può succedere. Tonio Attino ricorda in un bel libro come negli anni Ottanta il boss Modeo, subappalti in tasca, sfrecciasse nelle strade della fabbrica, allora Italsider, sulla sua Ferrari blindata. «Erano gli anni in cui mandavano noi poveracci a interrare amianto nelle discariche interne», ci dice Vito Barletta, malato di tumore del sangue. E, per anni, troppi giornalisti si sono occupati d’altro, come se non fossero visibili i fumi, le polveri, i reparti di oncologia troppo pieni, i morti in fabbrica. In una città di duecentomila abitanti, ci sono ben cinque quotidiani e una miriade di tv locali. «Chiediti perché», ci dice, sorridendo, Bardinella. Una delle tv, Blustar, ha giustificato, nero su bianco, gli esuberi di personale anche con la perdita di introiti pubblicitari «derivanti dal cliente Ilva». Dal dissesto - 900 milioni della sindaca Di Bello, nel 2006 - al disastro. Da Vendola in giù, la nuova classe politica è stata sfregiata dalle scandalose intercettazioni con Girolamo Archinà, boss delle pubbliche relazioni Ilva. «Ma anche se il 19 giugno mi rinviano a giudizio, non mi dimetto», tuona il sindaco Ippazio Stefàno. Sospettato di arrendevolezza con Archinà, nega: «Sono quello che gli ha fatto pagare l’Ici che manco pagavano, altro che arrendevole!».

CENTRALE DI SPACCIO - Stefàno torna da Roma giurando di avere incassato il sì del governo a trasformare Taranto in città d’arte, ma per ora pare uno slogan. «Dobbiamo prepararci a non avere più l’Ilva, lo spettro è Bagnoli». Mentre parla, due edifici storici di città vecchia appena restaurati - palazzo Amati e palazzo Delli Ponti - recano i segni di recenti saccheggi: si sono portati via pure gli impianti di aria condizionata, come cavallette. Taranto vecchia potrebbe essere l’eldorado dei turisti, è ridotta a centrale di spaccio, chi cerca un covo rompe un lucchetto e occupa. Comandano i Taurino, secondo la Dda, persino sul commercio delle cozze. In periferia, i Ciaccia e i Catapano. Vecchi ed emergenti si scontrano, il piccolo Mimmo e la sua famiglia muoiono forse perché mafiosi di Massafra vogliono pigliarsi Palagiano, dove c’era il quartiere Italsider. Il nonno di Mimmo era un operaio comunista e veniva orgoglioso da Cerignola, come Di Vittorio. Il padre era già un trafficante di droga e perciò fu ucciso. Mimmo, tre anni, non ha potuto scegliere. «Ma la storia della sua famiglia racchiude la caduta della classe operaia, non più argine contro la mafia», sospira Tito Anzolin, preside della scuola dove Mimmo non ha fatto in tempo ad arrivare. A Taranto vecchia, il Duomo consacrato al patrono San Cataldo è assediato da palazzi e uomini sgarrupati. Pina Gubitosa, 89 anni, fa la guida per arrotondare la pensione. San Cataldo era irlandese: si dice che i tarantini, in odio a se stessi, amino i forestieri. «Gesù gli apparve e gli comandò: corri a Taranto ché quelli stanno tornando al paganesimo», spiega Pina. E si stringe nel cappottino antico, circondata dai nuovi pagani.

Dopo il blitz la verità del Sindaco. Stefàno: “Contro di me usano metodi mafiosi”. Intervista al Primo Cittadino che rispedisce al mittente le accuse e avvisa: “Non mi dimetto. Se ci sarà bisogno farò un rimpasto”, scrive Fabio Mancini  su “Taranto Buona Sera”. “Stanno mettendo in atto una manovra inaccettabile. Questa continua operazione calunniosa è un’arma mafiosa. Gettano ombre sul mio lavoro con l’obiettivo di delegittimarmi. Ma io, per senso di responsabilità, devo rimanere qui. Non mi dimetto”. Il sindaco Ippazio Stefàno, nel corso di una intervista rilasciata oggi a Taranto BuonaSera, rivela fatti e circostanze per spiegare l’operato dell’Amministrazione comunale, finita nell’occhio del ciclone dopo l’operazione della polizia “Alias”, che ha portato all’arresto di 52 persone, ma soprattutto dopo le dichiarazioni rilasciate in conferenza stampa dal procuratore antimafia Cataldo Motta che ha censurato alcuni comportamenti del Comune. Al centro delle polemiche la gestione del Centro Sportivo Magna Grecia e le relative implicazioni di una vicenda che ha portato quattro consiglieri comunali (Angelo Bonelli, Dante Capriulo, Gianni Liviano e Francesco Venere) ad avviare una raccolta di firme per chiedere lo scioglimento del Consiglio per “sospetti di infiltrazioni mafiose”.

Sindaco, cosa risponde a chi paventa infiltrazioni mafiose all’interno dell’Amministrazione comunale?

“Per ogni valutazione ci sono le autorità preposte. Posso solo dire che se la magistratura avesse avuto intenzione di sciogliere il Consiglio per infiltrazioni mafiose lo avrebbe comunicato al prefetto”.

In aula, qualche giorno fa, alcuni consiglieri le chiedevano un chiarimento riguardo alla vicenda.

“Nei miei confronti continua ad esserci un accanimento violento. Io volevo rispondere che non abbiamo niente da nascondere perché siamo noi le vittime”.

Ecco, ci spieghi il suo punto di vista. Ritiene che ci siano stati comportamenti censurabili da parte di assessori o dirigenti del Comune?

“Se ci sono state delle lentezze sono attribuibili al fatto che abbiamo la metà dei dirigenti a disposizione delle altre città d’Italia. In queste condizioni abbiamo comunque concluso il rapporto riguardante la gestione del Centro Sportivo Magna Grecia con uno sfratto. Non ci sono altri elementi. Avanzavamo 250mila euro perchè non pagavano il fitto. Loro dicono di aver fatto lavori, delle migliorie, ma quegli interventi dovevano essere autorizzati, quindi non può esserci una compensazione. Il contenzioso era questo. A tutti gli assessori al Patrimonio, che si sono succeduti durante la mia gestione, ho sempre detto che dovevano tutelare il patrimonio dell’Ente e vigilare sulle assegnazioni”.

A proposito di appalti. Nell’ultimo rimpasto ha deciso di non assegnare, tenendo per sè, la delega ad Appalti e Contratti. Ha avuto sentore che qualcosa non stesse andando per il verso giusto?

“Il sentore che posso avere avuto io è che c’erano delle lentezze. Tanta gente veniva a protestare perchè alcuni appalti non partivano, nonostante l’iter fosse stato completato da mesi. Per questo ho voluto assumermi la responsabilità di questo settore, affidando in via temporanea la delega al comandante dei vigili, Matichecchia”.

E’ stato ascoltato dagli inquirenti quale persona informata dei fatti, riguardo alle vicende relative al Centro sportivo Magna Grecia?

“Forse tanti anni fa sono venuti a prendere delle carte ma non sono mai stato interrogato sull’argomento”.

Chiederà di essere ascoltato?

“Non ho nulla da chiarire. Nel momento in cui chiedessi all’antimafia di ascoltarmi sarebbe un po’ come dire che hanno sbagliato a non sentirmi fino ad ora”.

Ha pensato alle dimissioni?

“E cosa c’entro io? Siamo stati noi a sfrattare quella gente. Quando mi fu proposto Pomes, come assessore della Giunta, non esitai ad esprimere la mia contrarietà perchè lavorava con l’Amministrazione comunale”.

Sindaco, qualche settimane fa, sempre dalla colonne del nostro giornale, ha dichiarato di essere disponibile ad un eventuale ingresso del Nuovo Centrodestra all’interno della Giunta comunale. E’ cambiato qualcosa da allora?

“Era solo una provocazione. In quel periodo si parlava di “larghe intese”. Io, che ero contrario a quella formula, ho pensato di lanciare questa provocazione aprendo al Nuovo Centrodestra. Ma non abbiamo problemi di numeri. In Giunta ho sempre evitato di avere conflitti di interesse”.

Sta pensando di cambiare nuovamente l’assetto della sua squadra di governo dopo le elezioni provinciali e, soprattutto, dopo le polemiche riguardanti le accuse nei confronti dell’Amministrazione comunale all’indomani dell’operazione “Alias”?

“Dopo le elezioni la situazione è cambiata. Ci sono consiglieri comunali che sono anche consiglieri provinciali. C’è bisogno di ridiscutere i ruoli”.

Sta pensando ad un nuovo rimpasto di Giunta?

“Se la maggioranza dirà che la distribuzione non è armonica farò un rimpasto. Senza armonia ce ne andiamo tutti a casa”.

Ha ricevuto la lettera di Vendola? Il Governatore parla di ritardi nel piano Urban dicendo che “occorre completare gli interventi nei termini previsti, altrimenti si rischia di restituire le risorse. La città - secondo il presidente della Regione - perderebbe importanti opportunità di rilancio”. Come risponde all’accusa di ritardi nella redazione del piano?

“Ho già risposto con una lettera. Gli atti di nostra competenza sono stati completati ormai da giorni. Abbiamo rimandato la conferenza stampa di presentazione per impegni di varia natura. Oltre a due uffici del Comune, che hanno dovuto lavorare a luglio e agosto per redigere il piano, si tratta di una responsabilità in capo all’Asl, e quindi di competenza regionale, e del Demanio. Quindi il Comune, anche in questo caso, non ha colpe di cui scusarsi”.

Da Armando Parnasso a Fabrizio Pomes. Senza versare il dovuto al Comune e con atti di proroga dell’affidamento di dubbia legittimità, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Nelle migliaia di pagine allegate all’ordinanza di custodia cautelare «Alias» firmata dal gip Alcide Maritati e richiesta dal pm Alessio Coccioli della Direzione distrettuale antimafia di Lecce, uno spazio rilevante è riservato alla gestione del centro sportivo Magna Grecia di proprietà del Comune di Taranto, stante l’arresto - con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa - di Fabrizio Pomes, amministratore unico della cooperativa «Corda Frates». Taglio del nastro, calici al cielo, politici col vestito buono: la struttura sportiva comunale realizzata in via Trentino Alto Adige, fu affidata dalla Giunta comunale guidata da Rossana Di Bello nel 2003 all’associazione temporanea di imprese guidata dalla cooperativa Europa, uno dei sodalizi rientranti nell’orbita dell’imprenditore Armando Parnasso che, però, dal 2005 non versò più i canoni previsti dal contratto all’ente civico. La coop Europa fu dichiarata fallito il 28 maggio del 2005 ma soltanto nel dicembre del 2007, quando era già iniziata la prima legislatura di Stefàno come primo cittadino, venne rideterminata Ia costituzione dell’associazione temporanea di imprese aggiudicataria della gestione della struttura, con la società cooperativa Corda Frates, di cui è amministratore unico Fabrizio Pomes, che sostituì la cooperativa Europa. Gli investigatori della Squadra Mobile hanno acquisito tutta la documentazione riguardante la gestione della struttura, atti e delibere passati ai raggi x per verificare il comportamento dell’ente pubblico. Nell’informativa finale consegnata al sostituto procuratore Alessio Coccioli, gli agenti della Squadra Mobile richiamano la delibera del 4 agosto 2011 della Giunta Comunale guidata dal sindaco Ezio Stefàno, rilevando che l’associazione temporanea di impresa «proseguiva a detenere senza alcun titolo legittimante il Centro Sportivo Magna Grecia, portando avanti di fatto ed a fini di lucro la gestione della struttura comunale (al cui interno vengono peraltro sovente organizzati anche eventi di natura politica)». Dagli accertamenti è emerso che l’Associazione Delfini Azzurri onlus e l’associazione calcio club Dellisanti risultano debitori di 546mila euro nei confronti del Comune a cui vanno aggiunti i 272mila euro di debito accumulato dall’Ati Corda Frates-Delfini Azzurri-Club Dellisanti. Oltre 900mila euro, insomma, di canoni non pagati a favore del Comune che con la delibera dell’agosto 2011 decise di avviare il procedimento per il rilascio e restituzione all'ente proprietario del Centro Sportivo Magna Grecia con contestuale indicazione di procedere ai necessari adempimenti per l’indizione della gara per l'affidamento in gestione dello stesso centro. La polizia rileva che il 28 maggio 2012, a quasi un anno di distanza dalla delibera di Giunta, venne emanata una determina dalla direzione Patrimonio del Comune di Taranto appunto attinente l’indizione di una procedura aperta per l'affidamento in concessione della gestione del Centro Sportivo Magna Grecia. Una procedura a cui le società facenti parte dell’Ati che si occupava della gestione della struttura, non avrebbero potuto partecipare per via del contenzioso esistente col Comune. Procedura che peraltro, come annotano gli inquirenti, di fatto non fu indetta. Emblematica è la determina del 26 marzo 2013 con la quale la direzione Patrimonio del Comune di Taranto, in considerazione delle lungaggini amministrative connesse all’espletamento della gara ad evidenza pubblica, prendeva atto che l’Ati guidata dalla Corda Frates ad un anno dall’ordine di rilascio del Magna Grecia (l’atto è del 27 febbraio 2012), si rendeva disponibile a liberare la struttura il 26 marzo 2013. Quel giorno, fu sottoscritto un impianto di affidamento temporaneo del centro sportivo all’associazione sportiva «Magna Grecia» che aveva dato la propria disponibilità alla gestione sino al termine dei campionati dilettantistici e comunque sino all'affidamento della struttura al nuovo aggiudicatario. Tutto regolare? Macchè. Presidente dell’associazione sportiva Magna Grecia è infatti Rosa Ciotola, moglie di Angelo Di Carlo, nipote del boss Orlando D’Oronzo. «Singolare - annotano gli inquirenti - Ia composizione dell'Associazione Sportiva rappresentata dalla Ciotola, costituita in data 14.02.2013, tra Angelo Di Carlo, Raffaele Brunetti, Anna Pia Albano (moglie di Brunetti). Circostanza che non lascia alcun dubbio circa il perdurare della completa e diretta riconducibilitità del centro sportivo a Orlando D’Oronzo». Lunedì scorso gli agenti della Squadra Mobile hanno arrestato assieme al boss Orlando D’Oronzo, anche Raffaele Brunetti e Angelo Di Carlo mentre Rosa Ciotola e Anna Pia Albano risultano indagate a piede libero.

I dirigenti: nessuno voleva mandarli via, continua Mimmo Mazza. «Bisognava intimare la liberazione della struttura ma tutti avevano paura di farlo»Gli agenti della Squadra Mobile, coordinati dal sostituto procuratore Alessio Coccioli, non hanno lesinato sforzi per ricostruire con esattezza il livello di compromissione della classe politica tarantina con chi, per oltre dieci anni, ha gestito il centro sportivo Magna Grecia, accumulando quasi un milione di euro di debito nei confronti dell’ente locale. Ecco perché agli inizi del 2014, gli inquirenti hanno interrogato i dirigenti comunali che si sono occupati della vicenda, venuta a risoluzione soltanto nel giugno scorso, con la fine della gestione temporanea alle società riconducibili a Fabrizio Pomes, malgrado già nell’agosto del 2011 la Giunta Stefàno si fosse impegnata a porre fine ad una situazione che stava creando un grave danno economico alle casse comunali. Molti i dubbi che gli investigatori hanno cercato di risolvere, sia riguardo al mancato pagamento dei canoni che all’assenza di controlli su coloro i quali stavano gestendo la struttura. «Non ho svolto accertamenti particolari sulla cooperativa aggiudicataria dell'affidamento - ha messo a verbale la dirigente Rosa De Benedetto - perché non avevo alcun dubbio sulla medesima né alcuno mi aveva manifestato perplessità di alcun tipo. Conosco Fabrizio Pomes, in quanto ex assessore ed ex consigliere comunale. Non ho avuto diretti rapporti con il medesimo nella vicenda in questione salvo in un'occasione in cui il medesimo venne con l'assessore Scasciamacchia con gli ex lavoratori della struttura perché mi prospettarono la loro preoccupazione a seguito dell'affidamento ad altra cooperativa e con possibilità di perdere il loro lavoro». Marcello Fischetti, dirigente del servizio demanio del Comune a cavallo tra il 2011 e il 2012 spiega che «alla fine dell'estate del 2012 mi sono occupato della vicenda relativa alla gestione del circolo sportivo "Magna Grecia". Ricordo, in particolare, che in quella struttura si era, dopo un primo affidamento regolare in favore di un Ati, di cui poi era fallita la mandataria, verificata di fatto un'occupazione sine titulo da parte della società Corda Frates il cui factotum era Fabrizio Pomes, ex assessore e consigliere comunale. In particolare, si discuteva sulla necessita di ordinare lo sgombero della struttura poichè vi era morosità ammontante a circa 700-800mila euro. Devo dire che tutti avevano quasi timore a firmare quell'ordine di sgombero, credo perche non conoscendo bene la vicenda avessero timore di fare errori. Per quanto io sappia il mio ufficio ha sempre informato il sindaco di tutta la vicenda». Silvio Rufolo, dirigente dell’urbanistica, e titolare del patrimonio tra fine 2010 e fine 2012 a verbale spiega che la gestione del centro sportivo Magna Grecia avveniva di fatto senza titolo «non essendo mai stato stipulato alcun contratto tra il Comune di Taranto, proprietario esclusivo della struttura, e l’ati Corda Frates. So che Fabrizio Pomes aveva rapporti con alcuni consiglieri comunali per motivi ritengo politici, i ho visto costui parlare alcune volte con il presidente della commissione assetto Guttaggliere e con Gigante, altro consigliere comunale. Gianrodolfo Di Bari, dirigente del patrimonio tra il 2012 e il 2013, riguardo all’affidamento della struttura all’Asd Magna Grecia ha spiegato agli inquirenti che l’associazione gli era stata segnalata da Pomes e che nulla sapeva su chi fosse composta. «Spettava al mio ufficio effettuare i controlli di routine in ordine ai certificati penali dei soggetti facenti parte di questa associazione ma probabilmente non è avvenuto per la temporaneità dell'affidamento stesso e sulla considerazione del fatto che si trattava di persone che già avevano lavorato in quei luoghi. Di tutta la vicenda fu informato anche il sindaco che prese atto della situazione dicendomi che per lui quanto effettuato dal mio ufficio andava bene».

EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.

Editoria e censura. Sarah Scazzi ed i casi di cronaca nera. Quello che non si deve dire.

Quando gli autori scomodi sono censurati ed emarginati.

Il caso che ha sconvolto l'Italia e ha cambiato per sempre la cronaca nera in due libri-dossier precisi e dettagliati che fanno la storia, non la cronaca, perché fanno parlare i testimoni del loro tempo.  “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese.” E “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. La Condanna e l’Appello”. Sono i libri che Antonio Giangrande ha scritto in riferimento al caso nazionale. In questi libri l’avetranese Giangrande ripercorre da testimone privilegiato in prima persona tutte le tappe del caso: gli interrogatori, lo studio degli incartamenti, le analisi delle tracce sul luogo del delitto, i ragionamenti per entrare nella dinamica del delitto. Da giurista e da sociologo storico inserisce la vicenda in un sistema giudiziario e mediatico che ha trattato vicende similari e che non lasciano spazio ad alcuna certezza. Di Sarah Scazzi si continuerà a parlare a lungo. La vicenda, tra le più controverse nella cronaca recente del nostro Paese, è stata costantemente seguita, commentata e interpretata, anche a sproposito. Antonio Giangrande in questi libri compie un viaggio meticoloso e preciso all'interno delle prove e delle contraddizioni sia del caso giuridico, che dei suoi controversi protagonisti. Antonio Giangrande è un punto di riferimento, è il destinatario della tua prima telefonata per capire cosa sia successo. Le sue analisi sono sempre schiette, appassionate, cristalline. Mai scontate o banali. Puoi anche non essere d'accordo, ma dal confronto ne esci più sapiente.

Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia, per una scelta di libertà si pone al di fuori del circuito editoriale. Questo è un dazio che egli paga in termini di visibilità. Ogni kermesse, manifestazione, mostra o premio a carattere culturale è in mano agli editori. Premi e vincitori li scelgono loro, non il lettore. I giornali e le tv dipendono dagli editori e per forza di cose sono costretti a promuovere gli autori della casa. Il web è uno strumento per far conoscere gli autori sconosciuti. Antonio Giangrande usa proprio il web per raccontarsi.

«Sono orgoglioso di essere diverso. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Faccio mia l’aforisma di Bertolt Brecht. “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.” Rappresentare con verità storica, anche scomoda, ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Continua Antonio Giangrande «E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. Faccio ancora mia un altro aforisma di Bertolt Brecht “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Si è mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per far sapere quello che non si sa? E questo al di là della convinzione di sapere già tutto dalle proprie fonti? – conclude Giangrande – Si provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Si scoprirà cosa succede veramente in un territorio o in riferimento ad una professione. Cose che nessuno dirà mai. Non si troveranno le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Si troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Si può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non si potrà più dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.»

“L’Italia del Trucco, l’Italia che Siamo”. Collana editoriale di decine di saggi autoprodotta da Antonio Giangrande su Amazon, Create Space, Lulu, Google Libri ecc. Libri da leggere anche a costo zero. Se invece volete dargli una mano, regalate un libro di Antonio Giangrande. Scoprirete tutto quello che non si osa dire.

CHI SONO I MAFIOSI? GUERRA IN PROCURA A TARANTO. PIETRO ARGENTINO E MATTEO DI GIORGIO. PROCURATORI DELLA REPUBBLICA ACCOMUNATI DALLO STESSO DESTINO?

Trovo molto singolare che il Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino sarà incriminato di falsa testimonianza a seguito del processo intentato contro il dott. Matteo Di Giorgio, scrive Michele Imperio su “Tarastv”. A parte la stima che tutti riservano per la persona, il dott. Pietro Argentino aveva presentato al CSM domanda per essere nominato Procuratore Capo proprio della Procura di Potenza e il CSM tiene congelata questa delicata nomina da diversi anni. L'attuale Procuratore Capo di Potenza Laura Triassi è solo un facente funzioni e sicuramente anche lei aspirerà alla carica. Certamente questa denuncia terrà bloccata per molti anni una eventuale nomina del dott. Pietro Argentino a Procuratore Capo di una qualsiasi Procura. La sua carriera è stata quindi stroncata. Laura Triasi è inoltre sorella di Maria Triassi, professoressa dell'università di Napoli la quale fu incaricata della perizia epidemiologica nel processo Ilva dal noto Magistrato Patrizia Todisco, la quale è lo stesso Magistrato che già aveva denunciato alla Procura della Repubblica di Potenza il collega Giuseppe Tommasino, poi assolto e che aveva invece lei stessa assolto dal reato di concorso esterno in associazione a delinquere il noto pregiudicato A. F., mandante - fra l'altro - di un grave attentato dinamitardo a sfondo poitico, che poteva provocare una strage. Il conflitto Di Giorgio-Loreto lo conosciamo già. Ma di un altro conflitto che sta dietro questo processo non ha parlato mai nessuno. Alludiamo al conflitto Di Giorgio-Fitto. Se infatti il dott. Matteo Di Giorgio fosse stato nominato presidente della provincia di Taranto sarebbero saltati per aria tanti strani equilibri che stanno molto cari all'on.le Fitto e non solo a lui. Inoltre trovo molto strano che l'on.le Raffaele Fitto, il quale fa parte di un partito molto critico nei confronti di certe iniziative giudiziarie, quanto meno esagerate, non abbia mai detto una sola parola su questa vicenda, che vedeva peraltro coinvolto un Magistrato dell'area di centro-destra. Come pure non una sola parola, a parte quelle dopo l'arresto, è stata mai detta sulla vicenda dall'attuale Procuratore Capo della Repubblica di Taranto dott. Franco Sebastio. E nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni telefoniche fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell'area del P.D. ostile al sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazarano nel corso delle quali il dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a Procuratore Aggiunto del dott. Pietro Argentino. Nle corso di una dichiarazione pubblica il dott. Sebastio espresse invece, in modo del tutto sorprendente, soddisfazione per l'arresto del dott. Matteo Di Giorgio e disse che auspicava che anche un secondo Magistrato fosse stato allontanato dalla Procura della Repubblica di Taranto (Argentino?) Ora - guarda un pò - anche il dott. Argentino potrebbe essere sospeso dalle funzioni o trasferito di sede....Notizia dell'ultima ora: il dott. Sebastio e la dott.sa Todisco stanno litigando fra loro per chi dovrà essere il prossimo candidato del P.D. a sindaco di Taranto dopo le prossime dimissioni dell'attuale sindaco Ippazio Stefano. Si sta studiando però una mediazione: Todisco sindaco e Sebastio parlamentare. E dovere morale di ogni cittadino di Taranto impedire che si verifichi sia una cosa che l'altra. In quanto entrambe le cose per come si sono maturate FANNO SCIHFO!!!!!!!!!!!!!!!!!

Voglio raccontare ai lettori de “La Notte” uno strano caso giudiziario verificatosi qualche giorno fa presso il Tribunale di Potenza che doveva giudicare un Magistrato di Taranto, l’ex sostituto Procuratore della Repubblica Matteo Di Giorgio, scrive Michele Imperio su “La notte on line”. Una storia travagliata quella di Di Giorgio cominciata nell’ottobre 2010 con la richiesta di un mandato di cattura in carcere mitigata dal g.i.p. di Potenza in arresti domiciliari eseguito dai Carabinieri del Comando provinciale di Potenza con accuse infamanti che vanno dalla concussione alla corruzione all’abuso di ufficio alla minaccia al termine di un’inchiesta avviata circa due anni prima (2008) e coordinata dalla Procura della Repubblica di Potenza, competente sui magistrati del Distretto della Corte di Appello di Taranto. Se tutte le accuse fossero vere c’è da chiedersi dove stava in quegli anni (2001 – 2008) il suo Procuratore Capo e come mai Di Giorgio avrebbe subito una strana trasformazione simile a quella descritta nel celebre romanzo di Robert Louis Stevenson fra Mister Jekill il buono che si tramutava, grazie all’assunzione di un unguento speciale, nel suo alter ego cattivo mister Hyde. Ancora alcuni anni fa infatti il giudice Matteo Di Giorgio era ritenuto il più affidabile sostituto procuratore della Repubblica della Procura della Repubblica di Taranto tanto da essere insignito della prestigiosa carica di delegato su Taranto della Procura Distrettuale Antimafia di Lecce. Subì perfino un attentato alla persona per il suo alacre impegno contro il crimine organizzato. Poi, del tutto improvvisamente, il cambiamento! Sarà stata l’aspirazione di candidarsi Presidente della Provincia di Taranto per il centro-destra, maturata nel 2008 ma – secondo l’accusa – coltivata fin dal 2001 (questa è la data del primo reato per il quale la stessa Procura di Potenza esclude che abbia preso denaro, mirando egli già da allora cioè dal 2001, soltanto ai voti, 2001-2008) sarà stato l’antagonismo con il parlamentare del P.D. del suo paese, Rocco Loreto, fatto sta che da migliore sostituto procuratore della Repubblica della Procura di Taranto, Di Giorgio si è trasformato di botto in un incallito concussore e corruttore tanto da essere arrestato, processato e poi condannato il 30 aprile scorso a ben 15 anni di reclusione! Quindici anni di reclusione! Avete capito bene! Il Tribunale ha ritenuto a suo carico tutti i sette capi di imputazione anche quelli annullati dalla Cassazione, tra cui due concussioni, nemmeno unite dal beneficio della continuazione (che si da anche ai mafiosi) una in danno di un imprenditore, Di Battista, il quale sarebbe fallito per causa sua (ma l’imprenditore nega), vari reati di corruzione e infine anche reati di abuso d’ufficio e di minacce inseriti in questo castelletto di ben sette capi di imputazioni. Pensate! Sette capi di imputazione! Però sin poco dopo il mandato di cattura tutti hanno capito subito che qualcosa non andava in quel processo, perché in sede di giudizio sul riesame di quei capi di imputazione la Corte di Cassazione ne aveva annullati ben tre (censure che la Cassazione, in sede di riesame, non muove praticamente mai!) e il resto della motivazione della Cassazione sembrava un’invocazione rivolta ai giudici di marito: Non poso entrare nel merito – diceva la Cassazione – ma siete sicuri che state facendo bene? Tutti i commenti della Rete su questo caso sono stati estremamente cirtici, quanto meno allarmati. Invece i vari giornali locali, dopo aver dato la notizia il giorno dopo, non ne hanno parlato più. Mai sia che si offendesse il nostro equivalente della vacca sacra della religione Indù: il giudice santificato, che emana sempre condanne e non somministra mai assoluzioni. Scrive invece sulla Rete – per esempio – il prof. Mario Guadagnolo, già sindaco di Taranto dal 1985 al 1990: “Premetto che io – scrive (Guadagnolo) – non conosco il dott. Di Giorgio nè ho alcuna simpatia per certi magistrati che anzichè amministrare la giustizia la usano per obbiettivi politici. Ma 15 anni sono troppi se paragonati ai 15 anni di Erika e Omar che hanno massacrato con sessanta pugnalate la madre e il fratellino di sette anni o con i 15 anni comminati alla Franzoni che ha massacrato il figlioletto Samuele. Qui c’è qualcosa che non funziona. Non so cosa ma è certo che c’è qualcosa che non funziona”. Ma la cosa non finisce qui! Perché al caso, sicuramente clamoroso del giudice Matteo Di Giorgio, si è aggiunto nello stesso processo un altro caso altrettanto clamoroso, che riguarda un altro Magistrato della Procura della Repubblica di Taranto il Procuratore Aggiunto dott. Pietro Argentino. Questi ha avuto la sventura di essere chiamato come testimone dal dott. Matteo Di Giorgio. E in base a un dovere civico, abbastanza elementare, si è presentato per deporre. Ebbene non ci crederete! La sua deposizione insieme a quella di altri venti testimoni (fra cui cinque eccellenti un vicequestore in forza alla Questura di Taranto e quattro marescialli!) è stata inviata dal Tribunale di Potenza ai P.M. di quella Procura affinchè procedano contro il dott. Argentino e gli altri venti malcapitati per il reato di falsa testimonianza! Pensate! Venti più uno! L’avv. Giandomenico Caiazza presidente del Comitato Radicale per la Giustizia “Piero Calamandrei” ha giustamente sottolineato l’assurdità di un Procuratore Aggiunto (Argentino) che fra pochi giorni dovrà sostenere una delicatissima requisitoria nel noto processo a carico dei dirigenti dell’Ilva di Taranto e nello stesso tempo deve apparire al grande pubblico come gravato del sospetto di una falsa testimonianza che gli proviene da un altro Tribunale della Repubblica. Ciò che è accaduto al Tribunale di Potenza è quindi, come ben comprenderete, un fatto di una gravità inaudita e sottintende un conflitto fra Magistrati per gestioni politiche di casi giudiziari, promozioni e incarichi apicali, mai arrivato a questi livelli. Voglio fare alcune premesse utili perchè il lettore capisca che cosa c’è sotto. Sia a Taranto che a Potenza, patria di Angelo Sanza, sottosegretario ai servizi segreti quando un parte del Sisde voleva assassinare Giovanni Falcone e un’altra parte del Sisde non era d’accordo (e lui da che parte stava?), come forse anche in altre città d’Italia, opera da decenni una centrale dei servizi segreti cosiddetti deviati in realtà atlantisti, che condiziona anche gli apparati giudiziari e finanche quelli politici della città. Di sinistra. Così pure altra sede dei servizi segreti atlantisti questa volta di destra, opera a Brindisi. La sezione di Taranto in particolare appartiene sicuramente a quell’area politica che Nino Galloni avrebbe chiamato della Sinistra politica democristiana cioè una delle tre correenti9 democristiane, in cui si ripartiva la vecchia Sinistra Democristiana che erano – lo ricordo a me stesso – la Sinistra sociale capeggiata dall’on.le Carlo Donat Cattin, il cui figlio è stato suicidato-assassinato, la Sinistra morotea capeggiata dall’on.le Aldo Moro assassinato e poi inutilmente e per brevissimo tempo riesumata dal Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella anche lui assassinato, la Sinistra politica capeggiata dai vari De Mita, Mancino, Rognoni, Scalfaro e Prodi, i quali non sono stati mai nemmeno scalfiti da un petardo. Ebbene quest’ultimo segmento politico della Sinistra Democristiana nel tempo dapprima ha annichilìto e assorbito la Sinistra Morotea grazie ai delitti che prima richiamavamo e cioè la strage di via Fani, il delitto Mattarella, il falso suicidio del figlio dell’on.le Carlo Donat Cattin e poi ha tentato di egemonizzare tutta la Democrazia Cristiana con le stragi del 1992 e con i noti processi Andreotti e di Tangentopoli. Scalfaro è morto per cui diciamo pace all’anima sua (che ne ha tanto bisogno;) ma uno dei protagonisti di quell’epopea il senatore Nicola Mancino oggi risponde di falsa testimonianza nel noto processo della trattativa perché secondo i valorosi Magistrati di Palermo nasconderebbe qualcosa ma più di qualcuno pensa che la sua imputazione subirà nel tempo un aggravio, tecnicamente chiamato contestazione suppletiva. Forse per strage. Nello schieramento politico italiano hanno sempre operato almeno tre segmenti ultra atlantisti e quindi alla bisogna stragisti quando qualche altro segmento politico non si adeguava ai comandi americani. I tre segmenti politici cavalier serventi erano un piccolo segmento politico interno al Partito Socialista, un piccolo segmento politico interno al Movimento Sociale poi divenuto Alleanza Nazionale (in pratica la Destra Neofascista finiana) e infine un terzo segmento politico costituito dalla cosiddetta Sinistra Politica Democristiana. Sta di fatto che mentre il segmento atlantista socialista è stato soppresso, quello finiano si è ridoto all’1%, il segmento politico della Sinistra Politica Democristiana nel tempo si è espanso sempre di più e adesso attraverso il renzismo sta cercando di fagocitare anche la vecchia nomenclatura dell’ex Partito Comunista confluita nel P.D. Ma torniamo a noi e ai giudici tarantini Pietro Argentino e Matteo Di Giorgio. La cui delegittimazione – per completezza di informazione – è stata preceduta da un’altra clamorosa delegittimazione di un altro Giudice dell’area di centro destra il capo dei g.i.p. del Tribunale di Taranto Giuseppe Tommasino fortunatamente conclusasi con un’assoluzione e quindi con un nulla di fatto. Potrete trovare maggiori dettagli su questa vicenda cliccando su Internet “OK Notizie Virgilio Magistrati milanesi e magistrati di Puglia 7a. puntata. Quindi Tommasino, Di Giorgio, Argentino, a Taranto dovremmo cominciare a parlare di un vero e proprio stillicidio di incriminazioni e di delegittimazioni a carico di Magistrati della Procura o del Tribunale non appartenenti all’area della Sinistra Politica Democristiana o altra area alleata ovvero all’area della Destra neofascista finiana. L’indagine a carico del Dott. Matteo Di Giorgio è durata circa due anni ed è stata condotta da un Maresciallo dei Carabinieri espulso dall’arma e caratterizzata dall’uso di cimici disseminate in tutti gli uffici del Tribunale di Taranto e della Procura. E’ capitato personalmente a me di essere invitato dal giudice Giuseppe Di Sabato, (g.i.p.) un Magistrato che non c’entrava niente con l’inchiesta, di essere invitato a interloquire con lui al bar del Tribunale anziché nel suo ufficio perchè anche nel suo ufficio c’erano le cimici di Potenza. Ma c’è di più! La Sinistra Politica democristiana vuole diventare a Taranto assolutamente dominante sia in Tribunale che in tutta la città perché corre voce che due Magistrati uno della Procura l’altro del G.I.P., resi politicamente forti dalla grande pubblicità e visibilità del processo Ilva, starebbero per passare alla politica, uno come candidato sindaco l’altro come parlamentare, quando sarà. Alcuni dicono che io parlo male dei Magistrati. E invece ne parlo bene quando se ne deve parlare bene. Ne parlo male quando se ne deve parlare male. Il Procuratore Aggiunto Pietro Argentino è un Magistrato molto valoroso, noto alle cronache per aver risolto brillantemente molti casi di cui si è occupato tra i quali quello di Sara Scazzi la ragazzina uccisa per gelosia dalla cugina Sabrina Misseri, nell’ambito di un delitto cosiddetto familiare. Il delitto familiare è sempre molto difficile da dipanare per assenza di testimoni diretti (vedi per esempio i casi di Chiara Poggi e di Yara Gambirasio dove gli inquirenti in alktre Procure da anni brancolano nel buio o prendono granchi). Ma evidentemente nella Magistratura italiana il merito ed il valore non contano più. Non ti assicura nopiù nemmeno un minimo di rispetto e di considerazione. Ciò che conta è soltanto l’appartenenza politica, in vista di future promozioni, incarichi apicali, passaggi in politica e vari. Singolare è poi la tempistica della incriminazione per falsa testimonianza subita dal dott. Pietro Argentino, il quale dopo essere stato per anni in predicato di diventare Procuratore Capo proprio della Procura della Repubblica di Potenza, da pochi giorni assegnata ad altro Magistrato, sicuramente ora sarebbe un temibile concorrente per il Magistrato a cui la Procura di Taranto è stata già predestinata, un o di destra, posto che il dott. Franco Sebastio attuale Procuratore Capo della Repubblica di Taranto fra poco meno di un anno, dovrà lasciare l’incarico per raggiunti limiti di età. Anche sulla Procura di Potenza quindi aleggia il dubbio che, per lo meno per il periodo in cui non è stata diretta dal dott. Giovanni Colangelo, Magistrato eccellentissimo, ora Procuratore Capo della Repubblica di Napoli, sia e sia stata politicamente orientata. Su questo ci potrei scrivere pure un libro. La Sinistra politica democristiana pugliese quindi, supportata da altri organismi giudiziari, tende ormai a espellere da tutto il terriotrio della Puglia sia gli esponenti politici che i Magistrati, eventualmente anche di Sinistra, che non sono congeniali al suo progetto politico o che comunque ne possano impedire la piena attuazione. E’ ormai fatto acclarato che per conseguire l’obiettivo ormai certa Magistratura non incrimina più e non condanna più il soggetto mirato in base alla sussistenza di una responsabilità penale bensì lo incrimina e eventualmente lo condanna in base alla convenienza politica del momento. Lo strumento maggiormente adoperato per spingere il pollice verso è la cosiddetta concussione presunta. Cioè io giudice presumo dalle intercettazioni, dalle mie deduzioni dalle mie elucubrazioni mentali che tu imputato abbia concusso qualcuno e quindi ti imputo di concussione. Il Tribunale sulle stesse basi ti condanna anche se la parte asseritamente concussa nega che vi sia stata mai una concussione. E così per tornare ai casi concreti della Puglia l’imprenditore Di Battista nel processo Di Giorgio sarebbe stato concusso – secondo i giudici di Potenza – dal Magistrato Mateo Di Giorgio, il Di Battista nega di essere mai stato concusso ma Di Giorgio viene ugualmente condannato, il prof. Giorgio Assennato nel processo Ilva di Taranto sarebbe stato concusso dal governatore della Puglia Niky Vendola, il prof. Giorgio Assennato nega di essere mai stato concusso, Niky Vendola viene ugualmente rinviato a giudizio, il funzionare della provincia di Taranto dott. Luigi Romandini sarebbe stato concusso dall’ex presidente della provincia di Taranto dott. Gianni Florido (arrestato per questo motivo), il dott. Luigi Romandini nega di essere mai stato concusso, Gianni Florido viene ugualmente rinviato a giudizio per concussione. Cioè la concussione viene utilizzata come strumento per l’eliminazione dell’uomo politico o del Magistrato scomodo da maciullare. Quando poi qualcuno depone come tetimone in senso contrario al teorema e quindi potrebbe minare – come si dice in gergo – l’impianto accusatorio, allora scatta un secondo strumento distruttivo, la falsa testimonianza anch’essa trasformata in mezzo politico-giudiziario per conseguire l’obiettivo politico di eliminazione del’avversario politico. E’ quindi con questo strumento,ossia con la falsa testimonianza che è stato colpito a affondato come fosse una pedina del gioco della battaglia navale, il Procuratore Aggiunto della Procura della Repubblica di Taranto, Pietro Argentino, incauto teste a discarico del dott. Matteo Di Giorgio. Ma chi è causa del suo mal pianga se stesso Ma come! Non lo sapevano il dott. Pietro Argentino e gli altri 24 testimoni che il destinatario della loro testimonianza Matteo Di Giorgio era stato investito da una specie di fatwa da parte del Tribunale di Potenza e da parte della Sinistra politica democristiana? Cristo – cari amici – si è fermato a Eboli e questo lo sapevamo. Ma siamo sicuri che Komeini non stia salendo dalla Sicilia?

Come volevasi dimostrare nessuno dei giornali italiani nazionali o locali ha più parlato dopo il primo maggio dei quindici anni di galera inflitti al Magistrato di Taranto Matteo Di Giorgio e dell’incriminazione per falsa testimonianza inflitta al Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino, continua Michele Imperio. Ma “La Notte” no. “La Notte” non ci sta a questa non informazione o a questa disinformazione. Quando assunsi la direzione di questo glorioso giornale, che ora sta per riuscire nella sua versione cartacea, dissi che avremmo sempre raccontato ai nostri lettori tutta la verità, solo la verità, null’altro che la verità e avremmo quindi sfidato tutte le distorsioni giornalistiche altrui, tutti i silenzi stampa tutti i veti incrociati dei segmenti peggiori del potere politico. “Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. Perché la cultura del sospetto non è l’anticamera della verità. La cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo”. Questo diceva Giovanni Falcone, esasperato, quando altri colleghi e altri uomini politici (segnatamente Libero Mancuso e Leoluca Orlando Cascio, ormai è passato tantissimo tempo e dunque possiamo fare anche i nomi) lo volevano coinvolgere nell’accusa di mafia contro il senatore Giulio Andreotti. E Giovanni Falcone con quel suo inattaccabile senso del dovere e del giusto, rispose smontando il falso pentito Pellegriti, che Leoluca Orlando (politico) e Libero Mancuso (Magistrato) gli avevano propinato e smontò quindi le sue false accuse contro Salvo Lima (andreottiano) accusato di essere il mandante occulto dell’omicidio Dalla Chiesa. Non solo! Ma per ulteriore sfregio dei komeinisti Giovanni Falcone si fece nominare direttore degli affari generali penali del Ministero di Grazia e Giustizia nell’ultimo governo Andreotti. Si sa come finì. I komeinisti gli fecero pagare con la vita questo affronto. Però quello era ancora un komeinismo spietato ma romantico. Perchè quel komeinismo giudiziario era ispirato da convinzioni ideologiche determinate dai pennivendoli di “Repubblica” i quali avevano riempito la testa a tutti noi (chissà per quali recondite ragioni) che Giulio Andreotti e tutti gli andreottiani erano collusi con Cosa Nostra, convinzioni però poi rientrate. Lo ricordo ancora Leoluca Orlando Cascio che tuonava in tutti i teatri d’Italia: “Andreotti non è semplicemente connivente con la mafia! Andreotti è egli stesso mafioso! Lui ha fatto assassinare Piersanti Mattarela” (l’amico suo) Adesso – dicono – Leoluca Orlando Cascio non si parla più con Antonio Di Pietro. E le ragioni sono evidenti. Lo ricordo ancora il komeinista Luciano Violante, grande ispiratore e suggeritore del processo Andreotti. Al termine del processo lo stesso Luciano Violante ammise: “E’ vero: il suggeritore sono stato io! Ma se tornassi indietro nel tempo non lo rifarei più!” Oggi Luciano Violante potrebbe anche essere un buon presidente della repubblica. Ma nessuno lo candida e i nuovi komeinisti lo snobbano. Lo ricordo ancora Giancarlo Caselli Procuratore di Palermo dopo che ignoti gli ammazzarono sotto il naso nella stanza del piano di sopra Luigi Lombardini, il Magistrato sardo che la cultura komeinista del sospetto indicava essere il regista di tutti i sequestri di persona in Sardegna. Mentre invece la verità era che altri Magistrati (non lui, anzi lui li voleva denunciare) vi avevano lucrato. Nella vicenda Lombardini – disse uno sconsolato Giancarlo Caselli – sono stato strumentalizzato. Ma da chi e per che cosa? Ma oggi il komeinismo ideologico-giudiziario dei Caselli dei Violante dei Mancuso, degli Orlando-Cascio non c’è più, è stato sostituito da un altro komeinismo giudiziario tutto proteso a costruire e a distruggere carriere di magistrati e di uomini politici, secondo l’andazzo momentaneo della giostra. Ma voglio tornare al caso specifico dei magistrati tarantini Matteo Di Giorgio e Pietro Argentino. Se il dott. Matteo Di Giorgio Magistrato della Procura della Repubblica di Taranto il quale risiede in un piccolo paese della provincia di Taranto, Castellaneta, di sole 17.000 anime (dove quindi tutti si conoscono con tutti) si attiva presso l’amministrazione Comunale perché un poveraccio, suo conoscente, possa gestire un bar pur non disponendo della relativa licenza, ecco che questo è chiaramente un gesto di umanità di Di Giorgio nei confornti del viandante con contenuti – diciamolo pure – non proprio legittimi. Ma è pur sempre un gesto di umanità e quindi non è un reato. Senonchè che ti fa la cultura del sospetto? Ti fa pensare che il Magistrato Matteo Di Giorgio nutre già dal 2001 una grande passione politica e che quindi compia quel gesto non per un senso di umanità ma per sperare nel futuro voto del viandante e quindi per costituirsi già da allora (2001) una clientela politica, uno zoccolo duro di consensi per conseguire e rendere vincente nel 2009 la sua candidatura alla presidenza della provincia di Taranto. Ecco un caso in cui la cultura del sospetto applicata al diritto trasforma un fatto giuridicamente irrilevante in una possibile condotta delittuosa (abuso innominato in atti di ufficio ove il vantaggio patrimoniale richiesto dalla norma viene – con astrazioni metafisiche – equiparato al vantaggio politico che si trae dal voto del viandante). Questo è un caso. Ma esaminiamone anche un altro. Se il dott. Matteo Di Giorgio Magistrato della Procura della Repubblica di Taranto il quale – lo ripetiamo – risiede in un piccolo paese della provincia di Taranto Castellaneta di sole 17.000 anime (dove quindi tutti si conoscono con tutti) scopre in un suo processo a lui assegnato che il genero di un altolocato del paese spaccia droga in discoteca e quindi sta per andare incontro a otto anni di galera, mosso da senso di pietà e questa volta anche da quel senso tutto paesano di rispetto della reciproca conoscenza, ne copre la responsabilità ma tuttavia chiede all’altolocato per decenza di dimettersi quanto meno dal consiglio comunale di cui è membro, tutto questo chiaramente viene fatto per pietà, per solidarietà paesana, per rispetto, per reciproca conoscenza, per quello che volete voi. Ma anche qui interviene la cultura komeinista del sospetto che fa insinuare che in realtà Matteo Di Giorgio approfitti della situazione per puntare con quelle dimissioni a indebolire la maggioranza e quindi a far cadere il piccolo consiglio comunale di Castellaneta per far si che la sua parte politica prenda il sopravvento e quindi lo supporti da posizioni di forza nella sua successiva ascesa al potere (dopo alcuni anni) alla presidenza della provincia di Taranto. Già, ma a parte il fatto che quindici anni di galera per queste cose fanno ridere, il problema è: dov’è la prova di questi retropensieri del dott. Matteo Di Giorgio? Quale norma equipara la speranza anche minima di un vantaggio politico al vantaggio patrimoniale? Il sospetto se volete ci può anche stare ma la prova, intendo dire la prova in senso tecnico, l’elemento che appaga la coscienza del Magistrato che deve affermare una responsabilità penale e che quindi deve sentenziare la distruzione di un uomo, quella prova – dico – dove sta? Volete voi lettori la riprova che sia così? Queste sette denunce a carico del dott. Matteo Di Giorgio, che sarebbero state redatte su ispirazione di un uomo politico suo antagonista, il senatore Rocco Loreto, sono state diversamente valutate nel tempo venendo considerate in certi periodi storici del tutto irrilevanti (perché parliamo del 2001 mica di ieri), in altri periodi storici accuse addirittura calunniose in altri periodi storici ancora accuse riferite a fatti di reato gravissimi punibili con una pena al carcere di quindici anni e passa di reclusione. Che il dott. Matteo De Giorgio abbia manifestato nel 2009 una forte propensione a candidarsi presidente della provincia di Taranto questo è vero, che l’inchiesta sia partita anzi ripartita in funzione di questa candidatura questo pure è vero, che Di Giorgio abbia mai concusso qualcuno o abbia mai strumentalizzato la funzione giudiziaria questo è falso. E’ completamente falso! O meglio è il frutto della cultura del sospetto su qualcosa che non è provato. Inoltre la cultura giudiziaria del sospetto ha completamente mutato nel tempo i contenuti del reato più grave fra quelli contestati a Di Giorgio, ossia la concussione. Una volta per aversi la concussione il pubblico ufficiale doveva terrorizzare il concusso fino al punto che quello, compulsato dal pubblico ufficiale violento e malfattore si faceva piccolo piccolo e, ob torto collo, cedeva alle sue perverse pressioni intimorito dal cosiddetto metus pubblicae potestatis ossia dal terrore che quello gli incuteva. Oggi invece basta un “ti cambio di posto” che la concussione è bella che consumata. Conosco personalmente sia il dott. Matteo Di Giorgio che il dott. Pietro Argentino e posso dire che sono due ottimi Magistrati, grandi lavoratori, buoni investigatori, discreti oratori ma soprattutto sono due Magistrati indipendenti, non agganciati ad alcun segmento del Potere Politico. Argentino aveva un lontano parente parlamentare di Forza Italia che è morto, Di Giorgio nemmeno quello. Ma proprio qui sta il problema: proprio perché questi soggetti sono personaggi valorosi Di Giorgio sicuramente avrebbe fatto una brillante carriera politica, Argentino sarebbe avanzato ulteriormente in Magistratura: da Procuratore Aggiunto sarebbe diventato Procuratore Capo. Ma allora che ne sarebbe stato delle carriere che il Potere Politico aveva già riservato ai predestinati, gente mediocre e di mala fede? Infatti l’incriminazione per falsa testimonianza di Argentino cade giusto pochi giorno dopo l’assegnazione a un altro Magistrato della carica di Procuratore Capo della Repubblica di Potenza, incarico per il quale anche il dott. Argentino aveva fatto domanda al CSM. Quindi a questo punto non rimane ad Argentino che ripiegare sulla carica di Procuratore Capo della Repubblica di Taranto, da affidarsi fra breve e per la quale certamente Argentino è il Magistrato che ha più titoli. Ma qui parliamo di Taranto! Cioè di un letamaio istituzionale! Dove i problemi non sono certamente il bar aperto senza licenza o le false testimonianze di Argentino o le inesistenti concussioni di Di Giorgio. Un letamaio che invece deve essere gestito da chi necessariamente ha la capacità e la volontà di adeguarsi al letamaio. Ma per spiegarvi tutto questo mi serve un altro capitolo.

Dopo tanti anni di attività professionale ho ormai maturato la convinzione che due segmenti politici dello intero schieramento politico nazionale e precisamente la destra neofascista oggi di Mario Monti e di Gianfranco Fini ma ieri anche di altri soggetti politici e la Sinistra politica democristiana, da non confondersi con la Sinistra sociale democristiana (Cisl e vecchia corrente di Forze Nuove) e nemmeno con la sinistra morotea democristiana (Aldo Moro e Piersanti Mattarella ieri, Dario Franceschini e Giuseppe Gargani oggi) che erano e sono un’altra cosa, la Sinistra politica democristiana – dicevo – (Prodi Romano, Scalfaro Oscar Luigi, Mancino Nicola e De Mita Ciriaco ieri Renzi Matteo oggi e il loro regista di sempre De Benedetti Carlo, questi due segmenti politici – dicevo – non svolgono semplicemente un’attività politica ma esercitano anche una funzione di intelligence di tipo deviato, continua Michele Imperio. Forse dispiacerò qualcuno ma voglio ricordare a me stesso che in seguito alle indagini sulla strage di Peteano il terrorista neofascista Vincenzo Vinciguerra - reo confesso per la strage – rivelò che nell’ormai lontano 1982 il segretario del MSI di allora Giorgio Almirante aveva fatto pervenire la somma di 35.000 dollari a tal Carlo Cicuttini, dirigente del MSI friulano e coautore della strage, affinché egli modificasse la sua voce durante la sua latitanza in Spagna mediante un apposito intervento alle corde vocali. Tale intervento si rendeva necessario perché Cicuttini, oltre ad aver collocato materialmente la bomba assieme a Vinciguerra, si era reso autore della telefonata che aveva attirato in trappola i poveri carabinieri, poi trucidati. La sua voce era stata identificata mediante successivo confronto con la registrazione di un comizio del MSI da lui tenuto. Che cosa avevano scoperto quei poveri carabinieri se è vero come è vero che nel giugno del 1986, a seguito dell’emersione di documenti che provavano il passaggio del denaro tramite una banca di Lugano, il Banco di Bilbao ed il Banco Atlantico, Giorgio Almirante e l’avvocato goriziano Eno Pascoli vennero rinviati a giudizio per il reato di favoreggiamento aggravato verso i due terroristi neofascisti? Ed è emblematico anche come andò la cosa. Enzo Pascoli venne condannato; Giorgio Almirante invece, dopo un’iniziale condanna, si fece più volte scudo dell’immunità parlamentare, all’epoca ancora riconosciuta a deputati e senatori, si sottrasse perfino agli interrogatori e infine si avvalse di un’amnistia grazie alla quale uscì definitivamente dal processo. nonostante la legge ne prevedesse la rinunciabilità. Cicuttini, dirigente del MSI friulano – mai disconosciuto da Giorgio Almirante ripeto – fuggito in Spagna, venne catturato a ventisei anni dalla strage, nell’aprile del 1998, quando fu vittima egli stesso di una trappola: la procura di Venezia gli fece offrire un lavoro a Tolosa dove, recatosi convinto di intraprendere le trattative contrattuali, venne arrestato dalla polizia ed estradato dalla Francia. Questi agenti deviati neofascisti ci sono ancora, probabilmente essi si riconoscono ora nella corrente politica di Mario Monti (che non a caso fa la guerra al partito di Gianni Alemanno, Giorgia Meloni, La Russa, Giorgio Crosetto, Adriana Poli Bortone) e sono infiltrati ovunque, nella classe politica, nei Servizi, nella Polizia, nei Carabinieri, Ovunque. Ma sono infiltrati anche e sopratutto in alcuni segmenti della Magistratura associata (Magistratura indipendente). Analogamente avviene per la Sinistra Politica Democristiana. Ricordo anche qui che quando nel 1978 la polizia stava per scoprire la prigione di Aldo Moro in via Gradoli sulla Cassia a Roma, il giovane Romano Prodi si presentò personalmente alla Polizia di Roma per depistare quelle indagini e spostare le stesse da via Gradoli in Roma in Gradoli città dell’Abruzzo, e ciò perché Aldo Moro non fosse salvato ma fosse assassinato. Dopo che qualcuno (Riccardo Misasi Sinistra D.C.?) aveva mobilitato quindici picciotti della 'nrdina calabrese dei Nirta inducendoli a portarsi il 16 maggio 1978 in via Fani il giorno del rapimento Moro pronti ad intervenire nel caso le cose non si fossero messe nel verso giusto degli stragisti. La storia di Vittorio Mangano stalliere di Silvio Berlusconi (finanza laica) negli anni 70 non viene mai raccontata mai nella sua completezza. Prima del’assunzione di Mangano come stalliere Silvio Berlusconi fece tenere negli uffici della Edilnord una riunione cui parteciparono dopo essere appositamente venuti da Palermo, Stefano Bontade e Mimmo Teresi, all’epoca numeri 1 e n. 2 di Cosa Nostra Siciliana. Costoro decisero di ingaggiare il Mangano per dare un segnale alla Ndrangheta calabrese allora eterodiretta da soggetti della Sinistra poltica democristiana (Nicola Mancino, Riccardo Misasi e company.?) affinchè si comprendesse che Berlusconi fosse sotto la protezione di Cosa Nostra e quindi che i figli di Berlusconi (finanza laica) non potevano essere rapiti e sequestrati. Questo particolare però non viene mai rimarcato. Perché? Perchè altrimenti si porrebbe in modo naturale il quesito: Perché mai analoghe attenzioni non furono mai rivolte dalla Ndrangheta nei confronti dei figli di Carlo De Benedetti o dei figli o dei nipoti di Giovanni Agnelli (finanza ebrea e finanza cattolica?) Magistrati e politici dell’uno e del’altro segmento politico (Destra neofascista e Sinistra politica democristiana) hanno sempre provveduto a clamorose coperture e depistaggi. Ma per farlo essi devono poter accelerare le proprie carriere. E come accelerare le carriere di questi? Stroncando le carriere dei loro rivali! Così come certamente è stata accelerata la carriera di Marco Dinapoli, Magistratura Indipendente, attuale Procuratore Capo della Repubblica di Brindisi. Chi di noi non si è sentito inorridito dai rapporti di amorosi sensi emersi dalle indagini fra questo Procuratore della Repubblica di Brindisi e il terrorista neofascista autore dell’odiosa strage di Brindisi Giovanni Vantaggiato rapporti di amorosi sensi intesi a far si che Vantaggiato non fosse imputato dell’aggravante del gesto a scopo terroristico e si scappottasse quindi la pena dell’ergastolo? Procura della Repubblica di Potenza e CSM si erano già messi meritoriamente all’opera quando anche i lampioni hanno compreso che un alto vertice istituzionale (probabilmente proprio il Presidente della Repubblica) ha bloccato tutto. Ebbene quell’attentato è servito. E’ servito a mandare un messaggio ad alcuni valorosi Magistrati per cui chiunque si fosse avvicinato troppo alla vera verità sulla strage di Capaci (simboleggiata dalla scuola brindisina Falcone e Morvillo) era un uomo morto. E proprio in quei giorni il valoroso Procuratore Capo della Repubblica di Caltanisetta stava scoprendo interessanti novità in ordine alla strage di Capaci. Dalle indagini stavano infatti emergendo responsabilità di altri soggetti neofascisti che avevano materialmente partecipato alla strage e il cui nominativo non era mai emerso prima di allora nelle indagini stesse. Ebbene anche il valoroso Procuratore di Caltanisetta Sergio Lari si è fermato e di quelle indagini non si ha più notizia. Questo caso dimostra che cellule stragiste e criminali sia della Destra neofascista diciamo così finiana e montiana che anche della Sinistra Politica Democristiana (oggi renziana) sono presenti anche all’intero della Magistratura e anzi i Magistrati che vi aderiscono godono di carriere accelerate. Il caso Di Giorgio (il Magistrato di Taranto condannato a quindici anni di reclusione) (ma da chiamarsi ora il caso Argentino-Di Giorgio) è stato finora prospettato come una sorta di lunghissimo qui pro quo fra un Magistrato della città di Castellaneta (piccolo paese in provincia di Taranto) e un parlamentare della stessa cittadina pugliese, il senatore del P.D. Rocco Loreto (nella foto), mentre invece questo caso trascende e di molto questo singolo aspetto del problema, perché esso è conseguenza del fatto che nella provincia di Taranto opera da moltissimo tempo una cellula stragista e criminale istituzionale della Sinistra politica democristiana con presenze attiva ancora oggi anche all’interno delle Istituzioni e segnatamente nella Magistratura e il caso Di Giorgio-Argentino è un singolo capitolo di una guerra in corso fra Magistratura laica e Magistratura cattolica, analogo al conflitto in essere, da sempre, fra finanza laica e finanza cattolica, se volete anche fra criminalità laica e criminalità cattolica (laddove il termine cattolico è adoperato ovviamente in senso lato, molto lato), delle cui prove dirò fra poco.

“Il sospetto non è l’anticamera della verità, il sospetto è l’anticamera del khomeinismo”. Così diceva Giovanni Falcone, davanti al CSM che l’accusava. Ma che cosa aveva voluto dire con quella espressione Giovanni Falcone? Si chiede e continua Michele Imperio. Quando nel 1978 la rivolta popolare in Iran era ormai esplosa contro lo scia Reza Pahlavi, costringendolo a fuggire dal paese, l’ayatollah, Khomeyni, tornato dall’esilio in Iran il 1º febbraio 1979, instaurava nel paese una sorta di dittatura teocratica il komeinismo appunto ossia una “repubblica islamica”, basta sulla persecuzione dell’avversario politico e sul terrore. Il komeinismo dette vita a una durissima repressione contro i collaboratori del deposto scià: migliaia di essi furono arrestati e fucilati dopo processi sommari; altri furono mandati in esilio o imprigionati e i rimanenti fuggirono dal paese. In pochi mesi si considera siano state fucilate circa 5.000 persone e mandate in esilio altre 10.000. Dunque Giovanni Falcone accusava esplicitamente alcuni suoi colleghi Magistrati di voler strumentalizzare la funzione giudiziaria per instaurare un nuovo regime politico simile a quello dell’ayatollah Komeyni. Mi chiedo: Questo disegno politico sta ora subendo un’accelerazione? I magistrati tarantini Pietro Argentino e Matteo Di Giorgio fanno parte di un’epurazione da parte di loro colleghi simile a quella che ci è stata in Iran? Un fatto è certo: il nuovo strumento della falsa testimonianza di massa non è stato adoperato solo a Potenza nel corso del processo Di Giorgio ma anche a Trapani dal Tribunale che ha giudicato il caso Rostagno e che ha mandato sotto processo per falsa testimonianza dieci testimoni che lì avevano deposto. Il testimone che non corrobora la tesi dell’accusa è incriminato. Ma il Tribunale di Trapani ci teneva a far sapere a noi italiani la verità su quel delitto? Perché Mauro Rostagno il quale era di Torino si trovava a Trapani? Chi ce lo aveva mandato? E per fare che cosa? Mauro Rostagno aveva a che fare o no con l’omicidio del commissario Luigi Calabresi? Era stato incriminato per questo motivo oppure no? Voleva per caso uscirsene dal caso Calabresi ricattando lo Stato e denunciando i traffici d’armi internazionali che avvenivano tramite l’aeroporto in disuso di Trapani, di cui lui era uno dei custodi? Perché il suo socio coofondatore della comunità per il recupero dei tossicodipendenti Saman Francesco Cardella è vissuto per lungo tempo a Managua in Nicaragua, protetto dai nostri Servizi Segreti? Chi gli ha fatto avere l’incarico di ambasciatore di alcuni paesi arabi in Nicaragua? Come faceva Cardella a possedere addirittura un aereo personale gestendo semplicemente e a distanza una serie di comunità per tossicodipendenti? Perché all’inizio degli anni ’90, si erano allungati su Cardella i sospetti che potesse c’entrare con l’omicidio di Mauro Rostagno? Come mai Fausto Cardella è stato testimone di nozze di quel Claudio Martelli, suocero del n. 2 del Sisde Michele Finocchi gran gestore di traffici d’armi colossali che costarono la vita a Giovanni Falcone, giacchè siamo in tema e in date di anniversari di stragi di stato (23 maggio)? Ed allora domandiamo: Rispondono a questi interrogativi i magistrati siciliani che hanno giudicato il caso Rostagno? Ma assolutamente no! Loro concentrano la attenzione solo sugli esecutori materiali del delitto: Cosa Nostra, quasi in una sorta di ritorsione per aver rivelato Cosa Nostra i depistaggi sulle stragi dei vari Tinebra la Barbera Bo Ricciardi e quindi Vincenzo Parisi, il lacchè di Scalfaro e di Mancino, Michele Finocchi, il suocero di Claudio Martelli e di chi c’era dietro di loro. E spediscono dieci testimoni (dicasi dieci) sotto processo per falsa testimonianza! Come a Potenza! Tale e quale! E allora questa falsa testimonianza di massa è la nuova frontiera del komeynismo giudiziario? Ed è un caso che essa coinvolga a Potenza non già Ciccio Lapizza ma Il Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino, Magistrato ripudiato dal regime per aver prestato la sua testimonianza all’appestato Matteo Di Giorgio? Ormai non v’è più un Magistrato nell’Italia Meridionale che non cerca di distinguersi per usare le sentenze come le scimitarre, per incriminare decine di testimoni, per mandare il messaggio alla gente che sono tutti delinquenti tutti mafiosi, tutti falsi testimoni quelli che la pensano diversamente da Matteo Renzi, tranne loro i magistrati i soli a essere buoni bravi e belli in questo paese di corrotti e di uomini del malaffare. Ma le cose stanno proprio così? Le presunte false testimonianze di Argentino o i bar aperti senza licenza di Di Giorgio sono i veri casi scandalosi di una Magistratura tarantina per il resto illibata e integerrima? Un Magistrato che è stato per lungo tempo presidente di collegio nel Tribunale di Taranto mi raccontava questo episodio capitatogli una decina di anni fa. Un giorno si presenta a lui il caso di un pluripregiudicato tarantino trasferitosi nel casertano, gravato da quattro pagine di precedenti penali (comprensive di quasi tutti i reati), il quale aveva ricettato assegni per l’importo di 700 milioni delle vecchie lire provenienti da varie rapine e furti a Roma come nel casertano e colto con le mani nel sacco (cioè con i soldi in tasca) al valico di Ventimiglia. Ebbene si presentano a questo presidente del collegio l’avvocato difensore del ricettatore e il sostituto procuratore d d’udienza. Entrambi chiedono per questo pluripregiudicato il minimo della pena con tutti i benefici compresa la sospensione della pena e la diminuzione della pena stessa per il patteggiamento. Il presidente del collegio allora li prende tutti e due (avvocato e sostituto procuratore) e li sbatte fuori dalla sua stanza a mali parole. Qualche giorno dopo il presidente del collegio incontra il sostituto procuratore e questi gli fa: “Adesso sono cazzi tuoi! Ti sei messo contro il Procuratore! Il Procuratore ci teneva a quella persona!” Il Procuratore in questione si chiamava Giovanni Massagli (Sinistra politica democristiana grande amico di Nicola Mancino) deceduto qualche mese fa. Personaggio controverso questo Massagli, secondo alcuni un sant’uomo, secondo altri un demone, autore di un libro sui simboli della Massoneria (che c’entrava lui con la Massoneria?), noto persecutore di nemici politici, depistatore nel 1991 di una strage importante, la strage della barberia (1° ottobre 1991) nel corso della quale fu ucciso (non casualmente come fu detto) tal Giuseppe Ierone, un parente di alcuni agenti segreti belgi coinvolti nel grande traffico d’armi internazionale e nell’omicidio di un ex ministro belga. Il pluripregiudicato cui il Procuratore ci teneva si chiamava invece A. F., esponente del del clan casertano dei Piccolo-Quaqquaroni, ex assessore dc a Taranto, arrestato per associazione mafiosa e accusato di reati gravissimi. A. F. avrebbe non solo truccato appalti, ma sarebbe stato anche il mandante dell’ attentato dinamitardo del ‘ 92 contro la televisione locale «AT6». Secondo il rapporto redatto alla fine degli anni 80 dall’alto comissario anti-mafia Domenico Sica, A. F., terzo degli eletti nella lista D.C. del Consiglio Comunale di Taranto, era diventato componente della Commissione elettorale del comune di Taranto e punto di riferimento per un gruppo, all’interno della Sinistra Politica democristiana, i cui esponenti ricoprivano incarichi di rilievo. Dalla relazione Antimafia del 1991 risultava che uno di questi tal Alessio Magistro, era stato denunciato dalla locale sezione del Coreco all’autorità giudiziaria, in quanto avrebbe falsamente attestato di non avere mai avuto precedenti penali, al fine di conseguire la nomina a Presidente della azienda dei rifiuti di Taranto”. Il 3 aprile 1994 A. F. veniva fermato dalla Guardia di Finanza al valico autostradale di Ventimiglia e accusato di esportazione di valuta: in realtà era riciclaggio ma quel reato allora ancora non esisteva. F. aveva con se ben 700 milioni di vecchie lire tra contanti ed assegni. Alcuni di quei titoli erano assegni circolari della Banca Nazionale del Lavoro per un ammontare di 135 milioni di lire, che erano stati indebitamente sottratti all’INPS di Roma, altri erano assegni circolari dell’Istituto Centrale delle Banche Popolari Italiane, rapinati il 4 novembre 1987 a un furgone portavalori sull’autostrada Caserta – Salerno, per un valore di 305 milioni. Camorra pura quindi! E servizi segreti deviati! Infatti arrestato A. F. veniva stranamente subito rilasciato. Il fatto più eclatante che lo riguardava si verificava però nel 1998. Il 2 settembre di quell’anno vengono assassinati a Brescia due uomini a lui molto vicini originari di Taranto, che però F. aveva trasferito nel casertano, il già nominato Alessio Magistro e l’avvocato Stefano Punzi. Per volontà di A. F., Alessio Magistro era stato alcuni anni prima presidente dell’Azienda municipalizzata dei rifiuti di Taranto e Stefano Punzi era un avvocato che aveva chiuso il suo studio legale a Taranto per aprirne un altro a Caserta senza accorsamento! A. F. li aveva infiltrati in una cosca camorristica casertana quella dei Belforte-Mazzacane in lotta in quel tempo per il predominio sul territorio con il clan rivale dei Piccolo-Quaqquaroni. Però poi sia Magistro che Punzi furono assassinati. Secondo la ricostruzione dell’accusa che fu fatta a processo, Magistro e Punzi avevano ricevuto il compito di preparare il terreno per assassinare Domenico Belforte, uno dei capi di questo clan Belforte-Mazzacane, il quale in quel momento si trovava al soggiorno obbligato nel Bresciano. Belforte avrebbe però giocato d’anticipo eliminando l’ex direttore dell’AMIU di Taranto e l’avvocato Punzi, uomini del F.. Alessio Magistro venne ucciso a colpi d’arma da fuoco nel piazzale dell’ ipermercato Rondinelle di Roncadelle (Brescia) mentre Stefano Punzi venne trovato carbonizzato all’interno della sua auto a Brandico, nella Bassa Bresciana. Resta da capire per quale motivo il Sisde o questa particolare fazione del Sisde nel 1998 aveva così clamorosamente preso le parti del clan dei Piccolo Quaqquaroni contro quelle dei Belmonte Mazzacane. C’è anche da dire che una volta tre esponenti del clan dei Piccolo-Quaqquaroni erano stati arrestati e nel corso dell’operazione la polizia aveva rinvenuto, in un capannone nella loro disponibilità, un mitragliatore Uzi in uso all’esercito israeliano. Questo spiega molto per non dire che spiega tutto. Anche l’amicizia del F. con il Procuratore di Taranto Giovanni Massagli. il quale si curava che sul piano giudiziario non gli accadesse mai niente. Infatti non gli succede mai niente. Anzi dai processi risultava che F. veniva sistematicamente avvertito delle indagini che c’erano su di lui da un altro agente del Sisde tal Nicola Curia. E recentemente la manina misteriosa di un Magistrato aveva infiltrato in un processo a suo carico in Corte di Appello un falso conteggio della prescrizione per fargli prescrivere i reati. Ancora all’anno 2000 A. F. nonostante l’attentato dinamitardo ad Antenna Taranto 6, (1992) il riciclaggio dei 700 milioni (1994), il mancato omicidio di Domenico Belforte (1998), A. F. non è stato mai ancora giudicato da nessun Tribunale (chissà perchè ……….mha…………..lentezze della giustizia ………………….). Mi chiedo: ha senso in questo contesto andare dietro i bar aperti senza licenza da Di Giorgio o le presunte false testimonianze di Argentino? Adesso sono cazzi tuoi! Ti sei messo contro il Procuratore! Il Procuratore ci teneva molto a quella persona!. Mi chiedo: dove siamo? a Cristo che si è fermato a Eboli? Oppure a Komeini che sta salendo dalla Sicilia?

I MAGISTRATI E LA SINDROME DELLA MENZOGNA.

Quando il Potere giudiziario si nutre di pregiudizi e genera ingiustizia. Così scrive il dr Antonio Giangrande, sociologo storico e scrittore che sul tema ha scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it.

Parliamo di menzogne nelle aule di giustizia. I magistrati di Taranto del processo sul delitto di Sarah Scazzi, requirenti con a capo il Pubblico Ministero Pietro Argentino e giudicanti con a capo Rina Trunfio, hanno fondato le richieste e le condanne sull’assunto che il delitto di Avetrana è una storia di bugie, pettegolezzi, chiacchiere, depistaggi. Menzogne e reticenze dei protagonisti e dei testimoni e se non questo non bastasse anche di tutta Avetrana.

Ed ecco il paradosso che non ti aspetti. È proprio l’alto magistrato pugliese Pietro Argentino a rischiare di dover fare i conti adesso con la giustizia, dopo che il Tribunale di Potenza, competente per i reati commessi dai magistrati di Taranto, ha disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero per indagare sul reato di falsa testimonianza proprio del procuratore aggiunto Argentino. Il pm dovrà inoltre valutare la posizione di altre 20 persone, tra le quali molti rappresentanti delle forze dell’ordine. La decisione della Corte è arrivata alla fine del processo che ha visto la condanna a 15 anni di reclusione per l’ex pm di Taranto Matteo Di Giorgio, condannato per concussione e corruzione semplice.

Eppure Pietro Argentino è anche il numero due della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati.

Ciò nonostante a me tocca difendere proprio i magistrati Tarantini che di me hanno fatto carne da macello, facendomi passare senza successo autore della loro stessa infamia, ossia di essere mitomane, bugiardo e calunniatore.

Come dire: son tutti bugiardi chi sta oltre lo scranno del giudizio. Ma è proprio così?

Silenzio in aula, prego. Articolo 497 comma 2 del Codice Penale, il testimone legga ad alta voce: «Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza». Il microfono fischia, la voce si impaccia, qualcuno tentenna sul significato della parola «consapevole». Poi iniziano a piovere menzogne. Il giudice di Aosta Eugenio Gramola - sì, quello del caso Cogne - ha lanciato l’allarme a Niccolò Canzan sul suo articolo su “La Stampa” : «Ci prendono per imbecilli. È incredibile come mentano con facilità davanti al giudice. Sfrontati, fantasiosi. Senza la minima cura per la plausibilità del racconto. Orari impossibili, contraddizioni lampanti, pasticci. L’incidenza dei falsi testimoni è molto superiore a una media fisiologica, si attesta tra il 70 e l’80 per cento». Sette su dieci mentono, in Valle d’Aosta. Sembra uno di quei casi in cui la geografia potrebbe significare qualcosa. L’Italia un Paese di bugiardi, quasi una tara nel codice genetico: «Chi mente al giudice è furbo - dice Gramola -. Essere bugiardo fa ridere, piace, non comporta disvalore sociale. Mentre indicare la menzogna come un grave atto contro la Giustizia è da biechi moralisti e puritani».  Totò e Peppino erano all’avanguardia, è risaputo. «Caffè, panini, false testimonianze!», urlavano nel 1959 nel film «La Cambiale». Dall’alto della civilissima Valle d’Aosta, al cospetto di storie magari più piccole eppure significative, il giudice Gramola ha un guizzo d’orgoglio: «Certe volte, più che a testimoni ci troviamo di fronte ad amici delle parti in conflitto. E questi bugiardi sono poi magari gli stessi che si scagliano contro una giustizia che non funziona».

D’altro canto la procura di Milano ha rinviato a giudizio tutti i testimoni della difesa nel cosiddetto “processo Rubi”, che sono 42, più i due avvocati della difesa: in tutto 44. Ora, pensare che 42 testimoni fra i quali deputati, senatori, giornalisti, funzionari di polizia abbiano, tutti, giurato il falso, è una cosa a dir poco stravagante, scrive Luigi Barozzi. Il capo d’accusa non è ancora definito, ma andrà probabilmente dalla falsa testimonianza alla corruzione in atti giudiziari. In soprannumero, anche i legali verranno rinviati a giudizio, e al normale cittadino sorgono alcuni dubbi.

- E’ mai possibile che 42 persone, di varia provenienza sociale e professionale, siano tutti bugiardi-spergiuri o peggio?

- E’ mai possibile che lo siano pure i legali della difesa i quali, in un società civile, incarnano un principio quasi sacro: il diritto dell’imputato, anche se si tratta della persona peggiore del mondo, di essere difeso in giudizio?

- Non sarà, per caso, che la sentenza fosse già scritta e che il disturbo arrecato dai testi della difesa alla suddetta sentenza abbia irritato la Procura di Milano tanto da farle perdere la trebisonda? 

Trattando il tema della menzogna ci si imbatte frequentemente in definizioni che fanno uso di molti sinonimi quali inganno, errore, finzione, burla, ecc…, le quali, anziché restringere i confini semantici del concetto di menzogna, tendono ad allargarli creando spesso confusione, scrive Il valore positivo della bugia - Dott.ssa Maria Concetta Cirrincione - psicologa. Un primo tentativo per circoscrivere tale area semantica consiste nel definire la differenza tra menzogna e inganno. La menzogna e il suo sinonimo bugia, usato prevalentemente in relazione all’infanzia, và considerata una modalità tra le altre di ingannare, perciò possiamo definirla come una sorta di “sottoclasse “ dell’inganno. La sua caratteristica distintiva consiste nel fatto di essere essenzialmente un atto comunicativo di tipo linguistico, ossia la rivelazione di un contenuto falso attraverso la comunicazione verbale o scritta. Questo impone la presenza di almeno un comunicatore, di un ricevente e di un messaggio verbale che non corrisponde a verità. L’inganno si esplica invece, non solo attraverso l’atto comunicativo della menzogna, ma anche attraverso comportamenti tesi ad incidere sulle conoscenze, motivazioni, aspettative dell’interlocutore. (De Cataldo Neuburgher L. , Gullotta G., 1996). Secondo questa prospettiva, l’omissione di informazioni non è tanto una menzogna, quanto un inganno. La comunicazione è una condizione sufficiente ma non necessaria perché si possa ingannare. A volte si inganna facendo in modo che:

- l’altro sappia qualcosa di non vero (es: A va sul tetto e fa cadere acqua dalla grondaia, B vede l’acqua e viene ad assumere che piove);

- l’altro creda qualcosa di non vero (es: B guardando l’acqua fuori dalla finestra, commenta: “piove”, e A non lo smentisce);

- l’altro non venga a conoscenza della verità (A chiude l’altra finestra dalla quale non si vede l’acqua cadere, in modo che B continui a credere il falso);

L’inganno, quindi, si esplica attraverso qualsiasi canale verbale e non verbale (mimica facciale, gestualità, tono di voce), mentre la menzogna utilizza specificatamente il canale verbale. Mentire è un comportamento diffuso, tipicamente umano, non è tipico dell’adolescenza, né necessariamente un indice di psicopatologia; di solito viene valutato infatti da un punto di vista etico più che psicopatologico. Non appena i bambini sono in grado di utilizzare il linguaggio con sufficiente competenza sperimentano la possibilità di affermare a parole una verità del desiderio e del sentimento diversa da quella oggettiva.

E’ noto che i bambini non hanno la stessa proprietà di linguaggio degli adulti, per cui spesso gli adulti chiamano bugia ciò che per il bambino è espressione di paure, di bisogno di rassicurazione o di percezione inesatta della realtà. Si può parlare di bugia quando si nota l’intenzione di “barare”, e comporta un certo livello di sviluppo. Nei bambini avviene come messa alla prova per misurare poi la reazione degli adulti al suo comportamento. Nel crescere assume anche altri significati poiché dipende da diverse variabili; può dipendere dalla situazione che si sta vivendo, dalla persona alla quale è rivolta o dallo scopo che si vuole raggiungere. E’ utile pertanto una classificazione che ci permetta di orientarci meglio al suo interno, sebbene tale classificazione può risultare artificiosa dal momento che i vari tipi di menzogna tendono spesso a sovrapporsi e a confondersi tra loro. Si possono distinguere (Lewis M., Saarni C. , 1993):

bugie caratteriali (bugie di timidezza, bugie di discolpa, bugie gratuite);

bugie di evitamento (evitare la punizione, difendere la privacy);

bugie di difesa (bugie per proteggere se stessi o gli altri);

bugie di acquisizione (bugie per acquistare prestigio, per ottenere un vantaggio);

bugie alle quali lo stesso autore crede (pseudologie);

autoinganno.

BUGIE DI TIMIDEZZA: una motivazione che può spingere a raccontare bugie è la timidezza. Alla sua radice c’è una concezione negativa di se stessi; i timidi affrontano la vita con la sensazione di essere inferiori rispetto alla maggioranza degli altri esseri umani e questo modo di pensare condiziona le loro relazioni in molteplici modi. Uno di questi è la tendenza a raccontare menzogne per apparire migliori agli occhi degli altri, per nascondersi, per evitare situazioni sociali nelle quali si sentirebbero inadeguati e imbarazzati.

BUGIE DI DISCOLPA: ci sono menzogne che derivano dalla necessità di discolparsi da accuse più o meno fondate. E’ un atteggiamento diffuso nei bambini che può permanere in soggetti adulti insicuri nei quali spesso si riscontra un sentimento d’inferiorità e l’incapacità di affrontare le proprie responsabilità.

BUGIE GRATUITE: generalmente dietro alla maggior parte delle bugie si nasconde un bisogno, un desiderio, uno scopo che il soggetto vuole raggiungere. Spesso invece ci troviamo di fronte a menzogne che non lasciano intuire che cosa vuole raggiungere il soggetto, sono le bugie che vengono raccontare per puro divertimento, per allegria, per dare sfogo alla fantasia.

BUGIE PER EVITARE LA PUNIZIONE: evitare la punizione è un motivo molto comune delle bugie degli adulti, ma prevalentemente dei bambini. Questi ultimi imparano a mentire ben presto quando si rendono conto di aver commesso una trasgressione, già a 2-3 anni essi sono in grado di attuare degli inganni in contesti naturali come la famiglia.

BUGIE PER DIFENDERE LA PRIVACY: la salvaguardia della privacy è un motivo che spinge spesso i ragazzi adolescenti, ma anche gli adulti, a raccontare bugie. Nell’adolescenza emerge nei ragazzi il bisogno di crearsi uno spazio proprio, di decidere se raccontare o meno le loro esperienze e le loro emozioni. Se da un lato ciò deve essere rispettato dai genitori, dall’altro costituisce un problema a causa del loro bisogno di protezione nei confronti del figlio.

BUGIE PER PROTEGGERE SE STESSI O GLI ALTRI: nella vita di ogni giorno ci sono svariate situazioni che portano una persona a mentire per proteggere se stessa o i sentimenti di persone care. Se alla nostra festa di compleanno riceviamo un regalo che non ci piace o quanto meno lo consideriamo inutile, è molto improbabile che lo diremo chi ce l’ha donato; è probabile invece che, dissimulando la delusione, ci mostreremo entusiasti. Gli adulti mentono per cortesia e questa regola sociale viene ben presto assimilata anche dai bambini. Essi imparano a proteggere i sentimenti degli altri attraverso un’istruzione diretta data dai genitori, ma anche indirettamente osservandone il comportamento.

BUGIE PER ACQUISTARE PRESTIGIO: sono delle bugie compensatorie che traducono non tanto la ricerca di un beneficio concreto, ma la ricerca di un’immagine che il soggetto ritiene perduta o inaccessibile: si inventa una famigli più ricca, più nobile o più sapiente, si attribuisce dei successi scolastici o lavorativi. In realtà questa bugia è da considerarsi normale nell’infanzia e finchè occupa un posto ragionevole nell’immaginazione del bambino. Tale condotta viene considerata banale fino ai 6 anni, la sua persistenza oltre tale età segnala invece spesso delle alterazioni psicopatologiche.

PSEUDOLOGIE: sono delle bugie alle quali lo stesso autore crede. Più specificatamente viene definita “pseudologia fantastica” una situazione intenzionale e dimostrativa di esperienze impossibili e facilmente confutabili (Colombo, 1997). E’ un puro frutto di immaginazione presente in bugiardi patologici ed è una caratteristica tipica della Sindrome di Mùnchausen.

AUTOINGANNO: il mentire a se stessi è un particolare tipo di menzogna che ci lascia interdetti e confusi dal momento che il soggetto è contemporaneamente ingannatore e ingannato. L’autoinganno è l’inganno dell’Io operato dall’Io, a vantaggio o in rapporto all’Io (Rotry, 1991). In esso vengono messi in atto meccanismi di difesa come la razionalizzazione e la denegazione. Attraverso la razionalizzazione il soggetto inventa spiegazioni circa il comportamento proprio o altrui che sono rassicuranti o funzionali a se stesso, ma non corrette. Il soggetto da un lato può celare a se stesso la reale motivazione di alcuni comportamenti ed emozioni, e dall’altro riesce a nascondere ciò che sa inconsciamente e non vuole conoscere. Attraverso la denegazione, invece, il soggetto rifiuta di riconoscere qualche aspetto della realtà interna o esterna evidente per gli altri. Potremo fare l’esempio dell’alcolista che mente a se stesso dicendosi che non ha nessun problema o delle famiglie in cui si fa “finta di niente, finta di non capire”.

Intanto per i magistrati coloro che si presentano al loro cospetto son tutti bugiardi. Persino i loro colleghi che usano lo stesso sistema di giudizio per l’altrui valutazione.

Eppure Pietro Argentino è il numero 2 della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati, scrive Augusto Parboni su “Il Tempo”. È l’alto magistrato pugliese Pietro Argentino a rischiare di dover fare i conti adesso con la giustizia, dopo che il Tribunale di Potenza, competente per i reati commessi dai magistrati di Taranto, ha disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero per indagare sul reato di falsa testimonianza proprio del procuratore aggiunto Argentino. Il pm dovrà inoltre valutare la posizione di altre 20 persone, tra le quali molti rappresentanti delle forze dell’ordine. La decisione della Corte è arrivata alla fine del processo che ha visto la condanna a 15 anni di reclusione per l’ex pm di Taranto Matteo Di Giorgio, condannato tre giorni fa per concussione e corruzione semplice. Al termine del processo, ecco abbattersi sulla procura di Taranto la pensate tegola della trasmissione degli atti per indagare proprio su chi ricopre un ruolo di vertice nella procura pugliese. Argentino è a capo del pool che ha chiesto il rinvio a giudizio, tra l’altro, del presidente della Puglia, Nichi Vendola, nell’ambito delle indagini sulle emissioni inquinanti dello stabilimento Ilva. Vendola è accusato di concussione in concorso con i vertici dell’Ilva, per presunte pressioni sull’Arpa Puglia affinché «ammorbidisse» la pretesa di ridurre e rimodulare il ciclo produttivo dello stabilimento siderurgico. Attraverso quel - le presunte pressioni, Vendola - secondo la procura - avrebbe minacciato il direttore Arpa Giorgio Assennato, «inducendolo a più miti consigli», approfittando del fatto che Assennato fosse in scadenza di mandato e che rischiasse di non essere riconfermato. Accusa sempre respinta da Vendola.

Quindici anni di reclusione per concussione e corruzione semplice. Tre in più rispetto ai dodici chiesti dal pubblico ministero, scrive “Il Quotidiano di Puglia”. È un terremoto che si abbatte sul palazzo di giustizia di Taranto la sentenza che il Tribunale di Potenza ha pronunciato nei confronti dell’ex pubblico ministero della procura di Taranto Matteo Di Giorgio. Un terremoto anche perché i giudici potentini - competenti per i procedimenti che vedono coinvolti magistrati tarantini - hanno disposto la trasmissione degli atti alla Procura perché valuti la sussistenza del reato di falsa testimonianza a carico del procuratore aggiunto di Taranto, Pietro Argentino, e l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci, di Gallipoli.

Il Tribunale di Potenza ha condannato a 15 anni di reclusione l’ex pubblico ministero di Taranto, Matteo Di Giorgio, accusato di concussione e corruzione in atti giudiziari, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Come pena accessoria è stata disposta anche l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. La pubblica accusa aveva chiesto la condanna alla pena di 12 anni e mezzo. Il Tribunale di Potenza  (presidente Gubitosi), competente a trattare procedimenti in cui sono coinvolti magistrati in servizio presso la Corte d’appello di Lecce, ha inoltre inflitto la pena di tre anni di reclusione all’ex sindaco di Castellaneta (Taranto) Italo D’Alessandro e all’ex collaboratore di quest’ultimo, Agostino Pepe; 3 anni e 6 mesi a Giovanni Coccioli, 2 anni a Francesco Perrone, attuale comandante dei vigili urbani a Castellaneta, 2 anni ad Antonio Vitale e 8 mesi a un imputato accusato di diffamazione. L'ex pm Di Giorgio, sospeso cautelativamente dal Csm, fu arrestato e posto ai domiciliari nel novembre del 2010. Le contestazioni riguardano presunte minacce in ambito politico e ai danni di un imprenditore, altre per proteggere un parente, e azioni dirette a garantire l’attività di un bar ritenuto dall’accusa completamente abusivo. Il magistrato secondo l'accusa, ha anche minacciato di un “male ingiusto” un consigliere comunale di Castellaneta, costringendolo a dimettersi per provocare lo scioglimento del Consiglio comunale e assumere una funzione di guida politica di uno schieramento. L'ex sindaco di Castellaneta ed ex parlamentare dei Ds Rocco Loreto, che presentò un dossier a Potenza contro il magistrato, e un imprenditore, si sono costituiti parte civile ed erano assistiti dall’avv. Fausto Soggia. Il Tribunale di Potenza ha inoltre disposto la trasmissione degli atti alla procura per valutare la posizione di diversi testimoni in ordine al reato di falsa testimonianza. Tra questi vi sono cui l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto di Taranto Pietro Argentino. Complessivamente il Tribunale ha trasmesso alla procura gli atti relativi alle testimonianze di 21 persone, quasi tutti carabinieri e poliziotti. Tra questi l’ex vicequestore della polizia di Stato Michelangelo Giusti.

Le indagini dei militari del nucleo operativo e della sezione di polizia giudiziaria dei carabinieri di Potenza coordinati dal pm Laura Triassi erano partite nel 2007, scrive “Il Quotidiano Web”. Lo spunto era arrivato dall'esposto di un ex assessore di Castellaneta, Vito Pontassuglia, che ha raccontato di aver spinto alle dimissioni un consigliere comunale, nel 2001, paventandogli un possibile arresto del figlio e del fratello per droga da parte del pm Di Giorgio. Quelle dimissioni che avrebbero causato le elezioni anticipate spianando la strada agli amici del pm, e a lui per l’incarico di assessore della giunta comunale. Gli interessi del magistrato nelle vicende politiche del paese avrebbero incrociato, sempre nel 2007, le ambizioni dell'ex senatore Rocco Loreto, un tempo amico di Di Giorgio, ma in seguito arrestato per calunnia nei suoi confronti, che si era candidato come primo cittadino. Di Giorgio è stato condannato anche al risarcimento dei danni subiti da Loreto, da suo figlio e da Pontassuglia. Per lui la richiesta dell'accusa si era fermata a 12 anni e mezzo di reclusione. Le motivazioni della decisione verranno depositate entro 90 giorni, ma non mi sorprende il fatto che esse conterranno il riferimento alla dubbia credibilità di imputati e testimoni. 

COSI’ LE TOGHE HANNO DISTRUTTO L’ILVA…….E TARANTO.

Così le toghe hanno distrutto l'Ilva. Dall'inizio dell'inchiesta l'azienda ha perso un terzo della produzione. Ora prepara un piano "lacrime e sangue" per i dipendenti, scrive Luigi Amicone  su “Il Giornale”. Sul numero in edicola il settimanale Tempi ha pubblicato una dettagliata ricostruzione dell'inchiesta giudiziaria condotta sull'Ilva dalla Procura di Taranto, più volte smentita dalla Corte costituzionale e dalla Corte di Cassazione. L'articolo racconta anche le conseguenze nefaste che l'inchiesta ha avuto sulla produzione siderurgica e, soprattutto, sugli investimenti per il recupero ambientale deliberati dai Riva e che, proprio a causa dell'inchiesta, sono rimasti lettera morta. Qui di seguito pubblichiamo ampi stralci di questa ricostruzione della vicenda. Nei prossimi giorni il parlamento varerà una serie di provvedimenti per rilanciare la commissariata Ilva. La più grande acciaieria d'Europa. Almeno fino a due anni fa. Dopo di che, nel biennio di massimo protagonismo della Procura di Taranto, tra il 26 luglio 2012 (data del primo sequestro degli impianti) e il 20 dicembre 2013 (pronuncia della Cassazione contro il sequestro del patrimonio della famiglia Riva, maggiore azionista dell'azienda), l'Ilva ha perso un terzo della sua produzione, ha dimezzato i ricavi e nel 2014 attuerà un massiccio piano di «contratti di solidarietà» per 3.579 lavoratori. 26 luglio 2012. 20 dicembre 2013. Segnatevi queste due date. Corrispondono all'arco temporale durante il quale due magistrati, il procuratore capo Franco Sebastio e il giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, impegnati a perseguire per «disastro ambientale» la proprietà e gli amministratori dell'Ilva, hanno di fatto determinato la politica ambientale e industriale di un pezzo importante del sistema Italia. (...) Dopo aver ordinato le due prime e pesantissime raffiche di arresti e di sequestri all'Ilva (26 luglio e 26 novembre 2012), la procura e il gip di Taranto si oppongono con ricorso alla Corte costituzionale alla legge del 3 dicembre 2012. Poi, alla sentenza (9 aprile 2013) che dichiara costituzionale la cosiddetta legge salva Ilva, la Procura attende un mese prima di predisporre il dissequestro, previsto per sentenza, di prodotti Ilva che la stessa Procura aveva impedito di commercializzare a partire dal 26 novembre 2012. Prodotti che in data 15 maggio 2013, giorno in cui il Gip di Taranto firma il dissequestro, hanno perduto (per deperimento e caduta dei prezzi sul mercato dell'acciaio) oltre un terzo del loro valore di 1 miliardo di euro. Ancora. Il 25 maggio 2013, cioè dopo essere stati contraddetti dalla Corte Costituzionale, i magistrati di Taranto sequestrano altri 8,1 miliardi di patrimonio dei proprietari dell'Ilva e mantengono ferrignamente tale sequestro fintanto che, sette mesi dopo, la Corte di Cassazione cancella senza rinvio tale provvedimento, dichiarandolo «abnorme» e «fuori dall'ordinamento». Infine, Enrico Letta riesce nell'impresa di rinunciare a esercitare le prerogative di un primo ministro e di un governo. (...) E sancisce il commissariamento straordinario dell'Ilva. Azienda privata che viene in questo modo trasformata in azienda parastatale per almeno i prossimi 36 mesi. Secondo le richieste del commissario Enrico Bondi, l'Ilva dovrebbe essere ricapitalizzata con i soldi (1,2 miliardi di euro) che i Riva si sono visti porre sotto sequestro cautelativo dalla procura di Milano. Non per violazioni all'Ilva, ma per una (presunta) maxi-evasione fiscale. (...)Facciamo un passo indietro. Senza contare l'indotto del Nord, nel novembre 2012 Ilva occupa ancora 15.358 persone e il suo fatturato consolidato (oltre 6 miliardi di euro nel 2011) è in netta ripresa rispetto al biennio 2009-2010. Ed ecco una fotografia dell'azienda esattamente un anno dopo, dicembre 2013, quando il commissario straordinario Bondi scrive nella sua relazione che le vendite sono in picchiata, costi e perdite in paurosa ascesa. Colpisce il brusco calo di produzione. L'Ilva perde un terzo della produzione in un solo anno. Nel 2013 produce 6 milioni e 300 mila tonnellate, contro gli 8 milioni e 300 mila del 2012. Rispetto al 2011, quando a bilancio risultavano ricavi superiori a 6 miliardi di euro, in aumento del 30,4 per cento rispetto al 2010, la relazione di Bondi prevede per il 2013 ricavi quasi dimezzati, 3,65 miliardi, oltre il 40 per cento in meno rispetto al 2011, anno che precede gli interventi della Procura. (...) E veniamo al «disastro ambientale» di cui sono accusati imprenditori, manager, funzionari pubblici, che hanno gestito l'Ilva negli ultimi 15 anni. (...) Il 26 ottobre arriva la nuova Aia (Autorizzazione integrata ambientale), draconiana. Impone all'Ilva standard che in Europa si devono adottare entro il 2016 (mentre i tedeschi hanno ottenuto un posticipo al 2018). L'Ilva deve adottarli entro il 2014. (...) «Il 15 novembre 2012 - spiega Corrado Clini, all'epoca ministro dell'Ambiente - Ilva accetta le prescrizioni e presenta il piano degli interventi per dare attuazione alla nuova Aia. Nello stesso tempo Ilva ritira tutti i contenziosi aperti nel 2011 e 2012 dall'azienda contro l'Amministrazione. Insomma, Ilva aveva finalmente deciso di allinearsi alle direttive europee, voltando pagina». Con la retata del 26 novembre, naturalmente tutto cambia. Stessa storia il 24 maggio 2013, dopo la sentenza con cui la Corte costituzionale aveva sbloccato i sequestri e confermato la legittimità del «Salva Ilva» di Monti. Il gip di Taranto sequestra l'intero patrimonio dei Riva. È la mazzata finale. (...) Vero che, 7 mesi dopo il teorema della procura e dell'affetto sostenitore di Report, arriverà la sentenza della Cassazione che disintegra l'ordinanza del gip di Taranto e ordina la restituzione degli 8,1 miliardi di patrimonio sequestrati ai Riva. Ma ormai il danno è fatto, l'Ilva è a pezzi, l'aria che tira a Taranto è di scontro permanente, insormontabile. E il governo Letta che fa? Invece di affrontare di petto l'incredibile anomalia di una procura che ha sbagliato pesantemente e che è stata due volte sonoramente stroncata nei suoi atti dagli stessi vertici del potere togato (Corte costituzionale e Cassazione), ecco, invece di affrontare due magistrati, il governo batte in ritirata e si inventa il commissariamento straordinario. Il resto è storia di questi giorni. Le acciaierie di Taranto sono tornate sotto amministrazione parastatale. E forse, chissà, invece che Ilva domani si chiameranno Iri.

Il romanzone del caso Ilva, una catastrofe italiana. Ecco come abbiamo distrutto la più grande acciaieria d’Europa, scrive Luigi Amicone su “Tempi”. Stanziamenti, tre leggi ad hoc, l’ingaggio di due governi, della Suprema Corte e della Corte Costituzionale. Niente da fare. L’Ilva chiude e riapre l’Iri. I magistrati sono scatenati, Enrico Letta è imbelle. Nei prossimi giorni il parlamento varerà una serie di provvedimenti per rilanciare la commissariata Ilva. La più grande acciaieria d’Europa. Almeno fino a due anni fa. Dopo di che, nel biennio di massimo protagonismo della Procura di Taranto, tra il 26 luglio 2012 (data del primo sequestro degli impianti) e il 20 dicembre 2013 (pronuncia della Cassazione contro il sequestro del patrimonio della famiglia Riva, maggiore azionista dell’azienda), l’Ilva ha perso un terzo della sua produzione di acciaio, ha dimezzato i ricavi e nel 2014 attuerà un massiccio piano di messa a “contratti di solidarietà” di 3.579 lavoratori. 26 luglio 2012. 20 dicembre 2013. Segnatevi queste due date. Corrispondono all’arco temporale durante il quale due magistrati, il procuratore capo Franco Sebastio e il giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, impegnati a perseguire per “disastro ambientale” la proprietà e gli amministratori dell’Ilva, hanno di fatto determinato la politica ambientale e industriale di un pezzo importante del sistema Italia (prerogative che, per legge, spetterebbero al governo e alle amministrazioni pubbliche). Non solo. Questa coppia di magistrati è stata sufficiente a polverizzare ogni record in materia di conflitto tra funzione giudiziaria e gli altri poteri dello Stato. Anticipato in rapide sequenze da trailer, il film è il seguente. Dopo aver ordinato le due prime e pesantissime raffiche di arresti e di sequestri all’Ilva (26 luglio e 26 novembre 2012), prima la procura e il gip di Taranto si oppongono con ricorso alla Corte costituzionale a una legge dello Stato del 3 dicembre 2012. Poi, alla sentenza (9 aprile 2013) che dichiara “costituzionale” una legge dello Stato (la cosiddetta “salva Ilva”), la Procura attende un mese prima di predisporre il dissequestro, previsto per sentenza, di prodotti Ilva che la stessa Procura aveva impedito di commercializzare a partire dal 26 novembre 2012. Prodotti che in data 15 maggio 2013, giorno in cui il gip di Taranto firma il dissequestro, hanno perduto (per deperimento e caduta dei prezzi sul mercato dell’acciaio) oltre un terzo del loro valore di 1 miliardo di euro. Ancora. Il 25 maggio 2013, cioè dopo essere stati contraddetti dalla Corte costituzionale (sentenza del 9 aprile e deposito delle motivazioni del 10 maggio 2013), i magistrati di Taranto sequestrano altri 8,1 miliardi di patrimonio dei proprietari dell’Ilva e mantengono ferrignamente tale sequestro (col rischio di far collassare l’intera filiera aziendale dei Riva) fintanto che, sette mesi dopo, la Corte di Cassazione cancella senza rinvio tale provvedimento, dichiarandolo «abnorme» e «fuori dall’ordinamento». Infine, dopo l’incredibile braccio di ferro tra Procura e leggi dello Stato, dopo che i più gravi e importanti provvedimenti assunti dai magistrati nei confronti dell’Ilva sono stati demoliti da ben due sentenze delle massime Corti, invece che chiedere conto di quanto siano costati allo Stato (e a Taranto) l’intransigenza e gli errori della Procura, Enrico Letta riesce nell’impresa di rinunciare a esercitare le prerogative di un primo ministro e di un governo. Così, con l’alibi che nel giugno 2013 la proprietà Ilva (con tutto quello che aveva addosso) non era ancora riuscita a mettersi completamente a norma rispetto alle severe regole ambientali approvate nel decreto “salva Ilva”, il governo vara un ennesimo decreto legge che, a partire dall’agosto 2013, sancisce il “commissariamento straordinario” dell’Ilva. Azienda privata che viene in questo modo trasformata in azienda parastatale per almeno i prossimi 36 mesi. E ora, secondo le richieste del commissario Enrico Bondi, l’Ilva dovrebbe essere ricapitalizzata con i soldi (1,2 miliardi di euro) che i Riva si sono visti porre sotto “sequestro cautelativo” dalla Procura di Milano. Non per violazioni all’Ilva, ma su tutt’altra partita di una (ad oggi presunta) «maxi-evasione fiscale».

Vendite in picchiata. E ora godiamoci il film (si fa per dire), distesamente. Il 27 novembre 2012, Stefano Saglia, vicepresidente della commissione Camera per le Attività produttive è ancora ottimista. Il giorno prima era scattata una seconda retata, dopo quella del 26 luglio con cui il gip di Taranto, Patrizia Todisco, aveva sequestrato sei impianti dell’area a caldo dell’Ilva, emesso otto mandati di arresto cautelare per manager dell’acciaieria (compreso l’allora 87enne Emilio Riva, ex patron dell’Ilva) e nominato quattro custodi giudiziari. Dunque, il 26 novembre 2012 una seconda ondata di arresti aveva portato in carcere altre sei persone e posto sotto sequestro 1,8 milioni di tonnellate di prodotti Ilva del valore commerciale di 1 miliardo di euro. Nonostante queste notizie, per Saglia l’acciaieria di Taranto resta «una grande realtà siderurgica di cui il paese non può privarsi. L’Ilva vale lo 0,5 per cento di Pil nazionale». E poi naturalmente ci sono in ballo migliaia di posti di lavoro. Per la precisione: 11.611 impiegati nelle acciaierie di Taranto più gli addetti in società strettamente collegate all’Ilva. In totale, senza contare l’indotto del Nord, nel novembre 2012 Ilva occupa ancora 15.358 persone e il suo fatturato consolidato (oltre 6 miliardi di euro nel 2011) è in netta ripresa rispetto al biennio 2009-2010. Ed ecco una fotografia dell’azienda esattamente un anno dopo, dicembre 2013, quando il commissario straordinario Bondi scrive nella sua relazione che le vendite sono in picchiata, costi e perdite in paurosa ascesa. Colpisce il brusco calo di produzione. L’Ilva perde due milioni di tonnellate d’acciaio, un terzo della produzione, in un solo anno. Nel 2013  produce 6 milioni e 300 mila tonnellate, contro gli 8 milioni e 300 mila del 2012. Rispetto al 2011, quando a bilancio risultavano ricavi superiori a 6 miliardi di euro, in aumento del 30,4 per cento rispetto al 2010, la relazione di Bondi prevede per il 2013 ricavi quasi dimezzati, 3,65 miliardi, oltre il 40 per cento in meno rispetto al 2011, anno che precede gli interventi della Procura. Insomma, benché goda della speciale rete di protezione messa a disposizione dai governi Monti e Letta (che nell’ultimo biennio hanno approvato ben tre decreti legge ad hoc e cospicue risorse economiche per interventi emergenziali, a cominciare dai 336 milioni di euro resi disponibili fin dall’agosto 2012) l’Ilva è inchiodata. Si deve procedere alla sua ricapitalizzazione. «All’Ilva servono 3 miliardi», dichiara Bondi al vertice ministeriale del 9 gennaio scorso. E la legge sull’emergenza ambientale, la cosiddetta “Terra dei fuochi-Ilva” in corso di definitiva approvazione in Senato, dovrebbe servire a procurarli. Come? In parte utilizzando il miliardo e rotti di euro sequestrati ai Riva dal procuratore di Milano (e attualmente anche consulente di Palazzo Chigi) Francesco Greco. In parte provando a convincere banche e investitori a entrare nella partita Ilva.

I due errori dei Riva. E veniamo al “disastro ambientale” di cui sono accusati imprenditori, manager, funzionari pubblici, che hanno gestito l’Ilva negli ultimi 15 anni. Prima, però, facciamo un bel passo indietro. Il 13 aprile 1972, in un elzeviro di pagina 3 sul Corriere della Sera, Antonio Cederna, fondatore di Italia Nostra, descrive così la Taranto dell’Ilva-Italsider a gestione statale: «Una città disastrata, una Manhattan del sottosviluppo e dell’abuso edilizio. Mille camion al giorno scaricano a mare il materiale sbancato a monte e i velenosi residui degli altiforni: un’enorme distesa di mare è già colmata e i lavori procedono senza tregua». Cederna annota sgomento: «Un’impresa industriale a partecipazione statale, con un investimento di quasi duemila miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sottovento». Il riferimento è al quartiere Tamburi, quello che nel 2013 è stato segnalato per l’alta incidenza di tumori. A distanza di oltre quarant’anni, 3 febbraio 2014, è Adriano Sofri a raccontare la visita e il ritorno da Taranto con animo «desolato». La magnifica penna di Repubblica non si lascia tentare dagli sforzi compiuti da ben due governi, dalle istituzioni locali e dalla stessa Corte costituzionale che il 9 aprile 2013 aveva richiamato la necessità di contemperare le esigenze del lavoro, della salute e del rispetto dell’ambiente, spettando al governo e alla pubblica amministrazione, non alla magistratura, dettare indirizzi e scelte in questi ambiti. Si ha l’impressione che per giustizia Sofri intenda questo: «Poi, nella notte fra l’11 e il 12 gennaio i custodi giudiziari hanno compiuto un’ispezione a sorpresa senza preavviso nell’Ilva e hanno trovato gli impianti (quelli che dovrebbero funzionare a ritmo ridotto) “tirati al massimo”. Anomale accensioni delle torce dell’acciaieria…» e via di altre illegalità. Bene. Dai primi anni Settanta, quando Cederna descriveva lo sversamento e inquinamento a cielo aperto dell’Ilva statale, pare che non sia successo niente. Poi, dai primi mesi del 2012, per la procura, i suoi periti e, a seguire, ambientalisti e dipietristi 2.0, l’Ilva diventa “il mostro di Taranto”. E i Riva – che pure hanno documentato investimenti a Taranto per 3 miliardi in tecnologia e 1,5 miliardi per l’ambiente – gli emblemi di un capitalismo selvaggio, feroce sfruttatore dei lavoratori, dell’ambiente e della salute. In effetti, sussurrano i collaboratori degli (ex) patron dell’Ilva, i Riva hanno commesso due gravi errori. Primo: sono scesi a Taranto col piglio bauscia del “sciur parun” del Nord. Secondo: il 17 febbraio 2012 non si sono presentati all’incidente probatorio dove avrebbero potuto giocarsi una sentenza del Tar di Lecce che aveva dato loro ragione in tema di emissioni di diossina. Detto ciò, sembra veramente arduo che l’accusa riesca a dimostrare in sede processuale che «in 13 anni» (13 anni? E i precedenti 50?) l’Ilva dei Riva è stata l’unica ed esclusiva responsabile di “disastro ambientale”. Tanto più che, oltre alla siderurgia, il sito industriale di Taranto comprende una grande raffineria, una grande centrale elettrica, un grande cementificio, un grande arsenale militare pieno di amianto. Non solo. A complicare le cose a quelli che vedono nei Riva il diavolo e nell’Ilva l’inferno, c’è un particolare rivelato da Corrado Clini, ex ministro dell’Ambiente del governo Monti che conosce ogni piega del caso e se ne è occupato personalmente fino al passaggio di testimone al suo omologo ministro Orlando del governo Letta. Dice Clini: «Il 4 agosto 2011 è stata data l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) per Ilva di Taranto, dopo un’istruttoria di 5 anni, con 462 prescrizioni. 5 anni è un tempo superiore 10 volte a quanto prevede la legge. E le 462 prescrizioni erano in gran parte in contraddizione tra loro e non applicabili, perché espressione di un compromesso “politico” tra la resistenza dell’impresa ad assumere impegni in linea con le migliori tecnologie disponibili e le istanze della Regione e degli enti locali in gran parte non sostenibili sul piano della fattibilità tecnica e giuridica. Ilva ricorre al Tar contro gran parte delle prescrizioni, ritenute in contrasto tra di loro e nei confronti delle norme vigenti. Il Tar riconosce la fondatezza del ricorso di Ilva e disapplica una parte rilevante delle prescrizioni. Nello stesso tempo, con valutazioni opposte a quelle del Tar, la procura della Repubblica di Taranto rileva che l’Aia non è adeguata per risolvere le molte problematiche ambientali e per la salute causate dallo stabilimento Ilva».

La telefonata al capo procuratore. Giusi Fasano, giornalista del Corriere della Sera, è a Taranto nei giorni dei sequestri e arresti che mettono a rischio quasi 12 mila posti di lavoro. Il 17 agosto 2012 l’inviato del Corriere segue il vertice che si svolge in città tra le istituzioni e le parti coinvolte nella crisi delle acciaierie. Il governo Monti è presente con due carichi da novanta, il ministro dell’Ambiente Corrado Clini e il ministro per lo Sviluppo economico e le infrastrutture Corrado Passera. Manca qualcuno? Sì. Manca il procuratore capo Franco Sebastio che pure è l’artefice, diciamo così, di tutto il can can. Giusi Fasano ha il suo cellulare, chiama, lasciamoli chiacchierare. «Sebastio risponde da Soverato, Calabria, “dove vengo in vacanza da 35 anni”, dice. Ma come? È a tre ore di distanza, arrivano i ministri a Taranto perché una sua inchiesta ha fatto dell’Ilva un caso nazionale e lei non torna nemmeno per una stretta di mano? “L’ho detto anche a loro in una telefonata, cordialissima: vedrete che non mancherà l’occasione”. Più che una promessa sembra una minaccia. “Non mancherà occasione nel senso che c’è sempre tempo per farlo. Presentarmi nell’incontro di venerdì non mi è sembrato opportuno. Lì c’era spazio per politici, amministratori, sindacalisti… che c’entrava un magistrato?”». Ecco, bisogna aggiungere altro? Sì, bisogna aggiungere che alla fine del 2012 il procuratore Sebastio metterà in un libro-intervista le sue riflessioni. «Quando arriva a Taranto con la toga sulle spalle? “Vengo trasferito nella mia città sempre da pretore nel ’76”. Che situazione trova? “Una situazione non certo facile. L’emergenza ambientale c’era tutta, ma non era agevole rendersene conto e, soprattutto, documentarla”. Ostacoli? “Diciamo che non mancavano ostacoli oggettivi”. In che senso? “Beh, in generale l’inquinamento ambientale non sempre provoca danni immediati. In alcuni casi, come per l’amianto, occorre aspettare anche decenni per rilevare le conseguenze sulla salute delle persone. E poi non c’era una sensibilità diffusa sulla qualità del lavoro e la tutela dell’ambiente. Naturalmente, anche la Giustizia soffriva della stessa miopia”». (Il mio Salento, la mia Puglia, dicembre 2012, edizione Affari Italiani). Dunque, alla fine del 2012 apprendiamo dal pm accusatore degli ultimi quindici anni di Ilva che dei 40 anni precedenti in cui lo stesso pm era a Taranto c’è ben poco da ricordare. Eppure, già all’inizio degli anni Settanta Antonio Cederna scriveva quel che scriveva sulla Iri-Italsider-Ilva di Stato. Ma certo, sono anni in cui «ostacoli oggettivi» non consentivano interventi come quelli odierni. E dal 1982 al 2012? Sempre in prima linea. Però «diciamo che la società civile non era consapevole del problema». La società civile? Ascoltiamo in proposito l’ex ministro Corrado Clini. «Nel marzo 2012, per superare le contraddizioni ed uscire dalla situazione di stallo che si era venuta a creare, sulla base di gran parte delle valutazioni della procura della Repubblica di Taranto ho disposto la revisione dell’Aia. Contestualmente al riesame dell’Aia, ho avviato una ricognizione sullo stato dell’ambiente nel territorio di Taranto. È stato messo in evidenza che molte iniziative strategiche per il risanamento ambientale di Taranto, programmate e finanziate a partire dalla fine degli anni ’90, non erano state avviate o completate. E straordinariamente, nessuno aveva avuto nulla da ridire. In particolare. Primo, il piano di disinquinamento per il risanamento del territorio della provincia di Taranto, finanziato nel 1998 con 50 milioni euro, era stato in gran parte disatteso. Secondo, le risorse destinate al risanamento ambientale del Mar Piccolo nel 2005 (26 milioni euro) erano state successivamente destinate ad altri interventi nella regione Puglia. Terzo, le risorse stanziate per il risanamento del quartiere Tamburi di Taranto (49,4 milioni di euro) il 3 luglio 2007 erano state successivamente destinate ad altri progetti».

Ormai il danno è fatto. E adesso occhio alle date. Clini spiega: «Il 26 ottobre 2012, dopo una procedura di sei mesi ho rilasciato la nuova Aia, con la prescrizione dell’adeguamento degli impianti agli standard europei più severi e avanzati e che impone  investimenti per 3 miliardi di euro». È un’Aia draconiana. Impone all’Ilva standard che in Europa si devono adottare entro il 2016 (mentre i tedeschi hanno ottenuto un posticipo al 2018). L’Ilva deve adottarli entro il 2014. I primi due interventi prevedono la copertura di 65 ettari – l’equivalente di circa settanta campi di calcio di serie A – di parchi minerali. Il secondo, l’intubamento di novanta chilometri di nastri trasportatori. «Il 15 novembre 2012 – spiega Clini – Ilva accetta  le prescrizioni e presenta il piano degli interventi per dare attuazione alla nuova Aia. Nello stesso tempo Ilva ritira tutti i contenziosi aperti nel 2011 e 2012 dall’azienda contro l’Amministrazione. Insomma, Ilva aveva finalmente deciso di allinearsi alle direttive europee, voltando pagina». Con la retata del 26 novembre, naturalmente tutto cambia. Si era creata una via d’uscita rispettosa di tutte le esigenze (salute, lavoro, ambiente) al dramma di Taranto. Ma “la legge è legge”. Stessa storia accade il 24 maggio 2013, dopo la sentenza del 9 aprile con cui la Corte Costituzionale aveva sbloccato i sequestri e confermato la legittimità del “salva Ilva” di Monti. Il gip di Taranto passa a sequestrare l’intero patrimonio dei Riva. È la mazzata finale. Vero che alla procura di Taranto non basterà il bel servizio di Report del 18 novembre scorso, completamente allineato con le tesi della Procura degli 8,1 miliardi sequestrati perché questa, dicono i periti del gip, «è la cifra da noi stimata delle risorse sottratte dai Riva al risanamento ambientale Ilva». Vero che, 7 mesi dopo il teorema della procura e dell’affetto sostenitore di Report, arriverà la sentenza della Cassazione che disintegra l’ordinanza del gip di Taranto e ordina la restituzione degli 8,1 miliardi di patrimonio sequestrati ai Riva. Ma ormai il danno è fatto, l’Ilva è a pezzi, l’aria che tira a Taranto è di scontro permanente, insormontabile. E il governo Letta che fa? Invece di affrontare di petto l’incredibile anomalia di una procura che ha sbagliato pesantemente e che è stata due volte sonoramente stroncata nei suoi atti dagli stessi vertici del potere togato (Corte costituzionale e Suprema corte), ecco, invece di affrontare due magistrati, il governo batte in ritirata e si inventa una legge di “commissariamento straordinario”. Il resto è storia di questi giorni. Le acciaierie di Taranto sono tornate sotto amministrazione parastatale. E forse, chissà, invece che Ilva domani si chiameranno Iri.

MAI DIRE MAFIA: IL CALVARIO DI ANTONIO GIANGRANDE.

Guerra aperta contro alcuni magistrati di Taranto: denuncia per calunnia e diffamazione alla Procura di Potenza, richiesta di ispezione ministeriale al Ministro della giustizia e richiesta di risarcimento danni per responsabilità civile dei magistrati al Presidente del Consiglio dei Ministri.

«Non meditar vendetta! Ma siedi sulla riva del fiume e aspetta di veder passare il corpo del tuo nemico! Ed io ho aspettato…..affinchè una istituzione, degna dell’onor di patria, possa non insabbiare una mia legittima ed annosa aspettativa di giustizia. Perché se questo succede a me, combattente nato, figuriamoci a chi è Don Abbondio nell’animo. Già che sono in buona compagnia. Silvio Berlusconi: "Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti" ». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Puntuale anche quest’anno è arrivato il giorno dedicato all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Un appuntamento che, da tempo immemore ripropone un oramai vetusto ed urticante refrain: l’aggressione virulenta ai magistrati portata da tutti coloro che non fanno parte della casta giudiziaria.  Un piagnisteo continuo. Un rito liturgico tra toghe, porpore e carabinieri in alta uniforme. Eppure qualche osservazione sulle regole che presidiano e tutelano l’Ordine giudiziario italiano dovrebbe essere fatta. Faccio mie le domande poste da L’Infiltrato Speciale su Panorama. Quale sistema prevede una “sospensione feriale” per 3 mesi filati? Quale organizzazione non prevede un controllo sul tempo effettivo trascorso in ufficio ovvero regola e norma ogni forma di…telelavoro da casa? Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso? Ma, soprattutto, può il dovere di imparzialità del giudice sposarsi con lo svolgimento di vera e propria attività politica entro le varie “correnti” interne alla magistratura? Qualcuno potrà negare che diversi esponenti di magistratura democratica abbiano rivendicato apertamente le radici nel pensiero marxista leninista della propria corrente? Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito.

Detto questo premetto che la pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca. La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall'art. 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato. (Corte di Cassazione, Sezione 3 Civile, Sentenza del 22 febbraio 2008, n. 4603).

Ed allora ecco alcuni brani dell’atto presentato alle varie istituzioni.»

"Si presenta, per fini di giustizia ed a tutela del prestigio della Magistratura oltre che per tutela del diritto soggettivo dell’esponente, l’istanza di accertamento della responsabilità penale ed amministrativa e richiesta di risarcimento del danno, esente da ogni onere fiscale, in quanto già ammesso al gratuito patrocinio nei procedimenti de quo. Responsabilità penale, civile ed amministrativa che si ravvisa per i magistrati nominati per azioni commesse da questi in unione e concorso con terzi con dolo e/o colpa grave. Elementi costitutivi la responsabilità civile dei magistrati di cui alla Legge 13 aprile 1988, n. 17:

a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;

b) l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;

PER IL PRIMO FATTO

L’Avv. Nadia Cavallo presenta il 10/06/2005 una denuncia/querela nei confronti di Antonio Giangrande, sottoscritto denunciante, per avere, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, in unione e concorso con Monica Giangrande, con denuncia-querela presentata all’A.G., incolpato Cavallo Nadia Maria del reato di truffa e subornazione, pur sapendola innocente. La denuncia di Cavallo Nadia Maria è palesemente calunniosa e diffamatoria nei confronti di Antonio Giangrande in quanto la denuncia di cui si fa riferimento e totalmente estranea ad Antonio Giangrande e non è in nessun modo riconducibile ad egli.

Insomma: la denuncia a firma di Antonio Giangrande non esiste.

Pur mancando la prova della calunnia, quindi del reato commesso, comunque inizia il calvario per il dr. Antonio Giangrande.

La dott.ssa Pina Montanaro apre il fascicolo n. 5089/05 R.G. notizie di reato. Non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., e nel procedimento Gip n. 2612/06, pur non supportato da alcuna prova di accusa, in quanto la denuncia contestata in capo ad Antonio Giangrande non esiste, chiede comunque in data 20 aprile 2006 il rinvio a giudizio di Antonio Giangrande in concorso ed unione con Monica Giangrande.

Il Dr Ciro Fiore nel procedimento Gip n. 2612/06, pur non supportato da alcuna prova di accusa in quanto la denuncia contestata in capo ad Antonio Giangrande non esiste, dispone comunque in data 02 ottobre 2006 il rinvio a giudizio di Antonio Giangrande in concorso ed unione con Monica Giangrande.

Il processo a carico di Antonio Giangrande in concorso ed unione con Monica Giangrande contraddistinto con il n. 10306/10 RGDT si apre con l’udienza del 06/02/07 presso il Tribunale di Manduria – Giudice Monocratico, sezione staccata del Tribunale di Taranto, ma la posizione di Antonio Giangrande è stralciata per vizi di notifica.

Il Dr Pompeo Carriere il 28/04/2010 riapre il procedimento Gip n. 2612/06, dopo lo stralcio della posizione di Antonio Giangrande rispetto alla posizione di Monica Giangrande per vizi di forma della richiesta di rinvio a giudizio. Su apposita richiesta della difesa di Antonio Giangrande di emettere sentenza di non luogo a procedere per il reato di calunnia ove ritenga o accerti che ci siano degli elementi incompleti o contraddittori riguardo al fatto che l'imputato non lo ha commesso, il dr. Pompeo Carriere, il 19  luglio 2010, disattende tale richiesta e dispone nei confronti del Pubblico Ministero l’ulteriore integrazione delle indagini e l’acquisizione delle prove mancanti per sostenere l’accusa in giudizio contro Antonio Giangrande. All’udienza dell’8 novembre 2010, il Pubblico Ministero non ha svolto le indagini richieste, anche a favore dell’indagato, e non ha integrato le prove necessarie. Ciononostante in tale data il dr. Pompeo Carriere, pur non supportato da alcuna prova di accusa, in quanto la denuncia contestata in capo ad Antonio Giangrande non esiste, dispone comunque il rinvio a giudizio di Antonio Giangrande per il reato di calunnia.

Il nuovo processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n. 10346/10 RGDT si apre con l’udienza del 01/02/11 presso il Tribunale di Manduria – Giudice Monocratico, sezione staccata del Tribunale di Taranto. In quella sede ai diversi giudici succedutisi, in sede di contestazioni nella fase preliminare, si è segnalata la mancanza assoluta di prove che sostenessero l’accusa di calunnia.

Solo in data 23 gennaio 2014, nonostante l’assenza alla discussione con l’arringa finale dell’imputato (in segno di palese protesta contro l’ingiustizia subita) e del suo difensore di fiducia e senza curarsi delle richieste del Pubblico Ministero togato, che stranamente per questo procedimento è intervenuto di persona, non facendosi sostituire dal Pubblico Ministero onorario, ed a dispetto delle richieste dell’imperterrita presenza della costituita parte civile, l’avv. Nadia Cavallo, che ne chiedeva condanna penale e risarcimento del danno, il giudice Maria Christina De Tommasi, pur potendo dichiarare la prescrizione non ha potuto non acclarare l’assoluzione di Antonio Giangrande per il reato di calunnia per non aver commesso il reato, in quanto non vi era prova della sua colpevolezza. Per la seconda accusa dello stesso procedimento penale riguardante la diffamazione, ossia per il capo B, la De Tommasi ha pronunciato il non doversi procedere per intervenuta prescrizione, nonostante avesse anche qui dovuto constatare che il fatto non era stato commesso, per la mancanza di prove a carico di Antonio Giangrande, in quanto l’articolo incriminato era riconducibile a terze persone, sia come autori, che come direttori del sito web.

Declaratoria di NON AVER COMMESSO IL REATO. Dopo 8 anni, un pubblico Ministero, due Giudici per l’Udienza Preliminare, tre Giudici monocratici, di cui una, dr.ssa Rita Romano, estromessa con istanza di ricusazione, sostituita dalla dr.ssa Vilma Gilli ed a sua volta sostituita da Maria Christina De Tommasi.

Rita Romano ricusata per essere stata denunciata da Antonio Giangrande proprio per la sentenza di condanna adottata nei confronti di Monica Giangrande. Sentenza del 18/12/2007 con processo iniziato il 06/02/07. Esito velocissimo tenuto conto dei tempi medi del Foro. Nel processo nato a carico di Antonio Giangrande e Monica Giangrande su denuncia di Nadia Cavallo e poi stracciato a carico di Monica Giangrande, la stessa Monica Giangrande era accusata con Antonio Giangrande di calunnia per aver accusato la Cavallo Nadia di un sinistro truffa. Monica Giangrande affermava nella sua denuncia che la stessa Avv. Nadia Cavallo accusava lei, Monica Giangrande, di essere responsabile esclusiva del sinistro. In effetti Rita Romano stracciava la posizione di Antonio Giangrande per difetto di notifica del rinvio a giudizio e dopo l’espletamento del processo a carico di Monica Giangrande condannava l’imputata. Ciononostante lo stesso giudice riconosceva nelle sue motivazioni che la stessa Giangrande Monica accusava la Nadia Cavallo sapendola colpevole, perché proprio lo stesso giudice riconosceva tal Nigro Giuseppa come responsabile di quel sinistro che si voleva far ricondurre in capo alla Giangrande Monica, la quale, giustamente negava ogni addebito. L’appello contro la sentenza a carico di Monica Giangrande è stata inspiegabilmente mai impugnata dai suoi difensori, pur sussistendone validi motivi di illogicità della motivazione.

L’inimicizia dei magistrati di Taranto nei confronti di Antonio Giangrande è da ricondurre al fatto che lo stesso ha denunciato alcuni magistrati del foro tarantino, anche perché uno di loro, il sostituto procuratore Salvatore Cosentino, ha archiviato una denuncia contro il suo ufficio, anziché inviarlo alla Procura di Potenza, Foro competente. Inoltre l’avv. Nadia Cavallo è molto apprezzata dai magistrati Tarantini e da Salvatore Cosentino, ora alla procura di Locri. In virtù della sentenza di condanna emessa contro Monica Giangrande l’avv. Nadia Maria Cavallo ha percepito alcune decine di migliaia di euro a titolo di risarcimento del danno morale e oneri di difesa. Evidentemente era suo interesse fare la stessa cosa con il dr. Antonio Giangrande, con l’aiuto dei magistrati denunciati, il quale però non era di fatto e notoriamente autore del reato di calunnia, così come era falsamente accusato. Innocenza riconosciuta ed acclarata dal giudice di merito, però, dopo anni.   

PER IL SECONDO FATTO

In questo procedimento risultano esserci due querelanti e quindi due persone offese dal reato:

Dimitri Giuseppe querela in data 19/07/2004 Corigliano Renato perché si ritiene vittima di Falsa Perizia giudiziaria. Corigliano Renato controquerela Dimitri Giuseppe per calunnia e diffamazione per aver pubblicato la querela, in cui si producevano le accuse di falsa perizia contro il Corigliano ledendo il suo onore e la sua reputazione. Corigliano Renato non querela Antonio Giangrande. Dimitri Giuseppe per la diffamazione subita dal Corigliano controquerela Antonio Giangrande, pur non avendo il Dimitri Giuseppe legittimità a farlo, non essendo egli persona offesa.

Insomma: la querela di diffamazione da parte della persona offesa contro Antonio Giangrande non esiste.

Pur mancando la prova della diffamazione, quindi del reato commesso, comunque inizia il calvario per il dr. Antonio Giangrande.

Il Dr. Enrico Bruschi apre il fascicolo n. 3015/06 R.G. notizie di reato. Non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., e decreta egli stesso la citazione a giudizio saltando l’Udienza Preliminare.

Il processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n. 10244/10 RGDT si apre con l’udienza del 05/10/2010 presso il Tribunale di Manduria – Giudice Monocratico, sezione staccata del Tribunale di Taranto, ma la posizione di Antonio Giangrande è inviata al Giudice per le Indagini Preliminari per l’Udienza di Rito.

Il Dr Pompeo Carriere il 26/11/12 apre il procedimento Gip n. 243/12. Sostenuto dalla richiesta del PM Enrico Bruschi il dr. Pompeo Carriere, ciononostante non vi sia la querela di Corigliano Renato contro Antonio Giangrande e pur non supportato da alcuna prova di accusa, in quanto la denuncia contestata in capo ad Antonio Giangrande non esiste, dispone comunque il rinvio a giudizio di Antonio Giangrande per il reato di Diffamazione.

Il nuovo processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n. 10403/12 RGDT si apre presso il Tribunale di Manduria – Giudice Monocratico, sezione staccata del Tribunale di Taranto. In quella sede ai diversi giudici succedutisi, in sede di contestazioni nella fase preliminare, si è segnalata la mancanza assoluta di prove che sostenessero l’accusa di Diffamazione.

Solo in data 18 aprile 2013 Corigliano Renato è stato sentito ed ha confermato di non aver presentato alcuna querela contro Antonio Giangrande. Corigliano Renato e Dimitri Giuseppe hanno rimesso la querela, il primo perché non l’aveva presentata e comunque non aveva alcuna volontà punitiva contro Antonio Giangrande, il secondo non aveva addirittura la legittimità a presentarla. Il giudice Giovanni Pomarico  non ha potuto non acclarare il non doversi procedere nei confronti di Antonio Giangrande per remissione delle querele.

Declaratoria di NON DOVERSI PROCEDERE PER REMISSIONE DI QUERELA. Ma di fatto per difetto di legittimazione ad agire. Dopo 4 anni, un pubblico Ministero, un Giudice per l’Udienza Preliminare, tre Giudici monocratici, di cui una, dr.ssa Rita Romano, estromessa con istanza di ricusazione perchè denunciata da Antonio Giangrande, sostituita dalla dr.ssa Frida Mazzuti ed a sua volta sostituita da Giovanni Pomarico.

L’inimicizia dei magistrati di Taranto nei confronti di Antonio Giangrande è da ricondurre al fatto che lo stesso ha denunciato alcuni magistrati del foro tarantino, anche perché uno di loro, il sostituto procuratore Salvatore Cosentino, ha archiviato una denuncia contro il suo ufficio, anziché inviarlo alla Procura di Potenza, Foro competente.

PER IL TERZO FATTO

L’avv. Santo De Prezzo, in data 06 novembre 2006, denuncia e querela il dr. Antonio Giangrande per violazione della Privacy per aver pubblicato sul sito web della Associazione Contro Tutte le Mafie il suo nome, nonostante il nome dell’avv. Santo De Prezzo fosse già di dominio pubblico in quanto inserito negli elenchi telefonici, anche web, e nell’elenco degli avvocati del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Brindisi, anche web.

La dr.ssa Adele Ferraro, sostituto procuratore presso il Tribunale di Brindisi apre il proc. n. 9429/06 RGNR, non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., ed il 1° ottobre 2007 (un anno dopo la querela) decreta il sequestro preventivo dell’intero sito web della Associazione Contro Tutte le Mafie, arrecando immane danno di immagine. Il Decreto è nullo perché non convalidato dal GIP ed emesso il 19 ottobre 2007, successivamente al sequestro. Il decreto è rinnovato il 09/11/ 2007 e non convalidato dal giudice Katia Pinto. Poi ancora rinnovato il 28/12/2007 e convalidato da Katia Pinto il 26/02/2008, ma non notificato.

La dr.ssa Katia Pinto apre il proc. n. 1004/07 RGDT e il 19/09/2008, dopo quasi un anno dal sequestro del sito web con atti illegittimi dichiara la sua incompetenza territoriale e trasmette gli atti a Taranto, ma non dissequestra il sito web.

In questo procedimento non risulta esserci il fatto penale contestato eppure si oscura un sito web di una associazione antimafia e si persegue penalmente il suo presidente, Antonio Giangrande.

Insomma: il fatto non sussiste. Pur mancando la prova della violazione della privacy, quindi del reato commesso, comunque inizia il calvario per il dr. Antonio Giangrande.

Il Dr. Remo Epifani sostituto procuratore presso il Tribunale di Taranto apre il fascicolo n. 8483/08 RGNR, non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., e decreta il rinvio a giudizio per ben due volte: il 23/06/2009 e difetta la notifica e il 28/09/2010, rinnovando  il sequestro preventivo del sito web, mai revocato.

Il Dr. Martino Rosati, Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Taranto  apre il proc. n. 6383/08 GIP e senza indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., dispone con proprio autonomo decreto il 14/10/2008 il sequestro preventivo del sito web.

Il processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n. 10329/09 RGDT, si apre il 03/11/2009, ma viene chiuso per irregolarità degli atti. Il nuovo processo contraddistinto con il n. 10018/11 RGDT si apre il 01/02/2011.

Solo in data 12 luglio 2012 lo stesso Pm dr. Gioacchino Argentino chiede l’assoluzione perché il fatto non sussiste ed in pari data il giudice dr.ssa Frida Mazzuti non ha potuto non acclarare l’assoluzione di Antonio Giangrande perché il fatto non sussiste. Il Dissequestro del sito web www.associazionecontrotuttelemafie.org non è mai avvenuto e l’oscuramento del sito web è ancora vigente.

Declaratoria di ASSOLUZIONE PERCHE’ IL FATTO NON SUSSISTE. Dopo 6 anni, due pubblici Ministeri, un Giudice per l’Udienza Preliminare, tre Giudici monocratici, di cui una, dr.ssa Rita Romano, estromessa con istanza di ricusazione perchè denunciata da Antonio Giangrande, sostituita dalla dr.ssa Frida Mazzuti.

L’inimicizia dei magistrati di Taranto nei confronti di Antonio Giangrande è da ricondurre al fatto che lo stesso ha denunciato alcuni magistrati del foro tarantino, anche perché uno di loro, il sostituto procuratore Salvatore Cosentino, ha archiviato una denuncia contro il suo ufficio, anziché inviarlo alla Procura di Potenza, Foro competente.”

«Pare evidente la tricotomia della responsabilità penale: il movente, il mezzo, l’opportunità. Per questo si chiede la condanna per reati consumati, continuati, tentati, da soli o in concorso con terzi, o di altre norme penali, con le aggravanti di rito, e attivazione d’ufficio presso gli organi competenti per la violazione di norme amministrative. Altresì si chiede il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, liquidato in via equitativa dal giudice competente, per la sofferenza che si è riservata al sottoscritto ed alle persone che mi stimano per la funzione che io occupo e l’umiliazione e, soprattutto, per il dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di essere accusato  di calunnie tanto ingiuste quanto infondate. Nessuna Autorità degna del mio rispetto ha tutelato la mia persona. Le mie denunce contro queste ed altre ingiustizie sono state sempre archiviate. E’ normale allora che io diventi carne da macello penale. E’ normale che io sia lì a partecipare da 16 anni all’esame forense, sempre bocciato, se poi i magistrati, commissari di esame, contro di me fanno questo ed altro.»

MAI DIRE ANTIMAFIA.

«Mai dire antimafia» scrive Antonio Giangrande, il noto autore di saggi sociologici che raccontano di una Italia alla rovescia, profondo conoscitore ed esperto del tema e presidente nazionale di una associazione antimafia.

«Il mio intento è dimostrare che la mafia siamo noi: i politici che colludono, i media che tacciono, i cittadini che emulano e le istituzioni che abusano ed omettono – spiega Antonio Giangrande – Quando Luigi Vitali, noto avvocato brindisino, era sottosegretario alla Giustizia col Governo Berlusconi ed Alfredo Mantovano, noto magistrato leccese, era sottosegretario agli Interni, a loro espressi il mio disappunto su come mal funzionava la giustizia nei tribunali e sull’accesso criminoso alle professioni togate e sulla censura e le ritorsioni operate dai magistrati nei confronti delle notizie a loro scomode e come tante associazioni pseudo antimafia erano sostenute in modo amicale finanziariamente, mediaticamente e politicamente a danno di altre. Addirittura alla regione Puglia è impedita l’iscrizione al registro generale alla Associazione Contro Tutte le Mafie, di cui sono presidente, per poter tranquillamente finanziare le loro associazioni amiche. Mantovano non mi ha mai risposto, Vitali ad un mia telefonata in diretta su TBM, una televisione privata di Taranto, in cui gli chiedevo cosa intendesse per Mafia, mi rispose che certamente non la intendeva come la intendevo io. Questo in modo da crearmi grande imbarazzo ed a palese tutela del sistema di potere di cui egli in quel preciso momento ne faceva parte, salvo cambiar opinione quando vittima ne diventa egli stesso. Da allora ho aspettato di sapere come effettivamente loro intendessero la lotta alla mafia ed essere degno come loro di essere dalla parte dell’antimafia. Dai fatti succeduti ed acclarati, però, penso che io avessi e continuo ad aver ragione».  

"Personalmente abolirei l’udienza preliminare che è diventata, col tempo, tutt'altro di quello che aveva immaginato il legislatore. Da filtro rigoroso dei presupposti per un giudizio si è trasformata in una tappa di smistamento per il dibattimento". Così l’ex deputato del Pdl ed ex sottosegretario alla Giustizia Luigi Vitali commenta in una nota, pubblicata su "La Gazzetta del Mezzogiorno, il rinvio a giudizio deciso dal gup di Brindisi nei confronti dello stesso ex parlamentare e di quasi tutta la maggioranza del consiglio comunale del 2012 di Francavilla Fontana (Brindisi) per presunti vantaggi ottenuti attraverso il piano locale delle farmacie. All’epoca dei fatti anche Vitali era consigliere comunale. "Sono più che sicuro – aggiunge Vitali – che non vi potrà essere nessun giudice che possa condannare i consiglieri comunali per aver esercitato, in piena autonomia e libertà, le loro prerogative. Sarebbe un colpo mortale alla democrazia. Dal fascicolo, infatti, non risulta, nonostante le puntuali, prolungate ed articolate indagini, nessun rapporto e/o contatto tra alcun consigliere comunale ed il presunto favorito dott. Rampino nè con altri farmacisti". "Nutro massima fiducia nella giustizia e, pertanto, attendo con assoluta serenità il processo" commenta da parte sua il senatore di Forza Italia Pietro Iurlaro, anch’egli rinviato a giudizio per la stessa vicenda. "Sempre nel pieno rispetto del lavoro della magistratura - prosegue Iurlaro – trovo comunque discutibile che si possa contestare ad un consigliere comunale qualsiasi responsabilità di natura penale per aver contribuito, con un voto di natura politica, all’approvazione di una delibera dell’esecutivo che si sostiene. Almeno quando, come poi sembrerebbe che le stesse indagini abbiano appurato, non emergono in alcun modo rapporti tra gli stessi consiglieri e i farmacisti coinvolti nella vicenda". Iurlaro si dice quindi "ottimista", confidando che "l'intera procedura possa svolgersi in maniera serena per concludersi, infine, nel più breve tempo possibile".

Torna la polemica sui professionisti dell’antimafia, scrive Mario Portanova su “Il Fatto Quotidiano”. Non a Palermo, ma – specchio dei tempi – a Milano. La celebre invettiva di Leonardo Sciascia contro Paolo Borsellino, ospitata in prima pagina dal Corriere della Sera il 10 gennaio 1987 è risuonata oggi nell’aula bunker del carcere di San Vittore a Milano, nella terza udienza del “maxiprocesso” alla ‘ndrangheta lombarda scaturito dall’operazione Infinito del 13 luglio scorso. A riesumarla ci ha pensato Roberto Rallo, il legale di Giuseppe “Pino” Neri, il consulente tributario accusato di essere un uomo di vertice della criminalità calabrese trapiantata al Nord. I nuovi “professionisti dell’antimafia”, secondo l’avvocato Rallo, sono le associazioni antiracket che si costituiscono parte civile “di processo in processo”, da Reggio Calabria a Milano, “anche se nessuno dei loro iscritti è stato materialmente danneggiato dagli imputati”. E così facendo “realizzano soltanto l’autoreferenzialità delle loro associazioni, spendendo tra l’altro soldi pubblici”, visto che in genere ricevono finanziamenti. Sono due le sigle attive contro il “pizzo” che si sono costituite al processo milanese: Sos Impresa di Confesercenti e la Federazione della associazioni antiracket e antiusura italiane, di cui è presidente onorario Tano Grasso.

Un nuovo scandalo investe i professionisti dell’Antimafia, scrive Angela Camuso su “Il Corriere della Sera”. Dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arriva la notizia che la Corte dei Conti di Napoli sta indagando su un corposo trasferimento di fondi pubblici a favore di un pugno di associazioni antiracket le quali, secondo i giudici contabili, sarebbero state privilegiate a discapito di altre, in violazione della legge sugli appalti. La posta in gioco è alta: 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che fanno parte del cosiddetto Pon-Sicurezza, ovvero il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea con la finalità di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. I soldi sono arrivati da Bruxelles solo agli inizi del 2012, ma registi dell’operazione, concepita a partire dal 2008 con l’approvazione dei singoli progetti poi finanziati dal Pon, furono l’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano; l’allora commissario antiracket Giosuè Marino, diventato in seguito assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia; nonché l’allora presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto travolto dallo scandalo sugli appalti pilotati del Viminale. Da quanto ad oggi ricostruito dal sostituto procuratore generale della Corte dei Conti della Campania Marco Catalano, fu questo l’asse che selezionò i pochi partners a cui destinare i fondi secondo quelli che sembrano essere criteri arbitrari, visto che molte altre associazioni analoghe – tra cui ad esempio la nota “Libera” - risulterebbero avere i medesimi requisiti di quelle prescelte e dunque avrebbero potuto anch’esse ricevere i finanziamenti su presentazione di progetti, se solo ci fosse stato un bando pubblico di cui invece non c’è traccia. Nell’albo prefettizio, per il solo Mezzogiorno, risultano attive oltre cento associazioni antiracket. Tuttavia i fondi del Pon sono stati destinati soltanto a: “ Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro ) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ha ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro sono infine andati a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta. La F.A.I., il cui presidente è il popolare Tano Grasso, ha sede a Napoli ed è per questo, essendo competente in quel territorio, che il fascicolo di indagine è finito sul tavolo della Corte dei Conti della Campania. L’istruttoria infatti è partita la scorsa estate a seguito di un esposto in cui si evidenziavano le presunte violazioni. Così il sostituto procuratore Catalano ha iniziato a lavorare, prima acquisendo una serie di documenti, presso il ministero dell’Interno e presso la prefettura di Napoli. Successivamente, sono stati escussi a sommarie informazioni diversi funzionari della stessa prefettura a vario titolo responsabili dell’erogazione dei fondi e dei presunti mancati controlli. Alla Corte dei Conti questi funzionari, secondo quanto trapelato, avrebbero confermato di aver agito su indicazione del Ministero e ora l’indagine è nella sua fase conclusiva e cruciale. Si prospetta l’esistenza di un illecito amministrativo che potrebbe aver prodotto un danno erariale sia in termini di disservizi sia in termini di sprechi visto che, paradossalmente, molte delle associazioni escluse dai finanziamenti continuano a svolgere, supportate dal solo volontariato, attività identiche, per qualità e quantità, a quelle messe in pratica da chi ora può contare su contributi pubblici erogati in deroga a ogni principio di trasparenza. Per questi motivi, già a marzo del 2012, le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Mantovano…” insinua Lino Busà, presidente di S.O. S Impresa. La lettera al Ministro e le successive polemiche furono oggetto l’anno scorso di pochi articoli comparsi sulla stampa locale ma poi sulla vicenda calò il silenzio. Ora l’indagine della Corte dei Conti sembra dimostrare che la questione va al di là di una lotta fratricida. Le decisioni che presto prenderanno i giudici contabili preludono infatti a nuovi inquietanti sviluppi. Una volta chiusa questa prima istruttoria, gli atti potrebbero essere trasferiti in procura. Se ciò avverrà, sarà il tribunale penale a dover accertare se il presunto illecito amministrativo sia stato commesso per errore o se, invece, nella peggiore delle ipotesi, la violazione della legge sugli appalti sia stata dolosa e dunque funzionale a un drenaggio sottobanco di soldi pubblici, negli interessi di qualcuno.

Antiracket, i conti non tornano scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. Progetti teleguidati. Bandi sartoriali. Contratti di lavoro per gli amici. Incarichi solo su segnalazione. Consulenze a compagni di merenda. Assegnazione di fondi e finanziamenti pubblici su preciso mandato. Creazione di scatole vuote per l’affidamento e poi il propedeutico assegnazione dei beni confiscati. Centri studi che non si sa cosa studino. Strani consorzi. Associazioni di associazioni. Federazioni di associazioni. Cooperative di associazioni. E’ proprio un vero e proprio guazzabuglio il variegato mondo dei professionisti dell’anticamorra. Per non parlare di sportelli e sportellini, vacue campagne di sensibilizzazione come sagre di paese e poi i dibattiti a chili, le iniziative, gli anniversari con lacrime incorporate, l’editoria di promozione, le segreterie organizzative, gli uffici e le tante sedi distaccate. E’ chiaro che la trasparenza è un termine sconosciuto nel mondo dei professionisti della legalità. Mai e dico mai troverete in questa giungla uno straccio di bilancio, di nota spese, di un computo analitico sulle entrate e uscite, un rendiconto dei contributi pubblici. Impossibile trovarne traccia. Non si conoscono i criteri di come si utilizzino i denari dell’anticamorra. Tutto è nascosto, tutto è segreto, tutto è gestito nell’ombra. Accade a Napoli ma è come dire Italia. Non è la prima volta e non sarà l’ultima che la Corte dei Conti di Napoli, ovvero i giudici contabili, stigmatizzano questo modus operandi o quanto meno una pratica alquanto disinvolta nell’affollato mondo dei professionisti della legalità. I giudici – a più riprese- vagliando corpose documentazioni con atti formali chiedono, interrogano, dispongono approfondimenti, delucidazioni alle pubbliche amministrazioni quali erogatori: dalla Ue, ai Ministeri, alla Regione, alla Provincia, ai Comuni. Capita spesso che i giudici della Corte dei Conti debbano smascherare consulenze ad personam accordate a Tizio, Caio e Sempronio accreditati come esperti di “Camorrologia” come puro scambio di favori. Gli importi sono fissati da un prezzario segretamente in vigore, i zeri sono svariati. Prendo spunto dall’ultimo accertamento della Corte dei Conti di Napoli, di cui ha dato notizia solo Corriere.it. Nel mirino dei giudici partenopei è finito il mondo dell’antiracket e dell’usura. Mi sembra che dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole mi sembra – a naso – davvero di trovarci di fronte ad un’altra storiaccia. Al centro delle indagini sono finiti i Pon-Sicurezza cioè il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea per contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. Pare che il F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che raggruppa una cinquantina di associazioni antiracket e facente capo a Tano Grasso abbia ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro. Una cifra – secondo le indagini – sproporzionata in considerazione delle tante realtà operanti in Italia e che si occupano da anni di lotta al racket e all’usura. Il sospetto è che l’iter per l’assegnazione di questa pioggia di denaro pubblico non sia stata molto trasparente. La Corte dei Conti di Napoli insomma sospetta un illecito amministrativo che avrebbe provocato un danno erariale. Gli accertamenti sono stati avviati grazie all’esposto della “Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” dove in una lettera denunciavano la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. C’è un ampio spazio dove Tano Grasso saprà documentare e chiarire la posizione del Fai. Ma desta qualche perplessità – sinceramente – la nascita di una newsletter quindicinale “Lineadiretta” dove il Fai ha stanziato per la copertura di dodici mesi di pubblicazione la somma di centomila euro. L’unica certezza è che i giudici della Corte dei Conti di Napoli sapranno scrivere una parola di verità a tutela dei tanti che lottano in silenzio la camorra.

IL SEGRETO DI PULCINELLA. LA MAFIA E’ LO STATO.

"Le istituzioni ci hanno abbandonato", sostiene l'ex boss del clan dei Casalesi e collaboratore di giustizia a “Sky tg 24”. E poi: le terre del Sud sono state avvelenate, "il vero affare del clan è il traffico dei rifiuti dal Nord e dall'Europa". "Se potessi tornare indietro non mi pentirei. Sono pentito di essermi pentito e non lo farei più perché le istituzioni ci hanno abbandonato. Quando non sono riusciti ad ammazzarmi materialmente, hanno cercato di distruggermi economicamente, moralmente”. Queste le parole di Carmine Schiavone, ex boss di camorra del clan dei Casalesi, intervistato in esclusiva da SkyTG24. Collaboratore di giustizia per 20 anni, dal 1993, a luglio ha terminato il suo programma di protezione. Ha ordinato l'esecuzione di centinaia di omicidi e con le sue rivelazioni ha permesso le condanne definitive all'ergastolo per i boss e gregari del clan imputati nel processo Spartacus e ha fornito importanti informazioni anche sul vero business dei Casalesi: quello dello smaltimento dei rifiuti tossici. "Ero uno dei capi della cupola, ma mi sono pentito davvero perché altrimenti quelle carte lì non le avrei mai scritte. Il mio guaio - aggiunge Schiavone - è stato proprio quello di essermi pentito veramente perché in Italia non c’era una giustizia, una legge, un politico che sappia capire questo. Chi me lo ha fatto fare di vivere in questo mondo di cani rognosi perché è vero che noi abbiamo sparato, ma i ministri, i carabinieri, i magistrati, i poliziotti sono più responsabili di me perché hanno permesso questo. Io ho sbagliato nella mia vita e ho cercato di rimediare quando la mia coscienza si è ribellata a certi soprusi commessi da altri. Tutti quanti hanno fatto facile carriera sulla mia pelle”. Schiavone, nel corso dell’intervista a SkyTG24, parla anche dei rifiuti tossici interratti dal lungo mare di Baia Domizia fino a Pozzuoli. E aggiunge: "La mafia non sarà mai distrutta perché ci sono troppo interessi, sia a livello economico sia a livello elettorale. L’organizzazione mafiosa non morirà mai".

Camorra, parla il pentito Schiavone: "Abbiamo ordinato oltre 500 omicidi". Intervista a Sky Tg24 del feroce ex boss dei Casalesi, testimone di giustizia dal '93: "Ministri, carabinieri, magistrati, poliziotti sono più responsabili di me perché hanno permesso questo". "La mafia non sarà mai distrutta, ci sono troppo interessi", scrive Conchita Sannino su “La Repubblica”. "Chi me lo ha fatto fare di vivere in questo mondo di cani rognosi. Sì, lo dico: sono pentito di essermi pentito". Così parla Carmine Schiavone, l'ex capo killer e super-ragioniere del gotha dei Casalesi, in un'intervista concessa a Sky Tg 24. E' l'assassino (per almeno 53 volte) che con le sue fluviali dichiarazioni rese ai magistrati antimafia nei primi anni Novanta, aprì alla giustizia il primo varco nel bunker degli impenetrabili segreti della mafia casertana. Ed è anche il cugino  del famoso ed omonimo boss Francesco Schiavone, quel Sandokan tuttora rinchiuso al 41 bis sotto il peso di numerosi ergastoli, il padrino che non ha mai voluto seguire l'esempio di Carminiello. Ora Carmine recrimina sul suo rapporto con lo Stato. E premette: "Io ho sbagliato nella mia vita e ho cercato di rimediare quando la mia coscienza si è ribellata a certi soprusi commessi da altri. Tutti quanti hanno fatto facile carriera sulla mia pelle". Schiavone è stato accusato di aver dato l'assenso o partecipato complessivamente a 53 omicidi. Lui fa spallucce rispetto a quel numero. "Io coinvolto in 53 omicidi? Molti di più, ci sono 500 e rotti omicidi fatti (il riferimento è alle varie faide consumate tra opposte fazioni). Ma non è che li ho proprio ordinati tutti io, è che ero uno dei capi della cupola". Poi , nel corso della stessa intervista, firma la facile profezia secondo cui finché le mafie sposteranno i voti "l'organizzazione non finirà mai". Spiega: "Noi spostavamo 70-80mila voti, significava la differenza tra la vittoria di un partito e un altro". E dà la pagella a quelle divise, o magistrati o politici comprati o corrotti proprio da quelli come lui. Schiavone affronta anche il tema dei rifiuti tossici interrati, dal lungomare di Baia Domizia fino a Pozzuoli. "La mafia - conclude - non sarà mai distrutta perché ci sono troppo interessi, sia a livello economico sia a livello elettorale. L'organizzazione mafiosa non morirà mai". Vero è che Carmine Schiavone ha dato una spallata consistente al lavoro dei pubblici ministeri antimafia. Ha collaborato alla prima costruzione di quel super processo che avrebbe spazzato in carcere tutti i vertici dei casalesi: Spartacus I e Spartacus II. Ma, superata anche la boa dei settant'anni, ora riserva l'ennesima confessione choc. "Se potessi tornare indietro non mi pentirei - dice - Io mi sono pentito davvero, se no tutte quelle carte non le avrei date. Ma qui non siamo in America. Io mi sono pentito veramente, quello è stato il guaio. Perché non c'è un politico che sappia guardare davvero un pentito, non siamo negli Stati Uniti. E non lo farei più : perché qui le istituzioni ci hanno abbandonato. Quando non sono riusciti ad ammazzarmi materialmente, hanno cercato di distruggermi economicamente, moralmente". Poi spara a zero su politici, divise e magistrati inquinati. "Noi mantenevamo una buona parte delle forze dell'ordine, carabinieri e polizia. A me alla sera mi veniva portata la striscetta dalla polizia, con le operazioni che avrebbero fatto il giorno successivo". E in cambio, cosa offriva l'organizzazione criminale? "Gli davamo ogni tanto qualcuno, qualche piccolo spacciatore, per fargli fare carriera". E aggiunge: "Noi sì, è vero che abbiamo sparato. Però un ministro, un magistrato, un carabiniere e un poliziotto, che si sono venduti, sono più responsabili di noi". Irascibile, amante delle iperboli, ma sempre stratega. Carmine Schiavone è colui che rivelò, fin dalle sue prime dichiarazioni, il concepimento di un vero e proprio Stato Mafia da parte dell'organizzazione criminale del casertano. "Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni". Lo stesso Schiavone , non più di qualche mese fa, in un'aula di giustizia, proclamava a voce alta, nello scontro verbale con un avvocato di parte avversa: "Ma io non sono mai stato un camorrista. Io ero un uomo d'onore". Così come aveva destato scalpore un altro racconto reso in aula, secondo cui don Peppino Diana, noto parroco antimafia ucciso da una fazione dei casalesi avversa agli Schiavone a Casal di Principe nel 1994, avrebbe aiutato più volte durante le elezioni i "candidati politici vicini agli Schiavone, tra cui Nicola Cosentino", l'ex deputato del Pdl oggi agli arresti domiciliari e imputato in due processi a Santa Maria Capua Vetere. Violento, e vendicativo. Sembra che la sua vita di cittadino sotto copertura in località segreta gli sia sempre stata strettissima, procurandogli non pochi dispiaceri familiari. Finì a processo persino quando suo figlio fu arrestato per la detenzione di un vero e proprio arsenale nel periodo in cui lui era già pentito e doveva dimostrare di non saperne nulla: un ispettore di polizia raccontò, in aula, che quel ragazzo voleva sparare a suo padre. "Aveva un sacco di problemi, quel figlio veniva seguito anche dall'assistenza sociale. Non aveva mai perdonato al padre di essersi pentito e di aver perso potere, denaro, rispetto e riconoscibilità sui loro territori".

Tirato fuori dopo decenni, giovedì 31 ottobre 2013 il documento che denuncia la collusione dello Stato con le organizzazioni mafiose. In data 31 Ottobre il Parlamento ha fatto ciò che non ha mai voluto fare in passato, scrive “News You-ng”. Tutti i governi, di destra e di sinistra, dal 1997 in poi non hanno mai tolto il segreto di stato posto 16 anni fa sul verbale di 63 pagine concernente le dichiarazioni e le prove che il boss mafioso Carmine Schiavone, appartenente alla “Cosa Nostra Campana” (cioè il clan dei casalesi), ha consegnato ai giudici e ai parlamentari presenti nella Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul ciclo dei rifiuti. Il boss noto come il “cugino di Sandokan“, non solo ha indicato tutti i siti in cui sono stati intombati i rifiuti, ma ha anche sottolineato più e più volte che quei rifiuti prima o poi “uccideranno tutta la povera gente“. In un’intervista di venerdì scorso a Le Iene (in onda su Italia Uno), Schiavone descrive con disprezzo la reazione del governo, dell’amministrazione locale e di tutti coloro che avrebbero dovuto predisporre le bonifiche dicendo: “Mi sono sentito dire che non hanno i soldi, in nome dei soldi lasciano che tutta questa gente muoia…“. “Da che pulpito viene la predica” verrebbe da dire, anche perché a sotterrare quei rifiuti è stata proprio la Cosa Nostra Campana che lucra maggiormente col traffico di droga e il traffico dei rifiuti tossici e nucleari e che oggi potrebbe voler lucrare sulle bonifiche. Ma Carmine Schiavone non ci sta a queste dietrologie, lui dice che si è pentito “per un fatto di coscienza”, una coscienza che dovrebbe pesargli tanto dopo aver ucciso con le sue stesse mani di “50 o 70 persone”… Non riesce nemmeno a contarle ma afferma che “però erano tutti colpevoli perché appartenevano ai clan avversari“. Una personalità davvero sui generis quella del boss pentito, che però consegna nomi, cognomi e numeri di targa anche dei camionisti e delle ditte di trasporti che si sono occupati nella propria vita del trasporto di rifiuti. Almeno quelli che conosce lui, uno dei massimi esponenti della mafia casertana. Perché di mafia si tratta, Schiavone ci tiene a precisare che il clan dei casalesi non è “Camorra” come Saviano ha tentato di insegnarci, ma “Mafia” affiliata a quella siciliana di cui parla anche con un certo disprezzo. Infatti quando il giornalista gli chiede: “Ma chi ha ucciso il giudice Giovanni Falcone?”, Schiavone risponde pesando molto bene le parole: “Materialmente chi può essere, solo quell’ignorante di Riina o quel pecoraio di Provenzano. I giudici si corrompono, non si ammazzano, non si fa un allarme sociale di questo genere, solo che loro non volevano essere corrotti e allora li hanno uccisi“. Fubini continua: “Ma allora chi li ha uccisi?” e Schiavone risponde: “Loro materialmente, ma gli ha detto di ammazzarli?“. Il giornalista incalza: “Chi?“. A quel punto Schiavone dice una cosa che fa rabbrividire: “Vuoi che ci prendiamo una denuncia per calunnia io e te o vuoi essere ammazzato da qualcuno qui fuori? Ma tu che pensi: i segreti di Stato… lo sai quanti ce ne stanno sepolti?“. Ha consegnato allo Stato particolari scottanti che valgono molto, ma ha consegnato anche 2500 miliardi di beni e ha fatto arrestare 1500 persone, ha fatto condannare persone per centinaia e centinaia di anni di galera ed è grazie a lui se son stati sentenziati un centinaio di ergastoli. In pratica Schiavone si vanta di aver distrutto la Mafia “sia a livello internazionale, sia nazionale”. Lui in compenso però si è fatto 10 anni e mezzo e basta, perché è un pentito. Carmine Schiavone è quello che non si stupisce della Trattativa Stato Mafia, infatti ha detto che “la Mafia fa parte dello Stato“, solo che è un braccio nascosto di questo sistema. Non c’è da stupirsi insomma, soprattutto quando si parla di continuità o di trattativa tra Stato e Mafia. Non c’è niente da stupirsi soprattutto se lo Stato sapeva che sarebbero morti tutti con i rifiuti nucleari sepolti, intombati sotto la falda acquifera. Sarebbe bastato che si abbassasse la falda acquifera per portare i danni di questi rifiuti a decine e decine di chilometri di distanza. Il bacino imbrifero si reticola per chilometri. Per dare l’idea di quanto sia pericoloso porre dei rifiuti vicino alla falda acquifera, facciamo l’esempio dell’Irpinia che oggi combatte contro le compagnie petrolifere che vorrebbero trivellare per l’estrazione di petrolio. Premesso che le trivellazioni provocano terremoti come hanno sostenuto in questi anni molti scienziati e premesso che gli acidi perforanti sono composti da sostanze altamente tossiche di cui non si conosce la composizione perché coperte dal segreto industriale, è stato stimato che l’inquinamento delle falde acquifere in Irpinia potrebbe portare danni fino a Reggio Calabria. Ma in Campania l’inquinamento delle falde acquifere interessa moltissimi siti: da Pianura ad Acerra, da Caserta a Somma Vesuviana, da Terzigno a tutta l’area Nord della città partenopea, dall’agro nolano ad Orta di Atella dove si è formato un vero e proprio lago grazie ai barili chimici discioltisi nelle acque sotterranee. Con quelle stesse acque gli agricoltori innaffiano pomodori e peperoni e tutte le colture dei vari vegetali che arrivano sulle tavole locali ma che vengono appaltate anche da prestigiose aziende dell’agroalimentare e quindi distribuite in tutta Italia e, in alcuni casi, anche in Europa. Una popolazione ingannata quindi non solo dalla Mafia e dalla Camorra, ma anche dallo Stato. Servivano davvero 16 anni per desecretare queste 63 pagine? Ed ora che sono state rese note cosa ne sarà del registro tumori il cui finanziamento fu bloccato nel settembre 2012 proprio dal governo monti che impugnava la legge regionale del 19 Luglio dello stesso anno in cui la giunta Caldoro (PDL) disponeva il finanziamento del registro per 1,5 milioni? Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano era Ministro dell’Interno all’epoca delle dichiarazioni. Sapeva tutto sulla sua città natale, Napoli. Come poteva non sapere delle dichiarazioni rilasciate alla Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti? Oggi che le dichiarazioni sono state desecretate dopo ben 16 anni, si sono espressi tutti su questo piccolo ma significante particolare. Le dichiarazioni più addolorate sono quelle di Antonio Marfella, Presidente dell’Isde Medici per l’Ambiente, il quale si è sfogato su Facebook con queste parole: “Scoprire che Giorgio Napolitano era il Ministro dell’interno all’epoca delle dichiarazioni secretate di Schiavone è una notizia che mi da un dolore profondo, insopportabile, veramente una pugnalata in petto. Ve lo giuro. Non me lo aspettavo….”. Lo stesso Giorgio Napolitano chiamato a testimoniare per il processo sulla Trattativa Stato Mafia, lo stesso Giorgio Napolitano per cui venne ordinata la “distruzione dei nastri delle intercettazioni usate come prove per la Trattativa”. Perchè una simile disposizione? Cosa c’era in quei nastri?  ”Per le bonifiche non ci sono soldi” dicono le amministrazioni locali, ma quando questi soldi usciranno l’unica speranza è che non vadano a quei criminali che hanno ucciso decine e decine di migliaia di persone in questi 30 anni di avvelenamento.

Rifiuti, la Camera rende pubblica la deposizione di Carmine Schiavone: «Quei camion dal nord» (da Il Mattino – 31.10.2013), scrive Chiara Graziani. Il pentito dei Casalesi nel ’97 indicò i luoghi degli sversamenti: «Fra vent’anni lì moriranno tutti di tumore. Per ogni fusto tossico 500mila lire a noi, due milioni a chi doveva smaltire». Cade il segreto sulla deposizione del pentito dei Casalesi Carmine Schiavone, deposizione rilasciata nel remoto ’97 davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti. All’epoca parve tanto deflagrante da richiedere la segretazione. Oggi, una decisione dell’ufficio di presidenza della Camera, presa all’unanimità, ci restituisce la verità di Carmine Schiavone. Una verità detta, ormai, 16 anni fa. Dalla viva voce del pentito dei Casalesi torna la descrizione di anni impuniti e criminali: alcune cose già note, altre tutte da scandagliare. Schiavone, ad esempio, elenca i luoghi dove finivano i rifiuti tossici dalla Germania e dall’Italia del centro nord, portati con i camion nelle discariche. Dice di aver già detto tutto “all’autorità giudiziaria”, di avere accompagnato sui luoghi gli investigatori. Racconta che sopra i veleni, appena ricoperti di terra, poi qualcuno ci allevava le bufale. Il tutto in un clima descritto come di generale collaborazione per cui, secondo i ricordi di Schiavone, «la discarica autorizzata faceva scaricare là, attraverso i clan». I rifiuti partivano da fuori la Campania, racconta, inviati da altre amministrazioni e con destinazione discariche autorizzate. Finivano, invece, smaltiti nel terreni dei clan, racconta il pentito. Ricostruzioni già note, in gran parte. Ma la forza del documento sta nell’essere così remoto e così attuale. E di svelarci la mentalità “statale” della camorra, totalmente indifferente ai destini delle persone. Perfino burocratica e banale. Così è stata devastata la Campania. Da persone così. Col registro sottobraccio. Fra le altre cose dal documento emerge il completo controllo dei Casalesi sui subappalti per le opere stradali. Controllo che dava loro la gestione di tutti gli scavi. Per questo sarebbe stato proposto a Schiavone, si legge nella deposizione, lo smaltimento di fusti tossici fin nel 1988. Lui, a quel punto, si sarebbe accorto che “qualcuno”, però, aveva già iniziato a sfruttare l’affare ma che teneva per sè i proventi. Circa 700 milioni al mese. Segue l’affermazione scioccante: «Arrivavano camion di fanghi nucleari (sic) dalla Germania. E hanno scaricato nelle discariche». Ad un certo punto Carmine Schiavone ha un lapsus che fa innervosire il presidente Scalia che lo interroga. Spiega che, secondo lui, «mio cugino (Francesco Schiavone) , Mario Iovine e Bidognetti», già prima del ’90 avrebbero fatto attività di smaltimento illegale di rifiuti, senza versare però nelle casse del clan. «Fino al ’90 – sentenzia quasi sdegnato – hanno rubato . Poi hanno iniziato a versare soldi nella casse dello Stato..(…) Era un clan di Stato, mi sono confuso». Alla protesta di Scalia (“Il vostro Stato!”) Schiavone non si scompone e dice: «La mafia e la camorra non potevano esistere se non era (sic) lo Stato». Così parlava 16 anni fa l’uomo che teneva il registro sotto il braccio e si arrabbiava se qualcuno faceva la cresta mentre lui teneva la contabilità dei fusti tossici, prezzo di smaltimento 500mila lire l’uno. Veleni gettati nei campi, nelle falde acquifere (“Le bucavamo, ci passavamo attraverso, avevamo il controllo totale di tutti gli scavi”). E lui prendeva nota e faceva la somma. Cinquecentomila a noi, e voi ve ne mettete in tasca due milioni secchi a fusto. Da registrare lo stupore nel quale procede l’interrogatorio, nel remoto ’97. Domanda del presidente, che quasi non trova le parole:«Lei è in grado di fare una stima..Quante tonnellate..quanti camion..». Preciso, l’uomo del registro risponde: «Qui si parla di milioni, non di migliaia…Si tratta di milioni e milioni di tonnellate». Ma è la storia dei fanghi nucleari che non può restare sospesa, mostruosa, lugubre. Può dirci qualche cosa di più, chiede Scalia? «So solo che questi fanghi arrivavano in cassette di piombo da 50, un po’ lunghe. Ma mica andavo a vedere l’immondizia di notte..», No, non c’era bisogno che Schiavone seguisse l’affare di notte. Ci pensava il “sistema militare” messo su per gestire il territorio ed il flusso dei rifiuti. Incensurati, con il porto d’armi, con l’auto di dotazione. Pattuglie che, all’occorrenza, potevano usare palette e divise di carabinieri, polizia, finanza. Le forze dell’ordine dei Casalesi. Con un “coordinamento un po’ massonico, un po’ politico”. Laura Boldrini, presidente della Camera, si è detta molto soddisfatta: «Esprimo grande soddisfazione – ha detto Boldrini – per la decisione di togliere il segreto sui contenuti dell’audizione che il collaboratore di giustizia Carmine Schiavone svolse nell’ottobre 1997 alla Commissione bicamerale di inchiesta sul ciclo dei rifiuti». «Si tratta della prima volta che la presidenza della Camera – senza che questo sia richiesto dalla magistratura – decide di rendere pubblico un documento formato da commissioni di inchiesta che in passato lo avevano classificato come segreto».

La mafia e la camorra non potevano esistere se non era lo Stato … Se le istituzioni non avessero voluto l’esistenza del clan, queste avrebbe forse potuto esistere?….All’epoca tenevo ancora il relativo registro, in cui figurava che per  l’immondizia entravano 100 milioni al mese, mentre poi mi sono reso conto che in realtà il profitto era di almeno 600-700 milioni al mese….Sono inoltre al corrente del fatto che arrivavano dalla Germania camion che trasportavano fanghi nucleari, che sono stati scarica nelle discariche, sulle quali sono stati poi effettuati rilevamenti aerei tramite elicotteri: da qualche verbale dovrebbe risultare che ho mostrato quei luoghi…..Vi erano fusti che contenevano tuolene, ovvero rifiuti provenienti da fabbriche della zona di Arezzo: si trattava di residui di pitture.…I rifiuti venivano anche da Massa Carrara, da Genova, da La Spezia, da Milano….Vi sono molte sostanze tossiche, come fanghi industriali, rifiuti di lavorazione di tutte le specie, tra cui quelli provenienti da concerie….. è diventato un affare autorizzato, che faceva entrare soldi nelle casse del clan. Tuttavia, quel traffico veniva già attuato in precedenza e gli abitanti del paese rischiano di morire tutti di cancro entro venti anni; non credo, infatti, che si salveranno: gli abitanti di paesi come Casapesenna, Casal di Principe, Castel Volturno e così via avranno forse venti anni di vita!….Qui si parla di milioni, non di migliaia. Se lei guarda l’elenco che le ho consegnato, vedrà che ci sono 70-80 camion di quelli che smaltivano dal nord, tra i quali vi era anche un mio camion. Si tratta di milioni e milioni di tonnellate. Io penso che per bonificare la zona ci vorrebbero tutti i soldi dello Stato di un anno…..Fino al 1992 noi arrivavamo nella zona del Molise (Isernia e le zone vicine), a Latina … Non so cosa è accaduto dopo. Se vogliono, possono arrivare anche a Milano ….In tutti i 106 comuni della provincia di Caserta. Noi facevamo i sindaci, di qualunque colore fossero. C’è la prova … Io, ad esempio, avevo la zona di Villa Literno e sono stato io a fare eleggere il sindaco. Prima il sindaco era socialista e noi eravamo democristiani. Dopo la guerra con i Bardellino… Ci avrebbe fatto piacere anche se fosse rimasto socialista, perché era la stessa cosa. Per esempio, a Frignano avevamo i comunisti. A noi importava non il colore ma solo i soldi, perché c’era un’uscita di 2 miliardi e mezzo al mese. Posso raccontare un aneddoto, anche perché è già stato verbalizzato ed i protagonisti sono agli arresti, tranquilli. A Villa Literno, che era di mia competenza, ho fatto io stesso l’amministrazione comunale. Abbiamo candidato determinate persone al di fuori di ogni sospetto, persone con parvenze pulite ed abbiamo fatto eleggere dieci consiglieri, mentre prima ne prendevano tre o quattro. Un seggio lo hanno preso i repubblicani, otto i socialisti ed uno i comunisti (un certo Fabozzo). La sera li abbiamo riuniti e ne mancava uno. Io li ho riuniti e ho detto loro: “tu fai il sindaco, tu fai l’assessore e via di questo passo. Mi hanno detto: “ma manca un consigliere per avere la maggioranza”. All’epoca c’era Zorro, il quale era capo zona e dipendeva da me; ho detto: andate a prendere Enrico Fabozzo e lo facciamo diventare democristiano. Infatti, lo facemmo assessore al personale. La sera era comunista e la mattina dopo diventò democristiano. E così che si facevano le amministrazioni. Il patto era che gli affari fino a 100 milioni li gestiva il comune, oltre i 100 milioni, con i consorzi, ci portavano l’elenco dei lavori e noi li assegnavamo. Ai comuni dicevamo che sui grandi lavori avrebbero trattato direttamente con noi al 2,50 per cento. C’era una tariffa: 5 per cento sulle opere di costruzione e 10 per cento sulle opere stradali. Perché le strade si debbono rifare ogni anno? Perché non venivano fatte bene, perché se il capitolato stabiliva che vi dovessero essere sei centimetri di asfalto, in realtà ne venivano messi tre, perché il cemento utilizzato non era quello previsto, e così via. Il sistema generale era così. Speriamo che cambi….Il mercato dei rifiuti in Italia è uno solo e veniva tutto gestito da poche persone. Poi i clan si sono intromessi e hanno detto (come hanno fatto per le strade): noi vi facciamo passare i camion, non ve li distruggiamo, ma ci dovete dare tanto. Poiché era più conveniente dare ai clan che lavorare di nascosto … Ma per poter fare ciò serviva gente che entrasse in queste associazioni culturali, quindi gente intelligente, che studiava…..” Carmine Schiavone - audizione dell’ottobre del 1997 davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo di rifiuti.

Carmine Schiavone, l’esperto di finanza del clan dei Casalesi, l’uomo che muoveva i miliardi degli affari illeciti dell’associazione camorristica si apre alle telecamere di Sky Tg24 e alla maniera sua avverte che ancora tanta gente è destinata a morire a causa dei rifiuti tossici che giacciono nel sottosuolo del basso Lazio e Campania, finanche nella loro stessa terra, Casal di Principe. Esce dal processo Spartacus dove come pentito ha svelato i movimenti economici dell’intero clan ma avverte pure che le mafie sopravviveranno e che nessuno sarà in grado di sconfiggerle (e sembra non sia una minaccia quanto una promessa). L’intervista dura 9 minuti e è agghiacciante per due motivi: per il messaggio che manda alle istituzioni, ovvero che non sono migliori della camorra e perché avverte che una bomba a orologeria di veleni e scorie nucleari è destinata a esplodere a breve nel basso Lazio a Latina dove nelle cave sono interrati fusti con rifiuti nucleari. Il che già ha scatenato le reazioni di tutti quei movimenti che da tempo lottano nella Terra dei Fuochi per essere ascoltati proprio da quelle istituzioni che Schiavone non esita a definire corresponsabili con la camorra. E ne spiega il perché: Ci sono forti interessi a livello economico a livello elettorale e noi spostavamo 70 mila 80 mila voti da un partito all’altro e questo faceva la differenza nelle elezioni. Ma si stanno a rendere conto che ci stanno 5 milioni di persone a morire? Abbiamo scelto basso Lazio e Campania perché facevano parte dei Casale. Era terra nostra. Caso ha voluto che proprio il giorno prima su Avvenire don Maurizio Patriciello il prete di Caivano che si batte contro l’omertà e la strage nella Terra dei fuochi scrivesse: Vedere morire i figli è qualcosa di orrendo, insopportabile. Soprattutto se si poteva evitare. Il popolo semplice non riesce a capire il motivo di tanti ritardi e omissioni, di questo lasciar mano libera a chi viola la legge, a chi uccide. E comincia a serpeggiare il pensiero che, in realtà, non si voglia proprio intervenire. Che sia in atto una strategia per non arrivare a soluzioni. Che si voglia nascondere qualcosa o qualcuno. Che questa situazione «faccia comodo» a tanti. Non ha tutti i torti, la povera gente. Si sente presa in giro. I verbi coniugati da chi comanda sono sempre al futuro: faremo, diremo, provvederemo. Calato il sipario dell’occasione pubblica, resta solo un silenzio angosciante. E la gente muore, di cancro. E la Campania ancora non ha un registro tumori. E il nuovo ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ancora non viene a vedere con i suoi occhi che cosa sta accadendo in questa regione bella e disgraziata. E si fanno illazioni… Qui si agonizza e si lotta tra fuochi e fumi assassini, e chi ci governa e ci rappresenta ancora pronuncia parole come fumo leggero. Queste morti sono sempre più dolorose e insopportabili. Si muore per motivi vergognosi ed evitabili. Per silenzi omertosi. Per denaro e per potere. Ma chi se non lo Stato, nel quale continuiamo caparbiamente a credere e a sperare, deve prendere di petto la situazione?

Come risponderanno, se risponderanno, politica e istituzioni?

«Esprimo grande soddisfazione per la decisione di togliere il segreto sui contenuti dell’audizione che il collaboratore di giustizia Carmine Schiavone svolse nell’ottobre 1997 alla Commissione bicamerale di inchiesta sul ciclo dei rifiuti’»: così Laura Boldrini, sulla decisione dell’Ufficio di Presidenza. «Si tratta della prima volta che la Presidenza della Camera - senza che questo sia richiesto dalla magistratura - decide di rendere pubblico un documento formato da Commissioni di inchiesta che in passato lo avevano classificato come segreto».  «Lo dovevamo in primo luogo - ha proseguito la presidente della Camera - ai cittadini delle zone della Campania devastate da una catastrofe ambientale cosciente e premeditata, come ho avuto modo di dire anche recentemente a Pollica, per la commemorazione dell’assassinio del sindaco Angelo Vassallo: cittadini che oggi hanno tutto il diritto di conoscere quali crimini siano stati commessi ai loro danni per poter esigere la riparazione possibile. Troppo spesso, nella storia del nostro Paese, il segreto è stato infatti invocato non a tutela non dei diritti di tutti ma a copertura degli interessi di alcuni. La fiducia nelle istituzioni - ha sottolineato Laura Boldrini - si rinsalda anche facendo luce su zone d’ombra immotivate e perciò inaccettabili all’opinione pubblica».

Ecomafia, la profezia del boss Schiavone: "Gli abitanti del Casertano moriranno di cancro". Le parole del pentito del clan dei Casalesi nel 1997: "C'erano camion con sostanze tossiche". Poi l'accusa alla cosca: "Aveva affari milionari", scrive “Libero Quotidiano”. "Entro venti anni gli abitanti di numerosi comuni del Casertano rischiano di morire tutti di cancro". Furono queste le parole che il pentito del clan dei Casalesi, Carmine Schiavone, profetizzò nel corso dell'audizione dell'ottobre del 1997 davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta su mafia e rifiuti tossici. Verbali che solo oggi, dopo la rimozione del segreto, sono diventati pubblici: "un segnale di trasparenza e attenzione da parte dell'ufficio di presidenza della Camera nei confronti delle popolazioni della Campania, colpite dal dramma dei rifiuti tossici", come ha sottolineato Valeria Valente, Segretario di Presidenza della Camera dei Deputati.  La profezia - "Quel traffico veniva già attuato in precedenza. Gli abitanti del paese rischiano tutti di morire di cancro entro vent'anni; non credo infatti che si salveranno: gli abitanti di paesi come Casapesenna, Casal di Principe, Castel Volturno e così via, avranno, forse, venti anni di vita", ribadiva Schiavone sedici anni fa, per poi spiegare: "C'erano camion che arrivavano dalla Germania, camion che trasportavano fanghi nucleari, che sono stati scaricati nelle discariche, sulle quali sono stati poi effettuati rilevamenti tramite elicotteri. Lì ci sono i bufali e non cresce più l'erba. C'erano rifiuti anche da Genova, Massa Carrara, La Spezia e Milano. Erano sostanze tossiche, come fanghi industriali, rifiuti di ogni tipo di lavorazione". Il pentito del clan dei Casalesi raccontava anche degli affari milionari della cosca: "Con i soldi del traffico di rifiuti - diceva - si pagavano i mensili agli affiliati, le spese per i latitanti, gli avvocati, circa due miliardi e mezzo di lire al mese, comprese le spese extra. Per l'immondizia entravano nelle casse del clan dei Casalesi circa 600-700 milioni di lire al mese". Le ecomafie - Carmine Schiavone, durante l'audizione del '97, ricostruiva la genesi dell'ecomafia del Casertano: "A cominciare furono mio cugino Sandokan e Francesco Bidognetti". Poi, ecco spuntare Cerci e Chianese: "Il potere del clan crebbe anche perché gestivano il ciclo di smaltimento dei rifiuti". "In tutti i 106 comuni della provincia di Caserta noi facevamo i sindaci, di qualunque colore fossero. C'è la prova. Io ad esempio avevo la zona di Villa Literno e sono stato io a far eleggere il sindaco. Prima era socialista e noi eravamo democristiani. A Frignano avevamo i comunisti. A noi non importava il colore ma solo i soldi, perché c'erano uscite di due miliardi e mezzo al mese".

Il traffico illegale delle scorie pericolose, i fusti tossici interrati nelle cave, le coperture politiche e massoniche, la maledizione del cancro, scrivono Antonio Castaldo e Antonio Crispino su “Il Corriere della Sera”. L’anno è il 1997, il collaboratore Carmine Schiavone aveva già raccontato tutto. È l’audizione davanti alla commissione parlamentare sulle Ecomafie del pentito che con le sue confessioni ha fatto crollare il clan dei Casalesi. L’operazione Spartacus risale a due anni prima. Di rifiuti interrati e di rischi per la salute non si parlava ancora. E non se ne parlò neanche negli anni successivi, perché le dichiarazioni del cugino di Francesco «Sandokan» Schiavone sono rimaste secretate per oltre 16 anni. La Camera ha deciso di renderle pubbliche giovedì 31 ottobre 2013. «Entro venti anni gli abitanti di numerosi comuni del Casertano rischiano di morire tutti di cancro», affermò Schiavone, con un tono profetico che purtroppo è stato confermato dai fatti. Le ricerche del Cnr e del Pascale, fatte proprie dal ministero della Salute, descrivono un’impennata della mortalità per tumori nelle province di Napoli e Caserta. Riferendosi al traffico illegale di rifiuti nocivi, Schiavone spiegò che divenne un business «autorizzato» per il clan dei Casalesi nel 1990. «Tuttavia - riferì il pentito - quel traffico veniva già attuato in precedenza. Gli abitanti rischiano tutti di morire di cancro entro 20 anni; non credo infatti che si salveranno: gli abitanti di paesi come Casapesenna, Casal di Principe, Castel Volturno e così via, avranno, forse, venti anni di vita». Nel corso della sua audizione, Schiavone cita i nomi dei referenti del clan per gli affari nello smaltimento illegale dei rifiuti. Cita Cipriano Chianese, a capo della Resit, e il suo socio Gaetano Cerci. Ovvero gli stessi imprenditori che continueranno a fare affari con lo Stato negli anni successivi, quando l’emergenza rifiuti diventerà incontrollabile. E che ora sono sotto processo. «Chianese - aggiunse Schiavone - aveva introdotto Cerci in circoli culturali ad Arezzo, a Milano, dove aveva fatto le sue amicizie. Attraverso questi circoli culturali entrò automaticamente in un gruppo di persone che gestiva rifiuti tossici. Lavorava a Milano, Arezzo, Pistoia, Massa Carrara, Santa Croce sull’Arno, La Spezia. Cerci si trovava molto bene con un signore che si chiama Licio Gelli». A proposito dei profitti enormi ottenuti smaltendo i rifiuti tossici, oltre 600 milioni di lire al mese, Schiavone aggiunge particolari sulle coperture ai più alti livelli garantite all’organizzazione criminale: «Il nostro era un clan di Stato... La mafia e la camorra non potevano esistere se non era lo Stato... Se le istituzioni non avessero voluto l’esistenza del clan, questo avrebbe forse potuto esistere?». Schiavone ricostruì anche la genesi delle ecomafie casertane: «A cominciare furono mio cugino Sandokan e Francesco Bidognetti». Il potere del clan crebbe anche perché gestivano il ciclo di smaltimento dei rifiuti: «In tutti i 106 comuni della provincia di Caserta noi facevamo i sindaci, di qualunque colore fossero. (...) socialisti, democristiani, ma anche comunisti se serviva». Rifiuti tossici sono stati interrati lungo tutto il litorale Domitio e sversati anche nel lago di Lucrino, specchio d’acqua nell’area flegrea. Schiavone raccontò che erano coinvolte diverse organizzazioni criminali - come mafia, `ndrangheta e Sacra Corona Unita - tanto da fare ipotizzare che in diverse zone di Sicilia, Calabria e Puglia, le cosche abbiano agito come il clan dei Casalesi. Il collaboratore di giustizia si soffermò sulle modalità di smaltimento. «Avevamo creato un sistema di tipo militare, con ragazzi incensurati muniti di regolare porto d’armi che giravano in macchina. Avevamo divise e palette dei carabinieri, della finanza e della polizia. Ognuno aveva un suo reparto prestabilito». Schiavone citò una serie di località nell’hinterland di Napoli: «Pure a Villaricca abbiamo fatto scaricare 520 fusti tossici in una cava che fu scavata nel terreno tramite Mimmuccio Ferrara. Durante lo scarico un autista rimase cieco». Ma anche luoghi molto frequentati, a due passi dai centri abitati: « A Casal di Principe, dietro il campo sportivo e nei pressi della superstrada (recentemente è stato fatto un sopralluogo e non è stato trovato nulla)». I camion delle ecomafie imperversavano poi lungo il litorale domizio: «Nel 1992 c’erano 10mila ettari di terreni che costeggiavano tutta la Domitiana, tutti per l’Eurocav e tutto scavato a 30, 40 e 50 metri. Le draghe estraevano sabbia e le buche venivano sistematicamente riempite. Se lei guarda l’elenco che le ho consegnato vedrà che ci sono 70-80 camion di quelli che smaltivano dal nord. Si tratta di milioni e milioni di tonnellate. Io penso che per bonificare la zona ci vorrebbero tutti i soldi dello Stato in un anno». Sotto terra sono finite anche scorie nucleari: «Sono al corrente che arrivavano dalla Germania camion che trasportavano fanghi nucleari che sono stati scaricati nelle discariche. Alcuni dovrebbero trovarsi in un terreno sul quale oggi vi sono i bufali e su cui non cresce più erba». Come avveniva l’interramento? «Di notte i camion scaricavano rifiuti e con le pale meccaniche vi si gettava sopra un po’ di terreno. Tutto questo per una profondità di circa 20-30 metri nella zona di Parete o di Casapesenna, in cui la falda acquifera è più bassa vi sono punti che si trovano a 30 metri».

I verbali del pentito Schiavone. "In Puglia le discariche della camorra". Le rivelazioni dell'uomo dei casalesi all'Antimafia: "Per tutti gli anni Ottanta la camorra ha usato alcune pattumiere. Una si chiamava Puglia", scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La camorra per tutti gli anni '80 ha usato alcune pattumiere. Una si chiamava Puglia. Lo ha raccontato nel 1997 il pentito Carmine Schiavone alla commissione parlamentare antimafia in un verbale che soltanto giovedì è stato dissecretato. Ma lo hanno confermato anche le indagini più recenti in tema di mafia e di rifiuti, come ha spiegato in audizione di alcuni mesi fa l'ex procuratore di Bari, Antonio Laudati. "Parlavamo spesso di Puglia - spiega il pentito - c'erano discariche nelle quali si scaricavano sostanze che venivano da fuori, in base ai discorsi che facevamo negli anni fino al 1990-1991". Schiavone parla di "Salento, ma sentivo parlare anche delle province di Bari e Foggia". Pochi i riferimenti precisi anche perché, dice, "il nostro era un discorso "accademico" interno che facevamo, dicendo: mica siamo solo noi, lo fanno tutti quanti". Il traffico riguardava "sostanze tossiche, fanghi industriali, rifiuti di lavorazione, rifiuti radioattivi ". Tutto materiale che veniva nascosto metri e metri sotto terra, dove ancora oggi è probabilmente conservato. È bene ricordare che in alcune zone del Salento si registrano percentuali di malattie oncologiche assai superiori alla media. Quei dati sono stati oggetto nei giorni scorsi di una riunione all'Istituto superiore di Sanità nella quale l'Arpa Puglia e il ministero hanno previsto un percorso comune: l'anomalia nei numeri c'è, ed è importante. Bisogna trovare ora le cause. I rifiuti interrati potrebbero essere uno dei problemi. Tornando alle dichiarazioni di Schiavone, il pentito ha parlato anche del "supporto" logistico dei clan locali: "In effetti - ha messo a verbale . in Puglia, la Sacra corona unita non è mai stata nessuno. Era sorta inizialmente insieme al gruppo della Nuova camorra organizzata di Cutolo, e poi fu staccata. C'erano gruppi che operavano con noi e con i siciliani. Nel Brindisino operava un certo Bicicletta, un certo D'Onofrio che stava con Pietro Vernengo, il suo capozona. Con me operavano un certo Tonino 'o Zingaro e Lucio Di Donna, che era di Lecce". Le parole di Sandokan sono però state integrare e in parte superate dal quadro tracciato nei mesi scorsi dal procuratore Laudati sempre in commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti. È stato il magistrato a parlare del legame tra i casalesi e il foggiano. "Se io devo smaltire un frigorifero e lo butto a Savignano Irpino  -  ha detto - rischio l'arresto nella flagranza, se mi sposto di un chilometro e mezzo, se mi va male prendo una contravvenzione. Dove butta il frigorifero la criminalità organizzata? ". Le indagini stanno verificando anche in questo caso "sinergie" criminalità locale e Casalesi. Ma c'è altro. Alcune aziende, "anche a partecipazione pubblica - ha detto Laudati - hanno avuto forme di condizionamento dalla criminalità organizzata sul modello di quello che è successo in Campania".

«Forse sbaglia persona. Io sopralluoghi con Schiavone non ne ho mai fatti. Non è che non rammento, ne sono abbastanza sicuro». E di quel filone d’inchiesta «non ho memoria che uscisse qualcosa riferibile alla Puglia». Il prefetto Nicola Cavaliere, uomo di Stato d’altissimo lignaggio, con una pluridecennale carriera che l’ha portato in posizioni apicali in Polizia e nel servizio segreto per la sicurezza interna (Aisi), nonché cittadino onorario di Mesagne, nel Brindisino, dove ha vissuto molto a lungo, puntualizza a Marisa Ingrosso su “La Gazzetta del Mezzogiorno” alcune dichiarazioni di Carmine Schiavone che lo chiamano in causa e che riguardano la Puglia, come territorio in cui sarebbero stati sepolti rifiuti illecitamente. L’ex camorrista e collaboratore di giustizia, infatti, fu ascoltato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse. Era il 7 ottobre del 1997 e soltanto ora quei verbali sono stati desecretati e pubblicati sul web. In essi Schiavone spiega che esisteva una «cupola» che si occupava di smaltire illecitamente nel Sud Italia i rifiuti speciali e tossici provenienti soprattutto delle grandi aziende del Nord ed europee, Germania in testa. Della «cupola» dei veleni facevano parte insospettabili, i «colletti bianchi». Gente che aveva agganci con alcuni «circoli culturali» e - secondo il pentito - con esponenti della Massoneria dell’epoca, come lo stesso «venerabile », Licio Gelli. Secondo quanto dice Schiavone, per alcuni anni la criminalità organizzata era stata tagliata fuori dal business. Ma poi la «cupola» decise di coinvolgere anche i clan, ottenendone aiuto logistico e coperture, in cambio di alcuni miliardi di lire. Schiavone dice d’essere entrato nell’affaire alla fine degli anni Ottanta: «La vicenda è iniziata nel 1988; all’epoca mi trovavo ad Otranto», afferma in audizione al presidente della Commissione Massimo Scalia. Secondo l’ex boss, «fusti e casse » sono stati tombati in «scavi abusivi». Afferma: «Ricordo di aver accompagnato i rappresentanti della Criminalpol, dello Sco (con Nicola Cavaliere) nei luoghi di quelle che non erano cave ma scavi che poi sono stati chiusi». Scavi profondi «circa 20-24 metri» che arrivavano alla falda sotterranea dell’acqua «sui quali - dice Schiavone - esiste un’ampia documentazione che credo sia in possesso dello Sco, della Criminalpol (all’epoca c’era Cavaliere)». Epperò, sentito in proposito dalla «Gazzetta», il prefetto chiarisce molto bene questi passaggi. «Schiavone - dice Nicola Cavaliere - non l’ho mai conosciuto, né mai mi sono interessato direttamente dell’inchiesta». «Si tenga conto che - asserisce il superpoliziotto - nel periodo 1990-1994 ero a capo della Mobile Roma (lì contribuì allo smantellamento della Banda della Magliana) e che nel periodo 1994-1997 ero alla Criminalpol di Roma». «Quindi, io non mi sono mai interessato. Forse sbaglia persona. Io sopralluoghi con Schiavone non ne ho mai fatti. Non è che non rammento, ne sono abbastanza sicuro».....

C’E’ MAFIOSO E MAFIOSO. LA LETTERA DI ANNA STRANIERI PER IL PADRE VINCENZO.

"La figlia del boss scrive alla ministra Cancellieri". Sulla “LA VOCE di Manduria” giornale online è stata pubblicata la lettera che di seguito riportiamo. La lettera è stata spedita al Ministero della Giustizia. E' di Anna Stranieri che si rivolge al Ministro Cancellieri chiedendo pari opportunità per suo padre, detenuto da 30 anni, più dei due terzi, 22 anni, in regime di 41 bis. In parole semplici: in segregazione. Il caso è stato ampiamente trattato quando nel seguito si parla della provincia di Taranto e delle sue problematiche taciute. "Pregiatissima ministra della Giustizia, Anna Maria Cancellieri. Mi chiamo Anna Stranieri e sono la figlia di Vincenzo Stranieri, detenuto ininterrottamente da 30 anni, 22 dei quali in regime di carcere duro del 41 bis. Lei ha detto al Pese che il Suo intervento per scarcerare la signora Giulia Ligresti l’avrebbe fatto per chiunque anche per i delinquenti e i mafiosi. Ebbene, mio padre è stato condannato perché ritenuto un mafioso ma non ha mai ucciso nessuno. Io sono cresciuta senza averlo mai potuto toccare e accarezzare e ho potuto vederlo solo una volta al mese, quando mi è stato possibile farlo, avendolo inseguito in tutte le carceri d’Italia dove è stato. Ora è gravemente malato, è stato tre volte rinchiuso in manicomio, soffre di manie di persecuzione, è delirante e a volte non riconosce nemmeno noi parenti. Non le chiedo di fare per lui ciò che ha fatto per la signora Ligresti, ma almeno le faccia togliere il 41 bis per dare la possibilità a noi familiari di visitarlo quando ci pare e di curarlo come merita ogni ammalato. Mantenga fede a quello che ha detto a noi italiani per giustificare il suo interessamento per la signora Ligresti, sua amica. Mi faccia dimenticare con un suo interessamento per mio padre che è stata lei a mettere la firma sugli ultimi due decreti di conferma del 41 bis per mio padre malato che ha dimenticato cosa sia la libertà."

Anna Stranieri, Manduria.

LA TARANTO CHE DIFENDE I LADRI.

Mai successo una cosa simile. Taranto si fa sempre riconoscere. Assalto alla caserma per liberare i parenti. E' accaduto nel quartiere Paolo VI di Taranto: quando un gruppo di persone sorprese a rubare rame stava per essere trasferito in carcere, una cinquantina di amici e parenti dei fermati ha assalito la caserma dei carabinieri per liberarle. L'arresto di cinque persone portate poco prima nell'edificio dopo essere state sorprese mentre rubavano rame e alluminio all'interno dei locali temporaneamente in disuso del centro commerciale Ipercoop (vecchia Mongolfiera) nello stesso quartiere, scrive “Libero Quotidiano”. I cinque, tutti pregiudicati, sono tarantini residenti nel rione. Si tratta di Giacinto Lanucara, 27 anni, Massimiliano Lanucara, 19, Luciano Lanucara, 24, Davide Balestrieri, 23, e Michele Bello, 47. Il secondo era sottoposto agli arresti domiciliari. Sul posto i militari hanno sequestrato anche un camion carico di sei quintali di rame e alluminio. Al momento dell'arrivo della prima pattuglia, i cinque erano intenti ancora a smontare i pannelli in metallo. I carabinieri si sono accorti della presenza anomala di uno di loro, che ha tentato la fuga. Successivamente, a seguito di un sopralluogo, hanno scoperto gli altri quattro che si erano nel frattempo nascosti sul tetto dell'edificio. Mentre si attendeva di redigere gli atti prima di tradurli in carcere, la caserma e' stata assaltata da una cinquantina di parenti e conoscenti degli arrestati che si erano radunati nei pressi. I facinorosi hanno forzato un primo cancello di ingresso bloccandosi di fronte al secondo. I carabinieri presenti, con i rinforzi giunti anche di altre forze di polizia, Polizia e Guardia di finanza, sono riusciti a contenere l'assalto, ripristinando l'ordine e riuscendo ad assicurare la traduzione dei cinque in carcere che la folla voleva impedire.

A Taranto, devastano la caserma per liberare la banda di ladri amici. In cinquanta all'assalto dei carabinieri nel difficile quartiere Paolo VI, scattato quando gli arrestati stavano per essere trasferiti in carcere. La tribù di amici e parenti ha risposto alla chiamata degli uomini in manette, scrive Mario Diliberto su “La Repubblica”. L'assalto alla caserma dei carabinieri di Paolo VI è scattato quando la banda di ladri stava per essere trasferita in carcere. E sono stati proprio quegli uomini in manette a urlare alla tribù di amici e parenti di assediare il presidio dell'Arma, nel cuore del pericoloso rione periferico di Taranto. Così in cinquanta, uomini, donne e ragazzini, hanno sfasciato cancelli e divelto portoncini in ferro, tentando di liberare i prigionieri. In cinque erano stati beccati poco prima con un carico di rame e acciaio rubato nella vecchia sede di un ipermercato. Tre fratelli e due amici, tutti con precedenti alle spalle. I carabinieri li avevano pizzicati a bordo di un furgone. Dopo l'arresto in flagranza di reato erano stati condotti nella piccola caserma per le formalità di rito. Poco dopo le 19, i militari si apprestavano ad accompagnarli in carcere. Ma quando quegli uomini hanno fatto capolino sull'uscio di quel fortino è scoppiato il putiferio. I cinque in manette hanno cominciato ad inveire e ad urlare, chiamando la rivolta. E la tribù ha risposto come un solo uomo. Come un'orda di pellerossa sul sentiero di guerra i cinquanta parenti dei fermati si sono scagliati contro il cancello. Si è temuto il peggio. I militari sono subito rientrati nella casermetta, tenendo a stento gli uomini in manette che gridavano: "Forza andate a chiamare gli altri". I carabinieri, solo in sei agli ordini del maresciallo Aniello Cacace, hanno lanciato l'allarme via radio e si sono barricati nella caserma. Uno degli scalmanati ha tentato di fare irruzione dal garage, ma è stato bloccato da uno dei carabinieri che lo ha respinto. Nel giro di pochi minuti sul posto è arrivato un esercito di poliziotti, carabinieri, vigili urbani e finanzieri. Le forze dell'ordine non senza fatica hanno definitivamente rotto l'assedio. E la banda di ladri è stata trasferita in carcere. Ora però è caccia ai responsabili dell'incredibile assalto. In queste ore si stanno visionando le immagini registrate dalle telecamere di sicurezza. E già nella notte potrebbero scattare le prime manette per punire un assedio da Far West.

TARANTO. POLITICA E MAGISTRATURA. PARLIAMO DI CLAUDIO SIGNORILE.

CLAUDIO SIGNORILE. Bari 9 settembre 1937. Politico. Eletto alla Camera nel 1972, 1976, 1979, 1983, 1987, 1992 (Psi), fu ministro per il Mezzogiorno nello Spadolini I e II (1981-1982), per i Rapporti col Parlamento nel Fanfani V (1982-1983), dei Trasporti nel Craxi I e II (1983-1987). Da ultimo nel Pd: nel 2007 partecipò alle primarie per l’assemblea costituente ma non fu eletto, «comunque va bene anche così: la nostra lista ha raccolto un bel po’ di voti. Mentre lo Sdi guarda al passato, noi andiamo verso il futuro».

«Faceva rima con ferrovie, dove c’era un treno, un ponte, una bretella c’era lui» (Antonello Caporale).

«È stato uno dei grandi leader del Partito socialista, uno dei protagonisti della svolta del Midas che vide l’inizio dell’ascesa di Bettino Craxi. Quando il suo partito è stato travolto da Mani Pulite, si è chiamato fuori. Mentre la maggior parte dei suoi compagni migrava verso Arcore lui è rimasto socialista, anzi socialista di sinistra» (Claudio Sabelli Fioretti).

Famiglia borghese. Elementari e medie a Bari, liceo a Taranto, università a Roma. «La mia generazione era indifferente tra socialisti e comunisti. Era la sinistra. Il mio primo comizio lo feci a Roccanova, in un fienile che era insieme sezione della Cgil, del Psi e del Pci. La scelta socialista la feci dopo l’Ungheria».

Giorgio Dell’Arti - Massimo Parrini Catalogo dei viventi 2009, Marsilio

Taranto: la città in cui una parte della Magistratura si è ribellata totalmente al Potere Politico, scrive Michele Imperio su “La Notte On Line”. Procede nel caos più assoluto l’opera risanatrice – se così si può chiamare – dell’Ilva di Taranto. I fatti più recenti sono che il g.i.p. del Tribunale di Taranto che si occupa di questa vicenda Patrizia Todisco ha respinto un’istanza del commissario governativo Sandro Bondi intesa a ottenere il reimpiego nell’opera di risanamento di 230 milioni di euro sequestrati alla famiglia Riva, come disposto da una delle leggi chiamate salva-Ilva, minacciando un nuovo sequestro senza facoltà d’uso da parte del Procuratore della Repubblica Franco Sebastio perchè i lavori di risanamento si stanno svolgendo con ritardo. Ormai tutti a Taranto hanno compreso che, al di là della vicenda giuridica e dell’opera risanatrice, due schieramenti sono a confronto in singolar tenzone fra loro. L’uno che vuole ribaltare la titolarità dello stabilimento e passarlo dai Riva ad un altro gruppo industriale, segnatamente i Gavio, dei quali – secondo taluni – sarebbe socio occulto il potente ex Ministro dei Trasporti tarantino Claudio Signorile, l’altro invece che vorrebbe risanare l’Ilva nel segno della continuità della famiglia Riva. Il primo schieramento si fa forte di alcuni segmenti mediatici e politici. Scrive l’Huffigston post un blog molto vicino al settimanale “L’Espresso” e quindi all’ex Sinistra democristiana di Carlo De Benedetti e di Matteo Renzi: “La storia dell’Ilva è nota, ed è noto che dopo anni di colpevole distrazione la magistratura è intervenuta per riportare legalità nel polo siderurgico tarantino, uno dei più grandi e dei peggio gestiti, rispetto all’impatto su ambiente e salute, del mondo. Diranno le sentenze, se e quando arriveranno, in che dimensione e fino a quale profondità la politica nazionale e locale si sia fatta autrice o complice di reati; in particolare complice dei reati contestati alla famiglia Riva, che acquistò per poche lire la fabbrica dall’Iri negli anni ’90 e per quindici anni ha accumulato miliardi di profitti (Falso: Riva ha gestito l’Ilva per quindici anni l’ha pagata un miliardo e mezzo di vecchie lire nel 1995 il massimo che potesse pagare un imprenditore privato dell’acciaio italiano in quanto la produzione di acciaio era stata fino ad allora quasi tutta in mano pubblica e negli anni buoni i profitti sono ammontati fino a un massimo di 800 milioni di euro ma poi ci sono stati anche gli anni di crisi n.d.r.) senza impiegarne lo “zero virgola” per ridurre, come prescrive la legge e come si è fatto nella siderurgia di mezzo mondo dalla Germania alla Corea (con il concorso finanziario al 50% dello Stato, che in Italia invece non vuole contribuire n.d.r.), la potenza di avvelenamento dei forni e dei depositi (tuttora a cielo aperto) di ferro e carbone (Falso anche questo: Riva ha investito in ambientalizzazione e precisamente in elettrofiltri, sistema dell’urea, altoforno 4 rifatto ex novo e altre opere oltre 4 miliardi di euro n.d.r). Ma in attesa dei processi e delle sentenze – continua l’Huffigton post – alcune verità già sono assodate. Una è che dei veleni dell’Ilva e delle omissioni dei Riva si sa da tempo. Le prime denunce sull’altissimo impatto inquinante della fabbrica di acciaio tarantina risalgono a più di vent’anni fa, merito di associazioni ecologiste e di gruppi auto-organizzati di abitanti di Taranto che a lungo sono stati gli unici a urlare che mettere lavoro contro ambiente e salute era una scelta senza dignità e senza futuro. Gli altri, quasi tutti gli altri, hanno lasciato che il problema marcisse: l’azienda naturalmente, il sindacato, la politica. Di questa fitta rete di silenzi, compiacenze e aperte complicità ha fatto parte integrante la sinistra, che governa la Regione da 8 anni e Taranto da 6. La sinistra che con troppi suoi esponenti sia locali che nazionali ha intrattenuto robuste relazioni “informali” con i Riva: valgano per tutti gli esempi di Pierluigi Bersani (ieri osannato in quanto supporter di Prodi presidente della Repubblica oggi invece criminalizzato in quanto ostile a Matteo Renzi n.d.r.), che da responsabile economico dei Ds accolse dai proprietari dell’Ilva nel 2006 un finanziamento elettorale di 100 mila euro – formalmente lecito ma quanto meno “inopportuno” -, o di Ludovico Vico, già deputato Pd e oggi commissario del Partito democratico a Lecce, che nel 2010 al telefono con Girolamo Archinà (“spicciafaccende” dei Riva) prometteva di far “buttare sangue” a uno dei due scriventi, colpevole di battersi in Parlamento contro un’ennesima norma “ad aziendam” inventata per legalizzare l’illegalità dell’Ilva.” Il segmento politico che appoggia i Gavio è quello che ruota attorno al ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni dell’allegra brigata Saccomanni, Draghi, gitanti del Britannia e vari e della rediviva corrente del P.D. che fa capo all’on.le Claudio Signorile. L’imprenditore Beniamino Gavio aveva dato notizia tramite il quotidiano “Repubblica” di essere a capo di una cordata di imprenditori interessata a rilevare l’Ilva e a risanarla. Tra questi aveva incluso anche l’imprenditore Vittorio Malacalza imprenditore notoriamente molto liquido. Ma intervistato da “Il Messaggero” Vittorio Malacalza lo ha smentito: “La cordata di imprenditori per l’Ilva proposta da Beniamino Gavio – ha detto – “non e’ una boutade”, ma “e’ un”operazione difficile” e la famiglia Malacalza al momento non intende farsi coinvolgere. Ho letto le dichiarazioni di Gavio e, dopo quell’ipotesi qualcuno mi ha anche chiamato dal ministero dell’Economia per sapere se veramente eravamo interessati. Dunque il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni spinge in questa direzione. Gavio quindi ha bleffato dichiarando disponibilità che in effetti non ci sono e quindi – allo stato – l’ipotesi più plausibile per un risanamento italiano (a meno che non si voglia dare anche l’Ilva a soggetti stranieri) rimane ancora quella dei Riva, i quali sono già titolari dello stabilimento e quindi non devono alcunchè per rilevarlo e inoltre sono gli imprenditori dell’acciaio in Italia dotati ancora di maggiori disponibilità finanziarie. Ma Emilio Riva il capostipite fiaccato dai processi e ormai ottantaseienne sta morendo e i figli vorrebbero – giustamente – una garanzia politica che lo stabilimento dopo il risanamento rimanga il loro e non passi invece, risanato e per un piatto di lenticchie a qualche altro imprenditore sostenuto da parti politiche a loro avverse. A livello mediatico i Riva non hanno alcuno sponsor mentre a livello politico essi sono – forse – sostenuti dall’attuale ministro dell’Ambiente Andrea Orlando, il quale recentemente ha autorizzato con decreto ministeriale senza prescrizioni alcune discariche interne all’Ilva per le quali la Procura della Repubblica di Taranto, ritenendole illegittime, aveva disposto addirittura l’arresto del presidente  della Provincia Gianni Florido ultimo dei moikani P.D. pro-Riva e tuttora detenuto neanche per averle autorizzate ma solo per aver tentato, senza riuscirci, di farle autorizzare con prescrizioni. Ma i Riva sono mal visti dal gruppo pelilliano-signoriliano che attualmente spadroneggia nel P.D. tarantino. All’ultimo congresso provinciale del P.D. i floridiani (ossia i seguaci del presidente della Provincia Gianni Florido attualmente detenuto per la questione delle discariche e di tendenza lavorista) sono praticamente scomparsi e tutta la segreteria comunale e provinciale si compone ora di pelilliani-signoriliani (pelilliani da Michele Pelillo deputato unico rappresentate del P.D. tarantino in Parlamento e vicino alle posizioni dell’on.le Claudio Signorile) i quali ora si atteggiano a spassionati ambientalisti. C’è stato alcuni mesi fa un referendum cittadino in questo senso cha ha visto la partecipazione di solo il 15% della cittadinanza, a riprova del favore della cittadinanza per il risanamento e non per la dismissione dell’impianto. Ebbene il nuovo segretario del P.D. Walter Musillo appena eletto, ha significativamente dichiarato: “Al referendum  per la dismissione o la continuità dell’Ilva ho votato per la totale dismissione dell’Ilva”. Quasi a voler far intendere quale sarà la sua linea politica: spingere per la dismissione totale dell’impianto per assimilare il P.d. alla Todisco, agli ambientalisti e ai grillini e al tempo stesso per favorire lo spossessamento della titolarità dello stabilimento in capo ai Riva se dovesse prendere piede il piano Gavio-Signorile.

Continua Michele Imperio su “La Notte On Line”. Il partito socialista dal nostro punto di vista era un bel partito. Ha garantito liberà e benessere agli italiani per quasi cinquanta anni (1945-1992). Ha supportato molti imprenditori di successo che hanno dato benessere e occupazione a migliaia di famiglie italiane. Però il Partito Socialista aveva al suo interno una pecora zoppa. Questa pecora zoppa era l’on.le Claudio Signorile. Anche lui come altri esponenti socialisti ha puntato su alcuni imprenditori Lucio Manisco Simi, Aldo Belleli (Belleli) ma poi li ha scaricati. I maligni dicono perchè non ha ricevuto quanto richiesto. Però non si possono comprendere – secondo noi – le odierne vicende giudiziarie dell’Ilva di Taranto se prima non si conoscono sia pure per pochi cenni le vicende personali di questo ex parlamentare. Dopo le stragi palermitane del 1992 che servirono – come disse Riina – a sbalzare di sella Craxi e Andreotti e dopo le inchieste parallele alle stragi cosiddette di Tangentopoli, nessun socialista è rimasto politicamente in vita tranne lui Claudio Signorile. Nessuna inchiesta lo ha mai sfiorato né mai la stampa ha pronunciato il suo nome. Una volta è stato processato e condannato a tre anni di reclusione per la bancarotta fraudolenta di Edilevante la società che gestiva il giornale di sua proprietà il Quotidiano di Lecce Brindisi e Taranto. Ebbene mai alcun giornale locale ha dedicato un rigo a questa vicenda. Mai! Chi lo ha saputo, se lo ha saputo, è per il tramite del passaparola. Sicuramente ha entratura anche in magistratura perchè le inchieste sul finanziamento illegale del partito socialista non lo hanno mai nemmeno sfiorato. Nel tempo Signorile ha fatto una metamorfosi, si è trasformato da uomo politico in business men, cioè il soggetto che mette la sua fitta rete di relazioni nella stampa, nella politica, probabilmente anche nella magistratura a disposizione di imprenditori che vogliono emergere e che sorretti da lui, effettivamente emergono. Che stia ora dietro i Gavio non è un mistero per nessuno e – guarda caso – Bemiamino Gavio da Alessandria è già – in pratica – il principale imprenditore che opera nel porto di Taranto. Ora è anche interessato a rilevare l’Ilva. Lo dice lui stesso al quotidiano “Repubblica”: «Sono pronto a dar vita a una cordata con banche e imprenditori per rilevare l’Ilva». L’annuncio di una nuova avventura imprenditoriale in uno dei pochi business che ancora mancano al gruppo, l’acciaio, oppure una sorta di chiamata alle armi della migliore imprenditoria italiana per evitare che il colosso malato faccia la fine di Parmalat e, una volta risanato, finisca in mani straniere? La battaglia perduta con il gruppo Salini per il controllo di Impregilo si è conclusa con una buonuscita di poco inferiore ai cinquecento milioni. E ora questa liquidità potrebbe essere investita in nuove operazioni. Magari in alleanza con l’altra famiglia più liquida d’Italia, i Malacalza, che dall’addio alla produzione siderurgica hanno incassato più di un miliardo di euro. Il patron Vittorio, che di Marcellino Gavio, padre di Beniamino era grande amico, per il momento resta alla finestra. Lui non è uomo da cordata, anche se ritiene la sfida “stimolante e difficile”, ma la mossa di Gavio ha bisogno dei suoi tempi e potrebbe presto riservare nuove sorprese. Si tratta solo di attendere, anche perché nella massima riservatezza il governo sarebbe già sceso in campo per verificare le reali disponibilità delle banche e degli imprenditori “sollecitati” da Beniamino Gavio con le sue dichiarazioni. Signorile ha sempre considerato Taranto una cosa sua e ha sempre concorso indirettamente per l’elezione del sindaco. Nel 1993 totalmente integrato nel PDS dopo la fine rovinosa del partito socialista Signorile in pieno scandalo delle lenzuola d’oro, uno scandalo che sembrava doverlo lambire ma che poi – dopo la morte misteriosa di Ludovico Ligato - non lo ha più interessato, impose alla Sinistra tarantina il suo candidato sindaco che era nientedimeno che l’allora Procuratore Aggiunto della Repubblica Gaetano Minervini, quindi un Magistrato. Minervini perse le elezioni non fu eletto sindaco. La colpa fu attribuita alla sponsorizzazione di Signorile il quale, per questo motivo venne temporaneamente scaricato dal PDS. Un altro sarebbe a quel punto politicamente morto ma Signorile no, lui può fare tutto quello che vuole, stare a destra come stare a sinistra. Fa un accordo con Silvio Berlusconi per le successive elezioni regionali. La sua nuova proiezione politica, la dott.sa Rossana Di Bello (Forza Italia), eletta alla Regione Puglia nel listino bloccato senza voti, diventa immediatamente assessore regionale al turismo nella Giunta Distaso (centro-destra) e poi per due volte  sindaco di Taranto per un centro-destra di marca finiana-democristiana che esclude la destra civica locale. Sia nella prima che nella seconda occasione Claudio Signorile si mobilita a suo sostegno. Ma un anno dopo la sua seconda elezione Signorile ripassa nel P.D., la dott.sa Di Bello non lo segue e litiga con l’ex parlamentare. Ebbene sul capo della dott.sa Di Bello si riversano quasi contemporaneamente un dissesto dei conti del Comune e trentasei processi per abuso innominato in atti d’ufficio più la minaccia di un mandato di cattura se non si dimette immediatamente da sindaco. Lei si dimette – ovviamente – ma dopo nella fase dibattimentale in nessuno di questi trentasei processi la Giudicante trova il vantaggio patrimoniale essenziale e la sussistenza del reato. Dunque per trentacinque volte la Di Bello viene  assolta. Manca ancora all’appello il trentaseiesimo processo da cui pure la dott.sa Rosanna Di Bello sarà assolta ma che viene di volta in volta rinviato per non sbloccare il sequestro dei beni del coimputato l’ex vicesindaco di Taranto on.le Michele Tucci, con grave disdoro della Procura della Repubblica. Il giudice che ha istruito questi trentasei processi è la stessa persona che il Procuratore capo della Repubblica Franco Sebastio ha selezionato all’atto del al suo insediamento (2009) – su diciannove magistrati in organico alla Procura della Repubblica di Taranto – per condurre l’inchiesta “Ambiente Svenduto” quella che riguarda le presunte corruzioni poste in essere dall’Ilva per andare avanti in condizioni di illegalità sotto il profilo del’impatto ambientale. Questo Magistrato che conduce questa inchiesta ha sicuramente qualche contatto con il signoriliano onorevole Michele Pelillo se è vero come è vero che a inizio 2012 quando c’è la campagna elettorale per l’elezione del sindaco (vinta  dal vendoliano Ippazio Stefano proprio grazie al veto opposto dalla direzione regionale del P.D. alla candidatura del signoriliano Michele Pelillo) Pelillo in televisione dichiara furioso: IO SO CHI NON VUOLE CHE IO DIVENTI SINDACO A TARANTO!  CHI NON LO VUOLE E’ LA GRANDE INDUSTRIA, MA VEDRETE!!!!!!!! VEDRETE CHE FINE FARA’ LA GRANDE INDUSTRIA!!!!!!!!!! VEDRETE!!!!!!!!!!!! E infatti pochi mesi dopo a luglio 2012 dopo che Ippazio Stefano ha vinto le elezioni comunali (si dice per l’appoggio di Emilio Riva patron dell’Ilva) parte con gran clamore l’inchiesta sull’Ilva con il sequestro senza facoltà d’uso dell’impianto (per fortuna non andato in porto grazie all’intervento del governo che così ha evitato che quarantamila lavoratori fra occupazione diretta e indotta fra Taranto e Genova andassero a spasso) l’arresto di Emilio e Nicola Riva i titolari dello stabilimento poi esteso anche al figlio di Emilio Fabio Riva tuttora latitante a Londra, l’arresto dell’addetto alle pubbliche relazioni dell’Ilva Girolamo Archinà, dell’assessore provinciale Michele Conserva, del presidente della Provincia Gianni Florido, l’incriminazione a piede libero del governatore della Puglia Niky Vendola dell’assessore all’ambiente Lorenzo Nicastro,, dell’onorevole Nicola Fratoianni, del sindaco di Taranto Ippazio Stefano, il maxisequestro di otto miliardi di euro in danno della famiglia Riva. Insomma una strage. L’inchiesta è sicuramente una risposta al dramma ambientale tarantino, laddove l’inquinamento prodotto dall’Ilva (ma non solo dall’Ilva) è tale che ci sono bambini che si ammalano di cancro a sette anni e che consapevoli del loro destino scrivono al padre: Papà distruggi quel mostro (riferito all’Ilva)! Ma dietro il dramma c’è anche la strumentalizzazione. Se ne accorge per primo il vescovo di Taranto Mons. Benigno Papa il quale già nel 2009 pubblicamente denuncia: “quello che non dovrebbe accadere è cavalcare la giusta tematica della salvaguardia dell’ambiente per motivazioni strumentali cioè non tanto perchè stia veramente a cuore questo problema  ma perché dalla protesta si possa ricavare un qualche utile personale o di gruppo. Qualora dovesse accadere questo, dovrei pensare che ci sia un inquinamento spirituale che è peggiore dell’inquinamento ambientale!” Perchè parlava così? Era per caso informato Benigno Papa di quanto alcuni Magistrati e alcuni politici stavano per fare? Voleva mandare un messaggio a quei Magistrati? Non lo sappiamo. Sappiamo per certo però che quelle parole sono state pagate a caro prezzo perché nel Norimberga bis (così viene chiamato a Taranto il processo Ambiente svenduto con 56 imputati eccellenti) c’è anche il suo segretario particolare Marco Gerardo che a momenti veniva arrestato dai magistrati della Procura per aver accettato da Emilio Riva un contributo di poche migliaia di euro per una processione. Alcuni addirittura insinuano che anche quella sarebbe stata una tangente. Pazzesco! L’inchiesta “Norimberga bis” o “Ambiente Svenduto” come lo si vuol chiamare, viene condotta con un sospetta severità : il presidente della Provincia Gianni Florido ha una discussione con un suo funzionario Luigi Romandini? Tentata concussione! Arrestato! Il presidente della Regione Niky Vendola ha una discussione con un suo funzionario Giorgio Assennato? Concussione! Incriminato! E hai voglia a chiarire da parte di Assennato per otto ore che non c’è stata nessuna concussione. Solo differenti punti di vista tra lui e il governatore Niky Vendola laddove alla fine Giorgio Assennato ha riconosciuto che il presidente Vendola aveva ragione e lui torto! Niente da fare! Incriminato anche lui! Per falsa testimonianza! Il sindaco di Taranto Ippazio Stefano non ha avuto discussioni con nessuno (per fortuna sua) ma viene incriminato lo stesso! Anche lui! Omissioni di atti d’ufficio! Non ha emesso ordinanze contingibili e urgenti! Il sindaco confida agli amici: “Non capisco cosa stia succedendo! Mi sento boicottato da tutti! In particolare da quelli del P.D.”. In effetti i Magistrati cercano di creare un clima di “caccia alle streghe” di “dagli all’untore” intorno all’inchiesta “Ambiente Svenduto”. Chiunque non si è allineato sin da principio alla linea di ambientalismo estremo sostenuta da verdi e grillini e anche dalla Procura viene criminalizzato. Ma ciò non per ragioni di giustizia bensì per chiari scopi politici. Il primo è chiaramente quello di assimilare i giudici e il P.D. al movimento ambientalista estremo di Beppe Grillo: e quindi lo scopo è quello di fare di Taranto il primo laboratorio politico in Italia per la formazione di una maggioranza alternativa a quella delle larghe intese (Grillo-Verdi-P.D). Il secondo – come abbiamo già detto – è quello di favorire il passaggio di proprietà dell’Ilva di Taranto a un altro gruppo industriale che potrebbe diventare sponsor di quell’altra maggioranza alternativa alle larghe intese. Lo denuncia questa volta non viene dall’arcivescovo ma dal quotidiano “Il Sole 24 ore” L’intento dei giudici di Taranto – scrive espressamente il giornale  della Confindustria – sembra essere quello di spossessare i Riva della titolarità della fabbrica.

L’Ilva di Taranto è strettamente connessa all’Ilva di Genova nel senso che a Taranto si produce l’acciaio a caldo che serve anche alle produzioni a freddo di Genova, continua Michele Imperio su “La Notte On Line”. Se si ferma l’Ilva di Taranto si ferma anche l’Ilva di Genova. Né si possono differenziare le due proprietà nel senso di attribuire a una famiglia la proprietà dello stabilimento di Taranto e ad altra famiglia la proprietà dello stabilimento di Genova. Questa è la principale ragione per cui è in atto un incredibile scontro fra Magistratura e Potere Politico. Da una parte infatti quella fetta di Magistratura tarantina di fede o di impronta signoriliana (diciamo così ) fa il tifo per la soluzione Gavio-Signorile. Dall’altra parte il Potere Politico ligure ma anche quello nazionale semplicemente aborriscono all’idea che le maestranze liguri possano finire sotto le grinfie di un Signorile e si comportano di conseguenza. Secondo il Procuratore generale della Corte di Appello di Lecce Giuseppe Vignola, Magistrato integerrimo e universalmente stimato, la mossa di minacciare la chiusura totale e definitiva dell’Ilva adottata dal dott. Franco Sebastio Procuratore Capo della Repubblica di Taranto il 12 luglio 2012 era una mossa tendente in realtà a sollecitare il Governo a revisionare l’Aia concessa all’Ilva. Infatti un un’intervista a “Repubblica” del 18 agosto u.s. il dott. Giuseppe Vignola ha così dichiarato: “Questa (la revisione dell’Aia) è proprio una bella notizia. Leggo che i ministri hanno sostanzialmente recepito tutte le nostre indicazioni, facendole proprie e inserendole come diktat nell’Aia, l’autorizzazione governativa che permette all’Ilva di lavorare. Se non le rispettano, devono chiudere. È lo stesso concetto che sostenevamo noi. Significa quindi che quello che era stato fatto andava nella direzione giusta, e soprattutto che non eravamo impazziti. Ordinare la chiusura di una produzione industriale è stato un provvedimento assai sofferto, ma secondo noi era l’unica strada percorribile. Il punto principale è che l’Ilva rispetti le prescrizioni. Se lo può fare, continuando a produrre per noi non ci sono problemi. La risposta in questo senso la potranno dare i tecnici che sono stati nominati custodi, ma credo che sia assolutamente possibile. Fermo restando la legge, deve prevalere il buon senso………… Il sequestro era inevitabile. Siamo di fronte a un lavoro davvero ineccepibile che non ci lasciava altre strade, visto anche l’atteggiamento tenuto fino a quel momento dell’Ilva. L’azienda, lo dissi subito dopo il sequestro, di giorno rispettava le prescrizioni imposte e di notte le violava come confermano i rilievi fotografici che abbiamo eseguito per più di un mese nel corso dell’inchiesta. Non era un atteggiamento collaborativo e la maggior parte delle volte nascondeva i problemi con interventi di facciata. Sono davvero contento dell’intervento del governo. Mai come in questo momento sono contento della sintonia tra pezzi dello Stato proprio nel momento in cui sembrava riprodursi un braccio di ferro tra politica e magistratura. Mi dà tranquillità, non volevamo sentirci soli in una battaglia così importante. Una battaglia che stiamo vincendo”. Quindi un conflitto Magistratura -potere Politico, secondo Vignola, solo apparente e momentaneo e rivolto a fin di bene. Però i Magistrati tarantini, che fino a un certo punto si sono coordinati con lui, non sono sembrati poi del suo stesso parere. Infatti subito dopo l’emissione dell’AIA la Procura di Taranto ha abbandonato questo coordinamento (diciamo così) con la Procura Generale di Lecce e ha imbastito invece una strana alleanza con la Procura della Repubblica di Milano. Infatti Procura di Taranto e Procura di Milano in sinergia fra loro dopo la revisione dell’Aia e al fine di far fallire ogni possibile accordo fra Stato e impresa, hanno caricato l’Ilva di due sequestri non a caso notificati a Riva lo stesso giorno. uno del valore di otto miliardi e mezzo di euro proveniente dalla Procura della Repubblica di Taranto , l’altro del valore di un miliardo e mezzo di euro proveniente dalla Procura della Repubblica di Milano per frode fiscale, provvedimenti che – peraltro – hanno inibito Riva dal presentare e dal finanziare il piano industriale per il risanamento, che doveva essere presentato il giorno dopo. Come si spiega allora questa mossa, particolarmente aggressiva, con le parole rassicuranti del Procuratore Generale della Corte di Appello di Lecce? Il tempestivo intervento della Procura della Repubblica di Milano in questa vicenda fa pensare invece all’ennesimo tentativo di questo Ufficio Giudiziario di voler condizionare al massimo livello possibile tutte le vicende politiche di questo paese nel terrore che possa salire al Potere un giorno una coalizione di governo che faccia finalmente luce sia sulle odiose responsabilità di questa Procura nelle stragi di Palermo del 1992 (ne era sicuramente coinvolto il suo giudice Francesco Di Maggio e i suoi due agenti segreti a lui più vicini gli ordinovisti neofascisti Rosario Cataffi e Giuseppe Gullotti) sia sulle sue altrettanto odiose responsabilità nella cosiddetta trattativa Stato-Magistratura-Mafia, che cominciò proprio a Milano nel 1994 quando alcuni Magistrati della Procura della Repubblica di Milano (e segnatamente – secondo la denuncia di Pierluigi Vigna Armando Spataro, Francesco Di Maggio e Alberto Nobili, marito di Ilda Boccassini) decisero di coprire i miliardari traffici illeciti dell’Autoparco Milanese di Cosa Nostra in cambio di indicibili contropartite politiche. Quali odiose manovre politiche si nascondono dunque dietro lo smarcamento dalla Procura Generale di Lecce sotto questa nuova sinergia fra Procura della Repubblica di Taranto e Procura della Repubblica di Milano? Otto miliardi di euro di cui si vorrebbe il sequestro in danno dei Riva sarebbe il costo delle opere di risanamento ambientale che Riva in questi anni non avrebbe fatto per ambientalizzare lo stabilimento. Si tratta chiaramente di una cifra esagerata, cui si è giunti sulla base della stima di uan semplice impiegata dell’Arpa Puglia Barbara Valenzano. Peraltro Riva ha acquistato l’impianto sedici anni fa (1996) e il massimo dell’utile netto di esercizio è stato di 800 milioni di euro. Poi ci sono stati anche gli anni in cui l’utile è stato sensibilmente inferiore. Riva – peraltro – ha già investito in ambientalizzazioni quattro miliardi e mezzo di euro. Dunque quelle somme non le ha mai guadagnate. Come si può pretendere da un imprenditore che debba spendere più di quanto incassa? Ad imposibilia nemo tenetur – dicevano i latini. I tecnici del Ministero dell’Ambiente che hanno revisionato l’AIA hanno invece quantificato il valore delle opere di ambientalizzazione in un miliardo e ottocento milioni di euro. Naturalmente nessuno dice la verità. La verità è che l’Ilva di Taranto guadagna in modo esponenziale in funzione della produzione ed è congegnata nel senso che se produce sette milioni di tonnellata d’acciaio pareggia i costi, se produce otto milioni di tonnellate d’acciaio guadagna se produce nove milioni di tonnellate di acciaio guadagna bene se produce dai dieci milioni di tonnellate in su straguadagna. Fino al 2002 Riva è stato autorizzato a produrre fino a otto milioni di tonnellate di acciaio. Dopo il 2002 con la concentrazione su Taranto delle produzioni a caldo di Taranto e di Genova Riva è stato autorizzato a produrre fino a dodici milioni di acciaio a caldo con l’intesa però che il superguadagno sarebbe stato destinato anche al risanamento ambientale, risanamento che, fino a oggi, con le violazioni che denunciava Vignola, aveva fatto solo parzialmente. Gli aneliti affaristici e i giochi di potere di cui abbiamo parlato nelle puntate scorse, confermati da questa sinergia fra Procura di Taranto e Procura di Milano (i due Uffici fanno anche riunioni congiunte per meglio coordinarsi) hanno fatto sì che tutte le regole codicistiche che ripartiscono funzioni e ruoli dei vari uffici giudiziari in questo processo siano saltate. Soprattutto è mancata la figura del giudice terzo fra accusa e difesa ruolo totalmente obliterato dalla dott.sa Patrizia Todisco. Com’è noto il legislatore istituì la figura del g.i.p. come giudice terzo che doveva verificare se l’attività istruttoria dei P.M. fosse eccessivamente sbilanciata rispetto alle posizioni dell’accusa e nel caso attenuarla. Invece in questo processo il g.i.p. Patrizia Todisco si è spesso affiancata all’azione dei pubblici ministeri a volte scavalcandoli come quando ad esempio con un’ordinanza di 500 pagine ha sollecitato l’incriminazione del governatore della Puglia Niky Vendola (per molto meno la dott.ssa Clementina Forleo fu trasferita su due piedi da Milano a Cremona) oppure (caso ancora più clamoroso) quando ha sequestrato al liquidità delle aziende dei Riva a Brescia e a Verona contro la volontà dichiarata anche alle stampe del Procuratore capo della Repubblica di Taranto Franco Sebastio. Avendo capito che identificandosi ancora in Riva la titolarità dell’azienda ogni mossa della magistratura tarantina (e milanese) provocava il plauso fragoroso del popolo ambientalista e grillino schizzato a Taranto a percentuali vicine al 33% dei consensi, il Potere Politico ligure abilmente gestito dal valoroso esponente del P.D. Andrea Orlando attuale ministro dell’ambiente e quello nazionale a un certo punto hanno sostituito Riva con due figure neutre i commissari Sandro Bondi e Edo Ronchi ma l’aggressione giudiziaria contro l’Ilva al di là dei buoni intendimenti del Procuratore generale di Lecce Giuseppe Vignola è continuata lo stesso. Quattro mesi fa invocando l’ottemperanza di una legge salva-Ilva il commissario Bondi aveva chiesto lo sblocco di 230 milioni di euro sequestrati ai Riva per destinarli al risanamento dell’impianto. Per quattro mesi la dott.sa Patrizia Todisco non ha risposto. Dopo quattro mesi ha risposto: rigetto perchè il lavori si stanno svolgendo con ritardo. In realtà le opere sono state tutte appaltate ma sono ferme perchè i sindacati nazionali vorrebbero il coinvolgimento delle imprese locali.
E mentre l’Ilva rischia di fermarsi di nuovo, l’impresa Marcegaglia (pannelli fotovoltaici) ha annunciato la cessazione delle attività della sua azienda a Taranto, con la conseguente chiusura e il licenziamento di 134 dipendenti, dal prossimo 31 dicembre 2013. Vestas (turbine eoliche) ha confermato la indisponibilità’ a riaprire l’attività’ di produzione delle turbine eoliche nel sito di Taranto e conseguentemente ha confermato l’esubero di 120 unità’ lavorative (solo parte dei quali saranno riassorbiti in un altro sito industriale della stessa azienda sul posto). A giorni anche Evergrin (trasporti marittimi) annuncerà il proprio disimpegno da Taranto per trasferirsi in un porto istriano, con il licenziamento di altre migliaia di lavoratori. Poi sarà la volta dell’Ilva stessa che annuncerà che a Taranto continuerà solo la produzione a freddo perché la produzione a caldo sarà trasferita almeno momentaneamente in Brasile (il che significherà il licenziamento di altri 5.000 dipendenti). Certo, ognuno ha le sue buone ragioni ufficiali, ma perchè tutti assieme? Quanto avrà inciso alla fine su questa devastazione occupazionale di Taranto il conflitto – che c’è, nessuno lo può negare – tra una parte della Magistratura tarantina e il Potere Politico Nazionale?

TARANTO: CHIARELLI (PDL) INTERROGA MINISTRO DIFESA SU DISIMPEGNO MARINA MILITARE.

Interrogazione urgente a risposta scritta al Ministro della Difesa

Per chiedere, premesso che:

• La Città di Taranto da oltre cento anni è sede di diversi importanti insediamenti della Marina Militare Italiana, quali un arsenale militare, una base navale di recente realizzazione, una scuola sottufficiali, un centro addestramento, nonché sede del Comando in Capo del dipartimento marittimo dello Jonio e del Canale d'Otranto.

• La Marina Militare, per ragioni oggi non più attuali, continua ad occupare ampie e significative aree della città, imponendo un sacrificio in termini di fruibilità del territorio alla cittadinanza, oltre che per tutte le ricadute negative dovute agli esiti delle lavorazioni realizzate.

• Il territorio, come è noto per essere stato assunto alla attenzione del Governo, vive un momento di particolare crisi economica che vede attive una serie di vertenze, dalla nota vicenda Ilva, all'abbandono del territorio da parte di importanti realtà produttive come la multinazionale Vestas, il gruppo Marcegaglia, il gruppo Natuzzi, Miroglio, e tante altre realtà produttive di piccole e medie dimensioni.

• In questo quadro di grave emergenza occupazionale si inserisce un ulteriore nuova pesantissima novità che vede la Marina Militare abbandonare di fatto il territorio. Da notizie giornalistiche, infatti, si apprende del possibile esubero di ben 500 unità tra il personale civile della Difesa, del declassamento del Comando in Capo, del trasferimento delle attività di addestramento, e, ultimo schiaffo, il trasferimento dell'incrociatore Vittorio Veneto a Trieste.

• L'incrociatore Vittorio Veneto, di base a Taranto per oltre 40 anni, è stato oggetto nei primi anni del 2000 di proposta dell'allora amministrazione locale mirata a realizzare un museo galleggiante da mantenere a Taranto. Nel 2007 un decreto che stanziava fondi per la ricorrenza dei 150 anni della unità di Italia, prevedeva , giusto accordo Stato-Regione, la realizzazione di tale progetto.

• Sempre da fonti giornalistiche si apprende che la Vittorio Veneto sarebbe destinata a diventare museo ma non a Taranto bensì a Trieste.

• L'ufficio stampa locale della Marina Militare ha diffuso una nota con cui ridimensiona le voci di stampa.

Se è a conoscenza di quanto sopra esposto e se ritiene necessario intervenire al fine di chiarire la fondatezza delle ipotesi giornalistiche, nonchè richiedere agli organi di comando della Marina Militare di riconsiderare eventuali decisioni destinate a ridimensionare drasticamente la presenza a Taranto, e, altresì, rivalutare il progetto museo Vittorio Veneto come giusto riconoscimento della centralità di Taranto nel sistema della difesa.

POVERA LA MIA TARANTO.

Taranto, Ambiente svenduto. Il pressing su Archinà dei politici del Comune, scrive Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È stato definito la longa manus dei Riva, il promotore di un sistema illecito, l’uomo chiave dell’inchiesta «ambiente svenduto». Eppure la fitta rete di contatti di Girolamo Archinà, ex dirigente Ilva tornato in libertà pochi giorni fa dopo dodici mesi tra carcere e domiciliari non era costruita in modo unilaterale. I suoi numerosi rapporti non erano costruiti sulle telefonate in partenza da suo cellulare. Anzi. A cercare l’allora potentissimo dirigente Ilva erano in tanti. Troppi. Chiedevano contributi economici, sostegno elettorale, sistemazione lavorativa o appoggi politici. Lui rispondeva a tutti: offrendo soluzioni, suggerendo percorsi, proponendo interventi e pianificando strategie. Come l’ex assessore al bilancio e oggi parlamentare del Partito democratico Michele Pelillo che secondo quanto Archinà racconta in un conversazione telefonica gli avrebbe telefonato dopo «aver fatto a pezzi l’Ilva» facendo «un discorso strano». Secondo quanto spiega Archinà al suo interlocutore in quell’incontro Pelillo punta a «ricostruire il rapporto» perché considera politicamente Ludovico Vico «un morto che cammina» e alle prossime elezioni politiche vorrebbe essere lui il candidato. Oppure come Annarita Lemma che, candidata per il Pd nel 2010 alle regionali, chiede e ottiene un incontro con Archinà. O il vendoliano d’acciaio Mino Borraccino che, però, viene quasi snobbato dal dirigente Ilva. Ma ad Archinà arrivano anche le telefonate di Alfredo Cervellera. L’allora vice sindaco di Taranto prima di candidarsi al consiglio regionale chiede all’uomo dei Riva la cessione di alcuni terreni dell’Ilva per la costruzione del polo tecnologico ambientale. Archinà sembra favorevole e suggerisce di non chiamarlo «ambientale». Il polo diventa così «tecnologico scientifico». Peccato che nel suo lo spot elettorale Cervellera indichi l’Ilva come «il male» e quel dialogo si interrompe. Ma c’è anche il Pdl regionale nell’elenco di telefonate in entrata e in uscita. Pietro Lospinuso, ad esempio, chiede un «canovaccio» al dirigente Ilva per intervenire nella questione benzo(a)pirene che sta imperversando contro l’Ilva. L’idea del pidiellino è quella di vedersi per capire come intervenire: «facime come all’otra vote» spiega in dialetto ginosino. Non solo. Lospinuso aggiunge che la settimana prossima «c’ho Gasparri e Fitto da me» e quindi potrebbe essere opportuno ricevere un appunto. E poi c’è il piccolo esercito di assessori e consiglieri provinciali, comunali e persino circoscrizionali. Da Archinà si aspettano un aiuto anche coloro che aspirano a un posto di rilievo. Come Pietro Rusciano, consigliere comunale, convinto di diventare a breve il presidente della commissione ambiente del comune. Per Archinà «questa è una buona notizia». E infine a chiedere aiuto all’uomo dell’industria si aggiunge Gennaro De Pasquale, uomo del Pd e perito della procura nel processo per morte degli operai della fabbrica esposti all’amianto. De Pasquale cerca un sostegno in Archinà: «solo Girolamo può dire al sindaco che io faccio l’assessore all’ambiente» e nonostante il dirigente Ilva affermi «io credo che il sindaco non possa durare ancora molto: non ti bruciare», lui ribadisce: «al sindaco digli che De Pasquale è l’assessore gradito a noi».

Ed ancora. Dal 1997 al 2006 l’Ilva spa non ha operato in regime di illecito monopolio nelle attività di carico e scarico delle merci nel porto di Taranto: lo ha stabilito l’11 dicembre 2013 la seconda sezione penale del Tribunale di Taranto (presidente Fulvia Misserini, a latere Rita Romano e Luca Ariola) assolvendo dall’accusa di illecita concorrenza, perchè "il fatto non sussiste", Emilio Riva, i figli Fabio (attualmente in libertà vigilata a Londra) e Claudio Riva, nelle rispettive qualità di ex presidente, ex vicepresidente ed ex consigliere delegato del cda dell’Ilva, e altri 11 imputati, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il sostituto procuratore Giovanna Cannarile aveva chiesto invece per i Riva la condanna a 4 anni e sei mesi di reclusione ciascuno. Il pm aveva inoltre chiesto la condanna a sei anni e sei mesi di carcere per Giampiero Gallina, di Torino, dirigente del Siderurgico con procura a gestire i pontili dati in concessione all’Ilva, che rispondeva anche di tentata estorsione, e sei anni di reclusione per Michele Fazio, di Savona, institore e componente del consiglio di amministrazione della Anchor Shipping (agenzia marittima con sede nella città ligure), accusato anche di estorsione. Condanne comprese tra quattro anni e sei mesi e due anni e sei mesi di reclusione erano state chieste per quattro componenti del consiglio di amministrazione dell’Anchor Shipping e per due rappresentanti della Navalsud, altra agenzia marittima. I legali di un’altra agenzia marittima che si riteneva danneggiata, la "Valentino Gennarini", avevano chiesto un risarcimento danni di 30 milioni di euro. Secondo l’accusa, gli imputati avrebbero sostenuto falsamente che l’Ilva fosse titolare di un terminal di scarico privato al porto di Taranto, dove potevano operare solo Anchor Shipping e Navalsud. Le stesse agenzie avrebbero praticato prezzi inferiori a quelli stabiliti dalle tariffe previste dalla legge per prestazioni raccomandatarie marittime. Per l’accusa, i tre Riva avrebbero tra l’altro minacciato armatori e noleggiatori, se non avessero nominato quali agenti raccomandatari la Anchor Shipping o la Navalsud, di rifiutare o ritardare le operazioni di carico e scarico delle merci, e comunque di interrompere qualsiasi rapporto con l’Ilva. I giudici del Tribunale, però, non hanno ravvisato alcun reato nel comportamento della dirigenza Ilva e dei responsabili delle due agenzie marittime inquisite.

I padroni dell'acciaio e altri 11 imputati sono accusati a vario titolo di concorrenza illecita, minacce ed estorsione nei confronti di cinque compagnie marittime locali, scriveva sempre Francesco Casula su “Il Fatto Quotidiano”. - Evidentemente dall'articolo del cronista appare chiaro da che parte esso sia: se a favore dei Riva, presunti innocenti, ovvero genuflesso ai magistrati tarantini ed alle loro teorie. - Le mani su Taranto. Dall’aria all’acqua. Dall’inquinamento ambientale alle minacce per monopolizzare il porto del capoluogo ionico. Secondo la procura tarantina il sistema Ilva è stato capace di mettere in ginocchio non solo allevatori, miticoltori e pescatori, ma anche gli agenti marittimi. Quattro anni e sei mesi di carcere è infatti la pena richiesta dal sostituto procuratore Giovanna Cannarile nei confronti di Emilio Riva, l’88enne ex patron dell’Ilva di Taranto, e per i figli Fabio e Claudio accusati di aver imposto agli spedizionieri del porto un illecito regime di monopolio. Una nuova tegola, insomma, piombata sulla testa dei padroni dell’acciaio italiano dopo la bufera giudiziaria che li ha travolti il 26 luglio 2012. Ma questa volta non sono le emissioni inquinanti dello stabilimento siderurgico ad essere finiti nel mirino della magistratura. Secondo l’accusa, i Riva e altri 11 imputati, sono responsabili a vario titolo di concorrenza illecita, minacce ed estorsione nei confronti di cinque compagnie marittime locali. In sostanza avrebbero sostenuto che l’Ilva fosse titolare di un terminal di scarico privato presso il porto di Taranto nel quale erano abilitati a operare solo Anchor Shipping e Navalsud, agenzie scelte dai Riva perché disposte a praticare prezzi inferiori a quelli stabiliti dalle tariffe e avrebbero di fatto tagliato fuori dal mercato le cinque agenzie tarantine. Non solo. Gli armatori in rapporti di lavoro con la fabbrica sarebbero anche stati intimiditi con minacce di interrompere qualsiasi tipo di legame lavorativo con l’Ilva se non avessero utilizzato come agenzie una quelle indicate dal Gruppo industriale. Una condotta che secondo i legali Carlo Petrone e Stefano Caffio che assistono le parti civili, avrebbe causato una danno alle aziende di Taranto di ben 30 milioni di euro. Al termine della sua requisitoria, il pubblico ministero ha chiesto la condanna dei Riva, e pene comprese tra i sei anni e i due anni e sei mesi per gli altri imputati. La sentenza è prevista per il prossimo 11 dicembre 2013. Un’ennesima giornata nera, insomma, per i Riva iniziata con un’esplosione all’interno della fabbrica che fortunatamente non ha prodotto feriti: secondo il sindacato Usb l’incidente ha colpito il refettorio delle pulizie industriali all’interno dell’acciaieria 2, che è stato investito dalla deflagrazione. Ingenti secondo il sindacato i danni alla struttura. Un fatto “ancora più grave se si pensa – aggiunge l’Usb di Taranto – che diverse segnalazioni rispetto a quanto poteva accadere, e che di fatto è accaduto, erano state fatte dalle RSU nei mesi precedenti”. Intanto dopo la chiusura delle indagini per l’inchiesta Ambiente svenduto, la procura è pronta a spingere per l’estradizione di Fabio Riva, latitante a Londra dallo scorso anno. Nelle scorse ore, il pool di magistrati guidati dal procuratore Franco Sebastio e dall’aggiunto Pietro Argentino, ha inviato in Inghilterra una memoria che il prosecutor, il pubblico ministero inglese, dovrà presentare al giudice distrettuale entro il prossimo 9 dicembre per replicare alle indicazioni dei difensori dell’ex vice presidente del Gruppo Riva, che chiedono il rigetto della richiesta di estradizione formulata dalle autorità italiane.

Nuova tegola giudiziaria per la famiglia Riva, scrive invece “Il Corriere del Giorno”. Il processo sulla presunta concorrenza sleale al porto mercantile di Taranto è giunto alle battute finali e ieri il pubblico ministero Giovanna Cannarile (componente del pool che indaga sul disastro ambientale), a conclusione della sua requisitoria, ha formulato le richieste nei confronti dei 14 imputati di concorso in illecita concorrenza con violenza o minacce. Fra i nomi spiccano quelli di Emilio Riva e dei figli Fabio e Claudio, negli anni 2000-2004 (periodo di riferimento delle indagini) rispettivamente presidente, vice presidente e componente del consiglio di amministrazione dell’Ilva. Per loro il pm ha chiesto la condanna a 4 anni e mezzo di reclusione. Non si tratta, comunque, della richiesta più pesante nei confronti dei vertici del siderurgico dell’epoca. Infatti, 6 anni e mezzo il magistrato ha chiesto per il manager Giampiero Gallina, procuratore delegato dello stabilimento siderurgico all’epoca dei fatti contestati che risponde di estorsione tentata e consumata e 6 anni per l’institore Michele Fazio. Entrambi rispondono di estorsione tentata e continuata per presunte pressioni nei confronti di armatori o noleggiatori. Quattro anni e mezzo rischiano Ettore e Paolo Campostano della “Anchor Shipping spa” di Savona, insieme alla Navalsud società beneficiaria, secondo l’accusa, del sistema di concorrenza sleale. Due anni e mezzo il pm ha proposto per Tony Liuzzi, Giuliano Mallito, Vito Bisanti e Franco Sensoli. La pubblica accusa non ha ravvisato elementi di colpevolezza nei confronti di tre imputati e ha chiesto l’assoluzione “perchè il fatto non sussiste” per altri due esponenti della “Anchor”, Augusto Genta e Stephane Axel De Madre e per un imprenditore, Corrado Corradi. Stando alla ricostruzione della Guardia di Finanza, i fornitori del siderurgico sarebbero stati indotti a servirsi esclusivamente di due armatori per non rischiare di incorrere in ritardi nella consegna delle merci o addirittura in un rifiuto. L’inchiesta, sfociata nel processo, è scaturita dagli esposti di alcuni armatori tarantini che si ritenevano danneggiati dal sistema e lo indicavano come la causa di un drastico ridimensionamento della loro attività. Le parti offese, le agenzie marittime “Gennarini” e “Caffio”, si sono costituite in giudizio tramite gli avvocati Carlo Petrone e Stefano Caffio. I legali di parte civile, che hanno discusso ieri, si sono associati alle conclusioni dell’accusa e hanno presentato un conto molto salato, chiedendo una provvisionale di 15 milioni di euro a testa quale risarcimento dei danni subiti.
La parola è passata poi alla difesa dei vertici Ilva con le arringhe degli avvocati Egidio Albanese, Maresca, Raimondo (entrambi del foro di Genova) e Adriano Raffaelli (foro di Milano). I legali hanno sostenuto la piena liceità dell’operato dei rispettivi clienti e la trasparenza degli accordi contrattuali attraverso i quali, stando alla tesi difensiva, venivano indicati gli agenti marittimi per ragioni di sicurezza e di fiducia. Prossima udienza mercoledì 11 con le arringhe degli altri difensori, le eventuali repliche del pm e il verdetto della Seconda sezione penale presieduta dal giudice Fulvia Misserini.

Ed a proposito de Il Corriere del giorno. L'Associazione della Stampa di Puglia "è al fianco dei giornalisti del Corriere del Giorno di Taranto, ai quali il commissario liquidatore nominato dal ministero dell’Economia ha comunicato la cessazione delle pubblicazioni, a partire dal 9 gennaio 2014, e l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo". "La pur pesante situazione debitoria accumulata dalla cooperativa che dal 1947 edita il quotidiano – afferma il sindacato dei giornalisti in una nota – non può giustificare la fine di una straordinaria avventura umana e professionale". "Siamo convinti che, come altri giornali in cooperativa che hanno sperimentato la procedura di liquidazione coatta amministrativa – è detto ancora – anche il Corriere del Giorno possa intraprendere un percorso di risanamento che segni un nuovo inizio, caratterizzato da una gestione più snella ed efficiente, salvaguardando i livelli occupazionali". "Il Corriere del Giorno – è detto ancora – è un pezzo della storia di Taranto e della Puglia. Una storia che non può finire sepolta sotto i colpi di una crisi, pure reale ed evidente, ma che deve chiamare istituzioni, classe politica e imprenditoriale a fare fronte comune per garantire la sopravvivenza di una voce autorevole e indipendente e la tutela dei posti di lavoro". "Per questo – conclude la nota – è necessario che il commissario sospenda ogni decisione e si adoperi affinchè la procedura di liquidazione della cooperativa avvenga in continuità di esercizio, accettando il confronto senza pregiudiziali con il sindacato dei giornalisti".

Intanto  due belle ragazze in mini e scollatura vertiginosa ”infiocchettate” di rosso, come un bel regalo di Natale, per accompagnare gli amministratori comunali nella presentazione delle iniziative del Comune per le prossime festività 2013. Le ‘veline’ del sindaco; due belle ragazze ‘infiocchettate’, perfette per affiancare il primo cittadino di Taranto durante la presentazione del programma natalizio nella città jonica. Minigonna, scollatura e fiocco rosso, conciate per le feste. La “sorpresa” è stata riservata ai giornalisti che il 3 dicembre, a Taranto, hanno partecipato alla conferenza stampa che ha visto intervenire il sindaco Ippazio Stefano, l’assessore alle Attività produttive Cisberto Zaccheo, l’assessore alle Politiche giovanili e allo Sport Gionatan Scasciamacchia, e il dirigente dell’Ufficio allo sviluppo economico e produttivo Carmine Pisano. Loro, le belle hostess, hanno fatto da “cornice” col tanto di fiocco rosso.  “A Natale regalati Taranto”, il nome della manifestazione che conta circa settanta appuntamenti a cavallo tra il 25 dicembre e Capodanno. Sindaco e assessori hanno presentato i settanta appuntamenti previsti in calendario per Natale/Capodanno: iniziative che vedranno coinvolti i diversi quartieri della città ma soprattutto il centro . Il nome della manifestazione è “A Natale regalati Taranto”: un programma di spettacoli ed eventi scaturito dalla collaborazione fra Comune di Taranto e associazioni di impresa, commercio e cultura cittadine.

Due ragazze come due "pacchi di Natale", commenta “Libero Quotidiano”. Abito nero stretto, infiocchettate con un nastro rosso proprio dietro la scrivania del sindaco di Taranto Ippazio Stefàno, di Sel che presentava le sue iniziative per Natale. La scelte ha sollevato molte polemiche su twitter mentre neanche una parola è arrivata dalla presidente della Camera (Sel) Laura Boldrini che contro l'uso del corpo delle donne, la demonizzazione di Miss Italia, ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia. "Spero che le ragazze italiane per farsi apprezzare possano avere altre occasioni che non quella di sfilare con un numero. Le ragazze italiane hanno altri talenti", aveva detto a proposito del concorso di bellezza cancellato dal palinsesto della Rai. Il silenzio di Nichi -  Più o meno la stessa musica arriva anche dalle parole di Vendola: "La necessità di uno sguardo femminile è necessario. Occorre cancellare Berlusconi ma soprattutto determinante cancellare il berlusconismo che ha impregnato il pensiero culturale dell'Italia. Il sessismo, l'esibizionismo sfrenato del dominio maschile". E allora perché sia Vendola che Boldrini tacciono davanti al "quadretto" apparecchiato dal sindaco di Taranto?

Va giù duro anche Stefano Zurlo su “Il Giornale”. I silenzi di Boldrini e Vendola sulle conigliette del sindaco Sel. Stefàno a Taranto si presenta in conferenza stampa con due ragazze sexy infiocchettate come oggetti. Il presidente della Camera e il suo leader ora non gridano allo scandalo, scrive Stefano Zurlo. C'è chi sullo sfondo coriandoloso della sala colloca un presepe. Oppure un più laico e luminoso albero. O qualcosa del genere, una cometa di passaggio come tutte le comete. A Taranto, no: Ippazio Stefàno, il sindaco di Sel, l'amico di Nichi Vendola, il sinistro che guida una delle realtà più sinistrate d'Italia, ha pensato bene di ingentilire la conferenza di presentazione delle attività natalizie piazzando due piacenti ragazze ben infiocchettate di rosso nei pressi del tavolo. Sì, avete capito bene: dalle parti di Vendola e del suo partito che poi sono le stesse, per intenderci, della presidente della Camera Laura Boldrini, la donna è sacra. E la sua condizione è oggetto di omelie perenni. Più puntuali di quelle che si fanno alla domenica in chiesa. La Boldrini, per capirci, è arrivata a benedire la scomparsa dai palinsesti Rai di Miss Italia. Naturalmente con parole concettose: «Solo il 2% delle donne in televisione esprime un parere. Per il resto è muto, spesso svestito, non ha modo di esprimere un'opinione». Di qui la bocciatura senza appello dello storico concorso che fa parte del costume nazionale: «Spero che le ragazze italiane per farsi apprezzare possano avere altre occasioni che non quella di sfilare con un numero. Le ragazze italiane hanno altri talenti». Vendola? La sua narrazione, come ama dire il presidente della Regione Puglia, è un po' più tortuosa ma gira e rigira, passando per l'immancabile berlusconismo, si arriva allo steso approdo del presidente Boldrini: «La necessità di uno sguardo femminile è necessario. Occorre cancellare Berlusconi, ma soprattutto è determinante eliminare il berlusconismo che ha impregnato il pensiero culturale dell'Italia. Il cuore del berlusconismo che abbiamo conosciuto negli ultimi due decenni è stato il sessismo, l'esibizionismo sfrenato del dominio maschile: nelle parole, nell'economia, nella vita pubblica e in quella privata». Appunto. Vallo a dire al primo cittadino di quella città bellissima e sventurata che è Taranto, con il dramma dell'Ilva in primo piano. L'anno scorso aveva già fatto epoca la foto di Stefàno in giro per la sua città martoriata con la pistola nella fondina, stile sceriffo del West. E Vendola si era sgolato e risgolato a spiegargli che no, lui deve camminare per Taranto come San Francesco, protetto solo dall'affetto e dalla solidarietà dei suoi amici, dei suoi compagni, di chi gli vuole bene. E lui alla fine si era arreso: «Rinuncio alla pistola». Adesso l'etica puritana boldriniano-vendoliana subisce un nuovo colpo e scivola sulla conferenza stampa del sindaco Stefàno. Niente iconografia natalizia, sarà la spending review, niente addobbi e nemmeno renne o slitte. Sorpresa: a Taranto preferiscono due ragazze sobriamente, anzi molto sobriamente vestite, la Boldrini le definirebbe mezze svestite. Con tanto di fiocco rosso, come fossero scatole di cioccolatini, un gentile omaggio per gli abitanti affamati della città o per chi si soffermi sulle foto. Siamo, sia pure vagamente, dalle parti del berlusconiano Drive in o più banalmente nei pressi della fenomenologia della coniglietta, un'icona femminile che evidentemente è inaffondabile. E torna a galla a dispetto delle tirate moralistiche di Vendola, Boldrini e compagnia. Certo, ciascuno è responsabile di quello che fa, ma la politica non funziona come il codice penale e se il biglietto da visita di un'amministrazione è questo, allora vuol dire che certe demonizzazioni servono solo per raccattare qualche voto nell'urna e sono solo la proiezione di una robusta dose di cinismo. Del resto in un'intercettazione diventata ormai famosa è proprio Vendola, il Vendola duro e puro, a ridere allegramente dei morti di tumore dell'Ilva. Contraddizioni, piccole e grandi, dell'ipocrisia rossa.

«Mi dissocio. Non posso accettare come unica donna della giunta Stefàno che si verifichino cose del genere». Lucia Viafota, assessore ai Servizi sociali, non fa nulla per nascondere la sua amarezza al termine di una giornata in cui sui social network in tanti hanno criticato ed ironizzato sulle foto della conferenza stampa a Palazzo di Città per presentare le iniziative per Natale. «Vedere due hostess, due ragazze, vestite in maniera così succinta a pochi passi dal sindaco e da altri due assessori mi ha rattristato. Spero e penso che sia stato commesso - prosegue Viafora - un errore in buonafede e senza alcuna malizia. Ma in un solo attimo è stato danneggiato tutto il lavoro che, soprattutto a novembre, abbiamo fatto per la tutela fisica, psicologia e per salvaguardare l'immagine della donna. Davvero - rileva Viafora - facciamo tanto per far capire già nelle scuole che le donne vanno rispettate e, proprio in un luogo istituzionale sono state trattate come delle donne oggetto».

Intanto nell’attesa lungo il languido passar del tempo, in quel di Taranto altri processi si aggrovigliano. Se ne lamenta Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno. Dove appena qualche mese l’ingresso era possibile soltanto tramite accredito o visto della polizia, ieri mattina c’erano solo due cronisti per la requisitoria del pm Remo Epifani nel processo per i 250 milioni di euro di Boc contratti nel 2004 dal Comune di Taranto con l’allora banca Opi: 250 milioni di euro, un quarto del buco procurato al Comune di Taranto da giunte di centrodestra, tanto da portare nel 2006 alla dichiarazione di dissesto per un miliardo di euro, il dissesto più grande d’Italia.Nell’aula dedicata al giudice Emilio Alessandrini, ucciso dai terroristi rossi il 29 gennaio del 1979 a Milano, e solitamente riservata ai processi della corte d’assise come quello per morte di Sarah Scazzi, teletrasmesso in mondovisione, era plastica la rappresentazione della oraziana molle tarentum. Il poeta era innamorato della città dei due mari e si inebriava nelle sue onde calme, placide. Molli, appunto. L’accezione molle tarentum era insomma positiva ma la consuetudine ormai secolare restituisce un altro significato, ovvero che la città di Taranto si affloscia nel giorno in cui dovrebbe invece essere protagonista. Nell’aula Alessandrini ieri mattina non c’era nessuno, a parte gli addetti ai lavori, la tribunetta riservata al pubblico era desolatamente deserta, e così il dottor Remo Epifani, titolare delle principali inchieste sul Comune di Taranto quando l’ente (2000-2006) era guidato dal sindaco Rossana Di Bello (Forza Italia), non ha potuto non cominciare la sua discussione con il rammarico per quel deserto, per quell’indifferenza verso una vicenda che pure ha avuto un ruolo fondamentale sulla città e i suoi cittadini. Perché Taranto è sicuramente la città del caso Ilva, dei veleni emessi dagli impianti dell’area a caldo, dell’attenzione con la quale il Governo e altri poteri forti guardano al futuro dello stabilimento siderurgico, ma è anche la città delle tasse salite al massimo per far fronte ai debiti miliardari accumulati dal Comune, dei servizi ridotti al minimo, degli asili chiusi, dei cantieri bloccati per assenza di liquidità, dei contratti integrativi disdettati, dei concorsi pubblici bloccati sine-die malgrado le evidenti lacune di organico, specie tra i vigili urbani. Il prezzo del dissesto viene pagato ancora oggi da tutti i tarantini, impegnando, malgrado gli anni trascorsi, una parte consistente del bilancio comunale e dunque limitando il raggio d’azione dell’ente. Ma sembra tutto vecchio, una storia passata, archiviata, finita nel dimenticatoio. Certo, i tempi della giustizia non aiutano quasi mai la memoria e non accendono la passione popolare, visto che il trascorrere degli anni non solo ha portato ormai alla seconda legislatura Stefàno, il sindaco di sinistra eletto a furor di popolo nel 2007 e confermato nel 2012, ma rischia di far finire tutti i processi sull’era-Di Bello in prescrizione. Ma Taranto anche quando la scansione degli atti giudiziari è stata più immediata, vicina alle pulsioni dei tarantini come l’esplosione del caso Ilva e i suoi sequestri, arresti, verbali, intercettazioni, è mancata agli appuntamenti. Il flop del referendum consultivo del 14 aprile scorso sulla proposta di chiusura dell’area a caldo dell’Ilva e la partecipazione alle manifestazioni anti-siderurgica di una minoranza, rumorosa autorevole e spesso dotata di argomenti convincenti ma sempre minoranza, restituiscono in maniera efficace l’immagine della «molle e imbelle Tarentum» tratteggiata da Orazio oltre 2000 anni fa. Allora era molle e imbelle perché da tanto tempo non faceva più guerre ed era diventata addirittura luogo di villeggiatura. Oggi lascia finalmente, ma di poco, l’ultimo posto nella classifica della qualità della vita, ma continua a farsi scivolare tutto (e tutti) addosso, tra menefreghismo (il classico ce me ne futt’a mme?) e, forse, rassegnazione.

Povera la mia Taranto: distrugge il suo futuro uccidendo le industrie. I veleni hanno ormai annientato la città. E la miopia degli ambientalisti boicotta il rilancio, scrive Angelo Mellone su “Il Giornale”. Taranto a novembre si regala una tramontana che spazza il cielo da ogni nuvola e fa apparire i monti calabri a un tiro di schioppo. Il lungomare della città sfodera un tramonto dove è possibile contare almeno dieci sfumature di colori. Questa è la bellezza incredibile dei tramonti tarantini, accucciati tra il castello Aragonese e le due isole che proteggono la città dalla forza delle maree. Solo che nel quadro di colori surreale e surrealista, il lungomare è vuoto, e siamo in due, solo in due assieme un vecchietto con la canna da pesca, a farci compagnia sotto la statua del Marinaio. Alle spalle di questo vuoto di anime c'è il palazzo dell'Ammiragliato, storica e secolare istituzione tarantina: è notizia fresca che sarà trasferito a Napoli. Una collega, sconsolata: «Non siamo su Scherzi a parte ma poco ci manca»: la flotta e l'arsenale tarantini ridotti a succursale dell'isoletta di Nisida, sotto Posillipo. Incredibile. La partenza dell'Ammiragliato, in fondo, è come amputare uno dei due polmoni identitari di quella che è ancora la capitale industriale e militare del Mezzogiorno: seppur ferita, spaventata e violentata da una micidiale saldatura tra i danni dell'industrializzazione e una campagna autodistruttiva di immagine che l'ha ridotta mediaticamente a un inferno di diossine e malattie. Comincia qui questo reportage involontariamente stralunato, perché basta fare pochi passi lungo il canale navigabile e osservare, ancorato nel porto militare di Mar Piccolo, l'incrociatore Vittorio Veneto, un pezzo storico, in disarmo, della nostra flotta. Fa strano sapere, un misto di dolore e rassegnazione, che la sua trasformazione in museo storico, progetto da 15 milioni di euro, sarà realizzato, ma a Trieste o a Genova: a Taranto no. Non ci sono i soldi. Gli enti locali tacciono. Sono presi da altri problemi, ultima dei quali la raffica di avvisi di garanzia che la magistratura ha distribuito con generosità ai vertici della classe politica locale, accusata di aver chiuso più di un occhio di fronte alla violazione ripetuta delle norme ambientali da parte dell'Ilva. Ci mancava solo la diffusione di una telefonata tra il presidente della Regione Nichi Vendola e l'ex capataz delle relazioni istituzionali Ilva, Girolamo Archinà, per accelerare ulteriormente il ventilatore che sparge letame sui ruderi di una classe dirigente. Taranto resta la più grande città operaia italiana ma una frazione di cittadinanza ha ormai deciso che l'industria va espulsa da Taranto. Il governo, e la maggioranza silenziosa della città la pensano diversamente, nessuno degli ambientalisti è mai riuscito a spiegare oltre gli slogan in cosa consisterebbe la «riconversione» della città, ma intanto la deindustrializzazione procede per inerzia, persino nelle frontiere della green economy. Mesi fa gli emissari di Rotterdam, arrivati a Taranto per studiare la possibilità di una joint venture a trazione industriale con il porto tarantino, che ha le potenzialità retroportuali più profittevoli del Mediterraneo, sono scappati a gambe levate. Poche settimane fa ha chiuso i battenti la Vestas, multinazionale del fotovoltaico che produceva le turbine per le pale eoliche, e 120 operai sono stati lasciati a casa. Il gruppo Marcegaglia dal 31 dicembre lascerà a casa 140 lavoratori che qui fabbricavano pannelli coibentati e fotovoltaico. Mentre la pluripremiata proprietaria dell'hotel Arcangelo mi prega di scrivere che a Taranto si può fare buon turismo, comprendo che ormai la polvere rossa sputata dallo stabilimento non ha intossicato solo i corpi. «La città va risanata anche nelle coscienze», mi confida un assessore comunale. E ha ragione. Si respira una cattiva aria di contrapposizione e di risentimenti, a Taranto. Odio, paura, un linguaggio di sospetto e di violenza. Qualche giorno fa i ministri dell'Ambiente e della Salute, Orlando e Lorenzin, sono stati accolti dal grido «assassini», accusati da una minoranza livorosa in cui coabitano l'operaismo desindacalizzato e il populismo ambientalista. I contestatori pretendono un «risarcimento» che in altre parole significa fiumi di denaro pubblico distribuiti per coprire l'agonia in punto di morte delle acciaierie e il collasso dei livelli occupazionali. Nessuno che si chieda, nel frattempo, come mai non c'è una sola azienda tarantina che produca manufatti con l'acciaio dell'Ilva. Un paradosso che racconta molto di più delle statistiche terribili sui tumori. La sfiducia verso un'Ilva ecocompatibile è in alcuni casi gridata, in altri conchiusa nel solito scetticismo silenzioso dei meridionali. Eppure è l'unica reale speranza per evitare che la città, che dieci anni fa ha fatto bancarotta tra gli scandali, diventi una Detroit italiana, violentata nella memoria collettiva e sequestrata da un futuro di nuova emigrazione massiccia. La città convinta di essere «il Nord del Sud», è un lontano ricordo. I tempi d'oro sostituiti dai compro-oro. Poli di buona occupazione come i call center di Teleperformance resistono, in un deserto sofferente. Chiudono negozi storici nella centrale via d'Aquino, la squadra di calcio infognata nei campionati di provincia. I bar vicini a Maricentro che non sono stati ingoiati dai cinesi offrono cappuccino e cornetto a 1 euro. I quartieri operai di cui con grazia e dolore racconta Mimmo Argentina nel Vicolo dell'acciaio (Fandango) sono silenziosi, in smobilitazione identitaria. Il turismo, balneare e culturale, è ancora chimera come le parole eccitate di chi assicura di sapere su quali fondali sta la mitica statua di Zeus, alta 18 metri, più grande e antica del colosso di Rodi. «Sarebbe un simbolo incredibile di lancio della candidatura», esclama. Magari non si dovesse ancora discutere dello sfratto dell'istituto musicale Paisiello, o della sorte del museo archeologico la cui ristrutturazione doveva essere conclusa sette anni fa. L'ipotesi di candidare Taranto a capitale della Cultura 2019 poteva essere, finalmente, un volano di buona mobilitazione di energie, idee e denari. Ma anche quest'idea, perseguita da una minoranza virtuosa di intellettuali, si è arenata nella bocciatura dei Beni culturali. Ci sono Lecce e Matera, invece, ancora in pista: alcuni erano convinti che la solidarietà meridionale avrebbe spinto queste città a convergere a sostegno di Taranto che, per tanti anni, aveva accolto manodopera da questi angoli del Sud. Evidentemente, avevano torto.

VENDOLA E L’AMBIENTE SVENDUTO.

Ilva, la telefonata shock di Vendola: risate al telefono per le domande sui tumori. Nel luglio del 2010 il leader di Sel viene intercettato con Girolamo Archinà, il pr della famiglia Riva. "Dica che non mi sono defilato". E dà della “faccia da provocatore” a chi chiedeva spiegazioni sui morti. Per tutta la giornata del 14 novembre 2013 non ha risposto al Fatto, scrive  Francesco Casula e Lorenzo Galeazzi su “Il Fatto Quotidiano”. E’ il 19 novembre 2009. La conferenza stampa di presentazione del “Rapporto ambiente e sicurezza” dell’Ilva è appena terminata. Luigi Abbate, giornalista dell’emittente tarantina Blustar Tv, si avvicina a Emilio Riva, 87enne ex patron dell’acciaio e gli chiede: “La realtà non è così rosea visti i tanti morti per tumore…”. Riva non è abituato a domande scomode. Abbozza una risposta bofonchiando: “Ve li siete inventati” e si salva grazie all’intervento del suo addetto alle relazioni istituzionali Girolamo Archinà, che strappa letteralmente il microfono dalle mani del giornalista. Il video finisce su Youtube e comincia a fare il giro d’Italia. Diversi mesi più tardi, nel luglio del 2010, appena tornato da un viaggio in Cina anche Nichi Vendola lo vede. A mostrarglielo sono stati “degli amici di Roma”, in quei giorni interessati al caso Ilva perché in quei giorni l’azienda era tornata sulle pagine dei giornali a causa della diffusione dei dati dell’Arpa sui livelli allarmanti di benzo(a)pirene a Taranto. Il video della conferenza stampa sarà al centro di una telefonata tra il governatore della Puglia e Archinà, considerato dai pm la “longa manus” dei Riva.  Nell’intercettazione, il governatore di Puglia ride di gusto dicendo ad Archinà di aver apprezzato “lo scatto felino”. Confessa di essersi divertito insieme al suo capo di gabinetto. Definisce una “scena fantastica” l’immagine di Archinà che impedisce al giornalista di intervistare Emilio Riva. Il leader di Sel, ridendo, rivolge anche i suoi “complimenti” ad Archinà. Non solo. Riferendosi al giornalista lo definisce una “faccia di provocatore”. Vendola, che afferma di aver fatto davvero le battaglie a difesa della vita e della salute, suggerisce di “stringere i denti” di fronte a questi improvvisatori “senza arte né parte”. E aggiunge: “Dite a Riva che il presidente non si è defilato”. Oggi Nichi Vendola è tra i 53 indagati dell’inchiesta “Ambiente svenduto”. Per la procura di Taranto, che ha coordinato l’attività investigativa della Guardia di finanza, il leader di Sinistra ecologia e libertà ha fatto pressioni sul direttore generale dell’Arpa Puglia, Giorgio Assennato, perché ammorbidisse il suo atteggiamento nei confronti dell’Ilva. Concussione. Girolamo Archinà, invece, è finito in carcere il 27 novembre 2012. Associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari e omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Sono le ipotesi di reato da cui dovrà difendersi l’ex pr dell’Ilva insieme a Emilio, Fabio e Nicola Riva, all’ex direttore della fabbrica Luigi Capogrosso. Ma non è tutto. Archinà, infatti, è accusato anche di corruzione in atti giudiziari per aver versato una tangente di diecimila euro a Lorenzo Liberti, ex consulente della procura, incaricato di svolgere una perizia sulle emissioni nocive dello stabilimento siderurgico. Nel corso dell’inchiesta è anche emerso come molti cronisti locali (e alcune testate) fossero di fatto a libro paga di Archinà. Soldi per nascondere lo scandalo inquinamento e, soprattutto, per non fare domande. 

Per tutta la giornata di giovedì 14 novembre i cronisti de Il Fatto Quotidiano hanno provato a contattare telefonicamente Vendola e i suoi collaboratori. Il cellulare del governatore ha sempre suonato a vuoto. E nonostante l’invio di sms, il leader di Sel non ha mai risposto nè richiamato. Diventa pubblico l'audio della scandalosa telefontata tra Nichi Vendola e Girolamo Archinà, ex responsabile delle relazioni esterne dell'Ilva. "Complimenti, io e il mio capo di gabinetto siamo stati a ridere per un quarto d’ora”, dice il presidente della regione Puglia parlando dello "scatto felino" con cui Archinà rubò il microfono a un giornalista che chiedeva a Emilio Riva spiegazioni sui morti di tumore causati dalle emissioni dell'Ilva. Video che, come riporta il Fatto Quotidiano, risale al 2009, ma viene diffuso quando a Taranto scoppia il caso sulle emissioni di benzo(a)pirene, scrive “Libero Quotidiano”. Ma andiamo con ordine. E' il 29 maggio 2010 quando a Taranto viene indetta una mobilitazione sul benzo(a)pirene e centinaia di persone assediano il Municipio.  I manifestanti richiedono uno stop tecnico della cokeria per valutare l'incidenza nel quartiere Tamburi del benzo(a)pirene da essa prodotto. I dati sono impressionanti: il 98% del benzo(a)pirene che si respira nel quartiere Tamburi di Taranto avrebbe come sorgente l'Ilva. L'inchiesta della Procura pone l'attenzione - attraverso le intercettazioni - proprio su questo documento delicato dell'Arpa. Due giorni dopo la diffusione di tale studio accade qualcosa di particolare. Lo spiega l'ex magistrato Ferdinando Imposimato che scrive: "Dalle carte dell'inchiesta risulterebbe che 'l'avvocato Francesco Manna, capo di gabinetto del governatore Vendola, il 6 luglio 2010, e l'assessore Nicola Fratoianni sono stati incaricati di frantumare il direttore generale dell'Arpa Puglia, Giorgio Assennato, che aveva osato diffondere dati allarmanti sul superamento delle soglie di inquinamento ambientale dello stabilimento e sugli effetti catastrofici sulla popolazione'. Il governatore Vendola, indagato dalla Procura per disastro ambientale, nega di avere interferito indebitamente nella vicenda". La telefonata tra Vendola e Archinà fa seguito a tutto ciò. Ecco l'audio, riportato dal Fatto Quotidiano.it, e la trascrizione della chiamata.

Ne riportiamo il contenuto: 

Archinà - Pronto?

Vendola - Sono Nichi Vendola.

A - Oh come va presidente...

V - Sono per dire una cosa seria anche se mi… sono molto colpito da una scena che ho appena visto ora i miei amici mi hanno fatto vedere a Roma una conferenza stampa e un’immagine, uno splendido scatto felino. [Risata]

A - [Risata]

V - Non potevo riprendermi. [Risata]. Non potevo riprendermi, ho visto una scena fantastica Dica a

A - [Risata]

V - Col mio capo di gabinetto siamo rimasti molto colpiti siccome ho capito quel è la situazione volevo dire che mettiamo subito in agenda un incontro con l’ingegnere.

A - Mh mh.

V - Archinà no! state tranquilli, non è che mi sono scordato.

A - No assolutamente.

V - Come fare ho paura che...

A - No ero sicuro.

V - Ho paura che metto la faccia mia e si possono accendere ancora di più i fuochi.

A - No ero siocuro, soltanto che sta degenerando veramente sta degenerando…

V - I vostri alleati principali in questo momento, lo voglio dire, sono quelli della Fiom.

A - Lo so.

V - Quelli più preoccupati, mi chiamano 25 volte al giorno.

A - E lo so e lo so lo lo so purtroppo i miei timori del recente passato si stanno dimostrando sempre di più sempre di più non solo l’Ilva ma anche altre persone sono nell’occhio del ciclone, ma tutto poggiato su una scivolata del nostro stimato amico direttore [Assennato, ndr]

V - Vabbè vabbè noi dobbiamo fare ognuno la sua parte e però dobbiamo sapere che a prescindere da tutti i procedimenti le cose le iniziative...

A - Se se

V - L’Ilva è una realtà produttiva.

A - E lo so infatti.

V - Cui non possiamo rinunciare e quindi dobbiamo vederci dobbiamo...

A - Certo certo...

V - Rifare garanzie, volevo dirglielo perché poteva chiamare Riva e dirgli che il presidente non si è defilato.

A - Vabbè no ma ne eravamo assolutamente certi.

Quando erano gli altri a ridere - Eppure dimostrava ben altro rigore morale, Vendola, quando a ridere delle tragedie altrui erano "gli amici dei nemici". Nel febbraio 2010, nell'ambito dell'inchiesta su presunti casi di corruzione negli appalti per il G8 (indagato l'allora capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso), finirono sui giornali le intercettazioni dell'imprenditore napoletano Francesco Piscicelli "se la rideva dentro al letto" per il terremoto de L'Aquila. Ecco, in questa occasione il governatore della Puglia si diceva pronto a trarre conclusioni tranchant che non lasciavano spazio a interpretazioni. "Ci sono responsabilità politiche che prescindono dalle responsabilità penali - tuonava Nichi -. Credo che al di là della condizione personale di Bertolaso in questa inchiesta, la Protezione civile abbia subito un'onta che merita conseguenze politiche serie". Un duro, insomma, con gli scivoloni altrui.

Intercettazione, Vendola rideva per le domande sui tumori dell'Ilva. Spunta una telefonata imbarazzante tra il governatore della Puglia e Girolamo Archinà, responsabile delle relazioni istituzionali dell'Ilva, scrive Luca Romano su “Il Giornale”. Spunta un'intercettazione decisamente imbarazzante per Nichi Vendola. Risale al luglio 2010. Il governatore della Puglia parla al telefono con Girolamo Archinà, responsabile delle relazioni istituzionali dell'Ilva. Si parla di tumori e dei dati relativi all'inquinamento, con la conseguente forte preoccupazione di lavoratori e sindacati.

Vendola se la ride di gusto... Ma facciamo un passo indietro per capire meglio. Come ricostruisce Il Fatto quotidiano il governatore della Puglia è appena rientrato da un viaggio in Cina. I suoi collaboratori gli fanno vedere un video che sta spopolando su Youtube: risale al 19 novembre 2009, in occasione della presentazione del rapporto ambiente e sicurezza dell'Ilva. Un giornalista di Taranto, Luigi Abbate, si avvicina all'industriale Emilio Riva per contestare i dati: "La realtà non è così rosea visti i tanti morti per tumore”. Riva tergiversa un po', alla fine replica "ve li siete inventati". La situazione rischia di infiammarsi, con il giornalista che lo incalza. A quel punto interviene Archinà: strappa di mano il microfono al giornalista "impertinente".  L'Ilva è sulle pagine di tutti i giornali a causa della diffusione dei dati dell’Arpa sui livelli allarmanti di alcune sostanze inquinanti. Il video della conferenza stampa - e dello "scippo" del microfono - finisce al centro di una telefonata tra il governatore della Puglia e Archinà, che i pm la “longa manus” dei Riva. Nell’intercettazione telefonica (Vendola è tra i 53 indagati dell’inchiesta "Ambiente svenduto" della Procura di Taranto) il governatore ride dicendo ad Archinà di avere molto apprezzato "lo scatto felino" con cui il suo interclocutore, come si vede nel video, toglie il microfono al giornalista. "Una scena fantastica", prosegue Vendola, facendo addirittura i complimenti ad Archinà. Ma le cose ancor più imbarazzanti vengono dopo. Riferendosi al giornalista, Vendola lo definisce "faccia di provocatore". E suggerisce al suo interclocutore di "stringere i denti" di fronte a questi improvvisatori "senza arte né parte". E si congeda da lui - oggi considerato l'eminenza grigia della fabbrica, il "maestro degli insabbiatori" - con una raccomandazione: "Dite a Riva che il presidente non si è defilato".

Oggi però Vendola scarica ogni colpa sull'Ilva: "Il torto maggiore - ha detto ieri sera rispondendo ad una domanda del direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli, ad un convegno sul Sud all’Ateneo di Bari - è legato alla storia dell’industria, che è stata lungamente indifferente alla tutela della salute e dell’ambiente. Non so se è stato un reato. Se è stato un reato lo confesso" ha aggiunto Vendola riferendosi alla circostanza di essere finito tra gli indagati nell’inchiesta sull’Ilva di Taranto. "Per me - ha aggiunto - quello che la Corte Costituzionale ha chiamato dovere precipuo di ogni pubblico amministratore, cioè la contemperanza degli interessi, è stata la bussola con cui ho agito. E io rivendico con orgoglio questo lavoro e non me ne pento".

Vendola annuncia querela. Dopo il clamore suscitato dalla telefonata, Vendola ha dato mandato ai propri avvocati di sporgere querela ai responsabili dell’articolo pubblicato sul sito "Il Fatto quotidiano" di oggi e ripreso da altre testate giornalistiche web che hanno ripreso la notizia. "Nell’articolo si racconta, in modo volgarmente strumentale - si spiega in una nota - di presunte risate del presidente suscitate dalle domande sulle morti per cancro. Come tutti invece possono tranquillamente constatare, il presidente era solo rimasto colpito dallo specifico episodio in cui Archinà (ex responsabile relazioni istituzionali dell’Ilva ndr), con un salto improvviso, si era avvicinato ad un giornalista che stava intervistando Riva. È quindi solo lo scatto di Archinà ad aver suscitato il sorriso di Vendola e non certamente il riferimento alla tragedia delle morti per cancro a Taranto. Su questo tema - conclude la nota della Regione - si registra invece, come si può constatare ascoltando la telefonata e non solo, l’attenzione del presidente Vendola testimoniata dalla sua storia politica e personale".

Chi è causa del suo Vendola pianga se stesso, anzi, pianga quell’altro, pianga il Vendola segreto che tresca al telefono e soprattutto si sganascia coi maledetti Riva, i signori delle acciaierie, quelli che secondo la vulgata hanno avvelenato Taranto dopo averle regalato un’economia, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. È spuntata un’intercettazione del 2010 in cui Vendola telefona a Girolamo Archinà (pr della famiglia Riva) e ostenta un cinismo che non ti saresti aspettato dal più smaliziato andreottiano. È il luglio 2010 e Vendola ha appena visto un video in cui un giornalista si avvicina al patron dell’Ilva e gli accenna ai «tanti morti per tumore» legati all’Ilva, dopodiché si vede un tizio che strappa letteralmente il microfono dalle mani del giornalista: è Girolamo Archinà, addetto alle relazioni istituzionali dell’azienda e, giustappunto, telefonista del compiaciuto Vendola: che «scatto felino» quell’Archinà - si complimenta il governatore - e che risate si è fatto a vedere il video, bravo Archinà, così si fa, e poi quel giornalista, insomma, «che faccia da provocatore». Ora: c’è da scandalizzarsi? È così grave che un politico rida in privato - crede - per una scena che nella sua demenzialità può effettivamente far ridere? No, non ci sarebbe da scandalizzarsi: ha riso di un microfono rubato con sfacciataggine, non di una corsia di oncologia. Il problema è la doppiezza vendoliana. Il problema è che il politico è appunto Nicola Vendola: è lui che negli anni si è costruito un’icona da macchietta della più lacrimevole indignazione esistenzial-politica, è lui che a fronte di comportamenti analoghi da parte di un avversario avrebbe piantato un casino e scagliato drammatici appelli contro l’arroganza padronale, contro il vilipendio della libertà di stampa, contro i vituperatori dell’ambiente,  varie e sinistroidi: tutto l’armamentario, insomma, regolarmente imbracciato nelle occasioni pubbliche e non intercettate, se possibile. Invece chi ti abbiamo? Eccoti uno sfuggente doroteo che suggerisce alla classe padronale di «stringere i denti», che definisce i giornalisti «improvvisatori senza arte né parte», che chiede di mandare ai Riva messaggi inequivocabili: «Dite loro che non mi sono defilato». No, Vendola non si defilerà: ne converranno i magistrati che lo accuseranno di concussione sostenendo che abbia fatto pressioni sull’agenzia per l’ambiente perché fosse morbida con l’Ilva, mentre lo strappatore di microfoni, Archinà, finirà direttamente in galera con accuse incredibili: tutto per un’inchiesta che puzza quanto Taranto, e che non va scagliata contro Vendola anche se lui lo farebbe subito contro chicchessia. È il Paese in cui un ministro fu costretto alle dimissioni per una battuta su Marco Biagi, questo, ma è anche il Paese di ipocrisie e voltafaccia impressionanti. Nelle ore in cui la telefonata di Vendola già circolava per il web, infatti, il medesimo tuonava contro il ministro Cancellieri e diceva che le sue telefonate «presentano un quadro di assoluta inopportunità». Doppiezza vendoliana e un quadro clinico inguaribile. Terminale, se non suonasse di cattivo gusto.

AMBIENTE SVENDUTO: 53 PRESUNTI RESPONSABILI. VENDOLA, STEFANO E GLI ALTRI. LA POLITICA DI SINISTRA E LA GRANDE INDUSTRIA. TUTTI DENTRO, CAZZO! SI', MA QUANDO?

L’avviso di concluse indagini dell’inchiesta ILVA di Taranto: atto di guerra contro la Sinistra Radicale? Si chiede e scrive Michele Imperio su “La Notte On Line”. L’avviso di concluse indagini nella vicenda Ilva di Taranto sembra più un atto di guerra della Magistratura tarantina contro la sinistra sindacale e radicale della intera Puglia piuttosto che un atto giudiziario conclusivo di un’indagine. La Procura di Taranto ha incriminato tutti i principali esponenti di questo segmento politico della regione dal governatore Niky Vendola (SEL) agli assessori Nicola Frantojanni (SEL) Lorenzo Nicastro (IDV) al sindaco di Taranto Ippazio Stefano (Sinistra Civica). Insomma non manca nessuno.
Verifichiamo il capo d’accusa. Secondo l’accusa il direttore dell’Arpa Giorgio Assennato ed i suoi funzionari
Blonda e Giua avevano proposto nel giugno 2010 di ridurre e rimodulare sensibilmente il ciclo produttivo dello stabilimento siderurgico in virtù dei risultati preoccupanti dei campionamenti sulla qualità dell’aria che avevano evidenziato valori in ribasso della diossina ma valori elevati di benzoapirene. A questo punto il presidente Vendola sarebbe intervenuto per indurre Assennato a modificare la sua posizione sull’Ilva minacciandolo, in caso contrario, di non confermarlo più nel suo incarico di direttore dell’Arpa (in scadenza a febbraio 2011). Vendola lo avrebbe quindi indotto ad ammorbidire la sua posizione nei confronti dell’Ilva permettendo all’acciaieria tarantina di continuare a produrre ai livelli pregressi. In un incontro del 22 giugno 2010 ala presenza degli assessori Fratoianni e Losappio, il capo Gabinetto alla Regione Francesco Manna ed il dirigente Davide Pellegrini il presidente Vendola, dopo aver fortemente criticato l’operato dell’Arpa, avrebbe ribadito che in nessun caso l’attività produttiva dell’Ilva avrebbe dovuto subire ripercussioni. Quasi un mese dopo, nel corso di una riunione con Emilio e Fabio Riva, il direttore Capogrosso ed Archinà, Vendola avrebbe convocato Assennato lasciandolo attendere fuori dalla stanza al fine di umiliarlo. In quell’occasione Assennato sarebbe stato ammonito dal dirigente all’Ambiente Antonello Antonicelli, a non utilizzare i dati tecnici «come bombe carta che poi si trasformano in bombe a mano». In sostanza Vendola avrebbe fatto direttamente e indirettamente pressioni su Assennato, perché si ammorbidisse nei confronti del siderurgico tarantino. Il suo intervento avrebbe permesso all’Ilva di neutralizzare le ostilità del direttore generale dell’Arpa il quale, secondo quanto riferito in un intercettazione captata dai militari, dopo l’intervento di Vendola “si sarebbe molto… responsabilizzato”. Una “responsabilizzazione” che spinge l’avvocato Franco Perli a suggerire a Fabio Riva di non intervenire oltre per la sua sostituzione perché “potremmo trovarcene anche uno molto peggio”. Ora il pool dei magistrati tarantini composto dai magistrati Sebastio, Argentino, Buccoliero, Cannarile, Epifani e Graziano (quest’ultimo figlio di Ferdinando Graziano direttore sanitario dell’ASL di Taranto del 1993 al 2003) danno per veri questi fatti e li interpretano come una concussione del Vendola e di altri tecnici della Regione Puglia in danno dell’Assennato onde decapitare (a favore di altre forze politiche? il P.D.?) tutti i vertici politici e amministrativi della Regione Puglia della Provincia e del Comune di Taranto. E così sono stati incriminati anche l’assessore regionale all’ambiente l’ex magistrato Lorenzo Nicastro (IDV) , l’ex assessore alle politiche giovanili Nicola Fratoianni (SEL) con l’accusa di favoreggiamento a sostegno di Vendola. Dello stesso reato dovrà rispondere anche il direttore generale dell’Arpa il preteso concusso Giorgio Assennato e il direttore scientifico Massimo Blonda. Secondo il pool degli inquirenti, i vertici della Regione Puglia e dell’Arpa nell’interrogatorio dinanzi ai finanzieri come persone informate sui fatti, avrebbero negato le pressioni del governatore tentando così di coprire l’operato concussorio del Vendola. Voglio però ricordare che la concussione presuppone anche un interesse patrimoniale o altra utilità personale in chi la fa che qui non si vede. Neanche da lontano. Ma non è tutto! Perché nell’ultimo atto delle indagini preliminari spuntano anche i nomi di Donato Pentassuglia (P.D.), accusato di favoreggiamento nei confronti di Archinà, e quelli del capo di Gabinetto Francesco Manna, del dirigente del settore Ambiente Antonello Antonicelli, dell’ex direttore dell’area Sviluppo economico della regione Puglia, Davide Filippo Pellegrino. Per i pm, insomma, l’intero apparato politico e istituzionale della Regione Puglia si sarebbe messo al servizio dell’Ilva, insieme agli apparati politici e amministrativi delle amministrazioni provinciali e comunali di Taranto tutti governati da SEL o dalla Sinistra Sindacale. Tornano a questo proposito come imputati nell’atto conclusivo delle indagini i nomi dell’ex presidente della provincia di Taranto, Gianni Florido, ex segretario provinciale della CISL e dell’ex assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva arrestati entrambi a maggio scorso e tuttora detenuti con l’accusa di aver fatto pressione su alcuni dirigenti della Provincia perché concedessero all’Ilva autorizzazioni illegittime con prescrizioni all’utilizzo di alcune discariche interne. Però queste stesse autorizzazioni sono poi state concesse (e per giunta senza prescrizioni) con un decreto del governo. Uno schiaffo per chi legge fra le righe del ministro dell’ambiente Andrea Orlando al dott. Franco Sebastio Procuratore capo della Repubblica di Taranto. E’ stato incriminato anche il sindaco di Taranto, Ippazio Stefano, oltre di una denuncia contro l’Ilva, ch e quindi sapeva e che non ha messo in atto alcuna misura per bloccare i danni alla salute dei tarantini. Ma a suo tempo il sindaco Di Bello sequestrò le cokerie e non concluse niente. Che cosa doveva fare dunque Ippazio Stefano?  Le accuse di concussione senza finalità patrimoniale contro Vendola avrebbero avuto bisogno di un conforto della parte lesa Giorgio Assennato. A questo scopo Assennato è stato tenuto sotto torchio per ben otto ore dai Magistrati di Taranto. Senonchè questo indispensabile riscontro non c’è stato. Al contrario Assennato respinge la ricostruzione dei fatti del P.M. e per questo motivo è stato incriminato anche lui di falsa testimonianza. Neanche Robespierre sarebbe arrivato a tanto. Intervistato dal blog Affaritaliani.it e dal Quotidiano di Lecce il prof. Assennato, dopo aver premesso di non aver più alcuna fiducia nei Magistrati di Taranto, dice: “Non ho mai ricevuto pressioni né tantomeno intimidazioni da parte del governatore Niky Vendola. E’ ovvio che ci siano state delle discordanze tra di noi, perché io da direttore dell’Arpa devo tutelare salute e ambiente, mentre lui da Presidente deve tutelare una serie di interessi e tra queste oltre la salute e l’ambiente, anche i posti di lavoro. Ma questo non significa che ci siano state intimidazioni nei miei confronti. Per niente. Assennato nega pure di essere stato lasciato per lungo tempo in attesa di essere ricevuto per essere mortificato. Il prof. Giorgio Assennato inquadra il problema giuridico molto meglio di come non fanno i Magistrati tarantini. Parlo al profano: il nostro ordinamento penale è di stampo soggettivistico: questo significa che per la configurazione di un reato le norme in vigore non ritengono sufficiente l’astratta configurazione di una condotta delittuosa (nel caso di specie opporsi a una drastica riduzione della produzione per ridurre le emissioni di benzoapirene) occorre anche la partecipazione della volontà ossia il dolo. Vendola assumeva quegli atteggiamenti perchè era al soldo dei Riva e intendeva concorrere all’inquinamento da benzoapirene? Certamente no. Vendola voleva semplicemente da Assennato una tolleranza sin quando le procedure antinquinamento allora in corso (sistema dell’urea elettrofiltri ai camini ecc.) non si fossero completate. Esattamente quella stessa tolleranza che poi è stata concessa dallo Stato per tre anni sotto forma di moratoria dalle norme ambientali concessa all’Ilva di Taranto finchè non si fossero concluse le procedure antinquinamento e ratificata dalla Corte Costituzionale. E allora la condotta di Vendola, ammesso pure che sia stata effettivamente quella che ipotizzano i P.M., può anche essere reprensibile sotto il profilo morale e politico, ma non è reato. Che cosa doveva fare Vendola? Chiudere l’Ilva e mettere sulla strada 40.000 persone come voleva fare a un certo punto della vicenda il Procuratore Capo della Repubblica di Taranto Franco Sebastio? Certamente no. Perché era doveroso da parte di Vendola tutelare l’ambiente (e il problema era in quel tempo molto attenzionato dalla Giunta Regionale) ma anche l’occupazione. La legge anti-diossina che ha imposto all’Ilva di scendere a meno 0,3 nanogrammi di diossina per le emissioni di diossina dai camini (quando in passato era addirittura di 300 nanogrammi) è sua. La stessa selezione e poi la conferma di un soggetto a detta di tutti incorruttibile e rigoroso come il prof. Giorgio Assennato ai vertici dell’Arpa è sua. E allora? Piuttosto voglio osservare come sia la terza volta che in pochi anni Vendola finisce sotto processo per incriminazioni quanto meno discutibili.

A Bari la Procura Distrettuale Antimafia (che non c’entra niente con le indagini sulla sanità) lo aveva imputato già due altre volte perché Vendola voleva mettere dei medici valorosi e capaci a gestire reparti ospedalieri al posto di medici selezionati dalla Massoneria. Nell’inchiesta di Bari ci sono in questo senso alcune intercettazioni inquietanti: quella fra lo stesso Vendola e Alberto Tedesco in cui Vendola rinfaccia ad Alberto Tedesco di essersi sottomesso alla Massoneria nella nomina dei Primari ospedalieri oppure quella fra Michele Emiliano e Niky Vnedola in cui il sindaco di Bari scongiura Vendola di non sostituire Tedesco dalla guida della Sanità: se lo farai – dice – il Potere Legale e il Potere Illegale ti massacreranno. Da chi è composto questo Potere Legale e questo Potere Illegale che dominano la Regione Puglia e che volevano massacrare Niky Vendola se avesse tolto Tedesco dalla Sanità? In che senso la Massoneria influenza le nomine dei primari ospedalieri pugliesi e quelle dei direttori amministrativi e sanitari? Ecco, a noi piacerebbe che con la stessa solerzia con cui i Magistrati tarantini hanno indagato sulle (inesistenti) concussioni di Vendola e di Florido o sulle controverse false testimonianze di politici e funzionari della Regione Puglia, indagassero anche sulle ingerenze della Massoneria sulle nomine dei primari ospedalieri e dei direttori amministrativi e sanitari delle ASL e su questo Potere Legale e questo Potere Illegale che vanno a braccetto fra di loro e dominano la Regione Puglia. E che forse in questo momento stanno cercando di sputtanare Vendola e tutta la Sinistra Radicale per far spazio un domani a qualche leggendaria figura di alfiere dell’ambientalismo dei buoni che si batte da Robin Hood contro l’attività inquinatrice e concussoria del lavorismo dei cattivi. Domanda: Lo faranno mai?

«I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra». L’affondo del presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce, sui tanti giudici che hanno lasciato la toga per intraprendere la strada della politica, non vale per Taranto. Nel capoluogo ionico, infatti, non solo nessun magistrato compare nelle liste delle prossime elezioni politiche, ma c’è addirittura chi ha «garbatamente» declinato l’offerta. Non un nome qualunque: la scelta del Partito democratico era ricaduta su Franco Sebastio, procuratore capo al centro dell’attenzione politica e mediatica per la vicenda Ilva, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

Procuratore Sebastio, si può giocare a carte scoperte: il senatore Alberto Maritati alla Gazzetta ha ammesso di averle manifestato l’idea del Partito democratico di averla in lista per il Senato...

«Io conosco il senatore Maritati da tempo, da quando era pretore a Otranto. Siamo amici e c’è un rapporto di affettuosa stima reciproca. Ci siamo trovati a parlare del più e del meno... É stato un discorso scherzoso, non ricordo nemmeno bene i termini della questione».

Quello che può ricordare, però, è che lei ha detto no perché aveva altro da fare...

«Mi sarà capitato di dire, sempre scherzosamente, all’amico e all’ ex collega che forse ora, dopo tanti anni, sto cominciando a fare decentemente il mio lavoro. Come faccio a mettermi a fare un’attività le cui caratteristiche non conosco e che per essere svolta richiede qualità elevate ed altrettanto elevate capacità? É stato solo un discorso molto cordiale, erano quasi battute. Sa una cosa? La vita è così triste che se non cerchiamo, per quanto possibile, di sdrammatizzare un poco le questioni, diventa davvero difficile».

«Candidare il procuratore Franco Sebastio? Sì, è stata un'idea del Partito democratico. Ne ho parlato con lui, ma ha detto che non è il tempo della politica». Il senatore leccese Alberto Maritati, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”, conferma così la notizia anticipata dalla Gazzetta qualche settimana fa sull’offerta al magistrato tarantino di un posto in lista per il Senato.

Senatore Maritati, perchè il Pd avrebbe dovuto puntare su Sebastio?

«Beh, guardi, il procuratore è un uomo dello Stato che ha dimostrato sul campo la fedeltà alle istituzioni e non solo ora con l'Ilva. Possiede quei valori che il Pd vuole portare alla massima istituzione che è il Parlamento. Anche il suo no alla nostra idea è un esempio di professionalità e attaccamento al lavoro che non sfocia mai in esibizionismo».

Qualcuno, però, avrebbe potuto pensare che il Pd a Taranto, colpito dall’inchiesta «Ambiente svenduto», stesse tentando di recuperare terreno...

Assolutamente no. Guardi nemmeno il segretario regionale Sergio Blasi era a conoscenza di questa storia. Perchè non è stata una proposta formale. A Roma qualcuno mi ha detto “e se Sebastio si candidasse con noi?”. In tutta sincerità le dico che io, da vecchio magistrato, ho avuto le mie perplessità perchè qualcuno avrebbe potuto dire che che per colpa del Pd, Sebastio avrebbe dovuto lasciare l'inchiesta sull'Ilva nel momento cruciale per andare a fare campagna elettorale. Ma è rimasta solo un’idea. E comunque mi permetta di dire che il Pd ha sempre fatto quadrato intorno alla magistratura e al lavoro che deve essere ripristinato nel rispetto delle regole. In questo momento auspichiamo un dialogo fra attività giudiziaria e di Governo per risolvere la questione. Gli elettori di Taranto dovrebbero rafforzare il Pd perchè è stato l'unico a scendere in campo».

In ogni caso, Sebastio ha rifiutato...

«La risposta è stata garbatissima. Mi ha detto che siccome era già al lavoro non c’era la possibilità di farne altri. Per questo ho sentito il dovere di elogiarlo pubblicamente in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario a Lecce. Ritengo che le parole del procuratore Franco Sebastio siano degne di grande rispetto e considerazione.

«Non ho nessuna fiducia nella magistratura di Taranto. Mi hanno rivolto una accusa infamante. Ne prendo atto, la respingo al mittente e non ho più nulla da aggiungere». Non si placa la furia di Giorgio Assennato, il direttore di Arpa Puglia, intervistato da Roberto Flavi su “Il Quotidiano di Puglia”, che si è ritrovato indagato nell’inchiesta per il disastro ambientale contestato all’Ilva di Taranto. Anche a lui è stata notificata un’informazione di garanzia. Risponde di favoreggiamento, ma l’accusa che lo ha mandato in bestia è quella che in realtà è rivolta a Nichi Vendola. Il governatore pugliese è accusato di concussione. Secondo i pm avrebbe fatto capire ad Assennato di ammorbidire le sue posizioni sull’Ilva, altrimenti non lo avrebbe confermato nel ruolo di direttore dell’agenzia regionale. Quindi Assennato si sarebbe piegato pur di salvare la sua poltrona. Ed è proprio questa prospettazione che ha mandato letteralmente in bestia il direttore di Arpa.

Allora professore, la legge le mette a disposizione venti giorni per chiedere di essere interrogato. Si presenterà dinanzi ai magistrati di Taranto?

«Non ci penso nemmeno. Non mi sento tutelato e non ho bisogno di respingere quello che ho già negato in un confronto durato oltre otto ore e mezzo durante le indagini. Sono stato chiarissimo allora, per quanto mi riguarda».

Quindi lei conferma di non aver mai ricevuto pressioni dal presidente Vendola?

«Bisogna capire cosa si intende per pressione. Io per istituto devo fare attenzione alla salute e all’ambiente. Vendola chiaramente ha anche il problema di oltre undicimila posti di lavoro da salvaguardare. È chiaro, quindi, che si ha un approccio diverso. Ma io ho sempre fatto la mia parte in tutta coscienza in difesa della salute dei tarantini. E lo urlo con tutte le mie forze».

Quindi lei non ha mai percepito, anche velatamente, la minaccia di essere silurato?

«Assolutamente no. L’ho detto anche durante quelle otto ore di un interrogatorio che ritengo viziato da incostituzionalità. Perché visto che gli inquirenti non mi hanno creduto, dovevo essere informato in quel momento di essere indagato e avevo il diritto di nominare un avvocato. Non è avvenuto e si è violata quella costituzione che anche mio padre ha contribuito a redigere».

Quindi lei non ha mai ammorbidito la sua posizione nei confronti di Ilva?

«Ci mancherebbe. Non sono un venduto. Non sono stato a libro paga dei Riva. E posso aggiungere che l’Ilva non mi ha pagato mai neanche un pranzo. Quando per dovere di istituto mi sono trovato in appuntamenti conviviali ho sempre preteso ed ottenuto di pagare la mia parte. Perché credo che sia giusto agire così. Questo è Giorgio Assennato, altro che il bandito che viene dipinto in questa indagine».

Non è vero quindi che lei fece una lunga anticamera in Regione mentre era in corso una riunione con i Riva?

«Tutti sanno che non faccio anticamera. E che al massimo attendo quindici minuti per essere ricevuto. Poi vado via. A Bari lo possono confermare anche gli uscieri».

C’è una intercettazione in cui l’avvocato Perli racconta a Fabio Riva del suo cambiamento di comportamento. E dice che lei nel salutarlo lo aveva anche abbracciato. Quell’abbraccio è interpretato dagli investigatori come una sorta di sottomissione.

«Un conto è la cordialità. Altro discorso sono i fatti. Il lavoro fatto da Arpa in questi anni non è in discussione. Ed è questo che conta e che va giudicato. Chiacchiere e abbracci lasciano il tempo che trovano».

I 53 sono sotto il vaglio della magistratura, ma per quanti di loro conseguirà la condanna? Tra eventuali amicizie o prossimità ideologiche, prescrizioni, estraneità ai fatti, chi pagherà per davvero alla faccia dei tontoloni tarantini?

Un indagato celebre, molto celebre in Puglia. Il governatore: Nichi Vendola nel mirino della procura. L'accusa per cui si indaga è quella di disastro ambientale a carico dell'Ilva. Lo stesso è per Ippazio Stefano, sindaco di Taranto. Una domanda: Nichi ed Ippazio ora, si dimetteranno?

Cinquantatrè indagati (50 persone fisiche e le società Ilva, Riva Fire e Riva forni elettrici) per 28 capi di imputazione, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. C'è anche il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola e presidente del SEL, tra gli indagati dell’inchiesta per disastro ambientale a carico dell’Ilva. Secondo quanto indicato negli atti dell’accusa nei mesi scorsi Vendola avrebbe tentato di "far fuori" il dg di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, figura sgradita all’azienda. Militari della Guardia di Finanza di Taranto hanno iniziato a notificare in Puglia e in altre zone d’Italia l’avviso di chiusura delle indagini preliminari a 53 indagati dell’inchiesta per disastro ambientale a carico dell’Ilva. Il provvedimento riguarda dirigenti, funzionari e politici di sinistra, tra cui il sindaco di Taranto, Ippazio Stefano di SEL, formalmente indagato dall’aprile 2013, quando fu firmata la proroga di 6 mesi dell’inchiesta Ambiente svenduto, l’ex assessore regionale alle Politiche giovanili e attuale deputato di Sel Nicola Fratoianni, l'attuale assessore regionale all’Ambiente ed ex magistrato Lorenzo Nicastro (Idv), il consigliere regionale del Pd Donato Pentassuglia e il dg dell’Arpa Giorgio Assennato. La Procura chiude ufficialmente l’inchiesta «Ambiente svenduto», notificando l’avviso di conclusione delle indagini preliminari dopo poco più di 3 anni trascorsi, tra perizie, sequestri e arresti, a caccia dei responsabili del disastro ambientale che ha avvelenato l’aria, i terreni e i mari di Taranto con la diffusione, illegale e incontrollata, dei veleni prodotti dall’area a caldo dello stabilimento siderurgico Ilva. Nelle 56 pagine firmate dal procuratore capo Franco Sebastio, dall’aggiunto Pietro Argentino e dai sostituti Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile, Raffaele Graziano e Remo Epifani, viene tratteggiato il sistema che ha consentito alla famiglia Riva di tirare il collo alla acciaieria rilevata dallo Stato nel 1995, macinando utili miliardari sistematicamente occultati nei paradisi fiscali di mezzo mondo (oppure, a richiesta, utilizzati per avventure senza ritorno come quella dei capitani coraggiosi per la nuova Alitalia) e risparmiando gli 8 miliardi di euro necessari per ammodernare gli impianti e non renderli, come accertato da una perizia terza, fonte di malattie e morte per operai e cittadini.

L’associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele suoi luoghi di lavoro, alla corruzione, al falso e all’abuso d’ufficio viene contestata al patron Emilio Riva, ai figli Fabio (ancora latitante a Londra) e Nicola, all’ex direttore del siderurgico Luigi Capogrosso, all’ex pr Girolamo Archinà, all’avvocato Francesco Perli (l’unico del gruppo a non essere stato arrestato), ai fiduciari del gruppo Lafranco Legnani, Alfredo Ceriani, Giovanni Rebaioli, Agostino Pastorino e Enrico Bessone. Per concorso nei singoli reati-fine, invece, finiscono nei guai altri dipendenti e consulenti del gruppo come l’ex prefetto di Milano Bruno Ferrante, chiamato alla presidenza dell’Ilva pochi giorni prima del sequestro del luglio 2012, l’ex direttore Adolfo Buffo, i capi reparto Marco Andelmi, Angelo Cavallo, Ivan Dimaggio, Salvatore De Felice, Salvatore D’Alò, Cesare Corti, Giuseppe Casartelli, Vincenzo Dimastromatteo, Sergio Palmisano, e i consulenti della Procura Lorenzo Liberti e Roberto Primerano. Quattro indagati (con l’ex direttore Adolfo Buffo) finiscono nell’inchiesta madre per due incidenti mortali avvenuti nel corso dell’indagine, incidenti costati la vita a Claudio Marsella (30 ottobre 2012) e Francesco Zaccaria (28 novembre 2012). Si tratta dell’attuale direttore del siderurgico Antonio Colucci, dei capi area e reparto Cosimo Giovinazzi e Giuseppe Dinoi, dell’ispettore Arpa Giovanni Raffaelli.

Poi c’è il sistema esterno allo stabilimento. La politica tarantina, con il presidente della Provincia Gianni Florido, accusato di concussione ai danni di due dirigenti dell’ente in concorso con l’assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva (il suo primo avvocato Donato Perrini risponde di rivelazione di segreto d’ufficio) e l’ex direttore Vincenzo Specchia. Il sindaco Ezio Stefàno, indagato per omissione d’atti d’ufficio perché presenta un esposto contro l’Ilva, denunciando i danni arrecati all’ambiente, ma nulla fa per impedirli pur avendone la possibilità. E la Regione Puglia, con il governatore Nichi Vendola, indagato per concorso in concussione con Fabio Riva, l’avvocato Franco Perli, Luigi Capogrosso e Girolamo Archinà, con l’accusa di aver condotto a miti consigli il direttore dell’Arpa, Giorgio Assennato, subordinando la sua conferma all’ammorbidimento dei toni sull’Ilva. Per aver coperto Vendola durante gli interrogatori, è scattata l’accusa di favoreggiamento per l’assessore Lorenzo Nicastro, il parlamentare Nicola Fratoianni, i dirigenti regionali Davide Pellegrino, Antonello Antonicelli, Francesco Manna, lo stesso Assennato e il suo collaboratore Massimo Blonda. Archinà, inoltre, avrebbe goduto della complicità del presidente della commissione ambiente Donato Pentassuglia (favoreggiamento), del parroco don Marco Gerardo (favoreggiamento), del luogotenente Giovanni Bardaro e dell’ispettore Aldo De Michele (rivelazione del segreto istruttorio), dello staffista della Provincia Angelo Veste (favoreggiamento). Per l’Aia 2011 indagati per abuso e rivelazione di segreto d’ufficio il presidente della commissione Dario Ticali e il componente Luigi Pelaggi, in concorso con Vittoria Romeo, segretaria romana dei Riva e il funzionario regionale Pierfrancesco Palmisano.

Gli indagati hanno 20 giorni di tempo dalla notifica per accedere agli atti, chiedere di essere interrogati o presentare memorie. Poi toccherà la Procura decidere se sollecitare o meno il rinvio a giudizio.

Vendola indagato per l'Ilva. Il sospetto: addomesticata una perizia della Procura. L'acciaieria avrebbe avuto complicità a ogni livello per manipolare i controlli. E i pm accusano il governatore della Puglia concussione, scrive Bepi Castellaneta  su “Il Giornale”.  Tante piccole e grandi leve in un unico ingranaggio. Che condizionava le istituzioni, determinava scelte strategiche, controllava i controllori, addomesticava l'informazione, ridimensionava e copriva i fumi che incombevano su una città intera tentando di anestetizzare un territorio ormai compromesso. È questo l'inquietante scenario che viene fuori dall'inchiesta della Procura di Taranto sul disastro ambientale che sarebbe stato provocato dall'Ilva, un tempo invulnerabile colosso dell'acciaio, il primo stabilimento siderurgico d'Europa con base in Puglia e affari in mezzo mondo, tratteggiato nelle carte giudiziarie come un gigante saldamente protetto da una fitta da ragnatela di rapporti e complicità, silenzi e connivenze. La Guardia di finanza ha concluso gli accertamenti e alla fine, al termine di lunghi accertamenti, ha intrecciato i dossier che si sono accavallati nel giro di questi mesi. E nei faldoni, confluiti in un unico grande fascicolo, adesso figurano 53 indagati (tre sono le società). Tra loro ci sono politici di primo piano del centrosinistra, dirigenti e alti funzionari della Regione Puglia e dell'Arpa, un professore universitario, un sacerdote, un poliziotto e un carabiniere, oltre ai vertici dell'azienda: il patron Emilio Riva, i figli Nicola e Fabio. I reati, ipotizzati a vario titolo, sono pesantissimi: tra gli altri associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari, emissione di sostanze inquinanti. L'inchiesta è durata quattro anni, accompagnata da polemiche, momenti di tensione tra magistratura e governo, un fiume di dichiarazioni sul futuro di una città stretta tra il diritto alla salute e lo spettro dell'inquinamento. Fumi e veleni che sono stati documentati nel corso di un incidente probatorio dell'anno scorso, quando dalle perizie disposte dal giudice per le indagini preliminari, Patrizia Todisco, sono emersi i gravi danni alla salute dei cittadini. Quello è stato il punto di svolta, la tappa che ha impresso una netta accelerazione: poi gli arresti e il sequestro dell'area a caldo. Ma nel corso degli accertamenti della Guardia di finanza sono spuntati ulteriori filoni. E nel registro degli indagati sono finiti una serie di personaggi del mondo istituzionale: dall'ex presidente della Provincia, Giovanni Florido, all'ex assessore provinciale all'Ambiente, Michele Conserva, entrambi del Partito democratico, fino a dirigenti di peso della Regione Puglia. Il tassello fondamentale del mosaico investigativo riguarda la capacità dell'azienda di garantirsi la massima produzione mettendosi però al riparo dai controlli. In questo scenario, ritiene la procura, un ruolo chiave sarebbe stato svolto da Girolamo Archinà, ex responsabile dei rapporti istituzionali dell'Ilva: sarebbe stato in particolare lui a tessere quella ragnatela di rapporti a tutela della fabbrica giungendo al punto di addomesticare - è l'ipotesi della Guardia di finanza - anche una perizia della procura. Questa tranche investigativa, denominata «ambiente svenduto», è approdata a una prima svolta il 26 novembre dell'anno scorso, quando sono stati eseguiti sette arresti; nell'ambito delle stesse indagini sono anche scattati i sigilli per un milione e settecentomila tonnellate di prodotti finiti e semilavorati realizzati con impianti sotto sequestro e senza facoltà d'uso, un provvedimento che ha fatto vacillare l'azienda. Al punto che è stata ipotizzata anche la chiusura, un'ipotesi poi scongiurata. Almeno per il momento.

Ilva, chiuse le indagini: 53 indagati, anche Vendola e il sindaco Stefàno. Il governatore avrebbe fatto pressioni sul direttore dell'Arpa per favorire il colosso siderurgico accusato di aver avvelenato Taranto. Coinvolti anche il parlamentare di Sel Fratoianni, l'attuale assessore regionale all'Ambiente Nicastro, il consigliere regionale del Pd Pentassuglia, scrive Giuliano Foschini e Mario Diliberto su “La Repubblica”. Cinquantatre informazioni di garanzia, e tra i nomi degli indagati spunta anche quello di Nichi Vendola. Quello del governatore pugliese è l'ultimo scalpo eccellente dell'inchiesta sull'Ilva di Taranto. Anche Vendola, infatti, è tra i destinatari degli avvisi di conclusione delle indagini, con valore di informazione di garanzia, firmati dal pool guidato dal procuratore Franco Sebastio. "Sono addolorato ma sereno - ha detto il governatore che chiederà di essere ascoltato al più presto dai magistrati - la verità emergerà rapidamente, non sarà difficile dimostrare che non ci sono ombre nell'operato della mia giunta". Vendola è rimasto impantanato nell'indagine sul disastro ambientale contestato ai vertici della grande fabbrica dell'acciaio per le presunte pressioni su Giorgio Assennato, il direttore di Arpa Puglia. Secondo gli investigatori, il presidente pugliese avrebbe puntato i piedi con il direttore dell'Arpa, indicando una linea morbida da seguire con il colosso siderurgico accusato di aver avvelenato Taranto. Un'accusa che si basa sul contenuto di intercettazioni telefoniche, ma che dai diretti interessati è già stata respinta. Fatto sta che Vendola fa parte del piccolo esercito di inquisiti con in prima fila la famiglia Riva, sepolta da accuse gravissime, a cominciare da quella di associazione per delinquere. Il governatore deve rispondere dell'accusa di concussione in concorso. Nell'inchiesta risultano coinvolti anche il sindaco Ippazio Stefàno (indagato da aprile per abuso e omissioni in atti d'ufficio; per l'accusa, non si sarebbe adoperato con le necessarie misure per tutelare la salute dei cittadini), il parlamentare di Sel, Nicola Fratoianni (all'epoca assessore regionale), l'attuale assessore regionale all'Ambiente Lorenzo Nicastro, il consigliere regionale del Pd Donato Pentassuglia. Le comunicazioni giudiziarie, infatti, sono in corso di notifica all'anziano patriarca dell'acciaio Emilio Riva e ai suoi figli Nicola e Fabio. Nel corso della burrasca giudiziaria per tutti scattarono i mandati di cattura. Emilio e Nicola finirono ai domiciliari, mentre Fabio Riva è scampato al carcere lo scorso novembre perché al momento della retata si trovava in Inghilterra, dove vive attualmente. I tre magnati dell'acciaio sono indicati come i responsabili del gravissimo inquinamento ambientale di Taranto, causa di "malattia e morte". Insieme a loro nel calderone sono finiti uomini di primo piano dello stabilimento e fiancheggiatori annidati anche nelle istituzioni. Secondo i giudici, un ruolo di primissimo piano nel dramma di Taranto lo ha ricoperto Girolamo Archinà, ex potentissimo responsabile dei rapporti istituzionali del gigante dell'acciaio. Archinà sarebbe stato l'eminenza grigia dei signori dell'acciaio, l'uomo che nell'ombra ha intessuto rapporti con politici e funzionari per assicurare all'Ilva la possibilità di continuare a produrre, calpestando l'ambiente e la salute di Taranto. Lui avrebbe mantenuto i rapporto con gli enti locali, il clero e i giornalisti, senza lesinare di corrompere un consulente della procura al quale avrebbe pagato 10.000 euro per addomesticare una perizia sulle cause dell'inquinamento. L'inchiesta esplose il 26 luglio del 2012 con il sequestro di sei reparti inquinanti dell'Ilva e una raffica di arresti. Ma in un anno, l'indagine ha fatto registrare numerose impennate, con arresti e sequestri imponenti. Una offensiva giudiziaria che ha fatto sbandare pericolosamente il gigante Ilva più volte sul punto di crollare portandosi dietro un patrimonio di dodici posti di lavoro. Una emergenza che ha messo alle corde prima il governo Monti e oggi quello guidato da Enrico Letta. L'Esecutivo per ben due volte è intervenuto con decreti per garantire la continuità produttiva della fabbrica che alla fine è stata commissariata e affidata al manager Enrico Bondi.  

Chiusa l'inchiesta «Ambiente Svenduto» sull'Ilva. Cinquantatrè le persone indagate, scrive “Il Corriere della Sera”. Tra i nomi è spuntato anche quello di Nichi Vendola, il presidente della Regione Puglia. Secondo la procura tarantina, il governatore avrebbe detto al direttore dell'Arpa di adottare una linea morbida contro il siderurgico tarantino. In particolare il leader di Sel è indagato per concussione in concorso con Girolamo Archinà, ex dirigente dei rapporti istituzionali dell'Ilva, Fabio Arturo Riva, ex presidente del gruppo Riva, Luigi Capogrosso, ex direttore dello stabilimento tarantino e Francesco Perli, legale del gruppo, per aver fatto pressioni sui vertici dell'Arpa, l'agenzia regionale per l'Ambiente, al fine di «ammorbidire» la posizione dell'agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall'impianto siderurgico. In particolare, il direttore dell'Arpa Giorgio Assennato ed i suoi funzionari Blonda e Giua - ricostruiscono i pm - avevano proposto nel giugno 2010 di ridurre e rimodulare il ciclo produttivo dello stabilimento siderurgico in virtù dei risultati preoccupanti dei campionamenti sulla qualità dell'aria che avevano evidenziato valori elevati di benzoapirene. È a questo punto, secondo i magistrati, che il presidente Vendola avrebbe «consigliato» ad Assennato a modificare la posizione sull'Ilva minacciandolo di non confermare il suo incarico alla direzione dell'Arpa (in scadenza a febbraio 2011). Vendola lo avrebbe quindi costretto ad ammorbidire la posizione dell'Arpa permettendo così all'acciaieria tarantina di continuare a produrre ai massimi livelli, come fino ad allora era avvenuto. In un incontro del 22 giugno 2010 con gli assessori Fratoianni e Losappio, il capo Gabinetto alla Regione Francesco Manna ed il dirigente Davide Pellegrini il presidente Vendola, dopo aver fortemente criticato l'operato dell'Arpa, avrebbe ribadito che in nessun caso l'attività produttive dell'Ilva avrebbe dovuto subire ripercussioni. Quasi un mese dopo, nel corso di una riunione con Emilio e Fabio Riva, il direttore Capogrosso ed Archinà, Vendola avrebbe convocato Assennato lasciandolo attendere fuori dalla stanza. In quell'occasione Assennato sarebbe stato inoltre ammonito dal dirigente all'Ambiente Antonello Antonicelli, su incarico di Vendola, a non utilizzare i dati tecnici «come bombe carta che poi si trasformano in bombe a mano».

Nell'inchiesta risultano coinvolti anche il sindaco Ippazio Stefàno, il parlamentare di Sel, Nicola Fratoianni (all'epoca assessore regionale), l'attuale assessore regionale all'Ambiente Lorenzo Nicastro, il consigliere regionale del Pd Donato Pontassuglia. Gli altri avvisi di garanzia sono in corso di notifica al patron Emilio Riva e ai suoi figli Nicola e Fabio. Sono ancora coinvolti il consigliere regionale Donato Pentassuglia i dirigenti della Regione Antonicelli, Manna, Pellegrino ed anche il direttore dell'Arpa Giorgio Assennato, il direttore scientifico dell'Arpa Massimo Blonda. Ecco la lista di tutti gli indagati: Emilio Riva (1926), Nicola Riva (1958), Fabio Arturo Riva (1954); Luigi Capogrosso (1955), Marco Andelmi (1971), Angelo Cavallo (1968), Ivan Dimaggio (1969), Salvatore De Felice (1964), Salvatore D'Alò (1959), Girolamo Archinà (1946), Francesco Pervi (1954), Bruno Ferrante (1947), Adolfo Buffo (1956), Antonio Colucci (1959), Cosimo Giovinazzi (1974), Giuseppe Dinoi (1984), Giovanni Raffaelli (1963), Sergio Palmisano (1973), Vincenzo Dimastromatteo (1970), Lanfranco Legnani (1939), Alfredo Cerinani (1944), Giovanni Rebaioli (1948), Agostino Pastorino (1953), Enrico Bessone (1968), Giuseppe Casartelli (1943), Cesare Cotti (1953), Giovanni Florido (1952), Michele Conserva (1960), Vincenzo Specchia (1953), Lorenzo Liberti (1942), Roberto Primerano (1974), Marco Gerardo (1975), Angelo Veste (1938), Giovanni Bardaro (1962), Donato Perrini (1958), Cataldo De Michele (1959), Nicola Vendola (1958), Ippazio Stefàno (1945), Donato Pentassuglia (1967), Antonello Antonicelli (1974), Francesco Manna (1974), Nicola Fratoianni (1972), davide filippo Pellegrino (1961), Massimo Blonda (1957), Giorgio Assennato (1948), Lorenzo Nicastro (1955), Luigi Pelaggi (1954), Dario Ticali (1975), caterina Vittoria Romeo (1951), Pierfrancesco Palmisano (1953), Ilva spa (in persona del commissario straordinario Enrico Bondi), Riva Fire spa (in persona del consigliere delegato e legale rappresentante Angelo Massimo Riva ), Riva Forni Elettrici spa (in persona del presidente legale e rappresentante Cesare Federico Riva).

Il Ruolo dell'Assessore Lorenzo Nicastro, ex magistrato eletto nelle file dell'IDV. È indagato di favoreggiamento personale perché scrivono i pm nelle carte: «quale assessore alla qualità dell'Ambiente della Regione Puglia, al fine di assicurare a Vendola l'impunità del reato aiutava quest'ultimo ad eludere le investigazioni dell'autorità e, in particolare, sentito dalla polizia giudiziaria quale persona informata sui fatti attestava falsamente di "non avere memoria della presenza del prof. Giorgio Assennato nella riunione del 15/07/2010" di non ricordare la circostanza relativa alla convocazione di Assennato presso l'ufficio di Presidenza».

Il provvedimento è stato firmato dal procuratore della Repubblica di Taranto, Franco Sebastio, dal procuratore aggiunto, Pietro Argentino, e dai sostituti procuratori Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile, Remo Epifani e Raffaele Graziano. Quest'ultimo è titolare di due fascicoli d'inchiesta relativi ad incidenti mortali verificatisi all'Ilva di Taranto, fascicoli che sono stati inglobati nell'inchiesta-madre. I reati contestati agli indagati vanno dall'associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale all'avvelenamento di sostanze alimentari, all'emissione di sostanze inquinanti con violazione delle normative a tutela dell'ambiente. L'avviso di conclusione delle indagini preliminari consiste in una quarantina di pagine con una fitta rete di capi d'imputazione. Per un gruppo di indagati - si conferma in ambienti giudiziari - sarà confermata l'accusa di aver costituito un'associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all'avvelenamento di sostanze alimentari e ad altri reati minori. Dall'inchiesta -madre resterà fuori l'indagine riguardante le discariche di rifiuti dell'Ilva e relative autorizzazioni, peraltro ora in fase di revisione sul piano amministrativo. Prosegue intanto, sull'asse Taranto-Londra, la battaglia giudiziaria da parte dei legali di Fabio Riva, vice presidente di Riva Fire, in libertà vigilata nella capitale inglese dal gennaio scorso dopo che era stata dichiarata la sua latitanza perché non rintracciato sulla base di un mandato di arresto europeo.

Sette arresti con una ventina di indagati, tra imprenditori, funzionari pubblici e politici e il sequestro delle materie lavorate dell’Ilva, scrive ancora Nazareno Dinoi su “Il Corriere della Sera”. È la bufera iniziata a novembre 2012 che ha scosso il siderurgico con un’onda d’urto che ha oltrepassato i confini provinciali e regionali. In carcere sono finiti Fabio Riva, amministratore delegato dell’Ilva (arrestato a gennaio 2013), Luigi Capogrosso, ex direttore dello stabilimento, l’ex consulente Girolamo Archinà, «licenziato» dall’azienda dopo che, dall’inchiesta per disastro ambientale era emerso un episodio di presunta corruzione che coinvolgeva l’ex preside vicario della Facoltà di Ingegneria di Taranto, sede distaccata del Politecnico di Bari, Lorenzo Liberti (anch’egli raggiunto da un mandato di arresto ai domiciliari), al quale Archinà avrebbe consegnato una busta contenente la somma di 10 mila euro in cambio di una perizia addomesticata sull’inquinamento dell’Ilva; domiciliari anche per l’ex assessore all’Ambiente della Provincia di Taranto, Michele Conserva, dimessosi circa due mesi fa dall’incarico quando si seppe che poteva figurare tra gli indagati della inchiesta sull’Ilva collaterale a quella per disastro ambientale. Un'ordinanza agli arresti domiciliari fu notificato anche all’ingegnere Carmelo Delli Santi, rappresentante della Promed Engineering. Conserva e Delli Santi entrambi accusati di concussione. I provvedimenti erano legati anche a un’inchiesta, parallela a quella per disastro ambientale che il 26 luglio scorso ha portato al sequestro degli impianti dell’area a caldo del siderurgico. Questa operazione, condotta dalla Guardia di Finanza, è stata denominata Environment Sold Out (Ambiente svenduto). Il presidente dell’Ilva, Bruno Ferrante e il direttore generale dell’azienda, Adolfo Buffo, sono coinvolti nell’inchiesta che ha portato all’emissione delle sette ordinanze di custodia cautelare e al sequestro dei prodotti finiti/semilavorati. Con loro, nello stesso procedimento, sono indagati altri dieci dirigenti dei reparti dello stabilimento. Nelle oltre 500 pagine dell’ordinanza firmata dal gip Patrizia Todisco è contenuto uno sconvolgente sistema di potere gestito dalla famiglia Riva e dai loro referenti locali capaci di assoggettare non solo funzionari e dirigenti di pubbliche amministrazioni, ma anche politici di alto livello. «La spregiudicatezza dei proprietari dell’Ilva» che emerge dalle carte, lascia senza parole. Come nell’intercettazione tra Fabio Riva e uno dei suoi avvocati, Franco Perli. Il rampollo della famiglia Riva, commentando i rischi sulla salute rilevati da uno studio dell’Arpa, si esprimeva in questi termini con il legale: «Due casi di tumore in più all’anno... una minchiata». Nel resoconto dell’inchiesta sono numerose, inoltre, le telefonate intercorse tra gli indagati e personalità politiche di spicco. Dal presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, all’assessore Michele Conserva, dal consigliere regionale Donato Pentassuglia all’onorevole Ludovico Vico, tutti del Pd, sino al presidente della Regione Puglia Nichi Vendola. Una per tutti, a significare i rapporti amicali che intercorrevano tra uomini del gruppo Riva e i politici, la telefonata intercettata tra uno degli arrestati, Archinà, e il deputato Vico. Il parlamentare riferisce di una telefonata avuta con Vendola il quale si complimentava della disponibilità mostrata dal gruppo Ilva ma si lamentava del sindaco di Taranto, Ippazio Stefano, protagonista in quel periodo di azioni che infastidivano gli industriali: «il sindaco lo vede come un irresponsabile», riferiva Vico. Sempre ad Archinà, l’onorevole Pd riportava il malumore di Vendola per il funzionario dell’assessorato ambiente della Regione, Antonio Antonicelli, responsabile, a suo dire, della permanenza a capo dell’Arpa del presidente Assennato, nemico giurato dei Riva: «Io dovrei ammazzare Antonicelli, è un pazzo scatenato», avrebbe detto Vendola.

TARANTO E VADO LIGURE. C’E’ INQUINAMENTO ED INQUINAMENTO. E’ SALUBRE SE E’ DI SINISTRA.

“I vari servizi giornalistici dedicati negli ultimi giorni da Panorama, il Giornale e dai telegiornali Mediaset alla centrale elettrica Tirreno Power di Vado Ligure lanciano con ampio rilievo accuse infondate e palesemente strumentali nei confronti di Carlo De Benedetti e del gruppo Cir”. E’ quanto precisa in una nota il portavoce Cir. “La centrale non è di Carlo De Benedetti. Né lui né alcun rappresentante di Cir hanno ruoli in Tirreno Power. L'impianto è stato costruito dall’azienda elettrica di Stato alla fine degli anni ’60 e gestito dall’ex monopolista pubblico per oltre 30 anni, fino al 2002. Uno degli azionisti di Tirreno Power, con una quota di minoranza del 39% detenuta indirettamente, è Sorgenia (società controllata da Cir). Sorgenia non gestisce in alcun modo la centrale di Vado Ligure". "Carlo De Benedetti -continua la nota - , inoltre, non è più azionista del gruppo Cir. Nonostante ciò sia De Benedetti sia il gruppo Cir sono chiamati in causa strumentalmente con informazioni errate o distorte, fingendo di ignorare peraltro che nella proprietà di Tirreno Power ci sono altre società che non vengono quasi mai citate. Quanto alle accuse sull’impatto ambientale dell’impianto - senza entrare nel merito delle indiscrezioni relative all’inchiesta giudiziaria in corso sulla centrale - si ricorda che la società Tirreno Power ha sempre dichiarato di operare nel rispetto delle leggi nazionali e internazionali”.

Centrale di Vado: dieci domande a De Benedetti, scrive “Il Secolo XIX”. Dieci domande rivolte all’ingegner Carlo De Benedetti, socio forte della Tirreno Power attraverso Sorgenia, firmate da personaggi autorevoli sul progetto di ampliamento della centrale a carbone di Vado Ligure. Le domande sono contenute in una lettera che domani verrà pubblicata su diverse testate nazionali. A De Benedetti (che attraverso Sorgenia detiene il 78% di Energia Italiana, a sua volta proprietaria del 50% di Tirreno Power, mentre l’altro 50% e in mano a EblAcea, società detenuta per il 70% da GdfSuez e per il 30% da Acea) viene chiesto perché l’azienda si ostina a procedere a questo intervento «contro ogni logica democratica (contro il volere del 90% della cittadinanza, dei Partiti, di tutti i Comuni, della Regione, dell’Ordine dei Medici, di tutto l’Associazionismo) e ambientale (dopo 40 anni di dati drammatici in termini di mortalità e di inquinamento nella nostra città, con migliaia di morti in più rispetto alla media regionale)». Le dieci domande sono state raccolte in un documento frutto del lavoro di sintesi di molti esperti, amministratori, medici, giornalisti, associazioni e comitati. Tra questi figurano Margherita Hack, Beppe Grillo, Maurizio Maggiani, Luigi De Magistris, Oliviero Beha, Ferdinando Imposimato e ancora Sergio Staino, Angelo Bonelli, Massimo Carlotto, Lella Costa, Marco Pannella, Don Andrea Gallo, Lidia Ravera, Paolo Ferrero, Vittorio Agnoletto, Ennio Remondino, Bruno Gambarotta, Patrizia Gentilini, Giovanni Impastato e Mimmo Lombezzi. «Perché non volete ammettere» si chiede fra l’altro a De Benedetti «che le centrali a carbone uccidono? Perché mistificate la realtà dicendo che avete il “carbone pulito” (concetto smentito dalle principali ricerche internazionali), così giocando con la vita della gente?». E ancora: «perché continuate a propagandare con ogni mezzo di comunicazione che il Vostro progetto di ampliamento della centrale e di ristrutturazione dei gruppi 3 e 4 esistenti diminuirebbe l’inquinamento, mentre ricerche scientifiche indipendenti dimostrano esattamente il contrario?».

La lettera pone a De Benedetti 10 domande sul perchè la sua ditta Tirreno Power vuole ampliare la centrale a carbone di Savona, contro ogni logica democratica (contro il volere del 90% della cittadinanza, dei Partiti, di tutti i Comuni, della Regione, dell'Ordine dei Medici, di tutto l'Associazionismo) e ambientale (dopo 40 anni di dati drammatici in termini di mortalità e di inquinamento nella nostra città, con migliaia di morti in più rispetto alla media regionale), un documento frutto del faticoso lavoro di sintesi di molti esperti, amministratori, medici, giornalisti, associazioni e comitati. E' una battaglia di civiltà, e per la vita. Da settembre la dirigenza Tirreno Power vuole decidere per l'ampliamento, incurante della contrarietà della comunità savonese.

10 DOMANDE ALL’ING. DE BENEDETTI SULLA CENTRALE A CARBONE TIRRENO POWER DI SAVONA.

Egr. ing. Carlo De Benedetti, a Lei che si vanta di essere la tessera numero uno del Partito Democratico, poniamo 10 questioni in merito alla Sua decisione di ampliare la centrale a carbone Tirreno Power di Vado Ligure (Savona), da Lei controllata attraverso CIR Sorgenia, con tutte le conseguenze in termini di mortalità prematura della popolazione e nonostante la quasi totale contrarietà di cittadini, istituzioni, partiti, associazioni, medici e biologi. 10 le domande, alle quali Le chiediamo di dare risposta:

1) CONTRARIETA’ DELLA CITTA’ AL PROGETTO - perché vi ostinate a perseverare nel vostro progetto di ampliamento, in spregio alla contrarietà dell’85%-90% della popolazione savonese, quella dei partiti (tra cui anche il PD), della Regione, dei Sindaci, dei Consigli comunali, delle Circoscrizioni, dell’Ordine dei Medici, di tutto l’associazionismo provinciale, delle principali personalità della società civile? E’ questo il personale concetto di democrazia del tesserato numero uno del Partito Democratico? Tutto questo non va contro non solo ai valori fondanti sanciti nello Statuto del PD, ma anche ai più elementari principi di democrazia del nostro paese? Hanno approvato delibere contro l’ampliamento della centrale Tirreno Power tutti i comuni interessati: i Comuni di Savona, Vado Ligure, Quiliano, Bergeggi, Spotorno, Noli, Finale Ligure, Balestrino, Vezzi Portio, Albissola Marina, Celle Ligure, Altare, Carcare, Cairo.

2) DI CARBONE SI MUORE - perché Lei e la dirigenza Tirreno Power non volete ammettere che le centrali a carbone uccidono? Perché mistificate la realtà dicendo che avete il “carbone pulito” (concetto smentito dalle principali ricerche internazionali), così giocando con la vita della gente? Secondo il referente scientifico dell’Ordine dei Medici di Savona “in tutta la provincia di Savona (con dati che peggiorano quanto più ci si avvicina alla centrale) diversi tumori e altre patologie vascolari, aumentano drammaticamente rispetto alla media nazionale (in particolare i tumori al polmone, vescica e laringe, le patologie cardiovascolari come infarti, emorragie cerebrali, ictus ed altre)”. Le ricordiamo che in provincia di Savona in 16 anni sono morte circa 2.664 persone in più rispetto all’atteso (in base ai tassi standardizzati di mortalità della Liguria). I calcoli commissionati dalla Comunità Europea asseriscono che nel nostro territorio savonese abbiamo valori di inquinamento fra i più alti in Italia, cui si associa una significativa riduzione dell’aspettativa di vita (la speranza di vita in Liguria è ridotta di quasi un anno per via dell’inquinamento). Ricordiamo che, secondo un’altra ricerca, a Vado Ligure il tumore maligno al polmone colpisce il 30% in più degli uomini rispetto al resto della Provincia. Per le malattie ischemiche del cuore, a Vado le donne fanno registrare il 71,9% di casi in più rispetto alla media regionale, mentre per le malattie respiratorie croniche ostruttive, a Vado gli uomini fanno registrare il 150% (centocinquanta) in più sulla Regione.

3) IL CARBONE PRINCIPALE MINACCIA CONTRO IL CLIMA - perché, in collaborazione con il Governo, volete perseverare con il Vostro dannoso progetto di ampliamento della centrale a carbone, quando questo va ancora di più contro gli importantissimi accordi presi dall’Italia e dagli altri Stati nel protocollo di Kyoto? Il carbone rappresenta la prima minaccia per l’equilibrio climatico mondiale: oltre un terzo delle emissioni mondiali di CO2 si devono all’uso di carbone, che è il combustibile fossile con le più alte emissioni specifiche di gas serra, circa il triplo del gas. Greenpeace denuncia che “il Governo italiano è contro il Protocollo di Kyoto, che obbliga il Paese a ridurre i gas serra del 6,5% rispetto al 1990. A oggi le emissioni sono aumentate del 10% e il Governo, già inadempiente e in disaccordo con gli impegni presi, continua ad autorizzare nuovi impianti a carbone, come la nuova centrale Enel a Civitavecchia e l’ampliamento di quella di Vado Ligure (la quale quindi aumenterà notevolmente la produzione di CO2). Il carbone porterà maggiori profitti nelle casse degli amministratori delle centrali, ma saranno i cittadini italiani a pagare le multe per Kyoto”.

4) IMPIANTI NON ALLINEATI ALLE NORMATIVE - perché continuate a far funzionare i gruppi 3 e 4 della centrale, nonostante non siano allineati alle norme IPPC dell’Unione Europea, alla direttiva 96/61/CE, e al decreto legislativo 59/05, e nonostante siano privi della certificazione AIA? Perché il solo fatto che il Governo abbia prorogato i tempi per la valutazione dell’istruttoria per la certificazione AIA della Vostra centrale (che dovrà recepire le normative europee e italiane in materia, sulle quali non vi siete ancora allineati), vi fa sentire in diritto di definirvi su tutti i giornali ancora formalmente a norma, quando in realtà siete sostanzialmente e moralmente inadempienti da 40 anni verso la comunità savonese per i livelli di inquinamento che state producendo? Perché evidenziate sempre sui giornali che siete in possesso del V.I.A. ministeriale (al quale peraltro si oppone il V.I.A. regionale negativo, approvato dalla Regione Liguria) senza invece mai segnalare alla cittadinanza che non siete allineati rispetto alle principali leggi in materia ? Ricordiamo che il V.I.A. ministeriale è soltanto una Valutazione d'Impatto Ambientale gestito da un organo di nomina politica, fra l’altro dichiarato illegittimo 3 mesi fa dalla Corte dei Conti, e contro il quale la Regione Liguria ha fatto ricorso. E ancora: perché, come dice l’ex Assessore Regionale all’Ambiente, “non vi siete conformati alle disposizioni regionali in materia, né al Piano Energetico Regionale, né al Piano Regionale di risanamento della qualità dell’aria?”. Perché secondo i medici del MODA “non si è più discusso della completa metanizzazione degli impianti che la città attende da più di 20 anni, come votato dagli enti locali savonesi fino al 2007 (compreso il Comune di Savona) e come indicava l’Istituto Superiore di Sanità già nel 1988?” Anche il Segretario Provinciale del PD (del suo Partito) ha dichiarato in questi giorni ai giornali: “Tirreno Power sta dicendo e facendo di tutto meno che l’unica cosa che dovrebbe fare: i monitoraggi, la copertura dei parchi e in generale investimenti per diminuire l’impatto del carbone sul territorio (…) Di questo progetto non ce n’è bisogno, non è in sintonia con i tempi (…) Da anni continuiamo a parlare di cose che avrebbero già dovuto essere fatte e la Tirreno Power non ha fatto (...) Si usa sempre la logica ricattatoria occupazionale per non fare! È ora di finirla (…) È questione di credibilità: mi spiace ma Tirreno Power non è più un interlocutore affidabile”.

5) MAGGIOR INQUINAMENTO CON IL PROGETTO DI AMPLIAMENTO - perché continuate a propagandare con ogni mezzo di comunicazione che il Vostro progetto di ampliamento della centrale e di ristrutturazione dei gruppi 3 e 4 esistenti diminuirebbe l’inquinamento, mentre ricerche scientifiche indipendenti dimostrano esattamente il contrario? Sui giornali avete dichiarato che volete investire e mettere a norma la centrale esistente (affermazione che peraltro, secondo molti esperti, non corrisponde alla verità in quanto le modifiche che apportereste ai gruppi 3 e 4 sarebbero insufficienti), ma che non lo farete se non si concede in cambio anche l’ampliamento della centrale stessa. Da quando vale il ricatto per cui si seguono le leggi solo se si concede qualcosa in cambio? Perché deve valere per Lei questa deroga che non è concessa ai singoli cittadini? Una società come Tirreno Power che ha prodotto 100 milioni di euro di utili netti all'anno non è forse economicamente in grado di allinearsi alle normative europee? E perché riproporre l’eterno ricatto delle centinaia di milioni di investimento e di 40 nuovi posti di lavoro, da mettere sull’altro piatto della bilancia rispetto ai danni ambientali e ai tassi di mortalità? La Provincia di Savona su questo tema ha già storicamente pagato prezzi molto alti, con conflitti laceranti tra salute e lavoro, e non ha bisogno di essere sottoposta a una nuova prova di forza. Ricordiamo inoltre che, come dice il Presidente Regionale di Italia Nostra “realizzare l’ampliamento porterebbe Vado ad una potenza complessiva di 1880 MW, al terzo posto in Italia (dopo Montalto di Castro e Brindisi). Ci deve essere un limite al gravame su un territorio, e questo limite a Vado (dopo decenni di industrializzazione in buona parte scomparsa ma che ha lasciato altre pesantissime eredità negative sul territorio) è certamente già stato superato”. Secondo il referente scientifico dell’Ordine dei Medici “gli attuali gruppi 3 e 4 a carbone della centrale (risalenti agli anni ’60 del secolo scorso e obsoleti da decenni), una volta ristrutturati secondo il Vostro progetto di ampliamento (propagandato come un adeguamento secondo le migliori tecnologie), emetteranno, per ogni Megawatt installato, 3,4 volte in più ossidi di zolfo, 2,5 volte in più ossidi di azoto, il doppio delle polveri primarie rispetto al nuovo gruppo, dimostrazione evidentissima che, pur disponendo di una tecnologia meno inquinante, questa non sarà applicata in modo significativo a tutti i gruppi a carbone, ma solo a uno, al gruppo nuovo”. E’ evidente che solo finalmente con un ampio confronto con i Comuni, la Regione, i comitati, e con l’ausilio di esperti indipendenti (e solo dopo aver rinunciato al progetto di ampliamento), si potrà valutare se l’adeguamento alla legge 59/05 (che prevede l’utilizzo delle migliori tecnologie esistenti) sarà fattibile in modo significativo nella ristrutturazione dei vecchi gruppi 3 e 4, o se (come sostengono efficacemente molte personalità autorevoli in materia) tali gruppi invece risulteranno non più ristrutturabili.

6) CENTRALE COME INCENERITORE - rispondono al vero le voci che si stanno diffondendo, secondo le quali un vostro obiettivo potrebbe essere quello di usare i gruppi a carbone anche per bruciare i combustibili derivati da rifiuti (CDR), utilizzando quindi la centrale anche come inceneritore? Questo (la gente non lo sa, ma voi ben lo sapete) aggraverebbe in modo devastante la situazione, perché ai fumi velenosi derivanti dal carbone (polveri sottili e ultrasottili, metalli pesanti, diossine, solfati, nitrati, ecc, oltre che radiazioni superiori a quelle delle centrali nucleari) si aggiungerebbero altre pericolosissime emissioni di diossine, polveri, e metalli pesanti.

7) INSUFFICIENTE MISURAZIONE DEI LIVELLI DI INQUINAMENTO - perché accetta il paradosso che il controllo delle emissioni dalle ciminiere della Sua centrale a carbone sia eseguito dalla stessa Tirreno Power (per cui gli inquinatori sono i CONTROLLORI DI SE STESSI, senza che sia prevista alcuna verifica da parte di enti terzi) e non invece da un Ente Pubblico, il quale finalmente dopo decenni potrebbe garantire la cittadinanza sui reali livelli di inquinamento? Per quanto riguarda invece le centraline esterne alla centrale, secondo il referente scientifico dell’Ordine dei Medici “i dati sull’inquinamento vengono misurati dall’ARPAL in modo superficiale, obsoleto e insufficiente (per numero e dislocazione delle postazioni, e per tipologia di inquinanti misurati)”. Come può peraltro la comunità savonese avere fiducia nell’ARPAL, un’agenzia la cui intera dirigenza è indagata dalla Procura della Repubblica di Genova per falso, turbativa d’asta ed altri gravissimi capi d’accusa? Come si può dire, ing. De Benedetti, che l’inquinamento è sotto controllo, quando si sceglie di non misurare efficacemente le polveri inquinanti?

8) RIFIUTO DEL CONFRONTO - perché i Responsabili della centrale rifiutano da anni qualsiasi confronto pubblico con l’Ordine dei Medici, con i Medici per l’Ambiente e più in generale con la cittadinanza, lasciando alle migliori agenzie pubblicitarie una massiccia comunicazione fatta di slogan facilmente smentibili dai dati scientifici (“abbiamo la tecnologia”, “carbone pulito”, “ampliamo per migliorare l’aria”)? Anche questo, ing. De Benedetti, è il Suo personale concetto di democrazia, oppure è solo perché ben sapete che il vostro progetto non può reggere il confronto con le principali istituzioni mediche locali? Perché su questo tema si è messo in atto da decenni a Savona un fruttuoso e perverso meccanismo misto: da un lato si ‘addolcisce’ (si promette, si sostiene, si sponsorizza…) e dall’altro si minaccia? Sono state minacciate di ritorsioni di vario tipo (“ti faccio licenziare”, “ti querelo”, “ti massacro politicamente”, ed altre pressioni) varie categorie di persone che avevano tentato di spiegare la verità, inclusi importanti amministratori locali, medici e giornalisti.

9) SOVRAPPRODUZIONE - perché volete perseverare con il Vostro dannoso progetto di ampliamento, in una città come Savona che NON ha bisogno di nuova energia elettrica, dato che la Centrale già attualmente produce una quantità di energia superiore di ben 5 (cinque) volte a quella che viene consumata in tutta la Provincia? Perché, ing. De Benedetti, deve essere di nuovo la Provincia di Savona a essere martoriata e sottoposta ai Vostri interessi economici, una Provincia che da anni sta cercando faticosamente di sviluppare la sua importante e strategica vocazione turistica? Ricordiamo che in Liguria (che secondo studi della UE è una delle regioni più inquinate d’Italia), una terra tanto bella a livello paesaggistico e naturalistico quanto devastata dalle industrie e dal cemento, vi sono già ben 3 centrali a carbone (il 27% di quelle rimaste in funzione in Italia), peraltro pericolosamente vicine a città densamente abitate.

10) ENERGIE RINNOVABILI - perché volete perseverare nella produzione di energia dal carbone (una produzione più economica, usata ancora tra moltissime critiche in altri Stati, ma estremamente dannosa per la salute e per questo con un consumo in continua riduzione in Europa), senza investire significativamente nel metano e soprattutto nelle energie rinnovabili realmente pulite? Come ha detto il Premio Nobel Carlo Rubbia proprio sul suo giornale, ‘La Repubblica’: “Il carbone è la fonte energetica più inquinante, più pericolosa per la salute dell'umanità. La CO2 dura in media fino a 30.000 anni. Il ritorno al carbone sarebbe drammatico, disastroso…”.

In sintesi, perché Lei che si dichiara il primo tesserato del PD, calpesta buona parte dei principi e dei valori propri del centrosinistra (e presenti nello Statuto del PD): rispetto della volontà popolare, rispetto della vita umana, rispetto e cura per l'ambiente, confronto e dibattito nelle decisioni, adeguamento alle normative dell’Unione Europea, adeguamento alle leggi non come merce di scambio, considerazione delle opinioni degli esperti e degli organi medici competenti, sviluppo delle energie rinnovabili, ecc.? Non conviene con noi, ing. De Benedetti, che il rispetto per la vita e per l’ambiente non può e non deve far parte di un mero gioco di interessi politici ed economici, ma deve invece far parte dei valori primari ed inalienabili di ogni popolo civile? Produrre energia non è un fine ma un mezzo per far funzionare la società in cui viviamo: è etico e doveroso investire capitali per produrre energia con le metodiche meno inquinanti possibili, compatibili con la salute dei cittadini, evitando il combustibile più inquinante di tutti che è il carbone. Nessun calcolo economico può giustificare la richiesta di perpetuare lo scempio ambientale e le morti premature causate dalla combustione del carbone. Le chiediamo quindi di rispettare la volontà della nostra comunità, desistendo dal Suo progetto di ampliamento della centrale a carbone e riducendo fortemente i livelli di inquinamento adeguando la centrale alle migliori tecnologie esistenti, così come previsto dalla legge. Certi di una sua Risposta, Le porgiamo distinti saluti. Firmatari savonesi: PAOLO FRANCESCHI (pneumologo, referente scientifico dell’Ordine dei Medici Savona) AUGUSTO PERSEO (Presidente Comitato ‘Amare Vado’) ADOLFO MACCHIOLI (prete) AGOSTINO TORCELLO (medico pneumologo, MODA Savona) ANTONINO FRISONE (ex Comandante del Porto di Savona, ex Ammiraglio) BRUNO MARENGO (Presidente Provinciale ANPI Savona, ex Sindaco) CARLO TONARELLI (medico, scrittore, ambientalista, Consigliere Comunale) CARLO VASCONI (Portavoce Provinciale dei Verdi) CLAUDIO GIANETTO (Segretario Provinciale PdCI Savona) CLAUDIO PORCHIA (giornalista) DARIO FRANCHELLO (Presidente del Parco del Beigua) DAVIDE CAVIGLIA (Presidente Provinciale ACLI Savona) DAVIDE MONTINO (docente universitario) ELIO BERTI (attore, Direttore artistico dell’associazione Timoteo) ENZO MOTTA (Presidente del circolo Pirandello) FABIO RINAUDO (musicista, Presidente associazione Corelli) FRANCESCA MARZADORI (Portavoce UAAR Savona) GIAMPIETRO FILIPPI (ex Assessore all’Ambiente della Provincia di Savona) GIANCARLO ONNIS (Presidente Legambiente Savona) GIANFRANCO GERVINO (Portavoce di ‘Uniti per la salute’) GIORGIO AMICO (scrittore) GIOVANNI DURANTE (Presidente Provinciale ARCI Savona) MARCELLO ZINOLA (Segretario Ordine dei giornalisti liguri) MARCO CAVIGLIONE (medico ambientalista ISDE, Consigliere Provinciale) MARCO MOLINARI (giornalista) MARCO RAVERA (Segretario Provinciale Rifondazione Comunista di Savona) MAURIZIO LOSCHI (Referente Provinciale Medicina Democratica) NICOLA STELLA (giornalista) PIERO BORGNA (Capogruppo Consiglio Comunale Vado “Viva con Caviglia”) RENATO ALLEGRA (vicepresidente NuovoFilmstudio) RICCARDO CICCIONE (Ufficiale Marina mercantile Direttore settore macchine) ROBERTO CUNEO (Presidente Regionale Italia Nostra) ROBERTO MELONE (Portavoce del Comitato Acqua Pubblica Savona) ROSARIO TUVE’ (Coordinatore Provinciale Italia dei Valori) SAMUELE RAGO (Segretario Provinciale ANPI Savona) SERGIO ACQUILINO (Portavoce provinciale Sinistra Ecologia Libertà Savona) SIMONE GAGGINO (Coordinatore di Banca Etica di Savona-Imperia) STEFANO MILANO (titolare libreria UBIK) STEFANO SARTI (Presidente Legambiente Liguria) VALERIA ROSSI (giornalista) VIRGINIO FADDA (biologo, MODA Savona) VIVIANA PANUNZIO (Portavoce Emergency Savona) WALTER MASSA (Presidente ARCI Liguria) Comuni che hanno approvato delibere contro l’ampliamento della centrale Tirreno Power: I Comuni di Savona, Vado Ligure, Quiliano, Bergeggi, Spotorno, Noli, Finale Ligure, Balestrino, Vezzi Portio, Albissola Marina, Celle Ligure, Altare, Carcare, Cairo Montenotte. Associazioni savonesi che hanno firmato la lettera contro l’ampliamento della centrale Tirreno Power, e a favore di un suo adeguamento alle normative: ARCI, ACLI, Emergency, Libera, Meetup di Beppe Grillo, Rete Lilliput, Unione Donne in Italia, Donne in Nero, Legambiente, Greenpeace, ANPI, Italia Nostra, UAAR, Comitato Acqua Pubblica, Uniti per la Salute, Amare Vado, Banca Etica, GaSSa acquisto solidale, Vivere Vado, Medicina democratica, Libreria UBIK, NuovoFilmstudio, Altromondo, Centro culturale P.Impastato, Associazione Energie Rinnovabili Vallebormida, ecc.

Ringraziamo vivamente tutti gli esperti, i medici, i biologi, gli amministratori, i giornalisti, i comitati che si sono pazientemente adoperati nello stilare questo documento. Iniziativa a cura della libreria UBIK.

La legge è uguale per tutti?

A Vado Ligure, alle porte di Savona, si registrano mille morti in più per cancro rispetto ai parametri scientifici presi a riferimento, scrive “Il Radar”. Secondo un’altra fonte, l’Istituto tumori di Genova, nel decennio 1988-98 a Vado sono morte di cancro 112 persone su 100mila contro una media nazionale di 54, più del doppio. Tutti puntano il dito sulla centrale a carbone della Tirreno Power, che, come riporta Il Giornale, da quarant’anni brucia fino a 4.000 tonnellate di carbone al giorno. La storia va avanti dal 1971, quando Enel inaugura la centrale che produce energia elettrica. Trent’anni dopo, nel novembre 2002, l’impianto passa a Tirreno Power, una cordata di imprenditori tra i quali primeggia Carlo De Benedetti. La procura di Savona apre un fascicolo per omicidio colposo, lesioni colpose e disastro ambientale. Niente sequestri, niente arresti, niente confische. In Liguria la Tirreno Power (che è il quarto produttore elettrico nazionale) sfrutta un ampio sostegno trasversale, un intreccio tra politica e imprenditoria che fa da scudo alla gigantesca centrale, una delle 13 ancora alimentate a carbone in Italia. Governa la sinistra e tutti devono stare zitti, soprattutto se c’è De Benedetti di mezzo…

Ciò che vale per l’Ilva non conta se c’è di mezzo De Benedetti, scrive “Tempi”. A Vado Ligure, vicino a Savona, «si registrano mille morti in più per cancro rispetto ai parametri scientifici presi a riferimento. (…) I cittadini, gli ambientalisti, gli esperti, la magistratura, perfino la curia puntano il dito sulla centrale a carbone della Tirreno Power, che da quarant’anni brucia fino a 4.000 tonnellate di carbone al giorno». Così si legge in un articolo pubblicato dal Giornale e scritto dall’inviato Stefano Filippi, che sembra raccontare una storia simile all’Ilva, ma con differenze importanti. Nel 2002 l’impianto inaugurato da Enel nel 1971 passa a Tirreno Power, «una cordata di imprenditori tra i quali primeggia Carlo De Benedetti, che però non ne ha il controllo». Nonostante le riconversioni a gas di due gruppi termici, le unità a carbone bruciano ancora e ci vuole Greenpeace «per attirare l’attenzione sulle due enormi ciminiere bianche e rosse che scaricano nell’aria enormi quantità di polveri sottili: è il luglio 2009». La procura di Savona «apre un fascicolo per omicidio colposo, lesioni colpose e disastro ambientale» e viene realizzata una consulenza da tre esperti depositata a fine giugno. Ma se a Taranto, per l’Ilva, sono scattati dalla magistratura provvedimenti clamorosi, in Liguria «niente sequestri, niente arresti, niente confische»: «Mancano ancora conferme sui legami tra emissioni della centrale termica ed effetti sulla salute pubblica». La differenza di trattamento tra Ilva e Tirreno Power è forse dovuta a «un intreccio tra politica e imprenditoria». A Vado Ligure, infatti, la sinistra governa da sempre ma soprattutto nella centrale è fortemente implicato Carlo De Benedetti. L’editore di Espresso e Repubblica, tessera numero uno del Pd, «controlla il 39 per cento della centrale attraverso Sorgenia (gruppo Cir). Tirreno Power appartiene a due società al 50 per cento: da un lato i francesi del gruppo Gdf Suez, dall’altro Energia Italiana Spa. Le cui quote sono così ripartite: 78 per cento a Sorgenia, 11 per cento ciascuna alle multiutility quotate Hera e Iren, ex aziende municipalizzate di città storicamente in mano alla sinistra come Torino, Genova, Bologna e l’intera dorsale emiliano-romagnola». Anche Legambiente è «socia di De Benedetti: ha il 10 per cento della società Sorgenia MenoWatt che si occupa di soluzioni per l’efficienza energetica». Sta qui il motivo della disparità di trattamento tra Tirreno Power e Ilva?

Vado Ligure? Repubblica tace, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Tra l’Ilva di Taranto e la centrale elettrica di Vado Ligure non ci sono soltanto mille chilometri di autostrada. In Liguria la magistratura ha operato sino a oggi senza clamori. Niente sequestri né arresti alla tarantina, per intenderci. Eppure non è stato smentito dalla Procura che una perizia abbia stimato, fra il 2000 e il 2008, un deciso aumento della mortalità nella popolazione: si parla di mille morti in più. I magistrati indagano per disastro ambientale e omicidio colposo. A Taranto e a Vado Ligure il copione è identico: impresa inquinante e magistratura inquirente. Il caso savonese è ancora agli inizi, ma le «cimitiere» e i fumi lenti e inesorabili che si scorgono dal Golfo dei poeti sarebbero un buon motivo per un’incursione giornalistica nella terra di Ponente, dove tramonta la dignità del lavoro soffocata da capitalisti senza scrupoli. E la fantasia dei cronisti della Repubblica potrebbe sfogarsi in rivoli di inchiostro colpevolista, della stessa risma di quello iniettato per mesi nell’opinione pubblica per il caso di Taranto e dei Riva condannati preventivi. Invece niente, sull’impianto della Tirreno Power, di cui dal 2002 la Sorgenia del gruppo Cir è stata importante azionista, neppure una riga. Anche dal 19 settembre, quando il Secolo XIX riporta la notizia della relazione dei periti della procura, La Repubblica tace. Evidentemente la notizia sfugge all’occhio selettivo del Grande Editore. Non solo quel giorno, ma anche in quelli successivi. Vado Ligure? Non esiste. Dato che il garantismo è estraneo alla logica dei due pesi e delle due misure, va detto si parla di una perizia di parte: nessuna verità rivelata. E si dovranno attendere le controdeduzioni dell’azienda, perché De Benedetti ha il sacrosanto diritto di difendersi. E va detto anche che secondo l’Assocarboni quasi un terzo della domanda di energia europea viene soddisfatta dal carbone. Ma intanto La Repubblica impone la regola del silenzio. A Taranto, cari colleghi, avete lanciato i sassi di un’intifada indegna perché faziosa e ideologica. Mille chilometri a nord, invece, non solo deponete le armi, ma riponete le penne perché avete deciso che i cittadini non devono sapere. Vado Ligure non esiste. Adriano Sofri, per citarne uno, non ha trovato ancora il tempo per una passeggiata tra gli abitanti di questo paesino a due passi da Genova. Tra «le rovine ciclopiche dell’Ilva», invece, Sofri c’è stato a più riprese. Ogni volta ha ritratto «l’inferno dell’archeologia contemporanea» dove i Riva, ha stabilito Sofri con l’inoppugnabile certezza che non abbisogna di processi, sono responsabili di aver «prosciugato la cassaforte dell’Ilva trasferendone le risorse a un labirinto di società industriali e finanziarie». E a chi dice che le bonifiche del territorio costerebbero un paio di centinaia di miliardi di euro, ecco servita la rampogna sofriana: «Non è una cifra, è un’amara barzelletta». Il 31 marzo, sotto il titolo «L’aprile crudele dell’Ilva», l’editorialista fa di conto: «I lavori indispensabili a mettere in ordine lo stabilimento costerebbero poco meno dei 10 miliardi del cosiddetto salvataggio di Cipro». A Vado Ligure, Sofri lo attendono ancora. Prima o poi arriverà. Intanto intervista i dipendenti dalla fabbrica pugliese: «Dicono gli operai più anziani che una volta che l’Ilva fosse disertata e smantellata [...] si scoprirebbe quale irredimibile discarica tossica abbia via via sedimentato il suolo su cui poggia lo stabilimento, e i canali dai quali avvelena i mari». E a metà settembre, quando in seguito al maxisequestro preventivo i Riva annunciano la chiusura di alcuni stabilimenti, Sofri impugna la penna contro «la ritorsione che vuol mettere questi lavoratori contro quelli dell’Ilva tarantina, e gli uni e gli altri contro procura e gip di Taranto». Sofri mobilita persino Papa Francesco: «Se fossi il papa visiterei le discariche dell’Ilva». Il titolo dell’articolo, manco a dirlo, è «La pelle degli operai». Non è omerico come quello del 5 giugno: «L’Iliade di Taranto». Chissà se a Repubblica qualcuno si accorgerà dell’Odissea di Vado Ligure: anche lì gli abitanti hanno qualcosa da raccontare. Gli operai della Tirreno Power hanno una pelle pure loro, prima o poi l’impeto operaistico sofriano soffierà sulle loro sofferenze. Oppure no? C’è poi il procuratore di Torino Raffaele Guariniello, quello della condanna dell’Eternit , il fautore della Procura nazionale per i reati ambientali. Guariniello finisce su Repubblica tv per la seguente dichiarazione: «La sentenza Eternit ha delle analogie con il caso di Taranto, per il quale potrebbe essere un precedente». Applausi. Quando però il 17 agosto lo stesso Guariniello partecipa all’evento organizzato dalla rete ambientalista «Fermiamo il carbone» contro la centrale di Vado Ligure, sul lungomare di Zinola non compare nessun cronista della Repubblica. Silenzio. Come non citare poi la fanfara anti-Ilva del vicedirettore Massimo Giannini, che a Ballarò si scaglia contro il «capitalismo rapace e irresponsabile» dell’Ilva, dove «la gente muore e i mesoteliomi aumentano del 400 per cento l’anno», e poi esalta i magistrati: «Invece di dire che la magistratura è la responsabile dei nostri guai, dovremmo ringraziarla». Finora, va detto, i ringraziamenti di Giannini alla procura savonese non sono pervenuti. Per chiudere il cerchio debenedettiano tocca menzionare Roberto Saviano. Lo scorso 6 dicembre sulle colonne dell’Espresso descrive la sua «prima volta alla Camera». All’ingresso scorge un corteo di operai dell’Ilva, che manifestano «per il loro diritto al lavoro compromesso da politiche inadeguate, distratte, ladre». Poi aggiunge con tono profetico: «Ma la cosa più triste è che le uniche forze economiche nel nostro paese in grado di rilevare l’Ilva, di bonificarla e di rimetterla sul mercato sarebbero proprio le organizzazioni criminali». Per Saviano quella città è lo «specchio del paese Italia» che «paga le conseguenze di politiche industriali dissennate», mentre è sempre più urgente «immaginare un umanesimo che possa difendersi dall’aggressività del profitto». E dell’Editore. Applausi.

Così la Liguria rossa copre l'azienda tossica dell'Ingegner De Benedetti. Enti locali, sindacati, ambientalisti: De Benedetti, socio della centrale di Vado Ligure, gode di ampie coperture. Anche se il caso è simile all'Ilva, nell'inchiesta nessuna svolta, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Era il 1985, e Carlo De Benedetti acquisì in saldo il gruppo Sme dall'Iri prodiana in fase di privatizzazioni. L'operazione poi saltò, ma è un'altra storia. Nel 2002 è andata molto meglio all'Ingegnere con la liberalizzazione dell'energia. Perché è così che l'editore di Repubblica e l'Espresso ha consolidato la presenza nel settore: comprando alcuni impianti dall'Enel (cioè dal Tesoro) in base alle «lenzuolate» del ministro Pier Luigi Bersani. Tra queste centrali c'era quella di Vado Ligure, contestatissima perché alimentata a carbone. Come l'acciaieria Ilva di Taranto. Secondo i periti della procura della Repubblica di Savona, la centrale di Vado inquina e uccide. Le indagini procedono con grande prudenza senza i clamorosi provvedimenti di Taranto. Amicizie e buone coperture accompagnano il tesserato numero 1 del Partito democratico in questa avventura imprenditoriale. A partire dai sindacati, preoccupati per i posti di lavoro. Legambiente ha il 10 per cento di Sorgenia MenoWatt, società della galassia debenedettiana. E poi gli enti locali: mentre le altre due centrali termoelettriche a carbone liguri (a Genova e La Spezia) faticano a ottenere permessi per ampliamenti e ristrutturazioni, quella di Vado ha avuto i via libera richiesti. Dei quattro gruppi produttivi, i due che vanno a carbone non sono ancora stati riconvertiti. Tirreno Power, società proprietaria dell'impianto (De Benedetti ne controlla il 50 per cento), promette interventi per abbattere le emissioni delle due ciminiere. Oggi Tirreno Power è attenta a non coinvolgere De Benedetti nella propria attività. Ogni volta che si cita l'impianto di Vado e le indagini della magistratura savonese, piovono le precisazioni: l'Ingegnere è un semplice azionista di minoranza attraverso la società Sorgenia (gruppo Cir). Non andò così nel 2002, ai tempi dell'acquisizione dall'Enel. «Interpower al gruppo Cir», titolava Repubblica attribuendo il successo alla «cordata messa a punto dalla Cir» e in particolare «ai rapporti personali tra Carlo De Benedetti e Gerard Mestrallet, numero uno della Suez». Come andarono le cose? Per liberalizzare il mercato dell'energia, Bersani impose a Enel di non produrre più del 50 per cento dell'elettricità italiana. La società guidata da Piero Gnudi mise dunque sul mercato una capacità pari a 15 gigawatt divisa in tre Genco (Generation company). La Genco 1 chiamata Eurogen (7 gw) andò a Edipower e la seconda, Elettrogen, agli spagnoli di Endesa (5,5 gw). Alla gara per la terza Genco, Interpower (2,611 gw), furono presentate 19 manifestazioni di interesse da ogni parte del mondo ridotte a quattro offerte non vincolanti. Ma al dunque, giunse una sola offerta vincolante: quella della cordata Cir. L'Enel voleva un miliardo di euro, valore calcolato dall'advisor Mediobanca. De Benedetti offrì poco più di 800 milioni. Enel e governo (allora guidato da Silvio Berlusconi) chiesero un rilancio. I tempi giocavano a favore dell'Ingegnere, perché il decreto Bersani imponeva alla cessione una scadenza che si avvicinava. Enel avrebbe potuto azzerare la gara e chiedere un altro anno di tempo, come previsto in caso di offerta considerata non congrua. Ma Antitrust e Authority dell'energia non erano favorevoli. Alla fine il prezzo fu di 874 milioni, compresi 323 di debiti accollati. La cifra corrisponde a circa 336 milioni di euro per gigawatt. Enel incassò complessivamente 8,3 miliardi dalla cessione di 15 gw: all'incirca 550 milioni per gw. Significa che, per rilevare la Genco 3, De Benedetti ha sborsato in proporzione molto meno delle cordate per Genco 1 e 2. L'Ingegnere agiva attraverso la società Energia, di cui controllava il 74 per cento. I suoi partner nell'operazione furono Acea, municipalizzata del comune di Roma (allora il sindaco era Walter Veltroni) e i belgi di Electrabel (gruppo Suez), vecchi avversari quando l'Ingegnere tentò la scalata alla Société Générale de Belgique: Mestrallet ne era il presidente. Ma i due nel frattempo erano diventati buoni amici grazie alla comune frequentazione dell'Ert (European round table), associazione che riunisce i maggiori manager europei.

LE TANTE STRANEZZE DELLA SANITA’ PUGLIESE.

''Tutto il Cda del San Raffaele è espressione dell’assessore regionale al Bilancio Michele Pelillo”: lo denuncia in una nota il consigliere regionale Pdl Nino Marmo e vicepresidente del Consiglio regionale pugliese. I componenti del Cda sono, secondo Marmo, “sempre e soltanto di sodali a vario titolo dello stesso assessore, ivi compresa la moglie di un magistrato suo compagno di scuola e un altro socio del suo onnipotente studio legale, tutti calorosamente impegnati nella sua faraonica campagna elettorale, integralmente impostata sulle promesse di assunzione al San Raffaele”. Marmo, che già nei giorni scorsi aveva denunciato il fatto che il presidente del Cda – poi dimessosi dall’incarico – della Fondazione San Raffaele era un socio dello studio di Pelillo, ha ribadito la necessità che l’assessore regionale si dimetta. Chiede anche le dimissioni dell’intero Cda del San Raffaele di Taranto, “tutto inquinato – afferma Marmo – da una smaccata politicizzazione ad uso personale”. 

Michele Pelillo è un personaggio di nessun spessore politico e tuttavia è un referente di importanti Magistrati ed ex Magistrati di M.D. delle province di Taranto, Brindisi e Lecce, scrive Michele Imperio.

Le tante stranezze della sanità, scrive Michele Imperio. Lea Cosentino era stata arrestata circa anni fa per la manipolazione di un concorso da primario. Ora evidentemente ha deciso di collaborare per cui racconta la sua verità. Il magistrato che andava a cena con Giampaolo Tarantini è la dott.sa Giulia Romanazzi tuttora incredibilmente giudice dell'Ufficio G.I.P. del Tribunale di Bari, così come incredibilmente tuttora continua ad essere g.i.p. presso il Tribunale di Bari il dott. Vito Fanizzi nonostante quello che di lui ha riferito il Procuratore Capo della repubblica di Bari Antonio Laudati. Il magistrato che invece spartiva appalti con Giampaolo Tarantini è il dott. Cosimo Bottazzi, presunto socio occulto dell'imprenditore brindisino Marco Macchitella, impianti sportivi, titolare di un grosso complesso sportivo nel territorio di Fasano. Con Macchitella, Bottazzi si accompagnava a Roma per interloquire con Finmeccanica, e ciò anche con un contorno di escort. Cosimo Bottazzi è già stato Procuratore capo della Repubblica di Brindisi, ed è tuttora incredibilmente Sostituto Procuratore generale presso la Procura Generale di Bari. Dovrebbe censurare ed avocare a sè le inchieste di giudici della procura eventualmente molto più corretti di lui. La Procura Generale di Bari vanta ora il non invidiabile record di avere ben tre magistrati inquirenti e al tempo stesso inquisiti. Uno - come detto - è il dott. Cosimo Bottazzi, l'altro è il dott. Giuseppe Scelsi, Pino per gli amici, imputato di calunnia in danno del Procuratore capo Antonio Laudati e - probabilmente - anche di altri reati per le rivelazioni di segreti di ufficio, per le confidenze rifiutate ad Alberto Maritati e fatte a Giampaolo Tarantini in relazione all'assenza di indagini in corso per spaccio di droga a carico dell'imprenditore leccese Roberto De Santis, per le sue scorribande con il sen. Alberto Tedesco  e l'altro ancora è il dott. Giuseppe Chieco nei confronti del quale è stata riaperta una vecchia inchiesta in relazione a fatti di omicidio consumati quando lui era nel 1988 Procuratore Capo della Repubblica di Matera (il noto omicidio dei c.d. fidanzatini di Pollicoro) fatti su cui ci fu da parte sua una archiviazione molto sospetta. Finora il CSM ha espulso o ha tentato di espellere da Bari solo Magistrati integerrimi e universalmente stimati. Alludo ai giudici Giuseppe De Benedictis che a suo tempo scrisse le ordinanze sulla cooperazione che riguardavano uomini vicini all'on.le Massimo D'Alema e ora recidivamente ha scritto le ordinanze sul megascandalo della sanità pugliese che riguardavano il sen. Alberto Tedesco, trasferito punitivamente a Salerno e mi riferisco altresì ad Antonio Laudati il Procuratore Capo della Repubblica di Bari, il cui tentativo di trasferimento è fallito. Giuseppe De Benedictis è stato spedito a Salerno col preteso che aveva posseduto una carabina irregolare in una collezione di 1350 armi antiche. Allucinante il modo con cui alcuni colleghi hanno cercato di consolarlo: "Sai, qui a Bari dobbiamo fare la guerra e tu è meglio che ti togli di mezzo!". Sui tre imprenditori che parteciparono al Summit di Roma Cosimo Catalano è titolare di una cooperativa di Lecce in relazione alla quale sono stati avanzati dubbi di infiltrazioni malavitose. Enrico Intini è noto. E quindi - presumibilmente - Rino Metrangolo, il funzionario di Finmeccanica amico del Sostituto Procuratore generale Cosimo Bottazzi e dell'imprenditore brindisino Marco Macchitelli presunti soci, doveva gestire per iniziativa di Giampaolo Tarantini un terzo di questi appalti per le pulizia nella sanità pugliese. In realtà si trattava di subappalti perchè gli appalti sulla sanità in Puglia vengono tutti concessi in prima istanza a una società per il lavoro Interinale che si chiama Sanitaservice un dirigente della quale tal Massimo Novelli, pochi mesi fa è stato ammazzato (anche se dicono che si è suicidato) presuntivamente proprio per liti in ordine ad appalti per le pulizie negli Ospedali pugliesi. Ovviamente l'autore dell'omicidio è rimasto ignoto. Comunque appalti o subappalti trovo curioso che un Sostituto procuratore Generale si occupi, sia pure per interposta persona, di pulizie negli ospedali, quando poi le contese su queste attività danno anche luogo anche ad alcuni omicidi. Per una più completa visione delle interferenze della malapolitica nella martoriata Sanità pugliese vedi anche ingiustizia.info. Anche l'assessore Michele Pelillo è in contatto con alcuni Magistrati di M.D. per la gestione della sanità tarantina. Oltre ciò che riferisce la dott.sa Lea Cosentino nell'articolo soprapostato, vi è un altro episodio che lo lascia intendere. Nel settembre 2005 Niky Vendola, andando contro la volontà dell'assessore Michele Pelillo e d'intesa con gli esponenti dei D.S. Luciano Mineo e Gaetano Carrozzo, nominò direttore generale dell'ASL Taranto 1 il dott. Marco Urago medico di origini leccesi dall'imponente curriculum professionale. Subito si svilupparono una serie di proteste e di azioni violente che culminanarono anche con l'aggressione fisica ad opera di ignoti dello stesso Marco Urago. Per fargli capire che doveva smammare, i magistrati di M.D. tarantini incardinarono contro di il dott. Marco Urago ben cinque processi, quattro dei quali si sono poi conclusi, dopo la sua estromissione dall'ASL, con l'archiviazione (cioè non c'era niente). Uno di questi processi a distanza di tanti anni cuoce ancor'oggi in pentola a fuoco lento. Tra il 20 aprile e il 4 maggio del 2007 (quindi nemmeno due anni dopo la nomina di Urago) avvennero in Castellaneta (un paese in provincia di Taranto) questi fatti del tutto anomali e drammatici. In pratica otto pazienti cardiopatici ricoverati nel reparto Utic (Unità di terapia intensiva coronarica) morirono misteriosamente tra il 20 aprile e il 4 maggio del 2007. Pi si scoprì che invece di inalargli ossigeno gli veniva inalato un gas letale. La causa dei decessi infatti era un errato collegamento, in fase di esecuzione dell’impianto, della linea di ossigeno con la linea principale di distribuzione del protossido di azoto, un gas anestetico utilizzato da altri reparti, ma non dall’Unità di terapia intensiva coronarica (Utic). Uno scambio di tubi, insomma, tra l’altro di diverso colore e di diversa grandezza. Il sospetto che subito aleggiò è che si era trattato di un sabotaggio finalizzato a creare uno scandalo per espellere dai vertici dell'ASL proprio il dott. Marco Urago. Questi, già gravato di ben cinque procedimenti penali, tutti condotti da Magistrati di M.D., a seguito di questi fatti, rassegnò le dimissioni. Quattro di questi processi, ormai diventati inutili in quanto lo scopo (le dimissioni di Urago), era stato conseguito, sono stati - come detto - archiviati. Il dott. Aldo Petrucci, all'epoca Procuratore capo della repubblica di Taranto, esterrefatto, dichiarò alla stampa: "Non ho mai visto nella mia vita professionale, nulla di simile". Il dott. Domenico Colasanto, semplice chirurgo plastico e quindi non in possesso dei titoli per divenire direttore generale di una ASL, buon amico dell'avv. Michele Pelillo, è subentrato a Urago ai vertici della ASL tarantina. Una sera del marzo 2008 il dott. Domenico Colasanto era allegramente a cena con l'ex faccendiere del P.D. Giampaolo Tarantini, con un consigliere regionale del P.D. molto vicino all'avv. Michele Pelillo tal Michele Mazzarano e i giudici baresi di M.D. Giulia Romanazzi e Linda Carrieri e un altro Magistrato rimasto ignoto, nell'ormai noto convivio di 80 persone del Ristorante di Bari "la Pignata". A questo convivio era stato invitato anche il sen. Alberto Tedesco il quale declinò l'invito dicendo al telefono: "Siete dei pazzi a riunirvi tutti insieme! Finirete sui giornali! E io non voglio avere nulla a che fare con Giampaolo Tarantini!". La città di Castellaneta è una zona particolarmente calda quanto a episodi criminosi e giudiziari di dubbia interpretazione sostanziale e giuridica. A Castellaneta per esempio si è verificato lo strano caso del giudice Matteo Di Giorgio, una vicenda sulla quale ci siamo già lungamente intrattenuti. Il dott. Matteo Di Giorgio è stato addirittura arrestato per una serie di accuse, una più fasulla dell'altra, tant'è che alcune di esse sono state addirittura cancellate dalla Cassazione (cosa che la Cassazione non fa quasi mai se non in casi estremi per una sorta di rispetto del lavoro dei giudici di merito). Il vero addebito che si muova tacitamente al dott. Matteo Di Giorgio è quello di essersi eretto a vero sindaco della città di Castellaneta sotto le mentite spoglie di amici e parenti e di avere in questa veste licenziato gratis un grosso parco eolico di 200 pale, che doveva sorgere sul territorio di Castellaneta ad opera di una primaria ditta che opera in questo settore la società Firsendi-La Marca. In questa maniera però il dott. Matteo Di Giorgio ha tolto l'osso dalla bocca dei cani, laddove per cani devono intendersi i Magistrati di M.D. del Tribunale di Potenza giacchè, per ragioni a me ignote, nell'ambito di una certa geografia malavitosa e quindi indirettamente giudiziaria, Castellaneta rientra nella Basilicata e non nella Puglia. Come ho detto il dott. Matteo Di Giorgio è stato addirittura arrestato e sospeso dalle funzioni per questa cosa che ai magistrati di M.D. di Potenza è apparsa come uno "sgarro" in loro danno. Ma poi le varie misure cautelari, una più assurda dell'altra (addirittura per un certo periodo il dott. Matteo Di Giorgio novello Carlo Levi, è stato sottoposto alla misura del soggiorno obbligato in quel di Gioia del Colle) sono decadute e questo gli darebbe diritto a rientrare nei ranghi della Magistratura in servizio effettivo dopo che dalla stessa egli è stato momentaneamente sospeso. Senonchè il CSM non trova per lui altro spazio libero se non il Tribunale di Milano, dove gli ha offerto di trasferirsi. Si tratta chiaramente di una indebita gravissima pressione da parte di un organismo istituzionale (il CSM) tesa a indurre un Magistrato integerrimo e universalmente stimato a lasciare la Magistratura. Indebita ma inutile perchè lui la Magistratura non la lascerà mai. Nell'azione politica dell'avv. Michele Pelillo assessore al Bilancio della regione Puglia, affiliato alla corrente del P.D. che fa capo all'on.le Enrico Letta, erede politico di Nicola Mancino e di Virginio Rognoni, stragisti ormai conclamati ( ribadisce Michele Imperio), si nota chiaramente la mano del giudice massone Giovanni Massagli, già Procuratore della Repubblica di Taranto all'epoca delle stragi del 1992 e del 1993 e poi Presidente della Corte di Appello di Venezia, oggi in trattamento di quiescenza. E lui nelle vicende del 1992 come altri Magistrati massoni - secondo la nostra prospettiva - ha avuto un ruolo.  Definisco il dott. Giovanni Massagli un giudice massone perchè egli ha scritto un libro sui simboli della Massoneria, lo ha poi reclamizzato su Internet e poi lo ha oscurato. Questa qualità del Massagli è particolarmente inquietante perché le stragi del 1992 e del 1993 furono originate da tante ragioni ma una di queste fu un conflitto tra logge massoniche di opposta tendenza politica, però entrambe democristiane. Prima delle elezioni americane del 1992 che portarono alla presidenza di Bill Clinton le due fazioni marciavano assieme unite dal veto americano a un governo partecipato ai comunisti ancora in vigore. Ma nel 1993, dopo la vittoria negli Stati Uniti d'America dei Democratici di Bill Clinton (novembre 1992), il governo americano fece venir meno il veto a un governo della ex D.C. con l'ex PCI per cui il gruppo democristiano stragista si spaccò in due:

- da una parte il gruppo Mancino-Scalfaro-De Mita cui apparteneva anche il Massagli, che voleva un'alleanza con l'ex PCI;

- dall'altra il gruppo Martelli-Gardini voleva un'alleanza con l'ex MSI e l'estrema destra.

I due gruppi con le rispettive proiezioni nei servizi segreti e nella massoneria hanno incominciato a farsi la guerra fra loro con avvertimenti criptati contenuti nei quattro attentati e nelle stragi del 1993. Alla fine i Democratici USA decisero di scaricare il progetto Enimont di Gardini-Fazio-Martelli non gradito da Israele, e di privilegiare il progetto del Centrosinistra Scalfaro-Prodi, gradito alle lobby anglofone-sioniste e proiettato nelle logge massoniche della Sinistra democristiana alle quali - come detto - era affiliato anche Giovanni Massagli, padrino del Pelillo. Giovanni Massagli è stato avviato alla Massoneria tanti anni fa dall'avv. Cesare Ciaccia noto e stimato avvocato civilista tarantino, prematuramente scomparso. Ma poi una volta inserito, ha fatto una notevole carriera interna alla massoneria e ai servizi segreti per conto suo, anche a livello nazionale. Cesare Ciaccia era il padre dell'avv. Paolo Ciaccia socio del Pelillo nella conduzione dello studio legale "Avvocati associati", assunto recentemente agli onori della cronaca perchè Pelillo lo aveva nominato presidente della Fondazione tarantina del San Raffaele, il grande Ospedale di eccellenza finanziato dalla Regione Puglia, che deve essere realizzato nei prossimi anni a Taranto. La cosa ha suscitato una massa di critiche perchè riuniva in un solo studio professionale sia la figura del controllore che quella del controllato. E l'avv. Paolo Ciaccia è stato costretto a dare le dimissioni. Quindi Massagli, Pelillo e Ciaccia fanno tutti parte di un unico filone politico e massonico legato alla Sinistra democristiana c.d. di base (Rognoni, Mancino, Scalfaro, ed ora Enrico Letta). La scelta di Paolo Ciaccia come presidente della Fondazione San Raffaele non è frutto dell'ingenuità di Michele Pelillo bensì - io penso - dell'arroganza del suo padrino politico, ossia del giudice massone Giovanni Massagli, il quale, essendo ex Magistrato e Massone, pensa di poter fare in ogni sede i cazzi suoi, senza essere mai criticato o censurato.  A questo punto però è necessario che io mi spenda per descrivere tutte le scorrerie che nel tempo ha fatto la c.d. Sinistra democristiana di Base, un segmento criminale dello schieramento politico nazionale, mandante di quasi tutte le stragi e di quasi tutti gli omicidi eccellenti che si sono verificati dal 1978 in poi, nell'ambito dei c.d. misteri d'Italia. Fino al 1978, anno del sequestro Moro la Sinistra Democristiana era rappresentata da tre componenti: la Sinistra morotea, allora capeggiata da Aldo Moro, la corrente di Forze nuove allora capeggiata dall'on.le Carlo Donat Cattin e la corrente di Base allora capeggiata dagli on.le Ciriaco De Mita e Nicola Mancino. Nel 1978 l'on.le Aldo Moro quando fu rapito e ucciso era potentissimo: presidente della D.C. era lui, segretario della D.C. era Luigi Zaccagnini che era sempre lui, presidente del consiglio dei ministri era Giulio Andreotti, il quale faceva tutto quello che diceva lui. La Sinistra di Base si sentiva quindi schiacciata. La Sinistra di Base partecipò attivamente al sequestro Moro, tant'è che si sostiene che fu la corrente democristiana che più si oppose alla sua liberazione, quando gli americani tolsero il veto al suo ritorno in libertà, temendo che Aldo Moro, ritornato libero, sarebbe diventato più potente di prima e quindi l'avrebbe massacrata. Aldo Moro intuì questa presenza della Sinistra di Base nel suo rapimento. E questa deve essere stata la ragione, per cui dalla prigione brigatista delegò espressamente Riccardo Misasi allora figura di spicco della Sinistra D.C. di Base, il compito di convocare un Consiglio nazionale straordinario della Dc. Riccardo Misasi allora era uno degli uomini più potenti e temuti del partito, chiamato di volta in volta "il gran visir", "il vicario", "il viceré" o "il grande cuciniere". Dopo la morte di Moro e il successivo assassinio due anni dopo di Piersanti Mattarella altro leader moroteo, il quale in una sorta di testamento politico attribuì le ragioni del suo assassinio a un incontro che egli ebbe a Roma con l'on.le Virginio Rognoni (Sinistra democristiana) pochi giorni prima di morire e che l'on. Virginio Rognoni come capiterà alcuni anni più tardi anche al suo sodale nonchè collega di corrente politica Nicola Mancino non ricordava più, la corrente morotea si ridusse a pochi esponenti politici (oggi la rappresentano soltanto l'on.le Peppino Gargani (P.D.L.) e l'on.le Dario Franceschini (P.D.), entrambi persone molto per bene) la corrente Forze Nuove scomparve e la Sinistra di Base acquistò tutta la rappresentanza della Sinistra democristiana. Essa teneva con Ciriaco De Mita e Riccardo Misasi evidenti collegamenti negli ambienti malavitosi meridionali e sopratutto nella Camorra, nella Ndrangheta e nella criminalità pugliese. Peraltro l'omicidio di Piersanti Mattarella è collegato a quello dell'on.le Pio La Torre, quest'ultimo per molto tempo pedinato dai Servizi segreti di ispirazione democristiana. Il giudice Rocco Chinnici fu assassinato proprio quando era giunto a comprendere ragioni e responsabilità politiche dell'uno e dell'altro omicidio. Le collusioni malavitose di Ciriaco De Mita e di Nicola Mancino in verità non sono mai emerse giudiziariamente (anche se nei Tribunali calabresi si dice correntemente che talune parti lese di sequestri di persona in Calabria denunciarono di aver trattato il riscatto del proprio congiunto direttamente con Nicola Mancino) ma nel 1992 Riccardo Misasi, sodale dei predetti, fu accusato dalla Procura di Reggio Calabria di associazione a delinquere di stampo mafioso, e la Camera, con il solo voto contrario del MSI, negò l'autorizzazione all'arresto. L'inchiesta con addebiti gravissimi, fu successivamente, di stralcio in stralcio, archiviata dai Magistrati di M.D. Da un'intercettazione ambientale di un processo celebratosi negli anni 90 a Bari che vedeva come parte lesa proprio il giudice massone Giovanni Massagli si evinceva che la Sinistra Democristiana aveva fondato in ogni capoluogo di provincia meridionale una cupola affaristica o un comitato d'affari, comprensivo di Magistrati, imprenditori e malavitosi, spesso associati fra loro da legami massonici. In buona sostanza fin dagli anni 80, in vista di una riforma in senso bipolare dell'assetto istituzionale, la Sinistra democristiana si stava preparando a diventare forza politica dominante, benchè minoritaria, dell'intero paese. Le stragi del 1992, supportate da Oscar Luigi Scalfaro e da Nicola Mancino, vanno viste anche nell'ottica di questo progetto politico. Infatti commissionando due stragi a Cosa Nostra (organizzazione malavitosa all'epoca più vicina al partito socialista e segnatamente alla fazione di Claudio Martelli che non ad essa Sinistra democristiana) contro personaggi amati da tutta la popolazione (Giovanni Falcone e Paolo Borsellino), la Sinistra democristiana mirava a discreditare Cosa Nostra al fine di sradicarla dal territorio e a mantenere di essa in Sicilia solo una piccola fazione. Questa fazione veniva identificata in quella capeggiata da Bernardo Provenzano, personaggio che tramite Vito Ciancimino non aveva mai assunto posizioni politiche marcate se non una vaga vicinanza all'on.le Salvo Lima e quindi all'on.le Giulio Andreotti proiezione nel sistema politico italiano dell'Opus Dei, il quale o sarebbe stato anch'egli assassinato oppure sarebbe stato indotto a ritirarsi dalla vita politica attiva. Di qui la volontà iniziale di Nicola Mancino e anche di Oscar Luigi Scalfaro di mandare avanti la nota trattativa solo con la fazione retta appunto da Bernardo Provenzano). Nell'Italia Meridionale l'ingerenza dei magistrati di M.D. nella politica è molto accentuata. In Puglia il sindaco di Bari Michele Emiliano è un ex Magiatrato di M.D. Il Magistrato di M.D. Lorenzo Nicastro è diventato assessore della giunta Vendola dopo aver indagato contro il suo avversario politico Raffaele Fitto e addirittura contro la stessa precedente giunta Vendola nell'ambito di conflitti interni alla stessa Sinistra poi ricompostisi. A Napoli il pm Giuseppe Narducci, tifoso dell'Inter, il quale fino al giorno prima aveva indagato contro Nicola Cosentino è diventato assessore della giunta di Luigi De Magistris, a sua volta ex Magistrato, dopo che la Sinistra aveva molto premuto affinchè diventasse sindaco di Napoli un altro magistrato Raffeale Cantone. In Sicilia Raffaele Lombardo si è circondato di magistrati di M.D. nel governo regionale del post-ribaltone e i Magistrati di M.D. hanno manifestato un'eccezionale benevolenza nei confronti del governatore Raffaele Lombardo a seguito di queste sue scelte nella composizione della giunta. A volte tuttavia questi rapporti sono occultati. Tale è il caso dell'assessore regionale Michele Pelillo il quale rappresenta vasti strati di M.D. tarantina ed è legatissimo all'on.le Enrico Letta erede di Nicola Mancino all'interno del P.D.

LE TANTE STRANEZZE DEL CASO ILVA.

Le tante stranezze dei sequestri Riva-Ilva e Riva-acciai, scrive Michele Imperio (1). Sono stato accusato di eccesso di fantasia quando ho detto che il mandato di cattura contro Emilio Nicola e Fabio Riva primi imprenditori italiani dell’acciaio e la loro successiva persecuzione giudiziaria (sequestro e chiusura conti degli stabilimenti di Verona, Caronno Pertusella (Varese), Lesegno (Cuneo), Malegno, Sellero e Cerveno in provincia di Brescia, Annone Brianza (Lecco)) che tende chiaramente alla loro distruzione è stato in realtà voluto da ambienti del famigerato partito democratico americano (quello che ha finanziato e sostenuto Al Qaeda sia nella guerra civile in Libia che in quella tuttora in corso in Siria) per uno sgarro internazionale di Emilio Riva. Questi secondo informazioni di “amici” avrebbe accettato, contro il loro volere, una grossa commessa per la realizzazione di un grande gasdotto russo che passava anche attraverso l’Iran e che andava in concorrenza con altri gasdotti progettati dall’Unione Europea d’intesa con l’Amministrazione democratica statunitense. Però i lettori mi devono dare atto che di fatti strani nella vicenda Ilva e negli ultimi sequestri di Riva acciai ne sono accaduti a carrette.

Ne voglio fare pertanto una minima rassegna. Il governatore della Puglia Niky Vendola per esempio ha subito all’interno di questa vicenda Ilva e in altre vicende giudiziarie consumatesi quasi nello stesso contesto di tempo alcune strane aggressioni da parte di alcuni Magistrati che si sono esaurite non appena lui ha fatto atto di pubblica sottomissione al nuovo leader della sinistra pro-euro Matteo Renzi, l’Obama bianco che guiderà l’Italia rossa alla vittoria nelle prossime consultazioni politiche “asfaltando” gli avversari di centro-destra (espressione che abbiamo sentito stranamente profferire prima da Giorgio Napolitano subito dopo la condanna in Cassazione di Silvio Berlusconi e poi da Matteo Renzi poco prima di questo nuovo sequestro in danno dei Riva). Vittoria con l’asfaltizzazione degli avversari finalizzata a far partecipare anche l’Italia alla realizzazione all’Unico Ordine Mondiale sorretto dall’unico partito mondiale che sarà il partito democratico transnazionale, il partito che asfalta le coalizioni avversarie. Queste aggressioni sono state messe in atto quasi congiuntamente da tre magistrati pugliesi uno dell’Ufficio G.i.p. del Tribunale di Taranto che è la sempre presente Patrizia Todisco e due dell’Ufficio della Procura della Repubblica del Tribunale di Bari Franco Bretone e Desirè De Geronimo , quest’ultima praticamente trasferita in via punitiva dal CSM dalla Procura della Repubblica di Bari alla Procura della Repubblica di Roma. Quindi anche Vendola si è sottomesso a Matteo Renzi e quando questo c’è stato le aggressioni giudiziarie sono cessate. Ma vorrò proprio vedere in che maniera Niky Vendola aderirà ai “contenuti” del programma di governo renziano, contenuti che partono dall’adesione piena e totale alla famosa lettera della Bce per arrivare all’ulteriore innalzamento dell’età pensionabile, ai licenziamenti più facili, alle privatizzazioni massicce di aziende pubbliche (anche l’acqua?); al far west dei contratti aziendali all’immigrazione “intelligente” cioè, seguendo la filosofia della vigente Bossi-Fini si accettano solo extracomunitari utili e programmati ecc. ecc. E voglio proprio vedere poi come farà Niky Vendola ad accettare alcuni dei collaboratori di Matteo Renzi il giuslavorista precarizzante Pietro Ichino, il fighetto Giorgio Gori l’economista iper-liberista Luigi Zingales, che, per non farsi mancare niente, ha firmato pure il manifesto reaganiano di Giannino, “Fermare il declino”. E voglio infine vedere come concilierà Niky Vendola la maggiore integrazione europea propugnata da Matteo Renzi con il new deal roosveltiano di cui tante volte ha parlato, come soluzione per far ripartire l’economia, che della maggiore integrazione europea di Renzi è l’esatto opposto. Comunque ………….sono fatti suoi……………….chi vivrà vedrà……………… Ma prima che Vendola si sottomettesse pubblicamente e dichiaratamente a Matteo Renzi in una ordinanza di febbraio 2013 il g.i.p. del Tribunale di Taranto Patrizia Todisco nel procedimento “Ambiente Svenduto” (Ilva) parla a lungo di lui. In quell’occasione Patrizia Todisco doveva dare risposta a un’istanza de libertate di Nicola Riva figlio di Emilio Riva detenuto dal 27 luglio 2012 con le modalità degli arresti domiciliari. Il profano deve sapere che queste ordinanze sulle richieste di rimessione in libertà degli arrestati non superano mai le cinque-sei paginette perchè in esse il giudice deve disquisire soltanto del pericolo di inquinamento della prova, del pericolo di fuga e del pericolo di reiterazione del reato da parte del solo imputato che promuove l’istanza. Quindi non degli altri imputati e men che meno dei non imputati. E poi deve disquisire solo in relazione alle imputazioni mosse così come appaiono dal capo di imputazione contenuto nell’ordinanza di custodia cautelare (cioè nemmeno deve stabilire l’innocenza o la colpevolezza dell’indagato, ma semplicemente il fumus boni iuris di una sua eventuale responsabilità). Senonché in modo del tutto originale e stravagante questa volta la dott.sa Patrizia Todisco ha scritto – pensate un pò! – ben 500 pagine di ordinanza e, benché dovesse occuparsi solo della posizione de libertate dell’indagato Nicola Riva, ha spulciato una per una tutte le intercettazioni telefoniche e ambientali che riguardavano nel processo denominato “ambiente svenduto” il governatore della Puglia Niky Vendola, nemmeno imputato, dilungandosi in commenti accusatori quasi che l’istanza l’avesse presentata lui e non Nicola Riva.  “Vedola – scrive la dott. sa Patrizia Todisco – ha fatto da regista e ha assecondato le pressioni dell’Ilva sull’ Arpa (Agenzia regionale di protezione ambientale), invece di imporre misure urgenti” all’azienda, per ridurre l’inquinamento” ……. Ha insomma messo in atto una serie di escamotage ”per non risultare inoperoso” di fronte all’opinione pubblica”??????????. “L’obiettivo dell’azienda – continua la dott.sa Patrizia Todisco – è far rimuovere il direttore generale dell’Arpa Giorgio Assennato, colpevole di aver prodotto una relazione nel giugno 2010 (quindi tre anni fa!) in cui si affermava la necessità di ridurre la produzione dello stabilimento di Taranto per ridurre le emissioni inquinanti”. In verità questa operazione (rimozione di Assennato) ammesso che sia stata effettivamente tentata, non è mai riuscita visto che l’incarico ad Assennato è stato pacificamente rinnovato dalla Regione e quindi dal suo presidente Niky Vendola. Ma il G.I.P. Patrizia Todisco anche su questa cosa ha da ridire. ”E’ evidente – scrive – che i ripetuti interventi della presidenza della Regione Puglia, in persona del presidente Vendola e del suo capo di Gabinetto Manna, avevano sortito gli effetti auspicati nei confronti di Assennato, che era molto più accomodante ed accondiscendente verso la predetta azienda, anche nel timore che, alla scadenza, il proprio mandato potesse non essere rinnovato dal presidente Vendola”. Cioè in buona sostanza il g.i.p. ritiene che Assennato benchè confermato, sia stato intimidito e ricattato. Mi chiedo: ma il dott. Giorgio Assennato che sicuramente sarà stato sentito più volte, come mai non si è mai lamentato di questi atteggiamenti di Vendola? E se la parte lesa non lamenta lei la commissione di un reato in suo danno come può inventarselo il giudice? Il gip cita poi una mail inviata il 22 giugno del 2010 da Archinà, capo delle relazioni esterne dell’Ilva a Fabio Riva, nella quale il primo informa il secondo di un incontro avuto a Bari con Niky Vendola. Il governatore, scrive Girolamo Archinà “si era fortemente adirato con i vertici dell’Arpa Puglia”, sostenendo che ”non devono assolutamente attaccare l’Ilva”. In quell’incontro, sostiene ancora Archinà, il governatore ”aveva pubblicamente dichiarato che il ‘modello Ilva’ doveva essere esportato in tutta la regione riferendosi, chiaramente, alla famosa ‘legge sulla diossina’ la cui gestazione era stata evidentemente frutto della concertazione tra la Regione e l’Ilva che aveva sempre osteggiato il cosiddetto “campionamento in continuo, ottenendo, appunto, in tale legge che ciò non fosse imposto”. Ma ci sarebbe di più! Sempre secondo il gip dopo quella riunione Vendola parte per la Cina e, quando rientra, chiama Archinà: ”State tranquilli – dice all’uomo dell’Ilva – non mi sono scordato non mi sono defilato”. Riferendosi, scrive il Gip, alla vicenda Giorgio Assennato. ”Col mio capo di gabinetto… Siamo rimasti molto colpiti… Siccome ho capito qual è la situazione… – dice Vendola – volevo dire che… Mettiamo subito in agenda un incontro con l’ingegnere… State tranquilli, non è che mi sono scordato.” E poi ancora: ”Noi dobbiamo fare… Ognuno fa la sua parte… E dobbiamo però sapere che… a prescindere da tutti il procedimento, le cose, le iniziative… L’Ilva è una realtà produttiva… cui non possiamo rinunciare… E, quindi… fermo restando tutto dobbiamo vederci… dobbiamo ridare garanzie… Volevo dirglielo perchè poteva chiamare Riva e dirgli che.. il presidente non si è defilato”. Un discorso assolutamente corretto politicamente e anche giuridicamente che cercava di contemperare le opposte esigenze in gioco. Ma il gip la vede diversamente e parla espressamente di “regia” del governatore di non si bene quale disegno criminoso e cita altre due telefonate – una tra il solito Archinà e una sindacalista e l’altra tra l’ex direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso e uno degli avvocati dell’Ilva – dalle quali emerge che, con il benestare di Vendola, bisogna ”frantumare Giorgio Assennato” e ”farlo fuori” (cosa che però – come abbiamo detto – non accade essendo stato Giorgio Assennato riconfermato proprio da Vendola). “Il complesso delle intercettazioni relative alle pressioni sul professor Giorgio Assennato – scrive ancora il gip – è da ritenersi, oltre ogni ragionevole dubbio, assolutamente attendibile, (attendibile? attendibili sono semmai i testimoni non le intercettazioni) così come è altrettanto evidente che il tutto si era svolto sotto l’attenta regia del presidente Vendola e del suo capo di gabinetto avvocato Manna”. Dunque – conclude il giudice – “è di tutta evidenza che la Regione Puglia, invece di imporre misure urgenti atte a monitorare in continuo le emissioni dell’Ilva, di concerto con i suoi vertici cercava di ricorrere ad escamotages, quali l’attivazione di ‘tavoli tecnici’, al fine di far guadagnare tempo all’industria nella realizzazione delle strutture di monitoraggio in continuo delle emissioni e, dall’altra parte, consentire alla stessa regione Puglia di non apparire inoperosa sul fronte ambientale agli occhi dell’opinione pubblica”. Quindi una posizione politica assolutamente corretta che cercava di praticare la concertazione, di salvare capra e cavoli, di salvaguardare il diritto la lavoro e il diritto alla salute, cercando di far guadagnare tempo all’azienda per consentirle di mettersi in regola e quindi sottoporsi al c.d. campionamento in continuo solo quando essa fosse apparsa adempiente. Dunque un invito nemmeno tanto oscuro e criptato, ma assolutamente esplicito e chiaro rivolto dal g.i.p. Patrizia Todisco ai suoi colleghi dell’Ufficio del Pubblico Ministero: Colleghi Pubblici Ministeri! Incriminate Vendola! Ma – dico io – ammesso che tutto questo sia corretto sul piano processuale, mi chiedo: ma che cosa c’entra Vendola con il ritorno alla libertà di Nicola Riva?………..Mha………………..

Le tante stranezze dei sequestri Riva-Ilva e Riva-acciai, continua a scrivere Michele Imperio (2). Gli attacchi giudiziari contro Niky Vendola da parte del gip di Taranto Patrizia Todisco non si comprendono appieno nella loro finalità (distruggere Vendola per allargare il consenso di Matteo Renzi) se non si guardano in un contesto più vasto ossia insieme ad altri due clamorosi attacchi giudiziari che Niky Vendola ha subito da parte di due Magistrati della Procura della Repubblica di Bari Franco Bretone e Desirè De Gironimo, dell’allegra brigata dei giudici politicizzati. I fatti: In un interrogatorio dell’8 aprile 2011 la dott.sa Lea Cosentino dirigente dell’ASL di Bari sotto inchiesta da parte del P.M: Desirè De Gironimo testualmente riferisce: «Un’altra pressione del Presidente Vendola riguarda la nomina di primario per la unità operativa di chirurgia toracica del presidio ospedaliero San Paolo. Nel 2008 era andato in pensione il professor Carpagnano. Noi Regione – dice la Cosentino – bandimmo il concorso e Vendola mi chiese di procedere velocemente sponsorizzando la nomina del dottor Paolo Sardelli del Policlinico di Foggia, suo amico e secondo lui molto bravo; espletai il concorso ma il dottor Sardelli non presentò la domanda confidando di poter essere collocato presso il Di Venere in una istituenda unità complessa. Quando Paolo Sardelli appurò tramite Francesco Manna, capo gabinetto di Niky Vendola, che l’istituzione non sarebbe stata realizzata, Vendola mi chiese insistentemente di riaprire il concorso per consentire al dottor Sardelli di parteciparvi. Io, a fronte di tali richieste, riaprii i termini del concorso con la scusa di consentire il massimo accesso a tutte le professionalità. Vinse il dottor Paolo Sardelli poiché in effetti era il più titolato. Paolo Sardelli poi mi impose attraverso Vendola di fare una ristrutturazione del reparto e di dotare il reparto delle attrezzature idonee per la funzionalità dello stesso». Il reparto di Chirurgia toracica dell’Ospedale San Paolo di Bari, si occupa della diagnosi e del trattamento di patologie chirurgiche toraciche, dei tumori del polmone e pleura, dei tumori della parete toracica, dei tumori mediastino. Sue principali attività sono: Broncoscopie, toracentesi, drenaggi pleurici, talcaggi, interventi di chirurgia endoscopica, interventi di chirurgia diagnostica, interventi su protesi tracheale, interventi di chirurgia toracica maggiore, trattamenti sulla pleura. Quindi non un qualsiasi ospedale ma un presidio d’eccellenza, specializzato in una serie di branche mediche e di interventi chirurgici particolarmente delicati. Era giusto quindi porvi come primario un medico chirurgo alquanto titolato. Il professor Paolo Sardelli, quando ha concorso al posto di primario aveva già alle spalle seimila interventi di chirurgia ed endoscopia toracica. Il suo curriculum era lungo pagine e pagine, la sua carriera era cominciata con un 110 e lode all’Università di Bari ed era poi continuata a Houston, Parigi, Hannover. Insegnamento, pubblicazioni su prestigiose riviste, conferenze. Poi era tornato a Foggia e si era accontentato di essere il direttore di Chirurgia toracica dell’Ospedale di Foggia, dove però in due anni aveva trasformato il reparto tanto che, all’epoca, alcuni giornali dissero che aveva realizzato una struttura sanitaria a 5 stelle. Nel novembre 2007 aveva eseguito un’operazione mai tentata in Puglia insieme al primario dell’ospedale di Barcellona: un “trapianto” di un’aorta prelevata da un cadavere. La cosa ebbe una risonanza mondiale. Così il prof. Paolo Sardelli spiega l’approccio con il presidente Vendola al Corriere della Sera: “Fui contattato da Lea Cosentino che mi chiese se ero intenzionato a partecipare al concorso per l’ospedale San Paolo. Le risposi che non ci pensavo neanche perchè era un vero e proprio porcile. Quattro bagni e 25 posti letto. Non c’era climatizzazione, una serra, dove mancavano anche le persiane. Le dissi: Se prima cambiate le cose, ci posso pensare. Sei mesi dopo fu indetto il concorso e non presentai la domanda, seppi poi che c’erano tre candidati. A settembre mi richiama Lea Cosentino e mi fa: “Ma come non ha partecipato?”. Voi non avete fatto nulla e io perchè devo venire lì, le risposi. Fatelo e mi presenterò. Arrivò, a quel punto, la seconda telefonata di Vendola: “Nel mio piccolo, mi disse, cercherò di intervenire perchè i lavori siano fatti nel migliore dei modi”. Partecipai solo allora al concorso e lo vinsi». «Il 21 marzo scorso proprio il Corriere della Sera ha citato il mio centro fra i tre migliori in Italia. Sarò a Roma giovedì a tenere una lectio magistralis. Siamo stati citati fra i migliori dall’European Journal of Cardiothoracic Surgery. Quanto al processo che mi viene fatto, sono ferito, distrutto, le sembra giusto tutto questo? Il medico amico del presidente. Uno che lotta dalla mattina alla sera e per questo viene buttato nella merda! E aveva ben ragione di lamentarsi il prof. Paolo Sardelli perché anche uno studente di giurisprudenza al primo anno sa che l’illecito amministrativo (ammesso che sia tale la riapertura dei termini di un concorso pubblico) per essere reato deve essere finalizzato al conseguimento di un’utilità o di un vantaggio patrimoniale personale. Se l’utilità o il vantaggio è della collettività (per esempio far diventare primario un medico notoriamente bravissimo) il reato evidentemente non esiste. Senonchè dopo il rinvio a giudizio (assurdo!), dopo la richiesta di condanna in udienza a ben 20 mesi di reclusione sia di Vendola che di Sardelli (ancora più assurdo!) e dopo l’inevitabile assoluzione indovinate che ti fanno i due pubblici ministeri De Geronimo Desirè e Bretone Francesco? Scrivono ai vertici della Procura Generale e della Procura, Antonio Pizzi e Antonio Laudati, rispettivamente procuratore generale e procuratore capo, affinché possano attivare, “ove lo ritengano, i loro poteri di vigilanza e controllo” perché – udite! udite! – c’è una presunta amicizia tra il giudice Susanna De Felice che ha assolto Paolo Sardelli e Nichy Vendola e Patrizia Vendola la sorella di Nichy Vendola. I due pm mettono per iscritto: “Li lega sia un’amicizia diretta, sia la frequentazione di amici in comune. E ciononostante Susanna De Felice non ha ritenuto di doversi astenere!”. Su Internet compare una foto di dieci anni prima che ritrae Nichy Vendola e Susanna De Felice insieme ad un pranzo con un’altra ventina di conviviali. Sappia allora il profano che Il giudice ha l’obbligo di astenersi solo in questi specifici casi: 1) se ha interesse nella causa 2) se egli stesso è parente fino al quarto grado 3) se egli stesso o la moglie ha causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito con una delle parti; 4) se ha dato consiglio o prestato patrocinio nella causa, o ha deposto in essa come testimone, 5) se è tutore, curatore, procuratore, agente o datore di lavoro di una delle parti; 6) se, inoltre, è amministratore o gerente di un ente, di un’associazione anche non riconosciuta di un comitato , di una società che ha interesse nella causa . In ogni altro caso in cui esistono gravi ragioni di convenienza (e sarebbe quello che ci riguarda, cioè l’amicizia o la semplice conoscenza), il giudice può (dicasi può non deve) richiedere al capo dell’ufficio l’autorizzazione ad astenersi. Autorizzazione che può anche essere negata con l’obbligo di trattare ugualmente il procedimento. E allora – si dirà – i pubblici ministeri De Geronimo Desiré e Bertone Francesco che cosa vogliono? Che cosa vanno cercando? E chi lo sa! Ma la vicenda Sardelli non è la prima inchiesta che vede Il Sostituto Procuratore della Repubblica di Bari Desirèe Digironimo singolarmente proiettata nella ricerca di un’incriminazione e di una condanna a tutti i costi del governatore della Puglia Niky Vendola. Già in una precedente occasione Nichi Vendola era stato indagato da questo Magistrato e sempre per l’ipotesi di concussione nell’ambito della più vasta inchiesta sulla malasanità pugliese. Il riferimento era a un altro episodio di presunte pressioni di Vendola per la nomina di un altro primario il professor Nicola Logroscino pressione espletata nei confronti dell’allora assessore alla Sanità, Alberto Tedesco L’episodio faceva parte di un’informativa più larga consegnata dai Carabinieri alla Procura della Repubblica di Bari per denunciare il governatore Niky Vendola, insieme ad altre dieci persone per aver «imposto ai direttori generali delle Asl e di differenti presidi ospedalieri pugliesi, le nomine dei direttori amministrativi e sanitari, nonché di primari di strutture operative complesse al fine di rafforzare la presenza della propria coalizione politica nelle istituzioni locali». Però secondo la stessa accusa Niky Vendola avrebbe esercitato queste pressioni per la nomina di un solo primario e precisamente per questo professor Giancarlo Logroscino, barese, esperto di epidemiologia tornato in Puglia dagli Stati Uniti dove era stato addirittura docente alla Harvard School di Boston una delle più prestigiose università americane. Vendola lo avrebbe voluto primario all’ospedale Miulli di Acquaviva delle Fonti e di questa nomina avrebbe discusso con l’ex assessore Alberto Tedesco in conversazioni telefoniche che erano state intercettate dagli inquirenti in quanto costoro già indagavano sull’assessore regionale alla sanità. In una di queste conversazioni Niky Vendola avrebbe detto di aver saputo che per contrastare la nomina di Logroscino al “Miulli”, si era mossa perfino la Massoneria. Alberto Tedesco replica che la scelta di un altro nominativo era stata dettata esclusivamente dalla valutazione dei titoli professionali del concorrente di Logroscino. Toni animati tra i due, ma la conversazione si conclude con Tedesco che dice di aver trovato la soluzione. Logroscino in Puglia si sarebbe occupato di Sla Sclerosi laterale amiotrofica (mentre il nostro era esperto a livello internazionale di epidemiologia). Per questo motivo Nichi Vendola nel luglio del 2009 fu sentito in Procura dalla pm Desirée Digeronimo. Il colloquio tra i due durò ben quattro ore. E qualche giorno dopo fu seguito da una lettera aperta che il governatore pugliese scrisse alla Magistrata sui temi della sanità pugliese e sulle indagini che aveva provocato. In particolare il presidente della Regione lamentava che il pm Desirée De Geronimo avrebbe dovuto astenersi nell’inchiesta sulla sanità «per la ovvia e nota considerazione che la sua rete di amici e parenti le impedisce di svolgere con obiettività questa specifica inchiesta». E poi ancora Vendola proponeva un interrogativo, già rilanciato da altri esponenti del Pd. «La seconda anomalia riguarda l´aver trattenuto sotto la competenza della Procura Distrettuale Antimafia (la Degironimo era competente solo per questo tipo di inchieste e non per altre) una mole di carte che hanno attinenza con eventuali profili di illiceità solo nella pubblica amministrazione». Questo avviene a luglio 2009. Ma prima delle elezioni regionali del 2010 per via di una fuga di notizie la vicenda torna prepotentemente alla ribalta. Rimbalza sui giornali (quindi via giudiziaria più via mediatica) la notizia di una indagine a carico del governatore che così commenta: “Sono notiziole che danzano nell’aria e che provano ad assediare la mia vita, ma sono notizie usate continuamente come inquinamento della lotta politica. Nel caso di Logroscino – aggiunge – se sono davvero iscritto nel registro degli indagati, non vedo quali reati potrei aver commesso. Anzi, dovrei essere premiato per aver capovolto l’andazzo italiano che porta avanti le persone non per meritocrazia, ma per fedeltà politica. Ho l’orgoglio di aver chiesto di tornare in Puglia ad un associato di Harvard, presidente mondiale dell’associazione delle scienze neurovegetative. Direi che in questo caso ho difeso il primato del diritto alla salute. Faccio fatica a credere ad una ipotesi di reato a mio carico. Se fosse così, sarebbe una ipotesi stravagante”. ”Il professor Logroscino - spiega Vendola – è uno scienziato di fama mondiale associato all’Università di Harvard che presiede a livello mondiale una Società per le scienze neurodegenerative. Ha una caratteristica: è un pugliese, è un barese, uno dei tanti uomini del Sud che, per poter esprimere appieno il proprio talento, sono emigrati lontano dalla propria terra. Io ho parlato nel corso degli anni al telefono e ho incontrato il professor Logroscino, e gli ho detto: ‘ma perché non torna in Puglia e non mette a disposizione del nostro territorio il suo straordinario talento?’ Il professor Logroscino ha riflettuto, è tornato e oggi lavora in Puglia”. ”I giornali – continua – titolano di una probabile mia iscrizione nel registro degli indagati per questa storia che riguarda il professor Logroscino. Cioè, in un’Italia in cui puoi diventare primario anche se sei ignorante come una capra ma purché tu sia ben protetto dai partiti, noi abbiamo costruito una storia differente: venire qui, tornare in Puglia, portando con sé il peso della propria fama e del proprio prestigio scientifico. E’ difficile per me poter immaginare di essere iscritto nel registro degli indagati – conclude – per qualcosa per la quale pensavo di dover prendere una lode e di dover essere oggetto di pubblica gratificazione”. La tempistica della notifica emersa pochi giorni prima delle ultime elezioni regionali fa indignare perfino i vertici della Procura della Repubblica. Non vi sono, nel registro degli indagati di questa Procura – dichiara il Procuratore capo Antonio Laudati – iscrizioni suscettibili di comunicazione”. ”La Procura prende atto delle possibili strumentalizzazioni delle indagini per finalità diverse da quelle processuali – prosegue – così come delle precedenti fughe di notizie sugli accertamenti in corso: allo stato, non può ancora escludersi che esse siano riferibili a componenti del gruppo investigativo. A tal riguardo, sarà compiuto ogni sforzo al fine di identificare eventuali responsabili in relazione alle conseguenti ipotesi di illecito configurabili. Questo Ufficio assicura il massimo impegno – conclude il procuratore Laudati – per garantire, nel rigoroso rispetto della legge, l’espletamento delle indagini preliminari per finalità esclusivamente processuali”. Il dott. Antonio Laudati è stato recentemente trasferito in via punitiva dal CSM da Bari a Roma. Quindi si può dire in conclusione che le pressione di Vendola per la nomina di due primari Sardelli e Logroscino ci sono state ma erano pressioni rivolte a premiare il merito di due cattedratici e non – come dicono i Carabinieri – al fine di rafforzare la presenza della propria coalizione politica nelle istituzioni locali». L’inconsistenza dell’ipotesi di reato è quindi evidente a tutti. Ma allora perchè tanto accanimento da parte dei Magistrati Desirée Di Gironimo e Francesco Bretone? Il perché di questo accanimento giudiziario è presto detto: la prima ragione è che Nichy Vendola insieme a Michele Emiliano sotto il profilo politico e al procuratore capo di Bari Antonio Laudati per la parte giudiziaria avevano disgregato il sistema di potere bastato sulla criminale gestione della sanità pugliese quello – per usare le a parole di Michele Emiliano – in cui operavano insieme un livello legale e un livello illegale oppure – o per usare le parole di Niky Vendola – quello in cui dominava in lungo e in largo la Massoneria, vero gestore politico delle nomine dei primari ospedalieri e dei direttori amministrativi e sanitari delle ASL, tra i quali non mancano alcuni parenti di alcuni Magistrati. Alcuni però, sottolineo. La seconda ragione è che Nichy Vendola in quel momento era particolarmente inviso alla ex Sinistra Democristiana filoamericana quella che poi è confluita nel P.D. in quanto i vendoliani a quell’epoca squilibravano tutte le elezioni primarie interne al partito democratico a favore degli esponenti della corrente laica del partito e non di quella democristiana e dunque rendevano pressoché impossibile l’egemonia o il primato della ex Sinistra democristiana filoamericana sull’intero partito, egemonia che ora, anche a seguito di queste iniziative giudiziarie si sta realizzando attraverso l’ascesa al trono di Enrico Letta e di Matteo Renzi . Cioè voglio dire che qualcuno si è accorto anche a livello internazionale che la manipolazione dei processi penali e la propaganda mediatica dell’esito di questa manipolazione rende consensi politici a valanga. Sicchè la via preferita per contrastare e per “asfaltare” l’avversario politico, è diventata la via giudiziaria oltre che quella mediatica rendendo estremamente appetibile per l’uomo politico che vuole “asfaltare” l’avversario l’approccio con la Magistratura disponibile che nei casi che andiamo trattando si è personificata in questi tre Magistrati: Patrizia Todisco, (Taranto) Franco Bretone (Bari) e Desiré De Gironimo (già Bari ora Roma).

Le tante stranezze dei sequestri Riva-Ilva e Riva-acciai, continua a scrivere Michele Imperio (3). Gianni Florido per tantissimi anni leader della CISL tarantina e poi esponente politico del P.D. da mesi giace in stato di reclusione a Taranto. Catturato a mezzo di un mandato di cattura sottoscritto dai Magistrati Franco Sebastio e Patrizia Todisco, prima di questa cattura Gianni Florido era una figura molto nota e molto apprezzata sia della classe sindacale che della classe politica di Taranto. Ne faccio qui di seguito un breve exursus. Conclusa l’esperienza sindacale nella CISL cominciata fin dalla giovane età, nel 2000 Gianni Florido si presenta alle elezioni per il consiglio comunale di Taranto con una sua lista civica conquistando tre seggi. Con questi sostiene inizialmente una giunta di centrodestra guidata da Rossana Di Bello (Forza Italia). Nel 2004 Florido viene eletto per la prima volta Presidente della Provincia di Taranto, ufficialmente in rappresentanza di una coalizione di centrosinistra, in realtà grazie anche a un sostegno trasversale di quella parte di Forza Italia che faceva capo al sindaco Rossana Di Bello la quale in questa maniera ricambia il sostegno avuto da Florido in consiglio comunale dai suoi tre consiglieri. Nel 2006 per la mai chiarita vicenda del dissesto del Comune di Taranto (un ammanco nei conti del Comune di oltre 900 milioni di euro che finora la Magistratura tarantina ha lasciato senza colpevoli, fatta eccezione per le condanne inflitte al dirigente della ragioneria comunale Luigi Lubelli, che chiaramente non era solo lui) Rossana Di Bello dà le dimissioni da Sindaco di Taranto. Il centro-destra tarantino va in crisi e da allora riduce di molto i suoi consensi. Approfittando di questo vuoto politico Gianni Florido, allora al massimo del suo successo politico, già Presidente della Provincia, si candida anche come sindaco. Vorrebbe ricoprire contemporaneamente le due cariche sindaco e presidente. In questa avventura viene sostenuto da DS, Margherita, SDI, Italia dei Valori. va al ballottaggio col candidato della sinistra radicale Ippazio Stefàno ma ne esce sconfitto. Nel 2009 cambiano molte cose a Taranto. Gianni Florido viene rieletto presidente della Provincia di Taranto, al turno di ballottaggio del 21 e 22 giugno con oltre 104.000 voti. Subito dopo questa elezione Florido abbandona il suo profilo centrista e si allea con il sindaco della Sinistra radicale Ippazio Stefano vicino alle posizioni del governatore della Puglia i Niky Vendola. In questa maniera egli crea una spaccatura nel P.D. locale. Il segmento del P.D. proveniente dalla ex Sinistra Democristiana guidata a Taranto da Michele Pelillo, parente di un Magistrato purtroppo deceduto e oggi parlamentare e Dante Capriulo vorrebbe ribaltare gli equilibri creatisi in consiglio comunale in favore della sinistra radicale. E con azione evidentemente concertata ma che no va a buon fine, Dante Capriulo da vita a un vero e proprio scontro con il sindaco in quanto Capriulo, con uscite pubbliche, accusa stranamente il sindaco Stefano, del quale era un importante assessore, di essere contiguo ad ambienti criminali della città. In realtà – come accerterà poi l’inchiesta – il sindaco Stefano aveva caritatevolmente aiutato un lontano parente di un pregiudicato in situazioni di vera e propria indigenza economica e quindi la sua posizione è stata addirittura archiviata. Gianni Florido concorre quindi a espellere Dante Capriulo dal partito democratico. Di qui però cominciano i suoi guai e le sue vicissitudini giudiziarie. “Amici” riferiscono che da questo momento in poi Gianni Florido viene messo sotto intercettazione telefonica da alcuni Magistrati della Procura della Repubblica di Taranto del “giro democristiano”. Non posso spingermi più di tanto nello spiegarvi che cosa sia a Taranto questo “giro democristiano”. Posso solo dirvi che Taranto è una importante sede Nato per cui la giustizia, la politica e perfino l’economia a Taranto non sono libere. Ci sono cioè pressioni perché nella politica nella giustizia e perfino nell’economia prevalgano certe persone piuttosto che altre. Oppure affinchè prevalgano certi orientamenti politici piuttosto che altri. Il “giro democristiano” di Taranto è quindi una cosa del tutto particolare, che coinvolge anche i servizi segreti. Ho le prove di quello che dico e queste prove le ho riversate in un giudizio civile che si sta svolgendo dinanzi il Tribunale di Potenza e che mi vede opposto come parte convenuta al Procuratore Aggiunto presso il Tribunale di Brindisi Nicolangelo Ghizzardi in un giudizio per danni. In questa sede posso solo dire che, secondo il mio personale convincimento, tutto ciò che sta avvenendo intorno all’Ilva e alla famiglia Riva, è frutto – come ho già detto – di un intrigo internazionale. In alternativa potrebbe essere dovuto al fatto che, in vista di una terza guerra mondiale, che qualcuno ha già deciso di fare (non certo in Italia si intende), il porto mercantile di Taranto deve diventare un importante porto militare sede dei sommergibili nucleari della Nato e quindi l’Ilva, che occupa la metà delle banchine del porto, deve andarsene e Riva e i suoi operai devono essere “asfaltati”. Anche questa è un’ipotesi da tener presente. Certamente stanno avvenendo troppe cose strane in questa vicenda per credere realmente che tutto sia riconducibile a un semplice fatto di inquinamento, per quanto grave. Ma torniamo a noi. Il 2009 è anche il tempo in cui cominciano i primi allarmi sull’ambiente e l’Ilva, pur senza il sostegno dello Stato o della regione (presenti nel risanamento di industrie siderurgiche fatto in tutti gli altri Stati che hanno ritenuto di proseguire la produzione di acciaio dato il suo carattere strategico), comincia a fare finalmente qualcosa. Appone gli elettrofiltri ai camini, applica agli impianti il sistema dell’Urea, un sistema che serve ad abbattere le emissioni di diossina, rifà completamente ex novo l’altoforno n. 4 e altri lavori ancora. La Sinistra radicale di Vendola ma anche Florido e Stefano sono impegnati in un processo di stimolo nei confronti dell’azienda affinchè ponga in essere tutti gli interventi necessari a risanarsi. Ma gli interventi si rivelano insufficienti. A seguito dello scellerato passaggio avvenuto tra il 2002 e il 2005 dell’area a caldo di Genova (quattro milioni di tonnellate di acciaio) in quel di Taranto dove già l’Ilva produceva oltre otto tonnellate di acciaio a caldo, voluto dall’allora direttore generale del ministero dell’Ambiente Corrado Clini, la situazione ambientale di Taranto si è fatta effettivamente pesante. Nel 2005 alcuni ambientalisti scoprono una connessione diretta di contaminazione da diossina dei terreni e morti da tumore e ne fanno denuncia alla Procura della Repubblica. Sempre nel 2009 assume il ruolo di Procuratore capo della Procura della Repubblica il dott. Franco Sebastio. 69 anni, sposato, padre di due figli, con i quali ha aperto recentemente a Taranto uno studio legale civilista insieme anche a un nipote, una lunga esperienza di pretore, prima, e procuratore presso la Pretura, poi, impegnato da sempre in prima linea a contrastare i reati in materia ambientale, Sebastio è un giudice molto popolare a Taranto perchè è un giudice peripatetico. Come Aristotele infatti interrompe per lunghi periodi della giornata il suo lavoro, passeggiando per i corridoi del Tribunale. Nulla di trascendentale, per carità, anche perchè Aristotele e Sebastio hanno la stesa origine etnica: greco il primo, magnogreco il secondo. Per cui una chiacchiera con Tizio, una battuta con Caio, un saluto con Sempronio, dagli oggi, dagli domani Sebastio è praticamente un Magistrato amato e rispettato da tutti gli operatori del Tribunale. Difficile convincerli che, dopo essere stato in gioventù un ottimo ed eccellente magistrato, Sebastio sia divenuto in vecchiaia la longa manus di un intrigo internazionale e che nelle sue mani l’istituto giuridico del sequestro preventivo per equivalente sia diventato un arma di distruzione di masse operaie e di aziende. Dal 2009 quindi le inchieste sull’inquinamento prodotto dall’Ilva sempre attive a Taranto, prendono tutto un altro impulso. Il 2009 è anche l’anno in cui Gianni Florido, il presidente della Provincia, oggi recluso, si avvicina ancora di più alle posizioni del sindaco della Sinistra radicale Ippazio Stefano il quale nell’ottobre 2011, a proposito della questione ambientale, rilascia a Il Ponte (rivista edita dal gruppo Ilva) queste incaute dichiarazioni: « Mi complimento per gli sforzi e i risultati ottenuti da Ilva. Attraverso i recenti dati clinici che ci giungono dalle Asl territoriali, emergono dati confortanti in relazioni alle malattie più gravi, patologie che non risultano in aumento, anche grazie al miglioramento dell’ambiente e della qualità dell’aria. Le dichiarazioni di Stefano vengono però smentite dai periti nominati da Sebastio i quali sostengono che le emissioni dell’impianto sono ancora nocive e danno vita a fenomeni degenerativi della salute, provocando ancora malattie e, nei casi peggiori, la morte per tumore di operai e cittadini. Negli ospedali tarantini si registrano casi di tumore perfino in bambini di sette anni. La situazione del quartiere Tamburi è drammatica: i casi di tumore sono quattro volte superiori a quelli degli altri quartieri della città. Il problema è stato sottovalutato ma, in realtà, questa situazione non è tutta colpa di Riva il patron dell’Ilva. Essa è il frutto oltre che delle esalazioni, della sedimentazione negli anni della diossina fuoriuscita dai camini dell’Italsider prima e dell’Ilva poi. L’impianto infatti è stato gestito per trenta anni dallo Stato dal 1965 al 1995 e solo negli ultimi quindici anni da Riva. La responsabilità di quanto accaduto è quindi per due terzi dello Stato, che peraltro ha costruito l’impianto in quella barbara maniera con immensi parchi minerali di polveri sottili all’aperto a ridosso di un quartiere della città i Tamburi, e per un terzo di Riva che non lo ha sufficientemente ammodernato. Ma di questo molti fanno finta di dimenticarsi. Il colpevole è solo Riva. Nell’aprile 2013 Ippazio Stefano viene iscritto nel registro degli indagati nell’ambito dell’inchiesta “Ambiente svenduto”, condotta dalla Procura della Repubblica di Taranto. Subito dopo il 15 maggio 2013 Gianni Florido, presidente della Provincia di Taranto, viene catturato con l’accusa di tentata concussione in danno di un funzionario della Provincia Luigi Romandini dirigente del Settore Ambiente, sempre nell’ambito dell’inchiesta denominata “ambiente svenduto” in merito alle concessioni per la discarica Mater Gratiae situata all’interno dello stabilimento. Ma l’imputazione in realtà è un giallo e dà la misura della strumentalizzazione cui l’inchiesta è soggetta. Infatti secondo il gip, sempre Patrizia Todisco mai un Magistrato diverso, Gianni Florido e l’assessore all’ambiente Michele Conserva (entrambi del P.D.), insieme all’ex consulente Ilva, Girolamo Archinà, e all’ex direttore generale della Provincia, Vincenzo Specchia, avrebbero esercitato pressioni su Luigi Romandini affinchè autorizzasse la discarica Mater Gratiae che l’Ilva aveva cominciato a costruire nel 1998 e che poi aveva finito di realizzare nel 2007. Quindi quasi dieci anni. Autorizzazione mai rilasciata dalla Provincia di Taranto perché non ci sarebbero stati i requisiti (quindi concussione tentata e non consumata). In seguito, l’Ilva fece ricorso al Tar di Lecce ottenendo ragione. In virtù di questo verdetto favorevole dei giudici amministrativi, Florido avrebbe chiesto al dirigente di pronunciarsi, “senza però – sostiene lui – esercitare alcuna pressione”. Il dirigente sostiene invece di essere stato trasferito per aver opposto ancora una volta un rifiuto all’autorizzazione. Peraltro il dissidio era più che altro su una questione giuridica e cioè se l’Ilva dovesse prestare o no fideiussione. Florido diceva di no, il dirigente diceva di si. Ma pare che la giurisprudenza del Consiglio di Stato desse ragione a Florido: le discariche interne agli stabilimenti non dovevano prestare alcuna fideiussione. Peraltro trasferire un dirigente all’inizio della legislatura è nei poteri di un presidente della provincia. Mi chiedo: ma si può arrestare un presidente della Provincia e far cadere un’amministrazione provinciale solo per una diatriba fra il presidente e un suo dirigente? Rendendosi conto di essere in difficoltà il dott. Franco Sebastio a questo punto ha fatto sapere per vie informali che le vere ragioni della cattura di Gianni Florido non erano quelle contenute nell’ordinanza di custodia cautelare ma altre. Stranezze……..E precisamente le vere ragioni erano costituite dal fatto che Gianni Florido aveva autorizzato altre discariche all’interno dell’Ilva (tra cui la Mater Gratiae) le quali erano semplici buchi a cielo aperto e non avevano alcuna impermeabilizzazione nè alcuna cautela. Mi chiedo: come è possibile che una grande azienda come l’Ilva ponga in essere – scusate il termine – queste stronzate? Eppoi come è possibile che non ne sapesse niente nessuno, che mai ai tarantini fosse giunta un’indicazione, una voce, un pettegolezzo di questo scempio? Ma c’è di più! Alcuni giorni fa la stesa discarica Mater Gratiae è stata autorizzata per decreto dal governo Letta (su proposta del ministro dell’Ambiente Andrea Orlando). Quindi siamo all’assurdo che il Governo ha autorizzano per decreto una discarica per l’autorizzazione della quale ci sono ancora persone detenute (Florido). Ma se le discariche erano illegali ieri, com’è possibile che sono diventate legali oggi attraverso un decreto ministeriale? Quindi se due più due fa quattro il dott. Franco Sebastio e la sua alter ego nel G.I.P. la dott.sa Patrizia Todisco dovrebbero a questo punto emettere un mandato di cattura anche nei confronti del premier Enrico Letta, del ministro Andrea Orlando e dei dirigenti del Ministero dell’Ambiente che hanno autorizzato quella discarica. Perché non lo fanno? La risposta di Sebastio su questo quesito, data sempre per vie informali è veramente originale: “Se una discarica è autorizzata da un decreto – dice – è tutto un altro discorso. Perché il decreto è una legge. E noi Magistrati siamo chiamati in primo luogo a rispettare la legge”. Mha!!!!!!! Io non ci sto a capire più niente.!!!!!!!!!!!!E voi? Altre stranezze……………

Le tante stranezze dei sequestri Riva-Ilva e Riva acciai, conclude Michele Imperio (4). E’ un’altra stranezza quindi quella per la quale per le autorizzazioni della discarica Mater Gratiae il presidente della provincia di Taranto Gianni Florido è finito in galera e Andrea Orlando, ministro dell’ambiente, non ha ricevuto nemmeno una critica dalla Magistratura. Volete scoprire l’arcano? Ebbene l’Ilva di Taranto non è più dei Riva. E’ di terzi acquirenti che – forse – non hanno ancora messo la firma sui contratti ma – certamente – non hanno conti in sospeso con Poteri Occulti Internazionali. “Voci” riferiscono che Riva non vuole più avere a che fare – giustamente – con la Procura e con il Tribunale di Taranto e dunque sposterà la sua area a caldo a Piombino. In cambio cederà quella di Taranto. Ecco che allora le nuove autorizzazioni sulle discariche Ilva passano indenni e l’intrigo internazionale si sposta in Lombardia e nel Veneto ala caccia ancora una volta di Emilio Riva. Dopo averli in un primo momento lasciati fuori, il binomio Sebastio- Todisco con un nuovo provvedimento notificato il 9 settembre u.s. e quindi emesso nel mese di agosto in pieno periodo feriale (ma che urgenza c’era? così li hanno comandati i Poteri Forti Internazionali?) ha esteso il sequestro di otto miliardi di euro anche a questi impianti e anche ai conti correnti che li alimentavano, scatenando un putiferio, perchè è chiaro che, chiudendo i conti, le aziende non possono più lavorare. E gli operai perdono il posto di lavoro. Ci spiegassero i nostro (Sebastio e Todisco) perchè per l’inquinamento di Taranto devono pagare un prezzo gli operai di Verona per esempio. Durissimo il comunicato di Federacciai rispetto a questa inizativa dei Magistrati di Taranto: Il blocco delle imprese di Riva Acciaio “provocato dai provvedimenti di sequestro emanati dalla magistratura di Taranto e non da una decisione di serrata da parte del gruppo Riva – dice la nota – ha suscitato enorme preoccupazione nei produttori italiani di acciaio che vedono in questo episodio un grave attacco alla libertà d’impresa e alle condizioni operative” Federacciai ha chiesto un incontro “urgente” con il premier Enrico Letta ed il ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato. Federacciai sottolinea la “fortissima tensione” registrata al direttivo odierno, svoltosi a Milano, ed evidenzia come “le imprese italiane, sia siderurgiche sia della trasformazione del metallo, si trovino in una situazione di grandissima difficoltà per il blocco delle attività di Riva Acciaio”. Il sequestro preventivo per equivalente serve a garantire lo Stato di un eventuale credito nei confronti dell’imputato, nel caso in cui l’imputato sia condannato. E’ vero che la norma non è chiara nel porre limiti al sequestro, ma anche un bambino capisce che un’azienda che ha commesse, funziona, è in attività e produce reddito, vale di più di un’azienda ormai chiusa da tempo. Dunque a chi giova questo sequestro della liquidità e dei conti correnti che fa chiudere l’impresa? Il procuratore della Repubblica di Taranto Franco Sebastio ha fatto intendere che c’è stato un frainteso fra lui e la collega Patrizia Todisco in quanto lui questa volta (differentemente dall’altra quando voleva chiudere l’Ilva) ha chiesto un sequestro con facoltà d’uso degli impianti e quindi dei conti correnti, la collega Todisco invece di sua iniziativa, discostandosi dalla sua richiesta, ha disposto invece il blocco della liquidità. Sabato scorso con una sua nota Sebastio ha specificato questo concetto ossia che il provvedimento di sequestro di 916 milioni di euro della famiglia Riva nell’ambito dell’inchiesta sul disastro ambientale dell’Ilva «non prevede alcun divieto di uso». Ma con una nota del giorno successivo l’azienda ha replicato che le parole della procura «non trovano purtroppo riscontro nel provvedimento del Gip di Taranto», notificato lo scorso 9 settembre, che dispone esattamente il contrario ossia il sequestro tout curt della liquidità. Che ci sia un contrasto fra Sebastio e Todisco lo si rileva anche dalle parole del sindaco di Verona Flavio Tosi: «Risulta sempre più evidente che non c’era una cattiva volontà degli imprenditori nel non voler tenere aperta la fabbrica – ha affermato il sindaco – Forse il giudice ha sbagliato a sequestrare i conti. Ma sta sbagliando ancora di più a non voler revocare il provvedimento. Sono sorpreso dagli sviluppi, da quello che ho saputo dal ministro Zanonato c’era la convinzione di poter riattivare i conti con un decreto. Invece si è deciso di demandare di nuovo la pratica al g.i.p. perchè si corregga. Mi chiedo: A che gioco stanno giocando Letta e i democristiani filoamericani? E sopratutto a che gioco stanno giocando Sebastio e Todisco? Perchè se un provvedimento giudiziario del g.i.p. non ha un impulso del P.M., come nel caso di specie pare che non ce l’abbia, allora il provvedimento del G.I.P. è privo di legittimazione e quindi è un abuso. Grave. Anzi gravissimo. Mi chiedo: Il dott. Sebastio se veramente è stato tradito dalla dott.sa Todisco, si è rizelato? Si è incazzato? Ha informato il CSM di questa vicenda? Ha informato almeno il presidente del Tribunale di Taranto Antonio Morelli? O sta lanciando la pietra per poi nascondere la mano? Dal resoconto de “Il Fatto quotidiano” sembra che in questa storia sia in atto una guerra fra Magistratura e Governo con la prima (o parte della prima), appoggiata da alcuni mezzi di informazione, che vuole espropriare le imprese dei Riva o anche chiuderle a costo di mandare sul lastrico centinaia di famiglie di operai (pur di eseguire la congiura internazionale diciamo noi), l’altro, il Governo (o una parte di esso) che cerca di difendere l’impresa o quanto meno i posti di lavoro. Scrive “Il fatto quotidiano” rievocando tutta la vicenda: “Il ministro dell’Ambiente Andrea Orlando invece di espropriare l’azienda (l’Ilva) sceglie la strada del commissariamento. La scelta cade su Enrico Bondi, già a.d. dell’Ilva scelto mesi prima proprio dai Riva. Il nuovo decreto “salva Ilva bis” viene confezionato in tempi record e varato a luglio 2013. Il 23 settembre 2013 potrebbe arrivare l’ennesimo regalo all’azienda per neutralizzare i provvedimenti della magistratura (chiaro riferimento allo sblocco dei conti correnti della Riva acciai). I giornalisti de “Il Fatto Quotidiano” non ha capito niente. Qui si tratta di restituire la liquidità all’azienda per garantire il prosieguo della produzione, cosa che dice di aver voluto anche Sebastio. E che invece non ha fatto la dott. sa Patrizia Todisco provocando o rischiando di provocare l’ennesimo intervento legislativo del governo. Il quarto in questa vicenda. Ricordo al profano che il g.i.p. (nella specie la dott.sa Patrizia Todisco) è una figura processuale istituita a suo tempo da Bettino Craxi allo scopo di controllare e di stemperare l’attività istruttoria di alcuni P.M., divenuti dopo la riforma del codice di procedura penale del 1989 i titolari di tutte le indagini, anche di quelle più complesse, al posto dei vecchi giudici istruttori. Si pensò allora di istituire una figura neutra il g.i.p., non appartenente ai P.M. e nemmeno alla difesa, che poteva neutralizzare eventuali eccessi di pubblici ministeri pervasi da possibili deformazioni professionale. Tanto è vero che all’origine questa figura fu criticata perché, confermando il più delle volte le richieste del P.M., sembrò ai più un semplice passacarte. Ma a Taranto il g.i.p. sembra essere diventato invece una sorta di passacoltelli, tento vero che qualche volta sono stati i P.M. a stemperare e a infrenare la attività del g.i.p. Patrizia Todisco e non il contrario. Ora il G.i.P. avrebbe anche scavalcato il P.M. nella negazione della facoltà d’uso degli impianti e delle liquidità della Riva acciaio. Mi chiedo: ma perché tutta questa frenesia della dott.sa Patrizia Todisco di voler mettere a tutti i costi le mani sui soldi delle aziende di Riva per sottrarli alla produzione (che se ne andrebbe a pallino) e per riporli in depositi infruttiferi presso le banche? E Sebastio davvero non voleva il blocco dei conti? La facoltà d’uso di un bene sequestrato va specificata in modi chiari e forti. Lo ha fatto? E se si come mai la dott.sa Patrizia Todisco non ha percepito il messaggio? Altre stranezze………………non vi pare? Lo spostamento della persecuzione di Riva al Nord non vuol dire che il lavoro politico di pulizia etnica da fare a Taranto sia cessato. Più di qualcuno ha notato che il presidente della provincia di Taranto Gianni Florido quando è stato catturato, alle ore 6 del mattino del 15 maggio 2013, aveva l’emittente Studio 100 TV piazzata fuori del portone di casa. Studio 100 ha quindi ripreso con le telecamere Florido che con le manette mentre veniva fatto salire sulla gazzella della Finanza e condotto in carcere. Chi ha avvertito questa emittente? E perché? Secondo i bene informati il calvario giudiziario di Gianni Florido è solo all’inizio. Quando scadranno i termini del primo mandato di cattura Sebastio e Todisco emetteranno contro Florido un secondo mandato di cattura con il quale il Procuratore della Repubblica di Taranto ipotizzerà a carico suo e a carico di alcuni sindacalisti a lui vicini, i quali pure saranno catturati, l’ipotesi di associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale perché insieme avrebbero costituito una sorta di cupola che gestiva le autorizzazioni irregolari e lesive dell’ambiente. Anche dietro queste future decisione c’è l’arcano. La verità è che siamo alla vigilia del più grande massacro sociale che la storia dell’umanità ricorderà ove mai dovesse prendere il Potere l’erede di Romano Prodi il famigerato Matteo Renzi e la sua miserabile accolita di liberisti estremisti fottutamente pro-euro. Un paese che già si trova ai vertici della graduatoria mondiale della pressione fiscale (54% del reddito) sarà fra due anni tartassato con finanziarie mostruose dell’ordine di 45 miliardi di euro ogni anno per venti anni per risanare il debito pubblico e pagare il fiscal compact, il trattato europeo al quale ci siamo impegnati e che prevede il pagamento di 45 miliardi di euro l’anno per venti anni per risanare il debito pubblico. Noi a tal proposito avremmo da indicare vie alternative. Ma se si vuol compiere questa operazione secondo i canoni tradizionali (nuovi tagli di spese e nuove tasse) bisogna preparare il campo. Qualcuno potrebbe protestare o ostacolare. Ecco che allora bisogna ricattare o annichilire i tradizionali partiti di sinistra (vedi quanto abbiamo già scritto a proposito del governatore della Puglia Niky Vendola oppure vedi quanto accaduto ad Antonio Di Pietro praticamente distrutto da una trasmissione di Report), e – ancora – bisogna indebolire i sindacati confederali (e quindi sputtanarli facendoli apparire come responsabili di imprese criminali) e poi facendo emergere altre organizzazioni rappresentative dei lavoratori al loro posto, organizzazioni più deboli meno organizzate e di stampo prettamente locale, che meno dei sindacati potranno contrastare e ostacolare l’imminente macellazione sociale. Da questo punto di vista la Procura di Taranto è una capofila, un laboratorio politico-giudiziario e anche mediatico di questa nuova forma di politicizzazione della giustizia. E difatti in alternativa al sindacato a Taranto si sta costituendo un gruppo di lavoratori dell’Ilva “i cittadini liberi e pensanti” da un tale Umberto Ranieri, già delegato Fiom, i quali non si riconoscono più nel sindacato e ne contestano l’atteggiamento tenuto in questi anni nei confronti della dirigenza dell’Ilva Naturalmente essi sono adulatori dei giudici e sono assistiti mediaticamente. Tutti hanno notato per esempio che ovunque c’è una telecamera di Report o di Presa diretta, c’è sempre un libero e pensante pronto a rilasciare un’intervista. Altre stranezze……………. “Voci” riferiscono che nuove inchieste sono in arrivo e nuovi avvisi di garanzia o mandati di cattura saranno emessi contro i capiarea dello stabilimento, contro l’ex ministro Corrado Clini, contro il prefetto Bruno Ferrante, l’amministratore delegato dell’Ilva contro l’ex ministro Stefania Prestigiacomo in una girandola di processi che non finiranno mai. Insomma bisogna colpire tutto ciò che c’è a sinistra dell’area di Matteo Renzi l’asfaltatore (e quindi il sindacato e gli altri partiti di sinistra) e tutto ciò che c’è alla sua destra. D’altra parte prima di fare l’asfalto nuovo c’è bisogno di sdradicare la strada vecchia. Altrimenti come si fa l’asfalto nuovo?

I RIVA, L'ILVA E GLI ESPROPRI PROLETARI.

«Il caso ILVA acquista ogni giorno di più uno straordinario significato di carattere generale che si aggiunge agli evidenti danni prodotti sull’economia e sul lavoro italiano da provvedimenti giudiziari sproporzionati e indifferenti ai terzi incolpevoli come i lavoratori, i clienti e i fornitori. Ora viene invocato il commissariamento generale del gruppo quale dichiarata premessa per la sua nazionalizzazione. Si vuole non solo sottrarre al mercato – con prevedibili effetti disastrosi sulla sua competitività – un gruppo produttivo decisivo per tutta l’industria metalmeccanica nazionale, ma costituire anche un più generale precedente per l’esproprio di società italiane sgradite facendo magari leva perfino sulla responsabilità oggettiva. Coloro che credono nell’economia di mercato e nelle più elementari libertà economiche, coloro che temono la fuga degli investitori – esteri in primo luogo – devono reagire con determinazione nelle sedi istituzionali». Maurizio Sacconi.

Il sequestro da parte del Gip di Taranto ”sottrae alla disponibilità di Riva Acciaio tutti i beni, senza disporre alcuna facoltà d’uso a beneficio dell’azienda”. Lo precisa Riva Acciaio, dopo la nota della procura di venerdì. ”Il sequestro preventivo penale – aggiunge Riva – impedisce all’azienda ogni utilizzo dei beni”. Inoltre Riva Acciaio sottolinea che le banche finanziatrici hanno congelato i fondi e che non è quindi possibile neanche pagare le utenze.

L'ultimo passaggio formale verrà espletato quando al commercialista Mario Tagarelli verrà notificato il verbale di immissione dei beni posti sotto sequestro dalla Guardia di Finanza per ordine del gip di Taranto. A quel punto non ci saranno più scuse, e il ping pong di responsabilità tra azienda e magistrati potrebbe finalmente cessare, scrive Flavio Bini. Riva acciaio, dopo aver fermato tutte le proprie attività mettendo in libertà i suoi 1402 lavoratori, ha motivato la propria decisione con un messaggio molto semplice: con i beni sotto sequestro e i conti congelati come si pagano dipendenti e fornitori? Colpa dei magistrati, insomma. Da Taranto, invece, il procuratore Sebastio con un comunicato stampa chiarificatore ha cercato di sgomberare il campo da ogni equivoco, spiegando senza mezzi termini che i beni sono posti sotto custodia "al fine di garantire la continuità produttiva dell'azienda". Insomma, si può continuare a produrre, eccome. Insomma, colpa dei Riva. Il rimpallo di responsabilità è destinato a finire. O Quasi. Perché nominato ufficialmente custode dei nuovi beni, Tagarelli avrà in carico, sì, la loro gestione ma per quanto riguarda le risorse liquide, i famosi conti correnti congelati, la questione è diversa. Ricevuto il verbale di immissione, Tagarelli non potrà disporre automaticamente dei conti correnti sequestrati. Quelle risorse liquide restano nel congelatore. A meno di un'istanza di dissequestro o di nuovo provvedimento dei magistrati che dia una sorta di semaforo verde al commercialista per potere avere a disposizione le risorse liquide. Solo a quel punto quelle somme saranno finalmente disponibili. Ma il punto è un altro. C'è un protagonista defilato nel braccio di ferro. Un passo indietro rispetto ai due contendenti, ma non per questo meno importante: le banche. L'irritazione dei magistrati tarantini non è solo per la drammatizzazione messa in atto dai proprietari. In teoria, pur con i conti congelati, e in attesa delle decisioni del custode, l'attività avrebbe potuto proseguire finanziandosi con il flusso del credito bancario, rimasto al riparo dal sequestro dei magistrati. Ma l'interruzione dei fidi da parte delle banche ha bloccato tutto. Dando all'azienda, questo trapela da fonti vicino alla procura, l'alibi perfetto per mettere davanti al Paese l'impossibilità reale di pagare i propri dipendenti. E quindi chiudere.

Michele Imperio a commento dell’articolo scrive sulla sua pagina Facebook. «Mi vergogno di essere tarantino concittadino di Sebastio: Un commercialista amico dei Magistrati tarantini che gestisce tutta la liquidità e tutte le aziende dei Riva. L'esproprio giudiziario invece che l'esproprio proletario! Siamo alla follia! Mi vergogno di essere tarantino!»

Gli risponde un suo amico su Facebook, tal Cosimo Coppola: anche noi ci vergognamo (elevata conoscenza della grammatica ndr) di quei tarantini (pochi) che come te difendono i delinquenti...

Michele Imperio, mosca bianca in quel di Taranto, scrive su “La Notte On Line”: La vera storia dell’Ilva di Taranto quella che sta facendo crollare il comparto italiano dell’acciaio. Chiusura immediata di sette stabilimenti e di due società di servizi e trasporti facenti capo a Riva Acciaio sparsi in tutta Italia, con la messa in libertà di circa 1.400 addetti: è la decisione presa dal gruppo Riva all’indomani del sequestro di beni mobili e immobili e di conti correnti per ulteriori 916 milioni di euro eseguito dalla Guardia di finanza nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Taranto sull’Ilva per disastro ambientale. Gli stabilimenti interessati sono quelli di Verona, Caronno Pertusella (Varese), Lesegno (Cuneo), Malegno, Sellero e Cerveno in provincia di Brescia, Annone Brianza (Lecco) e le società sono Riva Energia e Muzzana Trasporti. Lo stop degli impianti – spiega la società in una nota – «non è una “scelta” aziendale, bensì un atto dovuto, dipendente dalla esecuzione del provvedimento del Gip di Taranto Patrizia Todisco la quale, ordinando il sequestro, ha sottratto alla proprietà la libera disponibilità degli impianti e dei saldi attivi di conto corrente». Decisione «purtroppo necessaria», è scritto nella nota. Con il provvedimento del gip di Taranto Patrizia Todisco, datato 17 luglio 2013 che estende il decreto del 22 maggio 2013 di sequestro preventivo di beni per equivalente fino alla concorrenza di 8,1 miliardi di euro, «vengono sottratti – sostiene il gruppo – a Riva Acciaio i cespiti aziendali, tra cui gli stabilimenti produttivi, e vengono sequestrati i saldi attivi di conto corrente e si attua di conseguenza il blocco delle attività bancarie, impedendo il normale ciclo di pagamenti aziendali», facendo sì che «non esistano più le condizioni operative ed economiche per la prosecuzione della normale attività». Di conseguenza, l’attività negli stabilimenti viene sospesa, gli impianti messi in sicurezza e i lavoratori posti in libertà, Il decreto del gip del 22 maggio 2013 escludeva invece la possibilità di sequestrare i beni «strettamente indispensabili all’esercizio dell’attività produttiva nello stabilimento siderurgico tarantino» E ora invece i giudici tarantini hanno deciso di sequestrare i beni «strettamente indispensabili all’esercizio dell’attività produttiva degli altri stabilimenti del gruppo. Un nuovo attacco ai Riva dunque. Un nuovo capitolo arricchisce dunque questa storia dell’Ilva, una storia molto torbida per i motivi che qui spieghiamo. La Procura della Repubblica di Taranto con indagine espletatasi soprattutto negli anni 2011 e 2012 ha accertato l’esistenza di un grave disastro ambientale in tutto il territorio circondante lo stabilimento siderurgico dell’Ilva di Taranto per un raggio di circa 20 km, causato presumibilmente dalle emissioni dell’Ilva dal 1965 in poi. Già nel giugno 2012 voci provenienti dagli ambienti giudiziari preannunciavano un provvedimento di sequestro degli impianti da parte dei giudici al fine di attivare più incisive procedure di risanamento degli impianti. Fino ad allora infatti i Riva avevano attivato un sistema di abbattimento della diossina chiamato urea, avevano apposto i filtri ai camini, avevano fatto ex novo l’altoforno n. 4 ma queste opere venivano giudicate non sufficienti, stante anche un’alta incidenza di tumori registrata nel quartiere Tamburi di Taranto il quartiere posto scelleratamente a ridosso dell’impianto, realizzato nel 1965 dall’Iri e poi ceduto nel 1995 a Riva. Tutta la Magistratura tarantina e tutti gli ambienti politici della città di Taranto condividevano inizialmente il provvedimento dei magistrati allo scopo precipuo di avviare un risanamento dell’opificio ma a condizione che il sequestro giudiziario comprendesse la facoltà d’uso degli impianti onde consentire la prosecuzione della produzione e quindi il mantenimento dei livelli di occupazione. Lo stabilimento infatti da lavoro diretto o indotto a circa 40.00 unità lavorative tra le province di Taranto e Genova. Senonchè con incredibile tenacia e con la più totale insensibilità e il più totale disprezzo per ogni richiamo alla ragionevolezza i magistrati Franco Sebastio (P.M.) e Patrizia Todisco (G.I.P.) disponevano la chiusura tout court degli impianti e il licenziamento ad horas di tutti i dodicimila addetti. Ai giornalisti che gli chiedevano come pensasse lui di risolvere il problema dei 20.000 occupati (diretto e indotto) che perdevano il posto di lavoro su Taranto il Procuratore della Repubblica di Taranto dott. Franco Sebastio così sorprendentemente rispondeva: E CHE ME NE FOTTE A ME DEI 20.000 OCCUPATI !!!!!!! SI ARRANGIASSERO CON GLI AMMORTIZZATORI SOCIALI !!!!!!!!!!!!! NOI – proseguiva il dott. Franco Sebastio – FACCIAMO TUTTI I GIORNI SEQUESTRI DI AZIENDE!. In effetti la Procura della Repubblica di Taranto detiene il record dei sequestri preventivi in Italia sia per numero che per entità di valori sequestrati, avendo già eseguito prima del sequestro dell’Ilva, numerosi altri sequestri per equivalente di aziende del territorio in molti casi però del tutto infondati e in un caso (caso Criam) addirittura criminale, in quanto qualcuno aveva sollecitato i carabinieri di falsificare foto e altri documenti al fine di pervenire ugualmente al provvedimento di sequestro di un’azienda nonostante non ci fossero i presupposti. Forse bisognava allenarsi per altri sequestri più impegnativi. O forse a Taranto ci sono altri interessi oltre quelli connessi all’amministrazione della giustizia. Non sappiamo. Fortunatamente la nuova dirigenza dell’Ilva nella persona del dott. Bruno Ferrante già vicecapo della polizia già Prefetto di Milano e quindi prestigioso esponente delle Istituzioni non dava esecuzione al provvedimento dei Magistrati Sebastio e Todisco, beccandosi un’incriminazione per omessa osservanza dell’ordine legalmente dato dall’Autorità Giudiziaria sempre da parte del Procuratore della Repubblica di Taranto Franco Sebastio e l’attività dell’Ilva continuava. Con legge n. 231 del 24 dicembre 2012 , su impulso del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il Senato della Repubblica adottava d’urgenza un decreto-legge sull’Ilva di Taranto poi convertito in legge che prevedeva una moratoria di tre anni per l’Ilva per l’applicazione delle normative sull’ambiente onde dare tempo alla grande industria di adeguarsi alle normative medesime e alla nuova Aia emanata dal Governo in seguito alle irregolarità e alle omissioni riscontrate dall’Autorità Giudiziaria nell’inchiesta. Il provvedimento disponeva altresì la restituzione dell’acciaio prodotto nei quattro mesi in cui l’impianto era stato attivo nonostante il provvedimento di sospensione della produzione da parte dei Magistrati Sebastio e Todisco . La legge voleva rappresentare una prima risposta che Governo e Parlamento avevano messo a disposizione nei confronti di una città che stava pagando un tributo altissimo rispetto a scellerate scelte di concentrazione industriale fatte in passato, facendo al contempo fronte a una emergenza nazionale di straordinaria gravità. In più la nuova più rigida Autorizzazione Integrata Ambientale doveva dare con la collaborazione dell’azienda risposta concreta a quanto disposto dalla Magistratura e anche alla necessità di assicurare che la produzione non si fermasse, prospettiva questa che avrebbe provocato danni incalcolabili all’intero sistema industriale del Paese e all’occupazione. Dunque il Potere Politico manifestava una chiara volontà indirizzata al Potere Giudiziario che andava nel senso che l’industria si risanasse senza che per questo si fermasse la produzione. Da subito però sia il dott. Franco Sebastio (P.M.) che la dott.sa Patrizia Todisco (G.I:P) titolari dell’inchiesta Ilva e in verità solo loro, cominciarono a manifestare una strana insofferenza e una pervicace ostilità verso questa legge (la legge n. 231/2012) continuando illegalmente a mantenere sequestrato – contro il suo dettato – il materiale prodotto nei quattro mesi dopo il fermo, quasi che la nuova legge costituisse offesa e negazione del loro prestigio e delle loro prerogative istituzionali. Il GIP Patrizia Todisco predispose e inviò alla Corte Costituzionale un ricorso contro il decreto legge n. 207/2012 e sollevò altresì addirittura una questione di conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato. Il Procuratore della Repubblica Franco Sebastio, non appena il decreto fu convertito in legge, presentò anche lui un secondo ricorso alla Corte Costituzionale basato più o meno sugli stessi motivi di quello del g.i.p. Tutte queste iniziative furono accompagnate da atteggiamenti e da dichiarazioni dei due Magistrati improntate alla derisione, al contrasto, al ripudio e perfino allo sbeffeggiamento della legge e dei ministri o dei parlamentari che l’avevano patrocinata. Gravi le accuse del Procuratore della Repubblica Franco Sebastio e del G.I.P. Patrizia Todisco contro l’Autorità governativa che segnavano una strana e insolita contrapposizione fra Potere Giudiziario e Potere Esecutivo. Secondo i predetti Magistrati infatti, riconsegnando gli impianti dell’area a caldo(sotto sigilli dal 26 luglio 2012) e permettendo all’Ilva di tornare a produrre acciaio, il governo aveva di fatto illegittimamente impedito l’esercizio di un’azione penale interferendo in un’indagine ancora in corso. Perchè sugli impianti vigeva un sequestro con giudicato cautelare, ordinato dal gip e confermato dal tribunale del riesame, che – a loro dire – il governo non poteva sbloccare con una moratoria delle norme a tutela dell’ambiente e a vantaggio dell’Ilva. Questa strenua resistenza all’applicazione di una legge dello Stato veniva rappresentata dai Magistrati all’opinione pubblica anche con dichiarazioni ufficiali come loro estremo baluardo difensivo del diritto alla salute dei cittadini di Taranto messa a rischio con la legge da politici corrotti e incompetenti. Manifestando con ciò sia il Procuratore della repubblica di Taranto Franco Sebastio che il magistrato dell’Ufficio del g.i.p. Patrizia Todisco un rifiuto apodittico di volersi a prescindere adeguare al chiaro indirizzo espresso dalla legge nonché astio e risentimento per la parte inquisita la quale aveva presentato anche una denuncia e un esposto in via disciplinare alla procura della Repubblica di Potenza e al CSM. Dopo alcuni mesi la sentenza della Corte Costituzionale dichiarava inammissibile il conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato e respingeva l’eccezione di incostituzionalità presentata dalla procura e dall’Ufficio del G.I.p. di Taranto esprimendo gravi censure all’operato dei giudici tarantini Sebastio e Todisco. Infatti la sentenza della Corte Costituzionale tra l’altro diceva: Se l’amministrazione pubblica ha «male operato nel passato, non è questa una ragione giuridico-costituzionale sufficiente per determinare un’espansione dei poteri dell’autorità giudiziaria oltre la decisione dei casi concreti. E una soggettiva prognosi pessimistica sui comportamenti futuri dell’azienda non può fornire base valida per una affermazione di questa maggiore competenza dell’organo giudiziario rispetto a quello politico». Quando si oltrepassa «l’incerta linea divisoria tra provvedimenti cautelari funzionali al processo, di competenza dell’autorità giudiziaria, e provvedimenti di prevenzione generale spettanti all’autorità amministrativa» non si può che osservare il tentativo di inibire l’intervento del potere politico (che intende risanare n.d.r.), per raggiungere una finalità peraltro esplicitata dai giudici tarantini: chiudere l’impianto. Non c’è dubbio che quella della chiusura è un’ipotesi, ma il compito eventuale di raggiungerla non spetta ai giudici ma agli organi che detengono il potere di definire – con la discrezionalità del caso – la politica industriale del Paese e cadenzare i tempi e le modalità di un necessario risanamento ambientale. E quanto alla diatriba fra diritto alla salute e diritto al lavoro la nostra Costituzione, non contiene gerarchie di diritti: il più e il meno importante, quello che soccombe e quello che prevale. Il diritto alla salute non è il tiranno di quello al lavoro, nella stessa misura in cui quest’ultimo non è il becchino del primo. Senonchè pochi giorni dopo la pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale e chiaramente in polemica anche con questo altissimo rogano dello Stato i Magistrati Sebastio e Todisco posero in essere altri fatti gravissimi che denotavano ostilità avversione e disprezzo per gli organi politici nonché inimicizia grave nei confronti dei titolari dell’Ilva e una vera e propria strategia per inibire all’Ilva il risanamento degli impianti. Ciò avviene alla fine del mese di maggio 2013. L’agenzia Reuters riferisce che il giorno 24.5.2013 Emilio Riva stava per presentare il piano industriale per le opere di risanamento dell’Ilva in base alla nuova AIA, quando quello stesso giorno si è visto recapitare a distanza di due ore l’uno dall’altro un decreto di sequestro preventivo di beni da parte della Procura della Repubblica di Taranto (per € 8.100.000.000 per inquinamento) e un secondo decreto di sequestro preventivo da parte della Procura della Repubblica di Milano (per € 1.200.000.000 per evasione fiscale), questa volta non più dell’ azienda e degli impianti bensì di tutte le risorse dell’impresa per un ammontare pari a 8.100.000.000 di euro (Procura della Repubblica di Taranto) a fronte del costo ipotetico di tutte le opere di risanamento a farsi e di € 1.200.000.000 miliardi (Procura della Repubblica di Milano) per l’equivalente dell’ipotetica evasione fiscale che il Riva avrebbe commesso. Questi due sequestri praticamente rendevano inutile la presentazione del piano a seguito di quei provvedimenti non più finanziabile. Quindi una tempestiva iniziativa delle due Procure in simbiosi fra loro, per bloccare il piano di risanamento da parte di Riva e quindi problematizzare la situazione. Inoltre nello steso contesto Emilio Riva apprendeva dai giornali che da tempo egli era pedinato e sorvegliato a vista dai Servizi Segreti per ordine – evidentemente – di qualcuno e con gravissima deviazione delle funzioni istituzionali dei Servizi stessi, i quali non hanno certo il compito di fare indagini tributarie ma hanno invece la funzione di difendere il paese da possibili aggressioni esterne. Quali erano queste aggressioni esterne da parte dei Riva? E chi aveva dato ordine ai Servizi segreti di mobilitarsi? Ricordo a me stesso che i Magistrati non possono attivare i servizi segreti perché quelli normali dipendono dal Potere Esecutivo Italiano e quelli cosiddetti deviati dipendono da altri poteri esecutivi extranazionali. Eppure nella storia delle stragi del 1992 si nota uno strano coordinamento fra magistrati della procura della Repubblica di Milano e Servizi Segreti. Il dott. Francesco Di Maggio per esempio apparteneva ai Servizi Segreti come è stato accertato dalla Commissione Parlamentare Stragi. Questo giornale online ha già fatto le sue ipotesi delle ragioni di tutte queste stranezze in un articolo che vi riproponiamo. In sintesi – secondo la nostra ricostruzione – Emilio Riva avrebbe commesso un grave sgarro internazionale accettando una grossa commessa della Russia per la realizzazione di un gasdotto che doveva portare gas russo in Europa transitando anche per l’Iran. Questo gasdotto andava in concorrenza con altri gasdotti europei che invece dovevano trasportare gas dall’Azerbajan per evitare l ‘acquisto di gas russo da parte dell’Europa perchè questi acquisti – secondo gli Stati Uniti – avrebbero rafforzano eccessivamente la Russia. E Berlusconi è stato costretto a sloggiare da presidente del consiglio alla fine del 2011 non per contrasti interni in seno alla sua maggioranza sul federalismo bensì per la sua rinnovata manifestata amicizia con Vladimir Putin che si traduceva in accordi energetici, tanto per la costruzione del gasdotto south stream (quello che coinvolgeva anche Riva il quale lo doveva materialmente riprogettare e realizzare) quanto per vari altri business, in comparti viciniori agli idrocarburi, spartiti tra italiani, russi, libici, algerini, ecc. ecc.. “Notificato il proprio decreto di sequestro per 8 miliardi il Procuratore di Taranto Franco Sebastio con tono minaccioso e fare di sfida faceva nuove dichiarazioni alla stampa, con cui diceva: EH!!!!!!!!!! E’ ORA VEDREMO SE IL POTERE POLITICO AVRA’ ANCORA IL CORAGGIO DI FARE UNA NUOVA LEGGE!!!!!!!!!!!!! PER FERMARCI!!!!!!!!!! Dunque Potere Politico e Corte Costituzionale venivano ancora una volta sbeffeggiati da singoli rappresentanti del Potere Giudiziario e un imputato veniva attaccato con estrema violenza sempre da quegli stessi esponenti del Potere Giudiziario. Peraltro se qualche ingenuo può ancora illudersi che tutto ciò avveniva al solo scopo di tutelare la salute dei tarantini, senza alcuna implicazione politica, nessuno può coltivare l’illusione che l’operato dei Servizi Segreti o quello della Procura della Repubblica di Milano fosse finalizzato ai medesimi scopi perché a questi organismi istituzionali della salute dei tarantini non gliene frega assolutamente niente! Dunque gli interessi in gioco sono altri! Ma quali? inoltre la chiara sinergia che si nota fra l’azione della Procura della Repubblica di Taranto, il GIP Patrizia Todisco e quella della procura di Milano e dei Servizi Segreti, distolti dalle loro funzione istituzionali fa pensare al peggio. Che infatti si manifesta qualche tempo dopo. Nel luglio 2013 il G.i.p. Patrizia Todisco in una sua ordinanza dapprima scrive che vorrebbe che fossero incriminati anche tecnici, ingegneri capi e dirigenti dell’impianto per concorso in associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale e poi ottenuta l’istanza dei P.M. ottiene proprio nei giorni scorsi la richiesta di cinque mandati di cattura contro operai dell’Ilva i quali a suo dire erano il governo ombra dell’azienda. Poi con un nuovo provvedimento estende il primo provvedimento di sequestro anche alle altre aziende possedute dai Riva ai suoi conti correnti e insomma a tutto ciò che l’imprenditore possiede. Riva ha dovuto chiudere tutte le fabbriche e ora il comparto dell’acciaio dell’intero paese è in ginocchio. La cassa integrazione che finanziamo tutti noi continua a espandersi. Il governo è – almeno apparentemente – di nuovo in grave difficoltà e in grave imbarazzo. Si pensa a nuovi commissariamenti. Il ministro Zanonato (P.D.) però dice: l’imprenditore potrebbe continuare a farlo il custode nominato dal giudice. Mi chiedo: ma Zanonato c’è o ci fa? Questi uomini devono salvare l’Italia? Non sarebbe meglio smetter edi fare i maggiordomi eunuchi del Partito Democratico Americano e fare una bella proclamazione di indipendenza dai poteri stranieri forti e occulti e il taglio delle unghie dei Magistrati che vi si asserviscono?

TASSISTI TAGLIEGGIATI.

Un’inspiegabile limitazione all’accesso dei taxi tarantini in alcune aree dell’aeroporto di Brindisi sta facendo gridare allo scandalo la categoria dei tassinari jonici che definisce «odiosa discriminazione» la decisione dei gestori dello scalo brindisino di creare corsie preferenziali riservate ai taxi locali, scrive Nazareno Dinoi su “Il Corriere della Sera”. In effetti, da meno di una settimana, gli spazi più appetibili per gli automezzi, auto e bus, diretti all’ingresso del terminal, sono ad esclusivo appannaggio dei brindisini. Il pedaggio in queste corsie agevolate, infatti, è bloccato da una sbarra che si alza automaticamente a chi è titolare di licenza targata Brindisi. L’alternativa, per i tassisti tarantini privi di codice, è quella di scaricare o prelevare i propri clienti in zone distanti e disagevoli per l’utenza. «Aeroporti di Puglia, o chi gestisce il servizio, fa una vera e propria discriminazione nei nostri confronti», ha affermato Maurizio Smaltini, presidente dell’Uritaxi regionale e tarantina. «Non a caso - continua il portavoce della categoria -, lo scalo di Brindisi si chiama Aeroporto del Salento, così come quello barese, Aeroporto di Puglia. Gli aeroporti - aggiunge - non sono della città che li ospita, ma di tutta la regione. Invece noi tassisti tarantini siamo costretti a scaricare e riprendere i passeggeri all’aeroporto di Brindisi in una zona ben distante dall’ingresso, con mille difficoltà immaginabili in presenza di bagagli pesanti, o famiglie con bambini e passeggini al seguito». Il rappresentante della categoria (in totale una cinquantina qui a Taranto) spiega i disagi sopportati dall’utenza che per i tassisti si tramutano in costi. Le zone di sosta libera sono quelle a pagamento. «Così siamo costretti a pagare due euro se i nostri clienti hanno troppi bagagli o se il loro volo ha fatto ritardo», spiega ancora il tarantino Smaltini. La rivendicazione dei tassisti jonici ha tutta l’aria di una seconda guerra per il diritto a lavorare come quella di circa un anno quando si mobilitarono contro la mossa dei tassisti baresi che cercarono di impedire l’accesso di colleghi di fuori nell’area aeroportuale. «Dopo i baresi - commenta infine il sindacalista - ci facciamo dare uno schiaffo in faccia anche dai brindisini».

Due euro solo per far scendere il cliente dal taxi all’aeroporto di Brindisi se il conducente è tarantino, scrive Pamela Giuffrè su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dopo le ingiustizie subite per anni all’aeroporto di Bari, ecco un altro caso di discriminazione ai danni degli autisti del capoluogo ionico. Questa volta la formula adottata è stata meno brusca, ma la sostanza non cambia. Si impedisce ai tassisti tarantini di avvicinarsi all’aeroscalo di Brindisi se non dietro pagamento. Tutto è cominciato cinque mesi fa con l’introduzione del codice di accesso riservato ai soli tassisti di Brindisi per accedere alla corsia preferenziale antistante l’ingresso dell’aeroporto. «Fino a cinque mesi fa - spiega Maurizio Smaltini, presidente della cooperativa tarantina di tassisti “099”, nonché coordinatore regionale di Uritaxi Puglia, sindacato di categoria - i tassisti, indipendentemente dalla loro provenienza, avevano diritto ad arrivare davanti all’aeroporto di Brindisi per accompagnare i loro clienti o prelevarli. Ad un certo punto, è stato assegnato un codice di accesso ai brindisini. Dopo averlo digitato, possono accedere alla corsia preferenziale. In seguito alle nostre proteste, anche a noi che non siamo del posto, è stata data la possibilità di entrare in quest’area ma solo per un quarto d’ora. Scaduto questo tempo, dovevamo pagare due euro». Una «modalità», questa, che non è piaciuta ai tassisti tarantini come a quelli di città diverse da Brindisi, ma alla quale i tarantini si sono presto abituati. «Facevamo tutto di corsa - racconta Smaltini - sfruttando al massimo il tempo a disposizione per arrivare, scendere dal taxi, aprire il portabagagli e consegnare le valigie ai clienti. Lo stesso facevamo al ritorno, ovvero per prevelare i passeggeri appena atterrati». Così fino ad alcuni giorni fa. «Ora - afferma il tassista - all’improvviso è stato azzerato anche il quarto d’ora di tolleranza. E ci è stato imposto di pagare due euro anche solo per un minuto. L’alternativa è il parcheggio privato, dove dobbiamo sistemarci dove troviamo posto. Praticamente anche in seconda e terza corsia, quindi distante dall’accesso. Soprattutto nelle ore di punta, perché le auto private si concentrano tutte al momento delle partenze e degli atterraggi per evitare di pagare la sosta». Ne consegue un disservizio non da poco. I clienti dei tassisti tarantini devono percorrere diversi metri carichi di valigie per raggiungere il taxi o viceversa l’ingresso dell’aeroporto. Anche se si tratta di donne incinte, famiglie con bambini o disabili. Senza considerare cosa accadrà quando d’inverno anche le avverse condizioni meteo ci metteranno del loro. «Non riusciamo a comprendere - aggiunge Cosimo Saracino, coordinatore dei tassisti per la Uil-Trasporti - l’origine di questa decisione. E’ una situazione intollerabile e illegale dal momento che non si chiede di restare in fila ad attendere i clienti, ma di accompagnarli o prelevarli ed andare via».

L’hanno denunciata come una palese discriminazione, scrive “Taranto Sera”. Hanno raccontato i disagi che provoca l’ennesima “chiusura” nei loro confronti. Eppure ad oggi nessuno degli amministratori locali ha alzato un dito per far sì che ai tassisti tarantini sia finalmente aperta la corsia preferenziale presso l’aeroporto del Salento, in quel di Brindisi. La stessa corsia che resta inesorabilmente off-limits se l’auto con la scritta Taxi arriva da fuori provincia. Per accedervi si deve essere in possesso di un codice. Numeretti che ai tarantini non vengono forniti. Nè si tratta di una distrazione o di un errore al quale si porrà prima o poi rimedio. Almeno a sentire Aeroporti di Puglia che, di fronte alla denuncia della categoria, ha anche difeso la nuova organizzazione dei parcheggi spiegando che i tarantini devono lavorare nel comune che ha rilasciato la licenza e che comunque i tassisti hanno un quarto d’ora per scaricare i passeggeri. Versione smentita dai diretti interessati che invece hanno spiegato che non potendo usufruire della corsia riservata devono trovare posto nell’area parcheggio comune, quella della quale usufruisce chiunque entra in aeroporto; durante i ponti e gli esodi per le vacanze si troveranno a dover fare la fila. Il tutto alla modica cifra di due euro. Somma che a Palese scende a un euro. Per chi è del posto invece è gratis. I vertici dell’ex Seap non ci vedono alcun disagio; ma che non lo vedano neanche i politici tarantini fa pensare ad una forma acuta di miopia. La beffa sta anche nel fatto che Taranto, intanto, resta senza un “suo” aeroporto. Costretta a sventolare le sentenze che nel recente passato hanno sancito il sacrosanto diritto dei tassisti tarantini a lavorare fuorisede senza vedersi recapitare multe salate. E oggi a vedersi “calpestare” ancora una volta con il divieto di accesso alle corsie preferenziali. Per questo i tassisti, attraverso la loro denuncia, hanno in qualche modo voluto suonare la sveglia ai politici tarantini eletti proprio per rappresentare i bisogni del territorio e che, almeno finora, sembrano invece continuare a sonnecchiare.

Sembrava un capitolo chiuso, scrive ancora “Taranto Sera”. A fatica, e dopo le proteste, ma chiuso. E, invece, tornano sul piede di guerra i tassisti tarantini che da qualche giorno a questa parte si sono visti catapultare indietro nel tempo. La corsia per bus e taxi torna esclusivo appannaggio dei brindisini dotati del codice di accesso. Se vieni da fuori devi pagare l’obolo, due euro. O parcheggiare insieme alle auto private. Incredibile ma vero. A denunciare la situazione è Maurizio Smaltini, presidente Uritaxi Regione Puglia e presidente della Taxi 099. «Ci risiamo. Dopo la denuncia a mezzo stampa di alcuni mesi fa verso la società che gestisce i parcheggi dell’aeroporto di Brindisi - afferma -, che vietava il transito dei mezzi pubblici provenienti da zone della Puglia nelle corsie riservate a bus e taxi (poi risolta con la riapertura della corsia ai non residenti previo il pagamento di 2 euro dopo 15 minuti di sosta) da alcuni giorni hanno tolto la tolleranza di 15 minuti di sosta gratuita solo per la corsia riservata ai mezzi pubblici, costringendo i passeggeri o proprietari dei mezzi pubblici ad un aggravio di costi. Qualche scienziato - aggiunge Smaltini - (ce ne sono tanti in giro) dirà di parcheggiare insieme alle auto private, invece io dico che è fuori da ogni logica che un taxi arrivi in aeroporto e debba pagare 2 euro come un privato. Che in ogni parte d’Italia sulla corsia riservata passa il mezzo pubblico residente e quelli provenenti da altre località con gli stessi diritti. Che entrare nella corsia delle auto private significa lasciare o prelevare il passeggero dove si trova un parcheggio disponibile (molte volte distante dalle uscite). Che agli orari di arrivi e partenze nella corsia si formano code causando ritardi per i passeggeri». Per questo Smaltini lancia un appello: «Rivolgo a chi di dovere (Presidente aeroporti di Puglia-Regione Puglia-politici locali) un appello per cercare di risolvere il problema». «E’ l’aeroporto dei pugliesi, non dei brindisini, è come se facessimo pagare a chi arriva da fuori per passare sulla corsia riservata della ringhiera».

CONTRO L'AMBIENTALISMO DEL SEMPRE NO! 

Per un ambientalismo del sì. Tempo fa, Barack Obama si trovava sotto il caldo asfissiante – neanche fosse scritto in uno dei copioni banali da pomeriggi estivi alla Rosmund Pilcher – dell’atrio quadrilatero della Georgetown University di Washington. Dalle sue labbra uscivano le parole del discorso sull’ambiente e sui cambiamenti climatici; dalle sue labbra pendeva, per certi versi, la futura lettura di certe tematiche, scrive Emanuele Rossi su “Europa Quotidiano”. Un gran discorso a detta dei commentatori: non senza polemiche, non ineccepibile, ma di sicuro un indirizzo. Michael Oppenheimer, professore di geosciences and international affairs all’Università di Princeton, lo ha definito sul New York Times come uno «spartiacque» e ha aggiunto che il presidente è andato «oltre il cuore del problema». Adesso Obama attenderà il prossimo giugno, data entro cui l’Enviromental Protection Agency dovrà stilare il piano ambientale preliminare – che con ogni probabilità comunque non sarà operativo prima del 2017. Ci vuole tempo per certe cose. L’ambiente è tema caro a Obama da sempre (come è tema caro alla sinistra in genere) e sul quale ha costruito parte del proprio consenso elettorale fin da subito. Anche se complici circostanze a contorno – la crisi economica per dirne una, la spinta alla riforma sanitaria per dirne un’altra – il presidente ha però lasciato in qualche scantinato buio della Casa Bianca, una buona parte dei buoni propositi del 2008. Ma da noi come va? So so. Onestà vorrebbe che ci si guardasse in faccia e ci si dicesse con serenità che all’interno del dibattito della sinistra riformista italiana si è un po’ tralasciato il tema. Sembra come se si fosse deciso di regalarlo a posizioni più radicali, come fossero argomenti di loro esclusiva. Si è perso tempo, probabilmente è così: magari valutando l’interesse che le istanze ecologiste occupano all’interno degli orientamenti culturali e politici – diciamo pure elettorali – degli italiani, come questione marginale. Da “sedile posteriore”, per dirla come la dicono in Usa. Che magari sarà pure così, poi, perché in fondo in Italia si parla di ambiente sempre in modo un po’ stanco. E forse il motivo è anche che gli interessi e le speculazioni hanno spesso finito per inquinare ogni cosa buona. Ma non c’è da disperare, perché come dice il saggio, “il meglio deve ancora venire” e sarà da quel meglio che su certe tematiche si troverà il bandolo della matassa. Sarà infatti soltanto attraverso una cultura riformista, e chi la incarna, che diventerà possibile affrontare in modo laico tutti i complessi aspetti delle questioni ambientali. A cominciare da quella cultura del “NO”, a prioristico, molto nimby, molto più ottusa disinformazione. Sull’ambiente si è cavalcata la paura. Su quei no si sono basate le progettazioni. Su quei no e su quelle paure si è scelto il futuro. Affrontare le tematiche ambientali in modo laico – dando al termine riformista questa sorta di accezione – significa analizzare con serietà e profonda competenza ogni possibile situazione senza lasciare spazio a quelle paure, infondate e spesso speculative. Serve essere freddi, razionali, pragmatici, serve guardare oltre. Serve progettare. Serve comprendere e condividere. Davanti alla nostra realtà si pone la necessità di governare il complicato processo di transizione che trasformerà il nostro sistema produttivo e di utilities e lo posizionerà nel nido della sostenibilità. Sarà un passaggio fondamentale, anche nell’ottica della competitività internazionale. Ma nel lavorare per le tematiche ecologiche del rendere le nostre vite e i nostri consumi equi e sostenibili, la cultura riformista dovrà operare anche nella tutela dei nostri beni comuni dalle evenienze ambientali. Su questo aspetto tanto si è già fatto per la prevenzione sismica, con risultati ampiamente soddisfacenti (nell’ambito del rispetto delle regole). Buona parte si sta facendo per ridurre le emissioni e abbattere gli inquinamenti. Poco, troppo poco, invece si fa nella tutela del suolo, che poi coincide inevitabilmente con la tutela del territorio, del paesaggio e di quel genius loci che ci portiamo nei nostri geni. Basta pensare che l’Italia è un paese in cui il dissesto idrogeologico interessa molte fasce del territorio: 8,9 per cento del territorio collinare è in frana, molto di più quello suscettibile e/o vulnerabile. Si parla di aree collinari, ma anche di zone produttive e di porzioni di insediamenti abitativi. Discorso analogo vale per le aree soggette a inondazioni. Frane e alluvioni sono una piaga ancora più aperta, ancora più dolorosa, degli eventi sismici. Colpiscono continuamente, passano alla ribalta della cronaca soltanto in situazioni parossistiche, ma i movimenti del suolo e gli allagamenti, continuano a recare danni ogni volta che piove. E purtroppo ai danni materiali, spesso si associa la perdita delle vite umane. Il conto per la sistemazione di tutte le condizioni legate a questi rischi è oneroso. Si parla di miliardi di euro. Occorre però iniziare a metterci la testa, il pensiero, ma anche le mani. Una proposta semplice, per dire, sarebbe di pensare, anziché ad abolire l’Imu – battaglia ideologica, di dubbia provenienza, e di certo appeal –, di destinare quel gettito per intervenire sulla difesa idrogeologica. Ma al di là della proposta da bar – poi mica tanto – occorre che si dia un indirizzo, dettando regole strette per la programmazione urbanistica, intervenendo con quello che è disponibile, preservando e prevedendo, incrementando – questo sì – i fondi per i sistemi di studio ricerca e monitoraggio. Affrontare il problema in modo diretto, senza nascondersi in confortevoli scorciatoie, mezze soluzioni, arrangiamenti e rimedi casalinghi: perché è ora, adesso. Inculcare negli italiani una sorta di ambientalismo responsabile, deve essere uno degli obiettivi della cultura riformista. Permettere il ragionamento, il confronto, l’analisi. Senza chiudersi in custodie ideologiche. Ambientalismo è dire “sì”, è essere propositivi e risolutivi. Ed occorre essere fermi, controllare e regolare, senza lasciare spazio tra le maglie delle norme. Mi riferisco per esempio alle tante centrali a biogas nate come funghi: con le colture dedicate (vero schiaffo antisociale al buon senso, senza ricorrere a disturbare la sovranità alimentare), con dimensioni quasi sempre inferiori ad 1MW (fino a 0,99 non è richiesta la valutazione d’Impatto ambientale, e dunque la procedura amministrativa è più snella e meno soggetta controlli). Ma ampio il discorso anche agli abusi, al fuorilegge: a quelle attività mafiose legate all’ambiente, le Ecomafie, che secondo Legambiente produrrebbero un valore annuo di 16,7Mld e 34120 reati, 8286 sequestri e 302 clan coinvolti. Per affrontare certe questioni e le complessità tentacolari connesse, serve determinazione, serietà, ma anche coraggio e leadership, e serve certe volte di essere impopolare. Di andare oltre il visibile, la miopia del presente con tutte le sue contestazioni, progettando per il futuro.

L'AMBIENTALISMO E L'ECOLOGISMO DEI LUOGHI COMUNI.

Ilva, Bondi intossicato dai luoghi comuni. L'uomo delle missioni impossibili crocifisso per una banalità. Perché chi tocca certi pregiudizi muore, scrive  Claudio Borghi Aquilini  su “Il Giornale”. L'Italia è il paese delle sentenze già scritte e dei luoghi comuni presi come Vangelo da folle vocianti. Basta sfiorare il filo elettrificato del luogocomunismo che anche il più immacolato degli eroi diventa un traditore, un poco di buono, uno da segnare a dito digrignando i denti. Di questo clima da Barabba ne ha fatto recentemente le spese un manager quasi divenuto anch'egli un luogo comune vivente, Enrico Bondi, l'esecutore chiamato a risollevare le sorti dell'Ilva di Taranto dopo numerose esperienze di «risanatore» fra cui spiccò la rimessa in carreggiata della Parmalat. Agli occhi del pubblico Bondi è ormai una specie di agente speciale incaricato delle missioni impossibili, in grado persino di farsi nominare «supertecnico» dal non rimpianto governo dei tecnici guidato da Monti senza suscitare indignazione. Bondi ormai non domanda più nemmeno compensi per la sua attività e, una volta insediato all'Ilva prima come amministratore e subito dopo come commissario straordinario, ha fatto una cosa banalissima: chiedere una relazione ad un gruppo di esperti per poter capire meglio il da farsi. Incauto lui. Vista l'esperienza avrebbe dovuto capire che è obbligatorio confermare le aspettative degli urlatori dei luoghi comuni, ogni altro esito è inconcepibile. Nella relazione infatti pare si indichino delle concause che potrebbero spiegare dati anomali sulle malattie nell'area di Taranto, fra cui il diffuso smercio di sigarette di contrabbando che vedono nel porto pugliese uno dei principali centri di importazione di tabacco non trattato e quindi nocivo. La teoria del resto non è nemmeno nuova, ne ha fatto cenno per esempio in altre occasioni il professor Franco Battaglia e anche altri studiosi hanno in passato fatto rilevare che l'Ilva non è certo l'unico «agente inquinante» della città, come stabilì la relazione del servizio ciclo rifiuti e bonifica dell'assessorato all'ambiente datata 2011 dove si evidenziavano le responsabilità dell'Arsenale Militare della Marina nell'inquinamento delle acque. Non importa. Prima ancora di leggere la relazione, la semplice indiscrezione su contenuti difformi dalla «voce del popolo» che vuole l'Ilva come origine di tutti i mali del mondo è stata sufficiente persino ad infangare l'icona Enrico Bondi che ieri si è dovuto profondere in distinguo, smentite e precisazioni. L'Ilva è morte e non la vogliamo. I rigassificatori non si devono fare. I rifiuti e le discariche non ne parliamo, non appena si pensa ad aprirne una ecco che i tumori si impennano e tutti trovano un morto in casa la cui fotina esibire in favore di telecamere anche se fosse il nonno quasi centenario. Le relazioni scientifiche servono solo se funzionali alla tesi: quando dimostrano che certe baggianate come gli ecoblocchi del traffico non hanno alcun impatto ecco subito i sindaci come Pisapia a Milano affermare che è vero, contro l'inquinamento non servono ma si faranno lo stesso per «educare i cittadini». L'ambiente è importantissimo e bisogna essere inflessibili contro l'inquinamento, specialmente se doloso, però la salute dei cittadini passa anche attraverso la prosperità economica. Nei paesi sottosviluppati non c'è mezza fabbrica e l'aria è cristallina, però i bambini muoiono come mosche. Ogni anno gli incidenti stradali causano 1,24 milioni di morti ma nessuno pensa di vietare le automobili. Un'economia industriale passa anche per cose che puzzano come centrali, fabbriche e rifiuti. Secondo la rilevazione 2013 di Legambiente delle 10 città più inquinate d'Italia 9 sono in Pianura Padana (con il non invidiabile primato di Alessandria) e l'unica «intrusa» non è Taranto, bensì Frosinone, eppure l'aspettativa di vita in Nord Italia è fra le più alte al mondo. Le paure irrazionali vanno governate perché la salute è fondamentale ma non cade dal cielo, bisogna guadagnarsela.

ILVA, LE VERITA' NASCOSTE DELL'INCHIESTA.

Ilva, le verità nascoste dell'inchiesta. Milano è più tossica di Taranto. L’accusa parla di 386 morti, ma 140 non hanno nulla a che fare con l’inquinamento, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. La materia che stiamo per trattare è scottante e va presa con le pinze, tanto più in questo momento. Ci riferiamo all'Ilva di Taranto, accusata di produrre un inquinamento micidiale a causa del quale sarebbero morte centinaia e centinaia di persone: cancro ai polmoni. La fabbrica, tra le più importanti d'Europa nel settore dell'acciaio, rischia addirittura di fare una brutta fine: è in corso un'inchiesta della magistratura, dalle cui carte emerge una situazione drammatica tale che, se fosse confermata da una sentenza di condanna, la speranza di salvare l'azienda si ridurrebbe al lumicino. Naturalmente noi non abbiamo le conoscenze scientifiche necessarie per esprimere giudizi in merito. Ma leggendo i documenti abbiamo constatato alcune incongruenze tali da suscitare dubbi sulla fondatezza delle responsabilità attribuite ai gestori dello stabilimento. Tra l'altro, nei giorni scorsi il commissario dell'Ilva, nominato dal governo, Enrico Bondi (già collaboratore dell'ex premier Mario Monti e risanatore della Parmalat) ha inviato una lettera ai vertici della Regione Puglia in cui, riassumendo le osservazioni di quattro consulenti dell'impresa, fa notare che non esistono prove certe che l'elevato numero di decessi sia rapportabile alle cosiddette polveri sottili emesse dagli impianti industriali. Non l'avesse mai fatto: Bondi è stato travolto dalle critiche. Vari partiti, tutti impegnati in una gara a chi è più ambientalista, si sono sollevati all'unisono per protestare contro il commissario reo di aver contraddetto le tesi colpevoliste. Essi non hanno tenuto conto che Bondi era considerato all'unanimità l'uomo più adatto alla luce del suo impeccabile curriculum, a risolvere i problemi. Non siamo in grado di accertare se abbia ragione lui o il gruppo dei suoi improvvisati detrattori: rimane il fatto che chiunque osi manifestare perplessità sull'effettiva dannosità delle scorie dell'Ilva viene messo al bando quale complice di Sorella Morte, benché la discussione sull'inquinamento a Taranto sia circoscritta all'ambito delle ipotesi. Spulciando tra gli atti dell'inchiesta è difficile dare torto a Bondi: essi sono disseminati di contraddizioni meritevoli di attenzione. La più grossolana è contenuta in una perizia acquisita dall'Ufficio del giudice per le indagini preliminari, Patrizia Todisco, dove si legge che i morti per cause naturali sono stati, in tredici anni, 386, un dato impressionante. Peccato che in un altro punto della documentazione si scopra che, invece, 140 dei 386 decessi denunciati, siano attribuibili a cause non naturali: cioè dovuti a incidenti stradali, suicidi eccetera. Le cifre sono state alterate di sicuro in buona fede, ma ciò non giustifica l'errore, soprattutto non giustifica la mancata correzione del medesimo, visto che le conclusioni sono state tratte dal quadro statistico falsato. In un'altra perizia ordinata dal Tribunale si sostiene che le sostanze nocive per essere tollerabili non devono superare il limite di 20 milligrammi per metro cubo, come raccomanda - o sogna - l'Organizzazione mondiale della sanità. Ma uno degli stessi autori, in un altro documento riguardante una consulenza richiesta dalla Regione Lombardia, afferma che la media annua e tollerabile delle polveri sottili è di 40 milligrammi per metro cubo, esattamente come recita la disposizione europea tramutata in legge dall'Italia. Da sottolineare che la media delle sostanze tossiche emesse dall'Ilva non è mai andata oltre il limite fissato dalla citata legge. Quindi non si capisce in che cosa consistano le presunte violazioni commesse dalla fabbrica in questione. Immagino che le obiezioni di Bondi - che non è l'ultimo arrivato - sorgano anche dagli elementi che abbiamo riportato in sintesi e con un linguaggio semplice. C'è da aggiungere, per rimarcare la confusione regnante in questo campo, una curiosità. Legambiente, nel 2012, ha elaborato una ricerca su scala nazionale relativamente al Pm10 (polveri sottili) da cui si evince che, nella classifica delle città più inquinate, Taranto figura al 46° posto. Milano, per intenderci, è in vetta insieme con Torino, seguite da Verona, Alessandria e Monza. L'incidenza delle sostanze tossiche presenti nell'atmosfera sulla mortalità non è mai stata misurabile né lo sarà, presumibilmente, per parecchio tempo ancora. Milano, per esempio, pur avendo un'aria irrespirabile, in teoria, in pratica offre ai suoi abitanti le migliori aspettative di vita: sotto il Duomo si campa più a lungo che sotto le Dolomiti. Ergo, andiamoci piano con i catastrofismi degli ambientalisti professionali. Se anche la magistratura si lascia influenzare dai luoghi comuni e dai luogocomunismi della vulgata, seguiteremo a morire, e moriremo poveri. Emergenza Ilva e i medici che la pensano come Bondi.

Tirelli e Serraino, dell'Istituto tumori di Aviano, a Panorama.it: "Rapporto Sentieri non idoneo a scoprire tutte le cause dei tumori", scrive Marino Petrelli su “Panorama”. “L’ipotesi che l’Ilva sia la causa di tutti i tumori evidenziati è in disaccordo con le evidenze scientifiche riportate dalle più grandi agenzie di ricerca sul cancro del mondo. La tipologia dello studio Sentieri non è idonea a investigare le cause delle malattie, ma solo a descriverne la frequenza”. E' l'idea di Umberto Tirelli, direttore del dipartimento di Oncologia medica dell'Istituto tumori di Aviano , e Diego Serraino, direttore della struttura complessa di Epidemiologia e biostatistica del medesimo istituto. Che a Panorama.it aggiungono all'unisono: “Si tratta di uno studio descrittivo che serve a formulare ipotesi sulle cause delle malattie, in questo caso dei tumori, ma non serve a stabilire relazioni. Su questo punto i ricercatori di Sentieri sono d’accordo”. Dunque, secondo gli esperti del centro friulano, la relazione dei consulenti Ilva e le dichiarazioni del commissario Bondi potrebbero avere un fondamento, sostenute anche da una indagine presentata nel 2012, in collaborazione con l'Istituto tumori Pascale di Napoli , che evidenziava nell'aria di Taranto una mortalità per tumori uguale alla media delle altre provincie del sud Italia. Tirelli e Serraino non sembrano né sorpresi né contrari alle affermazioni del commissario Ilva. Per quali motivi? “Se per scoprire le cause dei tumori bastasse usare i tassi di incidenza o di mortalità non ci sarebbe bisogno del National Cancer institute, dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul Cancro dell'Organizzazione mondiale della sanità, l’Università di Oxford o il Karolinska Institute di Stoccolma, o il New England Journal of Medicine. Senza contare le decine di migliaia di ricercatori nel mondo che studiano i tumori e pubblicano le loro ricerche”, sottolineano. "Purtroppo non è così. Gli studi descrittivi sono solo la prima fase di un lungo processo conoscitivo che deve necessariamente passare per gli studi di epidemiologia analitica in cui è possibile misurare le esposizioni individuali – dicono i due medici - . Questo è uno dei punti cruciali, negativi secondo noi, di Sentieri: la residenza al momento della diagnosi del tumore è usata come proxy della esposizione ai carcinogeni ambientali. Si da, cioè, per scontato, che le persone abbiano sempre abitato lì, e che siano state esposte ai vari carcinogeni nel corso di almeno tre decenni, tempo medio necessario per lo sviluppo dei carcinomi, e che questi vari carcinogeni abbiano causato il cancro e queste persone siano per il resto paragonabili a chi non abita li”.

CRITERI EPIDEMIOLOGICI

Tirelli spiega che le malattie neoplastiche sono circa 230 tipi diversi tra loro per eziologia, patogenesi, presentazione clinica, prognosi: pensare che i fattori di rischio per i tumori dell’apparato respiratorio siano gli stessi per i tumori dell’apparato digerente o urinario o riproduttivo non ha fondamento scientifico. Per alcune sedi neoplastiche, innanzitutto l’apparato respiratorio, è più che plausibile che l’inquinamento ambientale abbia aumentato il rischio di malattia mentre per altre è, in base alle conoscenze attuali, molto poco probabile. Ma per un'analisi epidemiologica più ampia si dovrebbe, ad esempio, usare almeno la georeferenziazione degli indirizzi, che andrebbero associati ai residenti in modo uninominale per mappare le residenze nel tempo. “Bisogna partire dai dati del Rapporto Sentieri per identificare ipotesi di lavoro e procedere con studi epidemiologici analitici. Ci sono voluti 50 anni di studio e decine di migliaia di lavori scientifici per stabilire l’associazione tra fumo e tumori, tra infezione da HPV e tumore della cervice – aggiunge il direttore di Oncologia medica -. Le scorciatoie non servono allo scopo e sono dannose perché spostano l’attenzione dai veri fattori di rischio noti, accertati e accettati”. Cosa salvare dunque del Rapporto Sentieri e cosa dire ai tarantini che combattono contro un inquinamento sempre maggiore? “E' una ottima indagine descrittiva che serve a produrre ipotesi di lavoro, ma non va oltre. Il fatto che tutti la ritengano un modello è limitato al nostro Paese e ai media. Penso che l’ideologia abbia giocato e giochi un ruolo molto negativo da questo punto di vista – conclude Serraino -. La scienza non deve essere tirata per la giacca, non è di destra o di sinistra. Le conoscenze attuali delle cause del cancro dicono che l’inquinamento ambientale ha un ruolo marginale nei tumori per l'1-2 per cento. C’è qualcuno in grado di dimostrare che a Taranto questa percentuale è del 400 per cento come pubblicato da alcuni giornali nel 2012?”. Una domanda che non tarderà di avere una risposta.

LA LOTTA CON GLI IDOLI DELLA PIAZZA.

Montepaschi e Ilva, la nostra lotta con gli idoli della piazza. Con Nomura tutto a posto, lo dicono i giudici (adesso). Il fumo provoca il cancro, ma non se lo dice Bondi, scrive Giuliano Ferrara su “Il Foglio”. Comporre un giornale quotidiano, offrire informazioni e  analisi, è un mestiere sempre più complicato e ingrato. La correttezza politica e ideologica è un mostro dai molti tentacoli, che ha afferrato e imprigionato, fino a soffocarla, l’intelligenza media del pubblico, basta fare la prova Twitter. Mandagli 140 caratteri dotati di una qualche autenticità psicologica, logica, morale, e vedrai quanto fiele sarà vomitato. Certe verità, una volta affermate come idoli della piazza, non sopportano l’emergere delle controverità. La reazione è di silenzio e nascondimento oppure di rigetto e odio: non puoi dire, come questo giornale ha fatto, che è falso lo scandalo del Monte dei Paschi di Siena. Non puoi dire che le imputazioni importanti si sgonfiano, che erano formulate in modo specioso e a tratti grottesco, che destra e sinistra tribunizia hanno usato l’ipotesi di una maxitangente derivata dall’acquisto a un costo elevatissimo della Banca Antonveneta da parte dell’istituto senese per specifici e generici scopi di bassa propaganda politica (per non parlare dei somari dell’antipolitica grillina).  Non puoi rilevare la stranezza di uno “scandalo del millennio” in cui le grandi cifre del maltolto, la sostanza dello scandalo,  sono sparate dai giornali e dalle tv condiscendenti alla mentalità correttista, mentre le cifre di malversazioni accertate sono pochi spiccioli finiti nelle tasche di qualche funzionario infedele. Non puoi dire che è strana una inchiesta così rilevante senza arresti eccellenti, perché evidentemente non esistevano i termini, spesso così spicciativamente fissati in altri casi, per procedere. Non puoi onestamente fissare una distinzione tra i fallimenti e le disinvolture strategiche di una banca che ha fatto il passo più lungo della gamba, che ha cucinato i bilanci anche con operazioni di rischio su titoli derivati, come fanno quasi tutte le banche del mondo, che ha dovuto chiedere prestiti allo stato, ciò che è successo ovunque, e se non riuscisse a restituirli, a tassi di interesse peraltro molto consistenti, perderebbe la sua autonomia come sempre avviene nei patti convertendo. Non puoi parlare di cose vere con un tono controargomentativo, e spiegare quel che traspare, cioè un retroterra massonico e d’influenza carico di segreti e drammi anche personali, vecchie storie di politica e fondazioni creditizie, scontri al vertice, nei vertici e nelle successioni al vertice. Scontri risolti ieri con l’apertura della banca, lodevole, a capitali esterni che possono diventare determinanti: un atto di riforma e normalizzazione incompatibile con la dimensione scandalistica che tutta la faccenda del crollo e della grande rapina avevano imposto. Nei giorni scorsi per la seconda volta il tribunale del riesame ha bocciato l’ipotesi accusatoria maggiore, quella che riguarda il contratto sui derivati con la banca d’affari giapponese Nomura, che peraltro si era mostrata parecchio infastidita dalle intromissioni dei magistrati, che giudicava speciose, in una vicenda di commercio finanziario internazionale. Si va, secondo tutti gli osservatori, verso l’archiviazione del dossier Antonveneta, e sarà archiviata l’inchiesta sul suicidio di David Rossi, misterioso come tutti i suicidi. Ora uno dice. Qualcuno di questi furboni & cialtroni che hanno lucrato sullo scandalo del millennio, in politica, nel giornalismo, nella finanza, nell’ordine giudiziario, sarà chiamato a qualche responsabilità. Ma non succederà. Resterà un piccolo club di fortunati, la fetta di pubblico che ha per le mani un giornale come questo, in possesso delle controverità fattesi dato oggettivo, e per il resto un grido aspro e stupido contro l’insabbiamento emesso dal cretino che passa su Twitter, il silenzio indifferente, l’incapacità di capire che così un paese va letteralmente a finire in giochi idolatrici di quart’ordine. Veniamo all’Ilva di Taranto, già per molti anni Italsider, acciaio, salute e lavoro, stato e privati, insomma vita. E’ un dossier ancora più penoso, per chiare ragioni. I dobloni vabbè, ma con la vita delle persone, la malattia e il dolore, non si deve scherzare. Ma chi è che scherza? Chi pone le questioni con leggerezza, non importa se collocandosi dalla parte dell’umanitarismo e dell’ambientalismo o da quella dell’industrialismo e del capitalismo? A noi, con l’iniziativa del giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, confermata in numerosi passaggi dalla procura di Taranto, è stato inculcato questo, devo dire con sistemi oggettivi, un uso non sconsiderato e non ciarliero dei grandi poteri della magistratura: la produzione dell’acciaio uccide, è una strage, i morti si contano come nell’esplosione di una bomba, le storie di malattia sono crudeli, l’epidemiologia non può farla passare liscia a capitalisti che puntano al profitto, corrompono la gente per coprire le situazioni malsane, e ben gli sta se passano parte della loro vita in galera domiciliare anche sopra gli ottant’anni, questi industriali luciferini. Tra i coinvolti per il giro della politica c’è un Nichi Vendola presidente della Puglia, che si è messo nella scia dei magistrati, ma con molte contraddizioni e incertezze. C’è la sinistra, che è stata regolarmente finanziata dalla potenza economica dei Riva, e ha dato, in un certo senso ha offerto in olocausto, uno dei suoi pupilli, il prefetto Bruno Ferrante, ex capo di gabinetto di Giorgio Napolitano all’Interno ed ex candidato sindaco a Milano, al tentativo di risolvere il conflitto fra salute e lavoro, come si dice. Poi c’è la linea del governo Monti, con la sua maggioranza di larga coalizione, confermata dal governo Letta: decreti e leggi per contrastare la tendenza del circo mediatico-ambientalista-giudiziario a chiudere semplicemente l’Ilva, progetto quasi impossibile e comunque molto dannoso alla vita dell’industria e di chi ne dipende, e farlo rilanciando le pratiche ambientali costosissime ma doverose intese a risolvere il conflitto eliminando il più possibile. Con le bonifiche e gli standard acconci di produzione. I fattori di rischio. Su cosa si basa tutto questo, dall’accusa di strage al dramma sociale e politico di un bastione industriale da abbattere? Si basa su dati epidemiologici, e su come essi vengono recepiti dall’opinione pubblica e dalla gente di Taranto, lavoratori e abitanti, gente che risponde con dolore, con spavento, con offesa e con costernazione a quei dati, ed esprime l’esperienza stessa che sta dietro la parola asettica di epidemiologia. Taranto però è divisa in materia, come sanno tutti coloro che non cedono alla demagogia spicciola, e una parte consistente della comunità, che nel referendum è rimasta maggioritariamente assente dalla battaglia, pensa che si sia esagerato e che le cose non siano così chiare come le descrivono i comitati militanti. E allora? Allora il problema è che questo giornalino si permise di esprimere delle riserve sul modo in cui sono costruite le ricerche epidemiologiche del progetto Sentieri e dell’Arpa, l’agenzia che deve valutare in loco, a livello regionale, i danni sanitari. In queste ricerche epidemiologiche, per stabilire se i tumori e le affezioni polmonari e cardiache siano sopra la media, se dipendano interamente o parzialmente, e in quale proporzione, da vari aspetti della produzione dell’acciaio nelle zone a caldo oppure siano ascrivibili anche e in qualche caso soprattutto ad altri fattori, come l’amianto dei cantieri navali eccetera, hanno lavorato persone di qualità  e di presumibile, per non dire sicura, indipendenza. Ma ecco che arriva l’ultimo, e il più prestigioso, della filiera dei Grand Commis de l’Etat chiamati a sbrogliare la matassa incandescente, il commissario Enrico Bondi, l’uomo delle situazioni difficili, della scuola di Enrico Cuccia, che ha risolto il problema industriale e finanziario della Parmalat e ha impedito il crollo di una grande fonte di lavoro e di ricchezza sociale. Bondi ha per le mani un documento in cui Paolo Boffetta, Carlo La Vecchia, Marcello Lotti e Angelo Moretto – tutti epidemiologi e studiosi delle criticità sanitarie di livello e impegno rilevante, anche in campo internazionale – sostengono che il progetto Sentieri e il rapporto dell’Arpa sono criticabili per moltissimi aspetti. Il documento è lungo e richiede anche competenza specialistica per essere letto,  ma il suo senso è chiaro. C’è anche un passaggio, non necessariamente centrale nelle analisi varie ivi condotte, in cui si afferma che alcuni dati storici dell’area tarantina (la grande disponibilità di tabacco da contrabbando per generazioni, l’alcolismo e lo stato di vita miseranda a cui fette importanti di popolazione furono condannate) alludono a cause epidemiche del danno sanitario in una forma che è sbagliato sottovalutare. Bondi trasmette a chi di dovere questo rapporto strettamente scientifico, nato come iniziativa prima della sua nomina a commissario dell’Ilva, e il risultato è questo, per gli stessi giornali e siti che ingrassano sullo scandalismo in tutti i campi: Bondi dice che il cancro a Taranto dipende dal fumo e dall’alcol, non dalla produzione dell’acciaio. Da quel momento Bondi non vive più. E’ costretto a precisare, attività sempre sospetta, a essere audito dal ministro, si minacciano nuovi comitati esperti per giudicare gli esperti eccetera. Il clima è di colpevolizzazione. La affermazione analitica del rapporto scientifico diventa una barzelletta: è il tabacco, bellezza, e tu non puoi farci niente. La teppa mediatica si scatena. Invece, come per l’Mps, lo scandalo venuto dal nulla e finito nel nulla, anche in questo caso c’è la coincidenza con i nostri dubbi di minoranza, le nostre tremebonde intuizioni su chi la fa sempre troppo facile. D’altra parte comporre un giornale e offrire informazioni e analisi è cosa complicata, come dicevamo, e nella legge del politicamente corretto sta scritto che ieri puoi far stampigliare sui pacchetti di sigarette che IL FUMO PROVOCA IL CANCRO, a grandi lettere, e oggi puoi sbeffeggiare il rapporto degli esperti che dice la stessa cosa in un contesto diverso.

TARANTO. TUTTI DENTRO.

TARANTO, GIUDICI SOTT' ACCUSA INQUISITO L' EX PROCURATORE.

Corruzione al Palazzo di Giustizia di Taranto, interessi privati e intrecci poco chiari tra ambienti della magistratura, della questura e dell'imprenditoria locale, scrive Enzo Castellano su “La Repubblica”. Su questi scottanti temi si è incentrata negli ultimi tre anni l'attività dei magistrati baresi che tra mille difficoltà hanno ora concluso gran parte dell'inchiesta. Clamorose, come nelle premesse, sono le conclusioni. Sono stati rinviati a giudizio l'ex procuratore capo della Repubblica di Taranto, Giuseppe Raffaelli, 72 anni, sua moglie Giacoma Bianca De Filippis, 58 anni, e l'ex sindaco di Massafra (Taranto), il democristiano Orazio Bianco, 55 anni, tutti e tre accusati di concorso in interesse privato. Di corruzione dovranno invece rispondere l' ex sostituto procuratore Giuseppe Lamanna, 60 anni, e il presidente degli industriali di Taranto, Donato Carelli, 49 anni. Un altro magistrato di Taranto, l'ex sostituto procuratore Giuseppe Lezza, 47 anni, ha evitato il rinvio a giudizio perché il reato di corruzione contestatogli, fra gli altri, si è estinto per prescrizione. C' è comunque un procedimento disciplinare nei suoi confronti. Estinta per amnistia l'accusa di simulazione di reato a carico di Raffaelli, della moglie, e di Lamanna e Bianco. E' da rilevare inoltre che numerosi altri episodi esaminati dal giudice istruttore di Bari, dottor Emilio Marzano (la requisitoria è stata formulata dal procuratore capo di Bari Domenico Zaccaria), sono stati trasmessi per competenza alle autorità giudiziarie di Taranto e di Lecce. Due ispezioni ministeriali In queste due tranche della corposa inchiesta sono coinvolti funzionari della questura di Taranto poi trasferiti in altre sedi periferiche e anche diversi poliziotti. L'ex questore del capoluogo jonico, Giuseppe Ciulla, è invece già stato rinviato a giudizio per falso e peculato in relazione a un incidente stradale nel quale rimase coinvolto assieme al suo autista: dichiarò che era avvenuto nell' ambito del servizio, ma non era vero. L'inchiesta prese le mosse nel 1985 da due ispezioni ministeriali a Palazzo di Giustizia e nella questura del capoluogo ionico, al termine delle quali venne fuori un contesto di influenze, di protezioni e di favoritismi tra alcuni magistrati, funzionari di polizia e l'imprenditore Donato Carelli. Tra gli episodi accertati durante le ispezioni, eclatante è il caso dei lavori di spostamento della linea ferroviaria Taranto-Metaponto che originariamente prevedevano l'occupazione d'urgenza di alcuni immobili, tra i quali figuravano vasti terreni di proprietà della moglie e della cognata di Raffaelli, Giacoma e Marina De Filippis. Secondo le accuse, l'allora procuratore, attraverso la pressione di un processo penale e l'emanazione di una ordinanza di sequestro della documentazione relativa al progetto ferroviario, determinò la modifica dello stesso progetto approfittando sia della sua posizione che di quella del vicecommissario del consorzio Asi, area per lo sviluppo industriale, suo stretto parente. Dagli accertamenti compiuti è risultato che l'ex sindaco di Massafra (Comune nel quale ricadono i terreni in questione), Orazio Bianco, disconosceva la propria firma in calce al nullaosta al progetto di variante che aveva poi portato al decreto di occupazione dei terreni. Il fatto venne denunciato alla procura nel periodo in cui (gennaio 1982) Raffaelli risultò assente dall'ufficio per motivi personali e il fascicolo passò nelle mani del procuratore facente funzione, Giuseppe Lamanna, che poi emanò il decreto di sequestro della documentazione. Automobili in regalo Circa i rapporti tra Carelli e i due sostituti Lezza e Lamanna, è emerso che un procedimento penale a carico dell'imprenditore per presunte irregolarità fiscali, inizialmente avviato da Lezza, sarebbe stato poi insabbiato dall' altro magistrato al quale il presidente dell' Assindustria tarantina fece omaggio in tempi diversi di ben quattro automobili: una Golf, una Mercedes, una Audi 100 e ancora una Golf. Lezza invece avrebbe ricevuto, sempre dal Carelli, un contributo di 15 milioni per l'acquisto di una Mercedes. L' inchiesta si è soffermata anche su presunte corsie privilegiate nella distribuzione di processi contro amministratori di Martina Franca (Taranto), un tempo feudo dell'ex sottosegretario democristiano alle Finanze Giuseppe Caroli.

Il giudice Giuseppe Tommasino fu accusato ingiustamente.

Il 25 febbraio 2009 ripresa dal sito L'Occidentale, pubblicai questa notizia a firma di Ettore Maria Peluso, spiega Lilli D’Amicis su “Tutto il Resto è noia”.  “Scandalo nei tribunali pugliesi, giudici accusati di corruzione e peculato. A Taranto la notizia delle indagini si diffonde in pochi minuti: concorso in corruzione e peculato. Tra gli avvocati e i magistrati del Comune ionico c’è curiosità, tanta curiosità: vogliono sapere chi sono i personaggi coinvolti. La Procura della Repubblica di Potenza ha le carte in mano di una delle pochissime indagini in Italia su altri magistrati e, pur ribadendo la presunzione di innocenza, non ci si può esimere dal dare conto di una indagine che sta sconvolgendo i piani alti della magistratura pugliese. Sono sotto inchiesta l’ex procuratore capo di Taranto, Aldo Petrucci e l’ex coordinatore dell’ufficio del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Taranto, Giuseppe Tommasino. Le ipotesi di reato sono gravissime e coinvolgono anche l’ex Sindaco di Martina Franca, Leonardo Conserva. I due magistrati di Potenza, Cristina Correale e Ferdinando Esposito, competenti territorialmente, indagano sui rapporti tra i due giudici pugliesi e sugli eventuali scambi di favori. Solo per il giudice Petrucci, attuale procuratore minorile a Lecce, l’accusa è anche di peculato per le tante telefonate private fatte dagli apparecchi di servizio, mentre per il Giudice Tommasimo, l’accusa è anche di rivelazione del segreto di ufficio. L’attività investigativa (delegata ai Carabinieri) ha rivelato una serie di “coincidenze” come, ad esempio, la conduzione eccessivamente generica di alcune indagini che avrebbero portato alla successiva archiviazione dei procedimenti. Ma non c’è solo questo: tra l’ex Sindaco e il procuratore Petrucci vi sarebbero anche delle consulenze comunali che ammonterebbero a 283.000 euro, affidate allo studio legale in cui lavora la figlia del magistrato. Per questo motivo viene contestato il reato di corruzione. Anche dal passato spunterebbero inquietanti coincidenze, perché Tommasino sarebbe stato aiutato in un procedimento per fuga di notizie. Durante lo scandalo della sanità, un imprenditore sarebbe venuto a conoscenza, anticipatamente, del suo imminente arresto; il pm titolare dell´inchiesta, effettuando una indagine interna, sarebbe risalito al computer dal quale era stato violato il registro generale. Era la postazione di un cancelliere che fece il nome del giudice Tommasino. Il procuratore Petrucci, al quale venne affidata l’indagine, iscrisse nel registro degli indagati il solo cancelliere, poi scagionato. Il favore sarebbe poi stato ricambiato due anni più tardi, perché nel giugno del 2006 Tommasino avrebbe estromesso da un procedimento un giovane tarantino, conoscente del procuratore e accusato di rapina. Intanto Petrucci si difende: “ Non ho mai fatto o chiesto favori, la mia correttezza istituzionale è comprovata dal lavoro svolto a Taranto in otto anni e dallo splendido rapporto con i colleghi. Con Conserva ci sono stati sempre e soltanto contatti istituzionali. Su di lui si sono aperti procedimenti che sono arrivati a giudizio, ma anche archiviati senza alcun occhio di riguardo ”. Evidentemente non la pensano così i giudici di Potenza. Nella speranza che venga dimostrata l’innocenza di tutti i soggetti coinvolti, continuiamo a credere nella magistratura e nel principio che “La legge è uguale per tutti”.”

Da allora sono accadute molte cose, continua la D’Amicis di cui ne dà conto l'avv. Michele Imperio in un lungo articolo che pubblichiamo di seguito. C'è da dire che di questa vicenda se ne erano perse le tracce e grazie ad una lettera di un legale che mi invita a pubblicare quanto segue, torno su questo argomento e ognuno dei lettori ne trarrà le considerazioni che crede. Ecco il lungo articolo  dello scorso 2 maggio e buona lettura.

In Puglia è in corso in questo momento un conflitto molto aspro fra partito trasversale degli onesti e sistema dalemiano di potere, cioè quel sistema che si è fatto conoscere attraverso le vicende dell’ex vicepresidente della regione Puglia Sandro Frisullo (P.D.), arrestato in carcere, dell'ex assessore alla Sanità ora senatore Alberto Tedesco (P.D.) in attesa di essere messo agli arresti domiciliari, se il Senato darà l'autorizzazione e dell’imprenditore faccendiere Giampaolo Tarantini (P.D. e U.D.C.), messo anche lui agli arresti domiciliari a vita, un sistema di intrecci fra affari-sanità-politica, che va dallo spaccio della droga al favoreggiamento della prostituzione, dalla gestione illegale degli appalti pubblici, alla gestione illegale delle nomine dei primari ospedalieri, il tutto con un ritorno economico e elettorale per alcuni esponenti politici del P.D. (corrente di D'Alema). Dico alcuni perché, per la verità, non tutto il P.D. pugliese è a favore di questo sistema di potere. Anzi ora che il sistema è emerso, una parte del partito, una volta succube, manifesta con più chiarezza la propria contrarietà. Si tratta di quella parte del Partito Democratico che guarda con simpatia e con speranza alle posizioni del sindaco di Bari Michele Emiliano. Il lettore di questo post può rendersi conto personalmente di questo conflitto leggendo la lettera che il sindaco Michele Emilano ha scritto recentemente al segretario regionale del P.D. Sergio Blasi, a proposito del caso del consigliere regionale dello stesso P.D. Michele Mazzarano chiamato in causa nello scandalo della Sanità pugliese da Giampaolo Tarantini e tuttavia restio a lasciare le proprie poltrone e i propri incarichi. Tra i Magistrati il partito di Emiliano registrerà adesioni? La storia che sto per raccontare dimostra come il sistema dalemiano di potere ha fatto breccia nei Magistrati pugliesi di M.D. perché esso prevede una scientifica tutela della loro eventuale compartecipazione al sistema stesso con l’innesto addirittura di un programma di protezione ogniqualvolta un altro magistrato o un avvocato o chiunque sia, attacchi le posizioni del sistema o comunque si sforzi di dare alla Giustizia un minimo di imparzialità, di serietà e di trasparenza. Premetto che il lettore meno informato deve sapere che in ogni Tribunale ci sono tre posti di comando: il Presidente del Tribunale, il Procuratore Capo della Repubblica e un po’ meno il presidente della sezione dei giudici delle indagini preliminari. Questo ultimo posto direttivo nell’anno di grazia 2005 nel Tribunale di Taranto era occupato dal Giudice Giuseppe Tommasino, un Magistrato originario della provincia (Manduria), persona molto per bene, discendente a sua volta di persone per bene, il padre uno stimato funzionario del ministero della P.I., la madre una professoressa, lui stesso un Magistrato benvoluto da tutti, apprezzato, gran lavoratore (sotto la sua guida l’Ufficio G.I.P. aveva azzerato tutto l’arretrato), estensore di sentenze in cui non si rinvengono nè assoluzioni facili nè impeti giustizialisti. Insomma un giudice giusto, che faceva processi giusti, precisazione questa che dovrebbe essere pleonastica, perché un processo non dovrebbe essere che un processo giusto. E che invece pleonastica non è, tant'è che lo stesso legislatore di Sinistra (proprio D’Alema!) si è dovuto affannare in passato per raffreddare i bollenti spiriti di alcuni Magistrati di M.D. e quindi garantire che il processo, se pure gestito da magistrati di M.D., sia comunque un processo giusto. Ora però il giudice Giuseppe Tommasino aveva un difetto: non aveva caratterizzazioni politiche. O meglio, non le aveva sul posto di lavoro dove per due volte aveva rinviato a giudizio il sindaco di Forza Italia del posto Rosanna Di Bello e anche esponenti politici di centro e di sinistra. Ma al di là e al di fuori del posto lavoro, Tommasino poteva considerarsi un moderato, era stato tanti anni prima candidato al Parlamento per il Patto Segni, una formazione moderata, suo fratello Paolo è attualmente sindaco per il PDL a Manduria, insomma si capisce che è un moderato. Il Tribunale di Taranto, come tanti uffici giudiziari, era, e forse è tuttora, avvilito dai problemi della fuga di notizie sui processi e, in particolare, dai problemi delle fughe di notizie sui mandati di cattura. Dal 1992 in poi, cioè dall’inizio dell’era giustizialista (prima se lo veniva a sapere il CSM erano dolori amari) più di qualche indagato, nell’intermezzo fra la richiesta del P.M. e la decisione del G.I.P. si vedeva arrivare questa telefonata: “Pronto? Ah! caro dottore! sono il maresciallo Tal dei Tali …………..scusi se la disturbo …sa…. ma volevo dirle che la Procura ha richiesto un mandato di cattura contro di lei ………… sa ……….per quella vicenda…………..se ne occupa il dottor Tizio o Caio …………….……….noi……se vuole….., dottore….., siamo a disposizione…………. ……………………… ………….” E dall’altra parte del filo: “ah, grazie, grazie maresciallo!………………si, si, incontriamoci!………….” Per tre volte Tommasino era venuto a conoscenza di questi fatti gravissimi, di questa fuga di notizia e per tre volte aveva sporto (ahimè;) regolare denuncia alla Procura della Repubblica, cosa che non aveva fatto di certo piacere a più di qualcuno. Perché queste denunce su queste fughe di notizie comportano varie conseguenze negative: prima di tutto il tentativo di “aggiustamento” del mandato di cattura fallisce o comunque viene disturbato. In secondo luogo la denuncia attiva un’istruttoria scomoda e imbarazzante. Perché il P.M. incaricato è costretto, per forza di cose, a sospettare di addetti ai lavori, di funzionari di polizia, di carabinieri, di militari della guardia di finanza e soprattutto di colleghi Magistrati. E quindi inevitabilmente l'indagine produce accuse, sospetti, veleni, fango su questi soggetti. Ora però – tutti pensano - per come funziona la Giustizia in Italia, che cosa può cambiare se qualche mandato di cattura viene "aggiustato"? Alla fin fine anche i Marescialli e i Magistrati devono campare! O no? ........Ma si, ma che si faccia i fatti suoi questo Tommasino! Ma che non rompa i c…………! .........Ma insomma!!!!!! Ma che cosa vuole!!!!! Tutto comunque fila liscio e senza danni per il giudice Tommasino, fino a quando, un giorno avviene che tra questi destinatari di mandati di cattura, messi preventivamente a conoscenza del provvedimento giudiziario, capita un certo Cosimo Tomaselli, un imprenditore di Fragagnano (quindi non di Manduria, come pure si è detto, che è il comune di residenza di Tommasino). Tomaselli è imparentato con un ex parlamentare del P.D., tale on.le Ugo Malagnino, uno che ha partecipato alla nota cena del ristorante "La Pignata" di Bari, una cena fatta di commensali che se un Magistrato li avesse arrestati tutti, sicuramente non avrebbe sbagliato. Tomaselli è quindi un “Dalema’s boy”, così li chiamano, ma - per carità! - non per questo (il lettore ci comprenda) aveva importanti commesse da alcuni Ospedali. Li aveva - ovviamente - per la sua professionalità. Il P.M. di Taranto A.C. ipotizza a carico di Tomaselli il solito reato di sanitopoli (vendeva, secondo l'originaria accusa, attrezzature sanitarie usate spacciandole per nuove, poi in Corte di Appello è stato assolto) e chiede al g.i.p. Michele Ancona (M.D.) l’emissione di un mandato di cattura nella forma più restrittiva, più severa e più invasiva che è il carcere. Quindi ricapitoliamo: Tommasino e Tomaselli non sono della stessa città, non sono della stessa area politica, non sono amici, nemmeno si conoscono. Eppure ad un certo punto Tommasino diviene, per la accusa rappresentata da magistrati di M.D., autore della soffiata. Le cose vanno così: Una mattina si presenta nell’ufficio del giudice Tommasino l’avvocato E.A., il difensore di Cosimo Tomaselli e chiede che lui, Magistrato presidente dei G.I.P., fissi una riunione col g.i.p. assegnatario della richiesta del mandato di cattura. Vuole che lo convinca a non emettere la misura detentiva a carico di Tomaselli, il quale è disperato e - naturalmente - innocente. Il giudice rimane basito e chiede: “ma come ha fatto Tomaselli a sapere in anticipo della richiesta di un mandato di cattura?” A questa domanda l’avvocato risponde: "la notizia gli è stata propalata da militari della Guardia di Finanza". Dunque un’altra fuga di notizie! Un altro clamoroso buco nella correttezza dell'azione giudiziaria! Tommasino vuole vederci chiaro, vuole accertarsi di come stiano realmente le cose. Lui che non è pratico di informatica e che è il Presidente dei G.I.P., quindi titolato per Legge a conoscere di tutte le richieste che pervengono all'Ufficio, chiede alla cancelliera di consultare il computer per accertarsi che ci sia effettivamente un procedimento e una richiesta di custodia cautelare a carico di Tomaselli. Dopo qualche giorno l’imprenditore Cosimo Tomaselli viene effettivamente arrestato però non più in carcere, bensì con le modalità degli arresti domiciliari. Anche questa volta la fuga di notizie – forse - ha parzialmente smorzato il progetto. Tommasino riferisce al Procuratore l’ennesima fuga di notizie di cui era venuto a conoscenza. Il Procuratore Capo della Repubblica apre un procedimento penale a carico della cancelliera del dott. Tommasino. E perchè il Procuratore Capo ha assunto questa iniziativa? Perché emerge dalle sue indagini che la cancelliera aveva effettuato gli accessi relativi al procedimento a carico di Tomaselli. Successivamente però la posizione della cancelliera viene archiviata perché Tommasino riferisce al Procuratore Capo di aver dato lui quella disposizione. Ma un altro G.I.P. pensa bene, allora, di rimettere alla valutazione della Procura della Repubblica di Potenza la posizione di Tommasino che, così, da accusatore diventa accusato! Assurdo! La vicenda assume col tempo contorni grotteschi: la pratica finisce nelle mani di un P.M. di M.D. di Potenza Cristina Correale (MD) e va soggetta allo stesso fenomeno della palla di neve che diventa valanga. Cristina Correale (M.D.) non solo continua a indagare il giudice Tommasino per la fuga di notizie, rimanendo insensibile a qualunque richiesta di approfondimento del Magistrato (il quale giunge persino ad indicare il nome e il cognome del maresciallo della G.d.F. che aveva informato Tomaselli), ma poiché alla attenzione di questo Magistrato era stata mandata anche una posizione del Procuratore Capo della Repubblica di Taranto A.P. (quello che aveva archiviato il processo a carico della cancelliera e che giustamente non aveva indagato Tommasino) pensa bene di collegare le due vicende. E qundi ecco il cervellotico teorema: Il Procuratore Capo non aveva indagato Tommasino (e perché lo avrebbe dovuto fare?) e Tommasino, a sua volta, lo avrebbe ricambiato, assolvendo il marito separato (un maresciallo di Marina) di una amica del Procuratore Capo e archiviando anche la posizione del sindaco di Martina, altro amico dello stesso Procuratore. Questo ultimo fatto però era avvenuto tre anni prima, sicchè Tommasino - secondo l'accusa - aveva poteri sovrannaturali che gli consentivano di prevedere, con tre anni di anticipo, che egli avrebbe avuto bisogno un giorno della pietà del Procuratore! Ma c’è di più! Il P.M. Cristina Correale dava per scontato che tra Tommasino e il Procuratore Capo A.P. c’erano buoni rapporti. Invece anche le pietre del palazzo sapevano che i rapporti fra i due, al di là delle necessarie interlocuzioni istituzionali, erano pessimi. Nessuno sapeva poi di questa relazione segreta del Procuratore Capo con la moglie separata di un maresciallo di Marina, per giunta imputato, perché - per ovvie ragioni che tutti possono immaginare - il Procuratore Capo la teneva gelosamente riservata. Ma che colpo di genio! Certo che occorre avere una fantasia fuori dal comune per ipotizzare accuse come queste! E quindi – ecco dove scatta il progetto di protezione - si muove una accusa infondata di corruzione giudiziaria al giudice Giuseppe Tommasino allo scopo di far allontanare per sempre dal Tribunale di Taranto questo Magistrato scomodo, non omologato, rompicoglioni, classificabile nell’area ostile del centro-destra, il quale - pensate un pò - con queste credenziali, si permetteva pure di fare denunce penali contro gli addetti del Palazzo !!!!!!!! Ma guarda tu !!!!!!!!!! Ricevuto l’avviso di garanzia e quindi messo per la prima volta a conoscenza delle accuse, Tommasino ovviamente va a verificare nel proprio computer la sentenza da lui emessa contro questo imputato a lui sconosciuto (il maresciallo di marina) e scopre che le sentenze a suo carico sono due, una effettivamente di proscioglimento, ma l’altra di condanna (!!!!) a distanza di due mesi l’una dall’altra. E quanto alla archiviazione del sindaco di Martina Franca, a parte che era di tre anni prima, si sa benissimo nell’ambiente giudiziario che, se non vi è sollecitazione della parte lesa, le centinaia di richieste di archiviazione dei P.M. che provengono ai G.I.P. si trasformano, nel 99% dei casi, in provvedimenti di archiviazione. Naturalmente i media tarantini e persino quelli nazionali, ai quali una sapiente regia comunica la notizia, impostano i loro articoli in modo completamente fuorviante e distorto gettando sul giudice Tommasino tonnellate di fango! Toghe sporche sullo Jonio!!!! titola a caratteri cubitali e a cinque colonne il quotidiano "Repubblica", l'immancabile in certe occasioni. A questo punto Tommasino pensa bene di trasformarsi da g.i.p. in detective e fa lui le vere indagini che nessuno ha voluto fare e come si sarebbero invece fatte nella Prima Repubblica. Contatta un dipendente dell’imprenditore Tomaselli e registra su un nastro la conversazione. Nel corso della conversazione il dipendente gli dice che sì, che Tomaselli effettivamente aveva saputo da militari della Guardia di Finanza di questo mandato di cattura, fa il nome e cognome del militare in questione, in un primo tempo si era preoccupato, ma poi - dopo - si era rasserenato perchè aveva trovato la strada giusta: la strada del fratello di un Magistrato, ma non un Magistrato asettico e di centro-destra come Tommasino, bensì un Magistrato di M.D. e per giunta protetto dagli alti livelli delle organizzazioni correntizie e associative della Magistratura. Pensate voi che queste prove offerte al giudice appulo-lucano Cristina Correale (M.D.) erano sufficienti per vedere almeno archiviare il caso del giudice Giuseppe Tommasino? Ma nemmeno per sogno! Anzi! Quelle ulteriori accuse erano una dimostrazione in più che Tommasino (il rompic.....) voleva infierire sugli addetti del palazzo e quindi una ragione altra per infierire ulteriormente su di lui !!!!!!!!!!!! Tommasino deve affrontare quindi l’udienza preliminare. Ma qui evidentemente - e per fortuna - l'influenza sui processi di M.D. cessa e quindi arriva finalmente la piena assoluzione. Assoluzione che vien data - attenzione! - su conforme richiesta del P.M. di udienza, un Magistrato serio, il quale sbianca in volto quando legge quel processo. Sui giornali e sui blog però non più titoli cubitali a cinque colonne ma solo due fredde righe di rettifica. Vedi: Le accuse a carico del giudice Tommasino si sono dimostrate (sic!) completamente infondate, recita mestamente un blog della Rete. Ma c'è un Magistrato il quale è il vero responsabile della fuga di notizie. A lui però non è successo nulla perché lui si è dimostrato un soggetto disposto a partecipare a congiure e complotti, è iscritto alle corporazioni della Magistratura e per questo è un intoccabile, insomma è uno che potrebbe far parte, un domani, del “gioco grande”. Ricordate il "gioco grande" di Giovanni Falcone? Era quel gioco sporco, perverso e criminale che coinvolgeva alcuni uomini politici, alcuni funzionari dello Stato e soprattutto alcuni Magistrati (Francesco Di Maggio di M.D. tanto per non fare nomi, ma non solo lui). ..……..Speriamo che qualcuno non stia pensando di riattivarlo questo gioco grande….…………….il corvo è comparso di nuovo ............però non più a Palermo......ma a Bari .......contro un Magistrato che ha scoperchiato un certo sistema di potere, non più nascente ma nato e cresciuto...............

Le tante sciocchezze scritte dal giudice Nicolangelo Ghizzardi nel suo libro "Taranto tra pistole e ciminiere", scrive Michele Imperio su “Ok Notizie”. Il dott. Nicolangelo Ghizzardi già Sostituto procuratore presso il Tribunale di Taranto e ora Procuratore Aggiunto presso il Tribunale di Brindisi ha scritto un libro dal titolo “Taranto fra pistole e ciminiere” che rivanga fatti e vicende di mala connesse a vicende storiche e politiche del territorio di Taranto che vanno dai primi anni 80 fino ai primi anni 90. Sono rimasto indignato dalla lettura di questo libro, che mi pento di avere acquistato, sia per il fango che gratuitamente il dott. Ghizzardi getta addosso a persone per bene solo perché sono di tendenza politica diversa dalla sua sia per le infinite sciocchezze di cui il testo è corredato con riferimento a vicende avvenute fra il 1989 e il 1992, anni nei quali – questo può considerarsi ormai acclarato da altre più serie indagini - la Sinistra democristiana dei De Mita, dei Mancino, dei Rognoni e degli Scalfaro (le menti raffinatissime) cercò di attuare un disegno politico tendente ad imporre al paese il proprio dominio politico benchè forza politica minoritaria e ciò anche attraverso stragi, omicidi eccellenti, manipolazione di processi, gestione di pentiti e selezione di gruppi criminali considerati a sé vicini nonchè la macellazione, per via giudiziaria o militare, di gruppi criminali considerati invece ostili. La Sinistra non di governo invece semplicemente "sapeva" (Giovanni Brusca). E’ evidente che il dott. Nicolangelo Ghizzardi, affiliato a M.D. e protagonista in quegli anni come Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Taranto di quelle stesse vicende, attraverso la pubblicazione di questo libro cerca solo di fare pubblicità a se stesso, pubblicità che non merita. E non dico altro. Commenterò pertanto uno per uno i capitoli del suo libro in cui riscontrerò ricostruzioni imprecise e considerazioni strumentali, segnalando al lettore tutte le informazioni distorte,le sciocchezze e i coniti di fango che in esso il giudice scrittore ha inteso riversare. Così almeno chi mi legge potrà ristabilire la verità.

Capitolo 12 La nomenclatura politico-criminosa si arricchisce di altri protagonisti.

GIUDICE GHIZZARDI: Come detto le elezioni comunali del maggio 1985 portarono alla rottura dei vecchi equilibri politici incentrati sul vecchio PCI facendone sorgere di nuovi che avevano, però, bisogno di consolidarsi e di acquisire maggiore stabilità. Il pur precario contesto politico tuttavia non impedì alla giunta di Mario Guadagnalo di governare per cinque anni……………………

COMMENTO: Cioè ogni contesto politico in cui non c’era dentro il PCI – secondo il Ghizzardi - era per sua natura un contesto politico precario! Quello con il PCI invece era sempre stabile. Diciamo che questo è vero finchè il PCI tarantino è stato amministrato dal sen. Giuseppe Cannata. Dopo non più.

GIUDICE GHIZZARDI: Contrariamente alle previsioni invece la situazione che venne fuori dalle elezioni del 1990 apparve da subito ancor più compromessa e ancora più confusa.

Anche in tale occasione furono esperiti pallidi tentativi tesi a formare una giunta di sinistra ed i numeri avrebbero consentito quella opzione nonostante il PCI fosse sceso al di sotto del 20% dei consensi. Prevalse però ancora una volta la formula del pentapartito i cui equilibri e la cui stabilità apparvero da subito fortemente minacciati dalla presenza ingombrante all’orizzonte di Giancarlo Cito che aveva raccolto oltre il 13% dei voti ………….

COMMENTO: Giancarlo Cito è un vecchio militante del MSI, poi distaccatosi da destra da questo partito, il quale si era costituito una televisione privata Antenna Taranto Sei. Cito aveva faticosamente messa su questa televisione attraverso dei prestiti bancari, tutti puntualmente onorati, che gli erano stati garantiti o comunque favoriti da un noto benestante tarantino l’avv. Fulvio Santovito, azionista di una piccola banca locale, la attuale banca di Puglia e Basilicata, titolare di alcuna aziende agricole e zootecniche e cugino del generale Giuseppe Santovito direttore generale del SISMI dal 1978 al 1981. Fulvio Santovito era particolarmente allarmato dall’infiltrazione di alcune 'ndrine della Ndrangheta su Taranto di cui egli – evidentemente - era a conoscenza e riferì agli amici più stretti che, per aver concesso o comunque facilitato questi prestiti a Cito, era stato più volte minacciato per telefono anche di morte da soggetti che parlavano in uno stretto accento calabrese. Dalla sua emittente televisiva Giancarlo Cito faceva una martellante propaganda politica che gli consentì nelle elezioni del 1990 di prendere il 13% dei voti e nelle successiva elezioni del 1993 di diventare sorprendentemente sindaco battendo al ballottaggio un Magistrato della Procura della Repubblica di Taranto, Gaetano Minervini, collega del Ghizzardi, il quale si era presentato come candidato sindaco a capo di una coalizione di Sinistra sponsorizzata a livello romano dagli on.li Massimo D’Alema e Claudio Signorile. Il Cito costituisce quindi né più né meno che un esempio di vera e sana democrazia (un Davide che sconfigge Golia) mentre dietro la candidatura del giudice Gaetano Minervini, un ottimo Magistrato che poco aveva a che vedere con il circolo Pickwik che gli stava intorno, c’era tutto un disegno politico perverso (di cui il Minervini certamente era all'oscuro). Questo disegno politico era teso a condizionare anche le rappresentanze parlamentari della città. Di esso ci darà occasione di parlare più diffusamente in seguito proprio il libro del dott. Nicolangelo Ghizzardi a commento di un altro capitolo. Il disegno poi fallì proprio per l’inaspettata elezione a sindaco di Taranto di Giancarlo Cito e per la sua resistenza a tutti i pesanti attacchi di Servizi e malavitosi cui successivamente fu sottoposto.

GIUDICE GHIZZARDI: Taranto è sempre più povera, i disoccupati aumentano e non solo l’Italsider ………..è in crisi e continua a licenziare, ma anche altre imprese come la Belleli, sono in forte difficoltà. Le commesse dell’Arsenale Militare sono in recessione e alla riapertura dei Cantieri Navali non crede più nessuno. La sfiducia nella politica è dilagante e, a macchia d’olio, si diffondono luoghi comuni secondo cui tutti rubano.

COMMENTO: In effetti in quegli anni la città di Taranto subì una pesante recessione economica che portò alcuni esponenti dell’ambiente malavitoso che si erano ormai dedicati ad attività lavorative lecite (sopratutto quelli facenti parte del clan di Antonio Modeo detto "il Messicano";) a ritornare attivi nel campo dei traffici illeciti e degli appalti comunali, generando così una nuova e più aspra concorrenza in questi ambiti. Il sistema del finanziamento illecito dei partiti, tollerato in tempi di opulenza economica, venne messo effettivamente in discussione. Le inchieste giudiziarie di tangentopoli ad opera dei Magistrati di M.D. miravano però anche a Taranto a ingenerare nella popolazione il convincimento che solo i socialisti e gli esponenti della destra democristiana "rubavano" ossia si finanziavano illegalmente. Gli esponenti della Sinistra Socialista, della Sinistra Democristiana e del PCI invece ne erano esenti. Ma a Taranto questo convincimento fece fatica ad attecchire. La candidatura del giudice Gaetano Minervini a sindaco, secondo alcuni fallì proprio per l’ingombrante presenza alle sue spalle dell’on.le Claudio Signorile, considerato non estraneo al sistema del finanziamento illecito dei partiti e inviso alla popolazione per il suo scarso impegno per la città di Taranto.

GIUDICE GHIZZARDI: La vita economica sociale e politica della città è in piena crisi e tutto il degrado che ne consegue non fa che portare acqua la mulino di Cito che di lì a qualche anno diventerà il vero padrone della città.

COMMENTO: espressione freudiana del Ghizzardi, secondo il quale chi vince democraticamente le elezioni comunali non diventa semplicemente il sindaco della città bensì il padrone della città.

GIUDICE GHIZZARDI: E’ questa la cornice che fa da sfondo alla vicenda assolutamente inquietante che vede coinvolto A. F., altro esponente politico che nel 1992 rivestì la carica di assessore alla Annona nella Giunta di Roberto Della Torre. Il 30 ottobre 1992 (quindi un anno prima delle elezioni comunali del 1993 e un anno dopo la strage della barberia del 1° ottobre 1991 evento molto importante per le ragioni che saranno dette in seguito) all’interno del parcheggio della sede della emittente televisiva AT6 di proprietà di Giancarlo Cito (in via Elio a Taranto) esplode una bomba ad altissimo potenziale che provoca danni alle strutture murarie dell’edificio per oltre mezzo miliardo di lire. Lo scenario che si presenta agli occhi dei soccorritori è paragonabile a quello di una città di frontiera e l’ammasso di macerie evoca il ricordo della Beirut martoriata. Per fortuna nessuna vittima ma solo danni materiali. Indagini svolte dalla Direzione Investigativa anti-mafia di Lecce solo a distanza di anni consentiranno di ipotizzare per tale grave episodio responsabilità a carico di A. F., quale mandante dell’attentato dinamitardo e a carico di Marco Cristallo, Luigi Martera e Cosimo Cianciaruso, quali esecutori materiali dello stesso.

COMMENTO: Peccato che il dott. Ghizzardi si inquieta adesso della vicenda di A. F. e non si inquietò al momento opportuno quando egli era in servizio preso al Procura della Repubblica di Taranto. A. F. non è soltanto un esponente politico della vecchia Democrazia Cristiana, ma è anche un esponente del Sisde. Come ho già detto in precedenza il Sisde a quell’epoca si divideva in due aree una filo-Andreotti e una filo-Mancino. All’ala del Sisde filo-Andreotti apparteneva Vincenzo Serraino, contro il quale il dott. Ghizzardi abbatte i suoi strali in questo libro per le ragioni già dette. E su Vincenzo Serraino si abbatterono gli strali della procura della Repubblica di Taranto, all’epoca dei fatti che stiamo narrando con incriminazione per mafia, cattura, processo, condanna e quanto'altro. Contro A. F. (Sisde - area Mancino) invece, quanto meno da parte della Procura della Repubblica di Taranto della quale all'epoca faceva parte il dott. Ghizzardi, non si è mai abbattuto alcunché. Anzi. Il F. veniva costantemente informato da altri agenti dei Servizi segreti - e presumibilmente alla fonte da Magistrati della Procura - di tutte le iniziative giudiziarie che un solo Magistrato della Procura della Repubblica di Taranto (Vincenzo Petrocelli) intraprendeva contro di lui. Un solo agente dei Servizi segreti tale Eligio Curia, di Martina Franca (Taranto), funzionario del "Sisde" (fazione Mancino) , fu processato e sospeso dal servizio civile: il sostituto procuratore Vincenzo Petrocelli rilevò "interferenze" di Curia, il quale puntualmente avvisava il F. delle indagini in corso contro di lui. Anche il ministro dell' Interno dell'epoca, on.le Vincenzo Scotti (andreottiano) intraprese iniziative contro A. F. sospendendolo dalla carica politica di consigliere comunale. Il dott. Vincenzo Petrocelli, Magistrato integerrimo e fuori dai giochi, è stato quindi l'unico Magistrato della Procura della repubblica di Taranto a cercare di perseguire il F.. Però ci è andato a sbattere la testa e si è giocato la carriera. Infatti Sostituto procuratore del Tribunale era, Sostituto procuratore del Tribunale attualmente è e Sostituto Procuratore del Tribunale di Taranto per sempre rimarrà contrariamente al dott. Nicolangelo Ghizzardi, autore del libro che commentiamo, il quale in carriera è letteralmente volato. Prima Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Taranto e ora Procuratore Aggiunto presso il Tribuna le di Brindisi. Segno tangibile che lo Stato, inteso come selettore di meriti, in Italia da molto tempo non esiste più. Il problema è che A. F. era nei Servizi nella stessa corrente politica del sen. Nicola Mancino, il quale, dalle ultime indagini delle Procure di Caltanisetta e di Palermo, emerge chiaramente come uno de mandanti occulti delle terribili stragi del 1992 in Sicilia in cui persero la vita i Magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e le loro scorte e della tentata strage di via Fauro a Roma (14 maggio 1993) a seguito della quale furono affrancati dal regime del 41 bis tutti i detenuti camorristi di Poggioreale e Secondigliano, grandi elettori di Nicola Mancino. Per questo motivo le indagini su A. F. condotte dalla procura della Repubblica di Taranto non hanno mai approdato a nulla e quella della Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce sono iniziate con molto ritardo sicchè i processi, anche quelli di inaudita gravità come la tentata strage di via Elio, si sono conclusi tutti con la prescrizione. Sempre per iniziativa della Procura Distrettuale Antimafia di Lecce (e non di quella di Taranto) A. F. è stato per un certo tempo recluso presso il carcere di Lecce per la tentata strage di via Elio. Ma pare che qualche magistrato della Procura della Repubblica di Taranto gli mandasse in carcere i pizzini: ......."Non parlare"……………"stai zitto" …………"vedrai che tutto finirà bene"…………..

Ma la Magistropoli Tarantina non finisce qui.

L'ex presidente di sezione del Tribunale civile di Taranto Pietro Vella e l'avvocato tarantino Fabrizio Scarcella sono stati condannati rispettivamente a tre anni e a due anni e due mesi di reclusione dal gup del Tribunale di Potenza Luigi Spina perchè riconosciuti colpevoli di concussione per induzione,scrive “Il Quotidiano di Puglia”. La sentenza è stata emessa con rito abbreviato. Pene accessorie per entrambi gli imputati: a Vella interdizione per cinque anni dai pubblici uffici e interruzione dei rapporti con la pubblica amministrazione; a Scarcella la sospensione dalla professione per la durata della pena. Il magistrato e il legale vennero arrestati dai carabinieri il 14 marzo dello scorso anno mentre Scarcella consegnava a Vella la somma di 2.000 euro, che costituiva parte della prima tranche di una tangente che un benzinaio sarebbe stato costretto a pagare per ottenere una sentenza favorevole. Altri 2.000 euro vennero trovati nell'abitazione di Scarcella; il benzinaio finse di sottostare alla richiesta informando invece i carabinieri e facendo così scattare l'inchiesta della Procura della Repubblica di Potenza, competente ad indagare sui magistrati di Taranto. Secondo quanto accertato dai carabinieri, l'avvocato fece avvicinare da un suo collaboratore il titolare di una stazione di servizio che aveva un contenzioso con una compagnia petrolifera. Al benzinaio venne paventata l'ipotesi di una visita ispettiva dell'Agenzia delle Entrate, seguita dal consiglio di rivolgersi allo stesso avvocato per risolvere la vicenda. Il benzinaio accettò l'invito, ma a quel punto gli arrivò la proposta del legale di pagare una tangente di 8.000 euro, denaro che l'avvocato avrebbe dovuto spartire con il giudice al quale era affidata la causa, per pilotarne la decisione. Il titolare della stazione di servizio finse di sottostare alle pretese, riferendo tutto ai carabinieri. Così scattò la trappola, con il benzinaio che si presentò all'appuntamento per la consegna della prima tranche della tangente dopo che le banconote erano state fotocopiate e munito di una microcamera con la quale filmò tutto. Gli arresti scattarono qualche ora dopo, quando giudice e avvocato si incontrarono per dividersi i soldi.

TARANTO. TUTTI DENTRO.

Tutta la stampa ne parla. La Provincia nella Bufera, arrestato il presidente. Ilva, "ambiente svenduto": 4 arresti. Provincia decapitata, in manette anche Florido. Le ordinanze di custodia cautelare spiccate dal gip Patrizia Todisco: in manette anche il presidente e l'ex assessore all'Ambiente, Conserva. Al centro del nuovo terremoto giudiziario le manovre per ottenere l'autorizzazione della discarica realizzata all’interno dello stabilimento, scrive Mario Diliberto e Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Nuova pioggia di manette a Taranto nell'ambito dell'inchiesta "ambiente svenduto". Tra gli arrestati anche il presidente della Provincia Gianni Florido, 61 anni, alla guida dell'amministrazione dal 2004 (eletto per il secondo mandato nel 2009 col Pd) ed in passato segretario generale della Cisl ionica. L'operazione è scattata alle prime luci del mattino del 15 maggio 2013. I militari della Guardia di Finanza hanno eseguito quattro ordinanze di custodia cautelare spiccate dal gip Patrizia Todisco. Gli arrestati sono, oltre a Florido per il quale l'accusa sarebbe di concussione; l'ex assessore all'Ambiente Michele Conserva (Pd) e l'ex segretario della Provincia di Taranto, Vincenzo Specchia, per il quale sono stati disposti i domiciliari. Tra i destinatari dei provvedimenti di custodia cautelare anche Girolamo Archinà, ex responsabile delle relazioni istituzionali del colosso siderurgico che avrebbe lavorato per agevolare l'attività della grande fabbrica accusata di disastro ambientale. Ad Archinà l'ordinanza è stata notificata in carcere, l'ex dirigente Ilva è detenuto dal 26 novembre. Al centro del nuovo terremoto giudiziario le manovre attivate per ottenere l'autorizzazione della discarica "Mater Gratiae", realizzata in una cava all’interno dello stabilimento Ilva. Nel sito vengono smaltiti i rifiuti industriali e le polveri prodotte dagli impianti ritenuti la fonte dell'inquinamento killer inquadrato con l’indagine per disastro ambientale. Florido e Conserva sono accusati di aver indotto, dal 2006 al 2011, dirigenti del settore ecologia e ambiente della Provincia di Taranto a rilasciare autorizzazioni per la discarica gestita dall'Ilva "in carenza dei requisiti tecnico-giuridici". Quella procedura autorizzativa sarebbe stata viziata da una serie di passaggi sospetti e di pressioni indebite tutte fotografate dall'attività condotte dalle Fiamme Gialle del comando provinciale. Nel mirino l'attività svolta dagli uffici della Provincia, compente al rilascio delle autorizzazioni ambientali. In quegli uffici la pratica relativa alla discarica sarebbe stata accompagnata da pressioni illecite che hanno portato alla emissione dei provvedimenti restrittivi. Anche in questo caso regista delle operazioni condotte sottotraccia dall'Ilva sarebbe stato Girolamo Archinà, l'ex potentissimo responsabile dei rapporti istituzionali dell'azienda, in carcere dallo scorso 26 novembre. Per questo all'ex dirigente è stato notificato in cella un nuovo provvedimento restrittivo. Ma a far rumore è soprattutto il coinvolgimento di Florido. Tarantino, sposato e con due figlie, con alle spalle una lunga militanza nella Cisl, di cui è stato anche segretario provinciale, è stato eletto per la prima volta nel 2004 e nel 2009 è stato confermato con oltre centomila preferenze. Nel 2007, all'indomani del dissesto finanziario del Comune di Taranto, si era anche candidato sindaco di Taranto con una coalizione di centrosinistra ma al ballottaggio era stato sconfitto dall'attuale sindaco Ezio Stefano. Negli ultimi mesi si era anche parlato di una possibile candidatura di Florido al Parlamento, tant'è che si ipotizzavano sue dimissioni anticipate dalla carica di presidente della Provincia anche in relazione al ventilato scioglimento delle stesse Province, cosa che poi non si è più verificata. E comunque la maggioranza di centrosinistra votò in aula, in Consiglio, un documento chiedendogli di restare alla guida dell'ente. Da vedere adesso che accade in Provincia perché all'indomani delle dimissioni del vice presidente Costanzo Carrieri, del Pd, eletto presidente del consorzio Asi, non sarebbe stata formalizzata la nomina di un nuovo vice presidente, mentre la delega all'Ambiente lasciata da Conserva è stata subito trasferita a Giampiero Mancarelli, del Pd, che è anche titolare del Bilancio. In questo capitolo dell'inchiesta condotta dal pool della Procura della Repubblica di Taranto, guidata da Franco Sebastio, non ci sarebbero altri indagati.

Pressioni e minacce di licenziamento ai dirigenti che non si dimostravano propensi a favorire l’Ilva, scrive Francesco Casula su “Il Fatto Quotidiano”. È il nuovo terremoto giudiziario che si è abbattuto su Taranto e ha travolto la politica locale. All’alba del 15 maggio 2013, infatti, la Guardia di finanza ha eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti del presidente della provincia Gianni Florido, dell’ex assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva e dell’ex responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva Girolamo Archinà, già detenuto dal 26 novembre scorso. Arresti domiciliari invece per l’ex direttore generale della provincia di Taranto e attualmente in servizio nella provincia di Lecce, Vincenzo Specchia. Le ipotesi di reato contestate dalla procura ionica nell’ambito dell’inchiesta “Ambiente svenduto” vanno dalla concussione per induzione alla tentata concussione per costrizione. I quattro, secondo le accuse, avrebbero esercitato direttamente o indirettamente, pressioni sui dirigenti dell’amministrazione provinciale perché si adeguassero ad “assumere un atteggiamento di generale favore nei confronti dell’Ilva”. Nell’ordinanza firmata dal gip Patrizia Todisco, gli investigatori documentano le pressioni nei confronti dell’ex dirigente del settore ecologia Luigi Romandini “colpevole” di aver negato le autorizzazioni in materia ambientale allo stabilimento e finito così al centro di “pressioni reiterate nel tempo accompagnate da minacce di licenziamento, dall’invito a presentare le dimissioni, da minacce di trasferimento ad altro incarico” e infine anche di “pretestuose riorganizzazioni dell’ufficio” che in realtà avevano come unico scopo quello di “influire sui poteri del dirigente”. L’obiettivo era di costringere Romandini a firmare “a vista” tutte le richieste formulate dall’azienda anche facendo a meno di “un esame approfondito delle pratiche”. In particolare il presidente Florido e l’ex assessore Conserva avrebbero caldeggiato la concessione dell’autorizzazione richiesta dall’Ilva per l’uso della discarica di rifiuti speciali nella “Cava Mater Gratiae”. Un via libera che avrebbe permesso all’azienda di smaltire i rifiuti prodotti nel ciclo di lavorazione ottenendo così un significativo vantaggio economico. Una discarica nella quale, come già mostrato da ilfattoquotidiano.it, l’azienda stoccava anche sacche contenenti amianto accanto a scorie di lavorazione ancora fumanti. Pressioni vane, però, perché Romandini non solo decise di non firmare quelle autorizzazioni, ma dopo il suo trasferimento in un altro ufficio dell’amministrazione denunciò tutto alle fiamme gialle guidate dal maggiore Giuseppe Dinoi. Una rimozione che Girolamo Archinà commentò pochi giorni dopo dicendo “abbiamo tolto una peste… e ne abbiamo tre di pesti” perché anche il successore di Romandini, il dirigente Ignazio Morrone, si mostrò altrettanto riottoso nei confronti della grande industria. Secondo quanto emerso dalle indagini, Gianni Florido (presidente della provincia al suo secondo mandato e presidente del Partito democratico di Taranto) si interessa personalmente alle vicende che riguardano l’Ilva. Parla al telefono direttamente anche con Fabio Riva, interviene su assessori e sull’operato dei dirigenti. “Circostanze – scrive il gip Todisco – che confermano il sollecito, premuroso, fattivo e perdurante interessamento del Florido in soccorso delle esigenze di natura economica della proprietà dell’Ilva”.

Ma non c’è solo la Provincia ad essere coinvolta. Il comune nella Bufera; indagato il Sindaco. Niente più dimissioni, scrive Domenico Palmiotti su “Il Sole 24ore”. Ezio Stefáno, sindaco di Taranto al suo secondo mandato e a capo di una maggioranza di centrosinistra, rimane al suo posto. «Non sarebbe responsabile dimettersi e lasciare ora, in un momento molto particolare per la città», ha dichiarato il 29 aprile 2013. Tutto si é consumato a cavallo dell'ultimo week end, annuncio delle dimissioni e loro rientro. Il sindaco, politicamente vicino al governatore della Puglia, Nichi Vendola, aveva infatti annunciato la sua intenzione di dimettersi venerdì scorso dopo aver appreso di essere stato iscritto dalla Procura di Taranto nel registro degli indagati per l'inchiesta sull'inquinamento dell'Ilva. Abuso di ufficio e omissioni di atti d'ufficio: ecco le due ipotesi di reato contestate al sindaco - ex senatore Pci-Ds, ex primario dell'ospedale di Taranto - sulla base di un esposto presentato ai pm dal consigliere comunale Pdl, Aldo Condemi, alle comunali di maggio 2012 sfidante del sindaco. Per Condemi, il sindaco non avrebbe fatto il suo dovere in materia di controlli ambientali sull'Ilva. Stefáno, invece, ha ricordato che l'inchiesta che ha portato al sequestro degli impianti del siderurgico, si sviluppa anche dietro un suo esposto alla Magistratura, di aver emesso delle ordinanze contro l'Ilva poi sospese dal Tar su ricorso dell'azienda, e infine di aver portato l'Ilva a pagare milioni di euro di Ici fatta evadere, negli anni scorsi, dalle amministrazioni comunali precedenti. «Sono tranquillo e ribadisco di essere a disposizione della Magistratura per ogni chiarimento in merito alla mia posizione», ha detto Stefáno. Il sindaco ha disertato la seduta del Consiglio comunale di Taranto benché delle sue annunciate dimissioni si sia molto parlato in aula. Lontano dal Municipio, Stefáno ha pensato sul da farsi mentre, in parallelo, partiva su di lui un fitto pressing degli alleati ma anche, pare, del governatore Vendola e del sindaco di Bari, Michele Emiliano. Che alla fine lo hanno convinto a desistere giocando su un elemento "forte": il blocco cui sarebbe andata incontro la città con un anno di commissariamento, il secondo nel giro di pochi anni. E stavolta le dimissioni del sindaco sarebbero coincise con un momento molto particolare per Taranto, che si trova a vivere la complessa gestione dell'Autorizzazione integrata ambientale per il risanamento dell'Ilva e l'avvio delle prime bonifiche nell'area esterna alla fabbrica. Si dovrebbe infatti partire a giugno dalle scuole del quartiere Tamburi con i progetti predisposti proprio dal Comune. A ciò si aggiunga l'utilizzazione di una serie di aree da poco lasciate libere dalla Marina Militare e la chiusura del dissesto finanziario dichiarato anni fa, risolvendo - dopo aver pagato debiti per centinaia di milioni sia pure con la transazione al 50 per cento - quello rimasto con la banca che accordò al Comune un prestito obbligazionario attraverso i Boc per 250 milioni di euro.

Lunedi 29 aprile Stefàno   si dimette? Ma no, aspetta! Scrive “facias de culis” su “Agorà Magazine”. «Una domenica che spinge sull’acceleratore della crisi comunale, dopo che da sei mesi si sa che il Sindaco di Taranto è nel registro degli indagati, difatti, domenica 3 febbraio, avevo scritto: mi dimetto o non mi dimetto e se mi dimetto dove mi metto. Rinvio a quello per la cronaca. Cosa cambierebbe oggi? Nulla, i sei mesi sono trascorsi e la Procura fa sapere che occorrono altri sei mesi. Solo che ora l’esposizione mediatica è stata amplificata da una Ansa che ha girato tutte le redazioni ed ora leggo: lunedì le dimissioni in Consiglio Comunale. Anche se per la verità oggi, così si legge nella cronaca, il nome del Sindaco è riportato nero su bianco nella richiesta di proroga, con l’aggiunta del tema: abuso di ufficio e omissione di atti di ufficio (una denuncia esplicita che ha un mittente Aldo Condemi). Io credo che invece la strada sarà un altra, rimandare per indecisione o eludere il compimento di una determinata azione ricorrendo a pretesti o sotterfugi, che è la spiegazione del tergiversare, abile presupposto del mantenimento della poltrona, che è sinonimo di traccheggiare, ma che nella sua origine latina tergiversari, composto di tergum ossia tergo e versare ossia volgere, quindi voltare le spalle, si riporta a me. Eh si cari amici, bisognerebbe avere la mia faccia per mostrare il tergo cosi! Ma è quello che accadrà lunedì. Qual’è l’oggetto? L’oggetto è la città che si sente tradita. Ridotto in parole semplici: se si svende qualcosa, è perché la congiuntura vuole che si deprezzi il valore della stessa, perché si ha fretta di concludere; nel caso in cui sia l’ambiente a essere disprezzato come la si mette? Parola di facias de culis: la si mette come quello che per cambiare aria si butta dalla finestra.»

Taranto. Il sindaco è come il Re Nudo scrive ancora “facias de culis” su “Agorà Magazine”. «Cari amici, la storia delle dimissioni del sindaco erano una burla entrata nel circo mediatico, come ora la storia del “non mi dimetto”. Ma se scorrete i titoli dei giornali online, l’unico correttore di bozze che ha riportata la notizia come sarebbe andata, sono io. Ora mi va di pensare a questa storia del Re nudo tratto da una fiaba trovata, letta e riletta durante la mia scuola elementare. Per chi non la conosce è la storia di un Re noto per la sua arroganza; per l’iraconda gestione dello stato e dei suoi sudditi e per la sua totale sordità ad opinioni contrastanti. Trovate la similitudine? Uno che amministra con assessori a tempo determinato mostra con chiarezza che comanda con cipiglio e determinazione. Del resto a sentire chi lo conosce è proprio così. Come continua la favola? Atri personaggi della narrazione sono un sarto astuto e scaltro e la sincerità inopportuna di un bambino. La fiaba narra del Re che commissionò al sarto un vestito che in eleganza e preziosità non temesse rivali. Il sarto, consigliato da un sogno, finge di confezionare il vestito commissionato e alla prova generale, con un eloquio efficace convince il Re di stare indossando un vestito senza rivali come: eleganza, preziosità della stoffa, taglio e comodità. Tutto ciò lasciando indossare al Re solo l’aria che lo circonda. Nella corte, presente alla prima uscita del Re con il nuovo abito, nessuno ebbe il coraggio di svelare la truffa. Impauriti dalle conseguenze e dalla possibile ira del Re, la corte trasmise al popolo l’ipocrita bugia di un vestito degno di un dio, creando aspettative e curiosità nei sudditi. Alla Reale cavalcata verso il castello d’estate il Re indosso l’abito, contro il parere dei suoi consiglieri, lasciando esterrefatti i sudditi mentre cavalcava in costume adamitico. Anche in questo caso nessuno ebbe il coraggio di proferir parola, temendo la reazione indispettita del Re e tutto continuò come sempre finché un bambino di 5 anni, salito sulle spalle del padre per vedere meglio gridò "Il Re è Nudo!!!" avviando un’ondata di risa e lazzi tra il popolo tale da costringere il Re, ora rosso come un peperone e cosciente della propria stupidità, a battere in ritirata nel castello appena lasciato. Ora mettete al posto del sarto, l’astuto industriale siderurgico, che consiglia al Sindaco di credere che l’aria di Taranto sia pulita, e lo convince tanto che la corte, che vive accanto all’alcalde trasmette al popolo tale convinzione, e nessuno osa contraddirlo, fino a quando il popolo, che ha realizzato il più bel primo maggio tarantino gli grida, proprio con la inopportuna sincerità di un bambino,: “ Il Sindaco è nudo” . La fine è temporalmente slittata a data da destinarsi. Ma noi, da Padova, aspettiamo.»

Ed ancora la storia coinvolge anche la Regione. Vendola ed Ilva, rapporti ambigui. Il gip: “Costanti contatti tra Ilva e Vendola”, continua Casula. “Numerosi e costanti contatti di Girolamo Archinà, direttamente, e di Fabio Riva, indirettamente, con vari esponenti politici tra cui il governatore della Puglia Nichi Vendola“. Parola, anzi penna del gip di Taranto nell’ordinanza di custodia cautelare per i vertici dell’Ilva. Un documento in cui emergono rapporti quanto meno ambigui tra il presidente della Regione ed i vertici del siderurgico. Tutta da leggere una mail del 22 giugno 2010, che Archinà invia a Fabio Riva e con la quale lo informa di un incontro avuto a Bari con il governatore. Incontro che è successivo al documento dell’Arpa Puglia del giugno 2010, in cui si sottolineavano i livelli di inquinamento prodotti dall’azienda. Nella mail, Archinà “comunicava che il presidente Vendola si era fortemente adirato con i vertici dell’Arpa Puglia, cioè il direttore scientifico Blonda e il direttore generale Assennato, sostenendo che loro non devono assolutamente attaccare l’Ilva di Taranto e piuttosto si dovevano occupare di stanare Enel ed Eni che cercavano di aizzare la piazza contro l’Ilva”. Sempre secondo quanto scrive Archinà a Riva, inoltre, “Vendola aveva pubblicamente dichiarato che il "modello Ilva" doveva essere esportato in tutta la regione riferendosi, chiaramente, alla famosa "legge sulla diossina" la cui gestazione era stata evidentemente frutto della concertazione tra la Regione e l’Ilva che aveva sempre osteggiato il cosiddetto "campionamento in continuo", ottenendo, appunto, in tale legge che ciò non fosse imposto”. Altro “elemento di rilievo” scrive ancora il gip, è rappresentato dalla promessa “del presidente Vendola di occuparsi personalmente della questione Arpa al suo ritorno dalla Cina”. Un intendimento che “veniva mantenuto” tanto che Vendola “appena tornato… contattava personalmente l’Archinà rassicurandolo di non aver dimenticato la promessa fatta nella riunione precedente”. ”State tranquilli, non e’ che misono scordato!!… Il presidente non si è defilato” dice Vendola il 6 luglio 2010 al telefono con Archinà. Parole finite nell’ordinanza e che ora sono al vaglio della magistratura tarantina. In quella chiamata, scrive il gip, il leader di Sel “proseguiva nel discorso con Archinà dicendo che "col mio capo di gabinetto… Siamo rimasti molto colpiti… Siccome ho capito qual è la situazione… Volevo dire che… Mettiamo subito in agenda un incontro con l’ingegnere… State tranquilli, non è che mi sono scordato"”. Nel corso della conversazione, poi, Vendola ribadiva questa posizione “allorquando affermava chiaramente di non volere rinunciare a una realtà industriale qual è l’Ilva, invitando Archinà a comunicare a Riva che lui non si era defilato”. “Va bene, va bene – dice il governatore – noi dobbiamo fare… Ognuno fa la sua parte… E dobbiamo però sapere che… A prescindere da tutti il procedimento, le cose, le iniziative… L’Ilva è una realtà produttiva… cui non possiamo rinunciare… E, quindi… fermo restando tutto dobbiamo vederci… dobbiamo ridare garanzie… Volevo dirglielo perché poteva chiamare Riva e dirgli che.. il presidente non si è defilato”. Ci sarebbe ”la regia” del governatore della Puglia, Nichi Vendola, nelle “pressioni” per “far fuori” il direttore generale dell’Arpa Puglia, Giorgio Assennato, autore della relazione sulle emissioni inquinanti prodotte dall’Ilva. Lo scrive il gip di Taranto Patrizia Todisco nell’ordinanza d’arresto per i vertici dell’azienda, in cui sono riportate anche alcune telefonate che proverebbero la tesi del giudice. Il 30 giugno 2010, ad esempio, vengono intercettati Archinà e il segretario provinciale della Cisl di Taranto Daniela Fumarola, nella quale l’ex funzionario dell’Ilva sostiene che “l’avvocato Manna (allora capo di gabinetto del presidente della Regione) e l’assessore Fratoianni fossero stati incaricati dal presidente Vendola di "frantumare Assennato"”. In un’altra telefonata, del 2 luglio del 2010, a parlare sono invece l’ex direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso e uno degli avvocati dell’Ilva. Quest’ultimo, annota la Guardia di finanza, “riferisce che Archinà ha avuto contatti con il capo di gabinetto di Vendola il quale ha riferito che sono contro Assennato e che cercheranno di farlo fuori”. “Il complesso delle intercettazioni relative alle pressioni sul professor Assennato – scrive il gip – è da ritenersi, oltre ogni ragionevole dubbio, assolutamente attendibile, così come è altrettanto evidente… che il tutto si era svolto sotto l’attenta regia del presidente Vendola e del suo capo di gabinetto avvocato Manna”.

C'è «la regia» di Nichi Vendola dietro le pressioni dell’Ilva sull'Arpa, si scrive anche su “La Gazzetta del Mezzogiorno” e c'è una Regione che «invece di imporre misure urgenti» all’azienda, per ridurre l'inquinamento, mette in atto una serie di escamotages «per non risultare inoperosa» di fronte all’opinione pubblica: è un’accusa pesantissima quella che il Gip di Taranto Patrizia Todisco rivolge al governatore pugliese, che non è indagato, e alla sua squadra di governo, chiamando in causa anche funzionari e assessori di quella Regione che ha fatto proprio della battaglia ambientale una bandiera. Nelle oltre 500 pagine dell’ordinanza con cui spedisce nuovamente agli arresti la famiglia Riva e i vertici dell’azienda, il giudice dedica infatti ampi passaggi a Vendola e a quel che accade nelle stanze della Regione. Riportando telefonate e mail e parlando di «numerosi e costanti contatti» tra l’ex grande capo delle relazioni istituzionali dell’Ilva Girolamo Archinà e rappresentanti della Regione, Vendola compreso. L’obiettivo dell’azienda è sempre lo stesso: cacciare il direttore generale dell’Arpa Giorgio Assennato, colpevole di aver prodotto una relazione nel giugno 2010 in cui si affermava la necessità di ridurre la produzione dello stabilimento di Taranto per ridurre le emissioni inquinanti. Il governatore però smentisce qualsiasi tipo di pressione. «Assennato può raccontare se ha mai subito o pressioni o tirate d’orecchie da parte mia. Le mie pressioni sono andate sempre nella direzione di essere inflessibili in termini di ambientalizzazione». E anzi, aggiunge Vendola, tutte le azioni fatte sono state «molto caute, per evitare quello che purtroppo stiamo per vedere nelle prossime ore». Nell’ordinanza il Gip scrive però che «è evidente che i ripetuti interventi della presidenza della Regione Puglia, in persona del presidente Vendola e del suo capo di Gabinetto avv. Manna, su sollecitazione dei vertici Ilva, avevano sortito gli effetti auspicati nei confronti del professor Assennato, che era sicuramente molto più accomodante ed accondiscendente verso la predetta azienda, anche nel timore che, alla scadenza, il proprio mandato potesse non essere rinnovato dal presidente Vendola». Il gip cita poi una mail inviata il 22 giugno del 2010 da Archinà a Fabio Riva, nella quale il primo informa il secondo di un incontro avuto a Bari con Vendola. Il governatore, scrive Archinà. «si era fortemente adirato con i vertici dell’Arpa Puglia», sostenendo che «non devono assolutamente attaccare l'Ilva». In quell'incontro, sostiene ancora Archinà, il governatore «aveva pubblicamente dichiarato che il "modello Ilva" doveva essere esportato in tutta la regione riferendosi, chiaramente, alla famosa "legge sulla diossina" la cui gestazione era stata evidentemente frutto della concertazione tra la Regione e l’Ilva che aveva sempre osteggiato il cosiddetto 'campionamento in continuò, ottenendo, appunto, in tale legge che ciò non fosse imposto». Ma c'è di più: dopo quella riunione Vendola parte per la Cina e, quando rientra, chiama Archinà: «state tranquilli - dice all’uomo dell’Ilva – non mi sono scordato, non mi sono defilato». Riferendosi, scrive il Gip, alla vicenda Assennato. «Col mio capo di gabinetto... Siamo rimasti molto colpiti... Siccome ho capito qual è la situazione... – dice Vendola - volevo dire che... Mettiamo subito in agenda un incontro con l'ingegnere... State tranquilli, non è che mi sono scordato.». E poi ancora: «Noi dobbiamo fare... Ognuno fa la sua parte... E dobbiamo però sapere che... A prescindere da tutti il procedimento, le cose, le iniziative... L’Ilva è una realtà produttiva... cui non possiamo rinunciare... E, quindi... fermo restando tutto dobbiamo vederci... dobbiamo ridare garanzie... Volevo dirglielo perchè poteva chiamare Riva e dirgli che.. il presidente non si è defilato». Non si è scordato a tal punto che il Gip parla di «regia» del governatore quando cita due telefonate – una tra il solito Archinà e una sindacalista e l’altra tra l’ex direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso e uno degli avvocati dell’Ilva – dalle quali emerge che, con il benestare di Vendola, bisogna «frantumare Assennato» e «farlo fuori». «Il complesso delle intercettazioni relative alle pressioni sul professor Assennato – scrive il gip – è da ritenersi, oltre ogni ragionevole dubbio, assolutamente attendibile, così come è altrettanto evidente... che il tutto si era svolto sotto l'attenta regia del presidente Vendola e del suo capo di gabinetto avvocato Manna». Dunque, conclude il giudice, «è di tutta evidenza che la Regione Puglia, invece di imporre misure urgenti atte a monitorare in continuo le emissioni dell’Ilva, di concerto con i suoi vertici cercava di ricorrere ad escamotages, quali l’attivazione di 'tavoli tecnicì, al fine di far guadagnare tempo all’industria nella realizzazione delle strutture di monitoraggio in continuo delle emissioni e, dall’altra parte, consentire alla stessa regione Puglia di non apparire inoperosa sul fronte ambientale agli occhi dell’opinione pubblica».

Inoltre si viene a sapere da Massimiliano Scagliarini su “La Gazzetta del Mezzogiorno” che i lucani sono creditori dell’Ilva di Taranto di una somma che supera abbondantemente i tre milioni e mezzo di euro. Dal 2009 a oggi, nonostante un’aspra polemica, la più grande acciaieria d’Europa ha infatti «dimenticato » di versare alla Basilicata gli oneri ambientali collegati al consumo idrico dello stabilimento. Ma è ancora più incredibile che la Regione non abbia finora fatto nulla per recuperare quei soldi. L’Ilva di Taranto utilizza per i propri impianti circa 250 litri al secondo di acqua prelevati dall’invaso del Sinni. La «bolletta » vera e propria, che copre il costo industriale dell’acqua, viene incassata dall’ex Ente irrigazione e risulta regolarmente pagata. Ma l’accordo di programma tra Puglia e Basilicata prevede anche una componente ambientale, che ristora i lucani per il «disagio» e dovrebbe finanziare le opere di manutenzione e salvaguardia del territorio. Soldi che la Basilicata non incassa da anni, né - per quanto è stato possibile verificare - ha mai sollecitato: 707mila euro per il 2009, 594mila euro per il 2010, 703mila euro per il 2011. Dal 2012 la componente ambientale per l’uso industriale è stata incrementata di due volte e mezzo, a 20 centesimi al metro cubo: il totale dovuto dall’Ilva non è ancora stato determinato ufficialmente (dovrà farlo il Comitato di coordinamento dell’accordo di programma che dovrebbe riunirsi a giugno), ma si parla di circa 1,767 milioni. In totale fanno 3,7 milioni, dei quali 2 possono considerarsi già un credito certo. L’incremento degli oneri ambientali fu richiesto dall’ex assessore pugliese ai Lavori pubblici, Fabiano Amati, come arma per indurre l’Ilva a non usare più l’acqua potabile accettando quella ultra-affinata che dovrebbe essere prodotta dall’impianto del Gennarini. L’Ilva ha impugnato invano al Tar sia la delibera con le nuove tariffe, sia l’Aia che tra le prescrizioni conteneva proprio l’obbligo a utilizzare acqua affinata. Tuttavia il «depuratore» (il termine è improprio) di Gennarini- Bellavista non è ancora stato realizzato, nonostante la Protezione civile abbia da anni messo a disposizione i 14 milioni necessari e Aqp abbia da tempo effettuato l’aggiudicazione provvisoria della gara: per gestire l’impianto, infatti, l’Acquedotto chiede un contributo pari a circa 1 milione l’anno, soldi che la Regione Puglia aveva chiesto all’Ilva ottenendo un rifiuto.

E poi ci sono i sindacati. Non soltanto la politica. "In questi anni nella vicenda Ilva c'è stato un silenzio deflagrante da parte dei sindacati". A denunciarlo è il procuratore generale di Lecce, Giuseppe Vignola, in un convengo giuridico organizzato dall'università del Salento proprio sulla legge salva Ilva. Il resoconto è pubblicato anche su “La Repubblica”. "Il loro silenzio - ha detto - e quello della politica ha permesso ai Riva di non rispettare le regole. La magistratura ha fatto soltanto il proprio dovere applicando l'obbligatorietà dell'azione penale". La magistratura non è soltanto contro la politica. Dall'8 maggio 2013 nella vertenza Ilva entrano come imputati anche i sindacati. "Dov'era chi doveva denunciare? Dove sono stati in tutti questi anni i sindacati?" è la domanda deflagrante che ha posto il procuratore generale di Lecce, Giuseppe Vignola, in un convegno giuridico organizzato in Salento sulla legge "Salva Ilva". "Sull'Ilva - ha detto Vignola - si è registrato negli anni un fragoroso silenzio da parte dei sindacati e una disattenzione dei governi che si sono succeduti a livello locale e nazionale". Un silenzio che ha permesso, è il ragionamento di Vignola, all'azienda di fare il bello e il cattivo in questi anni sfruttando l'assenza di controlli politici ma anche di denunce sindacali. Un tema - quello della complicità sindacale - lanciato da Vignola ma che rischia di diventare preminente dopo anni di silenzi e non detti: da tempo le sigle autonome lamentano la presenza di troppi sindacalizzati tra i capi turno e fece scalpore in uno degli ultimi scioperi, dopo il sequestro della magistratura, che a mandare panini e bibite al picchetto era proprio l'azienda. "I sindacati non hanno fatto quello che era lecito attendersi - ha detto Vignola - Ma lo stesso si può dire anche della politica. Gli unici che hanno rispettato il compito sono proprio i magistrati che hanno l'obbligo dell'azione penale: di fronte al disastro in corso non potevano fare diversamente. Ma oggi non si può chiedere loro la soluzione della vicenda. Quella tocca alla politica". Al convegno ha partecipato anche l'assessore regionale all' Ambiente, Lorenzo Nicastro, a cui è toccato difendere le piccole conquiste di via Capruzzi: "Governare la Puglia non è facile - ha detto - e come nel caso Ilva spesso ci possiamo muoversi solo in spazi legislativi interstiziali". Anche dalle sue parole emerge una responsabilità chiara del Governo, "mai così produttivo nei mesi di agosto come quando ha dovuto fare legiferare in favore dell'Ilva", e addirittura si adombra una volontà persecutoria - manifestata durante alcune riunioni a Palazzo Chigi - "nei confronti dei magistrati di Taranto" che hanno scoperchiato il vaso. I magistrati, dal canto loro, continuano a fare quadrato. Il presidente della Corte d' appello di Lecce Mario Buffa lancia l'allarme sulla possibilità che "grazie ad una legge di dubbia costituzionalità tutto resti come prima".

Non ci stanno, i sindacati. Le parole del procuratore generale Vignola lasciano il segno ed aprono uno scontro senza precedenti tra la magistratura, nella persona del pg di Lecce che ha preso parte ad un convegno sul caso Ilva, ed i rappresentanti dei lavoratori, nella fattispecie i metalmeccanici Fim Cisl, Fiom Cgil e Uilm. “Sull’Ilva si è registrato negli anni un fragoroso silenzio da parte dei sindacati e una disattenzione dei governi che si sono succeduti a livello locale e nazionale (...) il sindacato ha mantenuto il silenzio nonostante la gravità di una situazione visibile a tutti”. Parole come pietre, quelle del magistrato. “Un attacco pesante di cui non si sentiva la necessità” è quanto dichiarato su “Taranto Sera” da Antonio Talò, leader della Uilm ionica, il sindacato più rappresentativo nel Siderurgico al centro della bufera giudiziaria ormai da mesi.  “Abbiamo sempre denunciato quello che potevamo e dovevamo, certo i controlli sul benzo(a)pirene non spettavano a noi, che non siamo mai stati nè silenti nè conniventi. Se volessi fare polemica, chiederei a Vignola dove è stato, sino al 2012” è la chiosa del capo tarantino dei metalmeccanici della Uil. “Non devo difendermi da nulla” dichiara invece Donato Stefanelli, segretario provinciale della Fiom, “perchè noi parliamo con i fatti e con la costituzione come parte civile nei processi contro la proprietà”. “A testimoniare il nostro impegno ci sono carte, documenti, denunce, interventi proposte in merito alle questioni dell’ambientalizzazione e della sicurezza” è invece la replica di Mimmo Panarelli della Fim Cisl. “Questa fabbrica è migliorata, e questo è accaduto anche grazie al lavoro dei sindacati. Che sono stati sempre vigili”.

"Peccato che le esternazioni del procuratore generale di Lecce, dott. Giuseppe Vignola, arrivino solo adesso, con notevole ritardo. Peccato perché avrebbero potuto contribuire a rompere un lungo periodo di fragoroso silenzio che certo non appartiene al sindacato, che ha, al contrario, spesso espresso le proprie ragioni senza trovare nessun interlocutore, agendo da solo perché isolato da chi, invece, aveva le competenze, mai messe in pratica, per intervenire con decisione ed efficacia sulla questione Ilva”. Aldo Pugliese, Segretario Generale della UIL di Puglia, si chiede con una nota pubblicata su “Il Quotidiano Italiano”  “dove fossero, dal 1960 ad oggi e dal 1995 in poi, ovvero da quando l’Ilva è divenuta un’azienda privata a tutti gli effetti, lo Stato, i Governi che nel frattempo si sono succeduti e i vari ministri all’ambiente? Dov’era e cosa ha fatto la Regione Puglia? Dov’erano e cosa hanno fatto le istituzioni locali, a cominciare dalla Provincia di Taranto e dal Comune? E ci fermiamo qui in quella che sarebbe una lunghissima elencazione di istituzioni competenti e di coloro i quali avrebbero comunque dovuto attivarsi contro un disastro ambientale di dimensioni impressionanti e a favore della tutela della salute dei cittadini e dei lavoratori ionici e pugliesi e invece hanno agito poco e male”. “Additare il sindacato – chiosa Pugliese – significa conoscere ben poco la storia dell’Ilva e le conseguenze di una scellerata gestione del siderurgico che il sindacato ha invece denunciato sempre con fermezza e puntualità, pagando tuttavia lo scotto di un ingiusto isolamento che ha penalizzato ogni iniziativa mirata a proteggere l’ambiente e i diritti calpestati, senza troppe remore, dei cittadini e dei lavoratori. Piuttosto che dar vita a processi in contumacia, invitiamo quindi il dott. Vignola, sempre e quando lo ritenga opportuno, a promuovere un confronto schietto con le parti in causa, quantomeno per offrire agli "accusati" la possibilità di difesa e di replica”.

Intanto il 14 maggio 2013 la battaglia giudiziaria sulle merci dell'Ilva è finita, scrive Domenico Palmiotti su “Il Sole 24ore”. Con un provvedimento firmato oggi dal gip Patrizia Todisco e che domani la Guardia di Finanza notificherà all'azienda e ai custodi giudiziari, un milione e 700mila tonnellate di semilavorati e prodotti finiti tornano nella disponibilità dell'Ilva alla quale erano stati sottratti lo scorso 26 novembre, quando la seconda pesante ondata dell'inchiesta "Ambiente svenduto" provocò arresti e, appunto, il sequestro delle merci. L'accusa dei giudici fu: l'Ilva ha prodotto le merci con acciaio che non avrebbe potuto produrre perché aveva gli impianti dell'area a caldo - dagli altiforni alle acciaierie - sotto sequestro senza facoltà d'uso. I sigilli scattarono il 26 luglio. Nell'area produttiva, infatti, i sigilli erano scattati il 26 luglio con la prima fase dell'inchiesta giudiziaria. Dopo pochi giorni dal sequestro di semilavorati e prodotti finiti, il Governo corse però ai ripari e varò un decreto legge che inizialmente autorizzava solo l'Ilva a continuare la produzione e in seguito previde anche la possibilità che l'azienda potesse commercializzare quanto realizzato prima del decreto stesso. Il decreto, numero 171 del 4 dicembre 2012, è stato poi convertito nella legge 231 del 24 dicembre 2012, legge approvata a grande maggioranza dal Parlamento e che ha appunto confermato la doppia impostazione: via libera alla produzione e alla commercializzazione. Le istanze dell'azienda respinte dai giudici, Approvata la legge, l'Ilva ha subito cercato di riottenere la disponibilità delle merci ma qui è cominciato uno scontro durato cinque mesi e che ha visto tutte le istanze dell'azienda respinte dai giudici. Dai pm al gip, dal Tribunale del Riesame a quello dell'Appello, ogni qualvolta l'Ilva ha chiesto di "liberare" semilavorati e prodotti ha collezionato solo no. Anzi, ad un certo punto si era anche profilata la possibilità che le merci venissero sì sbloccate, ma vendute dai custodi giudiziari su mandato della Procura e il loro ricavato sottratto all'Ilva e destinato invece in un fondo vincolato a valere sull'eventuale confisca. Il gip Todisco aveva già dato mandato ai custodi di lavorare in tal senso ma un ricorso dell'Ilva, stavolta accolto dal Tribunale dell'Appello, ha stoppato l'operazione. Il senso dell'opposizione dell'Ilva era: non possono i custodi vendere le merci quando la Corte Costituzionale sta per pronunciarsi sulla legge e sulle eccezioni di incostituzionalità sollevate proprio dai giudici di Taranto. Dall'Ilva nuova richiesta di dissequestro. Si arriva così al 9 aprile, quando la Corte Costituzionale respinge, perché in parte infondate e in parte inammissibili, le eccezioni contro la legge 231 avanzate dai giudici e dice che la 231 è costituzionale. L'Ilva torna quindi alla carica e richiede il dissequestro delle merci: nulla da fare, però, anche in quest'occasione. E per più volte. Nessun dissequestro sin quando le motivazioni della Consulta sulla costituzionalità della legge non saranno state rese note, dicono i magistrati. Le motivazioni arrivano il 9 maggio. Il resto è cronaca delle ultime ore, con la nuova istanza dell'Ilva avanzata ieri in Procura e il verdetto favorevole del gip di oggi. Il valore delle merci dissequestrate è compreso fra gli 800 milioni di euro e un miliardo di lire. Soldi che vanno nelle casse dell'Ilva che dovrebbe impiegarli per finanziare parte dei lavori di risanamento ambientale prescritti dall'Aia. Lavori imponenti, onerosi, il cui fine è quello di abbattere l'inquinamento dell'area a caldo, proprio quella sequestrata a luglio e che resta tutt'ora sequestrata anche se l'Ilva può utilizzare gli impianti. Il costo di questi interventi è stato per ora stimato dall'azienda in 2 miliardi e 250 milioni di euro. Lo sblocco delle merci avrà riflessi anche sull'occupazione. Ma lo sblocco delle merci dovrebbe avere un riflesso anche occupazionale con la piena ripresa del lavoro nell'area a freddo, i cui impianti erano stati quasi tutti fermati dopo il sequestro di novembre e che hanno ripreso a funzionare in parte da qualche mese. Fra gli impianti che riprenderanno a marciare c'è il Treno nastri 1 (230 gli addetti) visto che occorrerà rilavorare le bramme sino ad oggi sotto sequestro.

TARANTO. CASO ILVA. TUTTI DENTRO. FLORIDO E GLI ALTRI.

L’ARRESTO DI GIANNI FLORIDO NON E’ MICA UNA RIPICCA? SE NON LO E’, PERCHE’ ORA?

La magistratura tarantina, in testa  Patrizia Todisco, arresta il presidente della provincia di Taranto, Gianni Florido (PD), ed il suo assessore all’ambiente, Michele Conserva. La stessa magistratura si limita ad indagare il Sindaco di Taranto, Ippazio Stefàno. Nulla per Niki Vendola nonostante, a loro dire, vi siano “Costanti contatti tra Ilva e Vendola”. Silenzio su Stampa e tv locali, così come sui sindacati ed oltremodo sui magistrati che per 50 anni hanno omesso ogni intervento atto ad impedire tutto ciò di cui oggi su Taranto si parla a livello mediatico e giudiziario. Florido e Conserva sono accusati di aver indotto, dal 2006 al 2011, dirigenti del settore ecologia e ambiente della Provincia di Taranto a rilasciare autorizzazioni per la discarica gestita dall'Ilva «in carenza dei requisiti tecnico-giuridici».

Il Dr. Antonio Giangrande, scrittore e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, aborra l’uso spregiudicato delle manette. Tintinnio di manette  che distrugge l’esistenza degli individui e dei loro incolpevoli familiari. E proprio perché la vita di Florido e Conserva ormai è distrutta, così come per tutti gli altri malcapitati, esprime il suo pensiero nel pieno diritto di critica pur nel rispetto della magistratura e senza alcun intento diffamatorio nei confronti dell’ufficio della procura e del giudice per le indagini preliminari. Lo manifesta in un contesto ambientale ed ideologico dove nessuno ha il coraggio di farlo, attraverso l’utilizzo di domande in apparenza retoriche, ma fondamentalmente legittime.

«L’arresto del Presidente della Provincia di Taranto, il dr. Gianni Florido, sembrerebbe avere tutta l’aria di una ripicca. Se non lo è come si spiega lo strano tempismo adottato. Va da se che la fondatezza delle accuse vanno vagliate in dibattimento, ma era necessaria la carcerazione preventiva di un presunto innocente, con il paradosso che in carcere troverà Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Entrambe detenute con tutti i dubbi del caso? E poi perché ora una misura cautelare in carcere solo per Gianni Florido e non per Stefàno o per Vendola per il quale non vi è nemmeno un procedimento aperto? Dall'ordinanza emerge che le fiamme gialle, in un'informativa riportata da “Il Giornale”, ipotizzano un episodio di concussione anche per Nichi Vendola. E perchè le manette non sono scattate anche per Filippo Penati per la presunta mazzetta da 2 milioni di euro dal costruttore Pasini per l'ex area Falk di Sesto San Giovanni (di cui Penati è stato sindaco) e dall'imprenditore Pino di Caterina per l'affare Milano-Serravalle?

Qualcuno mi chiederà di quale tempismo io parli in riferimento all’arresto di Florido effettuato il 15 maggio. Quale tempismo?!?

Il tempismo che il 14 maggio 2013 la battaglia giudiziaria sulle merci dell'Ilva è finita e da qui la cronologia è presto spiegata!

26 luglio 2012. I sigilli scattano nell'area produttiva.

26 novembre. Il sequestro delle merci prodotte.

24 dicembre 2012. Il decreto, numero 171 del 4 dicembre 2012, è stato convertito nella legge 231. Legge approvata a grande maggioranza dal Parlamento e che ha appunto confermato la doppia impostazione: via libera alla produzione e alla commercializzazione.

Approvata la legge, l'Ilva ha subito cercato di riottenere la disponibilità delle merci ma qui è cominciato uno scontro durato cinque mesi e che ha visto tutte le istanze dell'azienda respinte dai giudici. Dai pm al gip, dal Tribunale del Riesame a quello dell'Appello, ogni qualvolta che l'Ilva ha chiesto di "liberare" semilavorati e prodotti ha collezionato solo no. Accanimento giudiziario tanto da indurre il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante a denunciare in procura a Potenza i magistrati tarantini che si stanno occupando del siderurgico. Il presidente del siderurgico ha chiesto ai magistrati potentini di verificare se sono ravvisabili reati nei loro confronti: oggetto del contendere è l'atteggiamento avuto nel corso della diatriba giudiziaria, dal sequestro dell'impianto sino al blocco dell'acciaio prodotto. Procura e giudice hanno fatto sempre muro creando grave danno all'azienda e di conseguenza minato i diritti dei lavoratori.

Si arriva così al 9 aprile 2013, quando la Corte Costituzionale respinge, perché in parte infondate e in parte inammissibili, le eccezioni contro la legge 231 avanzate dai giudici e dice che la 231 è costituzionale. L'Ilva torna quindi alla carica e richiede il dissequestro delle merci: nulla da fare. E per più volte. Nessun dissequestro sin quando le motivazioni della Consulta sulla costituzionalità della legge non saranno state rese note, dicono i magistrati di Taranto. Le motivazioni arrivano il 9 maggio.

14 maggio 2013 il verdetto favorevole del gip. Il valore delle merci dissequestrate è compreso fra gli 800 milioni di euro e un miliardo di lire.

15 maggio 2013 arresto di Gianni Florido.

Perché l’arresto di Florido, ove non sussistesse la condizione necessaria della reiterazione del reato e/o dell’inquinamento delle prove e/o del pericolo di fuga? Perché?!? Perché i magistrati devono avere sempre e comunque l’ultima parola e se ignominia deve essere, ignominia sia per il malcapitato di turno.

I magistrati, tutti, fanno quadrato. A tirarla per le lunghe è inevitabile riportare quanto scritto sui giornali: Il presidente della Corte d' appello di Lecce Mario Buffa lancia l'allarme sulla possibilità che "grazie ad una legge di dubbia costituzionalità tutto resti come prima". Ed ancora  “Sull’Ilva si è registrato negli anni un fragoroso silenzio da parte dei sindacati e una disattenzione dei governi che si sono succeduti a livello locale e nazionale (...) il sindacato ha mantenuto il silenzio nonostante la gravità di una situazione visibile a tutti”. Parole come pietre, le parole del procuratore generale Vignola. In effetti, in base ad un accordo stilato nel 1996 tra Fim, Fiom, Uilm  e l’Ilva stessa, sono stati versati 438 mila euro annue alle segreterie dei 3 sindacati. Il tutto giustificato da una fondazione in cambio di una colonia per i figli dei dipendenti, borse di studio e contributi scolastici, oltre ad attività sportive e ricreative. “Un attacco pesante di cui non si sentiva la necessità” è quanto dichiarato da Antonio Talò, leader della Uilm ionica, il sindacato più rappresentativo nel Siderurgico al centro della bufera giudiziaria ormai da mesi.  “Abbiamo sempre denunciato quello che potevamo e dovevamo, certo i controlli sul benzo(a)pirene non spettavano a noi, che non siamo mai stati nè silenti nè conniventi. Se volessi fare polemica, chiederei a Vignola dove è stato, sino al 2012” è la chiosa del capo tarantino dei metalmeccanici della Uil. La chiosa vale anche per tutti i magistrati di Taranto? 

A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate.

Stante, appunto, la situazione ambientale, non pare che sia necessario ed urgente che le difese si attivino a chiedere la rimessione dei processi anche sul caso Ilva per legittimo sospetto che non vi sia serenità di giudizio, specie con la contrapposizione di piazza tra le rispettive parti, anche politiche? Sempre che gli avvocati in causa abbiano il coraggio di Franco Coppi, che ai magistrati tarantini ha prima presentato l’istanza di rimessione e poi alla Cesarina Trunfio ed alla Fulvia Misserini (giudici togati del caso Scazzi) ha paventato l’ipotesi di una ricusazione:  perché parafrasando Don Abbondio “se uno il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare”.»

Anzi, gli sviluppi successivi sono clamorosi.

Esigenze cautelari attenuate. Il giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, accogliendo l’istanza presentata dagli avvocati Carlo e Claudio Petrone e sulla scorta del parere positivo espresso dalla Procura, ha concesso il 22 maggio 2013 gli arresti domiciliari al presidente della Provincia Gianni Florido, arrestato mercoledì 15 maggio dai finanzieri del Gruppo di Taranto nell’ambito dell’inchiesta denominata «Ambiente svenduto». La Procura aveva espresso parere favorevole alla concessione degli arresti domiciliari all’esponente del Pd, scrivendo che «alla luce di una valutazione complessiva delle dichiarazioni rese dall’indagato Florido in sede di interrogatorio di garanzia e tenuto conto del fatto che il predetto ha presentato le sue irrevocabili dimissioni dalla carica rivestita, è possibile ritenere che le esigenze cautelari nei suoi confronti si siano attenuate». Il gip Todisco nella sua decisione sostiene che «pur persistendo concrete ed attuali esigenze di cautela» riguardo sia alla reiterazione dei reati che all’inquinamento delle prove, «solo parzialmente e momentaneamente scongiurate dalle dimissioni, asseritamente irrevocabili, rassegnate da Florido all’indomani della sua carcerazione dalla carica di presidente della Provincia di Taranto», le stesse esigenze «anche in considerazione dell’avvenuto interrogatorio di tutti i coindagati del Florido, possono essere adeguatamente soddisfatte con la sottoposizione del medesimo indagato alla meno afflittiva misura degli arresti domiciliari, e con l’imposizione del divieto assoluto di comunicare telefonicamente, telematicamente o in qualsiasi altro modo, con persone diverse da quelle che con lui convivono».

Il dott. Franco Sebastio Procuratore capo della Repubblica di Taranto mi ricorda Filonide che piscia sulla toga dei romani. Il potere romano gli ha detto che lui non può sequestrare i beni prodotti dalla fabbrica perchè la fabbrica è strategica in quanto l'occupazione di 20.000 persone è sacra e dunque l'occupazione è espressione di un altro diritto costituzionale? Bene, allora lui sfida di nuovo il potere romano (come fece Filonide) sequestrando tutti i beni della famiglia Riva.

ILVA. SEQUESTRO RECORD. AI MAGISTRATI SEMPRE L’ULTIMA PAROLA CON IL PARADOSSO DI FAVORIRE I RIVA.

Ilva, sequestro record da 8,1 miliardi ai Riva, ma per il procuratore: "La fabbrica non si tocca". Sequestro da oltre otto miliardi di euro su beni riconducibili alla famiglia Riva e in particolare alla società Riva Fire spa. Il provvedimento di sequestro per equivalente è stato disposto dal gip Patrizia Todisco su richiesta del pool guidato dal procuratore capo Franco Sebastio, titolare dell'inchiesta per disastro ambientale in cui è indagato anche il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante. La procura ha ottenuto il sequestro. In pratica i consulenti dei pubblici ministeri hanno quantificato la somma che Ilva avrebbe dovuto investire negli anni per abbattere l'impatto ambientale della fabbrica. Gli investimenti non eseguiti, secondo i magistrati tarantini, si sono tradotti in un guadagno per la proprietà ritenuto però fonte di reato. Di qui i sigilli per un valore di otto miliardi e centomila euro.

«Il sequestro - ha spiegato il procuratore Sebastio a “La Repubblica” - riguarda solo i beni della società Riva Fire. Abbiamo tenuto conto della legge 231 (legge salva Ilva), e dunque il sequestro non colpisce i beni dell'Ilva. E questo provvedimento non intacca la produzione dello stabilimento. La ratio del sequestro è quella di bloccare le somme sottratte agli investimenti per abbattere l'impatto ambientale della fabbrica. La produzione non si tocca - ha sottolineato Sebastio - Si tratta  di un sequestro preventivo per equivalente sulla base della legge 231 del 2001 sulla responsabilità giuridica delle imprese che dal 2011 contempla anche i reati ambientali. Ma in ogni caso - ha voluto specificare il procuratore - non potranno essere sequestrati beni funzionali all'attività e alla produzione della fabbrica.»

Molti hanno esultato a questo escamotage giuridico, ma evidentemente costoro sono a digiuno di prassi giudiziaria. Il sequestro preventivo non è una confisca,che interviene al termine del naturale decorso giudiziario con esito positivo per le toghe, ma una semplice forma di garanzia a futuro adempimento di obbligazione. Ciò significa che il sequestro di quei beni comporterà che fino alla sentenza definitiva quei soldi non li può toccare più nessuno perchè posti proprio a garanzia del risanamento. La lungaggine dei processi in Italia insegna che la sentenza definitiva dopo primo grado, appello, Cassazione arriverà fra non meno di cinque o sei anni. Nel frattempo la famiglia Riva non potrà risanare, proprio perchè spogliato di tutte le sue risorse. Va da se che per logica, a questo punto, non saranno applicabili le sanzioni previste dalla legge n. 231/2012 in caso di inadempienze nel risanamento dopo i tre anni. Quindi non ci potrà essere la nazionalizzazione dell'azienda, perchè è proprio lo Stato ad aver posto Riva nelle condizioni di non potere adempiere. Insomma i Magistrati hanno dato a Riva l'alibi per non adempiere al risanamento.

Il Dr. Antonio Giangrande, scrittore (su Taranto ha scritto un libro) e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, esprime il suo pensiero nel pieno diritto di critica pur nel rispetto della magistratura e senza alcun intento diffamatorio nei confronti dell’ufficio della procura e del giudice per le indagini preliminari. Lo manifesta in un contesto ambientale ed ideologico dove nessuno ha il coraggio di farlo, attraverso l’utilizzo di domande in apparenza retoriche, ma fondamentalmente legittime.

«E’ chiaro a tutti che se prima “alla stampa locale dovevasi tagliare la lingua”, riuscendovici, oggi la stessa stampa continua a tacere anche su questioni fondamentali di diritto. Non è lo stare contro o a favore dei magistrati il punto del contendere, ma se si sta nell’alveo della legge o meno. Giusto affinchè da fuori non si dica: ma a Taranto nessuno conosce la legge?

Dall’arresto del Presidente della Provincia di Taranto, il dr. Gianni Florido, al sequestro dei beni della famigli Riva il tutto sembrerebbe avere l’aria di una ripicca. Se non lo è come si spiega lo strano tempismo adottato. Qualcuno mi chiederà di quale tempismo io parli. Quale tempismo?!?

Il tempismo che il 14 maggio 2013 la battaglia giudiziaria sulle merci dell'Ilva è finita e da qui si è aperto un varco inatteso con atti tardivi rispetto alle esigenze cautelari con conseguenze imprevedibili.

Qualcuno mi dirà: di quale cronologia si parla? La cronologia di cui si parla è presto spiegata!

Per 50 anni si è permesso all’Italsider, poi Ilva, di inquinare a piacimento, poi un bel giorno ci si è scoperti, tutto ad un tratto, ambientalisti radicali.

26 luglio 2012. I sigilli scattano nell'area produttiva.

26 novembre 2012. Il sequestro delle merci prodotte.

24 dicembre 2012. Il decreto, numero 171 del 4 dicembre 2012, è stato convertito nella legge 231. Legge approvata a grande maggioranza dal Parlamento e che ha appunto confermato la doppia impostazione: via libera alla produzione e alla commercializzazione.

Approvata la legge, l'Ilva ha subito cercato di riottenere la disponibilità delle merci ma qui è cominciato uno scontro durato cinque mesi e che ha visto tutte le istanze dell'azienda respinte dai giudici. Dai pm al gip, dal Tribunale del Riesame a quello dell'Appello, ogni qualvolta che l'Ilva ha chiesto di "liberare" semilavorati e prodotti ha collezionato solo no. Accanimento giudiziario tanto da indurre il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante a denunciare in procura a Potenza i magistrati tarantini che si stanno occupando del siderurgico. Il presidente del siderurgico ha chiesto ai magistrati potentini di verificare se sono ravvisabili reati nei loro confronti: oggetto del contendere è l'atteggiamento avuto nel corso della diatriba giudiziaria, dal sequestro dell'impianto sino al blocco dell'acciaio prodotto. Procura e giudice hanno fatto sempre muro creando grave danno all'azienda e di conseguenza minato i diritti dei lavoratori.

Si arriva così al 9 aprile 2013, quando la Corte Costituzionale respinge, perché in parte infondate e in parte inammissibili, le eccezioni contro la legge 231 avanzate dai giudici e dice che la 231 è costituzionale. L'Ilva torna quindi alla carica e richiede il dissequestro delle merci: nulla da fare. E per più volte. Nessun dissequestro sin quando le motivazioni della Consulta sulla costituzionalità della legge non saranno state rese note, dicono i magistrati di Taranto. Le motivazioni arrivano il 9 maggio 2013.

14 maggio 2013 il verdetto favorevole del gip. Il valore delle merci dissequestrate è compreso fra gli 800 milioni di euro e un miliardo di lire.

15 maggio 2013 arresto di Gianni Florido.

24 maggio 2013 sequestro del GIP Patrizia Todisco  di 8,1 miliardi di euro alla società Riva Fire spa.

Arresto e sequestro che potevano essere adottati molto tempo prima. E da qui l’infondatezza della necessità ed urgenza dell’adozione di quei provvedimenti.

Cioè in sostanza le conseguenze sono che i Riva vengono privati di ogni disponibilità finanziaria e quindi non potranno più ottemperare ai dettami della legge n. 231/2012 con due possibili esiti nefasti:

nazionalizzazione dell’azienda e confisca dei beni sequestrati (8,1 miliardi di euro), in parole povere espropriazione proletaria per buona pace dei sinistri;

risanamento dell’ambiente a carico dello Stato, liberando i Riva dall’onere economico e restituzione a questi dei beni sequestrati (in caso di buon esito del procedimento penale o dell’esito del ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo), per buona pace dei destri.

Comunque sia la Corte Europea dei diritti Umani ne ha da lavorare sulle nefandezze italiane. 

Appare chiaro che in un quadro ambientale normale è necessitata l’avocazione delle indagini da parte della Procura generale per due ordini di motivi: per quanto attiene l’ufficio del Pubblico Ministero non è stata esercitata la facoltà di astensione per gravi motivi di convenienza; così come il giudice Patrizia Todisco va sostituito con altro Magistrato dell'Ufficio del GIP in quanto esso, a norma dell’art. 36 c.p.p., ha l'obbligo di astenersi e non si è astenuto a seguito di inimicizia grave instauratasi fra lei e una delle parti private, per la denuncia penale e l’esposto in via disciplinare subito.

Ma i magistrati, tutti, fanno quadrato. A tirarla per le lunghe è inevitabile riportare quanto scritto sui giornali: Il presidente della Corte d' appello di Lecce Mario Buffa lancia l'allarme sulla possibilità che "grazie ad una legge di dubbia costituzionalità tutto resti come prima". Ed ancora  “Sull’Ilva si è registrato negli anni un fragoroso silenzio da parte dei sindacati e una disattenzione dei governi che si sono succeduti a livello locale e nazionale (...) il sindacato ha mantenuto il silenzio nonostante la gravità di una situazione visibile a tutti”. Parole come pietre, le parole del procuratore generale Vignola. In effetti, in base ad un accordo stilato nel 1996 tra Fim, Fiom, Uilm  e l’Ilva stessa, sono stati versati 438 mila euro annue alle segreterie dei 3 sindacati. Il tutto giustificato da una fondazione in cambio di una colonia per i figli dei dipendenti, borse di studio e contributi scolastici, oltre ad attività sportive e ricreative. “Un attacco pesante di cui non si sentiva la necessità” è quanto dichiarato da Antonio Talò, leader della Uilm ionica, il sindacato più rappresentativo nel Siderurgico al centro della bufera giudiziaria ormai da mesi.  “Abbiamo sempre denunciato quello che potevamo e dovevamo, certo i controlli sul benzo(a)pirene non spettavano a noi, che non siamo mai stati nè silenti nè conniventi. Se volessi fare polemica, chiederei a Vignola dove è stato, sino al 2012” è la chiosa del capo tarantino dei metalmeccanici della Uil. La chiosa vale anche per tutti i magistrati di Taranto? 

A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate.

Il caso Scazzi ed il caso Ilva: stessa solfa.

Stante, appunto, la situazione ambientale, non pare che sia necessario ed urgente che le difese si attivino a chiedere la rimessione dei processi anche sul caso Ilva per legittimo sospetto che non vi sia serenità di giudizio, specie con la contrapposizione di piazza tra le rispettive parti, anche politiche? Sempre che gli avvocati in causa abbiano il coraggio di Franco Coppi, che ai magistrati tarantini ha prima presentato l’istanza di rimessione e poi alla Cesarina Trunfio ed alla Fulvia Misserini (giudici togati del caso Scazzi) ha paventato l’ipotesi di una ricusazione:  perché parafrasando Don Abbondio “se uno il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare”. Qualcuno mi dirà: Tu cosa proponi? C’è un principio generale: chi inquina paga. Quel principio non dice: chi inquina perseguitalo e fai chiudere la fabbrica e manda i lavoratori a casa. In questo modo si dà la stura ad ogni iniziativa avversa di tutela. Impedire la vendita dei prodotti e sequestrare i beni non è la soluzione. Vendere i prodotti e investirne i proventi fino alla totale sanificazione ambientale sarebbe una espropriazione velata, ma inattaccabile dal punto di vista legale, in quanto la gestione dell’attività economica (produzione e risanamento) rientra tra le prerogative dei consulenti giudiziari nell’ambito della gestione aziendale. Ed ove non fosse così, comunque c’è sempre l'art. 388 c.p. rubricato "Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice", che va bene per tutte le stagioni.»

A Taranto, comunque, si è stati sempre un po’ naif.

TARANTO E I SUOI PREDONI NEL DESERTO DELLE CIMINIERE. Così scriveva Giovanni Valentini su “La Repubblica” nel lontano 19 novembre 1991. Anche se ha cambiato nome, la "cattedrale" è sempre lì, in mezzo al "deserto", con la sua selva di ciminiere fumanti. Ma a distanza di trent' anni il "deserto" è diventato, se possibile, ancora più arido e desolato. E quel che è peggio, adesso è infestato da bande di predoni, alcuni travestiti da giustizieri o addirittura nei panni di Robin Hood. Nell' emergenza criminalità che ormai ha contagiato la Puglia, quello di Taranto rappresenta il caso più critico, in un calderone esplosivo dove ribollono ingredienti politici, economici e sociali, con il condimento di una delinquenza disperata. All'inizio degli anni Sessanta, questa doveva essere la città-pilota dei grandi insediamenti pubblici, il polo dell'industrializzazione meridionale, il laboratorio in cui trasformare i "cafoni" da contadini in operai. E invece, all'inizio degli anni Novanta, a dispetto di un paesaggio naturale che conserva la suggestione del grande porto commerciale e militare aperto sul Mediterraneo, Taranto appare come la vetrina dei mali d'Italia: malavita organizzata, crisi economica, disoccupazione, degrado civile e culturale. La "cattedrale" dell'Italsider, ribattezzata due anni fa Ilva dall'antico nome dell'isola d'Elba in omaggio alla tradizione della nostra siderurgia, non solo è rimasta nel "deserto" delle attività e delle iniziative locali, ma anzi ha contribuito paradossalmente ad allargarlo in una storia di occasioni fallite, speranze mancate, illusioni cadute. Dal 1988, per effetto di una crisi mondiale, i dipendenti sono scesi da 15.700 ai 12.000 previsti a dicembre prossimo, con conseguenze ancor più pesanti sull'indotto che ruota sulla fornitura di tubi e laminati piani. Eppure, con una superficie complessiva di 11 milioni di metri quadri ai quali ne vanno aggiunti altri quattro di aree esterne, vale a dire almeno tre volte l'intera città, questo è tuttora il più grande stabilimento siderurgico d'Europa e resta il nodo strategico del settore a livello nazionale, dove si concentra il 70-80 per cento della produzione italiana. Tutt'intorno la città langue. Su circa 250 mila abitanti, si stima che i disoccupati siano oltre un quarto: 70-80 mila nell' intera provincia. Le cifre ufficiali, contenute nell'ultimo rapporto congiunturale della Camera di Commercio, dicono che a fine maggio gli iscritti alle liste di collocamento risultavano 52.088, con una diminuzione del 10,4 per cento rispetto a febbraio e del 5,3 rispetto a un anno fa. Ma, a parte il massiccio ricorso alla cassa integrazione per un monte-ore che equivale al tempo pieno lavorativo di oltre duemila persone per un anno, lo stesso documento segnala che il dato è positivo soltanto a prima vista: in realtà, si legge, "potrebbe anche essere collegabile a un abbassamento del tasso di partecipazione al mercato del lavoro, più che a una vera e propria capacità di assorbimento di manodopera da parte delle imprese". Chi ha perso un'occupazione o non la trova, insomma, non si preoccupa neppure d'iscriversi alle liste di collocamento. Ognuno s'arrangia come può. A portata di mano, c'è per molti la nuova industria della criminalità: traffico di droga, contrabbando, racket, riciclaggio e strozzinaggio, bische clandestine. Centocinquanta morti negli ultimi tre anni, 51 da gennaio a ottobre, sono il bilancio di un "fatturato" che comprende, solo nel primo semestre '91, 181 rapine gravi, 58 estorsioni, 42 attentati dinamitardi o incendiari, 80 incendi dolosi. E' tale la massa di disperati allo sbando che ormai a Taranto, dicono gli esperti, si può commissionare un omicidio anche per meno di mezzo milione. E il racket, non accontentandosi più delle estorsioni a carico dei commercianti per "difendere" i loro negozi, adesso offre "protezione" addirittura ai condominii. E' del primo ottobre scorso la mattanza "stile Chicago" consumata in una barbieria, quattro morti e due feriti. Armati di pistola e mitraglietta, due sicari uccisero in una sparatoria selvaggia il proprietario del locale, Giuseppe Ierone, e tre clienti. Ma poi si scoprì che la strage, maturata in seguito a una frattura nel potente clan cittadino dei fratelli Modeo, era stata inutile: le vittime designate erano già uscite dalla sala da barba. I killers, feroci quanto sprovveduti, furono catturati una settimana dopo. Più recente è l'attentato dinamitardo, intimidazione o avvertimento, compiuto all'inizio di novembre contro la parrocchia del Corpus Domini, nel quartiere dormitorio intitolato a Paolo VI, ventimila abitanti. In piena notte, una bomba ha fatto saltare in aria i locali della Polisportiva, attigui alla chiesa, a due settimane di distanza da un analogo episodio contro la caserma dei carabinieri. Appena qualche giorno prima, durante l'omelia nella messa funebre per un giovane tossicodipendente morto di Aids, il parroco don Luigi Larizza aveva invitato pubblicamente la madre del ragazzo a denunciare gli spacciatori di droga del quartiere, esortando tutti i presenti a fare altrettanto. Per spiegare la frammentazione e l' ingovernabilità della malavita tarantina, i cronisti locali raccontano che da quando fu assassinato il boss "Ciccio" Basile, è scoppiata una guerra di successione spietata e sanguinaria tra i maggiori clan cittadini: la famiglia Modeo da una parte, i De Vitis-D'Oronzo dall'altra. Tra cinque o sei gruppi organizzati, si calcola che gli affiliati effettivi siano in totale più di 350. Ma l' arruolamento è sempre aperto, quasi quotidiano. Con i fratelli Modeo - Gianfranco e Riccardo - in carcere per omicidio, non c'è più un capo riconosciuto; qualunque disperato può diventare un delinquente o un killer; entrare in un clan, tradirlo e uscirne da un giorno all' altro. Il fatto è che, in questi ultimi tempi, tra il degrado economico-sociale e l'aggressione della criminalità organizzata Taranto è sopravvissuta senza un governo, né legale né illegale. Dalle elezioni amministrative del maggio '90, nell'arco di diciotto mesi, l'amministrazione comunale è cambiata tre volte, con tre maggioranze e tre sindaci diversi: prima un quadripartito con Dc, Psi, Psdi e Pri; poi una giunta di "salute pubblica", con dentro anche il PdS, incapace alla prova dei fatti di risolvere i problemi cittadini; e infine, da pochi giorni, un altro quadripartito che ha fatto esplodere la polemica all'interno della stessa Democrazia cristiana per l'avvicendamento del sindaco uscente, Alfengo Carducci, uno stimato uomo di scuola che risultò primo eletto dello Scudo crociato con 3.497 preferenze, sostituito ora da Roberto Della Torre, già capolista con appena 2.642 voti, a cui guarda con maggiore fiducia il "partito degli affari". Nel Consiglio comunale in carica, secondo un rapporto consegnato al Parlamento dall' ex commissario Antimafia, Domenico Sica, su un plenum di cinquanta eletti "sei consiglieri risultano denunciati o imputati per reati contro la pubblica amministrazione o interesse privato in atti d'ufficio, mentre per altri otto consiglieri risultano precedenti penali per reati di vario genere". In questa assortita compagnia, il personaggio emergente, il più popolare e discusso, amato e odiato, si chiama Giancarlo Cito: 46 anni, all'anagrafe geometra e imprenditore, proprietario e amministratore unico di "Antenna Taranto 6", una battagliera e spregiudicata emittente privata attraverso la quale ha ottenuto un clamoroso successo elettorale, conquistando oltre ventimila voti, quasi quindicimila preferenze personali e sette seggi al Comune, dove una volta s'è presentato in aula con indosso il giubbotto antiproiettile. Ex militante di estrema destra, in base alle indagini dell'Alto commissario, "Cito risulta avere numerosi precedenti penali, tra i quali: rissa aggravata, lesioni, violenza privata, ricettazione in concorso con tre pregiudicati". Per di più, "è sospettato di contiguità con ben individuati elementi della criminalità organizzata" e "indicato come molto vicino al clan dei fratelli Modeo", per essere stato sorpreso da una Volante in casa loro quand'erano agli arresti domiciliari, la notte di Natale del 1989. Chiamato in causa da una recente trasmissione televisiva, durante la quale il ministro delle Poste Carlo Vizzini ha confermato il proposito di non concedere l'autorizzazione alle emittenti che risultassero infiltrate dalla mafia, questo Masaniello tarantino aveva già replicato alle accuse citando in giudizio Sica e chiedendogli tre miliardi di danni a titolo di risarcimento, insieme a due parlamentari del PdS e a tre giornalisti del "Corriere del Giorno" di Taranto che avevano diffuso il contenuto del rapporto. Nel merito, Cito sostiene che i precedenti penali a lui addebitati non sono che "alcune ragazzate di quando era missino". Quanto alla presunta "contiguità" con il clan Modeo, quella notte del Natale ' 89 si trovava in casa loro con una troupe televisiva per uno scoop giornalistico, nel tentativo d'intervistare due tarantini "eccellenti" agli arresti domiciliari. "Si tratta", afferma Cito, "di una campagna politica, giornalistica, giudiziaria priva di scrupoli e di inaudita gravità, per screditare me, la mia iniziativa politica autonoma, la mia emittente tv". Telegiustiziere o telebandito che sia, non c'è dubbio che il "patron" di Antenna Taranto 6 è diventato un personaggio scomodo per il potere locale. Tra le vittime illustri delle sue campagne scandalistiche, si contano anche l'ex sindaco socialista Mario Guadagnolo e perfino l'ex procuratore capo della Repubblica di Taranto, Nicola Cacciapaglia, messo alle strette da alcune rivelazioni televisive che ricordano il "caso Thomas", il giudice americano di colore imputato di molestie sessuali. Anche qui il magistrato è finito sotto processo per abuso di poteri: l' accusa, secondo il rinvio a giudizio, è di "aver palpato la spalla e il seno" di una signora contro la sua volontà, "sbottonato i pantaloni, estratto il membro e facendo forza sulla testa" costretto la donna "a portare la bocca all'altezza del membro". Sui muri della città, i graffiti urbani offrono un campionario di umori e giudizi diversi sul leader del leghismo locale, già definito "il Bossi del Sud", capace di mettere in scena davanti alle telecamere una traversata a nuoto di dieci chilometri nel porto per protestare contro l'inquinamento del mare: "Forza Cito sei tutti noi"; "Cito fatti un litro!"; "Cito=Modeo". Nel bene o nel male, anzi più nel male che nel bene, si può dire comunque che anche lui è figlio di questa Taranto, come oggi appare, nato e cresciuto tra i "predoni del deserto". Ingloriosa fine carriera di un alto magistrato, scriveva il 4 febbraio 1993 “Il Corriere della Sera”. Il Tribunale di Potenza ha condannato a venti mesi di reclusione (pena sospesa) e al pagamento di una provvisionale di cinque milioni di lire Nicola Cacciapaglia, 69 anni, procuratore della Repubblica di Taranto dall'87 al '90. I giudici lo hanno riconosciuto colpevole del reato di atti di libidine nei confronti di Anna De Pasquale, cinquantacinque anni, casalinga, di Taranto. I fatti risalgono al 1989, quando la donna chiese al magistrato di aiutarla a recuperare una figlia tossicodipendente che rischiava la prigione. Nell'ufficio del Procuratore, Anna De Pasquale visse momenti allucinanti: il magistrato non si fermò alle avance, ma le mise le mani addosso e per poco non la violentò.

TARANTO E GIUSTIZIA. LA RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO (SUSPICIONE): UNA NORMA MAI APPLICATA.

Il Popolo della libertà scende in piazza sabato 11 maggio 2013 a Brescia "in difesa di Silvio Berlusconi". Alle numerose esternazioni di esponenti del suo partito su un "uso politico della giustizia" segue quella dello stesso Berlusconi: "La sentenza di ieri è davvero una provocazione preparata dalla parte politicizzata della magistratura che da vent'anni cerca di eliminarmi come principale avversario della sinistra e il rinvio a giudizio di Napoli fa parte di questo uso politico della giustizia". Da una parte vi è Silvio Berlusconi che si presenta come vittima sacrificale della magistocrazia e dall’altra il solito Marco Pannella con i suoi scioperi della fame e della sete per denunciare la detenzione dei carcerati nei canili per umani. Puntano l’indice su aspetti marginali del problema giustizia. Eppure loro sono anche quei politici che da decenni presentano le loro facce in tv. Tutto fa pensare che non gliene fotte niente a nessuno se i magistrati sono quelli che sono, pur se questi, presentandosi e differenziandosi come coloro che vengono da Marte, sono santificati dalla sinistra come unti dall’infallibilità. Tutto fa pensare che se si continua a dire che Berlusconi è una vittima della giustizia (e solo lui)  e che le celle sono troppo piccole per i detenuti, non si farà l’interesse di coloro che in carcere ci sono, sì, ma sono innocenti. Bene, Tutto questo fa pensare che dopo i proclami tutto rimarrà com’è. E tutto questo nell’imperante omertà dei media che si nascondo dietro il dito dell’ipocrisia. Volete un esempio di come un certo modo di fare comunicazione ed informazione inclini l’opinione pubblica a parlare di economia e solo di economia, come se altri problemi più importanti non attanagliassero gli italiani?

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: «Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!»

«La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera». Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Qui non si vuole criminalizzare una intera categoria. Basta, però, indicare a qualcuno che si ostina a difendere l’indifendibile che qualcosa bisogna fare. Anzi, prima di tutto, bisogna dire, specialmente sulla Rimessione dei processi.

Questa norma a vantaggio del cittadino è da sempre assolutamente disapplicata e non solo per Silvio Berlusconi. Prendiamo per esempio la norma sulla rimessione del processo prevista dall’art. 45 del codice di procedura penale. L'articolo 45 c.p.p. prevede che "in ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di Cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la Corte di appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell'imputato, rimette il processo ad altro giudice, designato a norma dell'articolo 11".

Tale istituto si pone a garanzia del corretto svolgimento del processo, dell'imparzialità del giudice e della libera attività difensiva delle parti. Si differenzia dalla ricusazione disciplinata dall'art. 37 c.p.p. in quanto derogando al principio costituzionale del giudice naturale (quello del locus commissi delicti) e quindi assumendo il connotato dell'eccezionalità, necessita per poter essere eccepito o rilevato di gravi situazioni esterne al processo nelle sole ipotesi in cui queste non siano altrimenti eliminabili. Inoltre mentre per la domanda di ricusazione è competente il giudice superiore, per decidere sull'ammissibilità della rimessione lo è solo la Corte di Cassazione.

«L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) - spiega Edmondo Bruti Liberati, già Presidente dell’Associazione nazionale magistrati. - E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del tutto eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate restrittivamente. Nella rinnovata attenzione sull’istituto della rimessione, determinata dalla discussione della proposte di modifica (2002, legge Cirami), numerosi commenti – comparsi sulla stampa – rischiano di aver indotto nell’opinione pubblica l’impressione che l’istituto del trasferimento dei processi trovi applicazione ampia e che dunque la magistratura italiana ricorrentemente non sia in grado di operare con serenità di giudizio. Vi fu una sola difficile stagione dei primi decenni della nostra Repubblica, in cui numerosi processi per fatti di mafia furono trasferiti dalle sedi giudiziarie siciliane in altre regioni: era il segno umiliante della fragilità delle istituzioni, di uno Stato incapace di assicurare serenità allo svolgimento del processo e di garantire protezione ai giudici popolari di fronte alle minacce. Era una stagione in cui i processi, pur trasferiti ad altra sede, si concludevano pressoché ineluttabilmente con le assoluzioni per insufficienza di prove. Superata questa fase, e pur sotto la vigenza della norma del Codice di procedura penale del 1930 – che prevedeva la formula del «legittimo sospetto» –, in un periodo di diversi decenni i casi di rimessione sono stati pochissimi: intendo dire poche unità. I casi più noti di accoglimento, di norma ad iniziativa degli uffici del Pm, determinarono polemiche e reazioni. (Ad esempio, i fatti di Genova del luglio 1960, la strage del Vajont, la strage di Piazza Fontana, l’appello sul ‘caso Zanzara’, il caso delle schedature alla Fiat). Avanzava tra i giuristi la tesi che fosse necessaria una più puntuale e rigorosa indicazione dei motivi suscettibili di determinare il trasferimento. Il Parlamento, dopo le polemiche per il trasferimento del processo per la strage di Piazza Fontana da Milano a Catanzaro, interveniva per dettare dei criteri stringenti per la designazione del nuovo giudice (legge 773/1972 e successivamente legge 879/1980, che introdusse il criterio automatico tuttora vigente). La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi in materia e dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di casi, in cui si fa riferimento alle più disparate situazioni di fatto per concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che si può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda il periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale: le istanze di rimessione accolte sono state due.»

«Per quanto concerne la remissione per motivi di legittimo sospetto occorre che i capi delle procure generali si attengano a una concezione rigorosamente ristretta dell'istituto». La circolare ministeriale che abbiamo citato non esce dagli archivi del governo Prodi e neppure dal cassetto del terribile ex procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli. Si tratta invece di una direttiva piuttosto chiara che il ministro fascista Dino Grandi inviava a tutti i tribunali italiani nel 1939, consigliando loro di usare la legittima suspicione con cautela. Eppure se si dà uno sguardo alla storia giudiziaria italiana, se si ritorna su quei casi in cui la legittima suspicione è stata accolta vengono i brividi e si capisce perché la legittima suspicione si trasformi nel legittimo sospetto contro giudici, pubblici ministeri, tribunali. Il caso più drammatico, più doloroso, in cui l'accettazione della legittima suspicione fece danni incalcolabili fu il processo per la strage di piazza Fontana. Non è il caso di soffermarsi più di tanto su quel buco nero della nostra storia. E' tristemente noto: la legittima suspicione riuscì a strappare il processo ai giudici di Milano in un clima golpista e lo trasferì a Catanzaro. Per trent'anni la verità sulla strage rimase sotterrata dalla collusione tra servizi, governi e apparati militari. Il processo di piazza Fontana è il caso più clamoroso ma non certo il primo. Basta scartabellare negli archivi giudiziari per trovare le vittime della legittima suspicione. A due anni dalla fine della guerra si giunge al drammatico processo per la strage di Portella delle Ginestre. Il processo viene spostato da Palermo a Viterbo: la banda di Salvatore Giuliano viene condannata ma i mandanti assolti. Nel 1963 ci imbattiamo nel disastro del Vajont: il processo da Venezia viene trasferito a L'Aquila dove la strage viene definita «evento imprevedibile» e dove governo e Enel vengono assolti. Nello stesso anno il processo per la strage di Ciaculli viene trasferito da Palermo a Catanzaro. Buscetta viene condannato ma altri mafiosi del peso di Pippò Calò se la cavano. Se si leggono gli atti dei processi per mafia si scopre che la richiesta di legittima suspicione viene utilizzata a man bassa, come una chiave magica usata per ottenere in sedi più consone assoluzioni totali o per insufficienza di prove. Il caso più clamoroso è quello di Luciano Liggio, precursore e maestro di Totò Riina. Dopo l'esordio del 1948 con l'uccisione del segretario della Camera del Lavoro di Corleone, Placido Rizzotto, Liggio nel `58 ammazza il boss concorrente Michele Navarra. Liggio viene processato ma prevale la legittima suspicione: nel processo di Bari il fondatore della corrente dei corleonesi viene assolto dal tribunale di Bari per insufficienza di prove. Un altro caso clamoroso fu quello delle schedature Fiat. Negli anni `60 fu proprio Milano il luogo in cui si celebrò il processo alla Zanzara. Quelli sopra i cinquant'anni si ricorderanno che la Zanzara era un giornalino fatto dagli studenti del Liceo Parini usato per contestare ante litteram le regole del conformismo e dell'educazione borghese. In base a denunce e lamentele della parte più reazionaria dei genitori e dell'opinione pubblica ne nacque un processo che fece grande scandalo. Per evitare che nello scandalo finisse il buon nome di qualche famiglia milanese fu invocato addirittura l'ordine pubblico e per legittima suspicione il processo finì a Genova. Nel 1989, comunque, il legislatore decide che le maglie della legittima suspicione sono troppo larghe e discrezionali e soprattutto che vengono usate come strumento per impedire la celebrazione dei processi. A spingere al cambiamento sono proprio i numerosi processi per mafia finiti con l'assoluzione per insufficienza di prove. Viene introdotta una nuova norma, quella attuale. L'introduzione di questa norma restrittiva taglia le unghie a coloro che usavano la legge come un grimaldello, ma limita anche i diritti di coloro che hanno sospetti fondati . Per tutti gli anni `90 i ricchi avvocati dei ricchissimi imputati per tangenti tentano di utilizzare la legittima suspicione per farla franca. Il caso che tutti ricordano è quello di Bettino Craxi che durante la bufera di tangentopoli chiede attraverso i suoi legali ai giudici della Cassazione di spostare da Milano i numerosi processi a suo carico. La richiesta viene presentata in tutte le sedi processuali ma viene respinta proprio perché la suprema Corte si trova a dover fare i conti con una norma restrittiva che lascia poco scampo a chi vuole fare il gioco delle tre carte.

Il 6 maggio 2013 è stata respinta l'istanza di Berlusconi di trasferimento a Brescia dei suoi processi a Milano. La richiesta di trasferimento è basata sul legittimo sospetto che ci sia un accanimento giudiziario, “un’ostilità” da parte della sede giudiziaria del capoluogo lombardo (che giudica sul caso della giovane marocchina) e da parte della Corte d’Appello, che si occupa del processo Mediaset, nei confronti del Cavaliere. In quaranta pagine, stilate dai legali e giunte in Cassazione a metà marzo, vengono rappresentate una serie di decisioni, atteggiamenti e frasi pronunciate in aula dai giudici che sarebbero la dimostrazione dell’accanimento nei confronti del leader del Pdl; tra queste le ordinanze con cui sono stati negati i legittimi impedimenti, le visite fiscali a carico di Berlusconi ricoverato al San Raffaele per uveite, la sentenza del caso Unipol dove gli non sono state concesse le attenuanti generiche, la fissazione di 4 udienze in 7 giorni nel processo Ruby, e alcune affermazioni in aula del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e del presidente del collegio, Giulia Turri. Nel 2003 la richiesta di trasferire da Milano a Brescia i processi del cosiddetto filone toghe sporche (Imi-Sir/Lodo Mondadori), in cui era imputato Cesare Previti (mentre Berlusconi era stato prosciolto per prescrizione) fu respinta dai giudici, i quali ritennero che la situazione prospettata non potesse far ipotizzare un concreto pericolo di non imparzialità a Milano.

A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». È l' ennesimo colpo di scena sul caso Avetrana. Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate. Per spiegare in che cosa consiste la «grave situazione locale» che «turberebbe lo svolgimento del processo», Mazzotta si dilunga sull'arresto di Cosima (la madre di Sabrina) avvenuto praticamente in diretta tivù dopo la fuga di notizie che l'aveva preannunciato («Fu un tentativo di linciaggio» dice il professor Coppi), parla di testimoni presenti a raduni di piazza che contestavano Cosima, ricorda le pietre e le intimidazioni contro Michele Misseri, il marito di Cosima e padre di Sabrina che fece ritrovare il cadavere di Sarah e confessò di averla uccisa dopodiché cambiò versione più volte, accusò sua figlia dell'omicidio e tornò di nuovo al primo racconto («Ho fatto tutto da solo, Sabrina e Cosima sono innocenti»). Per riassumerla con le parole di Coppi: «L'abbiamo sempre detto, in questo procedimento sono avvenuti fatti di una gravità oggettiva e se non c'è serenità è giusto trasferirlo». Per argomentare meglio la sua richiesta, Coppi ha citato la sentenza Imi-Sir/lodo Mondadori del 2003 (imputati Previti e Berlusconi) con la quale le Sezioni Unite della Cassazione stabilirono che in quel procedimento non ci fu legittima suspicione. Tutti i punti che in quel processo motivarono la mancanza del legittimo sospetto, nel caso Avetrana dimostrano, secondo Coppi, esattamente il contrario: cioè che esiste la legittima suspicione.

Eppure nonostante il dettato della legge fosse chiaro, la Corte di Cassazione per l'ennesima volta ha rigettato l'istanza.

Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Nonostante ciò da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge Piazza Fontana ll processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969 (foto), ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico Salvatore Giuliano Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.

L'imputazione di quattro avvocati nelle indagini per l’omicidio di Sarah Scazzi è "sconcertante e inquietante". L’Unione delle camere penali scende in campo contro i pubblici ministeri del caso di Avetrana e chiede al ministro della Giustizia l’invio di ispettori alla procura di Taranto. Lo fa nel silenzio assordante della Camera Penale e dell'intero Consiglio dell'ordine degli avvocati di Taranto, assuefatti o collusi alle anomalie del foro tarantino. Anomalie su cui vi è una coltre di omertà forense e giudiziaria e di censura mediatica. Per l’Ucpi è “assurdo che nel medesimo procedimento si trattino questioni riguardanti il delitto e questioni relative all’indagine sul delitto stesso”. Ma "ancora più grave è che alcune contestazioni mosse a due avvocati letteralmente s'intromettono indebitamente nelle scelte e nelle strategie difensive, le quali dovrebbero, al contrario, costituire un recinto invalicabile e coperto dal segreto professionale".

C'è dunque una "grave violazione del diritto di difesa" da parte dei pm. E in particolare è “sconcertante quanto capita all’avvocato De Cristofaro, il quale per aver sostenuto l'assunzione di responsabilità del proprio assistito, da quest’ultimo reiteratamente dichiarata, si ritrova indagato per 'infedele patrocinio dai pubblici ministeri che si prefiggono l'obiettivo di provare la responsabilità di altra e diversa persona". Secondo i penalisti, "si è verificato un 'corto circuito all’interno del quale i pm che sostengono l'accusa hanno elevato un’imputazione, per un reato riguardante in astratto le condotte del difensore che si pongono in contrasto con l’interesse del proprio assistito, che già a una prima lettura appare addirittura paradossale, poiché‚ si fonda su fatti che dimostrano in maniera lampante il contrario, e cioè che il difensore ha viceversa dato seguito alle richieste del proprio assistito.

In realtà, i pm procedenti hanno valutato come contrastante con l’interesse dell’imputato, puramente e semplicemente, una versione dei fatti da questi offerta che confligge con l’ipotesi di accusa e lo hanno fatto sulla scorta della loro ricostruzione dei fatti". Insomma, "oltre a ergersi arbitri della formulazione dell’accusa, i pm pretendono di determinare anche l’interesse dell’imputato a sostenere l’una o l’altra tesi, e nel far questo criminalizzano l’attività del difensore, il che appare una intollerabile violazione del diritto di difesa oltre che l'espressione di una cultura apertamente inquisitoria. Con il risultato, inquietante e certamente non ignorato, che attraverso la contestazione elevata si vorrebbe determinare, allo stato, un obbligo deontologico di astensione da parte del difensore che, in consonanza con il proprio assistito, ha sostenuto una tesi avversa rispetto a quella caldeggiata dalla Procura". Non solo: "Nel corso dell’indagine le attività difensive - lamenta l’Ucpi - sono state costantemente oggetto di controllo da parte della autorità giudiziaria, e anche di decisioni assai stravaganti quale quella di autorizzare l’espletamento di un atto di parte, come l’assunzione di informazioni, 'alla presenza dei pm procedenti oppure di imporre il potere di segretazione nei confronti di persone sottoposte alle indagini". Tutto ciò si riverbera nell'ipotesi di affrancarsi il diritto di poter far scegliere agli imputati i difensori che più aggradano ai Pm. L'avv. De Cristofaro, per forza di cose prenderà in considerazione la concreta possibilità di rilasciare l'incarico trovandosi in una situazione di contrasto con il suo cliente, mentre per i P.M. l'operato del suo predecessore, l'avv. Galoppa era conforme se non strumentale alle loro attività.

Tutto questo lo sa bene il dr Antonio Giangrande di Avetrana, presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, che nel denunciare codeste anomalie, viene perseguitato dai magistrati criticati, con il benestare della Corte di Cassazione, che non rileva affatto il legittimo sospetto che i loro colleghi tarantini possano essere vendicativi contro chi si ribella. 

29 agosto 2011. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale. «Le lettere scritte da Michele Misseri le abbiamo prodotte perchè‚ sono inquietanti non tanto per il fatto che lui continua ad accusarsi di essere lui l'assassino, ma proprio perchè mettono in luce questo clima avvelenato, in cui i protagonisti di questa inchiesta possono essere condizionati». Lo ha sottolineato alla stampa ed alle TV l’avv. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri riferendosi alle otto lettere scritte dal contadino di Avetrana e indirizzate in carcere alla moglie Cosima Serrano e alla figlia Sabrina, con le quali si scusa sostenendo di averle accusate ingiustamente. «Michele Misseri – aggiunge l’avv. Coppi – afferma che ci sono persone che lo incitano a sostenere la tesi della colpevolezza della figlia e della moglie quando lui afferma di essere l’unico colpevole e avanza accuse anche molto inquietanti. Si tratta di lettere scritte fino a 7-8 giorni fa». «Che garanzie abbiamo – ha fatto presente il difensore di Sabrina Misseri – che quando dovrà fare le sue dichiarazioni avrà tenuta nervosa e morale sufficiente per affrontare un dibattimento?». «La sera c'è qualcuno che si diverte a sputare addosso ad alcuni colleghi impegnati in questo processo. I familiari di questi avvocati non possono girare liberamente perchè c'è gente che li va ad accusare di avere dei genitori o dei mariti che hanno assunto la difesa di mostri, quali sarebbero ad esempio Sabrina e Cosima. Questo è il clima in cui siamo costretti a lavorare ed è il motivo per cui abbiamo chiesto un intervento della Corte di Cassazione». «E' bene – ha aggiunto l'avvocato Coppi – allontanarci materialmente da questi luoghi. Abbiamo avuto la fortuna di avere un giudice scrupoloso che ha valutato gli atti e ha emesso una ordinanza a nostro avviso impeccabile. La sede alternativa dovrebbe essere Potenza. Non è che il processo si vince o si perde oggi, ma questo è un passaggio che la difesa riteneva opportuno fare e saremmo stati dei cattivi difensori se per un motivo o per l'altro e per un malinteso senso di paura non avessimo adottato questa iniziativa».

Intanto Sabrina Misseri si sente come Amanda Knox. Era inevitabile che la ragazza americana, assolta dall’accusa di omicidio di Meredith Kercher dopo quattro anni di carcere, sarebbe diventata il simbolo dell’accanimento giudiziario. Tutti coloro che pensano di trovarsi in prigione ingiustamente usano lei come termine di paragone. L’ha fatto Sabrina Misseri, in carcere per l’altro delitto mediatico italiano, quello di Sarah Scazzi. Sabrina, dal carcere di Taranto, ha detto: “Mi sento come Amanda“. La ragazza di Avetrana, come l’americana e come l’italiano Raffaele Sollecito, sostiene di essere innocente e di essere stata arrestata ingiustamente.

Censurato dalla stampa è che la Corte di Cassazione, di fatto, a vantaggio della magistratura disapplica una legge dello Stato. L’art. 45 c.p.p. parla di Rimessione del processo in caso di emotività ambientale che altera l’acquisizione della prova o ne mina l’ordine pubblico, ovvero per legittimo sospetto che l’ufficio giudiziario non sia sereno nel giudicare, anche indotto da grave inimicizia. Di fatto la legge Cirami non è mai stata applicata, nonostante migliaia di istanze, anche di peso: Craxi, Berlusconi, Dell’Utri. Rigetto ad oltranza: sempre e comunque. Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge:

Piazza Fontana, il processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969, ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza. Per Piazza Fontana, in cui vi era sospetto che fosse una strage di Stato: è il primo e più famoso caso di "rimessione". Tutti i processi collegati furono trasferiti a Catanzaro a partire dal 1972, proprio mentre i magistrati milanesi D'Ambrosio e Alessandrini imboccavano la pista della "strage di Stato". Curiosità: il primo dei ricorsi accolti dalla Cassazione fu proposto dall'imputato Giovanni Biondo, che dopo l'assoluzione diventò sostituto procuratore.

Per il Generale della Guardia di Finanza Giuseppe Cerciello, le cui indagini contro la Guardia di Finanza furono svolte dai propri commilitoni: il 29 novembre 1994 la Cassazione ha spostato da Milano a Brescia il processo per corruzione contro il generale Cerciello. L'avvocato Taormina aveva messo in dubbio tutte le indagini sulle tangenti ai finanzieri, in quanto svolte dai commilitoni. Quella rimessione è però rimasta un caso unico, poi citato da Di Pietro tra i motivi delle sue dimissioni.

Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico.

Salvatore Giuliano. Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo, ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.

Da dire che il 28 settembre 2011 anche allo stesso dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, di Avetrana, è stata rigettata l’istanza di rimessione. I magistrati di Taranto sono stati denunciati a Potenza e criticati sui giornali per i loro abusi ed omissioni. Per la Corte di Cassazione è giusto che siano gli stessi a giudicare, nei processi penali per diffamazione a mezzo stampa e nel concorso pubblico di avvocato, chi li denuncia e li critica. Oltre al rigetto è conseguita sanzione di 2 mila euro, giusto per inibire qualsiasi pretesa di tutela.

Questa di Avetrana è sempre più una storia difficile da raccontare. È infatti una storia senza punti e piena invece di virgole, parentesi e soprattutto di punti interrogativi. Per esempio: i carabinieri dei Ris hanno depositato una relazione sostenendo che non c'è alcun riscontro scientifico all'omicidio di Sarah. Niente tracce della ragazza nel garage. Niente tracce nella macchina, niente sulla corda con la quale Misseri ha raccontato di averla calato nel pozzo, niente nemmeno sulle cinture, presunte arme di delitto. È una storia così complicata, questa, che si arriva al paradosso costruito involontariamente dalla Cassazione che disegna tre "soppressori" di cadavere (Michele Misseri, Sabrina Misseri e Cosima Serrano), ma nemmeno un assassino come se la povera Sarah si fosse ammazzata da sola e poi gli zii e la cugina l'avessero calata nel pozzo. Pozzo che appare un po' una metafora di tutto il resto: questa di Avetrana è sempre più una storia piena di buchi neri. La procura è convinta che a uccidere Sarah siano state Sabrina e Cosima. In realtà, però, come ha sottolineato la Cassazione, Sabrina è in carcere anche per aver ucciso Sarah insieme con il padre Michele: quella ordinanza non è mai stata annullata. Non solo. Non c'è nessuna traccia che inchioda madre e figlia: manca l'arma del delitto. Non ci sono testimoni. L'unico, il fioraio Buccolieri, ha raccontato prima informalmente di aver visto Sarah mentre veniva trascinata nell'auto di Cosima. E poi però ha smentito tutto: "Era solo un sogno". In compenso, però, c'è zio Michele, che mentre si infuria a mezzo stampa con la moglie ("quando ero in carcere ha tagliato male tutta l'uva, ha combinato un disastro"), continua ad autoaccusarsi dell'omicidio di Sarah. Ma non gli crede nessuno. "Il soffocamento avviene ora in casa Misseri, ora nel garage, ora nella macchina di Cosima" scrive la Cassazione. Ed effettivamente non è chiaro dove Sarah sia stata ammazzata, visto che le ricostruzioni si sovrappongono tra loro, ma spesso non combaciano. Questo è il paradosso tutto italiano: da una parte Michele Misseri, un reo confesso di omicidio in libertà che, se pur considerato inattendibile, da lui si prendono per buone solo le versioni che fanno comodo alla tesi della procura; dal’altra parte Cosima Serrano e Sabrina Misseri, che professano la loro innocenza, ma sono in carcere senza prove. Prove che nemmeno la polizia scientifica ha trovato. 

Paradossale è anche il fatto che è stato assegnato a Franco Coppi il premio della Camera Penale di Bari “Achille Lombardo Pijola per la Dignità dell'Avvocato”. La decisione di assegnare il premio al prof. Coppi è per lo stile che ha saputo dare, quale difensore in un delicatissimo processo in terra di Puglia, esempio luminoso di professionalità e di dignità dell'Avvocato. Il riferimento è, appunto al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, in cui Coppi difende Sabrina Misseri, cugina della vittima. Processo la cui levatura professionale rispetto ad altri si è contraddistinta nell’assunzione di due atti fondamentali: richiesta di rimessione del processo per legittimo sospetto e minaccia di ricusazione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini.

Per quanto innanzi detto sarebbe auspicabile la predisposizione di un difensore civico giudiziario a tutela dei cittadini. Senza sminuire le prerogative ed i privilegi dei magistrati a questi doverosamente si dovrebbe affiancare, come organo di controllo, una figura istituzionale con i poteri dei magistrati, senza essere, però, uno di loro, perché corporatisticamente coinvolto. Tutto ciò eviterebbe l’ecatombe di condanne per l’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

IL DELITTO DI SARAH SCAZZI: PROCESSO AI MISSERI; PROCESSO ALL’ITALIA.

ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

«Giusto processo in Italia. E’ solo una stronzata. E l’intercalare rende bene l’idea sull’indignazione dei giuristi con un po’ di dignità. A Taranto ci hanno messo 6 giorni per accogliere pari pari le richieste dell’accusa. Ufficio della Procura di cui la presidente Trunfio ne faceva parte. Tutti abbiamo diritto al Giusto Processo, ma a Taranto tale diritto è negato. Sabrina Misseri e Cosima Serrano colpevoli del delitto? Forse sì e forse no. Ma anche loro meritano un giusto processo. Per la morte di Sarah Scazzi una sentenza di condanna per tutti gli imputati accolta da un’Italia plaudente. E’ una vergogna. E’ disumano ed incivile rallegrarsi per le disgrazie altrui. Una sentenza di condanna così come da me ampiamente prevista anche per l’appello. Previsione pubblicata sui giornali in tempi non sospetti. E non poteva essere altrimenti. Una trappola strategica ordita dall’accusa. I Giudici sono stati obbligati ad emettere sentenza di condanna. Al contrario ci sarebbe stato il paradosso di non aver avuto nessun colpevole per quel delitto, essendo stato estromesso Michele Misseri dall’accusa di omicidio. Con un’assoluzione e senza responsabili del delitto la Procura di Taranto in Italia avrebbe fatto ridere pure i polli. Una sentenza emessa dal popolo italiano e non “in nome del popolo italiano”. Un popolo che ha giudicato non solo i protagonisti, ma tutta una comunità. Un popolo plasmato da media morbosi e gossippari. Nei film la trama ed il regista ci fanno sapere chi è l’assassino, che la polizia ed il giudice non conosce. Se il colpevole viene assolto o non indagato perché non ci sono prove, lo spettatore ci rimane male. Eppure, attraverso i comportamenti ritenuti corretti da parte dei protagonisti del film, la morale è chiara. Niente prove, niente condanna. La morte di Sarah Scazzi è realtà. Come in un film i media morbosi ci hanno indotto a credere, convincendoci, che Sabrina Misseri e Cosima Serrano fossero le colpevoli. Potrebbero esserlo, nulla è escluso, ma dobbiamo farcene una ragione: non ci sono prove. Indizi contestabili, sì, ma prove niente. Addirittura per Cosima meno di nulla. L’art. 533, primo comma, c.p.p. impone il principio di Diritto per cui si condanna “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Questo perché in un paese civile meglio un reo in libertà, che un innocente in galera. E, a quanto pare, l’Italia pur essendo la culla del diritto, non figura tra i paesi civili.»

Intervista esclusiva al dr Antonio Giangrande, avetranese doc.  Egli, avendo vissuto la storia del delitto di Sarah Scazzi sin dall’inizio, conosce bene fatti e persone, protagonisti della vicenda. Corso degli eventi seguiti e documentati sin dal principio in un libro e con video. Un punto di vista interessante ed alternativo, sicuramente non omologato. Un personaggio che non si fa certo intimorire dalla magistratura e dall’avvocatura e che bistratta quell’informazione corrotta culturalmente. Per conoscerlo meglio basta andare su www.controtuttelemafie.it.   

Dr Antonio Giangrande sembra sicuro di quello che dice.

«Via Poma, Garlasco, Perugia, il caso Yara Gambirasio. I casi più celebri. Orrori senza fine e quando, per caso, il colpevole salta fuori, si scopre che la soluzione era a portata di mano, quasi banale, e perfino ovvia: come nella vicenda dell'Olgiata con il maggiordomo filippino. E invece la nostra giustizia e i nostri apparati investigativi continuano, spesso e volentieri, a perdersi dietro congetture dietrologiche e teoremi labirintici, ma soprattutto le troppe inchieste finite in nulla e i troppi processi impantanati. Gli esperti arrivano tardi, quando le prove sono già state compromesse, contaminate, sprecate. Polizia e carabinieri sono spesso in disaccordo fra di loro, secondo una trita consuetudine centenaria, e la polizia giudiziaria esplora le piste possibili con il guinzaglio corto impostole dalla legge che le ha messo addosso il collare della dipendenza dalla magistratura. Per restare sulla cronaca: da una parte c’è Michele Misseri, difeso dagli avvocati Luca Latanza da Taranto e Fabrizio Gallo da Roma. Quest’ultimo che accusa a Quarto Grado del 19 aprile 2013 il primo avvocato di Misseri, Daniele Galoppa, di essere stato ripreso dal GIP perché suggeriva a Michele Misseri le risposte che accusavano la figlia Sabrina in sede di Incidente Probatorio. Il contadino di Avetrana che si dichiara colpevole del delitto e della soppressione del corpo della nipote, non risparmia dichiarazioni e interviste ai vari corrispondenti delle testate televisive nazionali che presidiano costantemente la villa di via Deledda. In una di queste, al Graffio di Telenorba, prima ha spiegato per l’ennesima volta le modalità del delitto e poi ha mostrato la valigia già pronta per quando sarà trasferito in carcere al posto – così lui spera fino in Cassazione – della figlia e di sua moglie. Dall’altra parte, dopo aver rispedito alla Corte d'Appello il processo sul delitto di Meredith Kercher, la ragazza inglese assassinata a Perugia nella notte tra il primo e il due novembre 2007, la Cassazione ha annullato anche la sentenza di assoluzione di Alberto Stasi per l’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto il 13 agosto 2007 a Garlasco (in provincia di Pavia). Da quando Chiara Poggi venne uccisa e ritrovata senza vita il 13 agosto del 2007 nella sua casa di Garlasco, errori soprattutto nelle prime 24 ore ci sono stati. Così come a Perugia; così come ad Avetrana. Innanzitutto troppe persone sono entrate nella casa, inquinando la scena del crimine. Poi il primo interrogatorio di Alberto, che poteva essere determinante, è stato condotto prima da un maresciallo dei CC, poi interrotto, e continuato da un Capitano arrivato più tardi. Non è stata cercata immediatamente l'arma del delitto. E' stato acceso e spento troppe volte il pc di Alberto, che, per la Procura, doveva essere la prova regina. Non sono state sequestrate subito le famose scarpe di Alberto, né la bicicletta. Non è stato fatto un sopralluogo a casa sua o nell'officina del padre dove poteva nascondersi l'arma del delitto. I cellulari di alcune persone legate ai due sono stati messi sotto controllo solo dopo mesi e non immediatamente. Tutto questo davanti ad una Procura che è parsa inadeguata fin dal principio come gli investigatori. Perché solo con la parola "inadeguatezza" si può spiegare il fatto che nella casa sotto sequestro e con la "scena del crimine" ancora da analizzare (lo ricordiamo era quasi ferragosto e persino la scientifica era in ferie) venne lasciato libero di circolare il gatto di casa e qualcuno si è pure permesso di fumare, lasciare cenere sul pavimento, calpestare tracce ematiche. Il 18 aprile 2013 la Cassazione ha conferma questi dubbi ed ha deciso che il procedimento va rifatto per questioni di "metodo". L'accusa chiede la condanna a 30 di reclusione. Diversi gli indizi raccolti contro l'ex fidanzato: le scarpe “candide”, i pedali della sua bicicletta con tracce ematiche della vittima, le sue impronte miste al Dna di Chiara trovate sull'erogatore del sapone nel bagno dove l'assassino si è lavato. Nessun alibi, secondo l'accusa, per l'ex fidanzato: non era al computer mentre Chiara veniva uccisa. Innocente al di là di ogni ragionevole dubbio in primo grado ed in Appello. A questo punto mi si deve spiegare una cosa: a chi dare ragione? Ai giudici che assolvono od a quelli che condannano? Perugia, Garlasco, Avetrana: il ragionevole dubbio per motivare l’assoluzione se non sovviene in questi casi, allora quando?»

Ma chi è Antonio Giangrande. Nessuno da Avetrana ha mai parlato di lui, né, tantomeno, tv e giornali hanno richiesto i suoi commenti.

«Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Il fatto che nessuno mi ha mai interpellato sul delitto di Sarah Scazzi, nonostante che tutti ad Avetrana abbiano avuto l’occasione per farsi intervistare (alla faccia dell’omertà), non me ne cruccio, probabilmente i giornalisti non ritengono interessante il personaggio e le sue opinioni. D’altronde mi vanto proprio di essere diverso per i miei convincimenti e per il mio spirito libero e responsabile. Di parere diverso dai miei detrattori sono i miei sostenitori, che, in centinaia di migliaia, invece, seguono i miei video e leggono i miei testi,  ritenendoli importanti, alternativi e fondamentali per farsi un’opinione corretta sui fatti. Oltretutto su internet seguono più me e le mie inchieste che il lavoro di tante redazioni stereotipate e finanziate da una certa politica, che, pur pensando di essere unici, navigano nel mare dell’informazione insieme a migliaia di simili. Mi da fastidio solo una cosa: snobbare me può essere giustificato dalla codardia, ma ignorare l’associazione antimafia che rappresento, a tutto vantaggio di altri sodalizi ben sponsorizzati politicamente, descrive bene la professionalità di certi giornalisti».

Che coincidenza: nascere ad Avetrana, il paese dei Misseri, e vivere di luce riflessa!

«Ognuno di noi è nato in qualche posto che sicuramente non era voluto dal nascituro. Poi sta a noi rendere quel posto dove siamo nati degno di essere vissuto, né quel posto può essere l’alibi dei nostri fallimenti. Per dire: Chi nasce a Roma non diventa automaticamente Presidente della Repubblica. Io vivo in questa vita con dei compagni di viaggio. Qualcuno scenderà  dal treno prima, qualcun altro dopo di me. Scenderanno comunque tutti dal treno della vita, anche coloro che saliranno dopo, così come hanno fatto quelli che son saliti prima. E non osta il fatto di avere nobili natali.  Sono le fasi della vita. Io faccio di tutto per tutelare e onorare il posto dove sono nato. Località né peggio, né meglio di altre. Non vivo sotto i lampioni, per cui non rifletto né la mia, né l’altrui luce. Anche perché ognuno di noi vive il suo spazio e con il web questo mio spazio è il mondo. Solo gli ignoranti sminuiscono la forza che la mente ha nel superare lo spazio ed il tempo. Il miglior riconoscimento ricevuto è il ringraziamento da parte del Commissario Governativo per le iniziative contro la lotta alla mafia e all’usura, il quale mi ha invitato, anche, a partecipare all’incontro tenuto a Napoli con i Prefetti del Sud Italia per parlare di Sicurezza, mafia ed usura. Ciò significa considerarmi degno interlocutore, mentre le Autorità locali mi ignorano, mi emarginano, mi perseguitano. Appunto. L’avv. Santo De Prezzo, di Avetrana, conferma in una sua denuncia (in seguito alla quale per me è scaturita assoluzione più ampia perché il fatto non sussiste e di cui si è chiesto conto a lui ed anche nei confronti dei magistrati che l’hanno agevolata), che il Presidente dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie, Dr Antonio Giangrande, è considerato dalle Forze dell’Ordine di Avetrana un mitomane calunniatore. Tale affermazione spiega bene il perché degli insabbiamenti e le archiviazioni che seguivano le mie denunce, sol perché si denunciavano i reati degli intoccabili. Spiega bene altresì, l’ostracismo dei media. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.»

Dr Antonio Giangrande, con le sue opere letterarie, la sua web tv ed i suoi canali youtube ha voluto documentare in testi ed in video pregi e difetti della società italiana. Ma chi sono gli italiani?

«Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.»

A scrivere delle malefatte dei poteri forti a lei cosa ne consegue?

«Per prima cosa le sto a segnalare il fatto, già segnalato ai precedenti Parlamenti, che è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia l’antimafia è una liturgia finanziata dallo Stato in cui vi è l’assoluto monopolio in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. La sinistra, i media, gli insegnanti ed i magistrati artatamente han fatto di Don Luigi Ciotti e di Roberto Saviano le icone a cui fare riferimento quando ci si deve riempir la bocca con il termine “legalità”. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 17 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me è stato impedita l’iscrizione per mancata costituzione dell’albo. Altra segnalazione di una mia battaglia ventennale riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti. Mi hanno condannato all’indigenza. Tenuto conto che i miei libri si leggono gratuitamente, da scrittore non ho nessun introito. A dover scrivere la verità, purtroppo, non posso essere amico di magistrati, avvocati e giornalisti. Essere amico su chi avrei da scrivere, inficerebbe la mia imparzialità di giudizio. Avendo avuto l’occasione di svolgere l’attività forense per 6 anni senza abilitazione ma con il patrocinio legale, ho sì vinto tutte le cause, ma si sono imbattuto in tutto quello che è più malsano del mondo della giustizia: la corruzione morale e materiale delle toghe, siano essi magistrati od avvocati. E nessuno ne parla. Io ne parlo e ne subisco le ritorsioni. Non mi abilitano e sono investito da processi per diffamazione. Sempre assolto, ma per esserlo sono stato costretto a denunciare e ricusare il giudice naturale. Il giudice Rita Romano di Taranto, tra le altre cose, ha assolto chi mi aveva aggredito in casa mia con l’intento di far male a me, a mia moglie ed ai miei figli, affinchè non presenziassi ad un’udienza in cui difendevo la moglie dell’aggressore, vittima di stalking. Le prove dell’aggressione non sono state prodotte dalla procura, né ammesse dal giudice. A questo punto l’assoluzione dell’aggressore fu così motivata: “la testimonianza di Antonio Giangrande non possa ritenersi pienamente attendibile”. La Procura di Taranto chiede ed ottiene l’archiviazione delle denunce contro loro stessi. La Procura di Potenza archivia tutte le mie denunce contro i magistrati di Taranto ed accoglie tutte le denunce dei loro colleghi tarantini contro di me per quanto scrivo su quello che succede a Taranto. Un modo di tacitarmi per quanto scrivo anche su quello che succede  Potenza. In virtù della mia esperienza il mio assunto è: la mafia vien dall’alto!»    

Perché parla di cortocircuito Giustizia-Informazione?

«I giornalisti ci hanno inculcato la convinzione della santità, della infallibilità e della intoccabilità della magistratura. Il mondo della comunicazione e dell’informazione fa passare il principio per il quale i magistrati, preparati, competenti ed equilibrati, non sbagliano quasi mai e per di più, quando lo fanno, non devono essere criticati, in quanto le colpe delle disfunzioni giudiziarie vanno ricondotte sempre e comunque al sistema, quindi alla politica. Insomma: i magistrati sono di un’altra razza. Gli avvocati, anche per colpa della propria viltà, anziché imprimere l’assioma della indispensabilità e della parità della loro funzione, sono fatti passare per comprimari. Agli occhi della gente incarnano coloro che con sotterfugi e raggiri fanno uscire i rei dalla galera. Il dogma che dovrebbe valere per tutti i Magistrati e tutti i Giornalisti è: non avere ideologia, né amici. Questo per dare un’apparenza di imparzialità. Invece l’ideologia non gli manca, né tantomeno gli amici. Ed ottimi amici, spesso, sono proprio tra di loro, i Magistrati con i Magistrati ed i Magistrati con i Giornalisti, in un rapporto di reciproca mutualità. Amici ed ideologia, a iosa, spesso in un rapporto vicendevole: eccome! I magistrati ed i giornalisti hanno un ego smisurato che li rende autoreferenziali, presuntuosi ed arroganti, dimenticando che il potere, che gli uni e gli altri hanno, è stato assunto in virtù di un concorso pubblico, come può essere quello italiano. I Magistrati ed i Giornalisti non vengono da Marte, pertanto senza natali e casato e con un DNA differente dal resto dei cittadini. I primi, quindi, non sono la voce della Giustizia, i secondi non sono la voce della Verità. Tutto questo crea un vulnus all’esistenza di tutti noi. Prova ne è la sorte di Pietro D’Amico. Si è tolto la vita assistito dal personale di una clinica Svizzera. Pietro D'Amico era un magistrato per bene, una «toga buona» e fuori dai giochi di potere. Messo in croce sui giornali per un sospetto suffragato da indizi labili. Pietro D'Amico, autore di saggi di Filosofia del Diritto e Diritto romano adottati come libri di testo da alcune università, era stato indagato, insieme ad altri magistrati dalla Procura di Salerno, per una fuga di notizia per la perquisizione di un parlamentare nell'ambito dell'inchiesta Poseidone sui presunti illeciti nella gestione dei fondi per la depurazione. Ne era uscito indenne, ma totalmente disgustato. Aveva deciso di abbandonare la toga commentando: "Questa magistratura non mi merita". Tutto ciò fa pensare una cosa: se è successo a lui, figuriamoci cosa succede ai poveri cristi. Non esiste un solo Paese democratico e moderno nel quale uno dei poteri che regge l’architettura dello Stato è sottratto a qualsiasi controllo e sul quale vige una sorta di impunità che si è trasformata, negli anni, in un delirio di onnipotenza senza strumenti di comparazione nell’intero mondo occidentale; uno Stato nello Stato, regolato da leggi autonome, sottratto ai più elementari controlli democratici e autoimmunizzato contro ogni critica. Guai a chi si permette di criticare un magistrato, l’operato di un giudice o la conduzione di un’indagine: il rischio automatico è quello di attirare gli strali dei “pasdaran” del giustizialismo con ondate di fango mediatico; gli stessi per i quali un magistrato in esercizio della sua funzione, e magari nel tempo libero, può criticare liberamente lo Stato suo datore di lavoro, dare giudizi estremi sul Parlamento che vota le leggi (che un magistrato dovrebbe applicare e che invece vorrebbe lui dettare) e ridurre il tutto ad un mero esercizio di presunta democrazia, mentre se è lo Stato o il Parlamento, o anche un semplice cittadino, a criticare un magistrato si grida al complotto, o, addirittura, si è condannati per diffamazione dagli stessi magistrati criticati. Ma si sa. La coerenza è il segno distintivo dei limitati encefalici.»

Perché tra le sue opere a carattere generale ha scritto il libro su una vicenda particolare “SARAH SCAZZI, QUELLO CHE NON SI OSA DIRE. IL RESOCONTO DI UN AVETRANESE”?

«Avetrana, e per questo non si ha alcuna spiegazione logica, stranamente ed a differenza di altre sparizioni di persone, sin dal primo giorno della scomparsa di Sarah Scazzi è stata oggetto di attenzione mediatica morbosa. Sin dal primo momento è stata invasa dai camion con le paraboliche tv, come se una regia occulta avesse predisposto l’evento ed avesse previsto l’imponderabile, misterioso e drammatico seguito. Sin da subito sono arrivati i migliori consulenti forensi e gli eccelsi avvocati dai fori più importanti con la conseguente domanda logica: chi li paga? Per propaganda e pubblicità: chissà? Sono calati avvocati propostisi (vietato dalla deontologia; divieto che pare valga solo per l’avv. Vito Russo di Taranto), o avvocati consigliati da parenti od amici interessati. Solo per gli imputati minori si son visti avvocati riconducibili a conoscenza personale. Si son visti, addirittura, avvocati che si sono arrogati la funzione di pubblici ministeri: la ricerca della verità. In questo coinvolgendo i consulenti salottieri che alla tv, in programmi che dovevano trasparire imparzialità, invece, propinavano la loro convinzione personale ospiti di conduttrici compiacenti. Poi alle accuse di Michele di essere stato plagiato rispondevano: io non c’ero! Si son visti giornalisti vagare per Avetrana intenti ad intervistare appositamente ignoranti nullafacenti nei bar, con l’intento di estorcere delle considerazioni dotte. Si son visti giornalisti aspiranti scrittori, con il sogno di scrivere sul delitto di Avetrana un esclusivo Best Sellers, arrogandosi la elitaria genitura della verità. Generalmente da tutta Italia mi si chiede aiuto, essendo riconosciuta la mia competenza per aver seguito tutti i casi giudiziari analoghi. Ad Avetrana, da avetranese, sono stato tra i primi ad offrire la mia consulenza gratuita, dopo aver segnalato alle autorità alcuni personaggi che gironzolavano intorno alla famiglia Scazzi. Personaggi che hanno conosciuto i fatti dall’interno della famiglia nell’imminenza dell’evento, ma che non sono stati mai chiamati a testimoniare. Con Concetta e Giacomo Scazzi vi è stato un’incontro, qualche consiglio. Presente era Cosima e Valentina. Le ho viste affiatate con Concetta. Successivamente, con l’arrivo degli avvocati di Perugia (in quella fase non vi era alcun assoluto bisogno di assistenza legale) si era sottoposti al loro vaglio per parlare con la Famiglia Scazzi. Si è erto un muro. Da allora nessun incontro vi è più stato, né nessun grazie si è dato alle associazioni avetranesi che si sono attivate per la ricerca di Sarah e per la fiaccolata in suo onore. Le luci della ribalta sono un’illusione anche nel dolore, in special modo se c’è qualcuno che illude. In quei frangenti caotici si veniva a formare la trama intrigante, oscura, imperscrutabile e misteriosa di un film più che “giallo”. “Giallo” è la definizione italiana, poiché negli Stati Uniti non esiste questa parola per definire lo specifico genere cinematografico che va sotto i nominativi di “crime story”, “noir”, “mistery” e “thriller”. Avetrana è diventata, suo malgrado, l’ombelico del mondo. E’ conosciuta ormai in tutto il pianeta. Tutti parlano di Avetrana, degli avetranesi, degli Scazzi, dei Serrano e dei Misseri. E tutte le altre località se ne dovranno fare una ragione. Eppure tanta notorietà (subita) provoca immenso rancore. La sventura altrui rappresenta per l’invidioso ciò che la cioccolata è per il goloso e il sesso per il lussurioso. Il nostro cervello, infatti, tratta le esperienze sociali e quelle fisiche in modo più simile di quanto si pensi. Chi ha sete chiede acqua. Chi ha freddo, un riparo. Chi non è soddisfatto di se stesso anela a sentirsi migliore attraverso la svalutazione degli altri. Studi scientifici dimostrano come spesso l’invidioso ha la sensazione di non poter raggiungere con le proprie forze ciò che vorrebbe per sé e per riportare l’equilibrio nel confronto sociale deve passare per la distruzione materiale o simbolica dell’altro. Le ingiustizie sono ovunque anche nella nostra vita: c’è chi nasce ricco e ha la strada spianata, chi lo diventa con la spregiudicatezza, chi detiene il potere o posti di responsabilità pubblica senza averne le capacità, chi non paga le tasse, chi lavora meno di noi e ottiene di più, chi non ha arte ne parte, ma ha le luci della ribalta (come i personaggi del gossip o, come nel nostro caso, i protagonisti delle cronache giudiziarie). Infastidirsi è normale, soprattutto se il fortunato ci assomiglia: magari abita nell’appartamento vicino, ha fatto la nostra stessa scuola, ha scelto la nostra stessa carriera. Insomma ci ricorda quello che avremmo potuto essere e non siamo. Ma giornali e tv hanno allargato la nostra comunità di riferimento, aumentando esponenzialmente anche il numero di confronti sociali con persone di cui spesso non conosciamo né gli sforzi né le pene. Per questo si odia tanto Avetrana e Sabrina Misseri. Loro malgrado hanno un successo planetario che altri (gli invidiosi) vorrebbero per sé, finanche per le stesse ragioni, ma non lo possono mai avere. Allora scatta il meccanismo di delegittimazione e di denigrazione, fino ad arrivare al vilipendio di una comunità. Quando si parla del delitto di Sarah Scazzi, non si parla del danno che il sistema banale, superficiale e poco professionale dell’informazione e della comunicazione ha arrecato alla comunità colpita. State sicuri: nessuno vuol parlarne e nemmeno può. Bisogna essere Avetranesi con dignità ed orgoglio per sentire sopra la propria pelle il disprezzo di gente stupida ed ignorante che quando sa che tu sei di Avetrana nella migliore delle ipotesi sghignazza: “ahhaaaa…., ahhaaaa…”. Oppure di gente cattiva che lancia epiteti e che ti apostrofa: “ahhaa…, siete quelli che hanno ucciso Sarah”; “ahhaaa…, il paese omertoso e mafioso che ha ucciso la bambina”. Come al solito, poi, in questa Italia dove il migliore c’ha la rogna, te lo dice gente che a parlar di loro o della loro comunità dovrebbero mettersi la maschera in faccia per coprirsi per la vergogna. Certo che ad Avetrana vi è un inspiegabile accanimento mediatico. Finanche lo sport ha parlato di Sarah Scazzi. Un servizio della “Domenica Sportiva” della Rai il 7 aprile 2013 parla, sì, di calcio ad Avetrana, ma (pure qui con retro pensiero) evidenzia anche il malessere che comporta l’essere di Avetrana in trasferta. Ma noi avetranesi ad  aver grande intelletto e ad insegnare cultura adottiamo il celebre verso della Divina Commedia del sommo poeta Dante Alighieri “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. E proprio per passare oltre, il mio compito è quello di svelare il corto circuito informazione-giustizia. In questa Italia pregna di banalità e pregiudizi, frutto di ignoranza e disinformazione, e a volte di malafede, ognuno di noi dovrebbe chiedersi. La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!" «Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio. «Dovete sapere – dice a un certo punto Salvatore Borsellino al convegno a Bari per la presentazione del libro di Giuseppe Ayala - che mio fratello Paolo dopo il 1° luglio 1992 chiese varie volte al Procuratore della Repubblica di Caltanisetta di essere ascoltato come testimone per riferire circostanze decisive per l'accertamento della verità della strage di Capaci, in cui perirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta, ma questi, il Procuratore della Repubblica di Caltanisetta, si rifiutò di ascoltarlo.» Al che Giuseppe Ayala, sorridendo, ha commentato: “Eh si! In effetti c’è anche questa!”. Sono piene le aule dei Tribunali di tesi accusatorie, spesso strampalate dei PM, imbastite in modo a dir poco criticabile, poi accolte dai loro colleghi giudici. Il caso di Salvatore Gallo è di quelli destinati a passare alla storia degli errori giudiziari più clamorosi. Fu condannato all’ergastolo per l’omicidio del fratello Paolo che in realtà, sette anni dopo, si ripresenta vivo e vegeto. Ed ancora la Iena Mauro Casciari, che ha preso a cuore la vicenda della morte di Giuseppe Uva, ha ricevuto una querela per diffamazione per un servizio andato in onda ad ottobre nel 2011, che conteneva un'intervista a Lucia Uva, la sorella di Giuseppe Uva anch'essa querelata per diffamazione. Giuseppe Uva il 43enne morto a Varese, nel giugno del 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto in caserma a Varese per alcune ore. Un’altra “vittima di Stato”, come si denuncia da anni, come Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi. Lucia Uva chiede solo giustizia e si ribella contro gli insabbiamenti delle denunce. Stessa sorte, querela per diffamazione, è toccata alla mamma di Aldrovandi, come stessa sorte è toccata ad Alfonso Frassanito, padre adottivo di Carmela, la ragazzina di Taranto morta perché stuprata e non creduta dai magistrati. In Italia devi subire e devi tacere. Da sempre, inascoltato, combatto per istituire il “Difensore Civico Giudiziario” con i poteri dei magistrati, ma senza essere uno di loro. Solo nel 2012 l’Italia ha aggiunto un nuovo record alla lista di primati negativi collezionati nel tempo a Strasburgo sul fronte della giustizia. Dopo essersi aggiudicata per anni la maglia nera come Paese, tra i 47 del Consiglio d’Europa, con il più alto numero di sentenze della Corte per i diritti dell’uomo non eseguite (arrivato ora a quota 2569, dietro di noi ci sono la Turchia con 1780 sentenze non eseguite e la Russia con 1087), l’Italia è diventata anche lo Stato che spende di più per indennizzare i propri cittadini per le violazioni dei diritti umani subite: ben 120 milioni di euro. Una cifra pari a circa cinque volte il contributo annuo versato al Consiglio d’Europa e più del doppio di quanto nel 2012 hanno pagato complessivamente, come indennizzi, tutti gli altri Stati membri dell’organizzazione. Senza parlare poi di quegli errori giudiziari che costano come una manovra. Indagini approssimative. Magistrati ed avvocati che sbagliano. Innocenti in cella. Enormi risarcimenti da pagare. Uno spreco umano ed economico insostenibile, che arriva a costare allo Stato diverse decine di milioni di euro ogni anno. L'ultimo, in arrivo, l'indennizzo per gli accusati della strage di via d'Amelio, ingiustamente condannati all'ergastolo e ora liberi dopo 18 anni di carcere in regime di 41bis. C'è già un altro cittadino italiano pronto a entrare in una classifica "poco onorevole" per il nostro Stato: si chiama Raniero Busco e ha 46 anni, assolto dalla condanna a 24 anni per l'omicidio della sua ex fidanzata, Simonetta Cesaroni, la ragazza del "delitto di via Poma" avvenuto nella capitale il 7 agosto 1990. Il caso di Busco, difeso proprio da Franco Coppi difensore anche di Sabrina Misseri nel processo sul delitto di Sara Scazzi, rientrerebbe nel nutrito elenco degli errori giudiziari. Una realtà che pesa, anche sotto il profilo economico, sull'amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Solo nel 2011, lo Stato ha pagato 46 milioni di euro per ingiuste detenzioni o errori giudiziari. L'ultima vicenda di questo tipo, forse la più eclatante nella storia della Repubblica, è quella dei sette uomini che erano stati condannati come autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta, il 19 luglio 1992. Nell'autunno 2012, sono stati liberati: dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi tra l'altro in regime di 41 bis. La strage non era cosa loro. Il risarcimento? È ancora da quantificare. Il 13 febbraio 2011, invece, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. La cosa sconcertante è che, nel 1977, fu ucciso a Ficuzza (Palermo) anche l'ufficiale che aveva condotto quell'inchiesta con modi tutt'altro che ortodossi, il colonnello Giuseppe Russo: l'indagine sul suo omicidio ha prodotto un altro errore. Per la sua morte, infatti, sono stati condannati tre pastori e, solo vent'anni dopo, si è scoperto che esecutori e mandanti erano stati invece i Corleonesi. Ma il caso forse più paradossale di abbaglio giudiziario risale al 2005. Ne fu vittima Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini: condannata a quattro anni con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Ma quanti sono, in Italia, gli errori giudiziari? Quante persone hanno scontato, da innocenti, anni e anni di carcere? Quante vite e quante famiglie sono state distrutte? "Una statistica ufficiale, ministeriale, ci dice che tra il 2003 e il 2007 ci sono stati circa ventimila errori giudiziari, un numero enorme del quale non si parla mai, se non nei casi che fanno notizia. Ci sono poi vicende famose, e sconcertanti, rilanciate ogni volta che si scoprono nuovi episodi: dal caso Tortora al caso Barillà. Ottomila richieste di risarcimento negli ultimi 10 anni. Le ingiuste detenzioni e l'enorme costo economico che comportano sono ormai al centro di una battaglia politico-legale avviata dalle associazioni contro gli errori giudiziari. Analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, Eurispes e Unione delle Camere penali italiane hanno rilevato che sarebbero cinque milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Bisogna che qualcuno dica alla gente che quello che succede ad Avetrana succede in tutta Italia. Tante le similitudini con i fatti di cronaca riportati dai media. Informazione e giustizia. Simbiosi cinica e bara, sadismo allo stato puro. Parliamo di Franco Califano. È stato arrestato due volte per cocaina, una volta nell’ambito del caso Chiari-Luttazzi (una serie di personaggi dello spettacolo messi in cella per droga nel 1970 e poi tutti assolti), un’altra all’interno del caso Tortora (l’inchiesta della magistratura napoletana che accusò falsamente il popolare presentatore di essere un boss della Camorra, uno dei più grandi scandali giudiziari degli anni Ottanta). In tutto s’è fatto per questo tre anni e mezzo di carcere. Suo commento: «Negli anni Settanta sono finito nel processo di Walter Chiari, negli anni Ottanta in quello con Tortora: possibile che alla mia età, con la mia carriera non me ne sono meritato uno tutto per me?». Stranamente, o forse no - scrive Valter Vecellio su “L’Opinione” - sarebbe stato strano il contrario, quasi tutti i giornali (non più di un paio le eccezioni), ricordando Franco Califano, hanno fatto cenno alle disavventure giudiziarie del “Califfo” limitandole alla vicenda che portò in carcere Walter Chiari e Lelio Luttazzi, per uso e spaccio di droga. E anche su questo si potrebbe dire: che ogni volta che richiama in causa Luttazzi si dovrebbe aver cura di ricordare che “el can de Trieste” era assolutamente estraneo ai fatti contestati, solo tardivamente venne riconosciuto innocente, patì una lunga e ingiusta carcerazione, e da quell’esperienza ne uscì schiantato. Luttazzi a parte, Califano venne coinvolto, ficcato a forza è il caso di dire, nella vicenda che in precedenza aveva portato in carcere Enzo Tortora, nell’ambito di quell’inchiesta che doveva essere il “venerdì nero della camorra” e fu invece un venerdì (e non solo un venerdì) nerissimo per la giustizia italiana. Califano ci raccontò che ad accusarlo erano due "pentiti": Pasquale D' Amico e Gianni Melluso, "cha-cha". Ma D' Amico poi aveva ritrattato le sue accuse. Melluso, invece le aveva reiterate, raccontando di aver consegnato droga a Califano in un paio di occasioni: nel sottoscala del "Club 84", vicino a via Veneto, a Roma; e successivamente nell'abitazione del cantante a corso Francia, sempre a Roma. Solo che nel "Club 84" il sottoscala non c’era; e Califano in vita sua non ha mai abitato a corso Francia. Infine Califano, in compagnia di camorristi, avrebbe effettuato un viaggio da Castellammare fino al casello di Napoli, a bordo di una Citroen o di una Maserati di sua proprietà; automobili che Califano non ha mai posseduto. Califano ci raccontò che le accuse nei suoi confronti erano solo quelle di cui s’è fatto cenno; e che non si siano svolte indagini e accertamenti per verificare come stavano le cose non sorprende col senno di poi, e a ricordare come l’inchiesta in generale venne condotta. E sulle modalità investigative, può risultare illuminante un episodio in cui sono stato coinvolto. Anni fa, chi scrive venne convocato a palazzo di Giustizia di Roma, per chiarire – così si chiedeva da Napoli – come e perché in un servizio per il “Tg2”, “in concorso con pubblici ufficiali da identificare”, avevo rivelato «atti d’indagine secretati consistenti in stralci della deposizione resa in una caserma dei carabinieri dal pentito Gianni Melluso sulla vicenda Tortora». Ed ero effettivamente colpevole: avevo infatti raccontato che Melluso aveva ritrattato tutte le sue accuse; e che assieme a Giovanni Panico e Pasquale Barra aveva concordato tutto il castello di menzogne e calunnie; un segreto di Pulcinella, tutto era già stato pubblicato dal settimanale “Visto”; e il contenuto degli articoli anticipati e diffusi da “Ansa”, “Agenzia Italia” e “AdN Kronos”. Dunque, sotto inchiesta per aver ripreso notizie (vere) pubblicate da un settimanale e da agenzie di stampa. Evidentemente dava fastidio la diffusione in tv... Queste le indagini; e dato il modo di condurle, non poteva che finire in una assoluzione piena: per Tortora, per Califano, e per tantissimi di coloro che in quel blitz vennero coinvolti. Ma a prezzo di sofferenze indicibili e irrisarcibili. Indagini che la maggior parte dei cronisti spediti a Napoli, presero per buone, e furono pochi a vedere quello che poteva essere visto da tutti. È magra consolazione aver fatto parte di quei pochi; e non sorprende che questa vicenda la si preferisca occultare e ignorare. Ed ancora. Per i pubblici ministeri Vincenzo Barba e Francesca Loy, Stefano Cucchi «è morto di fame e di sete». "Tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi", ha accusato il pubblico ministero Vincenzo Barba. Che ha ricordato le difficoltà affrontate nel corso delle indagini a causa ''del clamore mediatico insopportabile'' e in particolare per proteggere quello che ritiene essere il testimone ''credibile'', l'immigrato Samura Yaya. "Abbiamo avuto l'esigenza di tutelarlo come fonte di prova - ha continuato Barba - A un giorno dall'incidente probatorio tutti hanno tentato di raggiungerlo, anche il senatore Stefano Pedica. Noi abbiamo dovuto fare una lotta impari per difendere la nostra fonte di prova da un attacco politico e giornalistico, tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi. Il processo è stato difficile - ha detto il pm Barba - anche a causa di varie rappresentazioni dei fatti che sono state portate fuori dal processo. I mass media hanno influito sull'opinione pubblica. C'è chi ha voluto dare una rappresentazione della realtà diversa da quella emersa dal processo''. «Riteniamo inaccettabile e gravemente offensive le dichiarazioni del pm Barba sul conto di Stefano e di tutti noi - commenta la sorella Ilaria Cucchi - Continuo a chiedermi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. Non posso accettare che non venga riconosciuta la verità su quello che è successo a Stefano tutto il resto non mi interessa - ha aggiunto con gli occhi lucidi - La verità la sanno tutti. Io, speravo che entrasse anche nell'aula di giustizia e continuo ad avere fiducia nella Corte: ripongo in loro tutta la mia fiducia, perché ogni risposta che non sia coerente con quanto accaduto a Stefano, ogni risposta ipocrita noi non la possiamo accettare. L'atteggiamento che abbiamo notato oggi in aula è perfettamente coerente con quello che e stato l'atteggiamento della procura per tutta la durata del processo, tanto che spesso viene da chiedersi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. La responsabilità dei medici è assolutamente gravissima e innegabile, loro non sono più degni di indossare un camice, questo lo abbiamo sempre detto e continueremo a sostenerlo fino alla morte. Loro avrebbero potuto salvare mio fratello e non lo hanno fatto, si sono voltati dall'altra arte e non si può far finta di niente, come non si può far finta che Stefano sarebbe finito in quell'ospedale per cause che non c'entrano con il pestaggio. Non si può negare che Stefano fino a prima del suo arresto conduceva una vita assolutamente normale. Abbiamo discusso per anni con la procura della frattura di l3. Ora apprendo che si è concordemente riconosciuto che gli accertamenti ed i prelievi sono stati fatti sulla maggior parte della vertebra lasciando fuori proprio quella in discussione. In particolare i consulenti del Pm hanno prelevato tessuto osseo della vertebra nella parte opposta ed interna dove, guarda caso , vi era una vecchia frattura . Non solo, ma poi è emersa evidente un'altra frattura ad l4, cioè così vicina e sotto ad l3 da non poter non far pensare che entrambe siano state procurate a Stefano con un calcio od un colpo diretto proprio in quella zona. Tutti i medici che lo visitarono notarono segni evidenti e particolare dolore lamentato da mio fratello proprio lì. Gli stessi consulenti del Pm hanno fotografato abbondante sangue sui muscoli della stessa zona, che, visti al microscopio, risultano anche lacerati. Insomma la schiena di Stefano è massacrata di fratture e la procura procede per lesioni lievi. Ora, dopo aver detto che la frattura di l3 su cui i miei consulenti discutevano, era in realtà vecchia, mi aspetto che su quella di l4 si dica che se l'è procurata da morto. Siamo veramente stanchi di questo teatrino tragicomico». Ed ancora. La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia. A proposito del delitto di Sarah Scazzi e di Yara Gambirasio e gli autogol della giustizia e del giornalismo italiano. Vi ricordate il caso di Giusy Potenza, antesignano del delitto di Avetrana? Giusy Potenza viene uccisa a Manfredonia con una grossa pietra. Il suo corpo è ritrovato il pomeriggio successivo all'omicidio sulla scogliera, vicino allo stabilimento ex Enichem. In un bar del centro di Manfredonia Carlo Potenza, padre di Giusy, accoltella per vendetta Pasquale Magnini, padre di una delle ragazze arrestate con l'accusa di aver indotto Giusy alla prostituzione. Il suicidio di Grazia Rignanese madre di Giusy Potenza è l'ultimo episodio di un caso che ha sconvolto l'esistenza della famiglia Potenza e scosso la cittadina di Manfredonia, in provincia di Foggia. Il caso scuote la città del Gargano che viene assediata nei giorni successivi dalle tv nazionali e locali in cerca di risoluzioni per quello che diviene un caso di cronaca nazionale. È stato un periodo di tensione e terrore, quello che si è consumato a Manfredonia, sessantamila abitanti, una quarantina di chilometri da Foggia. Per mesi questa fetta del Gargano è stata sotto shock per la tragica fine di Giusy, uccisa a colpi di pietra da Giovanni Potenza, un pescatore di 27 anni, che 40 giorni dopo (il 23 dicembre 2004) venne arrestato dalla polizia e che confessò l'omicidio: l'uomo, un cugino del padre della ragazza, ha ammesso di aver colpito la vittima con una pietra perché tra loro c'era una relazione e lei minacciava di raccontare tutto a sua moglie se l'avesse lasciata. Il ricordo della povera Giusy è ancora vivo in tutta la comunità accusata a suo tempo di omertà come tutte le comunità che subiscono vicende analoghe. Una vicenda drammatica con molti colpi di scena seguitissima da stampa e tv. Speciali tv sono stati dedicati al caso dalla solita Rai Tre con il programma “Ombre sul giallo”, ideato, scritto e condotto da Franca Leosini. Entrano nell'inchiesta altre due ragazze: si tratta di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, che vengono arrestate con l'accusa di favoreggiamento e false dichiarazioni, oltre che di induzione e sfruttamento della prostituzione. Intanto l’8 ottobre 2011 per quel delitto il pianto liberatorio delle due amiche accompagna la lettura della sentenza del presidente della sezione “famiglia” della corte d’appello di Bari, che ribalta il verdetto di primo grado di condanna a 4 anni di carcere a testa per favoreggiamento della prostituzione emessa dal Tribunale di Foggia l’11 ottobre del 2007. Sabrina Santoro, 30 anni, e Filomena Rita (Floriana) Mangini di 25 anni, non hanno favorito la prostituzione di Giusy Potenza, la quattordicenne sipontina ammazzata a pietrate il 13 novembre del 2004 da un procugino con il quale aveva una relazione clandestina, che lei minacciava di rivelare se lui non avesse lasciato la moglie. Le due imputate sono state assolte per non aver commesso il fatto, dopo due ore di camera di consiglio; pg e parte civile chiedevano la conferma della condanna a 4 anni, la difesa l’assoluzione. Le ragazze accusate malamente in vario modo si rammaricano del fatto che i giornali e le tv pronti ad infierire con accanimento mediatico su di loro, nel momento in cui vi è stata per loro stesse una sentenza di assoluzione, omertosamente i medesimi giornalisti hanno censurato la notizia, tacitando gli errori dei magistrati. Sono loro a gridare con una testimonianza esclusiva al dr Antonio Giangrande, scrittore (autore anche del libro su Sarah Scazzi, già pubblicato sul web) e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. In sintesi il loro pensiero conferma un tema ricorrente identico a sé stesso: povero territorio e poveri protagonisti della vicenda, vittime sacrificali di un sistema mediatico che nell’orrore e nella persecuzione ha la sua linfa. Si inizia con uno strillio del citofono, con le forze dell’ordine che ti cercano. In quel momento ti casca il mondo addosso. E’ un uragano che ti investe. Ti scontri con procuratori della repubblica innamoratissimi della loro tesi di accusa, assecondati dal Tribunale della loro città e sostenuti da giornalisti che pendono dalla loro bocca o che si improvvisano investigatori. E l’opinione pubblica, influenzata dalla stampa, ti odia fino ad augurarti la morte. «Dalla sentenza che ha acclamato la nostra estraneità ai fatti, nessuno ci ha cercato per ristabilire la verità e per renderci la nostra dignità e la nostra reputazione. Chi è schiacciato dal tritasassi della giustizia, anche se innocente, è frantumato per sempre». E’ il pensiero di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, ma possono essere le affermazioni di migliaia di innocenti che da queste vicende ne sono usciti distrutti. Certo Giusy Potenza merita la nostra attenzione, ma non meritano forse analoga compassione le altre vittime di questa vicenda? Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini additate da tutti come “puttane” che hanno indotto Giusy alla prostituzione e accusate di essere state responsabili indirettamente della sua morte. Bene se nessuno lo fa, sarò io a ristabilire la verità e a dar voce a quelle vittime silenti, che oltraggiate dalla gogna mediatica, non sono mai oggetto di riabilitazione da parte di chi ha infangato il loro onore. Quei media approssimativi e cattivi che si nutrono delle disgrazie altrui. La verità si afferma dall’alto di un fatto: una sentenza definitiva di assoluzione. La verità tratta da un fatto e non dedotta da un opinione di un giornalista gossipparo. Il fenomeno Vallettopoli era appena cominciato: un tormentone mediatico che aveva trasformato la tranquilla e sonnecchiante città di Potenza in un vero e proprio “ombelico del mondo”, scriveva Stella Montano sul “Quotidiano della Basilicata”. Giornalisti, reporter, fotoreporter, cameraman di testate giornalistiche e agenzie di stampa di tutt’Italia, tutti a Potenza, per studiare da vicino quella che sarebbe stata una delle inchieste più discusse degli ultimi anni; ma anche autisti, avvocati, segretari, agenti di spettacolo al servizio di veline e soubrette, di attori e calciatori, chiamati a rispondere alle difficili domande del pm che aveva aperto le indagini sulle presunte estorsioni ai danni di vip, attività che aveva fatto la fortuna dell’agenzia “Corona’s”, il cui logo, in quel periodo era diventato uno status symbol, consolidato persino dinanzi al carcere di Potenza, il 29 marzo del 2007, giorno del suo 33esimo compleanno, festeggiato dai suoi collaboratori più fedeli con una grande torta e con tanto di candeline. Albergatori e ristoratori felici del tutto esaurito; trovare un posto libero in un pub o in una pizzeria era diventata un’impresa. Esaurite sin dalle prime ore del mattino le copie di quotidiani, settimanali e periodici: la voglia di leggere era diventata dilagante, dirompente. Per i 3 tassisti in servizio in città, spola ininterrotta dalla stazione al tribunale, dagli alberghi al carcere: un lavoro così estenuante a Potenza non si era mai visto. Come non si era mai visto che qualcuno prendesse addirittura dei giorni di ferie dal lavoro per non perdersi uno spettacolo “live” senza eguali, tra le inferriate del Tribunale. Tra flash e microfoni buttati letteralmente in aria, il passaggio super scortato di Raoul Bova, Loredana Lecciso, Diego Della Valle, Fernanda Lessa, Nina Moric, aveva mandato in visibilio anche studenti, adolescenti e ragazzine, pronte ad immortalare con un flash quel passaggio dorato di vittime/carnefici del “sistema Corona”. Girandola di starlette e paillettes che in quei giorni avevano di fatto trasformato la visione del capoluogo lucano agli occhi del mondo mediatico. Merito di quel “pm biondo che faceva impazzire il mondo” che aveva scoperchiato le malefatte di un “ragazzo insolente” di nome Fabrizio Corona. Qualcuno aveva persino proposto di far diventare Henry John Woodcock «assessore al turismo del comune di Potenza». Starlette, gossip ed inchieste giudiziarie. Le tante Ruby dell’informazione e della giustizia italiana. Guerra, Berardi, Polanco, Faggioli… Che fine hanno fatto le “olgettine”? Qualche anno fa non si parlava che di loro, oggi sono quasi dimenticate. Da Barbara Guerra a Iris Berardi, da Marysthell Polanco a Barbara Faggioli. Che fine hanno fatto le cosiddette ragazze del bunga-bunga? E quelle che abitavano nell’ormai famigerato appartamento di via Olgettina, a Milano? Non si parlava d’altro, i quotidiani erano ricchi tutti i giorni di notizie e segnalazioni sulle loro imprese e i rotocalchi si contendevano le loro immagini «rubate» durante costosissime incursioni nel quadrilatero della moda, in centro a Milano, per l’immancabile shopping quotidiano. Erano tante le ragazze in qualche modo entrate nell’elenco delle donne attribuite a Silvio Berlusconi. “Oggi” le aveva contate una a una: da Nicole Minetti a Maryshtell Garcia Polanco, da Roberta Bonasia a Barbara Faggioli, da Alessandra Sorcinelli a Iris Berardi, per non parlare di Ruby Rubacuori. L’elenco, alla fine, ne conteneva ben 131. È passato, come dicevamo, solo qualche anno. Per qualcuno il ricordo di quelle ragazze è già sbiadito. Per altri sono rimaste nella memoria collettiva. «Subisco dai giudici violenza psicologica, una vera e propria tortura, una pressione insostenibile». Lo ha detto Ruby, all’anagrafe Karima El Mahroug, la giovane marocchina al centro del processo sui festini hard nella residenza di Silvio Berlusconi ad Arcore, che il 4 aprile 2013 ha inscenato una protesta contro i magistrati davanti al Palazzo di Giustizia di Milano. La giovane ha letto un comunicato stampa lungo sei pagine sulle scale del tribunale e si è presentata con un cartello che recitava 'Caso Ruby: La verità non interessa più?'. Protesta anche contro la stampa, che a suo parere strumentalizza la sua storia: «Per colpire Berlusconi la stampa ha fatto male a me. Oggi ho capito che è in corso una guerra contro Berlusconi e io ne sono rimasta coinvolta, ma non voglio che la mia vita venga distrutta». Ruby ha letto un comunicato che ha consegnato ai giornalisti presenti. «La colpa della mia sofferenza è anche di quei magistrati che, mossi da intenti che non corrispondono a valori di giustizia, mi hanno attribuito la qualifica di prostituta, nonostante abbia sempre negato di aver avuto rapporti sessuali a pagamento e soprattutto di averne avuti con Silvio Berlusconi. Non sono una prostituta. Nessuno ha voluto ascoltare la mia verità, l’unica possibile. Voglio essere ascoltata dai magistrati per dire la verità, sono la parte lesa in questa vicenda. Voglio protestare per non essere stata sentita. Non ne capisco la ragione e intendo dirlo pubblicamente. La violenza che più mi ha segnato è stata quella del sistema investigativo. Dei ripetuti interrogatori che ho subìto, soltanto alcuni sono stati messi a verbale. Trovo sconcertante e ingiusto che nessuno voglia ascoltarmi, soprattutto perché secondo l'ipotesi accusatoria io sarei la parte lesa, secondo la ricostruzione dei pm sarei la vittima. Oggi dopo aver sopportato tante cattiverie sono qui a chiedere di essere sentita. Sono vittima di uno stile investigativo e di un metodo fatto di domande incessanti sulla mia intimità, le propensioni sessuali, le frequentazioni amorose, senza mai tenere conto del pudore e del disagio che tutto ciò provoca in una ragazza di 17 anni. A 17 anni non sapevo nemmeno chi fossero i pm, non leggevo i giornali, a malapena sapevo chi fosse Berlusconi. Oggi ho capito che è in corso una guerra nei suoi confronti che non mi appartiene, ma mi coinvolge, mi ferisce. Non voglio essere vittima di questa situazione non è giusto. Chiedo che qualcuno ascolti quello che ho da dire, voglio raccontare l'unica verità possibile e lo voglio fare in sede istituzionale. La violenza che più mi ha segnato è stata quella di essere vittima di uno stile investigativo fatto di promesse mai mantenute di aiutarmi a trovare una famiglia e di proseguire gli studi. Alla pressione incessante dei magistrati ho ceduto: era più facile dire sì e raccontare storie inverosimili, piuttosto che farmi angosciare o peggio far accettare la verità che avrei voluto raccontare. Ho deciso di parlare per rispondere a chi, magistrati e giornalisti inclusi, mi ritiene una poco di buono. Sono spiaciuta di aver fatto una cavolata dicendo che ero parente di Mubarak». E contro i magistrati: «Non c’è la prova che mi prostituissi, l’atteggiamento degli investigatori fu amichevole poi cambiò quando capirono che non avrei accusato Silvio Berlusconi. A quel punto sono iniziate le intimidazioni subliminali, gli insulti nei confronti delle persone che mi avevano aiutato...una vera e propria tortura psicologica. Una volta - ha raccontato ancora Ruby - non potendone più sono addirittura scappata dalla comunità di Genova in cui mi trovavo per non dover subire ancora quella pressione e l'unico che si preoccupò e mi convinse a rientrare è stato un amico al quale sono tuttora affezionata. Sono rientrata e di fronte alla pressione incessante dei magistrati ho ceduto: era più facile dire sì e raccontare storie inverosimili piuttosto che farmi angosciare o peggio far accettare la verità che avrei voluto raccontare. Mi sono resa conto - ha continuato - che a loro non interessava nulla di me. Ho raccontato di aver incontrato persone che conoscevo solo grazie ai rotocalchi, come Cristiano Ronaldo o Brad Pitt e dentro di me mi domandavo come fosse possibile che non si accorgessero che erano frottole. Questa è stata la peggiore delle violenze che ho subito, oltre alle costanti diffamazioni riportate dalla stampa alle quali mi pento di non aver reagito prima. Ho  raccontato tante bugie, anche ai magistrati, perché mi vergognavo di me, del posto in cui sono nata, della mia famiglia, dei piccoli lavori di fortuna che sono stata costretta a fare per racimolare qualche spicciolo. Per questo ho raccontato bugie per sentirmi diversa e per convincere anche gli altri che lo fossi davvero, diversa come avrei voluto essere sempre. Mi spiace aver raccontato queste bugie anche a Silvio Berlusconi, il quale, oggi, sono sicura, si sarebbe dimostrato rispettoso e disposto ad aiutarmi anche se avessi detto la verità. La verità è che vengo da una paesino che si chiama Letojanni e che la mia famiglia vive in condizioni di grande precarietà. La verità è che per tanto tempo volevo essere un'altra persona e adesso pago il conto: il rischio di vivere il resto della mia vita con appiccicato il marchio infamante della prostituta che qualcuno ha voluto affibbiarmi a tutti i costi. Quanto alla finta parentela, «mi spiace di aver detto altre bugie sulle mie origini, ho giocato di fantasia perché il vecchio passaporto me lo ha permesso». E, per essere ancor più credibile, la giovane marocchina ha mostrato ai giornalisti un falso passaporto nel quale compariva il nome di Mubarak. «Presentarmi come la nipote di Mubarak - ha aggiunto Ruby - mi serviva a costruire una vita parallela, diversa dalla mia. Mi serviva a mostrare un’origine diversa, lontana dalla povertà in cui sono nata e cresciuta e dalla sofferenza che ho patito prima e dopo aver lasciato la mia famiglia in Sicilia. Ho subito un ennesimo episodio di intolleranza, quando la domenica di Pasqua una persona guardando mia figlia ha detto “spero che non diventi come sua madre”. Voglio che si sappia che la colpa è di quella stampa che per colpire Silvio Berlusconi ha fatto del male a me. Parlo di quei giornalisti che mi hanno violentato pubblicando le intercettazioni telefoniche che mi riguardavano». La ragazza ha spiegato di essere stata «umiliata per troppo tempo» e, ha aggiunto, «se questo è il Palazzo di Giustizia voglio che giustizia sia fatta». «Non voglio - ha concluso Ruby - essere distrutta, non voglio che venga distrutto il futuro di mia figlia a causa di un gioco pericolosissimo molto più grande di me nel quale sono stata trascinata con violenza quando avevo solo 17 anni. Voglio che mia figlia sia fiera di me». Intanto la «strega» diventa oggi l’ultima fatica letteraria di Mario Spezi in “L’angelo dagli occhi di ghiaccio” che sarà in libreria a fine marzo 2013 ma solo in Germania, perché gli editori italiani e quelli americani non lo hanno voluto stampare. Questa volta non è una ragazza chiamata Sabrina, ma una ragazza chiamata Amanda. Lasciatasi alle spalle la drammatica esperienza del Mostro, Spezi con il suo amico Douglas Preston, scrittore americano impegnato anche lui nella controinchiesta sui delitti di Firenze, in questo libro non raccontano solo la lunga vicenda giudiziaria di Amanda e Raffaele ma stabiliscono un inquietante collegamento fra l’inchiesta sul Mostro di Firenze e l’omicidio di Meredith. Due inchieste condotte dallo stesso Pm, Giuliano Mignini: «Con gli stessi argomenti», scrivono Spezi e Preston. «Rituali osceni, riti satanici, orge di sesso e sangue, omaggi a Satana, come aveva predetto una “santona” che, con le sue rivelazioni, aveva dato un contributo importante al magistrato nelle indagini sul Mostro». Amanda sembra non avere dubbi. «Contro di lei uno stillicidio che ha influito sulle persone». «L’aveva intuito anche Raffaele Sollecito che pochi giorni dopo la sua assoluzione mi confidò: “Ho capito benissimo che la mia storia è stata solo l’apice di quella di Mignini e dell’indagine perugina sul Mostro di Firenze”», rivela Spezi. Che aggiunge: «Senza l’antefatto del Mostro non si capisce fino in fondo cosa sarebbe avvenuto a Perugia nei quattro anni successivi. Un antefatto che aprì le porte dei tribunali a una nuova versione dell’antica caccia alle streghe». Ma come è stata costruita la «strega Amanda»? Spiega Spezi: «Con uno scientifico stillicidio di notizie a senso unico iniziato poche ore dopo il suo arresto. Non dimentichiamoci che quattro giorni dopo gli inquirenti annunciarono: “Il caso è chiuso”. Oggi sappiamo che nessuno di loro è colpevole. Ma in primo grado Raffaele e Amanda furono condannati. E l’opinione pubblica era colpevolista. Per loro fortuna i giudici dell’Appello fecero fare una nuova perizia scientifica e il risultato per l’Accusa fu uno tsunami: “Tutti gli accertamenti tecnici svolti prima non sono attendibili”, stabilirono i nuovi periti. Malgrado ciò fuori dal Tribunale la sera dell’assoluzione centinaia di persone accolsero la sentenza urlando: “Vergogna”. Evidentemente erano manipolati da una falsa informazione. Per loro la strega doveva finire al rogo. Tutti i mezzi di informazione diedero il massimo risalto all’assoluzione ma ben pochi indagarono sul perché era avvenuta una storia tanto grave. E ancora oggi in America chi osa difendere Amanda rischia addirittura l’incolumità. Ne sa qualcosa il mio amico Preston che sul suo blog riceve spesso pesanti minacce». Sul delitto di Sarah Scazzi sono stati scritti fiumi di parole e mandati in onda migliaia di ore di disquisizioni giornaliere sull’argomento, in salotti con gente che si improvvisava esperta di sociologia e di diritto. Avetrana è stata invasa da orde di giornalisti, ognuno portatore di pregiudizi e luoghi comuni. Sentimenti che hanno trasbordato ai loro lettori. Io conoscitore attento delle vicende umane in Italia in tema di violazione dei diritti umani in ambito della giustizia e dell’informazione, ho voluto riportare un punto di vista oggettivo che nessuno mai ha ed avrebbe avuto il coraggio di riportare. La storia di Sarah da me riportata è intrisa di storie analoghe alla sua. Ho rapportato il comportamento di media e magistratura per poter fare un parallelismo tra le varie vicende.  Chi legge i miei libri, e quello su Sarah Scazzi in particolare, non rimarrà deluso, ma si arricchirà di informazioni mai da alcuno riportate. Per esempio nessuno ha mai parlato di Valentino Castriota, il portavoce della famiglia Scazzi, che nelle prime settimane viveva in quella casa. Il Castriota non è stato mai chiamato a riferire quanto lui avesse saputo in quei giorni. Come strano è – così come ha sottolineato Franco De Jaco, difensore di Cosima Serrano, criticando l’operato della Procura – il perché, quando si è accertato che Sarah, uscita da casa, era arrivata in quella dei Misseri, non è stata sequestrata l’abitazione dei Misseri?» Tutto sbagliato, tutto da rifare: la disastrata malagiustizia all’italiana funziona così. E’ d’accordo con me Luca che scrive su “Menti Informatiche”. Processi che durano una vita e non concludono nulla; indagini che non finiscono mai; sentenze parziali e pasticciate che non reggono l’urto dell’analisi logica e costringono spesso a ricominciare tutto daccapo. Non a caso, nella speciale classifica redatta dalla Banca mondiale sul funzionamento della giustizia, l’Italia si piazza al 155° posto su 185 Paesi: siamo meglio dell’Afghanistan, ma peggio della Sierra Leone, del Malawi, dell’Iraq e della Bolivia. Per celebrare il più clamoroso processo penale di tutti i tempi, quello che nel 1946, a Norimberga, giudicò e condannò i crimini del Terzo Reich e dei gerarchi e militari nazisti, cioè 12 anni di storia, bastarono 11 mesi. Al 4 aprile 2013, dopo cinque anni e quattro mesi, noi ancora non sappiamo cosa successe veramente nella villetta di Perugia dove fu uccisa Meredith Kercher; dopo cinque anni e sette mesi, ignoriamo chi sia l’assassino di Chiara Poggi a Garlasco; dopo due anni e sette mesi dall’uccisione di Sarah Scazzi ad Avetrana si è ancora al primo grado; dopo due anni e quattro mesi, brancoliamo nel buio per l’omicidio di Yara Gambirasio a Brembate. Ci sono voluti 22 anni per ritrovarsi al punto di partenza sul mai risolto assassinio di Simonetta Cesaroni, in via Poma, a Roma; 20 anni per scoprire finalmente che l’omicida della contessa Alberica Filo Della Torre, all’Olgiata, è, nel la più classica tradizione giallistica, il maggiordomo filippino Manuel Winston, peraltro in chiodato da una intercettazione disponibile tre giorni dopo il delitto che però non fu mai ascoltata; 20 anni per avere la certezza che se le indagini sulla scomparsa di Elisa Claps a Potenza nel 1993 fossero state svolte con un minimo di competenza, il caso si sarebbe risolto in poche ore e forse Danilo Restivo non avrebbe ucciso nel 2002 in Inghilterra la sartina Heather Barnett. A proposito, qualcuno dovrà pur spiegare ai genitori della studentessa inglese Meredith Kercher, come mai un tribunale di Sua Maestà ha impiegato un anno e l i giorni per arrestare e condannare Restivo all’ergastolo, mentre noi siamo ancora in alto mare nel delitto di Perugia. Secondo le statistiche europee, i processi penali in Italia durano in media otto anni; negli altri Paesi dell’Unione, al massimo tre; negli Stati Uniti, invece, si va da un minimo di un giorno a un massimo di una settimana per la stragrande maggioranza dei casi. In Norvegia, sono bastate 10 settimane per processare e condannare Anders Breivik, autore della strage di Utoya (77 persone uccise a fucilate). Da noi ci sono processi, quelli privilegiati, accelerati perché illuminati dal faro mediatico, che avanzano faticosamente al ritmo di un’udienza a settimana e processi che si inceppano per fatti incredibili: a gennaio 2013 la Corte di Cassazione ha annullato per vizio di forma il deposito delle motivazioni del processo «Crimine infinito» sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia (110 persone condannate) perché la stampante si era rotta e mancavano 120 delle 900 pagine.

Da queste sue parole si evince che lei non ha remore a parlare degli errori, veri o presunti, commessi dai magistrati di Taranto.

«I magistrati di Taranto ed il loro operato. Il solo che si è ribellato allo strapotere dei magistrati tarantini in ambito locale è stato il dr. Antonio Giangrande, me medesimo. Io ho presentato svariate denunce a Potenza e presso altre procure competenti, quando Potenza non è intervenuta per abuso ed omissione commessi presso gli uffici giudiziari Tarantini. Naturalmente, lasciato solo, non potevo che subire l’onta del linciaggio, dell’accusa di mitomania o pazzia e dell’accanimento giudiziario, che nei miei confronti non ha prodotto alcuna condanna penale per reati d’opinione. Oggi non sono più solo. Anche l’Ilva con un esposto a Potenza denuncia i magistrati tarantini: "Accanimento contro di noi. Verificate se hanno commesso reati". La denuncia è stata depositata negli ultimi giorni di marzo 2013 da parte dell'avvocato Leonardo Pace per conto dello studio De Luca di Milano che segue l'azienda. Non dall’avvocato tarantino che segue gli interessi dell’azienda. Egidio Albanese, avvocato già presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto ed in buoni rapporti istituzionali con quei magistrati. D'altronde un ex prefetto e i magistrati erano fatti appositamente per lavorare a braccetto. Invece sono finiti in tribunale: il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante, noto per la sua moderazione e la stima che ha nella magistratura, ex Prefetto di Milano già candidato a Milano proprio per il centrosinistra, ha denunciato in procura a Potenza i magistrati tarantini che si stanno occupando del siderurgico e i custodi incaricati di vigilare il sequestro. A Taranto i magistrati non applicano la legge: loro SONO LA LEGGE. Questo atteggiamento li ha portati a disapplicare le leggi dello Stato, ma per la Corte Costituzionale la legge salva-Ilva è legittima. E dunque il colosso dell'acciaio può continuare a produrre. Perché quelle norme varate per permette all'azienda di restare in vita "non hanno alcuna incidenza sull'accertamento delle responsabilità nell'ambito del procedimento penale in corso davanti all'autorità giudiziaria di Taranto". Un'interpretazione che fa a pugni con quella dei giudici tarantini per il quali autorizzare la produzione equivale a una autorizzazione a inquinare. Anzi, a continuare a inquinare.  Questa la decisione presa dalla Consulta sulla legge 231/2012 varata a dicembre a stragrande maggioranza dal Parlamento, che ha convertito il decreto del governo Monti, intervenuto dopo il sequestro dell'area a caldo dello stabilimento e l'apertura della querelle giudiziaria che ha visto contrapporsi magistratura e politica nella ricerca di una soluzione per Taranto e per la salute dei suoi cittadini. L’azienda che ha anche minacciato di chiedere i danni per i mancati introiti, appellandosi proprio al via libera concesso con la salva-Ilva. Il lungo conflitto sulla legge è partito lo scorso luglio 2012: da un lato i magistrati di Taranto che indagano per disastro ambientale, dall'altro il governo e il parlamento che con la legge hanno di fatto superato quel provvedimento per evitare il blocco dell'attività del siderurgico. Per la Corte Costituzionale sono in parte inammissibili, in parte infondate le questioni di legittimità sollevate. Secondo il Tribunale, la norma con i suoi tre articoli ne viola cinque della Costituzione. Il gip Todisco, invece, ha rilevato elementi per sostenere la violazione di ben diciassette articoli della carta costituzionale. Profili di incostituzionalità - tra cui quello sul diritto alla salute e quello sull'indipendenza della Magistratura - che però non hanno retto al vaglio della Consulta, per la quale lo stabilimento tarantino può proseguire l'attività produttiva e la commercializzazione dei prodotti nonostante i provvedimenti di sequestro disposti dall'autorità giudiziaria. Una puntualizzazione di diritto al fine di spiegare l’eventuale scontato esito della denuncia a Potenza. Il diritto non prevede l’istituto dell’insabbiamento: o rinvio a giudizio per i denunciati o procedimento per calunnia contro Ferrante e Buffo. Chiaro no?!? Sono passati giorni da quando (11 novembre 2010) un magistrato della Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio è stato rinchiuso in casa agli arresti domiciliari dai Magistrati del Tribunale di Potenza. Magistrati denunciati proprio da Di Giorgio. Premettiamo che a marzo 2010 il Magistrato Matteo Di Giorgio aveva denunciato sia il Magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi (M.D.) sia l'ex maresciallo Leonardo D’Artizio alla Procura della Repubblica di Catanzaro per abusi nelle indagini contro di lui. In pratica la dott.sa Laura Triassi si serviva per le indagini contro il collega Matteo Di Giorgio del Maresciallo Leonardo D’Artizio, sottoufficiale dell’arma non più in servizio in quanto espulso dall’Arma perché imputato di maltrattamenti e di altri gravi reati, dai quali era scaturito anche un suicidio di un carabiniere, suo subalterno. La denuncia di Di Giorgio contro la dott.sa Laura Triassi e il maresciallo Leonardo D’Artizio provocò la reazione irata dei magistrati di Magistratura democratica, i quali intimarono a Di Giorgio di chiedere lui stesso il trasferimento presso la Procura della Repubblica di Pescara, dove c’era un posto libero, pena spiacevoli conseguenze per lui. Conseguenze che poi si sono puntualmente verificate. C’è una cittadina in provincia di Taranto di 17.000 anime che si chiama Castellaneta, in cui risiedono un parlamentare del P.D Rocco Loreto ed un magistrato della locale Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio, i cui parenti militano politicamente nell’area di centro-destra. Nell'anno 2000 infatti il parlamentare del P.D. dopo aver perso le elezioni comunali a Castellaneta, inoltra contro il Magistrato Matteo Di Giorgio ben tre denunce penali una di fila all’altra: 6 aprile 2000, 31 maggio 2000 e 2 giugno 2000. Le denunce però vengono dirottate a Potenza (sede competente a giudicare dei reati in cui è parte lesa un Magistrato che esercita le sue funzioni nel distretto di Taranto) e - fatto imprevisto - pervengono nelle mani di John Woodkock. Woodckock non è un Magistrato condizionabile, indaga da par suo e scopre che nel 2001 il parlamentare aveva contattato un imprenditore tal Francesco Maiorino, testimone nel processo affinché calcasse la mano su Di Giorgio e lo accusasse di fatti non veri per ipotizzare una sua possibile corruzione giudiziaria. Di fronte a fatti di questa gravità Woodckock arresta il parlamentare. Però, nonostante Woodckock, il processo per calunnia va avanti molto a rilento. Ancora nell’anno di grazia 2010 per fatti che risalgono nientedimeno che al 2001, non si è ancora concluso nemmeno il giudizio di primo grado. L'11 settembre 2009 interviene una novità. Woodckock si trasferisce a Napoli e nel Tribunale di Potenza si rafforza la presenza di M.D. Per Di Giorgio inizia presso il Tribunale di Potenza un autentico calvario. Altre denunce partano dalla penna del senatore del P.D. e l’11 novembre 2010 le parti si invertono. Di Giorgio rimane parte lesa di delitto di calunnia, ma diventa imputato di concussione in un altro processo che ha origine dalle denunce di cittadini di Castellaneta chiaramente di sinistra e viene posto lui questa volta agli arresti domiciliari. Si arriva così all’assurdo che nel processo per calunnia ancora in corso Di Giorgio magistrato e parte lesa dovrebbe comparire in catene e il parlamentare imputato di calunnia contro di lui, potrebbe irriderlo dal banco degli imputati. Uno scarno comunicato dei magistrati del Tribunale di Taranto colleghi di Matteo Di Giorgio all’indomani dell’emissione del mandato di cattura contro Di Giorgio (12 novembre 2010) esprime fiducia nell’operato dei giudici di Potenza e auspica però che la vicenda si chiarisca al più presto (ergo che in pochi giorni il collega Di Giorgio sia liberato). In un paese in cui i magistrati fanno interviste e pubblicano libri parlando delle loro inchieste ancora aperte, può sembrare surreale: eppure mercoledì 20 febbraio 2013 il Consiglio Superiore della Magistratura ha punito Clementina Forleo, giudice a Milano, negandole gli avanzamenti di carriera cui avrebbe avuto diritto non solo per anzianità ma anche per le valutazioni sulla sua professionalità («eccellente») fornite dal consiglio giudiziario di Milano e acquisite nel suo fascicolo. La colpa della Forleo è essere andata anni fa in televisione, ad Annozero, denunciando le pressioni dei «poteri forti» sull'inchiesta Bnl-Unipol, ovvero sulla scalata della assicurazione «rossa» alla Banca Nazionale del Lavoro. E l'inizio dei guai della Forleo iniziò quando chiese al Parlamento di poter trascrivere le intercettazioni delle telefonate di Massimo D'Alema e del suo compagno di partito Nicola La Torre, definendoli «complici consapevoli del disegno criminoso». La storia – si diceva una volta – è fatta di corsi e ricorsi storici. Con ciò si voleva dire che la storia è composta di vicende analoghe che di volta in volta nel tempo si ripetono. Quindi è presumibile che Clementina Forleo sia stata massacrata da una azione congiunta che ha visto convergere magistrati dalemiani di M.D. e magistrati finiani di M.I. Tra questi ultimi c’è anche quell’Alberto Santacaterina all’epoca Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Brindisi, affiliato a M.I., la corrente di destra delle toghe che fa capo a Gianfranco Fini, il quale in pratica si è clamorosamente e apertamente rifiutato di espletare indagini sulle minacce e sugli attentati subiti dalla famiglia della Forleo, non ultimo la morte dei genitori preannunciata da una lettera anonima (“i tuoi genitori moriranno e poi morirai anche tu“;) e puntualmente verificatasi venti giorni dopo a seguito di uno “strano” incidente stradale. Alberto Santacaterina finì sotto processo per questo motivo, fu a un passo dall’essere sottoposto a mandato di cattura da parte di un valoroso magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Ferdinando Esposito per associazione a delinquere, falso, omissioni di atti d’ufficio, abuso in atti d’ufficio e altri reati. Poi, a seguito di un altro strano incidente stradale il giudice Ferdinando Esposito precipitò in una scarpata. Stette lì lì per morire, dovette abbandonare l’inchiesta che passò – provvidenzialmente per Santacaterina – nelle mani di un Magistarto di M.D. Cristina Correlae e tutto si sistemò. In seguito Alberto Santacaterina si troverà in premio a fare il Sostituto Procuratore distrettuale anti-mafia presso la Procura della Repubblica di Lecce. Alcuni Magistrati della stessa Procura della Repubblica di Lecce vorrebbero incriminare i valorosi magistrati della Procura della Repubblica di Bari Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sulla base di una denuncia del magistrato sempre di Bari e di M.D. Giuseppe Scelsi. I Magistrati Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sono i magistrati i quali, meritoriamente, hanno scoperchiato il pentolone puteolento della malasanità pugliese.  Anche i magistrati del Tribunale di Taranto si son visti recapitare un messaggio inquietante attraverso l’arresto disposto dal magistrato di MD della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi del loro valoroso collega Matteo Di Giorgio già delegato su Taranto per le indagini anti-mafia dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce diretta dal valoroso magistrato Cataldo Motta. Il mandato di cattura è stato poi in gran parte annullato dalla Cassazione ma al dott. Matteo di Giorgio continua a essere imposta la misura del soggiorno obbligato e la sospensione dal servizio e dallo stipendio che dura ormai da anni. Per aver pubblicato sul mio sito web le vicende attinenti il caso di Clementina Forleo, la Procura, il GIP ed il Tribunale di Brindisi, prima, e la Procura, il GIP ed il Tribunale di Taranto, poi, hanno pensato di incriminarmi per violazione della Privacy e di oscurare l’intero sito di centinaia di pagine, con vicende estranee a quelle oggetto di processo. Ma “un giudice a Berlino” ha rimesso le cose a posto, pronunciando l’assoluzione perché il fatto non sussiste. In questo processo, ossia nel processo per il delitto di Sarah Scazzi, quel che salta agli occhi di chi ha anche poca dimestichezza con le cose di giustizia e che palesemente si evidenzia è la incoerenza assoluta del pensiero dei magistrati. I moventi del delitto secondo l’accusa: gelosia per Ivano, anzi, no; lesione dell’onore e della reputazione familiare, anzi, no; gelosia tra sorelle. Uno vale l’altro, c’è solo l’imbarazzo della scelta. La ricostruzione del delitto secondo la procura avallata dal Gip di Taranto, in base alle motivazioni delle custodie cautelari di Pompeo Carriere e Martino Rosati: 6 ottobre 2010, Michele Misseri confessa ai carabinieri, in un interrogatorio a Taranto, di aver ucciso Sarah, strangolandola nel garage di casa dopo un rifiuto alle sue avances, e di aver abusato del cadavere in campagna. Nella notte fa ritrovare il corpo, gettato in un pozzo-cisterna, anzi, no; Sabrina (d’accordo con il padre che uccide Sarah) ha trascinato con forza nel garage la cugina Sarah con il proposito di darle una lezione, al fine di evitare che la ragazzina potesse diffondere in paese la notizia delle attenzioni sessuali riservatele dallo zio, delle quali anche Sabrina era venuta a conoscenza, anzi no; l’omicidio è stato commesso esclusivamente da Sabrina, in garage, fra le 14.28.26 e le 14.35.37, anzi no; l’omicidio è stato commesso dalla sola Sabrina, in garage, prima delle ore 14.20, anzi, no; l’omicidio è stato commesso da Sabrina, in concorso con la madre, e non più in garage, ma in casa. Inoltre, i difensori degli imputati hanno lamentato di essersi trovati di fronte a una memoria di 599 pagine depositata dal pubblico ministero che, al contrario di quanto era stato assicurato, non sarebbe una mera riproduzione della requisitoria pronunciata in aula, ma conterrebbe alcuni fatti nuovi, che stravolgerebbero la stessa e presenterebbe delle contraddizioni. Quando si pensa che in un dato ufficio giudiziario giudicante vi possa essere il dubbio che il giudizio possa esser influenzato da fattori esterni al processo, la legge dà la possibilità al cittadino di presentare alla Corte di Cassazione il ricorso per rimessione in altro luogo del processo per legittimo sospetto che il giudizio non sia sereno. E’ il ricorso per legittima suspicione. Questo ricorso è stato presentato da Franco Coppi, e non poteva essere proposto se non da un avvocato estraneo al Foro di Taranto anche per ragioni di opportunità, oltre che di coraggio, così come è stato da me presentato per le mie vicissitudini ritorsive, proprio perché, io parlando senza peli sulla lingua sono molesto ai magistrati di Taranto che, da me criticati, pretendono di giudicarmi per quello che scrivo. Purtroppo la Corte di Cassazione mai ha accolto un ricorso del genere, disapplicando di fatto una legge dello Stato per tutelare i loro colleghi magistrati, a scapito della vita di un presunto innocente, dichiarato erroneamente colpevole. Condannate, in primo grado, all’ergastolo Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano per l’omicidio di Sarah Scazzi. La Corte di Assise di Taranto ha disposto anche l’isolamento diurno di 6 mesi in carcere per entrambe. 8 anni a Michele Misseri per concorso nella soppressione del cadavere della nipote e per furto aggravato del telefonino della vittima. Condannati a 6 anni Carmine Misseri e Cosimo Cosma, fratello di Michele Misseri il primo e nipote il secondo, per concorso in soppressione di cadavere. 2 anni a Vito Russo, ex avvocato di Sabrina, condannato per intralcio alla giustizia. 1 anno a Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano e 1 anno e 4 mesi a Giuseppe Nigro, tutti testimoni del processo condannati per falsa testimonianza, con pena sospesa. La Corte di assise di Taranto ha condannato anche Michele Misseri, Cosima Serrano e Sabrina Misseri al risarcimento dei danni, da stabilire in separata sede, alla famiglia Scazzi e al Comune di Avetrana. Nello stesso tempo ha stabilito una provvisionale di 50mila euro ciascuno ai genitori di Sarah, Giacomo Scazzi e Concetta Serrano, e di 30mila euro per il fratello Claudio. La sentenza è stata letta in aula dalla presidente Rina Trunfio che ha dovuto chiedere a forza il silenzio per fermare l’applauso spontaneo dei presenti in aula alla lettura della sentenza. Durissima la reazione alla sentenza della madre di Sarah Scazzi, Concetta Serrano Spagnolo: “chi uccide merita questo”. Le posizioni dei testimoni che non hanno testimoniato a favore dell’accusa saranno vagliate dallo stesso ufficio della procura. Come volevasi dimostrare e come già ampiamente anticipato a tutta la stampa e ad “Affari Italiani” del 15 novembre 2011 «posso profetizzare la condanna per gli imputati, in 1° e 2° grado, con assoluzione in Cassazione». D’altronde lo stesso Franco De Jaco, difensore di Cosima Serrano, aveva avvertito lo stesso sentore. «Perché qui commetterete un altro omicidio, oltre quello perpetrato in danno di una povera ragazzina. E un altro omicidio è quello di mettere in galera, all’ergastolo due innocenti, una giovanissima peraltro. E’ un altro omicidio. E’ inutile per la difesa arrampicarsi sugli specchi perché tanto la Corte, attenzione, non la gente, la Corte ha già la sentenza, ha già deciso. Quando io sento queste cose mi sento mortificato come cittadino, pur sapendo che ciò non è vero. Però quando viene trasferito questo segnale, quando viene trasferito questo pensiero, noi generiamo nella gente quello che sta avvenendo: la rivolta. Non la rivolta verso la politica; la rivolta verso le istituzioni.» Per quanto preannunciato a tutta la stampa ed ad “Oggi” il 16 febbraio 2012, senza intenti diffamatori ho chiesto agli avvocati in causa ed a tutta la stampa: come è possibile che a presiedere la Corte d’Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio e collega dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero. Ex colleghi oggi facenti parte dell’attuale collegio accusatore nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto? Qualsiasi decisione finale sarà presa, sarà sempre adombrata dal dubbio che essa sia stata influenzata dalla colleganza funzionale e territoriale. Ma avvisaglie ci erano già state. Non devono essere piaciute le risposte della testimone Liala Nigro alla giudice popolare. Troppo a favore di Sabrina Misseri? Certamente quella frase sfuggita ad alta voce e detta all’orecchio della sua collega di giuria popolare non è sembrata opportuna alla difesa, tanto che l’avvocato Nicola Marseglia ha fatto presente il fatto alla presidente Rina Trunfio chiedendo l’astensione della signora. E dopo una breve riunione la giudice ha letto la sua astensione «per motivi personali». Sarà!, commenta Maria Corbi, giornalista de “La Stampa”. E il fatto che la giudice si sia astenuta certo fa pensare. E che dire dei giudizi espressi dai giudici togati. Tutto tranquillo se non foss’altro che un fuorionda tra i giudici irrompe nel processo. Presidente Trunfio: «certo vorrei sapere, là, le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati… tra di loro e se si daranno l’uno addosso all’altro.» Giudice latere Misserini: «ah, sicuramente.» Presidente Trunfio: «bisogna un po’ vedere, no, come imposteranno… potrebbe essere mors tua via mea. Non è che negheranno in radice.» Il fuori onda semina imbarazzo al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Nelle mani della difesa è finito un dialogo, in aula, tra il giudice Rina Trunfio, presidente della Corte di Assise, e il giudice a latere Fulvia Misserini. Le due discutono delle imputate, Sabrina Misseri e sua madre Cosima, che potrebbero, secondo le supposizioni dei giudici - sembra dalla conversazione - optare per una strategia incrociata nella difesa che le porterebbe ad accusarsi a vicenda, La conversazione è stata catturata dai microfoni delle telecamere autorizzate a riprendere il dibattimento.  In particolare la frase che ha colpito gli avvocati è quella dove il presidente della corte d’assise, il giudice Cesarina Trunfio, dice: “(Non è che) negheranno in radice”. «Si evince che hanno già una ben definita opinione che non rinviene necessariamente da una valutazione attenta degli atti ma da un'idea precostituita». Spiega l'avvocato Franco De Jaco. Il professor Franco Coppi parte da solo all’attacco, e non poteva esser altrimenti, e viene seguito soltanto da un componente del collegio difensivo, Franco De Jaco, legale di Cosima, nella formulazione della richiesta di astensione dei giudici della Corte d’Assise. Ed è sulle iniziative da adottare dopo il fuorionda che si spacca l’ampio collegio difensivo. Uno degli avvocati di Cosima, Luigi Rella, dimissionario presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce, va via in netto anticipo rispetto alla fine dell’udienza. Marseglia nel corso del suo intervento spara a zero sugli inquirenti e sulla conduzione dell’inchiesta. «Vi stanno proponendo un errore giudiziario sulla base di prove acquisite in modo barbaro, in perfetto stile cubano. Sulla base di elementi forniti da testimoni che sostengono una giusta causa perché è una giusta causa, sono i metodi per sostenerla che non sono giusti, che fanno indignare e impegnano la difesa fino allo spasimo perché questo modello procedimentale, prima che processuale, non deve passare, perché questa inchiesta è stata condotta in maniera intollerabile in quanto ad acquisizione della prova. Un enorme errore giudiziario costruito su prove acquisite nel corso di deposizioni in cui gli inquirenti hanno usato metodo sbagliato che la legge vieta ». Ciò nonostante Marseglia lascia da solo il professore nell’iniziativa contro l’assise giudicante. «Non posso che invitarvi a valutare la possibilità e il dovere di astenervi», ha chiesto senza mezzi termini ai giudici. «Domani – ha aggiunto Coppi – siamo disposti a riprendere il cammino se ci verrà restituita quella serenità che in questo momento mi è stata tolta. Un difensore – spiega Coppi – non può non rappresentare ai giudici le sue perplessità e le sue preoccupazioni, il giudice ha diritto alla sua serenità ma anche il difensore ha diritto alla serenità di parlare con un giudice terzo, imparziale, che fino all’ultimo momento è disposto ad ascoltare le ragioni dell’accusa e della difesa. Con quale spirito continuiamo ad affrontare al processo? Vi chiediamo una dichiarazione che vi rassereni ma che ci chiarisca il senso di quelle frasi che suscitano preoccupazione. Ci aspettiamo dalla corte un chiarimento che ci restituisca serenità salvo decisioni diverse che potete assumere. Chiediamo che i giudici togati valutino la possibilità di astenersi». Coppi non ha gradito una frase relative a possibili strategie difensive in cui «si fa riferimento ad accordi fra i difensori, c’è cordialità ma non accordi». La presidente Trunfio, da parte sua, visibilmente contrariata, ha alzato le spalle dicendo che non dipendeva da lei tale decisione facendo così intendere di essere disposta al rischio di una ricusazione la cui ultima parola spetta, in questo caso, alla Corte d’appello del Tribunale. Medesima richiesta di astensione è stata fatta subito dopo dall’avvocato De Jaco mentre il suo collega del collegio difensivo, Luigi Rella, aveva lasciato inaspettatamente l’aula. Alla richiesta di astensione formulata dal professore si associa soltanto un componente del collegio difensivo. Ampio collegio, composto dai tantissimi avvocati, più del numero richiesto rispetto ai molti imputati. Avvocati locali, tra cui Lorenzo Bullo, difensore di Carmine Misseri e già praticante avvocato di Nicola Marseglia, di cui ha assunto il modus operandi. Franco De Jaco: «Sono frasi che ci hanno messo in allarme. E’ normale per noi che due colleghi si scambino delle opinioni ma quello che ci preoccupa è l’ultima frase, “non possono negare in radice i fatti”. Diamo la patente di buona fede a quelle dichiarazioni, non ci sono dubbi di nessun genere. Domani se noi la rivedremo qui e saremo rasserenati». Le affermazioni, che De Jaco definisce «imprudenti», anche per il difensore evidenzierebbero «una opinione già precostituita». «Non posso far finta di niente di fronte a certe affermazioni». Imbarazzante, infine, la posizione di Marseglia il quale è stato colto di sorpresa dalla mossa del professore. Da segnalare l’evidente scollamento del collegio difensivo di Sabrina Misseri. «Il mio intervento è a titolo individuale perchè non ho avuto modo e tempo di potermi consultare con l’avvocato Marseglia impegnato nella fatica della sua discussione», ha voluto precisare Coppi mentre il suo collega Marseglia dopo 7 ore di arringa lasciava il tribunale inseguito dai giornalisti ai quali ha confermato di essere all’oscuro di tutto. «Se le cose stanno come mi dite – ha poi dichiarato riferendosi al fuori onda galeotto – spero domani di sentire le spiegazioni della presidente Trunfio e di poter andare avanti con la mia arringa che è ancora impegnativa». Ma nessun avvocato del foro si associa. Solitamente sono i legali a lamentare il condizionamento ambientale dei magistrati presentando richiesta di rimessione. Evidentemente il condizionamento ambientale non vale soltanto per i magistrati. Da pensare è il fatto che un avvocato che si mette contro i giudici può rischiare di non esercitare più la professione forense (procedimenti penali pretestuosi o procedimenti disciplinari fittizi), ovvero rischia di perdere tutte le cause, ovvero rischia che i suoi protetti non passino l’esame di avvocato con i magistrati criticati nelle commissioni d’esame. Chi lo dice? Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in riferimento all’esame di avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. Questo deve far riflettere i profani del diritto. Riflessione generale sul mondo forense italico. A chiacchiere son tutti bravi. I veri avvocati si distinguono dagli “azzeccagarbugli” succubi del potere di manzoniana memoria, proprio nell’adozione di certi atti. Ma come disse don Abbondio  “se il coraggio uno non ce l’ha, non se lo può dare”. Appunto e proprio per questo a Franco Coppi va il premio della Camera Penale di Bari “Achille Lombardo Pijola per la Dignità dell'Avvocato”. La decisione di assegnare il premio al prof.Coppi – è detto in una nota – è “per lo stile che ha saputo dare, quale difensore in un delicatissimo processo in terra di Puglia, esempio luminoso di professionalità e di dignità dell'Avvocato”'. Il riferimento è al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, in cui Coppi difende Sabrina Misseri, cugina della vittima. Peccato però che gli avvocati vili e ignavi continuano sì ad esercitare in combutta con i magistrati, ma intanto a pagarne le pene sono i loro clienti. Per esempio in questo caso si noterà chi è molte spanne sopra ai colleghi, presunti principi del Foro.  Chi lo dice questo? Lo dice chi principe del foro lo è davvero. Franco Coppi: «Poi c’è chi ritiene di far finta di niente e chi ha il coraggio di dire alla giudice che in questo momento non si fida.» «La difesa non è spaccata. Il professor Coppi ha sempre la forza e il coraggio di assumere tutte le posizioni che deve assumere un avvocato comode o scomode che siano». Così risponde, suo malgrado, Nicola Marseglia, l’altro difensore, con Coppi, di Sabrina Misseri. Naturalmente i media stanno lì a limitare la portata della gravità delle affermazioni ed ad affannarsi ad accusare i legali di difesa di prendere la palla al balzo per bloccare un processo terminale. Esemplare è l’editoriale pro magistrati del direttore di studio 100 tv, emittente tarantina e notoriamente vicina alla Procura di Taranto. « Insomma. Naturalmente tutti usano i mezzi possibili ed immaginabili per far vincere le proprie tesi. Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il terribile omicidio.» Avetrana:”Humus sociale e culturale che ha prodotto il delitto; ambiente malsano scandagliato dai magistrati tarantini”, dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, diffamando il paese di Sarah Scazzi e dei Misseri, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini. Sia mai che le imputate, ancora presunte innocenti, potessero uscire di galera. In seguito di ciò la Corte d’Assise di Taranto ha deciso di astenersi nel processo sull’omicidio di Sarah Scazzi trasmettendo gli atti al presidente del Tribunale dopo la diffusione del video con fuori onda tra presidente e giudice a latere. «Abbiamo chiesto ai giudici di valutare l’opportunità o meno di astenersi, abbiamo sollevato un problema come qualsiasi altro difensore degno di questo nome avrebbe fatto. I giudici hanno dato dimostrazione di scrupolo rimettendo la valutazione dell’astensione al presidente del tribunale. Non si tratta di ottenere o non ottenere qualcosa – ha aggiunto Coppi – non era un risultato al quale noi puntavamo. Abbiamo sollevato semplicemente un problema che ci sembrava non potesse non essere sollevato in relazione a delle frasi che erano state rese pubbliche. Ci atterremo alla decisione del presidente del tribunale. Chi dice che si tratta di un attacco strumentale alla Corte si deve vergognare di dirlo perchè io ero sceso a Taranto per discutere il processo. Ieri c'è stata questa sorpresa - ha aggiunto Coppi – e io, che ho insegnato sempre ai miei allievi che bisogna avere con la toga addosso di avere il coraggio di assumere tutte le iniziative che rientrano nell’interesse del cliente, ho fatto quello che la mia coscienza mi imponeva di fare. Non vado a cercare mezzucci, che me ne importa del rinvio di un giorno o di un mese in un processo dove si discute di ergastolo. Quindi chi dice queste cose è completamente fuori strada e dovrebbe anzi vergognarsi di dirle, se sono state dette.» Comunque il presidente del Tribunale di Taranto Antonio Morelli, come è normale per quel Foro, ha respinto l'astensione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini, rispettivamente presidente e giudice a latere della Corte d'Assise chiamata a giudicare gli imputati al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. I due magistrati si erano astenuti, rimettendo la decisione nelle mani del presidente del Tribunale dopo la diffusione di un video in cui erano “intercettate” mentre si interrogavano sulle strategie difensive che di lì a poco gli avvocati avrebbero adottato al processo. Secondo il presidente del Tribunale però dai dialoghi captati non si evince alcun pregiudizio da parte dei magistrati, non c'è espressione di opinione che incrini la capacità e serenità del giudizio e quindi non sussistono le condizioni che obbligano i due giudici togati ad astenersi dal trattare il processo. Il presidente del Tribunale di Taranto ha respinto l’astensione dei giudici dopo che era stata sollecitata dalle difese per un video fuori onda con frasi imbarazzanti dei giudici sulle strategie difensive delle imputate. E adesso si va avanti con il processo. Tocca all’arringa di Franco Coppi. Posti in piedi in aula. Tutti gli avvocati del circondario si sono dati appuntamento per sentire il principe del Foro. Coppi inizia spiegando il perché della loro richiesta di astensione: «L’avvocato De Jaco ed io abbiamo sollecitato l’astensione in relazione alle frasi note. Noi difensori non avremmo potuto fare nulla di diverso. Hanno detto che era un’ancora di salvezza insperata. Chi ha detto quelle cose offende quella toga che io indosso e che forse anche lui indossa. Nulla è stato fatto per rendere più difficile il cammino della giustizia. E da un mese che studiamo per l’arringa difensiva. Sono venuto a Taranto domenica scorsa con la voglia di discutere questo processo. Abbiamo appreso di questo scambio di battute, abbiamo fatto quello che tutti gli avvocati degni di questo nome avrebbero fatto. Ci siamo rimessi esplicitamente alla coscienza dei giudici, non c’era bisogno della ricusazione. Volevamo una risposta che ci acquietasse. …abbiamo parlato alle vostre coscienze…. Abbiamo messo in gioco la simpatia presso di voi, ma la toga impone iniziative di questo tipo. Noi dovevamo fare quello che abbiamo fatto. Abbiamo avuto una risposta che viene dalle vostre coscienze e spero che la vicenda sia chiusa così. Se ci saranno altri seguiti non dipenderà da noi. Credo di essere ugualmente legittimato di porre a lei il mio saluto e la dimostrazione del mio ossequio insieme all’augurio che la sentenza che voi state per pronunciare sia quale il popolo attende, ossia solamente espressione di verità e di giustizia». «Dunque ergastolo parola tanto attesa da un’opinione imbevuta di messaggi televisivi. Questa parola è stata finalmente pronunciata, non un dubbio scuote il pm e di ciò noi non abbiamo nessun dubbio. Altrimenti la richiesta sarebbe stata diversa. Dice di essere sereno, caso mai condito con un po’ di amarezza. Non importa che Michele Misseri abbia ripetuto in questa aula di essere stato lui l’unico assassino. E questo non è sufficiente a far venire un ragionevole dubbio, nonostante la sentenze della Cassazione che sottolineano come una condanna oltre ogni ragionevole dubbio debba esserci solo quando non esiste una ipotesi alternativa. E non vediamo come si possa parlare di una tesi oltre ogni razionalità umana, quando Misseri ha confessato, ha fatto ritrovare i vestiti, il cellulare, il luogo di sepoltura. Come si può pensare che questa ipotesi sia al di la della razionalità umana? …. Non riusciamo a comprendere come l’ipotesi di Michele Misseri colpevole non sia dotata di razionalità pratica. Altrimenti seguendo il ragionamento del pm dobbiamo dire che la Cassazione è ininfluente. E dobbiamo ricordare che due volte la corte di Cassazione ha dichiarato fragile l’indizio del movente gelosia, e che non ci sono sufficienti gravi indizi a carico di Sabrina. Ma questo non ha nessuna importanza per i pm. Anzi hanno la massima serenità nel chiedere la condanna all’ergastolo per questa ragazza. Un’accusa cieca che non si rende conto delle contraddizioni delle accuse con cui chiede la condanna al’ergastolo. Ha detto o non ha detto che è stato un movente d’impeto? E per questo si chiede l’ergastolo. E’ vero che viene contestato il sequestro in cui assorbe l’omicidio. Ma questo è il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, non di sequestro. E l’omicidio è delineato come animato da un dolo d’impeto. Nonostante tutto ciò: ergastolo. Dico questo per sottolineare alcuni aspetti dell’intervento del pm, per spiegare poi tutto l’apparato critico che intendo dispiegare per dimostrare l’infondatezza dell’impostazione del pm. Ma iniziamo con il dire che la richiesta del pm coincide con una larghissima attesa dell’opinione pubblica. Nego che il pm abbia voluto compiacere all’opinione pubblica, ma certamente c’è una corrispondenza. E una corrispondenza con le sentenze emesse nei vari salotti televisivi. Non è detto che la vox populi sia anche una vox dei. Io ricordo l’ammonizione del presidente di questa corte che ci ha avvertito che a loro interessa solo quello che accade in questa aula». Il professor Coppi parla anche di conduttori, consulenti, qualche magistrato che vanno in televisione «che senza conoscere gli atti di questo processo hanno pontificato con quella sciocca sicumera che è figlia dell’ignoranza». «Abbiamo visto anche testimoni che hanno applaudito quando Cosima è stata arrestata. Voi dovreste essere solo i notai di queste sentenza di condanna popolare. Quest’aula, anche se non ha la responsabilità di quello che accade fuori di essa, ha comunque assorbito il fastidio e l’astio nei confronti dei difensori degli avvocati di Sabrina Misseri. Non abbiamo nessuna intenzione di trasformare questa discussione in una questione personale, lasciamo perdere gli insulti di cui siamo stati oggetti. Lasciamo stare le minacce. Che ci lasciano del tutto indifferenti. Lasciamo perdere tutte le sfide, tutti i paragoni, le domande impudenti volte a sapere chi è che ha retribuito la nostra attività. E quale sarebbe il tornaconto che a noi verrebbe? A tutti ricordo che io sono un vecchio avvocato innamorato della giustizia e mi sia concesso di ripetere a voce alta: solo questo m’arde e solo questo mi innamora. Sono qui soltanto per spirito di giustizia. Non accuserei mai di un omicidio Misseri sapendo che è colpevole la mia cliente. Se posso far passare sotto silenzio le offese che riguardano la mia persona non posso far passare le offese sul merito di questa causa». «Una barzelletta è stata definita la nostra ipotesi del movente sessuale. Vedremo se questa tesi è una barzelletta. Certo non posso negare che quel giudizio non sia anche una sorprendente offesa nei confronti della mia persona. Ne parleremo a lungo della responsabilità esclusiva di Michele Misseri. Il pm dice che hanno dovuto subire una istanza di remissione, come se questo costituisse un offesa. Ma vi siete chiesti signori del pm cosa abbiamo dovuto subire noi difensori? Vi siete chiesti perché l’abbiamo chiesta? Vogliamo ricordare i motivi di quella remissione? Ma vi rendete conto che quando noi abbiamo inteso svolgere investigazioni difensive, anche solo per andare in carcere a sentire Michele Misseri, che il giudice ha imposto la presenza del procuratore della Repubblica a una attività difensiva? C’è tutta l’Italia che ride. E non dovevamo proporre un’istanza di remissione? E vi siete chiesti perché la procura generale ha espresso parere favorevole alla remissione? E vogliamo ricordare le modalità con cui si è proceduto all’interrogatorio di Michele Misseri? “Ma Michele stai tranquillo, a Sabrina non succederà niente”. Vogliamo ricordare l’incidente del giudice popolare che si è dovuto dimettere? (per avere offeso una testimone della difesa). Vogliamo ricordare la lista dei testi messi sotto processo per falsa testimonianza e favoreggiamento? Non si può dire una parola a favore di Sabrina Misseri senza finire sotto processo. Vogliamo ricordare la nomina di una consulente di Michele Misseri che data la sua specializzazione non capiamo a cosa servisse, che addirittura partecipa all’interrogatorio, che sposta il difensore per procedere lei stessa a fare domande? Anche perché questa consulente si era già pronunciata dicendo che Michele era un pedofilo, l’unico responsabile del delitto. Aveva già conquistata la ribalta televisiva accusando il suo futuro cliente. Una nomina che mi porta a pensare all’articolo 64 secondo comma, all’articolo 188 … Io mi sono dovuto ben guardare di svolgere qualche attività non per paura ma per l’interesse della mia cliente. Noi abbiamo una sola speranza e per questo abbiamo valutato l’astensione. Noi vogliamo avere la fiducia che voi signori giudice saprete allontanarvi dalle suggestioni che vengono da fuori ma anche da dentro questa aula riconoscendo le ragioni della difesa. Le nostre ragioni sono basate sui fatti non alla fantasia e attingono alla logica e al buon senso. Manzoni diceva «Il buon senso c’è, ma è nascosto dal senso comune». Noi dobbiamo guardare agli atti sostituendo al senso comune il buon senso. Uno scrittore americano ha scritto che esistono quattro categorie di giudici quelli con il cuore ma senza testa, quelli con la testa ma senza cuore, quelli senza cuore e senza testa e quelli con il cuore e con la testa. Noi siamo convinti di parlare a giudici che fanno parte di quest’ultima categoria e testa e cuore significa coscienze e cuore di un giudice che ha la forza di sconfessare i pm e di assolvere un imputato per cui è stata chiesta la pena dell’ergastolo. Tutti i nostri testimoni sono sotto processo per falsa testimonianza. Brandelli di verità che sono importanti per noi. Va punita Sarah, e la prima idea che gli viene in mente per spiegare perché Sabrina porta Sarah in garage (una delle versioni di accusa) è proprio questa. Quale valore possono avere le sue dichiarazioni dopo tante versioni? La ritrattazione della ritrattazione? Potremmo dire che una ritrattazione annulla l’altra e si deve tornare alla confessione. Ma abbiamo ben altri argomenti. Iniziamo a chiederci il valore della confessione. Come si può definire prima di riscontri la sua confessione? Visto che ha fatto ritrovare telefonino, corpo, chiavi. La confessione è comunque una prova che non esige riscontri, come stabilisce la Cassazione. Non ha bisogno di riscontri esterni. Ma quanti ergastoli sono stati dati con una semplice confessione. Michele Misseri il 6 ottobre è ascoltato come persona informata sui fatti. I pm a quel punto hanno già sospetti su Sabrina, l’hanno già ascoltata il 30 e le hanno detto che sta dicendo delle falsità pazzesche. Questo è l’atteggiamento dei pm come risulta dall’interrogatorio del 30 settembre. I pm maturano l’idea che Sabrina sappia, che sia addirittura coinvolta bell’omicidio, Ma quel 6 ottobre Misseri inizia a cadere in qualche contraddizione, sugli orari, sulla raccolta dei fagiolini. E lo incitano a dire la verità. E il pm inizia a insinuare l’idea che possa essere capitato un incidente, una disgrazia. «Si liberi un po’, ci faccia capire». La confessione spiazza i pm, bisogna nominare un difensore d’ufficio, ma la pista Sabrina non viene eliminata. E i pm non hanno la capacità di eliminare una pista a cui si erano affezionati. E iniziano gli interrogatori. Michele prima coinvolge la figlia come spettatrice (papà cosa hai fatta) , poi c’è la chiamata in correità e infine la chiamata in reità. Mi chiedo se non si siano state tecniche persuasive che hanno vincolato la libera determinazione di Michele Misseri, che non aveva la forza di resistere alle domande di un pubblico inquisitore. E’ singolare, come i mutamenti di versione avvengono quasi sempre dopo una sospensione di un interrogatorio e dopo una serie di rassicurazioni e di inviti su Sabrina. «Questo per scagionare Sabrina, Miché, stai tranquillo….». Anche Nicola Marseglia per Sabrina Misseri, nonostante il suo smisurato rispetto per i magistrati tarantini  afferma che «Questo è un processo particolare, abbastanza atipico. E' il processo di Sabrina Misseri, a Sabrina Misseri. E' stato così sin dal primo momento. Il capitano Nicola Abbasciano, ex comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri, che fu posto al vertice delle indagini, l'aveva individuata fin dal primo momento insieme a Ivano Russo – dice l'avvocato Nicola Marseglia - Si coltiva questa ipotesi di lavoro dall'inizio. La confessione di Michele Misseri - ha aggiunto Marseglia - ha spiazzato l'ufficio del pubblico ministero e ha introdotto un elemento spurio di ipotesi di lavoro a cui non aveva pensato nessuno. Da qui nasce l'equivoco nei confronti di Sabrina, che subisce una serie di aggiustamenti nel corso delle indagini che non conoscono alternative.» Questo la dice tutta sul clima che si respira a Taranto e sulla conduzione dei processi. A Taranto poi, c’è il paradosso dei rei confessi in libertà e di chi, dichiarandosi innocente, senza cedimenti e da presunti innocenti nelle more del processo, rimane per anni in carcere. A Taranto sono troppi gli errori giudiziari ed i reo confessi che non sono creduti, in onore di una tesi accusatoria frutto di un personale modo di pensare proprio di un magistrato requirente, che non può pregiudicare anni d’indagine da lui condotte, ed in virtù di un appiattimento a questa tesi dovuto ad un libero convincimento di una persona normale, suo collega, che fa il magistrato giudicante avendo vinto un concorso pubblico. Magistrati inseriti in un ambiente dove si tifa per la colpevolezza di qualcuno sotto influenza mediatica locale e nazionale. La stampa, anziché riportare i fatti e concentrasi sul perché l’evento confessato sia avvenuto, si concentra a minare la credibilità del confessore. E meno male che la confessione nel codice di procedura penale è considerata una prova regina! Sembra, infatti, che la percezione che i giurati hanno della sicurezza di un testimone, sia responsabile per un 50% delle variazioni nel loro giudizio sulla credibilità del testimone e che, in ogni caso, la maggior parte delle giurie crede che la sicurezza e la precisione di un resoconto testimoniale siano tra loro correlate positivamente, reputando più attendibile la testimonianza resa dalle forze dell'ordine o di chi riferisce nel racconto molti dettagli marginali, sopravvaluta il tempo impiegato per commettere un crimine e la possibilità di riconoscere un volto a distanza di mesi. Detto questo e in riferimento alle confessioni si richiama un altro caso. Il “killer delle vecchiette”. Ma ormai il “killer delle vecchiette” è morto. E se dalla stampa era venuto questo appellativo di killer qualche omicidio doveva pur averlo commesso, sì, ma per i magistrati di Taranto era colpevole solo per quell’unico delitto per il quale non erano stati capaci di accusare qualcuno. E' morto il 15 dicembre 2012 nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Padova il detenuto tunisino 49enne Ben Mohamed Ezzedine Sebai, conosciuto come il 'serial killer delle vecchiette', trovato impiccato il giorno prima nella sua cella del carcere di Padova. Il legale di Sebai, l’avvocato veneziano Luciano Faraon, ha anche sollevato dubbi sul fatto che il suo assistito si sia effettivamente suicidato. Secondo il legale, dopo una recente sentenza della Cassazione che ha annullato con rinvio una condanna per un omicidio commesso da Sebai a Lucera, il tunisino era infatti nelle condizioni di ottenere la revisione dei suoi processi in quanto non in grado di intendere e volere a causa di una lesione cerebrale subita da piccolo. Aveva quindi, secondo il legale, molte speranze di potere tornare a casa o in un centro adatto alla sua patologia. Condannato a cinque ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. Altra vergogna, altro precedente. 15 aprile 2007. Carmela volava via, dal settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi, ma soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui si era rivolta per denunciare e chiedere aiuto. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso, il padre di Carmela - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile. Altro precedente. È il più clamoroso errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero dell’Economia ha deciso di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4 milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2 mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso. Il caso di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una transazione insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero dell’Economia ha capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso vissuto dall’uomo che oggi può tentare di rifarsi una vita. Così, per il tramite dell’avvocatura dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il ministero e la Corte d’Appello di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto». In pratica, Morrone prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere. E i soldi arriveranno subito: non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già viste in situazioni analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele Barillà, rimasto in cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno sfortunato scambio di auto. Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti. Altro precedente: non erano colpevoli, ora chiedono 12 mln di euro. Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono tornati in libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento. Pedone, meccanico di 51 anni, da innocente ha trascorso quasi otto anni in cella prima di intravedere bagliori di giustizia. Ma gli elementi che hanno portato all’affermazione della sua innocenza e di altri tre imputati erano già parzialmente emersi nel corso del processo madre. «E’ certo - ha detto l’avvocato Petrone - che qualcuno sapeva di quanto avvenuto durante le indagini». Ora per gli innocenti si apre un lungo iter processuale per ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione. Carlo Petrone è l’avvocato di Dora Chiloiro nel processo sul delitto di Sarah Scazzi, accusata anch’essa di falsa testimonianza.»

Come si è comportata la stampa e la televisione in questa vicenda che ha colpito, sì, la famiglia Scazzi e Misseri, ma anche tutta la comunità avetranese?

«Anche Hollywood fa la sua comparsa nel processo Scazzi. L’accurata arringa dell’avv. Franco De Jaco affida al potere delle immagini di un film in bianco e nero del 1957 il destino della sua assistita. La pellicola diretta da Sidney Lumet, intitolato “Parola ai giurati” e magistralmente interpretato da un superbo Henry Fonda, racconta l’accorata difesa di un ragazzo di diciotto anni accusato di aver ucciso il padre che lo picchiava. Nella pellicola, rivolgendosi ai giurati, riuniti in Camera di Consiglio, spetta all’avvocato del giovane dimostrare che non ci può essere una condanna quando sussista quel “ragionevole dubbio” di fronte al quale è impossibile emettere un verdetto di colpevolezza. “Avetrana non è Hollywood”. L’assedio di media e curiosi. «Non è Hollywood» c’è scritto su un muretto di mattoni che si trova a poca distanza dall’abitazione della famiglia Misseri, dove è stata uccisa, il 26 agosto 2010, Sarah Scazzi. Il messaggio è indirizzato alle numerose troupes televisive e di ‘fly’ (furgoni con le antenne paraboliche montate sul tetto) che presidiano da giorni l’abitazione in cui vivono la mamma e la sorella di Sabrina Misseri. Proprio davanti alla villetta di via Grazia Deledda vanno in onda, in diretta, diversi collegamenti televisivi e si montano ogni giorno i servizi per i telegiornali e gli speciali tv. Già Valentina Misseri aveva urlato in più occasione contro i giornalisti. La sorella di Cosima, Emma,per sfuggire all’assalto dei giornalisti ha colpito con uno schiaffo al volto un operatore tv; contro gli altri ha urlato: «Andate via, che c’entriamo noi!». E continuano anche i pellegrinaggi dei “turisti dell’orrore”: alcune famiglie arrivate dal Foggiano per visitare i luoghi in cui ha vissuto, è morta e ora riposa Sarah. Ma la storia si ripete. A Newtown come Avetrana. Tutto il mondo dei media è paese. La città della strage in Usa è assalita da orde di cronisti e camion tv. Almeno 27 morti, tra cui 20 bambini, tra i 5 e i 10 anni, sono stati falciati il 14 dicembre 2012 da un giovane con problemi mentali, Adam Lanza, poco più che ventenne. Dopo la sparatoria, non c’è tempo per il dolore. La piccola città è letteralmente invasa dai media e dai giornalisti. A denunciare tutto il racconto di un cronista della BBC, Johnny Dymond. “E ‘insopportabile. Che cosa vogliono tutti? Sono quattro o cinque famiglie che hanno perso i bambini ed è troppo per loro, con tutti i media qui. Che cosa cerchi?” gli racconta nella hall dell’albergo dove dorme, uno degli abitanti, infastidito dalla troppa attenzione.  Il villaggio della scuola di Sandy Hook, è cambiato. Tra camion, microfoni e crocevia di persone, le stradine non sono più le stesse. E poi Casa Grillo come ad Avetrana. Dal giorno della certificazione del successo del Movimento 5 Stelle alle politiche 2013 , una schiera di giornalisti e fotografi stanzia di fronte alla casa di Beppe Grillo. Accampati in attesa, nella speranza di una dichiarazione o di un’immagine dell’inafferrabile leader mentre scorrono, nei tg, le immagini del cancello che si apre e da cui esce, quando va bene, un’auto. Un modus operandi, un modo di fare giornalismo e di raccontare le cose che ricorda da molto vicino le più recenti pagine di cronaca del nostro Paese, con i cronisti accampati di fronte alla casa dell’assassino o della vittima di turno. E un modello che, quando Beppe Grillo non è in casa, come in occasione della trasferta romana per l’incontro e la catechizzazione dei neo eletti, si ripete puntuale fuori dall’hotel dove il leader grillino è atteso. Un corto circuito informativo in cui i fotografi vengono fotografati, in cui i leader non dichiarano e i giornalisti non comprendono che la loro attesa a microfono spianato della dichiarazione sarà vana. E così il modello applicato è e rimane quello classico: il modello ‘Avetrana’, un modello inadeguato che genera persino dei paradossi. E’ il caso dei fotografi fotografati, i fotografi cioè che, appostati per catturare le immagini del primo conclave grillino, si sono ritrovati ad essere i soggetti degli scatti divertiti dei neoeletti che con i loro cellulari immortalavano il loro primo momento di notorietà. Come è diversa Brembate di Sopra. Il sindaco di Brembate Sopra, Diego Locatelli, dopo la richiesta di silenzio stampa avanzata dalla famiglia Gambirasio sulla scomparsa di Yara, è intervenuto sulla vicenda e attraverso un comunicato ha invitato “gli organi di informazione ad abbandonare il suolo pubblico occupato e la cessazione delle attività finora svolte sul territorio di Brembate di Sopra”».

Dal punto di vista sociologico cosa ha dedotto dal comportamento dei media e dell’influenza che questi hanno sulla gente che li segue?

«Il delitto di Sarah Scazzi ha dato vita ad un fenomeno inspiegabile e mai avvenuto prima. La gente a casa partecipa ad un reality show e con il telecomando della tv decide chi è il colpevole. Quanto più le trasmissioni tv che si interessano al caso alzano il loro share adottando la linea giustizialista, tanto più quella trasmissione viene seguita dai telespettatori e tanto più si guadagna in pubblicità. Di conseguenza la trasmissione rincara la dose, concentrandosi sugli elementi, veri o artefatti, adducenti la colpevolezza del tapino di turno. Essere garantista in tv non paga e i giornali si adeguano. Lo hanno capito bene i magistrati aprendo un processo ed adottando le tesi accusatorie che più aggradano il pubblico.»

Da esperto giuridico: a punta di Diritto cosa ha da contestare?

«Il processo per il delitto di Sarah Scazzi è un processo con prove certe? No! E’ un processo con indizi precisi, gravi e concordanti, tali da formare una prova? No! E’ solo un processo alle intenzioni. Il processo per il delitto di Sarah Scazzi è un esempio. Questo è un PROCESSO INDIZIARIO. Ossia è un processo senza prove ma solo indizi, contrastanti e contestabili. Senza prove, nonostante vi siano innumerevoli intercettazioni ambientali, anche in carcere. Nulla traspare la prova regina. Mai vi sono state confessioni carpite, ma solo le confessioni genuine di Michele Misseri: la prima e l’ultima. Da parte della magistratura tarantina vi è solo l’esigenza di accontentare la bolgia popolina che chiede il sangue degli imputati e la dimostrazione che Avetrana è omertosa e collusa. Indotti a ciò da un giornalismo approssimativo ed ignorante, oltre che pregno di pregiudizi e luoghi comuni. A ben guardare con gli occhi imparziali la ricostruzione del delitto pare che sia più frutto di illazioni, supposizioni e congetture della Pubblica accusa, mal sostenute da prove oggettive. Tale ricostruzione è facilmente attaccabile dalla difesa degli imputati. Difesa composta da vecchi ed agguerriti volponi. Da quanto desunto e dalla mancanza della pistola fumante (prova certa) appare che le imputate (Cosima e Sabrina): o sono innocenti,  o siano talmente brave, le imputate, da non lasciar alcuna traccia del loro delitto. Nessuna prova; nessuna confessione. D’altro canto colui che si professa colpevole, inascoltato, lui sì, avendo fatto trovare prima il cadavere e poi il cellulare, è solidamente riconducibile al delitto ed alla soppressione del cadavere. E non si pensi che Michele sia uno sprovveduto. Le sue comparsate in tv e le lettere e quant’altro fatto senza la presenza dei parenti induce a pensare che “Zio Michele” sa il fatto suo. Ogni sua azione non può essere frutto di induzione ed istigazione di moglie e figlia tenuto conto che esse marciscono in galera da anni e quindi nessuna possibilità di regia. Ossequiosi e  servili, poi, sono state le parti civili. E non sono mancate i riporti ai luoghi comuni ed ai pregiudizi diffamatori alla comunità: “Delitto di mafia” ha sentenziato la difesa di Concetta Serrano; “Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona”. Così si è espresso con la sua arringa l’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in riferimento all’esame di avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. Amara verità per chi come lui denuncia, sì, ma non fa niente per cambiare le cose e per chi come me, invece, porta avanti una battaglia ventennale che riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato”. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti. Non solo, pur avendo già segnalato ai precedenti Parlamenti, è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia vi è l’assoluto monopolio dell’antimafia in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 10 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me, come presidente di una associazione antimafia, è stata impedita l’iscrizione del sodalizio per mancata costituzione dell’albo. Tornando al processo sono di tutt’altro tenore le difese degli imputati: “In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Tant’è che i pubblici ministeri hanno chiesto alla Corte d’Assise la trasmissione degli atti riguardanti le deposizioni fatte durante il processo da Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah, Alessio Pisello, componente della comitiva delle due cugine, Anna Scredo, moglie di Antonio Colazzo, Giuseppe Olivieri, imprenditore di Avetrana datore di lavoro della moglie del testimone Antonio Petarra che vide il giorno del delitto Sarah Scazzi mentre si recava verso l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, e infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e sorelle con Cosima e Concetta, schierate nelle loro testimonianza a favore della prima. Atti che arriveranno allo stesso ufficio della Procura che ne ha chiesto la trasmissione. Poi ci sono anche altri 3 avvocati, oltre a Vito Junior Russo, che, d'altronde, il 21 novembre 2011 sono stati assolti da Pompeo Carriere: Gianluca Mongelli accusato di tentato favoreggiamento personale insieme a Vito Russo. Per Emilia Velletri, ex difensore di Sabrina con il marito Vito Russo, le accuse di intralcio alla giustizia e di soppressione di atti veri. All’avv. Francesco De Cristofaro, del foro di Roma, ex legale di fiducia di Michele Misseri, la Procura contesta invece il reato di infedele patrocinio. Velletri, Mongelli e De Cristofaro sono stati giudicati e assolti con il rito abbreviato. La Procura ha chiesto un anno di reclusione per Emilia Velletri e Francesco De Cristofaro e sei mesi per Gianluca Mongelli. Non ci dimentichiamo poi che il processo ha altri tentacoli. Tra questi c'é quello che coinvolge Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che raccontò di aver visto, il 26 agosto 2010, Cosima intimare in strada a Sarah di salire in auto (dove c'era presumibilmente, per l'accusa, anche Sabrina), salvo poi riferire due giorni dopo che si era trattato di un sogno. C’è sua cognata Anna Scredo, moglie dell’imputato Antonio Colazzo, poi prosciolta dal Gup, c’è il suo amico  Michele Galasso, c’è il funzionario di banca Angelo Milizia. E che dire della ex psicologa del carcere di Taranto Dora Chiloiro, citata come teste dalla difesa di Sabrina Misseri. La stessa, all’udienza del 10 dicembre 2012, ha dichiarato di essere stata "imprecisa" nell' udienza preliminare del 7 novembre 2011, quando riferì di aver avuto numerosi colloqui in carcere con Michele Misseri, di averlo sentito in carcere anche dopo l'incidente probatorio del 19 novembre e che Michele Misseri aveva detto di essere stato lui ad uccidere Sarah. Per questi motivi Chiloiro è stata già rinviata a giudizio per falsa testimonianza, avendo confermato le dichiarazioni dell'udienza preliminare anche nel processo dinanzi alla Corte di assise.»

Da esperto dell’informazione cosa ha da contestare?

«E la stampa cosa fa? E’ sadica e cinica. Da bollino rosso sono tg e approfondimenti giornalistici: il Comitato Media e Minori e L’Agcom hanno «bocciato» soprattutto servizi e dibattiti sui delitti con vittime minorenni: preoccupante lo stile usato nel trattare i casi di Sarah Scazzi, Yara Gambirasio ed Elisa Claps da Tg1 e Studio Aperto (sanzionati più volte); da censurare anche l’approccio di Chi l’ha visto? (Rai3) sull’omicidio Claps per le «immagini particolarmente impressionanti» o di Quarto grado (Rete4) per la «dettagliata galleria di casi criminosi». Il Comitato biasima la scelta di trattare crimini nella fascia protetta «spettacolarizzando la notizia» e «soffermandosi sugli aspetti più morbosi», come è accaduto nei contenitori pomeridiani delle principali reti. Violazioni sono state compiute da Pomeriggio Cinque e Domenica Cinque su Canale 5, e La vita in diretta (Rai1) dove si è giocato sull’«invasività e la ricerca di espressioni e filmati forti capaci di attirare l’attenzione dei telespettatori». Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di immagini, interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e delle arringhe delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi «Sono state dette troppe cose e non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla difesa non c’è nessuno. Eppure c’è stato il coinvolgimento di Ilaria Cavo, giornalista di Mediaset, l’unica insieme a Maria Corbi de “La Stampa”, a raccontare in modo corretto ed imparziale la cronaca di un processo emblematico. Ilaria Cavo, brava giornalista di Mediaset che per conto del programma Matrix si è occupata di celebri casi di cronaca nera. Decine di simili situazioni, nel suo libro “Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia”. Le vicende contenute nel volume riguardano per lo più casi che non hanno attirato su di sé l’attenzione dei media. Sono passati abbastanza in sordina. E forse per questo sono ancora più sconcertanti. Il procuratore aggiunto Pietro Argentino ha fatto notificare l’avviso di chiusura delle indagini preliminari al 34enne di Ginosa Raffaele Calabrese, ingegnere, consulente della difesa di Sabrina Misseri, e alla giornalista di Matrix Ilaria Cavo. L’episodio in questione è quello avvenuto il 26 ottobre 2010, quando Calabrese avrebbe offerto ad alcuni giornalisti televisivi che stazionavano dinanzi al tribunale, alcune foto scattate nel garage della famiglia Misseri, quello che viene indicato negli atti ufficiali come il luogo del delitto di Sarah. Il giornalista del Tg2 Valerio Cataldi riuscì a registrare il colloquio con il consulente della difesa di Sabrina, rifiutando ovviamente ogni forma di trattativa economica. La stessa sera, quelle foto poi furono mandate in onda da Matrix. A Raffaele Calabrese il procuratore aggiunto Pietro Argentino contesta l’interferenza illecita nella vita privata dei Misseri perché «mediante l’uso di una macchina digitale, si procurava indebitamente immagini relative all’interno del «garage» dell’abitazione di Cosima Serrano e Michele Misseri, scattando almeno 16 foto delle quali tre le cedeva a Ilaria Cavo. Con l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di prestazione d’opera». La giornalista Ilario Cavo è indagata invece per ricettazione in quanto «a scopo di profitto acquistava e, comunque, riceveva da Raffaele Calabrese le foto del garage di sicura provenienza delittuosa». E sul fronte dell’informazione, va segnalato che la Procura ha avviato accertamenti anche sull’intervista a Michele Misseri fatta in carcere il 13 febbraio 2011  dalla giornalista di Libero Cristiana Lodi che entrò nella casa circondariale come collaboratrice di un parlamentare del Pdl, la deputata del Pdl Melania Rizzoli De Nichilo. Per Ilaria Cavo e Raffaele Calabrese il giudice monocratico Ciro Fiore il 22 maggio 2012 ha dichiarato l’assoluzione. Calabrese ha chiesto il processo con rito abbreviato, la Cavo rito abbreviato condizionato all'audizione di un altro giornalista. E poi ancora c’è il caso di Fabrizio Corona, condannato a cinque anni di detenzione per estorsione ai danni del calciatore David Trezeguet. Il 2 luglio 2013 da detenuto dovrà presentarsi al Tribunale di Manduria con l’accusa di violazione di domicilio. La denuncia è stata sporta da Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi. La vicenda risale al 26 febbraio 2011, quando l’ex re dei paparazzi era entrato in casa della famiglia Scazzi passando da una finestra e spaventando la madre della ragazza. Nonostante le scuse alla donna, in televisione Corona ha raccontato un’altra versione dei fatti: disse di essere rimasto nell’abitazione di Concetta a chiacchierare per una mezz’oretta, e che Concetta gli aveva perfino offerto il caffè. Lo scopo del fotografo era quello di realizzare delle interviste in esclusiva ai protagonisti della tragica vicenda. Concetta Serrano non ha ritirato la denuncia e, come disposto dal pm Maurizio Carbone, il paparazzo dovrà presentarsi quest’estate al Tribunale di Manduria. Per l’accusa di violazione di domicilio, Fabrizio Corona rischia altri 3 anni di carcere. A proposito di interviste non autorizzate. Concetta Serrano, la mamma della 15enne Sarah Scazzi uccisa lo scorso 26 agosto 2010, il 9 aprile 2011 ha presentato una denuncia-querela contro il giornalista Mediaset Marcello Vinonuovo per la trasmissione di un’intervista non autorizzata andata in onda venerdì 8. L’episodio, sul quale non si sono appresi particolari, è stato denunciato ai carabinieri della Stazione di Avetrana. E’ andata in onda una nuova puntata di Studio Aperto Live, lo spazio di approfondimento di Studio Aperto che su Italia 1 si occupa delle vicende di cronaca più attuali. Quindi alla luce delle nuove notizie legate alla richiesta del Dna per quattro persone implicate nel caso con diversi ruoli si è deciso di tornare ad Avetrana per parlare con Concetta Serrano ed è stata mandata in onda un’intervista alla madre di Sarah che però non era stata autorizzata dalla donna. L’argomento dell’ultima puntata era ancora il caso dell’omicidio di Sarah Scazzi: tracce di Dna riaprono le indagini. E proprio questo particolare ha spinto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, a presentare una querela contro il giornalista di Mediaset Marcello Vinonuovo presso i carabinieri della Stazione di Avetrana. Subito sono arrivate le repliche di Giovanni Toti, direttore di Studio Aperto, e Mario Giordano, direttore di News Mediaset: i due hanno subito detto che quella realizzata da Vinonuovo non è un’intervista rubata, Toti dice: “Il cronista si è qualificato come tale, aveva il microfono in mano e accanto l’operatore con la telecamera in spalla. Le domande erano assolutamente rispettose: non c’era nulla che potesse ledere la dignità della madre di una vittima, anzi la signora Concetta ha avuto la possibilità di esprimere il suo punto di vista. La conversazione si è svolta senza alcuna tensione nè fraintendimento, nè sui contenuti nè sul ruolo di entrambi. Non vedo perchè non avremmo dovuto mandarla in onda”. Anche Giordano interviene sulla vicenda dicendo: “L’intervista è stata realizzata in luogo pubblico, da un giornalista che si è dichiarato tale, con il microfono ben in vista come dimostrano le immagini. La signora Concetta ha espresso ragionamenti sensati e condivisibili rispetto a un tema di interesse pubblico. Una persona può legittimamente non rispondere, ma se risponde e c’è interesse pubblico a quello che dice, non vedo perchè non lo si debba trasmettere”. Non turba a nessuno il fatto di sapere che Concetta Serrano, pur quasi ogni giorno sulla cronaca con la sua famiglia, rilasci interviste a iosa e, nonostante tutti i media siano con lei e artatamente contro sua sorella Cosima Serrano e sua nipote Sabrina Misseri, pretende di autorizzare o meno le interviste scomode e di denunciare Marcello Vinonuovo di Italia 1, forse perché collega di Ilaria Cavo. Ilaria Cavo è con Maria Corbi l’unica ad aver dato notizie con un minimo di imparzialità. Ad Avetrana non c’è modo di palesare la verità nonostante la multa per 400 programmi tv che si sono occupati in maniera morbosa del caso di Avetrana. L’Agcom ha voluto porre un freno a questa continua ricerca di fare ascolti in televisione sfruttando il dolore delle persone ed ha comunicato all’Ordine dei giornalisti l’intenzione di multare 400 trasmissioni che si sono occupate del caso Scazzi violando le norme. Ma secondo il presidente dell’Ordine, Enzo Iacopino i giornalisti sono stati trattati come burattini da burattinai: “Seminavano tutto e tutto noi giornalisti mandavamo in onda o pubblicavamo sui giornali”

A questo punto cosa vorrebbe che si sapesse?

«Ora basta!!! Bisogna far conoscere la verità. La verità storica alternativa a quella mediatico-giudiziaria. Il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi non è contro i Misseri, ma contro Avetrana, anzi, contro il Sud Italia. Gelosia e Reputazione sono i traballanti moventi inquadrati da stampa e magistratura. La magistratura sin da subito è stata incapace di sbrogliare la matassa fino a quando la soluzione gli è stata offerta sul piatto d’argento proprio da Michele Misseri. Ed ancora si continua ad insinuare che Avetrana non ha collaborato. Ipotesi fomentate da giornalisti ignoranti e prezzolati da padroni senza scrupoli e dal finanziamento pubblico. Pennivendoli che alimentano stereotipi datati. Nel contesto territoriale (per loro omertoso e retrogrado) non emerge più il cafone con coppola e con lupara che per gelosia spara a destra ed a manca. Oggi ci rapportiamo con l’evoluzione del pregiudizio: donne baffute in nero nascoste da gonne lunghe e fazzoletto in testa che con il sangue lavano l’onta del tradimento e della maldicenza. Poco si parla dell’Avetrana tecnologica con i suoi giovani a navigare sul web ed a rapportarsi sui social network ed a passare il tempo libero fino a notte inoltrata nei Pub all’inglese maniere. No! Bisogna far immaginare Avetrana con i carretti trainati dai muli o meglio dagli asini di Martina Franca. Quante volte si è sentito nei salotti trash della tv italiana da improvvisati commentatori: “…non siamo a Milano o a Roma, siamo lì. Qui si parla di Avetrana, un piccolo paese del sud. Lì..un paese così…dove tutti si conoscono, dove tutti stanno a sparlare…un paese del profondo mezzogiorno. Mi sa tanto che quando si parla dei cervelli in fuga non ci si riferisce alle nostre eccellenze che sono costrette ad emigrare, ma ci si riferisca agli encefali fuggiti dai crani dei giornalisti che sono stati ospitati ad Avetrana, anziché cacciati così come hanno fatto a Brembate di Sopra. Giornalai, e non giornalisti, che per dare la loro verità sono stati pronti ad intervistare nullafacenti ed ubriaconi nei bar del paese. Nel film “Benvenuti al Sud” la frase ricorrente è che chi viene al sud piange due volte: nel venire e nell’andar via. Bisogna dire che, invece, è proprio certa stampa che fa venir da piangere, ma per la loro condizione professionale. Mi sa che fa bene Beppe Grillo a non voler rapportarsi con tutti loro, così come aveva ragione Malcom X. Disse Malcolm X, «Se non state attenti, e dico questo perché ho visto qualcuno di voi cascare nella trappola, se non state attenti finirete con l'odiare voi stessi e con l'amare il bianco che vi procura tanti guai. Se gli consentite di persuadervi, vi spingerà a credere che non è giusto usar violenza contro di lui quando lui la usa contro di voi. Se non state attenti i media vi faranno amare gli oppressori e odiare quelli che vengono oppressi. La stampa è capace di farvi amare gli assassini ed odiare le vittime». Giorgio Bocca (notoriamente antimeridionale) su “L’Espresso” se la prende anche con i giornalisti locali: «Ne esce male anche l'informazione, Avetrana è un villaggio del profondo Sud nella campagna di Taranto, i primi ad accorrere sono i corrispondenti locali che mandano fiumi di parole confuse, di rivelazioni contraddittorie che si aggiungono alla difficoltà di trovare una minima ragione nella caotica e irragionevole vicenda.» Avetrana, invece, ha capito da subito che le luci della ribalta volevano un paese maledetto, omertoso. «Ma quale omertà, qui è il contrario, nessuno si fa i fatti suoi» dicono ora che il virtuale è più forte della realtà. Adesso che i programmi televisivi si sono inseguiti in una corvée instancabile e ormai quasi mancano le comparse, a Sabrina tocca apparire a reti unificate: piange a Matrix e nello stesso tempo è a Porta a porta con la riedizione di un suo intervento a La vita in diretta. La prima a capire che solo la tv poteva salvarla è stata la madre di Sarah, Concetta. Da subito ha intuito che spalancando la porta ai media avrebbe conosciuto la sorte di sua figlia. E così è stato. Sospira il procuratore capo di Taranto Francesco Sebastio: «Ditemi un momento nel quale non era in televisione a dirci come condurre le indagini, come dovevamo fare... Non si poteva neppure dire all’assassino: aspetta a confessare che finisca la trasmissione. Ne sarebbe iniziata un’altra». E per 42 giorni, come nota un investigatore, «lei davanti alle telecamere si è fatta sempre trovare pronta e in ordine». Senza un filo di ricrescita, notano i maligni, «i capelli rossi, come se ogni giorno si rifacesse l’henné». Una famiglia diabolica, i Misseri, decimata dalle accuse ed Avetrana, bollata come omertosa, bugiarda, depistante. Questo il ritratto che il pm del caso Sarah Scazzi ha tracciato in quattro giorni di requisitoria chiedendo l’ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano, madre e figlia, zia e cugina della vittima accusate di concorso in omicidio e sequestro di persona. Non solo. I pubblici ministeri hanno chiesto alla Corte d’Assise la trasmissione degli atti riguardanti le deposizioni fatte durante il processo da Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah, Alessio Pisello, componente della comitiva delle due cugine, Anna Scredo, moglie di Antonio Colazzo, Giuseppe Olivieri, imprenditore di Avetrana datore di lavoro della moglie del testimone Antonio Petarra che vide il giorno del delitto Sarah Scazzi mentre si recava verso l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, e infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e sorelle con Cosima e Concetta, schierate nelle loro testimonianza a favore della prima.  Ivano Russo in collegamento da Avetrana con “La Vita In Diretta” con Marco Liorni si è lamentato del fatto che lui ha rischiato di essere arrestato perché sospettato del delitto o comunque di essere reticente o falso, oggi verrebbe indagato, pur inquadrate le responsabilità del delitto, per essere stato reticente e falso. Il movente per i Pubblici Ministeri di Taranto? «La possibile rivelazione dei rapporti intimi con Ivano (amico delle due cugine) che avrebbe potuto compromettere l'immagine della famiglia Misseri in un piccolo centro provinciale come Avetrana». Come se la gente del piccolo centro come Avetrana non ha null’altro da fare che stare dietro alle vicende sessuali di una ragazza che non conosce e che non interessa conoscere tenuto conto di tutti i problemi che attanagliano i cittadini italiani. Naturalmente qui si parla di magistrati che, dai dati pubblici rilevabili da siti istituzionali, risultano essere anche loro del posto che degradano. Si parla  di BUCCOLIERO dott. Mariano Evangelista Nato a Sava il 7.4.1965 e di Argentino dott. Pietro di Torricella. Ma contro i pregiudizi non ci sono limiti. Da ultimo e non sarà l’ultima volta, un sedicente giornalista, tal Paolo Ojetti, il  7 marzo 2013 in riferimento al delitto di Sarah Scazzi ha scritto su “Il Fatto Quotidiano”: «Quello che alla fine lascia pensosi è il “contesto”, una alchimia di arcaico e ipermoderno, di barbarie da profondo sud e di spregiudicato uso dei media da parte di assassini e di comprimari…E il movente? Messaggini erotici da tenere segreti. Ricatti sessuali adolescenziali. Difesa della purezza familiare, valore dalla cintola in giù che giustifica tuttora violenza, stupro, incesto, femminicidio. Può anche darsi che la cronaca nera punti solo all’Auditel. Ma, almeno in questo caso, è stato uno schiaffo benefico che riporta con i piedi sulla terra di un paese arretrato». In riferimento al gruppo di Sarah Scazzi il sedicente giornale “padano” di Taranto, “Taranto Sera”, scrive «Un gruppo in cui non si sarebbe disdegnata qualche pratica parecchio ‘spinta’, inconfessabile, a maggior ragione in un contesto come quello di un piccolo paese del profondo Mezzogiorno, quale Avetrana.» Altra sedicente giornalista, tal Annalisa Latartara, non nuova ad exploit del genere (si pensi viene dalla nordica Taranto), lo stesso giorno e sempre a proposito ha scritto su “Il Corriere del Giorno” di Taranto: «Ma l’opera di depistaggio della famiglia Misseri è stata agevolata dall’omertà di chi ha visto e non ha raccontato nulla, né di sua spontanea iniziativa, né dinanzi agli investigatori. Di chi chiamato a deporre in aula non ha detto tutto quello che sapeva.» Ed ancora altro sedicente giornalista, tal Pasquale Amoruso e sempre a riguardo su “Il Quotidiano Italiano” (padano anch’esso) di Bari ha scritto: «L’omertà è il vero strumento di contrasto alla Giustizia nel caso Scazzi. L’omertà di Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che dichiarò di aver visto zia e cugina costringere Sara in lacrime salire in macchina, salvo poi ritrattare la sua versione, dicendo di non aver visto effettivamente la scena, ma piuttosto, di averla sognata, e l’omertà di tre suoi parenti, indagati per favoreggiamento personale e intralcio alla Giustizia. L’omertà dei nove testimoni le cui dichiarazioni contrastano con le prove in mano agli inquirenti e l’omertà di chi, pur sapendo come stanno le cose, perché qualcuno c’è, non parla per preservare, non so cosa sia peggio, un assassino o una rispettabilità ormai perduta. Insomma, quante persone occorrono per uccidere una ragazzina? Tutte quelle che non parlano.» Ed ancora. «Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il terribile omicidio.» Dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini.»

Va bene, ma gli amministratori locali e con essi l’opposizione consiliare cosa hanno fatto?

«Nonostante lo smacco giudiziario e l’offesa mediatica a tutta la popolazione avetranese il sindaco della ridente località, Mario De Marco, del Popolo delle Libertà, e la sua giunta cosa fanno? Anziché prendersela con chi ci sputtana, le loro ire si rivolgono alle parti più deboli, forse responsabili di delitti che, però, niente hanno a che fare con le insinuazioni o le vere e proprie accuse di omertà ed arretratezza sociale e culturale della comunità. «Avetrana - si legge nell'atto di parte civile - si è guadagnata la triste fama di cittadina quasi omertosa, simbolo di un profondo sud, vittima ancora oggi di troppi luoghi comuni. Sono note le spedizioni dei cosiddetti turisti dell'orrore - continua l'avvocato Corleto - che si sono avventurati nei luoghi simbolo della vicenda: le vie in cui si trovano le abitazioni della famiglia di Sarah e della famiglia Misseri, lo stesso cimitero che ospita la tomba di Sarah, nonché il pozzo di campagna nel quale è stato rinvenuto il cadavere della ragazzina sono stati meta di veri e propri pellegrinaggi. In questa dolorosa vicenda ci sono due vittime. La prima è certamente Sarah, l'altra è la città di Avetrana». «Gli Avetranesi hanno nel cuore Sarah e sono offesi dal comportamento della famiglia Misseri. Perché a prescindere dalle singole responsabilità che saranno accertate nel dibattimento, sono stati loro a innescare la morbosa attenzione dei media su questo caso e la conseguente ripercussione negativa per l'immagine della nostra comunità»,  rincara la dose il vicesindaco Alessandro Scarciglia.  «In tutta questa situazione la popolazione di Avetrana è rimasta letteralmente disorientata, privata della propria serenità, impossibilitata ad osservare il dovuto silenzio e rispetto nei confronti della giovane vittima, nonché violentata in ogni aspetto della quotidianità, oltre che letteralmente assediata dai mezzi di informazione». Una «sete di giustizia», continua il documento della costituzione di parte civile, per «un’offesa enorme, una ferita profonda che merita di essere valutata e adeguatamente riparata in sede giudiziaria». Per gli amministratori che si dichiarano parte offesa, quindi, «il nome di Avetrana è ormai tristemente associato al crimine del quale sono chiamati a rispondere gli imputati» che dovrebbero così, se condannati, rifondere la somma «che sarà poi quantificata - ha spiegato il penalista Corleto - in un secondo tempo e in sede civilistica». Lo stesso avvocato che dovrebbe difendere la reputazione di Avetrana afferma inopinatamente  «Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona». E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli Avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! L’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. Difendendo a suo parere subito la «parte sana» della comunità avetranese (e meno male se fosse stato il contrario?), per il cui danno all’immagine ha chiesto 300 mila euro di risarcimento danni, il penalista leccese ha esordito dicendo che «la popolazione di Avetrana non è omertosa, è fatta di persone buone», fatta eccezione, ha aggiunto diffamando gratuitamente, prima con un’intervista a Blustar TV e poi in aula, coloro che in giudizio non sono. «Il collegio dei Falsi, cioè Valentina (Misseri) e compagni, che buttando a mare tutti gli avvocati precedenti, hanno imposto questa linea  della banda del falso che come Ivano Russo sono i giganti del turpiloquio e del depistaggio: una serpe. E’ il soggetto più turpe, più viscido. La serpe che entra nel processo. Che parla fuori, dentro le aule, le interviste, alle telecamere e tutto ciò che sapete, quando deve dire qualcosa di concreto, è questo il vangelo dettato dalla regia. Quando si sono visti con le mani al collo non potevano più dire chiacchiere a gente con la toga e dicono non ricordo». Avetrana: omertà e mafia, luoghi comuni che si rincorrono. «Un massacro gestito con metodi mafiosi. Sarah Scazzi è stata massacrata ed è un massacro peggiore per le condotte successive al delitto che denotano un metodo mafioso, da 416 bis. Sarah non doveva essere solo uccisa - ha spiegato Nicodemo Gentile, l’avvocato degli Scazzi - ma doveva sparire ed essere annientata. Non doveva esistere più. Doveva diventare uno di quei tanti volti che fanno parte dell'esercito di scomparsi.» Chi rappresentava Avetrana avrebbe fatto meglio a cercare e catalogare in questi anni ogni articolo di stampa ed avrebbe dovuto registrare ogni intervento delle miriadi trasmissioni tv per far rendere il conto delle loro denigrazioni ai rispettivi responsabili, siano essi ignoranti giornalisti o che siano pseudo esperti improvvisati. Come non dar ragione all’altra parte politica di Avetrana: «Sono Cinzia Fronda, cittadina del paese di Avetrana e segretaria sezionale del Partito Democratico. Scrivo da cittadina di un paese devastato, maltrattato, violentato da tanto orrore. Ovviamente mi riferisco al caso Scazzi che da qualche giorno è tornato prepotentemente alla ribalta. Ho sentito diversi giornalisti che con una facilità pericolosa e poco professionale, secondo la mia opinione, continuano a denigrare Avetrana e i suoi abitanti facendoci passare per quelli omertosi, ignoranti e, perché no?, cittadini di serie C2! Sono veramente stanca di questo continuo maltrattamento mediatico, vorrei fare presente che la maggior parte dei cittadini di Avetrana sono persone normali, con una cultura normale, con una vita normale e che non mi sembra assolutamente giusto che si faccia di tutta l'erba un fascio. Con tutto il rispetto per gli abitanti di Brembate, che hanno anche amministratori di rispetto che ben si sono guardati dall'esporsi in maniera esagerata, non cedendo al fascino mediatico, vorrei far presente che lì la famiglia di Yara ha chiesto il silenzio stampa e allora tutti a parlarne bene mentre per il caso di Avetrana si continua a dare addosso agli abitanti perchè molti continuano ad amare intrattenersi con i giornalisti, anche quando sarebbe il caso di smettere di parlare a vanvera e lasciare che gli inquirenti facciano serenamente il loro lavoro. Basta violenze mediatiche, Avetrana non è il paese dei mostri, è un paese che ha voglia di riprendere a vivere normalmente e serenamente». Peccato che anche lei si è limitata a dire parole, parole, parole…..»

Va bene. Allora presenti lei Avetrana.

«Sorge su quella che era chiamata la “Via Sallentina”, Avetrana, l’antico tratto viario che in epoca messapica, e successivamente in quella romana, collegava Taranto, Manduria, Nardò, Leuca e Otranto. Con le sue 8.300 anime, il paese vanta origini antiche, ma sono in particolare le tracce di epoca romana a risaltare come il “canale romano”, che raccoglieva e faceva confluire le acque in quello naturale di San Martino. Sono numerose le ipotesi del suo toponimo, tra cui quella che lo fa derivare da “habet rana”, per via delle massiccia presenza di rane nella zona ricca di paludi o, ancora e forse più attendibile, l’ipotesi che risalga ad una distorsione di “terra veterana”, ovvero non coltivata. Certo è che Avetrana custodisce e mostra le sue vestigia con orgoglio a cominciare dal suo piccolo ma prezioso centro storico, nel quale ogni nobile e feudatario del suo tempo ha lasciato la propria firma: dai Pagano agli Albrizi fino agli Imperiale ed i Filo. Di quello che doveva essere un imponente castello si scorge oggi il torrione circolare e parte delle mura mentre i vezzi decorativi di alcuni palazzi come palazzo Torricelli e palazzo Imperiale, accanto alle architetture più modeste tra i viottoli del centro lasciano oggi intuire il potere della nobiltà nel piccolo e operoso borgo. Zona di grotte e depressioni carsiche dalle quali sono emersi anche resti del Neolitico, Avetrana, in epoche sicuramente più recenti, vanta un’ammirabile tradizione di resistenza: nel 1929 fu il centro di una rivolta dei contadini poi repressa dal regime fascista, mentre negli anni Ottanta si oppose strenuamente alla costruzione nel suo territorio di una centrale nucleare. Il paese dista dal mare appena quattro chilometri e dalla zona denominata “Urmo Belsito”, località marina abitata da moltissimi cittadini extraregionali e comunitari scelta da loro come dimora di relax, lo sguardo può spaziare dal mare all’orizzonte alla rigogliosa macchia mediterranea che la fa da padrone nell’entroterra. Il patrono di Avetrana è San Biagio e viene festeggiato il 29 aprile. Il comune dista 43 chilometri dal capoluogo,Taranto, e 37 chilometri da Lecce. Rispetto ad altri paesi Avetrana si è fatta sempre notare per la sua intraprendenza, emancipazione ed apertura mentale e per le indiscusse virtù di alcuni suoi concittadini. Si ricorda Antonio Giangrande, noto scrittore letto in tutto il mondo o suo figlio Mirko divenuto a 25 anni e con due lauree l’avvocato più giovane d’Italia. Ed ancora Biagio Saracino, Cavaliere della Repubblica; Leonardo Laserra, Tenente Colonnello, maestro della Banda della Guardia di Finanza nota in tutto il mondo. E poi Antonio Iazzi, professore dell’università del Salento, e Leonardo Giangrande, già vice presidente della Camera di Commercio di Taranto. Ed ancora Rita Rinaldi, soubrette e cantante o i duo artistico musicale Mimma e Giusy Giannini (in arte Emme e gy) con Miriana Minonne e Valentina Iaia (in arte Miry e Viky). Ed ancora Vito Mancini, concorrente del Grande Fratello 12. E tanti altri talenti ancora. Ma di questo i media ignoranti ed in malafede non ne parlano.»

La stampa. L’informazione cartacea e video come hanno riportato i fatti storici e giudiziari?

«Con la loro verità mediatica. Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di immagini, interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e delle arringhe delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi ad Anna Gaudenzi su Affari Italiani, « Sono state dette troppe cose e non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla difesa non c’è nessuno. Sono passate sotto silenzio le udienze dedicate agli imputati. Addirittura le tv locali, a turno, hanno ignorato l’evento. Poche righe dedicate e servizi assenti o striminziti. Rimasugli dedicati a Michele Misseri. Solo la malasorte difende Avetrana. Tempi duri per gli operatori dell’informazione. Rovinose cadute, strani malori, telecamere che si spengono, fari che esplodono, cassette inceppate. E ancora serrature d’auto che s’inchiodano, incidenti stradali e bucature multiple delle ruote. Una sospetta concentrazione d’infortuni scuote il popolo dei media che ha preso domicilio ad Avetrana per documentare il giallo dell’uccisione della piccola Sarah Scazzi. Nella graduatoria della iella, la categoria che ha avuto la peggio è quella dei giornalisti. Le donne sono più sfigate dei loro colleghi. Sono molti, anzi troppi i processi sotto la lente mediatica. Si parla troppo spesso di processo mediatico, di quanto possa influenzare quello giudiziario, soprattutto quando l'opinione pubblica non accetta i fatti e le sentenze. Il problema, secondo alcuni, è che anche nei processi si preferisce soffermarsi sugli aspetti scandalistici o curiosi delle vicende anziché addentrarsi sul merito dei reati. Il processo del terzo millennio si offre oramai senza veli allo sguardo mediatico che imbastisce processi paralleli fuori dalle aule di giustizia e dai suoi riti, i cui improvvisasti ed imperiti pubblici ministeri sono i giornalisti od i conduttori di trasmissioni trash tv ed i giudici sono i loro lettori o telespettatori, godenti peccatori delle altrui disgrazie. Nessuno spazio alla difesa dei malcapitati. Fa niente se poi i tapini sono prosciolti nei processi veri. Ha ragione Massimo Prati quando dice che questo fa capire in maniera netta come tanti nostri magistrati non sappiano, o per diversi motivi non vogliano, leggere allo stesso modo le “'tavole” dei codici penali e come tanti di loro si sentano ancora parte attiva di un'altra epoca storica. Fa capire come i nostri magistrati non siano stati preparati, da chi doveva insegnargli ed aiutarli mentalmente, ad entrare da uomini giusti negli anni duemila. Fa capire come siano rimasti ancorati agli albori della giustizia, a quando chi giudicava comminava pene in base alle possibilità economiche ed al ceto sociale. Nella Babilonia di quasi quattromila anni fa, durante il regno di Hammurabi, il povero, a parità di reato, era obbligato alla morte, mentre chi aveva possibilità economiche, per tornare un “uomo libero” si limitava a pagare un'ammenda. Nel basso Medioevo, nella futura italica terra, si procedeva con un trattamento simile, trattamento che teneva conto non solo dei beni posseduti, ma anche delle amicizie altolocate e del ruolo che il reo ricopriva nella sua comunità. Ad oggi nel terzo millennio pare proprio che nulla sia cambiato. Da anni la nostra “giustizia” è divisa in tronconi colorati. E sempre più spesso capiamo di avere a che fare con enormi disparità di trattamento. Già nel '71 con il film “In nome del popolo italiano” ci fu chi puntò il dito (Dino Risi) contro quei magistrati, allora idealisti e squattrinati, che abusavano del potere concesso loro dal popolo italiano. Qualcosa è cambiato da allora? Difficile rispondere sì, visto che fra il “certo colpevole” e chi si dichiara innocente la disparità di trattamento è enorme e tutta in favore del “certo colpevole”, visto che i trattamenti cambiano da procura a procura, da tribunale a tribunale, visto che con alcuni imputati c'è chi usa il guanto di velluto mentre, per reati simili se non identici, da altre parti c'è chi usa il pugno di ferro. Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono rimasti quattro anni in carcere in attesa di un verdetto “giusto”. Sabrina Misseri e sua madre sono chiuse in galera da anni senza essere dichiarate colpevoli in modo definitivo. Sabrina Misseri è stata arrestata perché non ha ammesso di amare e di essere gelosa del “Delon di Avetrana”, perché non ha ritenuto di aver litigato con la cugina la sera precedente la scomparsa. Questo è bastato ad impedire si facesse un minimo di indagine che convalidasse i sospetti. Di logica le accuse, siano di estranei o di un “caro genitore”, vanno verificate prima di mandare i carabinieri ad eseguire un ordine di arresto... non si dovrebbe arrestare e sperare di trovar prove successivamente, si dovrebbero trovar prove e poi arrestare. Sua madre ha subìto la stessa sorte: ha seguito la figlia in carcere perché un fiorista l'ha sognata e perché c'è chi ha notato un'ombra grigia sfrecciare per Avetrana. Un sogno ed un'ombra possono giustificare il carcere in canili umani? Non inserirò altre storie di presunti colpevoli, arrestati e carcerati preventivamente e senza prove, basta cercare in internet per trovare migliaia di innocenti risarciti della reclusione ingiusta con soldi statali... e non con quelli privati di chi ha sbagliato a chiudere in carcere, senza avere prove, un incensurato. Rovinare la vita delle persone comuni è fin troppo facile, questo è quanto l'italiano, che non ha mai avuto guai con la giustizia, deve capire. Non deve credere di essere immune perché onesto, e non deve pensare che a lui ed ai suoi figli non capiterà mai quanto capitato ad altri. Lo sbaglio è sempre dietro l'angolo. Lo sa bene Giuseppe Gullotta, che di anni in galera ne ha fatti ventuno, compresi i preventivi, a causa delle torture riservate a chi lo ha accusato (poi impiccatosi in carcere seppure avesse un solo braccio). Ed anche se un domani il danno verrà scoperto e riparato, non ci sarà mai un risarcimento che possa compensare la psiche, che possa riportare in vita i genitori morti dal dolore, che possa ridare la “salute” alle mogli che per la vergogna e il dispiacere sono invecchiate anzitempo (sempre siano restate accanto ad un marito che non c'era), che possa far tornare l'infanzia e l'adolescenza nei figli cresciuti senza un padre accanto, cresciuti col marchio dell'infamia che porta il dover parlare di un genitore non presente perché in carcere. Non inserirò altre vergogne italiche, non le inserirò perché anche se narrassi mille e una storia, nulla cambierebbe e nessuno modificherebbe il proprio modo di operare e di giudicare gli altri, siano essi giudici o pubblico di talk show. Per questo servirà tempo e una buona capacità di insegnamento da parte di chi formerà i nuovi giudici ed i nuovi magistrati. Ma non c'è da stupirsi, in fondo la nostra giustizia rispecchia la maggioranza del popolo italiano... quella maggioranza che succhia la notizia senza accorgersi che il gusto lascia l'amaro in bocca. A un mese dalla sentenza di primo grado sull'omicidio di Avetrana, Michele Misseri torna ad autoaccusarsi. Ospite in collegamento di Barbara D'Urso a Domenica Live, zio Michele ha nuovamente confessato la sua colpevolezza scagionando la moglie Cosima e la figlia Sabrina. “Loro sono innocenti – ha ripetuto più volte Misseri – io sono l’assassino, ma nessuno mi vuole credere. Ho i rimorsi e devo pagare per quello che ho fatto.” L'uomo ha poi minacciato il suicidio se la moglie e la nipote verranno condannate in via definitiva. Per chi se lo fosse perso: Barbara D'Urso e le sue faccette il 3 marzo 2013 hanno intervistato Michele Misseri a Domenica Live su Canale 5. Tempo concesso all'occultatore del cadavere di Sarah Scazzi e reo confesso del delitto: un'ora circa, nemmeno fosse Silvio Berlusconi. Senza lasciare nulla al caso, la D'Urso si è vestita a righe per l'occasione e lo ha intervistato per la seconda volta nel giro di pochi mesi (la prima era stata a dicembre 2012); da Avetrana, collegata in diretta, Ilaria Cavo. Perché a Michele Misseri, nello spazio domenicale che un tempo era rivolto alle famiglie, si concede la diretta. Ma lo scandalo è la piega che prendono certe trasmissioni trash e disinformative: Quarto Grado, La Vita in Diretta, Porta a Porta, Chi la Visto? ecc. E' interessante notare l'evoluzione della figura di Michele Misseri; all'inizio era lo “zio orco”, poi è diventato - per i giornalisti - la povera vittima di moglie e figlia, e allora la sua immagine è stata in parte ripulita. Così per i tg è tornato semplicemente ad essere un uomo: lo zio Michele. Contemporaneamente il processo sull'omicidio di Avetrana si era spostato dalle aule giudiziarie in televisione; la sovraesposizione delle persone coinvolte era stata tale da renderli personaggi televisivi, Sabrina e Michele Misseri in particolare. La voglia di sangue del pubblico. Il Colosseo come gli studi televisivi. La parzialità dei conduttori è spudorata e non fanno niente affinchè non prevalga la voglia di giustizialismo a danno di Sabrina Misseri e Cosima Serrano: Mara Venier e tutti gli altri, compreso l’ipocrisia di Barbara D’Urso che si dichiara  “vicina a Concetta e alla sua battaglia”. Mai nessuno di loro, però, a raccontare la verità. La verità storica ed incontestabile è che il processo è ancora al primo grado, manca il certo appello e la Cassazione e, cosa che rimarca un certo senso di malessere nei confronti di certi magistrati, è che Michele Misseri si dichiara colpevole ma è libero, mentre la moglie e la figlia che si professano innocenti sono in carcere. Si dichiarano colpevoli l’uno ed innocenti le altre da sempre e con coerenza, come se fossero criminali esperti ed incalliti. Non solo: prima la D'Urso lo invita per impennare lo share (e per cos'altro sennò?), poi lo cazzia per quello che ha fatto, (confessare il delitto che secondo lei non ha commesso o aver commesso il delitto?). “I padri non diventano assassini” dice la D’Urso, giusto per appagare le voglie del pubblico guardone e schierarsi dalla parte di chi pensa che Michele menta per coprire Sabrina.»

La mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo Scazzi, come si è comportata?

«Comunque, per colpevoli che possano essere agli occhi dei giustizialisti, è pur vero che la colpevolezza va provata e nessuno, dico nessuno, può essere condannato senza prove che adducano ad una colpa al di là di ogni ragionevole dubbio. Eppure c’è chi si ostina a tener ferma la sua posizione, senza ombra di dubbio, mossa da sentimenti prosaici e poco religiosi. Eppure nessuno, oltre al sottoscritto, osa parlare contro il sentimento comune, se non Ilaria Cavo con i suoi atteggiamenti, la giornalista Mediaset indagata proprio dalla procura di Taranto, e Maria Corbi con i suoi articoli, giornalista del “La Stampa” di Torino. La nostra colpa è vedere le cose con imparzialità senza essere genuflessi e succubi ai magistrati tarantini. Il processo al delitto di Sarah Scazzi è il processo ad Avetrana. Alla richiesta da parte di Argentino e Buccoliero della condanna per tutti gli imputati, specialmente per l’ergastolo a Sabrina Misseri ed alla madre Cosima Serrano, tutta l’Italia forcaiola ha applaudito. Si sentono ancora gli applausi registrati nello studio di “La vita in diretta” con Marco Liorni e di “Pomeriggio cinque” con Barbara D’Urso. A tutti i testimoni che hanno testimoniato contro la tesi accusatoria si prospetta la condanna per falsa testimonianza. L’Italia forcaiola che per soddisfare l’aspettativa di vendetta pretende la tortura e l’omicidio di Stato per lavare l’onta di un efferato delitto. A scanso di essere lapidati da falsi moralisti si tiene a precisare che si può essere d’accordo, ma non bisogna mai emettere giudizi affrettati e sommari, prima di ascoltare cosa ha da dire la difesa, tenuto conto che nei processi italiani, fino a che non tocchi ai difensori la parola, hanno voce solo i pubblici ministeri ben ammanicati con giornalisti approssimativi e parziali. Per chi conosce bene il sistema della giustizia in Italia ed i magistrati italiani prima di emettere sentenze popolari bisogna essere cauti e con cognizione piena di causa. La mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo, ha accolto le richieste di ergastolo con mezza soddisfazione. «Sono cose che non fanno gioire nessuno e che non servono a ridare la vita strappata di una bambina. Chi uccide merita l'ergastolo - ha dichiarato la mamma di Sarah, Concetta - è stato il processo delle menzogne ed è anche giusto che coloro che hanno detto tutte queste menzogne paghino per quello che hanno detto. Non hanno avuto pietà per una bambina che stava anche piangendo». «Ho sempre detto che il movente della gelosia di Ivano non mi convinceva, che c'era qualcosa di losco e quello che è emerso ieri lo conferma». Lo ha detto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi. Concetta ha fatto riferimento, con quel 'losco', alle abitudini a sfondo sessuale che aveva la comitiva di cui faceva parte Sabrina Misseri, come fare spogliarelli o andare a vedere le coppiette, coinvolgendo presumibilmente anche Sarah. Certo che ognuno di noi ci si potrebbe anche chiedere cosa facesse una ragazza di 15 anni insieme ad una comitiva di maggiorenni ed avere orari di rientro non compatibili per una ragazza della sua età. Concetta ha aggiunto che «è possibile» che Cosima abbia inseguito Sarah e abbia partecipato al delitto, secondo la tesi dell’accusa, perchè «lei è di altra tradizione, di altra generazione e non accettava questo stile di vita di Sabrina». «Non è vero, come hanno detto – ha aggiunto – che io odio Sabrina e Cosima. Mi fa rabbia che loro ce l’abbiano ancora con Sarah e continuino a dire che sono innocenti nonostante l'evidenza».» Un giornalista chiede a Concetta: “Signora Concetta Serrano (madre di Sarah Scazzi), dopo trentasette udienze e tanti testimoni, quali cose ha capito di questo processo? E che cosa si aspetta?” «Ho trovato eccellente la presidente della Corte d’Assise Rina Trunfio, bravi anche i pubblici ministeri Mariano Buccoliero e Pietro Argentino che hanno condotto indagini puntuali e puntigliose. Come andrà a finire non lo so, non ho molta fiducia nella giustizia degli uomini. I magistrati, anche loro, si devono attenere a certi dettami di legge che non ci proteggono. Anche se gli imputati prenderanno il massimo della pena, tra indulti e buona condotta li rivedremo in giro dopo pochi anni. Così, tanti sacrifici, tanto lavoro e tanti soldi di noi cittadini a che cosa saranno serviti? A niente. Ieri sono andata a comprare delle caramelle e il negoziante mi ha fatto notare la stranezza delle leggi: Fabrizio Corona deve stare in carcere cinque anni per reati tutto sommato banali, mentre mio cognato Michele, che ha gettato il corpo di una bambina in un pozzo, lo vediamo girare libero in paese come se niente fosse. Non solo io, ma tutto il paese è indignato per questo». Critiche alla giustizia in senso lato ed apprezzamenti ai magistrati, che poi non sono altro che il corpo e l’anima della giustizia e per gli effetti gli unici responsabili dell’ingiustizia e della malagiustizia. La ricerca di un colpevole e non del colpevole e la pena dura e certa da far scontare in canili umani per soddisfare il bisogno di vendetta e non di giustizia, pare che sia l’opinione di Concetta Serrano. Le convinzioni di Concetta Serrano sui magistrati italiani non sono certo condivise da altre mamme come lei, certo non traviate dal turbinio mediatico, ma artatamente i media usati da quest’ultime come strumento per una lotta dura e costante mirante alla ricerca della verità. «Ci sono in Italia "inefficienze gravi" nelle indagini che riguardano i sequestri dei bambini, "qualcosa che non funziona" su cui il governo deve intervenire, altrimenti "i bambini continueranno a sparire e non verranno mai trovati".» L’accusa arriva da Piera Maggio e Maria Celentano, rispettivamente la madre di Denise Pipitone  – scomparsa a Mazara del Vallo il 1 settembre del 2004 – e di Angela Celentano, sparita sul Monte Faito il 10 agosto 1996. Intervenute a ‘Buona Domenica’ su Canale 5 del 1 marzo 2008 le due madri hanno preso spunto dalla vicenda di Ciccio e Tore. «Il mio pensiero va a quei due bambini che purtroppo non ci sono più. Ringrazio Dio perché ho ancora la speranza di riabbracciare Angela e invece quei due bambini sono lassù - dice Maria Celentano per attaccare investigatori e inquirenti. «C’é in Italia un’inefficienza grave nelle indagini sui sequestri di bambini – afferma Piera Maggio – Nel 2007 abbiamo scoperto una cosa allucinante. Ci sarebbe stata la risoluzione del caso di Denise, e nessuno se ne era accorto. La sfortuna maggiore di mia figlia è stata quella di avere delle persone che la cercavano che forse non avevano le competenze per svolgere determinate indagini. Ho perso e mi hanno fatto perdere la fiducia nella giustizia italiana. Le famiglie - aggiunge la mamma di Denise - possono fare poco e niente, non hanno mezzi, aiuti necessari. Sono sole psicologicamente e moralmente e a pagare sono sempre i bambini». Parole simili arrivano da Maria e Catello Celentano. «Forse dodici anni fa non c’erano i mezzi che ci sono oggi – dice Maria – ma la realtà e sempre quella: i bambini spariti non si trovano. Non so perché, forse c’é poco impegno e poca responsabilità da parte degli adulti, ma qualcosa che non funziona c’é perché i bambini continuano a sparire. E poi si ritrovano in questo modo qua che è una cosa veramente atroce». «In Italia - aggiunge il marito - ogni volta che scompare un bambino si impiegano persone che non sono attrezzate, non hanno capacità e mezzi. E invece bisogna fare di più per loro». La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia.  Il mio libro “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese. Tutto quello che non si osa dire”, fa parte integrante della collana editoriale “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo” composta da 50 opere trattanti, appunto, la sociologia storica, di cui io sono profondo cultore: ossia rappresentare e studiare il presente, rapportandolo al passato e riportandolo al futuro. Il libro su Sarah Scazzi è la vicenda soggettiva ed oggettiva che rappresenta l’Italia. Sarah Scazzi può essere Yara Gambirasio, Elisa Claps, Ciccio e Tore, Denise Pipitone, e tutte quelle vicende misteriose che hanno interessato i media. Se l’Italia dei media ha giudicato Avetrana, influenzando il pensiero dei più, un Avetranese giudica l’Italia dei media e le sue patologie: omertà, censura, disinformazione. E lo fa con una certa e non indifferente perizia, adottando un sistema inoppugnabile. Non riportare le proprie opinioni, che non interessano a nessuno ed a scanso di accuse di mitomania o pazzia, ma affidarsi ai fatti certi ed incontestabili, citandone la fonte. Il libro work in progress aggiornato periodicamente come tutti gli altri libri si può trovare da leggere gratuitamente sul sito dell’associazione di cui sono presidente nazionale www.controtuttelemafie.it in cui vi sono pure i filmati di riferimento, ovvero a minimo costo su Google libri, su Amazon per l’E-Book o su Lulu per il cartaceo.»

E sui magistrati in generale cosa ha da dire?

«Toghe rosse, toghe nere, toghe rotte. I giudici come le seppie e i polpi: cambiano colore a seconda degli imputati?

Il problema forse non è tanto nel colore delle toghe ma nella loro insita incapacità di cogliere la verità storica nelle vicende umane. La loro presunta superiorità morale e culturale rispetto alla massa, avallata dal concorso truccato che li abilita, li pone talmente in alto che miseri loro non riescono a leggere bene la realtà che li circonda. Insomma loro son loro e noi “non siamo un c….”. Le strade italiane, oramai, sono diventate molto più transitabili, quasi deserte, non perché le persone son diventate improvvisamente più casalinghe e pantofolaie, ma semplicemente perché certuni PM e Giudici di casa nostra amano sbattere nelle patrie galere chiunque gli giri intorno: quindi, tutti dentro appassionatamente! La Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo accusa ad alta voce il nostro Paese, che viene giustamente condannato per il trattamento inumano e degradante dei carcerati detenuti nelle infernali galere italiche. Pensate che tale richiamo abbia minimamente scosso gli uomini dalla galera facile? I pubblici ministeri, i Gip, i Gup e i Procuratori Capo? I giudici monocratici o riuniti in assise. Neanche per idea! Al minimo dubbio, al fresco, nei Grand Hotel Italiani a -7 stelle; le cui stanze di meno di 3 metri quadrati possono contenere anche tre o quattro detenuti. Ma, a loro cosa può interessare; per le tenebrose toghe nere ciò che conta è apporre tacche su tacche alle loro pistole fumanti. Tanto chi paga quest’ammasso di carne sovrapposta in loculi invivibili è il cittadino italiano. I tantissimi processi, indagini, rinvii a giudizio per chi non ha fatto un emerito c…., e i tantissimi suicidi che si verificano settimanalmente in tali luoghi di tortura, non contano niente. L’importante è che di fronte a una ridottissima controversia ci si copra le spalle, ammanettando coloro che - di fatto - potrebbero a tutti gli effetti, e molti lo sono, essere innocenti. Tanto i Giudici, i PM e compagnia bella non verranno mai toccati, né verranno mai chiamati a rispondere in solido (pecuniariamente, moralmente, penalmente) dei misfatti compiuti. Solo nei casi eclatanti di magistrati pedofili, di giudici che usano il proprio ufficio per ricattare sessualmente viados o donne della mala, o di quelli conniventi con le varie mafie, si arriva a arrestarli, sed post breve tempus tutto viene subdolamente fatto passare nel dimenticatoio. Questa, purtroppo, è la disperata situazione della legge italiana, a voler continuare a non separare le carriere, a rimandare da tempo immemore la riforma della giustizia, e all’equiparare reati inferiori, quello, per esempio, di Fabrizio Corona, a reati gravissimi come l’omicidio, altro esempio la sentenza vergognosa del macellaio Jucker che si è fatto solo 10 anni per aver trucidato la fidanzata. In campagna elettorale si parla di tutto, meno della libertà del cittadino italiano che sta scomparendo, terrorizzato dalle cupe toghe nere. Il rischio della rappresentanza politica è sbagliare il rappresentante, perché questi signori nominati dall’alto si presentano in un modo e poi si comportano al contrario.»

Che rapporto ha lei con i magistrati locali e se ha fiducia nel loro operato, tenendo conto anche dell’esito del processo sul delitto di Sarah Scazzi?

«C’E’ SEMPRE UN GIUDICE A BERLINO. IL FUTURO AFFIDATO ALLA SORTE PER CHI RACCONTA LA VITA SENZA PARAOCCHI. La condanna o l’assoluzione affidata alla fortuna per la quale ti viene assegnato un magistrato dedito alla giustizia e non al culto della propria personalità. Quando, per poter esercitare il diritto di critica e di cronaca, senza pagare fio, ti tocca essere giudicato dal giusto giudice assegnato per sorte (e non per normalità come dovrebbe essere). «Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Questa premessa per raccontare le mie e l’altrui vicissitudini giudiziarie per aver scritto la verità  e l’esito differenziato dei processi  in virtù del giudice che ha deciso sulle cause.  Per raccontare come può cambiare il senso della vita dell’imputato le cui sorti sono pendenti dal volere  di una persona,  il cui giudizio può essere falsato da un criticabile modus operandi. E’ un giorno come gli altri in quel Tribunale. Tribunale di Manduria, sezione staccata di Taranto. Ma è come se fossi in qualunque Tribunale d’Italia. E’ il 21 febbraio 2013, ma può essere qualsiasi altro giorno dell’anno che fu o che sarà. Sono lì da imputato per l’ennesimo processo per diffamazione a mezzo stampa, uno dei tanti senza soluzione di continuità. E’ il prezzo da pagare per non essere pecora in un immenso gregge. In attesa del mio turno, tra i tanti procedimenti chiamati, seguo il processo a carico dei dirigenti della Banca di Credito Cooperativo di Avetrana ed a carico di un noto politico dello stesso paese, la cui moglie si presenta alle elezioni per la Camera dei Deputati. Sono molteplici i reati contestati, in riferimento ad un assegno incassato ante datato e firmato per somme di denaro riferibili ad un defunto. La stessa banca è coinvolta, tramite il suo funzionario, anche nella vicenda di Sarah Scazzi. Nel proseguo dei procedimenti penali sento il nome dell’imputato di un altro processo, Giovanni Caforio, anche lui perseguito per diffamazione a mezzo stampa. Anche lui una mosca bianca nel sistema disinformativo locale. Accusato e giudicato per aver scritto sul suo giornale di Sava, Viva Voce, il resoconto critico della mal amministrazione cittadina a vantaggio personale, facendo riferimento ad un procedimento penale a carico di un amministratore, avvocato. L’avvocato Romoaldo  Claudio Leone, sentendosi diffamato, ha querelato il direttore del giornale. Nel processo è stato difeso come parte civile dall’avv. Gianluigi De Donno. Il giudice titolare Rita Romano non è lei a decidere ed allora in quel processo accade una cosa che non ti aspetti: il suo sostituto, il giudice togato Simone Orazio, dopo un’attenta ed approfondita analisi della questione giuridica, assolve l’imputato, visibilmente commosso. Strano quel che è successo in quel giorno in quell’aula. In precedenti udienze il direttore Giovanni Caforio era già stato più volte condannato per lo stesso reato, ma per altri fatti, proprio dal Giudice Rita Romano. Sentenze naturalmente appellate. Per la Corte di Appello di Taranto, che assolve Giovanni Caforio perché il fatto non costituisce reato, è da assolvere "perchè nella critica, la verità esprime un giudizio che, in quanto tale, è sì, l’elaborazione soggettiva di un avvenimento ma non può del tutto essere scollegata dalla realtà". Ancora mi rimbomba in testa quel che accadde il 12 luglio 2012: assolto con la formula più ampia nel Tribunale di Manduria dove è titolare Rita Romano, ma da lei non giudicato: per non aver commesso il fatto. Assolto dal giudice onorario della sezione distaccata di Manduria, avv. Frida Mazzuti, su richiesta del Pubblico Ministero Onorario avv. Gioacchino Argentino. Nulla di che, se non si trattasse dell’epilogo di un atto persecutorio da parte della magistratura tarantina. Questa è una esperienza che insegna e che va raccontata. L’oscuramento del sito web effettuato con reiterati atti nulli di sequestro penale preventivo emessi dal Pubblico Ministero togato Adele Ferraro e convalidati dal GIP Katia Pinto. Lo stesso GIP che poi diventa giudice togato del dibattimento e che alla fine del processo proclamerà la sua incompetenza territoriale. Dopo anni il caso passa al competente Tribunale di Taranto. Qui il Gip Martino Rosati adotta direttamente l’atto di reiterazione del sequestro del sito web, senza che vi sia stata la richiesta del PM. Il reato ipotizzato è: violazione della Privacy. Non diffamazione a mezzo stampa, poco punitiva, ma addirittura violazione della privacy, reato con pena più grave. E dire che gli atti pubblicati non erano altro che notizie di stampa riportate dai maggiori quotidiani nazionali. Era solo un pretesto. Di fatto hanno chiuso un portale web di informazione e d’inchiesta di centinaia di pagine che riguardava fatti di malagiustizia, tra cui il caso di Clementina Forleo a Brindisi e una serie di casi giudiziari a Taranto, oggetto di interrogazioni parlamentari. Tra questi il caso di un Pubblico Ministero che archivia le accuse contro la stessa procura presso cui lavora; che archivia le accuse contro sé stesso come commissario d’esame del concorso di avvocato ed archivia le accuse contro la sua compagna avvocato, dalla cui relazione è nato un figlio. Fatti di malagiustizia conosciuti e scaturiti da esperienze vissute personalmente o raccontate dalle vittime, fino a quando mi hanno permesso di svolgere la professione di avvocato e successivamente in qualità di presidente di un’associazione antimafia. Dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, nonostante i più noti avvocati di quel foro abbiano rifiutato di difendermi e sebbene tutti i miei avvocati difensori mi abbiano abbandonato, eccetto l’avv. Pietro DeNuzzo del Foro di Brindisi. Qualcuno si è fatto addirittura pagare da me, nonostante abbia percepito i compensi per il mio patrocinio a spese dello Stato. Ed ancora dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, anche in virtù del fatto che il giudice naturale, Rita Romano, sia stata ricusata in questo processo, perché non si era astenuta malgrado sia stata da me denunciata. A dispetto di tutte le circostanze avverse vi è stata l’assoluzione, ma i magistrati togati hanno ottenuto comunque l’oscuramento di una voce dell’informazione. Voce che in loco è deleteria al sistema giudiziario e forense tarantino e contrastante con la verità mediatica locale. Da rimarcare è il fatto che tutte, dico tutte, le mie denunce od esposti presentati agli organi competenti sono state regolarmente insabbiati: archiviati o di cui non si è più avuto notizia pur chiedendo esplicitamente l’esito. Far passare per mitomane o pazzo chi è controcorrente è la prassi, per denigrarne nome ed attività. Nonostante non vi sia mai stata condanna per calunnia.»

Quindi ritiene che, nonostante la sua opera moralizzatrice, alcuni magistrati del posto la perseguitano?

«Non  dimentico il 18 aprile 2013. Due processi a Manduria, sezione staccata del tribunale di Taranto. In quei processi scomodi, che nessuno vuol fare, più giudici togati di Taranto si avvicendano: Rita Romano, Vilma Gilli, Maria Christina De Tommasi; oltre a 2 giudici onorari: Frida Mazzuti e Giovanni Pomarico. Processi a mio carico costruiti ad arte senza che vi sia stata la querela necessaria o la denuncia di attivazione. Alla prima giudice, Rita Romano, si è presentata ricusazione per la denuncia presentata contro di lei. In seguito di ciò l’avv. Gianluigi De Donno rinuncia alla mia difesa. Ha avuto le stesse remore di Nicola Marseglia nel momento in cui Franco Coppi ha presentato istanza di astensione alla Misserini ed alla Trunfio, i giudici di Sabrina Misseri. Per il primo sono accusato di calunnia in concorso con mia sorella, per aver presentato una denuncia contro un sinistro truffa, in cui era coinvolta un’avvocatessa stimata dai magistrati di Taranto, compreso  un sostituto procuratore della Repubblica dello stesso Foro in cui esercitava, e sono accusato di diffamazione a mezzo stampa per aver pubblicato un esposto penale ed amministrativo a varie istituzioni denunciando questo ed altri casi di malagiustizia. Per l’altro processo sono accusato di diffamazione a mezzo stampa per aver pubblicato una denuncia contro le perizie false in Tribunale, da chi, Giuseppe Dimitri, mio cliente che ho difeso da avvocato fino all’estremo, mancava di legittimazione a farlo, in quanto il presunto diffamato era altra persona, cioè il denunciato. In udienza il danneggiato ha confermato che non ha mai presentato querela contro di me, né aveva avuto mai intenzione di farlo. Per quella denuncia il giudice Rita Romano ha condannato per calunnia Dimitri, nonostante il Consulente Tecnico del Tribunale, proprio per il reato di cui era accusato, era già stato depennato dalla lista tribunalizia dei CTU. Nel primo processo mi si accusa di aver calunniato, in concorso con mia sorella, un avvocato, Nadia Cavallo, accusandola, sapendola innocente, di aver chiesto ed ottenuto illecitamente i danni per un sinistro truffa e con testimoni falsi in suo atto di citazione che indicava come responsabile esclusiva Monica Giangrande. In effetti Monica Giangrande non era responsabile di quel sinistro. Eppure è stata condannata dal giudice Rita Romano. La condanna per calunnia a carico di mia sorella inopinatamente non è stata appellata dai suoi avvocati, pur sussistendone i validi motivi. La giudice, Rita Romano, è stata da me denunciata, così come Salvatore Cosentino, sostituto procuratore a Taranto e poi trasferito a Locri . Salvatore Cosentino, come tutti i magistrati di Taranto aveva molta stima per Nadia Cavallo. Rita Romano ha condannato mia sorella pur indicando in sentenza che altra persona era responsabile esclusiva del sinistro, così come mia sorella andava attestando. Va da sé che tale sentenza contenente illogicità e contraddizioni sarebbe dovuta essere appellata. Salvatore Cosentino era il Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto che ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione della denuncia contro la Procura di Taranto. Procura che ha archiviato le denunce presentate riguardo proprio a quel sinistro truffa. I processi civili inerenti il sinistro sono stati tutti soccombenti, nonostante le prove indicassero palesemente il contrario. La Nadia Cavallo ha ottenuto il risarcimento danni del sinistro dall’assicurazione, oltre che 25,000 mila euro di danni morali da Monica Giangrande proprio per la condanna di calunnia. Per questo procedimento la mia posizione sin dall’inizio è strana. Non sono convocato nella prima udienza preliminare con mia sorella, quindi è nullo il mio rinvio a giudizio. Dopo anni, nella seconda udienza preliminare, il GUP chiede al PM gli atti di prova a mio carico, in tale sede mancanti. Alla risposta negativa gli concede ulteriore termine di 6 mesi per trovare la prova della mia colpa, al termine dei quali, durante la terza udienza preliminare vi è comunque il Rinvio a Giudizio. All’ultima giudice devo provare se il fatto sussiste, se l’ho commesso, se è previsto come reato. Ebbene. Io, come mia sorella sapevamo benissimo che l’avvocato era colpevole: perché non era attendibile la versione fornita dell’evento. Ma questo non lo dicevamo solo noi, io e mia sorella, ma anche l’avvocato della compagnia assicurativa costituita nei vari giudizi. Eppure questi non è stato perseguito dello stesso reato. Per la compagnia non era verosimile il fatto che un signore che tocca lo sportello di un’auto non identificata e condotta da signora diversa dalla Monica Giangrande, si alzi e se ne vada, per poi chiamare un’ambulanza per farsi portare a casa e non in ospedale. Eppure negli atti di citazione non viene chiamata in causa la vera responsabile del presunto sinistro ed il vero proprietario dell’auto. Ciò nonostante si conoscesse il responsabile esclusivo del sinistro, veniva chiamata in causa mia sorella che acclamava a gran voce la sua estraneità. Ma il fatto eclatante è che sono stato accusato di calunnia io che quella denuncia non l’ho mai presentata, né ho indotto mia sorella a farlo, non essendo il suo avvocato. Sono stato accusato di calunnia io, che se l’avessi fatto, sapevo benissimo che la denuncia era fondata. Per quanto riguarda la seconda accusa, di diffamazione a mezzo stampa, c’è da dire che il sito web, su cui vi era l’articolo che faceva riferimento ai fatti, non era mio, né l’articolo era a me riferibile. Io per scrivere le mie inchieste ho moltissimi miei canali di divulgazione facilmente riconducibili a me e di quelli io ne rispondo. Né tantomeno la Polizia Postale si è prodigata sotto gli ordini del PM di sapere dall’azienda web provider che gestisce il server di pubblicazione chi fosse il vero proprietario del sito web e quindi responsabile delle pubblicazioni. E bene sapere, comunque, al di là di questo, che è lecita la pubblicazione delle denunce penali, così come stabilito dalla Corte di Cassazione. Per questi processi, come volevasi dimostrare, con il giusto giudice l’esito è scontato: Assoluzione piena da parte del Giudice Togato Maria Christina De Tommasi e da parte del GOT Giovanni Pomarico. Anzi, meglio ancora. Giovanni Pomarico, nel processo della presunta diffamazione per le perizie false, non ha fatto altro che registrare la remissione della querela delle parti. Di chi non aveva legittimazione a presentarla contro di me e di chi addirittura non l’aveva presentata affatto. Con il giudice naturale, se non vi fosse stata la ricusazione, sarebbe stata condanna certa. Quanto successo a Caforio mi conforta di un fatto: aver adottato i rimedi giusti per potermi salvare da sicura condanna. Il giudice titolare Rita romano è stata da me denunciata per fatti attinenti l’attività giudiziaria, scaturenti condanne per me, che nel proseguo si sono estinti, e per i miei familiari, e per tale denuncia è stata ricusata. Le ricusazioni presentate contro il giudice nei successivi processi che mi riguardavano, ha permesso a me di cambiare il mio destino e comunque di essere giudicato da giudici diversi e per gli effetti di essere dichiarato assolto. Per le ricusazioni presentate per palese mio interesse, però, lo stesso avvocato Gianluigi De Donno, mio difensore, ha rimesso il suo mandato. Motivo: la Ricusazione non si doveva fare. C’è da sottolineare che successivamente il Giudice Rita Romano, ogni qualvolta era investita dei miei procedimenti,  si asteneva,  tacendo della mia denuncia contro di lei, non mancando, però, di sottolineare ad alta voce nelle udienze affollate che l’astensione era dovuta al fatto che io ero stato da lei denunciato per calunnia. Denuncia che avrebbe scaturito un procedimento, di cui io non avevo avuto notizia. Non solo. Il 18 febbraio 2013 il Pm Ida Perrone, sostituta di Pietro Argentino (entrambi denunciati a Potenza) nella sua requisitoria in un procedimento per il reato di usura a carico di un Giangrande (poi non condannato) ha pensato di dichiarare: «i Giangrande sono ben noti in Avetrana per essere considerati usurai e per aver io stessa trattato alcuni procedimenti». In quello stesso collegio giudicante la medesima Rita Romano ha dovuto astenersi per grave inimicizia con il sottoscritto per i suddetti motivi riferiti. Le stesse affermazioni diffamatorie sono state proferite in altro procedimento penale in sede di conclusioni dall’avvocato Pasquale De Laurentiis, difensore di un individuo giudicato e condannato proprio per diffamazione in udienza ed anche lui per aver pronunciato proprio la stessa frase. Evidentemente questi signori lo possono fare, legittimati a farlo dal loro ruolo ed agevolati dal farlo da chi in toga lo permette, senza alcun controllo alcuno, tanto meno se le vittime in tale sede non possono alcunchè obbiettare, né tali dichiarazioni offensive, denigratorie e diffamatorie rese in udienza, vengono verbalizzate dai cancellieri per poter querelare i responsabili, sempre che si trovi un loro collega disposto a perseguirli. E’ chiaro che i magistrati e gli avvocati di Taranto e provincia hanno il dente avvelenato contro di me. L’intento è colpire i Giangrande per colpire il Giangrande, ossia me. Ma una cosa è certa. In Avetrana vi sono centinaia di persone con il cognome Giangrande. Nessuno di loro è stato mai condannato in via definitiva per il reato di usura. Quindi nulla si può dire sul nome Giangrande, ne tanto meno si può dire qualcosa su di me, Antonio Giangrande, che, oltretutto, sono il presidente nazionale proprio di una associazione antiracket ed antiusura, il quale ha fatto l’errore di battersi contro l’usura bancaria e l’usura di Stato. E’ quello che a Taranto è stato il primo ad attivarsi contro le bufale dei titoli MyWay e 4you della Banca 121 poi Banca Monte Paschi di Siena. Quello che ha lottato a tutela degli incapaci e delle perizie false. Quello che ha denunciato i concorsi pubblici truccati e i sinistri stradali falsi. Denunce regolarmente archiviate. Certo è che io, sì, invece, ho scritto libri sui miei detrattori. Specialmente quelli operanti sul foro di Taranto. Che sia per questo il motivo di tanto astio? Ed è questo il motivo che non vogliono che faccia l’avvocato e da decenni non mi abilitano alla professione forense? Ed è questo il modo di collaborare con chi ha il coraggio di mettersi contro la mafia e di affermare che comunque la mafia vien dall’alto e per gli effetti aver denunciato le malefatte dei poteri forti e presentato altresì a Potenza le denunce contro i magistrati di Taranto, che tra l’altro si son archiviati una denuncia a loro carico anziché girarla proprio a Potenza? Per questo forse non vi è alcuna collaborazione istituzionale e sostegno morale e finanziario, per il modo di pormi nei confronti dei poteri forti? Ed è per tutto questo che i loro amici giornalisti ignorano e denigrano me così come fanno con Beppe Grillo?»

Lei ha altri esempi di contrastanti giudizi riferibili all’attività dell’informazione?

«Certo. Il 21 febbraio 2013, un altro fatto. Dopo la richiesta di assoluzione da parte dell'accusa, il giudice del Tribunale di Casarano dott. Sergio Tosi, ha assolto Maria Luisa Mastrogiovanni per tutti e 12 i capi di imputazione. Il fatto non sussiste. E' la sentenza con la quale è stata assolta dall'accusa di diffamazione a mezzo stampa la giornalista Maria Luisa Mastrogiovanni, direttore del Tacco d'Italia. A portarla davanti al Tribunale penale di Casarano, presidente Sergio M. Tosi, è strato Paolo Pagliaro, editore televisivo salentino molto noto di Tele Rama, a sua volta protagonista di alcune vicissitudini giudiziarie, ma come imputato. Proprio queste vicende (l'uomo subì anche gli arresti domiciliari per un'inchiesta della procura barese, il cui processo è stato stralciato dal troncone principale nel quale è stato invece condannato l'ex ministro Fitto), insieme ad una serie di irregolarità e stranezze nella conduzione della sua azienda, costituirono l'oggetto di una corposa inchiesta di copertina de Il Tacco d'Italia, andato in edicola nel dicembre 2005. La stessa sorte non è toccata per Enzo Magistà e Antonio Procacci. Il gip di Bari Gianluca Anglana ha disposto l’imputazione coatta per i giornalisti di Telenorba Enzò Magistà e Antonio Procacci coinvolti nell’inchiesta scaturita dalla messa in onda del filmato girato dalla polizia scientifica di Perugia che mostrava il cadavere di Meredith Kercher. Meredith Kercher fu uccisa nel novembre del 2007 a Perugia e, nella casa in cui viveva, fu girato un video dalle forze dell’ordine per esaminare la scena del crimine che in seguito fu mostrato da Telenorba, una emittente pugliese. Il gip ha invece archiviato le posizioni dei familiari di Raffaele Sollecito, assolto in secondo grado dall’accusa di omicidio volontario insieme ad Amanda Knox. Il pm di Bari aveva chiesto l’archiviazione per tutti gli indagati perché «la diffusione di alcune parti del filmato relativo al sopralluogo effettuato dalla polizia scientifica nell’abitazione in cui venne rinvenuto il cadavere di Meredith Kercher – è stato scritto nella richiesta di archiviazione – , nel quale viene ripreso il corpo denudato della vittima, è avvenuto nell’ambito dell’esercizio del diritto di cronaca senza alcun intento offensivo della reputazione della studentessa uccisa». “Leso il diritto alla riservatezza ed alla tutela dell’immagine della ragazza e, per lei, dei suoi familiari”. E’ scritto, invece, in un passaggio dell’ordinanza con cui il gip del Tribunale di Bari Gianluca Anglana ha accolto l'opposizione proposta dalla famiglia di Meredith Kercher, la studentessa inglese uccisa a Perugia la notte tra il primo e il 2 novembre 2007, con riferimento alla richiesta di archiviazione per due giornalisti pugliesi che nel marzo 2008 mandarono in onda le immagini del corpo nudo della vittima.  Il giudice, nel disporre l’imputazione coatta per Enzo Magistà, direttore di Telenorba, e per il giornalista Antonio Procacci, ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura di Bari in relazione ai reati di diffamazione a mezzo stampa e violazione del codice della privacy. In particolare è “pacifica la sussistenza dei requisiti della verità dei fatti rappresentati”, secondo il gip, e “non sembra rispettato il requisito della continenza nella esposizione del servizio”. Per il giudice, “risultano obiettivamente raccapriccianti le immagini delle ferite” e “tali da turbare il comune sentimento della morale”. L'inchiesta, nata dalla denuncia della famiglia Kercher, è approdata a Bari dopo che, in udienza preliminare, il gup di Perugia ha dichiarato la propria incompetenza territoriale. Il procuratore di Bari, Antonio Laudati, nel luglio 2012, aveva chiesto l’archiviazione del procedimento per tutti gli indagati (oltre Magistà e Procacci, anche i familiari di Raffaele Sollecito), ritenendo per i giornalisti “che gli stessi avessero agito nel legittimo esercizio del diritto di cronaca” e per gli altri l’insufficienza di elementi per sostenere l'accusa a dibattimento. Il giudice ha accolto la richiesta di archiviazione per padre, madre, sorella e due zii di Sollecito, condividendo le conclusioni della procura.»

Per le mie battaglie di civiltà e giustizia, che nonostante tutto creano un certo seguito nazionale, non potrei mai trovare una candidatura in qualsiasi partito tradizionale, reazionario e conservatore, da destra a sinistra. Eppure, in questa situazione di emarginazione e persecuzione, neanche in un movimento come quello di Grillo ho potuto trovare un posto in Parlamento per battermi per quello che so e per quello che sono a vantaggio dei più. Motivo? Perché i nuovi giustizialisti e moralisti della domenica hanno pensato bene di inibire le candidature a chi è indagato o condannato. Fa niente se trattasi di ritorsione giudiziaria al diritto sacrosanto di critica al malgoverno ed alla corruzione. Nel 2013 i grillini, primo partito a Taranto e secondo in provincia, catapultano a Roma ben due deputati. Oltre al più noto Alessandro Furnari, c’è anche Vincenza Labriola. La neo deputata 32 anni, mamma, laureata in Scienze della Comunicazione, prima delle politiche è stata già candidata al Consiglio comunale. Nel 2012 raccolse un solo voto di preferenza, oggi invece lo ‘tsunami’ di Grillo che ha investito il paese, l’ha lanciata in Parlamento. Precedenti risultati elettorali? Un voto. Sì, proprio così. Un solo voto di preferenza alle comunali di maggio 2012. È questo il «precedente» elettorale della neodeputata del Movimento Cinque Stelle, Vincenza Labriola, che insieme ad Alessandro Furnari, rappresenta i «grillini» parlamentari della provincia ionica. Ma se Alessandro Furnari, ex candidato sindaco alle comunali (prese l’1.6 per cento), bene o male lo si conosce, chi è mai Labriola? Alla «Gazzetta» lei si presenta così: «Sono laureata in Scienze della comunicazione ed ho discusso una tesi sullo sviluppo dell’arco ionico. E poi, trovare un lavoro confacente al titolo acquisito è risultata un'impresa praticamente impossibile nella mia città. Sono sposata - continua - ed ho scelto di rimanere nella mia città per amore». Quell’unico voto (anche se, un anno fa era diventata madre per la seconda volta e non aveva tempo per fare campagna elettorale) conferma, in maniera plastica, le tante contraddizioni del Porcellum. Ovvero, di una legge elettorale che (nonostante le primarie «democratiche e le parlamentarie degli stessi grillini) premia comunque i «nominati». Mandando a Montecitorio e a Palazzo Madama chi, di fatto, non ottiene un solo voto dagli elettori ma conquista il seggio in virtù della posizione in lista. Anzi, no. Labriola, un voto (ma proprio uno) l’ha comunque avuto...

LETTERA AL DEPUTATO MAI ELETTO

Signore Onorevole Cittadino Parlamentare,

avrei bisogno per un attimo della sua attenzione. Dedichi a me un suo momento,così come io dedico le mie giornate alle vittime di mafia e delle ingiustizie. Questa mia segnalazione non è spam, né tantomeno l’istanza di un mitomane o di un pazzo e quindi da cestinare.

Sono il dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, riconosciuta dal Ministero dell’Interno come associazione antiracket ed antiusura, e scrittore-editore dissidente, che proprio sulle varie tematiche sociali ha scritto 50 libri letti in tutto il mondo facenti parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare.

Mi rivolgo a voi perché nuovi, in quanto i parlamentari delle legislature precedenti non si sono mai degnati di dare dovuto  riscontro alle mie segnalazioni di interesse pubblico. Nell’ambito della mia attività sempre io ho dato risposte ai miei interlocutori pur se a volte erano persone disperate e fuori di testa e quindi pretendenti risposte che io, senza potere, potessi dare.

Per prima cosa le sto a segnalare il fatto, già segnalato ai precedenti Parlamenti, che è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia vi è l’assoluto monopolio dell’antimafia in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 17 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me è stato impedita l’iscrizione per mancata costituzione dell’albo.

Altra segnalazione di una mia battaglia ventennale riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti.

Il sistema di abilitazione truccato riguarda tutte le professioni intellettuali: magistrati, avvocati, professori universitari, giornalisti, ecc. La domanda che ci si dovrebbe porre è: dov’è il trucco?

COMMISSIONI D’ESAME: con la riforma del 2003, (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180), dopo gli scandali e le condanne sono stati esclusi dalle commissioni d’esame i Consiglieri dell'Ordine degli Avvocati, competenti per territorio, mentre i Magistrati e i Professori universitari non possono correggere gli scritti del loro Distretto. Le commissioni locali fanno gli orali e vigilano sullo scritto, mentre gli elaborati sono corretti da altre commissioni estratti a sorte. Questa riforma, di fatto, mina la credibilità delle categorie coinvolte. Le Commissioni  e le sottocommissioni hanno un diverso metro di giudizio, quindi alla fine bisogna affidarsi anche alla buona sorte per avere una commissione più benevola. Naturalmente, le Commissioni del nord continuano ad avere un atteggiamento pro lobby, limitando l’accesso all’avvocatura al 30% circa dei candidati, per paura che i futuri avvocati del sud emigrino al nord. A riguardo ci sono state interrogazioni scritte al Ministro della Giustizia da parte di deputati (n. 4-10247, presentata da Pietro Fontanini mercoledì 16 giugno 2004 nella seduta n. 478 e n. 4-01000 presentata da Silvio Crapolicchio mercoledì 20 settembre 2006 nella seduta n. 038). Dubbi sono sorti anche sul modo di abbinare le commissioni. Il deputato lucano Vincenzo Taddei (PdL) ha presentato un’interrogazione scritta al Ministro della Giustizia. Il motivo della richiesta di intervento è preciso: per ben tre anni consecutivi, nel 2005, 2006 e 2007, da quando sono entrate in vigore le modifiche sullo svolgimento dell’esame di avvocato, le prove scritte dei candidati della Corte d’Appello di Potenza stranamente sono state sempre corrette presso la Corte d’Appello di Trento con percentuali di ammessi all’orale sempre molto basse (nel 2007 circa il 18%).

LE TRACCE: sono conosciute giorni prima la sessione, tant’è che il senatore Alfredo Mantovano ha presentato una denuncia penale ed una interrogazione al Ministro della Giustizia (n. 4-03278 presentata il 15 gennaio 2008 Seduta n. 274).

INIZIO DELLE PROVE: la lettura delle tracce avviene secondo le voglie del Presidente della Corte d’Appello, che variano da città a città. Nel 2006 la lettura delle tracce a Lecce è stata effettuata alle ore 11,45 circa, anziché alle 09,00 come altre città. In questo modo i candidati hanno tempo di farsi dettare le tracce e i pareri sui palmari e cellulari, molto prima della lettura ufficiale.

IL MATERIALE CONSULTABILE: nel 2008, tra novembre e dicembre il caos. Se al concorso di magistratura succede di tutto, a quello di avvocatura è ancora peggio. Due concorsi diversi, stessa sorte. Niente male per essere un concorso per futuri magistrati ed avvocati. Niente male, poi, per un concorso organizzato dal ministero della Giustizia. Dentro le aule di tutta Italia, per il concorso di avvocati che si svolge in ogni Corte d'Appello italiana, è entrato di tutto: fotocopie, bigliettini con possibili tracce e, soprattutto, palmari e cellulari. Ma sul concorso in magistratura svolto a Milano c’è ne da parlare. Sopra i banchi i codici «commentati» vietati, con il timbro del ministero che ne autorizzava l'utilizzo. Relazione pubblicata sul sito del Ministero della Giustizia e protocollata con il n. 19178/2588 del 24/11/2008, in cui il presidente denuncia l'atteggiamento «obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra questi, un vicequestore della Polizia di Stato, trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima». Eppure le regole dovevano essere più rigide. Dovevano esserci più controlli. Era stato assicurato dal ministero della Giustizia. Con tanto di sanzioni e espulsioni.

IL MATERIALE CONSEGNATO: per norma si dovrebbe consegnare ogni parere in una busta, contenente anche una busta più piccola con i dati del candidato. Ma non è così. Le buste con i dati si possono aprire prima della lettura degli elaborati. A Roma, venerdì 13 marzo 2009, alla fine è dovuta intervenire la polizia penitenziaria. Al grido di “Buffoni! Buffoni!” centinaia di esaminandi del padiglione 6 al concorso di notaio si sono scagliati contro la commissione. “Questo esame è una farsa – hanno gridato – ci sono gli estremi per poterlo annullare”. Si è visto “gente che infilava un nastro rosso nella busta” per farsi riconoscere, gente che “aveva le tracce già svolte” e gente che, dopo aver chiacchierato con i commissari, “si faceva firmare la busta in modo diverso”.

CORREZIONE DEGLI ELABORATI: la legge 241/90 e il Ministero della Giustizia dettano le regole in base alle quali si deve svolgere la correzione, per dare i giudizi. Essi attengono alla rappresentanza delle categorie degli avvocati, magistrati e professori universitari, oltre all’attenzione data alla sintassi, grammatica, ortografia e sui principi di diritto del parere dato.

Cosa fondamentale, la legge regola la trasparenza dei giudizi e la Costituzione garantisce legalità, imparzialità ed efficienza.

Di fatto, le commissioni da sempre adottano una percentuale di ammissibilità, che contrasta con un concorso a numero aperto: 30% al nord, 60% al sud.

Di fatto, le commissioni sono illegittime, perché mancanti, spesso, di una componente necessaria.

Di fatto, i tre compiti non sono corretti, ma falsamente dichiarati tali, perché sono immacolati e perché non vi è stato tempo sufficiente a leggerli. (3/5 minuti per elaborato: per aprire la busta con il nome e la busta con l’elaborato, lettura del parere di 4/6 pagine, correzione degli errori, consultazione dei commissari per l’attinenza ai principi di diritto, verbalizzazione, voto e motivazione).

Di fatto, i voti dei tre elaborati sono identici e le motivazioni sono mancanti o infondate. Su tutti questi notori rilievi vi è stata interrogazione presentata dal deputato Giorgia Meloni (n. 4-01638 mercoledì 15 novembre 2006 nella seduta n.072). Oltre che quella n. 4-01126 presentata da Giampaolo Fogliardi mercoledì 24 settembre 2008, seduta n.054, e quella n. 4-07953 presentata da Augusto di Stanislao mercoledì 7 luglio 2010, seduta n.349. Illegale ed illegittimo è anche il ritardo con cui sono consegnate dalle commissioni di esame le copie degli elaborati, al fine di impedire la presentazione in termini dei ricorsi al Tar, in quanto la maggior parte di questi ricorsi sono accolti dalla giustizia amministrativa. Solo, però, se presentati in modo ordinario, in quanto le commissioni impediscono l’accesso al beneficio del gratuito patrocinio.

Di fatto, il Ministero non risponde alle interrogazioni parlamentari, né ai ricorsi dei candidati. Le denunce penali contro gli abusi e le omissioni, poi, sono gestite dai magistrati, componenti delle stesse commissioni contestate, per cui le stesse rimangono lettera morta.

Di fatto, gli ispettori in loco del Ministero della Giustizia sono componenti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, che come tali non possono far parte delle Commissioni, in quanto dalla riforma del 2003 sono stati esautorati per il loro comportamento.

Di fatto, alcuni candidati superano l’esame al primo tentativo. Chi presenta le denunce penali circostanziate e provate, invece, deve rinunciare a causa delle ritorsioni. Sulla home page di www.controtuttelemafie.it al link dossier vi sono tutti gli atti giudiziari di riferimento.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? 

Questa è la denuncia penale, così come richiesta in sede di avocazioni delle indagini alla procura Generale della Corte di Appello di Potenza, e per la quale è stata presentata (a dire di Rita Romano) denuncia per calunnia.

DENUNCIA ALLA S.V.

Rita Romano, giudice monocratico del Tribunale di Taranto, sezione staccata di Manduria,

domiciliata in viale Piceno a Manduria,

per i reati di cui agli artt. 81, 323, 476, 479 c.p., con applicazione delle circostanze aggravanti, comuni e speciali ed esclusione di tutte le attenuanti,

IN QUANTO

Essa, abusando del suo ufficio, ha adottato continuamente atti del suo ufficio, con “INTENTO PERSECUTORIO”, lesivi degli interessi, dell’immagine e della persona del sottoscritto, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove.

Nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha condannato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza, o essa ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza.

PREMESSO CHE:

Giangrande Antonio, da difensore, è stato vittima di un aggressione in casa da parte del marito di una sua assistita in un procedimento di separazione, al fine di impedirgli la presenza all’udienza del giorno successivo. Nel processo penale n. 10354/03 RGD, in data 14 febbraio 2006,  la Romano assolveva l’aggressore Mancini Salvatore. In un processo istruito, in cui il PM non ha richiesto l’ammissione di alcun testimone, pur indicanti in denuncia Giangrande Antonio, sua moglie Petarra Cosima e il figlio Giangrande Mirko, la Romano sente solo i coniugi ai sensi del’art. 507 c.p.p. su indicazione del Giangrande, ma rinuncia alla testimonianza di Mirko, il vero testimone. Tale abnorme decisione di assoluzione è stata assunta disattendendo i fatti, ossia le lesioni e le testimonianze, e definendo testimoni inattendibili il Giangrande e la Petarra.

Giangrande Antonio era accusato di esercizio abusivo della professione forense e per gli effetti di circonvenzione di incapace. Nel processo penale n. 7612/01 RGPM, in data 06/03/2007, nonostante lo stesso PM riteneva il reato di esercizio abusivo della professione forense infondato e inesistente, essendovi regolare abilitazione al patrocinio legale, chiedendone l’assoluzione, la Romano condannava il Giangrande per circonvenzione di incapace. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante le tariffe forensi prevedevano l’obbligatorietà dell’onorario per il mandato svolto. Tale abnorme decisione è stata assunta nonostante più volte si sia denunciata la violazione del diritto di difesa per mancata nomina del difensore, per impedimento illegittimo all’accesso al gratuito patrocinio. E’ seguito appello. Da notare che il giorno della sentenza era l’ultimo processo ed erano presenti solo il PM, il giudice Romano, il cancelliere e il difensore dell’imputato. Dagli uffici giudiziari è partita la velina. Il giorno dopo i giornali portavano la notizia evidenziando il fatto che il condannato Giangrande Antonio era il presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Era la prima volte che le vicende del Tribunale di Manduria avevano degna attenzione.

Giangrande Antonio era difensore di Natale Cosimo in una causa civile di sinistro stradale. Il testimone Fasiello Mario dichiara di non sapere nulla del sinistro. Esso era denunciato per falsa testimonianza. Nel processo penale n. 1879/02 PM , 1231/04 GIP, 10438/05 RGD, in data 27 novembre 2007, la Romano lo assolveva. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante lo stesso rendeva testimonianza contrastante a quella contestata. Lo assolveva nonostante affermava il vero e quindi il contrario di quanto falsamente dichiarato in separata causa. Lo assolveva nonostante a difenderlo ci fosse un difensore, Mario De Marco, impedito a farlo in quanto Sindaco pro tempore di Avetrana. Il De Marco e Nadia Cavallo hanno uno studio legale condiviso.

Giangrande Antonio e Giangrande Monica erano accusati di calunnia, per aver denunciato l’avv. Cavallo Nadia per un sinistro truffa, in cui definiva, in reiterati atti di citazione, Monica “RESPONSABILE ESCLUSIVA” del sinistro. Atti presentati due anni dopo la richiesta di risarcimento danni, che la compagnia di assicurazione ha ritenuto non evadere. Il Giangrande Antonio non aveva mai presentato denuncia. Antonio era fratello e difensore in causa di Monica. La posizione del Giangrande Antonio era stralciata per lesione del diritto di difesa e il fascicolo rinviato al GIP. Nel processo penale n. 10306/06 RGD, in data 18 dicembre 2007, la Romano condannava Giangrande Monica e rinviava al PM la testimonianza di Nigro Giuseppa per falsità. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante la presunta vittima del sinistro non abbia riconosciuto l’auto investitrice, si sia contraddetto sulla posizione del guidatore, abbia riconosciuto Nigro Giuseppa quale responsabile del sinistro, anziché Giangrande Monica. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante Nigro Giuseppa abbia testimoniato che la presunta vittima sia caduta da sola con la bicicletta e che con le sue gambe sia andato via, affermando di stare bene. E’ seguito appello.

Giangrande Antonio era difensore di Erroi Cosimo, marito di Giangrande Monica, sorella di Antonio. In causa civile, in cui difensore della contro parte era sempre Cavallo Nadia, tal Gioia Vincenzo ebbe a testimoniare sullo stato dei luoghi, oggetto di causa. Il Gioia, in chiara falsità, palesava uno stato dei luoghi, oggetto di causa, diverso da quello che con rappresentazione fotografica si è dimostrato in sede civile e penale. Il Gioia, denunciato per falsa testimonianza veniva rinviato a giudizio in proc. 24/6681/04 R.G./mod 21.  Difeso da Cavallo Nadia in proc. 10040/06 RGD. In data 16 aprile 2008 il giudice Rita Romano, pur evidenti le prove della colpevolezza, assolveva il Gioia Vincenzo.

"La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall'art 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato. (Rigetta, App. L'Aquila, 10 Marzo 2006)". (Cass. civ. Sez. III Sent., 22-02-2008, n. 4603; FONTI Mass. Giur. It., 2008).

UNA CONDANNA E UNA SANZIONE ECONOMICA. QUESTO HA DECISO IL GIUDICE DI MANDURIA, scriveva al momento della condanna da parte di Rita Romano il direttore Giovanni Caforio Arrivati alla fine gli ultimi due processi che mi vedevano imputato per il reato di “diffamazione a mezzo stampa” e quindi il Giudice, martedì 3 luglio, con sentenza di primo grado mi ha ritenuto colpevole del reato sopra citato. La prima, quella che mi vedeva accusato dall’ex sindaco Aldo Maggi è stata alquanto severa: un anno e due mesi di reclusione (con i benefici di legge, ndr), la seconda quella intentata dall’ex delegato amministrativo Claudio Leone è stata sanzionata con 900 euro di multa. Certo entrambi i verdetti di primo grado verranno appellati e quindi aspetteremo intanto le motivazioni della sentenza che mi verranno date entro i classici 90 giorni. E poi si riparte presso la Corte d’appello di Lecce. E in questo appello avremo la possibilità di ribaltare queste due sentenze, cosa che è avvenuta diverse volte. E’ normale che si accusa il colpo, e questo è innegabile, ma subito dopo mi sono rialzato e credo che nella vita a tutto si paga un prezzo e in questo prezzo c’è tutta la consapevolezza di aver fatto, e anche scritto, tutto ciò che ho ritenuto giusto. Poi le aule di Tribunale sono un altro aspetto, certo non trascurabile. Ma sono un altro aspetto. Credo fortemente nella ragione delle cose, nell’indagare sui fatti, nello scrutare i comportamenti di chi ha amministrato questo paese solo ed esclusivamente per ciò che gli era affine. Non mi sento ne un Masaniello e tanto meno un Robespierre ma mi sento un giornalista che ha fatto, e lo sta facendo tutt’ora, ciò che giustamente ritiene importante per mettere a conoscenza del lettore tutti i fatti che sono avvenuti nella nostra Casa comunale in questi ultimi passati 5 anni. Leggendo le classiche carte e messo in moto il meccanismo della legalità che, questo è scontato, è sul tavolo della Procura della Repubblica di Taranto con sorprese che stupiranno moltissimo i nostri lettori e i savesi in genere, a brevissimo tempo. Non ho mai voluto aureole o encomi per quello che ho fatto, e che sto facendo, ho solo creduto che fare questo mestiere è stato dettato solo dalla passione e dall’amore verso questo paese. Credo che il giornalista somigli molto ad un maratoneta e quindi il suo lavoro di indagine, e di inchiesta, non si vede subito. Ma si vede comunque. L’ex sindaco Aldo Maggi ha dalla sua una posizione processuale per nulla invidiabile: rinviato a giudizio, proposte di rinvio a giudizio e diversi avvisi di garanzia. L’altro, Leone Claudio Romualdo, è indagato per Truffa aggravata e abuso e omissione di atti in ufficio. La posizione processuale di entrambi sta per arrivare alla fine e credo che quanto prima avremo le risposte a tutto questo. Oggi, per me, è andata così. Non mi scoraggio affatto. Anzi, mi metto a ridere pure quando “qualcuno” a mò di sfottò, appena ha saputo della sentenza di condanna in primo grado, telefonandomi mi ha detto testualmente: “Giovanni? Devo portarti le arance?” Io sempre sulla stessa linea. Dello sfottò, gli ho detto: “Grazie per l’offerta. Mancano solo le torte nella lista delle cose che mi mancano. Quanto alle arance, faresti bene a portale a qualcuno che ti è caro e che ti è stato vicino nella passata competizione elettorale”. Vado avanti, con audacia, con coraggio e senza paura. Senza guardare in faccia a nessuno. Questo sono io. Posso non piacere a più di qualcuno, normale questo. Ma sono così …

PROFONDO SUD: IL SOGNATORE E L’AVVOCATICCHIO … scrive Giovanni Caforio su “Viva Voce Web”. Russia. Ottobre 1917. Viene demolito l’impero dello zar Nicola II, i bolscevichi prendono il potere e vengono impiantati i soviet. I soviet rappresentano, nell’ideologia socialista di Trotski e di Lenin il primo passaggio che prevede la dittatura del proletariato, nella dottrina marxista, il quale deve portare dopo questa transizione all’anarchia. Impiantati i soviet nei quartieri russi e subito iniziano a ed emergere le prime figura politiche, socialiste, le quali si sentono già in grado di saper amministrare una nazione che ha appena lasciato un impero e che, faticosamente, dovrebbe avviarsi a un nuovo modello sociale, o meglio alla dittatura del proletariato.  Un rampate avvocato bolscevico, un autentico felino, crede di già che può fare tutto ciò che crede. Eletto in uno dei diversissimi soviet moscoviti gli viene dato l’incarico della gestione del bene comune. Il felino, o fellone, comincia già a capire che la sua vocazione sono i soldi, se pur nelle casse del nuovo regime erano quasi scarsi. Convinto di saper fare tutto si appropriò, direttamente o indirettamente, di tutte quelle agevolazioni economiche che il suo incarico poteva dare. Oltre il felino, però, c’era un sognatore, il quale lo teneva a debita distanza e lo controllava nel suo operato all’interno del soviet. Il sognatore collezionò ben diverse notizie su di lui e le diffuse nel quartiere. L’avvocaticchiò si arrabbiò di brutto e convocò immediatamente l’organo centrale del soviet.

Viene fissato l’incontro collegiale tra l’avvocaticchio e il sognatore con i giudici supremi del soviet a valutare l’accusa del sognatore. I giudici moscoviti ascoltano l’avvocaticchio, il quale dice: ”Compagni, è innegabile la mia vocazione socialista. Sono nato socialista e continuo in quest’opera ideologica come hanno insegnato i nostri padri comunisti. Il sognatore ha parlato di me, rappresentante del popolo, in modo ignobile e denigrandomi davanti a tutti in un incontro pubblico. Chiedo che codesto organo popolare espelli, e lo condanni in modo esemplare, dalla nostra comunità il sognatore”. Dopo l’arringa dell’avvocaticchio, ecco quella del sognatore: “Giurati popolari, sapete benissimo che il mio credo comunista era solo in giovane età. Poi sono cresciuto, come è normale per ogni essere umano. Ho visto le cose in modo diverso e da come le ho viste le ho narrate ai miei conoscenti e amici, quindi non credo di avere colpe alcune sul diritto di parlare. Se voi credete all’avvocaticchio condannatemi. Lo accetto, seppur controvoglia. Ma sappiate che l’operato dell’avvocaticchio è stato alquanto scabroso”. I giudici, dopo aver ascoltato entrambi, si ritirano nelle loro stanze. Rientrano nell’aula del soviet e decretato l’assoluzione per il sognatore. L’avvocaticchio, sentito il verdetto delle toghe rosse, si mette le mani nei capelli e comincia a strapparsi quei pochi capelli che gli sono rimasti. E’ nervoso e al passaggio casuale del sognatore davanti a lui gli batte le mani in segno di sfottò. Il sognatore è calmo e di rimando, al battito della mani provocatorio, gli risponde: ”Li mani và battili an facci a mammta. Pizzarroni cà nò se otru!”. Il 21 febbraio 2013, presso il Tribunale di Manduria, sezione staccata di Taranto, il giudice Orazio Simone mi ha assolto perchè il fatto non costituisce reato, scrive il direttore di Viva Voce Web di Sava. I fatti: nell’inverno del 2009 il Consiglio comunale savese concorda, con l’opposizione, la formazione di una Commissione bipartisan, la quale vuole indagare sulla voragine economica che si è aperta nell’Ufficio Contenzioso del nostro Comune. Il delegato amministrativo è l’avvocato Claudio Romualdo Leone, in quota PSI nella passata amministrazione Maggi. Nel 2007 il Contenzioso savese aveva sborsato, quindi dalle nostre casse comunali, la cifra di 80 mila euro ma nell’anno successivo si registrò un esborso del nostro Ente comunale di qualcosa come 500 mila euro. Alla luce di questa esorbitante differenza, l’opposizione chiese alla maggioranza del centrosinistra savese di far luce su questo enorme sbalzo economico. Costituita la Commissione, la quale si mette subito al lavoro o meglio a leggere le classiche carte e di seguito i vari pagamenti fatti dal nostro Comune a chi batte cassa per buche stradali o, in ultima ipotesi, per danni fisici derivati proprio da queste buche. Un paio di mesi di lavoro ed ecco redatto il lavoro della Commissione comunale. Detto lavoro viene consegnato direttamente all’ex presidente del Consiglio comunale Giuseppe Brigante il quale preso atto di ciò non invia tutto il carteggio alla Procura della Repubblica di Taranto. L’opposizione di allora, attuale Sindaco in testa, invia direttamente tutto il lavoro di inchiesta al Magistrato, e in questo caso si registra il defilarsi vergognoso del Partito Democratico savese, comunisti compresi, i quali non mettono la loro firma nell’Esposto che viene inviato alla Procura! Il magistrato, una volta ricevuto il carteggio, mette immediatamente in evidenza due reati: Truffa aggravata e abuso e omissione di atti in ufficio contro l’avvocato Claudio Romualdo Leone. Il nostro giornale riceve il lavoro di inchiesta e si accerta che effettivamente stanno così le cose, ovvero le indagini del magistrato che riguardano il delegato amministrativo sopra citato. Ora, cosa dicevano queste carte ricevute dalla Procura tarantina? Andiamo per ordine: il delegato amministrativo Claudio Leone aveva liquidato danni derivati dalle buche in diverse situazioni. Una buca riparata, con rilievo fotografico esibito dal pretendente, il giorno ics veniva liquidata, per il danno “subito” il giorno zeta. Quindi se la buca veniva riparata ad esempio il giorno 15 di un determinato mese ecco pronta la richiesta di danno subito il giorno 25 sulla stessa buca, la quale risultava di fatto già riparata! E su questo caso, e non era solo un caso, il magistrato ha puntato la sua indagine. In altri casi sono stati liquidati danni, sempre in virtù di stè maledette buche stradali, vedendo l’avvocato Claudio Leone sia avvocato dell’accusa (cliente) sia avvocato della difesa (nostro Comune) e questo deontologicamente non si può fare, o meglio non si è mai visto che un avvocato difende sia l’accusatore che l’accusato. Mai! Andiamo avanti, ma divento riduttivo in quanto di esempi nel lavoro della Commissione sono tantissimi, risulta anche che la figlia dell’avvocato Leone, sempre in virtù di una buca stradale, si fa male (forse andando in bicicletta o altro) e chiama ai danni il nostro Comune. Bene, o meglio vediamo bene come funziona questo. Il padre, Claudio Leone, liquida il danno subito dalla figlia in diverse migliaia di euro e in questa liquidazione è compresa anche la percentuale di invalidità (o di danno fisico subito). Voi vi direte: siamo d’accordo con quanto sopra, ma che centra questa ultima citazione? Certo tutti i nostri figli possono cadere in una buca stradale, e Sava è la regina delle buche, e quindi può farsi male anche la figlia del Leone. Ma nella liquidazione dei danni fisici subiti dalla ragazza, i quali corrispondono a diverse migliaia di euro, non è consentito il solo parere del delegato amministrativo (e qui credo che ci sarebbe anche un conflitto evidentissimo di interessi, in quanto il padre liquida un danno subito dalla figlia) ma ben sì il parere di una Commissione medica la quale è la sola in grado di valutare se c’è un danno fisico o meno e di che portata pure. Finita questa descrizione, sommaria per la verità, il nostro giornale riportò in prima pagina la notizia delle indagini che vertevano su Claudio Leone. Chiedevamo le dimissioni del Leone in attesa che il magistrato facesse luce sul suo operato amministrativo. Il nostro giornale appone un dazebao in Piazza San Giovanni (incriminato in questo mio rinvio a giudizio). Apriti cielo! Fioccano denunce! Andiamo a questa assoluzione: sono stato difeso egregiamente dall’avvocato Salvatore De Felice (il quale spesso scherzosamente, e volentieri, mi dice, che oltre a tagliarmi la lingua sono le mani che devono esserlo per prima cosa!) il quale nella sua arringa ha posto in prima battuta il diritto di cronaca, seppur con toni forti ma correlati dai fatti, o meglio delle indagini in corso che vedevano il Leone indagato per Truffa aggravata e Abuso ed omissione di atti in ufficio. La difesa del Leone ha voluto a tutti i costi voler dimostrare che la data del dazebao era antecedente alla decisione del magistrato sul carteggio inviato dall’opposizione savese di allora. Il giudice Orazio Simone ha sospeso il dibattimento chiedendo al Cancelliere la richiesta da inviare immediatamente, via fax, alla Procura di Taranto, per accertarsi di questo. Richiesta avvenuta: il dazebao aveva data maggio 2010, la Procura di Taranto aveva già iscritto nel registro degli indagati il Leone nel settembre del 2009. E’ stata una bella assoluzione ma, ricordo ai nostri lettori, che nelle cose ci vuole coraggio, solo coraggio. E non dobbiamo mai abbassare la testa quando vediamo che in genere, chi è stato designato al bene comune, di seguito ne fa un bene proprio. Destra o sinistra non ci importa affatto! E non ci dobbiamo lamentare sempre con il classico”tutti sono uguali, tutti sono alla stessa maniera”. No, non ci dobbiamo mai abituare a questo concetto. Altrimenti la nostra democrazia perde punti e quando una democrazia perde punti non li perde soltanto un direttore garibaldino come me, ma li perdete tutti e tutti saremo meno liberi. Pensateci bene …

E non è tutto: lo stesso giorno anche Maria Luisa Mastrogiovanni è assolta. Casarano. 'Il fatto non sussiste'. Il giudice Sergio M. Tosi ha assolto con formula piena la direttora del Tacco dall'accusa di diffamazione verso Paolo Pagliaro. Dopo la richiesta di assoluzione da parte dell'accusa, il giudice del Tribunale di Casarano dott. Sergio Tosi, ha assolto Maria Luisa Mastrogiovanni per tutti e 12 i capi di imputazione. Il fatto non sussiste. E' la sentenza con la quale è stata assolta dall'accusa di diffamazione a mezzo stampa la giornalista Maria Luisa Mastrogiovanni, direttore del Tacco d'Italia. A portarla davanti al Tribunale penale di Casarano, presidente Sergio M. Tosi, è strato Paolo Pagliaro, editore televisivo salentino molto noto, a sua volta protagonista di alcune vicissitudini giudiziarie, ma come imputato. Proprio queste vicende (l'uomo subì anche gli arresti domiciliari per un'inchiesta della procura barese, il cui processo è stato stralciato dal troncone principale nel quale è stato invece condannato l'ex ministro Fitto), insieme ad una serie di irregolarità e stranezze nella conduzione della sua azienda, costituirono l'oggetto di una corposa inchiesta di copertina de Il Tacco d'Italia, andato in edicola nel dicembre 2005. Un servizio molto ampio, dettagliato e documentato come bella consuetudine di questa testata, corroborato anche da autorevoli testimonianze, come quelle del giornalista Marco Travaglio e dell'allora presidente dell'Ordine dei giornalisti di Milano, Franco Abruzzo. Nell'udienza odierna il pm ha chiesto l'assoluzione dell'imputata, non avendo ravvisato nel dibattimento gli elementi che avevano invece indotto il pm dell'istruttoria, dottor Antonio De Donno, ad individuare ben 12 punti sui quale chiedere (e poi ottenere) il rinvio a giudizio di Mastrogiovanni. La parte civile, rappresentata dall'avvocato Angelo Pallara, ha chiesto la condanna della giornalista, sostenendo il suo reiterato intento "persecutorio" nei confronti del suo assistito; la difesa, rappresentata dall'avvocato Massimo Manfreda, ha invece rivendicato non soltanto la correttezza dell'impianto giornalistico dell'inchiesta su Pagliaro (il cui titolo era "L'impero virtuale") ma, soprattutto, il sacrosanto diritto dell'informazione a dare notizie ed elaborare critiche. "Specialmente quando l'oggetto dell'attenzione professionale è un uomo pubblico", ha sottolineato Manfreda. Oggi, più di ieri, Pagliaro è "pubblico" essendo addirittura candidato alla Camera con un partito di destra, dopo essere stato candidato nelle primarie per diventare sindaco di Lecce.
Massimo Manfreda ha concluso con la famosissima battuta di Humphrey Bogart, giornalista nel film L'ultima minaccia, del 1952. "E' la stampa, bellezza".

SPECIALE PAOLO PAGLIARO E TELERAMA

L'impero virtuale

SPECIALE PAGLIARO STORY. Le inchieste incriminate e assolte, le 20 (suppergiù) querele e diffide. Il dovere d'informazione e il diritto di sapere. Gli scheletri nell'armadio e le ombre di un uomo politico che è anche un editore. Da Il Tacco d'Italia n.21. Pubblichiamo la prima parte dell'inchiesta su Paolo Pagliaro, uscita sul numero 21 del Tacco d'Italia. Pagliaro: l'impero virtuale. Il gruppo Mixer Media Management, i suoi paraventi e i suoi problemi. Un impero di facciata. Cioè maestoso nella sua struttura, ridondante nell'autoreferenzialità, ma fragile nelle sue fondamenta cartacee. Fragile, perché virtuale, perché parte di ciò che è dichiarato essere vero, vero non è. E quello che sembra a posto contiene elementi di dubbio. Proponiamo subito il sommario di quest'inchiesta che, probabilmente, non riusciremo ad esaurire in una sola puntata, avvertendo che quanto abbiamo scritto siamo in grado di documentarlo: i direttori dei telegiornali di Paolo Pagliaro non sono responsabili davanti alla legge ma soltanto, nella migliore delle ipotesi, coordinatori e organizzatori del lavoro giornalistico; una delle due testate televisive (leggi Tg) addirittura non esiste in base alle norme; la proprietà effettiva di una televisione è messa in discussione in un processo in corso che si annuncia molto complicato per l'attuale editore; la cooperativa dei giornalisti e di quasi tutti i dipendenti è controllata dall'editore-cliente tramite le nomine dei suoi vertici, la pattuizione e l'erogazione dei compensi individuali; i locali di una rete tv e di tutte le radio del gruppo non rispettano le basilari norme sulla sicurezza del lavoro, sono subissate da carte bollate e sono l'obiettivo di prossime ispezioni da parte della Asl e dei Vigili del Fuoco, perché in odore di "inagibilità"; le società che costituiscono il "Gruppo Mixer Media Management" - che comunque non risulta da una "visura Cerved" - sono riconducibili tutte ad un unico soggetto: Paolo Pagliaro. Proprietario, editore e, tramite l'amico e sodale Max Persano, controllore diretto di tutte le testate, televisive e radiofoniche, persino una di "agenzia giornalistica", la "Comunication" (con una sola "m"). Il Gruppo. Paolo Pagliaro è un imprenditore che deve parte del successo alla sua fantasiosità. Molte delle intuizioni di marketing sono diventate dei veri e propri brand; alcuni sono innocui, come il roboante "Gruppo Mixer Media Management", e la concessionaria di pubblicità "K.&C.". Sono entrambe sigle, tecnicamente si chiamano "insegne", che è facile trovare su carte e buste intestate, modulari di contratti, perfino negli spot autopromozionali. Altri sembrano meno innocui. Queste le società che la cosiddetta "visura Cerved" (accessibile via Internet molto facilmente) attribuisce a Paolo Pagliaro in quanto amministratore unico, socio unico o presidente del Consiglio di amministrazione: Telerama (srl con socio unico, capitale sociale 998mila euro, ricavi per un milione e mezzo di euro, una perdita d'esercizio di quasi 100mila euro al 31/12/03. In quel 2003 nessun dipendente dichiarato, nel 2001 ne risultavano 4. Un indice di liquidità del 106,5%); Radiosalento (srl, amministratore unico); Radiorama (srl, amministratore unico); Broker p.r. (srl, amministratore unico); Techno (srl socio unico); Comunicazione & servizi (srl socio unico); Consorzio circuito Top Tv Puglia (presidente del consiglio di amministrazione); Sestante (srl, amministratore unico); Editoriale Il Corsivo spa (Presidente del consiglio di amministrazione. Dichiarata fallita). Telerama ha un capitale sociale di quasi un milione di euro. Nell'ultimo esercizio ha perso oltre 97mila euro. I direttori irresponsabili. L'emittente Rts fa informazione giornaliera tramite tg ogni ora e il programma "Talk Sciò" è condotto con grande successo dal direttore Giuseppe Vernaleone. Entrambi, emittente e direttore, andrebbero catalogati nelle categorie dei Sedicenti o dei Virtuali, perché né Rts né questo collega sono registrati presso il Tribunale di Lecce. Almeno fino alla tarda mattinata del 17 novembre 2005. Rts nasce sulle spoglie di Telesalento, il cui direttore era (ed è, dal 2003) quel Massimo (Max) Persano, amico di sempre di Pagliaro, l'unico della vecchia guardia di professionisti e collaboratori (insieme a Titti Carratu e a pochissimi altri, due o tre che incontreremo più avanti con incarichi "sociali" di una certa rilevanza). A sua volta Telesalento è rinominata così dopo essere stata acquistata con il nome Tv 10. Come e da chi? Più avanti i divertenti dettagli, anch'essi "incartati" in un processo civile in corso di celebrazione. Qui proseguiamo con l'elenco dei Sedicenti o Virtuali perché dobbiamo tirar dentro anche una collega che stimiamo, Gabriella Della Monaca che non è, purtroppo per lei e per i telespettatori che ogni sera ne hanno letto il nome con questa qualifica sul "gobbo" di chiusura di ogni edizione (nella nuova impaginazione è stranamente scomparso), il direttore responsabile di TeleRama, la maggiore testata televisiva locale del Salento, ma al più, il facente funzioni. Ed anche in questo caso, fatta la verifica di rito, abbiamo scoperto che: per il Tribunale, "direttore responsabile" è Max Persano. Da ben 12 anni. Scopriamo che neanche il compianto Domenico Faivre, benché potesse insegnare giornalismo, ha mai avuto questa qualifica. Il vero direttore responsabile di Telerama non è Gabriella Della Monaca, ma Max Persano. Da 12 anni. Quindi, concludendo, è Paolo Pagliaro per interposte persone ad avere il controllo delle sue due emittenti, pur poggiandosi su due figure "tecnico-professionali", una giuridica del suo amico più caro Persano che firma entrambe le Testate, l'altra bicefala: i due giornalisti che dirigono quel che al padrone non interessa dirigere. Le controlla anche visivamente, le sue emittenti, l'attento padrone: di fronte alla sua scrivania ha un pannello di otto o dieci monitor sintonizzati sulle sue e sulle tv concorrenti e nazionali. Per far capire meglio, lettori e avvocati: se qualcuno querela per diffamazione TeleRama, a risponderne è, in solido con l'azienda, Massimo Persano non Gabriella Della Monaca; se la querela arriva a Rts non ne risponde nessuno, a meno che il diffamato non si dia da fare a ricostruire, a ritroso, tutto il percorso che Pagliaro ha fatto compiere alla vecchia Tv 10, poi Telesalento, infine Rts. Tanto meno, in tal caso, ne risponderebbe lo zelante Vernaleone che è davvero il più virtuale del mazzo. Per completezza d'informazione, abbiamo sentito il dovere di documentarci anche in questo caso. Da due presidenti regionali dell'Ordine dei Giornalisti ci è stato risposto che l'editore non può nel modo più assoluto trasmettere un tg non registrato, quindi clandestino a tutti gli effetti. Rischia la sospensione o addirittura la revoca della concessione e una serie di sanzioni pecuniarie che, presumibilmente, terranno anche conto delle movimentazioni economiche legate a questa tv, che si vede benissimo, ha successo eppure non è improprio definire "virtuale"; come "virtuale" è il direttore responsabile, il quale, a parte la brutta figura, rischia molto meno: un procedimento disciplinare se il caso viene sollevato anche davanti all'Ordine professionale, lievi sanzioni pecuniarie se viene individuato come soggetto agente in concorso con l'editore. Se veramente l'editore pubblica la dicitura "direttore responsabile" e questo fosse certamente dimostrabile, potrebbe andare incontro anche all'accusa di falso in atto pubblico e alla violazione delle norme relative alla registrazione dei giornali e alla dichiarazione dei mutamenti, previste dagli art. 5 e 6 della legge sulla stampa (n. 47 del 1948). Vale per Gabriella (finché è stata qualificata così), non per Vernaleone. Il giornalista ripetiamo non va incontro ad alcuna sanzione, del falso potrebbe essere chiamato a rispondere disciplinarmente davanti all'Ordine o potrebbe rispondere di concorso nel momento in cui si accerti che il collega era d'accordo con l'editore. Tutto molto tecnico, vero? Forse addirittura fastidioso, ma se si vuole informazione non truccata occorre stare nelle regole, di forma e di sostanza: e qui c'è molto cattivo odore di illegalità. Saremmo curiosi di sapere come reagirebbe Pagliaro se un suo concorrente fosse giuridicamente così male attrezzato, come è la sua RTS. Cioè: noi lo sappiamo bene (sappiamo di un tentativo posto in essere ad altissimo livello per far cessare l'attività di un competitore salentino), ma lo lasciamo immaginare ai lettori. E a proposito di regole, ecco un'altra perla. La Cooperativa C.C.C. Per i giornalisti, così come per quasi tutti i dipendenti di Pagliaro, il rapporto di lavoro è gestito da una Cooperativa, la seconda nella storia del "virtuale" Gruppo Mixer Media Management, perché la prima fu dichiarata fallita in seguito a vicende di cui sappiamo molto ma che, per ragioni di spazio, anche in questo caso non approfondiamo, perché lontane nel tempo (ché, se dovessimo andare indietro, troveremmo, ben più importante, lo scandalo delle false fatturazioni di Telerama, per cui andò in galera una mezza dozzina di personaggi eccellenti). Le Cooperative giornalistiche sono spesso un escamotage, sono attaccabili solo da qualcuno dotato di autorità ispettiva (come l'Inps, l'Inpgi, l'Ispettorato del Lavoro, eccetera) o dai lavoratori, ciò non di meno moralmente riprovevole; serve a sottopagare il lavoro, non avere doveri contrattuali rispetto ad orari e carichi, non riconoscere i diritti sindacali, non garantire pienamente e puntualmente le contribuzioni previdenziali. I ragazzi della C.C.C., nessun professionista e non tutti pubblicisti, che vivono l'effimera soddisfazione della notorietà televisiva (la formidabile leva che Pagliaro sa brandire con grande e riconosciuta sagacia, anche all'esterno), producono la materia prima della fortuna imprenditoriale del capo, ben sapendo, costoro, che hanno un futuro personale e previdenziale solo se se ne vanno da lì. Molti l'hanno fatto, molti vorrebbero farlo ma non possono perché non c'è mercato, e debbono accettare tutto. Siamo rimasti colpiti dalla posizione assunta dalla collega Della Monaca (che si firmava in calce "direttore responsabile") in occasione dello sciopero generale dei giornalisti: la redazione di TeleRama aderiva non perché la categoria è sfruttata dagli editori, come in tutta Italia, con lavoro precario, sommerso e senza garanzie, ma perché c'è il rischio che la Finanziaria tolga un po' di finanziamenti delle emittenti private! La Cooperativa funziona così: ciascun dipendente-collaboratore (cioè i giornalisti delle varie testate, i tecnici, i registi, tutto il personale che ruota attorno al Gruppo) stipula con essa un contratto per la prestazione di servizi. La C.C.C. a sua volta, per il tramite dei suoi vertici, stringe accordi con l'editore per l'erogazione di quei servizi (non solo giornalistici ma anche tecnici, amministrativi, ecc.). Tra i vertici, con la carica di vicepresidente del CdA, il solito Max Persano il quale aveva a suo carico, nel 2004, pignoramenti esattoriali e ipoteche legali per più di 800mila euro (non sappiamo se collegabili alla Cooperativa o ad altre aziende) che nel 2005 spariscono. Evidentemente pagati. Persano sta al timone effettivo del polmone lavorativo del Gruppo, decide praticamente tutto insieme a Pagliaro. E' direttore responsabile di ben cinque testate giornalistiche: Telerama, Telesalento (ovvero Rts), Comunication-agenzia d'informazione quotidiana, Caribe news, Jet Radio (tanto risulta al Tribunale al 17 novembre). Uno stress pazzesco. TeleRama. E' l'ammiraglia che va a gonfie vele, è il punto di riferimento assoluto e riconosciuto dell'informazione locale, blandita e temuta dal potere politico, arma letale ("Telearma", è rinominata dagli addetti ai lavori: ne sanno qualcosa in questo periodo importanti amministratori del Comune di Lecce) se qualcuno si mette di traverso, possente macchina di consenso e amplificatore di ogni iniziativa se qualcun altro va d'accordo con Pagliaro (dalla Provincia invece non ci sono giunte lamentazioni). La società è per il 100% di Pagliaro, il suo capitale sociale depositato sfiora il milione di euro. Drena migliaia di ore di pubblicità ogni anno, tabellare e di favore, palese e indiretta perfino negli spazi dell'informazione. Insomma è una potenza totale, perfetta e bellissima. Eppure è in perdita. Non tanto, ma quanto basta per tenere in vita gli altri parametri. Guardiamo dentro alle cifre ufficiali, sia pure parzialmente per non annoiare il lettore, ed anche perché parte delle risorse vengono permutate in beni e servizi, secondo la formula del "cambio merce", una tecnica triangolare di fatturazioni che Pagliaro utilizza appena può per pagare con pubblicità e non con denaro sonante fornitori, consulenti, prestatori d'opera, negozi, concessionarie d'auto eccetera. Dal conto economico, ultimo per noi disponibile, risulta che al 31/12/2003 la perdita di esercizio è stata di 97.807 euro; il suo Roe, return on equity, cioè il rapporto fra utile d'esercizio e patrimonio netto, cioè la redditività dell'azienda in relazione all'investimento è di -8,2 %, mentre l'indice di liquidità, il coefficiente che mette in relazione l'attivo e le rimanenze con il passivo, è 106, 5 %. Piccola perdita, né infamia né lode sugli altri fronti. Uno dei collaboratori di rango defenestrati da Pagliaro in questi ultimi anni, ci ha detto che nel solo 2004, al lordo dei costi di gestione, il Gruppo Pagliaro ha prodotto pubblicità e servizi per oltre sei milioni. Detratti i costi, quasi tutti conglobati in favore della cooperativa C.C.C. (bollette, oneri vari e affitti a parte), come abbiamo visto, l'emittente-corazzata non riesce a fare attivo. RTS. Si vede ma non c'è. Come già detto, per il Tribunale di Lecce-Registro della stampa, questa testata giornalistica che va in onda quotidianamente con programmi di informazione e pubblicità non esiste. Il presidente dell'Ordine di Lombardia, il mitico Ciccio Abruzzo, la definisce "clandestina" (rammentiamo che la legge istitutiva dell'Ordine dei giornalisti italiani è legge dello Stato). Esiste però "Studio 10 News TS Telegiornale Salento" (di fatto si tratta di TeleSalento, ex Tv 10); direttore responsabile del telegiornale è dal 2003 Max Persano, proprietario è "Il Circolo srl", oggi "Comunicazione & Servizi srl" di cui è amministratore Massimo Pezzuto, un collaboratore factotum di Pagliaro. Rts trasmette sulle frequenze dell'ex Tv10, che la "Punto casa servizi immobiliari" di Lecce ha acquistato da Antonio Fasano e Carmine Mosticchio per una cifra pattuita di un miliardo e 400 milioni di lire. La "Punto casa" ha ceduto tutte le quote de "Il Circolo" alla Broker srl di Pagliaro che, tramite Maria Antonietta Carratu (la fida Titti) e Massimo Pezzuto, diventa il vero proprietario e amministratore unico. RTS trasmette, fa informazione e profitti, ma per la legge non esiste. Direttore responsabile? Persano. Da notare che queste due persone sono qualificate "prestanome" in un atto depositato. E' tuttora in corso presso il Tribunale civile di Lecce un processo per la riappropriazione di tutte le quote de "Il Circolo", e dunque di Telesalento, da parte della "Punto casa": motivo? Il più scolastico: Pagliaro non ha pagato con la puntualità prevista le rate. Ma, nel frattempo, il nostro, sempre secondo documenti in nostro possesso, ha venduto una preziosissima frequenza su Otranto (un'area molto appetita per le difficoltà di irradiazione che presenta), che era nella disponibilità della società che possedeva Tv10. Insomma un guazzabuglio cui il Tribunale metterà ordine ripristinando diritti e doveri. La 488. Pagliaro fa lavorare anche i penalisti, non solo i civilisti, i fiscalisti e gli amministrativisti. Tutti di gran nome. E' imputato di concorso in truffa aggravata ai danni dello Stato, in seguito ad indagini di p.g. condotte dal pm Imerio Tramis dopo l'arresto di G. Napolitano, il noto consulente aziendale accusato di essere al crocevia di una serie di truffe milionarie (all'epoca erano miliardarie) messe in atto grazie alla Legge 488 che erogava finanziamenti alle imprese; l'inchiesta, partita all'inizio dell'estate 2004, ha già portato all'arresto di una decina di persone, tra imprenditori, dipendenti e funzionari di varie zone d'Italia, naturalmente oltre alla cattura di Napolitano che ha fatto due periodi di detenzione a San Nicola: dopo il primo, durato meno di dieci giorni, ha scritto un libretto leggero ed autoironico, dopo il secondo ha dettato pagine e pagine di verbale alla Procura, avendo deciso di collaborare quando ha capito, definitivamente, che il cosiddetto impianto accusatorio di Tramis era inattaccabile. Per capire meglio il contesto, è bene soffermarsi in breve su quest'inchiesta, la mamma di tutte le truffe recenti, una vicenda che non sta certamente aiutando l'immagine del Salento. Per venire a capo della montagna di informazioni contenute nella preziosa memoria del personal computer dell'avvocato Napolitano (il consulente non è dottore commercialista), la Procura ha ingaggiato un perito, tra i più stimati e preparati in circolazione, il quale è stato praticamente precettato, insieme ad una squadra di p.g. della Guardia di Finanza, fino al 2011, tale essendo la data-limite stimata entro la quale il lavoro dovrebbe essere completato. Non si tratta, infatti, soltanto di verificare l'elenco delle pratiche 488 istruite dallo Studio Napolitano, ma di accertare quali di esse contengano "fumus" di irregolarità, poi entrare in ciascuna di esse, disporre perizie sulle attrezzature, verificare ed incrociare le fatture fra acquirenti e fornitori, gli anni di produzione eccetera. Ecco come l'obiettivo prescrizione, come vedremo fra poco, non è più un miraggio per gli imputati. Lo schema della linea difensiva di Pagliaro (Studio Corleto), per come l'ha ricostruita il Tacco d'Italia, sembra semplice quanto concreta. Abbandonata ogni ipotesi di "resistenza" si è percorsa quella più ragionevole dell'ammissione delle responsabilità contestate e della collaborazione con il giudice dell'accusa, il cui primo passaggio, "dolorosissimo" per l'editore Pagliaro (il cui attaccamento al denaro è proverbiale), non poteva essere che restituire il malloppo nell'esatta misura in cui è stato incassato: la conversione in euro di 2.050.000.000 di lire. Può essere il primo passo verso il patteggiamento ma non è detto, quel che è certo, rifondere lo Stato serve ad alleggerire la propria posizione ed evitare il rischio delle manette. Per la verità l'accordo bonario doveva essere perfezionato in tempi solleciti, come è accaduto per altri, ma, tardando l'oblazione pattuita, il pm si è visto costretto alla prova di forza ordinando l'apposizione dei sigilli su macchinari ed attrezzature di TeleRama e RadioRama, lasciandone all'editore l'uso, fino a quando il Pagliaro non ha, appunto, risarcito lo Stato (del maldestro quanto grave tentativo di soffocare questa grossa notizia, per altri casi trattata con il dovuto risalto dai mezzi di Pagliaro, il Tacco ha dato conto il mese scorso nel commento di Adolfo Maffei). Truffa in ambito 488. Per evitare il carcere Pagliaro ha restituito i soldi del finanziamento: un milione di euro. Primo passaggio si diceva. Gli altri saranno calibrati per raggiungere l'obiettivo dell'agognata prescrizione e ritmati dal calendario e dal carico di lavoro del dottor Tramis il quale ha la completa potestà, per "motivi di giustizia" che sono nella sua esclusiva competenza, di decidere se dare impulso maggiore alle indagini in cui non vi è la collaborazione degli indagati. Per dirla con un'immagine giornalistica, pensiamo che i fascicoli delle truffe per la 488 compongano una pila: più in basso sarà, meno propulsione riceverà e più tempo sarà disponibile all'imputato per raggiungere la prescrizione prevista dall'art.157 del codice penale. Se lo scenario è verosimile, a conti fatti, l'editore di Telerama non corre eccessivi rischi di vedersi alla sbarra di un dibattimento imbarazzante accanto all'ex amico G. Napolitano. Per una questione di tempi tecnici: se lo aiuta il carico di lavoro del dottor Tramis (la collocazione nella famosa "pila") se si va al processo, se l'editore viene condannato in primo grado, in Appello ed infine in Cassazione, tutta questa storia sarà vicina al limite della prescrizione. A meno che il diavolo non rimetta la coda dove non dovrebbe e si materializzi sotto forma di qualcuna delle altre grane che l'editore ha qua e là. Come il decreto ingiuntivo che gli ha spedito a mezzo ufficiale giudiziario una società riferibile a G. Napolitano per un compenso di 30mila euro di parcella per la pratica 488 dello scandalo, mai pagata (Pagliaro, ovviamente, ha opposto il decreto stesso). Locazioni. Un'altra di queste grane, finora solo civilistica, è legata al complesso rapporto di Pagliaro con l'avvocato Fabio Chiarelli, già consulente del nostro, nonché proprietario degli immobili di via Marugi, sede storica delle aziende dell'editore. Lì è rimasta TeleRama dalla nascita al recente trasferimento alla zona industriale, lì si trovano ancora tutte le radio e gli studi di RTS. Lunghi anni di locazione non sempre facile (primo contratto intestato alla prima moglie di Pagliaro, per la Publipi, la concessionaria di allora: 1/12/1989, 300mila lire mensili), rapporti che s'incrinano sino ad interrompersi in maniera brusca contemporaneamente alla fragorosa rottura di Pagliaro con un altro dei suoi storici collaboratori e soci (diretti o indiretti): Antonio Bruno, amministratore unico della sas "J&B", il ramo del gruppo che si occupa di eventi, sfilate di moda e spettacoli. Dall'oggi al domani alla sua scrivania gli fa trovare Ezio Candido; in pratica lo mette in mezzo ad una strada. Bruno non se ne starà con le mani in mano, naturalmente. E' un professionista affermato, il suo valore è riconosciuto ed è già al lavoro. Inoltre si sta tutelando a dovere. Questa vicenda sembra la fotocopia di tantissimi altri rapporti personali e professionali interrotti, alcuni brutalmente, da Pagliaro. Basti citare i più importanti: Pompilio Guerrieri, Renato Gorgoni, Adolfo Maffei, Pino Fasanelli, Giovanni Rizzo, Giuseppe Dell'Anna, Ennio De Leo, Sileno Bray e, l'ultimissimo in ordine di tempo, il direttore generale Ezio Candido. Ma nella vicenda dei contratti d'affitto, apparentemente banale, c'è un piccolo baco che non è insignificante come sembra: è il contratto d'affitto della sede della società di cui Antonio Bruno è amministratore, al primo piano di via Marugi, dove si trovano anche l'ufficio del presidente Pagliaro, la sede della concessionaria di pubblicità (che nel frattempo ha cambiato nome e si chiama Broker p.r., amministratore unico Pagliaro), lo studiolo del direttore generale e altri ufficietti e stanzini vari, alcuni dei quali ricavati da lavori di copertura di terrazzi e terrazzini effettuati abusivamente da Pagliaro e, solo in parte, condonati da Chiarelli. I locali di via Marugi che ospitano la redazione e gli studi di RTS, nonché le radio del Gruppo, sono fuori legge. Che cosa è accaduto? Che Bruno, allontanato in malomodo e senza preavviso, ovviamente non paga più l'affitto dei locali e Chiarelli sfratta l'inquilino moroso, cioè il legale rappresentante della sas "J&B", con sede legale in via Marugi 32. Il proprietario non esegue materialmente lo sfratto perché si trova di fronte ad una difficoltà oggettiva: il possessore del suo immobile (una società di Pagliaro) è diverso dal conduttore (Antonio Bruno). Infatti, alcuni mesi dopo, il 18 giugno 2003, si presenta un ufficiale giudiziario che pretende la restituzione dei locali per conto dell'avvocato Chiarelli, e vi trova Maria Antonietta Carratu (la Titti, 46 anni, segretaria particolare e custode di quasi tutti i segreti del capo) la quale afferma che il possessore dell'immobile è la concessionaria di pubblicità del gruppo radiotelevisivo, la Broker p.r., che possiede anche gli impianti di condizionamento, di illuminazione, i computer eccetera. Il relativo verbale di sfratto contiene anche la rilevazione di "un vano cucina abusivo"; l'ufficiale giudiziario prende nota, effettua un sopralluogo stanza per stanza per verificarne le buone condizioni generali e se ne va. Quindici giorni dopo lo stesso funzionario si ripresenta e trova l'immobile svuotato di tutto e quasi completamente devastato al suo interno: annota e fotografa buchi nel pavimento, nei muri, serrature divelte e stima i danni in circa 20mila euro che entrano nella denuncia penale dettagliata che l'avvocato Chiarelli, presente ad entrambi i sopralluoghi, sporge contro Paolo Pagliaro pochissimi giorni dopo, chiedendo l'imputazione dell'editore per appropriazione indebita e danneggiamenti. Collateralmente la polizia giudiziaria compie una perquisizione nella villa dell'editore, a due passi dagli uffici nel Complesso Marugi, e vi trova un paio di serrature che non dovevano stare là. Nell'ottobre 2003 il Tribunale civile dispone un accertamento tecnico preventivo sulle condizioni dell'immobile che conferma la stima di circa 20 mila euro di danni. E la pratica va. Due anni dopo, ecco un'accelerazione inopinata. Il pomeriggio dell'11 ottobre 2005 una squadra del Nucleo di vigilanza edilizia del Comune di Lecce, sezione di Polizia giudiziaria, bussa alla porta degli studi di RTS, RadioRama e altre radio, al piano interrato di via Marugi e al primo piano dove hanno sede gli uffici della Broker. Allarme generale e panico incontrollato: il grancapo è fuori città, il "direttore" Vernaleone ordina ad un cameraman di riprendere gli ufficiali che si apprestano a fare l'accertamento, accompagnati da un tenente della Polizia municipale, contro la loro volontà, si convoca il (nuovo) legale di fiducia avvocato Fabio Valenti, noto volto televisivo, il quale non può far altro che assistere al sopralluogo per conto del suo cliente e verbalizzare alcune precisazioni in favore del suo assistito. La squadra della Vigilanza rileva alcune irregolarità: chiusura di balconi non condonati, costruzione di un vano di quasi 25 metri quadrati abusivo, altezza dei locali dei seminterrati di soli due metri e mezzo, unificazione degli studi televisivi con box e sottonegozi in difformità delle licenze edilizie originarie, modificazioni con strutture murarie, opere verticali in cartongesso e vetro. Non è competente questo organismo a sanzionare il mancato rispetto degli standard di sicurezza per le persone che lavorano in quella specie di bunker sotterraneo che, nelle ore di maggior impegno, supera le 12/15 unità, tra giornalisti, tecnici, operatori radiofonici: tutti collegati con l'esterno da una sola via di fuga, passando per un'angusta scala a chiocciola della larghezza di un metro. Ma può segnalarlo a chi di dovere e tre giorni dopo, il 14 ottobre scorso, parte una segnalazione "d'urgenza" alla Asl-Dipartimento di prevenzione e ai Vigili del Fuoco in cui, tra l'altro, si denuncia che le attività degli studi radiotelevisivi si svolgono al piano terra e nel seminterrato senza "le più elementari misure di sicurezza ed in violazione delle più elementari normative sulla salubrità degli ambienti". Inoltre i locali sono privi di certificato di agibilità per uso studio radiotelevisivo. L'ultima tegola di questa frana è di pochissimi giorni fa. Il 21 novembre il Settore urbanistica del Comune di Lecce invia a Radiorama, a Pagliaro, quindi, all'avvocato Chiarelli, proprietario degli immobili e al Nucleo di vigilanza dello stesso Comune di Lecce, un rapporto dettagliatissimo in cui si evidenzia una lunga serie di motivi per i quali l'ordinanza dell'allora sindaco Corvaglia, che autorizzava la società Radiorama a svolgere attività radiotelevisiva, viene annullata d'ufficio. Quella nota sindacale, depositata senza data presso un notaio a suo tempo, "si caratterizza per l'atipicità dei suoi contenuti, il suo carattere sommario, l'assenza di data e di riferimenti a qualsivoglia attività istruttoria, ed in ogni caso, per la sua inidoneità sia formale sia sostanziale, a disciplinare in maniera definitiva i rapporti giuridici sottesi". Insomma, secondo questa relazione, il buon don Ciccio Corvaglia, firmò una cosa che non doveva firmare. La signorina Carratu dichiarò a verbale che comunque, il 31 gennaio 2006, tutti i locali sarebbero stati lasciati liberi. Nel frattempo le radio vanno e RTS pure. Cuore amico. Come la vendemmia, l'iniziativa solidaristica del gruppo Pagliaro è stagionale: inizia in sordina a fine settembre e si conclude con uno sforzo concentrato ai primi di dicembre. Siamo già alla quinta edizione. Funziona così: c'è un Comitato scientifico che prende in esame le richieste di aiuto di bambini portatori di handicap (concorso nelle spese per interventi, protesi, carrozzine, automobili speciali, eccetera), parallelamente inizia la raccolta di fondi tramite salvadanaio, donazioni e iniziative collaterali organizzate in tutto il Salento e finalizzate allo stesso, nobile scopo. Ogni anno si toccano cifre importanti e i risultati sono veramente encomiabili. Poi ci sono i main sponsor, un gruppetto di aziende che garantisce molte decine di migliaia di euro per far andare la "macchina". Ma, mentre le cifre delle donazioni per i bambini sono monitorate e, sostanzialmente, controllate da tre "garanti" (che prestano anche la loro faccia per gli spot), quelle per l'organizzazione no. Il Tacco, anche in questo caso, ha cercato di documentarsi; abbiamo chiesto informazioni al Comitato di Cuore amico su incassi, spese, personale utilizzato. Non abbiamo avuto risposta in tempo utile per la stampa di questo numero, nonostante l'abbiamo sollecitata, se arriverà la utilizzeremo per il prossimo. Cuore amico è un'operazione trasparente, tranne per la voce "costi di gestione". Gli spot sono gratuiti? In particolare ci interessa sapere, per quel dovere di trasparenza che Pagliaro non manca mai di sottolineare: a quanto ammonta il contributo totale degli sponsor; se gli spot su radio e tv del gruppo sono gratuiti, come dovrebbe essere, essendo il Gruppo mixer media management la "casa" di Cuore amico, ovvero (Dio non voglia) a pagamento: cioè le aziende di cui Pagliaro è amministratore unico (Telerama e Broker pr) traggono profitto dagli spot di Cuore Amico o quanto percepiscano in più i collaboratori per dirette, non-stop, ecc.; quante sono le persone che vengono aggiunte ai dipendenti soci della cooperativa C.C.C. per prestare la loro opera professionale per Cuore Amico; infine se i garanti sono a conoscenza delle cifre suddette o se il loro apporto di "garanzia" è richiesto solo per i salvadanai e il resto, esplicitamente destinato ai bambini. Insomma, caro Pagliaro, quel Cuore è Amico solo dei bambini con handicap o anche suo?

"RTS è clandestina".

SPECIALE PAGLIARO STORY. Pubblichiamo la seconda parte dell'inchiesta, al centro del procedimento penale per diffamazione intentato dall'editore nei confronti della direttora del Tacco. Assolta perché il fatto non sussiste. Da Il Tacco d'Italia n.22.  "Rts è clandestina". Abbiamo chiesto a Franco Abruzzo, presidente dell'Ordine dei Giornalisti di Lombardia, un parere tecnico su quello che il Tacco d'Italia ha scoperto a proposito di due reti televisive locali, Telerama ed RTS, delle cui irregolarità abbiamo dato conto all'interno dell'inchiesta "Pagliaro, l'impero virtuale", pubblicata sullo scorso numero. Quell'inchiesta ha fatto il tutto esaurito in tutta la provincia, dando spunti alle conversazioni per strada, sotto l'albero di Natale, intorno ai tavoli di baccarà, man mano che si spargeva la voce… e le fotocopie. Le confidenze, le rivelazioni, i grazie accorati, hanno riempito le nostre orecchie fino a coprire i toni sinistri di alcune telefonate, quando ci sono giunte. La domanda più frequente è stata: "Perché un'inchiesta sul Gruppo Mixer media management"? La risposta: "Perché no? Non dovrebbe essere ‘normale' che un giornale scavi dietro la facciata"? E' ciò che abbiamo fatto nell'inchiesta sull'Edisu di Lecce, quando abbiamo denunciato le irregolarità nella lunga "prorogatio" del Consiglio di amministrazione presieduto da Giovanni Garrisi: a causa della prorogatio diventavano "nulli" per legge tutti gli atti del Consiglio degli ultimi due anni, quantificabili in 12 milioni di euro. Nessuno si è chiesto perché lo abbiamo scritto. Nell'inchiesta sul futuro parco regionale di Ugento uscita in quattro puntate (a pagina 12 la quinta) abbiamo denunciato l'avvio di lavori infrastrutturali finalizzati alla costruzione di un complesso turistico da 800 posti letto, senza concessione edilizia, in piena zona umida e sotto tutela ambientale. Nessuno si è chiesto perché lo abbiamo scritto. Nell'inchiesta sul Gruppo di Paolo Pagliaro, tra le altre cose, denunciavamo il fatto che RTS da due anni manda in onda un telegiornale non registrato al Tribunale di Lecce, mentre Telerama in innumerevoli occasioni pubbliche, durante le trasmissioni, nel gobbo di chiusura del telegiornale, scriveva (ora non più) che il direttore è Gabriella Della Monaca mentre in realtà, da ben 12 anni, è Max Persano (tanto risultava al Tribunale di Lecce il 17 novembre scorso). La domanda posta a Franco Abruzzo era: "RTS è fuori legge"? La risposta è arrivata concisa e inequivocabile, lontana, anche geograficamente, da qualunque influenza. M.L.M. "Cara Marilù, la risposta è nell'articolo 32 del dlgs 177/2005. C'è un obbligo di legge dal 1990 (legge 223), che impone la registrazione anche delle testate radiotelevisive. Ed è ineludibile. In caso contrario, la testata tv è fuori legge ed è assimilabile alla stampa clandestina (art. 16 della legge n. 47/1948 sulla stampa). Cordiali saluti". prof. Franco Abruzzo presidente Ordine Giornalisti Lombardia. La Legge. Legge 8 febbraio 1948, n. 47 Disposizioni sulla stampa art. 5. Registrazione. Nessun giornale o periodico può essere pubblicato se non sia stato registrato presso la cancelleria del tribunale, nella cui circoscrizione la pubblicazione deve effettuarsi. Art. 16. Stampa clandestina. Chiunque intraprenda la pubblicazione di un giornale o altro periodico senza che sia stata eseguita la registrazione prescritta dall'art. 5, è punito con la reclusione fino a due anni o con la multa fino a lire 500.000 (la valuta delle 500mila lire è del 1948, anno della legge. ). Pubblichiamo solo alcune delle lettere, o parti di esse, giunte in redazione. Tutte firmate. Avete fatto quello che un "normale" giornale dovrebbe solitamente fare. Ma adesso ci aspettiamo lo facciate con tutti. E con tutto. Ci serve. Perché avete fatto una cosa che "normale" non è. Avete scritto l'Inchiesta. Nomi, cognomi, date, tutto quanto. L'Inchiesta, parola che ammutolisce nessuno se pronunciata nei corridoi di una procura. Ma che non sarebbe presa nemmeno in considerazione dentro un comune giornale di provincia lasciato blindato dai papà fuori per affari. Di questa provincia parliamo. L'Inchiesta, a Lecce, e oltre le mura, a saperla fare, ti mette in cattiva luce con gli editori, imbarazza il direttore che non vuole guai e poi ci sono gli inserzionisti. Da queste parti l'Inchiesta rischia di farti diventare il rompicoglioni di turno, un po' andato, sfigato, sempre squattrinato, mai saputo cosa è lo stipendio fisso, che si incatena sotto la colonna di Sant'Oronzo e che come nel film "Nuovo cinema paradiso" si lascia andare a "la piazza è mia, la piazza è mia". Uno così, a Lecce, cosa vuoi che valga? Quanto una Panda. E chi sale dentro una Panda? Invece avete fatto tutto questo. Siete saliti sulla Panda. E siete andati in giro. Va bene così. Avete risposto alle domande che in tanti, in questi anni, si sono poste, ma solo tra i pensieri o al massimo biascicandole. Perché poi? Una tra tutte va dritta verso "Cuore amico", per esempio, e il suo indotto. Domanda blasfema: è possibile quantificare l'introito pubblicitario televisivo marciante e il suo trend legati alla lodevole campagna a sostegno di chi soffre? Eppure è una domanda semplice, che non è diffamatoria e che ci abitua a dirci le cose così come stanno, che serve a fare chiarezza, a smentire le nostre cattiverie e che aiuta soprattutto a nominarci fuori dalle citazioni inutili perbeniste. Tutto questo avete fatto. Con dovizia di particolari, riferimenti, dati. Un lavoro lungo e difficilissimo, immaginiamo, che prelude ad altre inchieste coraggiose nel rispetto del Giornalismo-Inchiesta e della libertà di stampa d'altri tempi. Grazie. Lettera firmata da un "cronista provinciale". Vorrei fare i complimenti per l'inchiesta su Pagliaro. Mancavano queste inchieste nella nostra terra, che fanno luce su punti oscuri che molti fanno finta di non vedere. Lettera firmata. Ce l'ho. L'ultimo numero del Tacco è qui e sto leggendo l'inchiesta. FANTASTICA!!!!! C'è da saltare sulla sedia. Avanti con le inchieste, ne vogliamo ancora, ancora, ancora... Lettera firmata. Ho visto l'inchiesta su Tele Rama e gruppo. Io che sono stato dentro vi dico che corrisponde al vero. Complimenti per il coraggio. Lettera firmata. Cara Marilù, ti prendo pochissimo spazio per rendere pubblica la circostanza che tanto ci ha fatto divertire in queste settimane. Molti leccesi che non conoscevano il Tacco d'Italia hanno pensato che dietro la tua inchiesta ci fosse la mia penna. Non è vero, anche se la cosa mi ha inorgoglito perché vuol dire che i lettori non hanno colto troppa differenza stilistica fra noi due ed io, come sai, ho un'alta considerazione professionale di me stesso! Confermo pubblicamente che, per ovvie ragioni di competenza e di conoscenza del personaggio, sono stato tra le fonti da cui hai attinto il tuo materiale. E che potevo fare: negarmi? Adolfo Maffei.

SPECIALE CANALE 8 TV.

Basta col precariato. Dimissioni in diretta per il direttore di Canale 8, scrive “Lecce Sette”. Dimissioni in diretta per il direttore di Canale 8, Gaetano Gorgoni. Con un gesto pubblico, nell'edizione serale del Tg8 del 26 settembre 2012, Gorgoni ha infatti denunciato pubblicamente le condizioni lavorative dell'emittente che nell'ultimo anno ha gradualmente svuotato la redazione televisiva ritardando anche di 8 mesi gli stipendi di coloro che erano rimasti al loro posto. Le dimissioni del direttore arrivano come ultimo atto di una vicenda iniziata già durante le elezioni di maggio dalla denuncia del coraggioso cameramen Vincenzo Siciliano che su Facebook propose di boicottare le dirette televisive delle amministrative in segno di protesta e per questo venne immediatamente licenziato. Da quel momento nel Salento le coscienze dei molti giornalisti e operatori di tv,carta stampata, siti di notizie e web tv, si sono unite nel gruppo chiamato Informazione Precaria, che si batte per sensibilizzare l'opinione pubblica e la politica sul precariato in ambito giornalistico, piaga troppo spesso taciuta.  La solidarietà di Assostampa. "La denuncia del direttore di Canale 8, che nel rassegnare in diretta le dimissioni ha evidenziato la situazione di illegalità in cui continua a navigare l’azienda, non può non avere un seguito", scrive Nico Lorusso da Assostampa. "Quanto succede nella tv salentina Canale 8 è il sintomo evidente della patologia del sistema dell’emittenza locale in cui, a fronte di poche realtà editoriali degne di questo nome, continuano a imperversare imprenditori senza scrupoli, il cui unico scopo è accedere ai contributi pubblici destinati al settore. Ristabilire la legalità, nel caso di Canale 8, significa perseguire la violazione delle leggi sul lavoro, l’esercizio abusivo della professione giornalistica e fare luce su strani e fantasiosi intrecci societari, attivandosi per la revoca dei contributi e delle frequenze di cui – a giudizio del sindacato dei giornalisti pugliesi – sussistono da tempo i presupposti. Soltanto in questo modo si potrà iniziare a mettere ordine in cui la presenza di aziende-zavorra minaccia la sopravvivenza di chi rispetta le regole, dei giornalisti e di tutti i lavoratori, a discapito della qualità e della credibilità dell’informazione".

SPECIALE ANTENNA SUD

Continua l’azione di protesta dei giornalisti di Antenna Sud che, dopo i cinque giorni di sciopero già proclamati prima di Natale, hanno deciso di incrociare le braccia, con uno sciopero a oltranza, per lamentare il mancato pagamento delle mensilità (l’ultimo stipendio percepito è quello di agosto) e stigmatizzare la decisione dell’Editore, che il 31 dicembre 2012 ha ufficialmente avviato le procedure di mobilità per tutto il personale dell’emittente. La redazione si scusa con i telespettatori, privati della consueta informazione quotidiana che, ne siamo certi, comprenderanno le ragioni che hanno spinto i giornalisti a fermarsi per difendere il loro futuro e il sacrosanto diritto alla retribuzioni. I giornalisti dell’emittente televisiva regionale pugliese “Antenna Sud” sono in sciopero ad oltranza per la “assoluta mancanza di chiarezza sulle strategie aziendali” e l’“incapacità dell’editore di assicurare il pagamento degli stipendi”. Lo rende noto l’Associazione della Stampa di Puglia. “Il sindacato dei giornalisti è al fianco dei colleghi di Antenna Sud e ne sosterrà la vertenza in ogni sede”, assicura il presidente dell’Assostampa di Puglia, Raffaele Lorusso, intervenuto ieri, 31 dicembre, ad un’assemblea dei lavoratori in lotta. “Non è accettabile – prosegue Lorusso – il comportamento di un editore che, anteponendo gli interessi delle banche a quelli dei lavoratori della propria azienda, continua da mesi a non pagare gli stipendi, nella speranza di evitare il fallimento. Dopo lunghi mesi di sacrifici, con retribuzioni decurtate e cassa integrazione, i giornalisti rischiano ora di perdere tutto a causa di una situazione che non può essere addebitata soltanto alla crisi economica generale”. L’Assostampa respinge, di conseguenza, il piano annunciato dall’azienda “che da un lato – sostiene Lorusso – pretende di fare dell’informazione il ‘core business’ dell’emittente e dall’altro porta l’editore ad avviare le procedure di mobilità per otto giornalisti su undici in organico”. Il presidente dell’Assostampa auspica quindi che, “nel prendere in esame la richiesta di concordato preventivo, i giudici della sezione fallimentare tengano conto anche delle sacrosante rivendicazioni dei lavoratori, vittime incolpevoli di un editore che, al netto delle criticità del sistema dell’emittenza radiotelevisiva locale e della congiuntura negativa globale, mentre afferma di aver accumulato sette milioni di debiti, si pone alla testa di nuove iniziative imprenditoriali in altri settori”.

MAGISTRATI SOTTO INCHIESTA.

«Per l'ennesima volta apprendo dalla stampa delle iniziative giudiziarie prese nei miei confronti dalla Procura di Lecce: dall'iscrizione nel registro degli indagati (giugno 2011 sulla base di un esposto anonimo), passando per i due avvisi di chiusura indagine (25 settembre 2012 e 10 gennaio 2013)»: comincia così il commento del procuratore capo di Bari, Antonio Laudati a poche ore dalla richiesta di rinvio a giudizio da parte della procura di Lecce che lo ha indagato con l'accusa di aver ostacolato le indagini sul giro di escort che Giampaolo Tarantini reclutava per le feste nella residenza romana di Silvio Berlusconi. Rinvio a giudizio che riguarda anche il suo sostituto, Giuseppe Scelsi.  «Questa mattina - aggiunge Laudati - dopo aver letto che la Procura di Lecce ha inviato nella tarda serata di ieri, 18 marzo 2013, a Roma all'Ufficio di presidenza del Csm la richiesta di rinvio a giudizio a mio carico ho immediatamente chiamato il mio avvocato di Lecce, scoprendo che anche lui ne era a conoscenza solo per aver letto il quotidiano La Repubblica. Le indagini preliminari a mio carico non hanno garantito né celerità né riservatezza, come la normativa impone - conclude il capo della procura di Bari - A questo punto, confidando nella correttezza della Magistratura della quale mi onoro di far parte, sto valutando tutte le iniziative da prendere».

Non è così con i magistrati di Taranto. Si sta bene attenti a svelar le denunce contro di loro. Pochi giornalisti se ne occupano.

I magistrati di Taranto ed il loro operato. Il solo che si è ribellato allo strapotere dei magistrati tarantini in ambito locale è stato il dr. Antonio Giangrande, me medesimo. Io ho presentato svariate denunce a Potenza e presso altre procure competenti, quando Potenza non è intervenuta per abuso ed omissione commessi presso gli uffici giudiziari Tarantini. Naturalmente, lasciato solo, non potevo che subire l’onta del linciaggio, dell’accusa di mitomania o pazzia e dell’accanimento giudiziario, che nei miei confronti non ha prodotto alcuna condanna penale per reati d’opinione. Oggi non sono più solo. Anche l’Ilva con un esposto a Potenza denuncia i magistrati tarantini: "Accanimento contro di noi. Verificate se hanno commesso reati". La denuncia è stata depositata negli ultimi giorni di marzo 2013 da parte dell'avvocato Leonardo Pace per conto dello studio De Luca di Milano che segue l'azienda. Non dall’avvocato tarantino che segue gli interessi dell’azienda. Egidio Albanese, avvocato già presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto ed in buoni rapporti istituzionali con quei magistrati. D'altronde un ex prefetto e i magistrati erano fatti appositamente per lavorare a braccetto. Invece sono finiti in tribunale: il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante, noto per la sua moderazione e la stima che ha nella magistratura, ex Prefetto di Milano già candidato a Milano proprio per il centrosinistra, ha denunciato in procura a Potenza i magistrati tarantini che si stanno occupando del siderurgico e i custodi incaricati di vigilare il sequestro. Una puntualizzazione di diritto al fine di spiegare l’eventuale scontato esito della denuncia a Potenza. Il diritto non prevede l’istituto dell’insabbiamento: o rinvio a giudizio per i denunciati o procedimento per calunnia contro Ferrante e Buffo. Chiaro no?!?

Avevano promesso collaborazione istituzionale, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Il presidente del siderurgico chiede ai magistrati potentini di verificare se sono ravvisabili reati nei loro confronti: oggetto del contendere è l'atteggiamento avuto nel corso della diatriba giudiziaria, dal sequestro dell'impianto sino al blocco dell'acciaio prodotto. Nella denuncia non ci sono i nomi né del procuratore capo Franco Sebastio, né quello dei sostituti che stanno svolgendo l'inchiesta, né tantomeno quello del gip Patrizia Todisco. Sono ricostruiti passo per passo però i loro provvedimenti, dal sequestro dell'area a caldo avvenuto nel luglio scorso sino al blocco della produzione deciso a novembre 2012.  L'Ilva segnala come nonostante i provvedimenti legislativi di fatto concedessero la facoltà d'uso all'impianto (seppur legandolo a una serie di restrizioni previste dall'Aia), Procura e giudice hanno fatto sempre muro creando grave danno all'azienda. In particolare fanno riferimento al miliardo di euro di acciaio prodotto che è rimasto bloccato in azienda per mesi: il Governo aveva ordinato di venderlo, il provvedimento era stato impugnato alla Corte Costituzionale così come il primo decreto, la Procura aveva incaricato i custodi di commercializzarlo fin quando il Riesame non ha dato ragione all'Ilva restituendo il materiale e la facoltà di venderlo all'azienda. Ferrante ha inoltre contestato il provvedimento che ha portato alla sua iscrizione nel registro degli indagati: in qualità di custode non avrebbe, così come prescritto, evitato la produzione durante la fase del sequestro. Per questo Ferrante era stato poi rimosso. Ma l'Ilva ne ha anche per i custodi attualmente in carica (gli ingegneri Barbara Valenzano, Emanuela Laterza e Claudio Lofrumento; il commercialista Mario Tagarelli) accusati di non svolgere correttamente il proprio incarico. Anche per questo l'azienda ha chiesto al tribunale di Taranto la revoca dell'incarico dei custodi. Quella di Ferrante di attaccare i giudici appare un cambio di strategia chiaro: altro che strategia del dialogo, piuttosto sembra un ritorno al modo di fare dei Riva e di quel Girolamo Archinà oggi ancora in carcere. Non è un caso che contemporaneamente alle denunce ai giudici sono partite richieste di risarcimento danni nei confronti di Repubblica e Fatto: i due giornali avevano parlato della diatriba con la Provincia sulle fideiussioni rilasciate per le discariche di servizio, fideiussioni che la Provincia aveva ritenuto non convincenti con una lettera finita anche all'attenzione della magistratura: nei documenti presentati mancava, diceva l'ente, la data di scadenza delle garanzie e la dichiarazione che attestasse l'identità dei sottoscrittori e dei loro poteri. L'Ilva ha chiesto 100mila euro a ciascuno dei due quotidiani.

La legge salva-Ilva è legittima. E dunque il colosso dell'acciaio può continuare a produrre. Perché quelle norme varate per permette all'azienda di restare in vita "non hanno alcuna incidenza sull'accertamento delle responsabilità nell'ambito del procedimento penale in corso davanti all'autorità giudiziaria di Taranto". Un'interpretazione che fa a pugni con quella dei giudici tarantini per il quali autorizzare la produzione equivale a una autorizzazione a inquinare. Anzi, a continuare a inquinare. "Le sentenze della Corte costituzionale si rispettano e non si commentano", il commento del procuratore, Franco Sebastio; "la decisione impegna tutti a proseguire con rigore e rapidità nel programma per il risanamento ambientale", quello del ministro dell'Ambiente, Corrado Clini. Questa la decisione presa dalla Consulta sulla legge 231 varata a dicembre a stragrande maggioranza dal Parlamento, che ha convertito il decreto del governo Monti, intervenuto dopo il sequestro dell'area a caldo dello stabilimento e l'apertura della querelle giudiziaria che ha visto contrapporsi magistratura e politica nella ricerca di una soluzione per Taranto e per la salute dei suoi cittadini. Le conseguenze immediate potrebbero essere il dissequestro dei prodotti finiti e la ripresa della piena attività della fabbrica di acciaio pugliese, ferme restando le difficoltà della vendita più volte denunciate dall'azienda che ha anche minacciato di chiedere i danni per i mancati introiti, appellandosi proprio al via libera concesso con la salva-Ilva. Il lungo conflitto sulla legge è partito lo scorso luglio 2012: da un lato i magistrati di Taranto che indagano per disastro ambientale, dall'altro il governo e il parlamento che con la legge hanno di fatto superato quel provvedimento per evitare il blocco dell'attività del siderurgico. La sentenza arriva nel giorno della protesta a Roma di cittadini e ambientalisti, che hanno manifestato davanti Montecitorio proprio contro quella norma ribattezzata "legge vergogna". E a pochi giorni dal referendum per la chiusura parziale o totale dello stabilimento jonico che si svolgerà domenica a Taranto. Per la Corte Costituzionale sono in parte inammissibili, in parte infondate le questioni di legittimità sollevate. Secondo il Tribunale, la norma con i suoi tre articoli ne viola cinque della Costituzione. Il gip Todisco, invece, ha rilevato elementi per sostenere la violazione di ben diciassette articoli della carta costituzionale. Profili di incostituzionalità - tra cui quello sul diritto alla salute e quello sull'indipendenza della Magistratura - che però non hanno retto al vaglio della Consulta, per la quale lo stabilimento tarantino può proseguire l'attività produttiva e la commercializzazione dei prodotti nonostante i provvedimenti di sequestro disposti dall'autorità giudiziaria. La decisione è stata deliberata, tra l'altro - è spiegato in una nota - in base alla considerazione che "le norme censurate non violano i parametri costituzionali evocati in quanto non influiscono sull'accertamento delle eventuali responsabilità derivanti dall'inosservanza delle prescrizioni di tutela ambientale, e in particolare dell'autorizzazione integrata ambientale riesaminata, nei confronti della quale, in quanto atto amministrativo, sono possibili gli ordinari rimedi giurisdizionali previsti dall'ordinamento". La corte ha, altresì, ritenuto che "le norme censurate non hanno alcuna incidenza sull'accertamento delle responsabilità nell'ambito del procedimento penale in corso davanti all'autorità giudiziaria di Taranto". Nella prima fase dell'udienza, è stata valutata la costituzione delle parti. Sono stati ritenuti inammissibili gli interventi del Wwf, di Confindustria e di Federacciai. I giudici, invece, avevano ammesso l'intervento "ad adiuvandum" di tre allevatori tarantini, rovinati da diossina e pcb. Il loro gregge è stato abbattuto il 10 dicembre del 2008, quando complessivamente vennero uccisi 1200 animali.  Lo scorso 26 luglio 2012 il gip Patrizia Todisco aveva ordinato il sequestro preventivo degli impianti dell’area a caldo dello stabilimento siderurgico, ritenendoli, sulla scorta di perizie compiute nelle forme dell’incidente probatorio e dunque nel pieno contraddittorio delle parti, che fossero causa di malattia e morte per gli operai e i cittadini. L’Ilva propose ricorso al tribunale del riesame che però confermò il provvedimento del gip. Non fu proposto ricorso in Cassazione, e dunque su quel sequestro preventivo si formò il cosiddetto giudicato cautelare. Non potendo intervenire su quel sequestro divenuto definitivo, il ministro dell’Ambiente Clini prima rivide l’Aia concessa all’Ilva nel 2011 (provvedimento ora al centro dell’indagine della Guardia di Finanza), poi, con la legge 231 del 2012 (la salva-Ilva, appunto), fermo restando il sequestro, ridiede l’uso degli impianti all’azienda, concedendo 36 mesi di tempo per l’attuazione delle prescrizioni previste dalla nuova autorizzazione integrata ambientale. Il sequestro degli impianti c’è, insomma, e non è stato revocato - né poteva d’altronde esserlo - dalla Consulta, ma quegli stessi impianti possono comunque essere usati, pur se ritenuti causa di malattia e morte per i tarantini, perfino nelle more del loro rifacimento.

E' partito dallo scorso luglio il lungo conflitto sull'Ilva che è stato all’esame della Consulta e che vede contrapposti da un lato i magistrati di Taranto che hanno disposto il sequestro di parte degli impianti e dei beni prodotti dallo stabilimento tarantino e dall’altro il governo e il parlamento che con la legge 'salva Ilvà hanno di fatto superato quel provvedimento per evitare il blocco dell’attività del siderurgico. Queste le principali tappe della vicenda.

- 26 luglio 2012: su richiesta della Procura, il gip di Taranto dispone il sequestro preventivo, senza facoltà d’uso, degli impianti dell’area a caldo dell’Ilva, nominando quattro custodi giudiziari. Otto le persone arrestate, tra le quali Emilio Riva, il figlio Nicola e l’ex direttore dello stabilimento, Luigi Capogrosso.

- 26 novembre 2012: scatta una seconda ondata di arresti sulla base dell’inchiesta per disastro ambientale e di un’altra parallela chiamata 'Ambiente svendutò. Sei le persone arrestate. Il gip fa sequestrare il prodotto finito e semilavorato giacente sulle banchine perchè ottenuto utilizzando gli impianti che erano sotto sequestro (1,8 mln di tonnellate di acciaio per un valore di un miliardo di euro).

- 3 dicembre 2012: il governo emana il decreto legge 207 che autorizza l’Ilva a produrre e reimmette l’azienda nel possesso dei beni, nonostante i decreti di sequestro.

- 5 dicembre: la Procura restituisce gli impianti ma dà parere negativo sulla restituzione dei prodotti e rimanda la decisione al gip.

- 11 dicembre 2012: il gip Todisco rigetta l’istanza di dissequestro dell’Ilva, la merce sulle banchine non può essere movimentata.

- 20 dicembre 2012: il decreto legge del 3 dicembre viene convertito con modificazioni nella legge 231 cosiddetta 'salva Ilvà che entrerà in vigore il 4 gennaio successivo. L’Ilva viene autorizzata a commercializzare i prodotti finiti e semilavorati che erano stati posti sotto sequestro.

- 31 dicembre 2012: viene depositato alla Consulta il ricorso della procura di Taranto per conflitto di attribuzione nei confronti del governo sul decreto poi convertito nella legge 231. Successivamente la procura presenta ricorso per conflitto di attribuzione anche contro la legge di conversione.

- 15 gennaio 2013: i giudici del Tribunale di Taranto sollevano dubbi di costituzionalità sulla legge e in particolare sull'art.3 che consente all’Ilva di commercializzare i prodotti finiti e semilavorati posti sotto sequestro.

- 22 gennaio 2013: anche il gip del Tribunale di Taranto, accogliendo la richiesta della Procura, solleva la questione di legittimità costituzionale della legge 231 'Salva Ilva' e invia gli atti alla Consulta. In particolare, dice il gip, con gli articoli 1 e 3, la legge si pone «in stridente contrasto con il principio costituzionale della separazione tra i poteri dello Stato».

- 13 feb 2013: La Consulta giudica non ammissibili i due ricorsi sul conflitto di attribuzione presentati dalla procura in quanto superati dalla questione di illegittimità costituzionale sulla legge posta prima dal Tribunale e poi dal gip.

- 9 aprile 2013: la Consulta decide sulle due questioni di illegittimità.

Il braccio di ferro fra Ilva e magistratura tarantina approda in procura a Potenza, scrive il tarantino “Il Corriere del Giorno”. Il presidente Bruno Ferrante ha presentato un esposto nei confronti dei magistrati tarantini che conducono l’inchiesta sul disastro ambientale. Firmatario, stando a indiscrezioni, sarebbe anche l’ex direttore generale dello stabilimento siderurgico Adolfo Buffo. Da quanto si è appreso, nell’esposto si fa riferimento a presunti abusi relativi all’inchiesta condotta dalla procura tarantina, sfociata, il 26 luglio 2012, nel sequestro degli impianti dell’area a caldo e nell’arresto di Emilio e Nicola Riva (entrambi sottoposti ai domiciliari), dell’ex direttore generale dello stabilimento siderurgico Luigi Capogrosso e di cinque dirigenti dello stabilimento siderurgico (poi rimessi in libertà dal Riesame). L’inchiesta sul disastro ambientale è sfociata nell’esecuzione di nuovi provvedimenti restrittivi, il 26 novembre, nei confronti, fra gli altri, dell’ex addetto alle relazioni esterne Girolamo Archinà e del perito della procura, professor Lorenzo Liberti. Contestualmente ai provvedimenti cautelari, il gip Patrizia Todisco, su richiesta del procuratore capo Franco Sebastio, dell’aggiunto Pietro Argentino e dei pm Mariano Buccoliero, Remo Epifani e Giovanna Cannarile, ha emesso anche il decreto di sequestro dei prodotti finiti e semilavorati, un milione e 700.000 tonnellate di acciaio (del valore di un miliardo, secondo l’azienda). Al provvedimento, che ha inasprito lo scontro, si è aggiunta la decisione della procura di chiedere la vendita coatta dei prodotti, affidandola ai custodi giudiziari, per sottoporre a sequestro i proventi. L’ordinanza emessa dal gip è stata poi annullata dal tribunale del riesame che ha accolto il ricorso di Ferrante. Alcune doglianze, a quanto pare, riguarderebbero nello specifico il provvedimento relativo al sequestro dei prodotti in seguito al quale sono finiti sul registro degli indagati lo stesso Ferrante e Buffo per non aver impedito l’inquinamento degli impianti. La querela, presentata attraverso uno dei legali milanesi dell’Ilva, l’avvocato Marco De Luca, per conto di Ferrante, è stata depositata dall’avvocato Donato Pace, del foro potentino. Saranno adesso i magistrati di Potenza (competenti ad indagare sui magistrati in servizio a Taranto) a vagliare i fatti illustrati dal massimo esponente dell’Ilva. Ferrante ha puntato il dito contro la procura ma anche contro i custodi giudiziari dei quali, nelle scorse settimane, ha chiesto la revoca.

Una puntualizzazione di diritto al fine di spiegare eventuale scontato esito della denuncia a Potenza. Il diritto non prevede l’istituto dell’insabbiamento: o rinvio a giudizio per i denunciati o procedimento per calunnia contro Ferrante e Buffo. Chiaro no?!?

Per alcuni capi d'accusa è già intervenuta, mentre per gli altri, uno in particolare, è questione di mesi, scrive Leo Amato su “Il Quotidiano Della Basilicata”. Una mezza sicurezza, per intendersi, a maggior ragione se il dibattimento dovesse ricominciare da zero a causa del rinnovo del collegio giudicante. Sembra avviarsi alla prescrizione il processo alla «legge» di Castellaneta. Questo il nomignolo che qualcuno avrebbe assegnato al pm di Taranto Matteo Di Giorgio, accusato di concussione e corruzione in atti giudiziari e attualmente sospeso dall'incarico in magistratura. A causare il probabile azzeramento del lavoro svolto nelle udienze che da sei mesi a questa parte impegnano il Tribunale di Potenza tutti i giovedì potrebbe essere il trasferimento di due dei giudici a cui era stato assegnato il caso. Con l'arrivo dei loro sostituti le difese avranno tutto il diritto di chiedere il rinnovo delle attività compiute finora, e anche se si sono dette orientate in senso contrario, è tutt'altro che da escludere la possibilità che cambino idea. Risultato? Come minimo andranno risentiti i testi che sono già sfilati nelle scorse udienze e in qualche caso hanno confermato le dichiarazioni fatte ai carabinieri di Potenza, e in qualche caso le hanno smentite finendo sulla lista nera dei possibili indagati per falsa testimonianza. Contro questa evenienza nei giorni scorsi si è opposto il legale che assiste le parti offese del processo, tra cui l'ex senatore e sindaco di Castellaneta Rocco Loreto. L'avvocato Fausto Soggia ha infatti depositato un'istanza di applicazione dei due giudici in partenza che permetterebbe a entrambi di tornare nel loro vecchio ruolo per completare il dibattimento. Di Giorgio è stato anche arrestato per gli stessi fatti per cui oggi si trova a processo a novembre del 2010, al termine di una serie di attività investigative - coordinate dalla procura della Repubblica di Potenza (che è la sede competente ad indagare sui reati commessi dai magistrati di Taranto) - durate circa due anni, e avviate dopo le denunce di cittadini che si ritenevano danneggiati dal magistrato. Per lui l'accusa era di concussione perchè avrebbe compiuto atti contrari ai suoi doveri d'ufficio, ricevendo in cambio diverse utilità, ma mai denaro contante. In particolare, il pm tarantino - che era stato raggiunto dall'ordinanza assieme ad altre due persone, - avrebbe minacciato di un «male ingiusto» un consigliere comunale di Castellaneta, che è il suo comune di residenza, costringendolo alle dimissioni. La cosa avrebbe creato le condizioni per una crisi del consiglio e le nuove elezioni dove avrebbe prevalso un candidato a lui vicino. E quelle dimissioni sono proprio l'episodio a rischio prescrizione più a breve.Di Giorgio avrebbe anche agito per permettere a un bar, aperto illegalmente, di continuare a operare in cambio della revisione della sua testimonianza rispetto a una lite avuta tempo prima con l'ex senatore dei Ds Rocco Loreto. Un episodio da cui sarebbe scaturito nel 2001 l'arresto di Loreto per calunnie nei confronti di Di Giorgio, su richiesta del pm Henry John Woodock all'epoca ancora in servizio per la procura a Potenza, che a distanza di nove anni è poi dovuta tornare sui suoi passi.

Se sarà confermato ciò che si legge negli atti del processo che andiamo a raccontare, c’è da scommettere che Montesquieu non si stia limitando a rivoltarsi nella tomba ma l’abbia già ridotta in pezzi, scrive Peppe Rinaldi sul quotidiano "Libero" del 27 marzo 2013 riportato da “Eolo News”.  Veder sommate in un unico soggetto attività politica e giurisdizionale sarebbe troppo perfino per tipi à la Flores D’Arcais: pare, invece, sia successo, seppur con forme e contenuti ormai ridotti a cronaca giudiziaria. Stiamo parlando del famoso «processo alla Legge» -come l’ha definito qualcuno tra Puglia e Basilicata - dove per «Legge» è da intendersi il sostituto procuratore Matteo Di Giorgio figura di primo piano della vita politica, amministrativa e giudiziaria del tarantino, in particolare della città di Castellaneta: almeno fino a quando i suoi colleghi di Potenza, competenti sui magistrati pugliesi, si sono presentati a casa per ammanettarlo. Pesantissime le accuse: concussione, corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, favoreggiamento e mutamento del titolo di reato. E’ una vicenda complicata a giudicare dalle 175 pagine della richiesta cautelare del pm Laura Triassi, siglata dal gip Gerardina Romaniello il 10 novembre 2010 e quasi integralmente richiamata nel decreto di rinvio a giudizio dell’aprile 2012 dal giudice Michela Tiziana Petrocelli. Incredibile perché? Al netto dell’ovvia presunzione d’innocenza, il racconto merita perché difficilmente si è sentito di un pm che - nell’esercizio delle funzioni e all’interno del territorio di competenza - avrebbe partecipato a riunioni politiche, dettato la linea da seguire ad amici ed accoliti di una lista civica (area di centrodestra) e brigato per far sottoscrivere da sindaci, assessori e segretari di partito documenti in suo favore per ottenere la candidatura alla presidenza della Provincia di Taranto. Di pm paracadutati in politica in virtù di indagini rumorose ne son piene le cronache: proprio la Puglia ne contempla almeno una mezza dozzina temporaneamente occupati a garantire il bene della collettività. Ma come quello di Matteo Di Giorgio - sempre che tutto regga fino alla fine del processo - non risulterebbero altri casi. La vicenda parte da lontano: siamo nel 2001 quando un senatore degli allora Ds, Rocco Loreto, sindaco in carica di Castellaneta e nemico acerrimo di Di Giorgio, manda a Potenza un esposto sul pm. Il fascicolo finisce nelle mani di John H. Woodcock, ancora in servizio in Lucania, il quale non trova nulla contro il collega di Taranto e, pertanto, vira direzione mettendosi ad indagare su chi la denuncia aveva presentato. Fino ad arrestare il senatore Loreto cinque giorni dopo la perdita dell’immunità, con l’accusa di calunnia. Il Riesame annullerà tutto: la custodia cautelare per quel tipo di reato è inammissibile. Dal “palo” preso dal pm di Vallettopoli, Savoiagate, dei casi De Gregorio, Finmeccanica, P4 e chissà cos’altro, discende l’ambaradàn di questi giorni. Perché, trasferito Woodcock a Napoli, la palla passa al pm Laura Triassi che indaga fino a chiudere il cerchio. Negli atti si leggono fatti, circostanze, intercettazioni telefoniche ed ambientali, dichiarazioni testimoniali (alcune poi ritrattate e per le quali è in corso separato procedimento) allarmanti: Di Giorgio, ad esempio, per far cadere la giunta di Castellaneta guidata da Loreto, avrebbe convinto l’undicesimo consigliere comunale (quello mancante cioè) a firmare la sfiducia dopo che a questi viene prospettata la possibilità che sua nipote e suo fratello, coinvolti in un giro di droga all’interno di una discoteca, non vengano arrestati. Così avviene: i due giovani, pur essendo i «capi» dello spaccio, sono gli unici a non finire dentro. Il consigliere, intanto, aveva firmato la sfiducia e la giunta era andata a casa. Ancora: il sindaco subentrato, un avvocato, emergerebbe dal processo come uno strumento nelle mani del pm. Si legge di episodi paradossali, con il pm che convoca riunioni nelle stanze municipali, di urla e strepiti per aver dato incarichi esterni senza il suo permesso o per averne rinnovati altri ai suoi nemici. «L’ho fatto piangere, si è accasciato sulla poltrona chiedendomi scusa» dice ad un’amica Di Giorgio in un’intercettazione, riferendosi al sindaco che «ha tradito l’amicizia». In un altro caso, avrebbe obbligato una vittima d’usura a non denunciare lo strozzino, suo parente. Ancora: in un residence turistico della zona lavorava come guardiano una persona legata a Loreto e, per obbligare il proprietario a mandarlo via e rifiutare la successiva offerta al ribasso per il servizio dallo stesso ripresentata, Di Giorgio avrebbe garantito che un suo amico pm (Buccoliero, quello del caso Scazzi) non gli avrebbe sequestrato l’impianto. Le indagini hanno chiarito che il sequestro avvenne e intanto Di Giorgio avrebbe goduto di trattamenti al risparmio per le vacanze. Un quadro complesso, sempre che venga confermato dal giudizio. Il punto è qui: rischia di prescriversi tutto nonostante il tribunale abbia proceduto con udienze straordinarie. Giovedì 21 marzo due giudici hanno ufficializzato il loro trasferimento: quindi sarebbe tutto da rifare, con testimoni da risentire e via dicendo. In pratica il processo “alla Legge” rischia di saltare. Accade spesso quando di mezzo c’è un magistrato. Come succede di rado che in calce ad un’ordinanza di custodia cautelare un gip si premuri di disporre che «nell’esecuzione del provvedimento e nella traduzione dell’arrestato vengano evitate inutili forme di disagio e forme indebite di pubblicità». Sacrosanta affermazione, rara avis nelle misure in danno di chi magistrato non è.

E’ interessante, però, conoscere quanto ha da dire su tutti i risvolti della vicenda Michele Imperio. Sono passati giorni da quando (11 novembre 2010) un magistrato della Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio è stato rinchiuso in casa agli arresti domiciliari dai Magistrati del Tribunale di Potenza. Ci siamo già occupati di questa vicenda e rimandiamo il lettore alla lettura dei precedenti post. Ora questa ignobile storia si è arricchita – sempre secondo noi - nei giorni scorsi di un nuovo inquietante capitolo. Premettiamo che a marzo 2010 il Magistrato Matteo Di Giorgio aveva denunciato sia il Magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi (M.D.) sia l'ex maresciallo Leonardo D’Artizio alla Procura della Repubblica di Catanzaro per abusi nelle indagini contro di lui. In pratica la dott.sa Laura Triassi si serviva per le indagini contro il collega Matteo Di Giorgio del Maresciallo Leonardo D’Artizio, sottoufficiale dell’arma non più in servizio in quanto espulso dall’Arma perché imputato di maltrattamenti e di altri gravi reati, dai quali era scaturito anche un suicidio di un carabiniere, suo subalterno. La notizia è riportata dalla Rete in questi termini: Rinviato a giudizio il maresciallo Leoenardo D’Artizio. Avrebbe trattato da “reclute”, con offese, umiliazioni e finanche minacce, 21 militari alle sue dirette dipendenze. Uno di questi, il brigadiere Sergio Colaci, 46 anni, nativo di Lecce, si suicidò nella sua abitazione, sparandosi con la pistola d’ordinanza (era sposato con figli). La disgrazia risale al 3 giugno del 2004. Sarà un processo a fare luce su un presunto caso di mobbing alla compagnia dei carabinieri di Castellaneta. Il giudice dell’udienza preliminare Ciro Fiore ha rinviato a giudizio il maresciallo Leonardo D’Artizio, 54 anni, nato a Grassano, ex comandante del Nucleo Operativo e Radiomobile della compagnia di Castellaneta, Il sottufficiale risponde di maltrattamenti, violenza privata, morte come conseguenza di altri reati (in relazione al suicidio del brigadiere Colaci), abuso d’ufficio e falso ideologico. Il capitano Massimiliano Conti, attuale comandante della compagnia di Castellaneta, al quale sono contestati i reati di maltrattamenti e violenza privata per un comportamento “omissivo” (secondo l’accusa, pur essendone a conoscenza, non avrebbe impedito le presunte vessazioni nei confronti dei militari), sarà invece giudicato con il rito abbreviato. Nel capo d’imputazione si parla di continue offese al prestigio, all’onore e alla dignità dei carabinieri «in presenza di altri civili e militari in luogo pubblico, con continui e immotivati richiami alla disciplina militare, con ripetuti e ossessionanti controlli alle pattuglie operanti su strada ed infine con gratuite e ingiuste minacce». Le presunte vittime, insomma, sarebbero state costrette a subire «un continuo stato di tensione, apprensione e umiliazione». L’abuso d’ufficio è contestato a proposito della redazione delle cosiddette note caratteristiche, una sorta di pagella sulle capacità e le attitudini dimostrate dai carabinieri. D’Artizio, secondo l’accusa, avrebbe violato i doveri di obiettività nella valutazione del rendimento e dei servizi prestati dai militari mobbizzati. Ebbene a fronte di così gravi e pesanti accuse e di fronte a una richiesta del Pubblico Ministero (Petrocelli) è stato assolto dal Tribunale di Taranto. Il dato singolare è che a distanza di pochi giorni anche la Corte di Appello di Taranto, con insolita celerità, ha riformato la sentenza di condanna a sei mesi di reclusione del capitano Massimiliano Conti superiore in grado di D'Artizio. Assolto pure lui. La denuncia di Di Giorgio contro la dott.sa Laura Triassi e il maresciallo Leonardo D’Artizio provocò la reazione irata dei magistrati di Magistratura democratica, i quali intimarono Di Giorgio di chiedere lui stesso il trasferimento presso la Procura della Repubblica di Pescara, dove c’era un posto libero, pena spiacevoli conseguenze per lui. Conseguenze che poi si sono puntualmente verificate. Ormai alcune Procure sono gestite da alcuni Magistrati come se fossero un loro dominio personale, nelle quali loro stessi stabiliscono chi può stare e chi no. Ma, ricapitoliamo per chi non ha letto i precedenti post, tutta la storia. C’è una cittadina in provincia di Taranto di 17.000 anime che si chiama Castellaneta, in cui risiedono un parlamentare del P.D. e un magistrato della locale Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio i cui parenti militano politicamente nell’area di centro-destra. In un paese normale le due personalità avrebbero trovato un modus vivendi. Invece fin dall'anno 2000 per il Magistrato Matteo Di Giorgio viene fatto oggetto di un’incredibile odissea. Nell'anno 2000 infatti il parlamentare del P.D. dopo aver perso le elezioni comunali a Castellaneta, inoltra contro il Magistrato Matteo Di Giorgio ben tre denunce penali una di fila all’altra: 6 aprile 2000, 31 maggio 2000 e 2 giugno 2000. Addirittura lo fa pedinare e lo fa filmare nei suoi spostamenti. Già a primo acchito le denunce appaiono fantasiose o quanto meno condizionate dal pettegolezzo paesano. In esse infatti il parlamentare accusa il giudice di aver utilizzato le indagini di cui era titolare «per orientare il voto del 16 aprile 2000 a Castellaneta»; di aver partecipato ad un incontro segreto nel quale «sarebbe stato concordato un piano per distruggerlo politicamente»; di aver divulgato notizie coperte da segreto istruttorio, in quanto «anche nei supermercati veniva pubblicamente annunciato da signore amiche di famiglia del dottor Di Giorgio che tra giovedì e venerdì sarebbe scoppiato un botto che avrebbe spazzato via dalla città il parlamentare»; di avere, infine, strumentalizzato le indagini con intento e finalità persecutorie nei suoi confronti. Ci sono in base a queste convinzioni anche momenti di grave tensione fra il parlamentare e il Magistrato. Quando lo incontra per strada il parlamentare non sa trattenersi e aggredisce pubblicamente il Magistrato con epiteti del tipo: "Stronzo! Mascalzone!" In un’occasione si deve far ricorso perfino alla forza pubblica perchè il parlamentare intende passare a vie di fatto. Nei comizi e nelle interviste rilasciata a giornali e televisioni il Magistrato veniva letteralmente stracciato: e definito di volta in volta "un capocantiere", "un arruolato nelle file di Forza Italia", "un miscuglio tra magistratura, polizia giudiziaria e sezione di Forza Italia"; "un uomo indegno di indossare la toga", "parente e amico di funzionari della ASL di Taranto", "legato a esponenti di Forza Italia", autore di «un complotto, mirato a far fuori dalla scena politica esponenti del centro-sinistra», autore di iniziative giudiziarie che sono «autentiche cazzate» volte a delegittimarlo nel momento della scelta delle candidature per le imminenti elezioni amministrative o «vendette giudiziarie annunciate». Le denunce però vengono dirottate a Potenza (sede competente a giudicare dei reati in cui è parte lesa un Magistrato che esercita le sue funzioni nel distretto di Taranto) e - fatto imprevisto - pervengono nelle mani di John Woodkock. Woodckock non è un Magistrato condizionabile, indaga da par suo e scopre che nel 2001 il parlamentare aveva contattato un imprenditore tal Francesco Maiorino, testimone nel processo affinché calcasse la mano su Di Giorgio e lo accusasse di fatti non veri per ipotizzare una sua possibile corruzione giudiziaria. Di fronte a fatti di questa gravità Woodckock arresta il parlamentare. Questi si difende con tenacia, dicendo che aveva espresso su Di Giorgio solo giudizi garantiti dall’inopinabilità delle dichiarazioni parlamentari ma Woodckock lo insegue come un segugio fino alla Corte Costituzionale e si fa dare ragione: l’inopinabilità dei giudizi di un parlamentare non giustificano le calunnie - dice la Corte. Però, nonostante Woodckock, il processo per calunnia va avanti molto a rilento. Ancora nell’anno di grazia 2010 per fatti che risalgono nientedimeno che al 2001, non si è ancora concluso nemmeno il giudizio di primo grado. L'11 settembre 2009 interviene una novità. Woodckock si trasferisce a Napoli e nel Tribunale di Potenza si rafforza la presenza di M.D. Per Di Giorgio inizia presso il Tribunale di Potenza un autentico calvario. Altre denunce partano dalla penna del senatore del P.D. e l’11 novembre 2010 le parti si invertono. Di Giorgio rimane parte lesa di delitto di calunnia, ma diventa imputato di concussione in un altro processo che ha origine dalle denunce di cittadini di Castellaneta chiaramente mobilitati dal parlamentare e viene posto lui questa volta agli arresti domiciliari. Si arriva così all’assurdo che nel processo per calunnia ancora in corso Di Giorgio magistrato e parte lesa dovrebbe comparire in catene e il parlamentare imputato di calunnia contro di lui, potrebbe irriderlo dal banco degli imputati. Uno scarno comunicato dei magistrati del Tribunale di Taranto colleghi di Matteo Di Giorgio all’indomani dell’emissione del mandato di cattura contro Di Giorgio (12 novembre 2010) esprime fiducia nell’operato dei giudici di Potenza e auspica però che la vicenda si chiarisca al più presto (ergo che in pochi giorni il collega Di Giorgio sia liberato). Invece pare che le cose non stiano andando così. La questione avrà tempi lunghi perché si è capito che alcuni Magistrati di M.D. vogliono mantenere lo stato di cattura di Di Giorgio almeno fin quando non si vedrà che fare dell’inchiesta sui parchi eolici di Castellaneta sui quali il parlamentare ha fatto alcune denunce che però coinvolgono anche l'ignaro governatore della Regione Puglia Nichy Vendola. Sulla vicenda della cattura del dott. Di Giorgio intanto è calato un silenzio spettrale. Nessuno ne parla più. Né giornali, né televisioni né giudici suoi colleghi, né suoi antagonisti. Nessuno. Il Magistrato è ormai da più di quaranta giorni chiuso in causa in un silenzio tombale. Senza motivo. Si dice che potrebbe inquinare le prove. Ma quali prove se è stato già inquisito per oltre due anni? Per quanto tempo deve essere inquisito ancora? L’unica notizia correlata è che nel giro di pochi giorni – stranamente - il Tribunale di Taranto ha assolto dai reati di maltrattamenti il maresciallo Leonardo D’Artizio, uno dei protagonisti della vicenda, denunciato da Di Giorgio e il suo superiore Massimiliano Conti. Il maresciallo dei Carabinieri Leonardo D’Artizio - lo ricordiamo - era accusato di aver fatto mobbing con 20 suoi subalterni uno dei quali per via di questi maltrattamenti si era suicidato, lasciando moglie e due figli. A carico di D’Artizio erano scaturiti due processi, uno ordinario, uno militare. Il Tribunale militare di Napoli lo ha condannato a un anno di reclusione. Quello ordinario – come abbiamo detto - lo ha assolto. Non so fino a che punto le due sentenze siano compatibili ma – secondo me – uno dei due Tribunali ha sbagliato. Peraltro nel processo ordinario il P.M. Vincenzo Petrocelli aveva chiesto la condanna di D'Artizio a ben cinque anni di reclusione. D’Artizio pur sospeso dal servizio, aveva collaborato - come detto - con la Procura di Potenza e aveva quindi indagato abusivamente sul giudice Matteo Di Giorgio. Però ora con l’assoluzione c'è da scommettere che qualcuno dirà che l’espulsione dall’Arma era ingiusta e che dunque le indagini sono legittime.

MAGISTRATI INDIPENDENTI?

In un paese in cui i magistrati fanno interviste e pubblicano libri parlando delle loro inchieste ancora aperte, può sembrare surreale: eppure mercoledì 20 febbraio 2013 il Consiglio Superiore della Magistratura ha punito Clementina Forleo, giudice a Milano, negandole gli avanzamenti di carriera cui avrebbe avuto diritto non solo per anzianità ma anche per le valutazioni sulla sua professionalità («eccellente») fornite dal consiglio giudiziario di Milano e acquisite nel suo fascicolo. La colpa della Forleo è essere andata anni fa in televisione, ad Annozero, denunciando le pressioni dei «poteri forti» sull'inchiesta Bnl-Unipol, ovvero sulla scalata della assicurazione «rossa» alla Banca Nazionale del Lavoro. É un tema, quello dei rapporti tra la sinistra e le scalate bancarie, che oggi è sulle prime pagine dei giornali grazie all'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena. Ma in quegli anni il clima era diverso. E l'inizio dei guai della Forleo iniziò quando chiese al Parlamento di poter trascrivere le intercettazioni delle telefonate di Massimo D'Alema e del suo compagno di partito Nicola La Torre, definendoli «complici consapevoli del disegno criminoso». Da lì iniziò il suo isolamento. Per l'intervista a Annozero, la Forleo è già stata ingiustamente punita: il Csm la trasferì a Cremona per «incompatibilità ambientale», con una decisione annullata dal Consiglio di Stato. É tornata a Milano, fa il giudice di tribunale. Mercoledì sera, a sorpresa, il Csm è tornata a fargliela pagare. Con una maggioranza risicata - dodici voti contro dieci - è stata giudicata indegna degli avanzamenti che le sarebbero spettati. Tra i più duri, il consigliere del Csm Guido Calvi, che all'epoca del caso Bnl-Unipol era l'avvocato dei Democratici di sinistra.

DAL CASO FORLEO AL CASO LAUDATI-SCESI. LA MAGISTRATURA E’ VERAMENTE INDIPENDENTE ? Questo si chiede Michele Imperio. La storia – si diceva una volta – è fatta di corsi e ricorsi storici. Con ciò si voleva dire che la storia è composta di vicende analoghe che di volta in volta nel tempo si ripetono. Dopo il 1992 dalemiani e finani, consci di essere sostenuti dai servizi segreti americani, agiscono come se fossero i padroni del sistema, pretendono di fare porcherie in quantità, non accettano di essere sottoposti al controllo della Magistratura, come già in passato accadde per altri gruppi politici. Il valoroso Magistrato Clementina Forleo ebbe l’ardire di mettersi contro sia finiani che dalemiani ed è stato il magistrato più massacrato d’Italia degli ultimi venti anni dopo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Riepiloghiamo e riesaminiamo il suo caso. La Procura della Repubblica di Milano, nel corso dell’inchiesta sulle scalate bancarie, aveva intercettato delle telefonate di imprenditori sotto inchiesta per reati finanziari e alcune di queste telefonate erano dirette a parlamentari. La Legge Boato imponeva in questo caso che le intercettazioni non potessero essere usate come prova senza che il Parlamento avesse concesso l’autorizzazione. La Procura passò quindi le telefonate al g.i.p. Clementina Forleo, la quale doveva valutarne la rilevanza penale ed eventualmente richiedere al Parlamento il permesso di usarle. Clementina Forleo chiese l’autorizzazione all’utilizzo delle intercettazioni, che coinvolgevano alcuni parlamentari del PD (Piero Fassino, Massimo D’Alema, Nicola Latorre, Salvatore Cicu) e del PDL (la buonanima di Romano Comincioli), tuttavia ebbe l’inaccortezza di scrivere nella sua ordinanza che le intercettazioni potevano servire non soltanto come prova contro gli imprenditori inquisiti, ma anche come materiale indiziario per poter eventualmente inquisire alcuni gli stessi parlamentari che, secondo quanto scrisse nella richiesta, “appaiono [...] consapevoli complici di un disegno criminoso”. Apriti cielo! Per il solo fatto di avere ventilato una possibile incriminazione di D’Alema (che comunque doveva essere sempre formalizzata dai P.M. per cui il suo era un semplice parere) dopo quella ordinanza la Forleo racconta di essere stata circondata da Gerardo D’Ambrosio e da altri magistrati di M.D. i quali le dissero: “Lascia perdere D’Alema! lui è uno che aiuta noi magistrati!“. Anche la reazione di D’Alema fu durissima e perfino Giorgio Napolitano le si mise contro. D’Alema ci tiene molto alla sua reputazione e non ammette di essere indagato. Dopo questa ordinanza Clementina Forleo è stata letteralmente massacrata, minacciata con plurime lettere anonime con proiettile incorporato, telefonate mute, attentata alle proprie cose con aggressioni incendiarie alle sue fattorie, rimasti sempre a opera di ignoti, privata della scorta, perfino fatta segno di un tentativo di omicidio in autostrada, sottoposta a procedimento disciplinare e trasferita di sede.

Clementina Forleo pretese pure di disporre intercettazioni sul conto di Antonio Fazio un santone roman-democristiano passato sotto la protezione di Gianfranco Fini e ne arrestò il figlioccio Giampiero Fiorani. Quindi è presumibile che Clementina Forleo sia stata massacrata da una azione congiunta che ha visto convergere magistrati dalemiani di M.D. e magistrati finiani di M.I. Tra questi ultimi c’è anche quell’Alberto Santacaterina all’epoca Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Brindisi, affiliato a M.I., la corrente di destra delle toghe che fa capo a Gianfranco Fini, il quale in pratica si è clamorosamente e apertamente rifiutato di espletare indagini sulle minacce e sugli attentati subiti dalla famiglia della Forleo, non ultimo la morte dei genitori preannunciata da una lettera anonima (“i tuoi genitori moriranno e poi morirai anche tu“;) e puntualmente verificatasi venti giorni dopo a seguito di uno “strano” incidente stradale.

Alberto Santacaterina finì sotto processo per questo motivo, fu a un passo dall’essere sottoposto a mandato di cattura da parte di un valoroso magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Ferdinando Esposito per associazione a delinquere, falso, omissioni di atti d’ufficio, abuso in atti d’ufficio e altri reati. Poi, a seguito di un altro strano incidente stradale il giudice Ferdinando Esposito precipitò in una scarpata. Stette lì lì per morire, dovette abbandonare l’inchiesta che passò – provvidenzialmente per Santacaterina – nelle mani di un Magistarto di M.D. Cristina Correlae e tutto si sistemò. Ora Alberto Santacaternia si trova in premio a fare il Sostituto Procuratore distrettuale anti-mafia presso la Procura della Repubblica di Lecce. Abbiamo già dissertato a lungo sull’inopportunità che questo magistrato ricopra un incarico così delicato. Ora possiamo aggiungere che al tempo il CSM voleva respingere la sua proposta di promozione. “Amici” però ci hanno riferito che i Magistrati di M.I. sono stati perentori nel sostenerlo e hanno letteralmente imposto al CSM che Alberto Santacaterina dovesse a forza ricevere questo incarico. “O il CSM fa passare questa nomina - dissero – o il CSM non lavora più“. All’epoca il vicepresidente dei M.I. era il noto Giovanni Tinebra, l’ex Procuratore capo di Caltanisetta che depistò le indagini sulla strage di via D’Amelio (quella in cui fu assassinato Paolo Borsellino) e che recentemente si è rifiutato di deporre nel processo Mori-Obinu che si sta celebrando dinanzi il Tribunale di Palermo. Alcuni Magistrati della stessa Procura della Repubblica di Lecce ora vorrebbero – forse – incriminare i valorosi magistrati della Procura della Repubblica di Bari Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sulla base di una denuncia del chiacchieratissimo magistrato dalemiano sempre di Bari e di M.D. Giuseppe Scelsi. I Magistrati Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sono i magistrati i quali, meritoriamente, hanno scoperchiato il pentolone puteolento della malasanità pugliese di marca dalemiana. La Procura di Lecce però è bipartisan. Non si conoscono per ora gli orientamenti politici del magistrato incaricato Antonio De Donno per cui ancora non si può dire se l’indagine intende colpire gli integerrimi Magistrati baresi Antonio Laudati, Ciro Angelillis ed Eugenia Pentassuglia oppure intende perseguire le gravi calunnie loro rivolte dal Sostituto Procuratore generale in forza alla Corte di Appello di Bari Giuseppe Scelsi. Nelle intercettazioni disposte nel processo sulla malasanità pugliese inizialmente gestito personalmente proprio da Giuseppe Scelsi ci sono intercettazioni in cui il principale indagato, l’allora assessore regionale del PD. Alberto Tedesco, parla di lui Giuseppe Scelsi e addirittura con lui e discute della opportunità di nominare il fratello del magistrato Michele Scelsi a primario del Servizio immunotrasfusionale dell’ospedale “San Paolo”. Incredibilmente Giuseppe Scelsi non si astenne dall’incarico. Antonio Laudati allora gli affiancò altri due magistrati in modo da costituire un pool. È Alberto Tedesco che nel 2006 porta in Consiglio Regionale una legge per istituire il Coordinamento regionale delle attività trasfusionali e al vertice nomina proprio Michele Scelsi e gli fa gestire i fondi per la raccolta del sangue, la sensibilizzazione alla donazione, un budget di diversi milioni di euro per ogni anno. Poi c’è la Commissione tecnico-scientifica, della quale hanno fatto parte l’assessore regionale Alberto Tedesco e il responsabile del Crat Michele Scelsi, lavorando gomito a gomito. E ancora: Alberto Tedesco delega Michele Scelsi (il medico) a rappresentare la Puglia nella Consulta tecnica permanente istituita presso il Ministero della Salute. Va altresì rilavato che il magistrato “dalemiano” Corrado Lembo già chiacchierato Vice Procuratore nazionale Antimafia nel 1993 al tempo delle stragi, di cui non sono stati mai scoperti i mandanti occulti, oggi Procuratore capo di Santa Maria Capua Vetere, aveva già provveduto ad inviare un messaggio di chiara matrice mafiosa ai Magistrati di Bari che si occupavano della malasanità, arrestando clamorosamente il 25 ottobre 2010 il g.i.p. del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis, per il possesso irregolare di una sola carabina di una collezione privata di armi composta da ben 1.350 pistole. Giuseppe De Benedictis non era un g.i.p. qualsiasi ma era il g.i.p. che aveva autorizzato tutti i mandati di cattura e aveva scritto tutte le ordinanze sulla malasanità pugliese e sulle operazioni illecite del senatore del PD Alberto Tedesco configurando un quadro che pacificamente consente di contestare a tutti il grave reato di associazione per delinquere finalizzata al peculato all’abuso d’ufficio e alla truffa. La malasanità pugliese ha dato origine a ben sette procedimenti penali e ora sta dando causa anche ad alcuni strani suicidi. Già il giorno dopo l’arresto, il CSM ha trasferito a passo di carica il giudice Giuseppe De Benedictis al Tribunale di Matera, ma il trasferimento, chiaramente illegittimo, è stato annullato dal T.A.R. del Lazio, organo giudiziario non infestato, come quelli penali, da Magistrati politicizzati. Successivamente i magistrati di Bari hanno ricevuto un altro messaggio mafioso perchè Giuseppe De Bendictis è stato sospeso dalle funzioni e dallo stipendio in quanto, secondo il Procuratore Generale della Cassazione, Vitaliano Esposito la sua posizione nel processo della carabina si sarebbe aggravata. Vitaliano Esposito è stato eletto a suo tempo Procuratore Generale della Cassazione con il voto decisivo del noto stragista democristiano Nicola Mancino, allora immeritatamente vicepresidente del CSM, e di lui si dice in alcune intercettazioni contenute nel processo a carico del Magistrato Corrado Carnevale che sia amico di alcuni camorristi.

Anche i magistrati del Tribunale di Taranto si son visti recapitare un messaggio mafioso attraverso l’arresto disposto dal magistrato di MD della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi del loro valoroso collega Matteo Di Giorgio già delegato su Taranto per le indagini anti-mafia dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce diretta dal valoroso magistrato Cataldo Motta. Il mandato di cattura è stato poi in gran parte annullato dalla Cassazione ma al dott. Matteo di Giorgio continua a essere imposta la misura del soggiorno obbligato e la sospensione dal servizio e dallo stipendio che dura ormai da anni. Ma non sono solo questi i fatti gravissimi che si stanno sempre più frequentemente verificando nei distretti giudiziari di Bari, Taranto e Lecce. Ve ne sono altri forse ancora più gravi di cui disserteremo nel prossimo post.

TARANTO, QUANDO IL BUE CHIAMA CORNUTO L’ASINO.

Sono 9694 i lavoratori in cassa integrazione a cui si sommano 12764 persone che usufruiscono dell’indennità di disoccupazione e 1953 in mobilità. Quattrocento sono stati i licenziamenti nell’ultimo anno. I dati, aggiornati al 30 settembre 2012, sono stati diffusi dalla CGIL. Dal 3 marzo 2013 6.500 dipendenti dell’Ilva di Taranto si aggiungeranno a quelli già in cassa integrazione. Per la precisione 6.417 lavoratori dell’Ilva andranno in cassa integrazione e tutto il quadro macroeconomico soprattutto per quanto riguarda la disoccupazione continua ad essere estremamente allarmante. Il polo siderurgico di Taranto al centro di una guerra giudiziaria lunga ormai mesi manderà in cassa integrazione. Saranno contenti chi il posto di lavoro ce l’ha e lotta per il diritto alla salute. Meno contenti sono coloro che il posto di lavoro lo hanno perso e mai più lo ritroveranno, perdendo con esso, sì, anche la salute.

Di fronte a questa allarmante realtà troviamo in opposto troviamo che 34 impiegati del Comune di Taranto sono stati condannati per “stipendi d’oro” elargiti per 4 anni. Pene da 3 anni e mezzo a 6 anni per gli impiegati accusati di aver intascato paghe da capogiro per 4 anni attraverso cosiddetti "progetti obiettivo". Il tribunale ha deciso anche un risarcimento di 5 milioni a favore dell'amministrazione comunale. Per la voragine dei conti sono a processo in un altro filone anche alcuni assessori, scrive Francesco Casula su “Il Fatto Quotidiano” l' 8 marzo 2013. Così, grazie a quegli extra, gli importi delle buste paga schizzavano sino a netti da nababbi, con punte incredibili da 28.000 euro. Il fenomeno venne a galla dopo un controllo dei finanzieri sulla contabilità dell’ente all’epoca della giunta guidata dal sindaco Rossana Di Bello. Le verifiche dei militari fecero emergere lo scandalo che alle casse comunali sarebbe costato fiori di milioni di euro tra il 2001 ed il 2005. L’inchiesta esplose il quattro luglio del 2006 con una pioggia di arresti e sequestri di beni immobili e denaro. Tutto era iniziato nel 2005 con la segnalazione alla Guardia di Finanza degli ispettori ministeriali che avevano esaminato la documentazione amministrativa e contabile. Si era registrata una impennata sospetta della dichiarazione dei redditi complessiva del personale del Comune di Taranto. Nel corso del processo è stata acquisita tra le altre la testimonianza di Rossana Di Bello, sindaco dal 2000 al 2006, citata dal pm Ida Perrone e controesaminata dal folto collegio difensivo oltre che dal legale di parte civile (l’avvocato Pasquale Annicchiarico).

“Nessuno mi ha mai segnalato anomalie nella gestione e nella retribuzione del personale comunale e d’altronde a noi non arrivavamo le determine dei dirigenti e dunque eravamo all’oscuro dell’ammontare degli stipendi e di come più in generale venivano utilizzati i soldi stanziati negli appositi capitoli di spesa” le parole della Di Bello su “Taranto Sera”. L’ex direttore generale, Franco De Feis, nella sua deposizione ha spiegato che il Piano economico di gestione non rientrava nelle competenze del dirigente risorse finanziarie Luigi Lubelli, e che il concetto sulla l’ordinarietà delle prestazioni va interpretato perchè non è chiaro. La cifra contestata è di sei milioni e 700.000 euro in più rispetto alla retribuzione prevista dalla legge e dal contratto di lavoro. Una raffica di ordinanze di custodia cautelare, poi revocate, scandirono il 4 luglio 2006, data destinata a rimanere comunque indelebile nella storia della nostra città. Il Comune di Taranto si è costituito parte civile, chiedendo un risarcimento danni di 50 milioni di euro. A comporre il collegio difensivo è il fior fiore dell’avvocatura tarantina, tra gli altri, gli avvocati Egidio Albanese (già presidente dela Consiglio dell’Ordine degli Avvocati), Ernesto Bucci, Domenico Rana (già presidente della Provincia), Giovanni Rana, Carlo Petrone, Umberto Braga, Michele Rossetti, Luca Balistreri, Christian Spinelli, Ylenja Lucaselli, Fausto Soggia, Angelo Masini, Raffaele Errico, Lello Lisco, Donato Salinari, Fabio Alabrese, Francesco Nevoli, Vincenzo Vozza, Raffaele Lisi, Luca Perrone, Dionigi Rusciano, Rocco Maggi, Donato Perrini, Alberto Simeone, Aldo Massaro, Emilio Nicola Bucicco (già consigliere del CSM), Alessandro De Nunzio, Nunzio D’Amico, Alessandra Semeraro, Cataldo Fornari. Tutto ciò non ha evitato Trentaquattro condanne, da 3 anni e mezzo a 6 anni e un risarcimento provvisorio di 5 milioni di euro nei confronti del Comune di Taranto. È questa la sentenza emessa dal tribunale di Taranto nei confronti dei 34 dipendenti del comune ionico finiti sotto processo per aver intascato in quattro anni dei veri e propri “stipendi d’oro”. Buste paga da decine di migliaia di euro, ogni mese per quattro anni. Stipendi da capogiro ottenuti grazie ai cosiddetti “progetti obiettivo” durante i quali, secondo la tesi del sostituto procuratore della Repubblica Ida Perrone, i dipendenti svolgevano in realtà le mansioni ordinarie per le quali percepivano già il normale salario dal comune di Taranto. Il collegio, formato dai giudici Michele Petrangelo, Vilma Gilli e Rita Romano, ha inflitto la pena maggiore, 6 anni di carcere, all’ex responsabile del settore risorse finanziarie Luigi Lubelli. Per gli altri imputati le pene variano da un minimo di 3 anni e 6 mesi fino a un massimo di 5 anni di reclusione. Il tribunale, inoltre, ha disposto che il risarcimento nei confronti del comune di Taranto sia stabilito in un procedimento separato e ha fissato in oltre 5 milioni di euro la provvisionale immediatamente esecutiva che gli imputati dovranno versare nelle casse del comune. Una somma garantita dalla confisca dei beni mobili e immobili in sequestro per gli imputati. In totale il comune di Taranto ha chiesto un maxi risarcimento, tramite l’avvocato Pasquale Annicchiarico, di 50 milioni di euro. Durante le indagini condotte dalla Guardia di finanza di Taranto emerse che tra il 2001 e il 2005 un vero e proprio fiume di denaro pubblico era finito nei conti correnti dei dipendenti attraverso il lavoro di una associazione a delinquere al cui vertice c’era il dirigente Lubelli, che “disponendo in maniera esclusiva dei cordoni della borsa – si legge nelle carte dell’inchiesta – ha potuto dispensare a pioggia i pubblici denari in favore dei suoi più stretti collaboratori, complici omertosi in più di una illecita operazione: milioni e milioni di euro che si chiamano stipendi d’oro e commissioni comunali, buchi che, negli anni hanno contribuito a determinare la voragine del più grande dissesto d’Italia”. Un “complice” secondo l’avvocato Annicchiarico “delle operazioni chiave volute” dall’allora sindaco di Taranto Rossana Di Bello, a capo di un’amministrazione di centrodestra che ha portato l’amministrazione tarantina al più grande dissesto della storia della Repubblica italiana. Il sostituto procuratore Perrone è riuscita a evitare anche la mannaia della prescrizione chiedendo di trasformare l’accusa iniziale di truffa in peculato. Nel processo, tuttavia, la classe politica non è stata giudicata. La posizione di molti esponenti della giunta guidata da Rossana Di Bello, pende al momento, dinanzi alla Corte d’appello di Lecce in un processo che ha assunto il nome di “bilanci falsi”. Un giudizio complesso: dopo la sentenza di condanna in primo grado e l’assoluzione di tutti gli imputati in appello, la Cassazione ha annullato con rinvio la decisione di secondo grado e ordinato un nuovo processo d’appello per fare luce sulla gestione del casse del Comune.

Ma se la notizia della condanna per i dipendenti pubblici dell’era “Di Bello” è riportata da tutti i giornali locali e nazionale, quasi tutti tacciono la notizia riportata da “Taranto Sera” il 7 marzo 2013: «Così il Comune dichiara il falso per evitare tutti i pignoramenti». «Il Comune, negli atti pubblici, aumenta, artatamente e a dismisura, le somme impignorabili». Questa l’accusa messa nero su bianco, in un esposto alla Procura, dall’avvocato Filippo Condemi e dal consigliere comunale Aldo Renna, in merito al modus operandi adottato dalla Giunta comunale. «Com’è noto, la legge prevede che i creditori del Comune, possano soddisfare i propri crediti soltanto mediante pignoramenti presso la tesoreria, escludendo, pertanto, altri beni mobili o immobili. Non tutte le somme canalizzate sono però pignorabili. Infatti - spiegano Condemi e Renna - l’articolo 159, comma II, della legge 267/2000 del Testo Unico degli Enti Locali prevede che non siano soggette ad esecuzione forzata i fondi degli enti locali destinati al pagamento, nel semestre, delle retribuzioni del personale dipendente e dei conseguenti oneri previdenziali (solo) per i tre mesi successivi; pagamento delle rate di mutuo e di prestiti obbligazionari scaduti nel semestre in corso; espletamento dei servizi locali indispensabili». In pratica, non sono soggetti a pignoramento gli stipendi dei dipendenti comunali, le rate dei mutui ed i servizi indispensabili come l’assistenza alle fasce più deboli della popolazione. «L’Ente non può abusare della norma ponendosi finalità non rientranti nella legittimità istituzionale: infatti, se negli atti pubblici di cui abbiamo parlato, artatamente aumentano a dismisura le somme impignorabili, ne consegue che, nella sua attività contrattuale di natura privatistica o nei casi di risarcimento del danno, facendo oscillare l’entità delle stesse in funzione degli atti esecutivi da cui difendersi e/o per altri scopi allo stato non conosciuti, di fatto diviene immune da ogni aggredibilità esecutiva ledendo, anzi cancellando, i diritti dei terzi». Secondo gli esponenti del Movimento Condemi, dunque, all’aumentare della somma complessiva dei “fondi” impignorabili, diminuisce la possibilità, per chi vanta un credito nei confronti del Comune, di poter procedere ad un pignoramento. In questo caso a far fede sono le delibere di Giunta numero 8 e 52 del 2012, adottate per la dichiarazione di impignorabilità. Condemi e Renna hanno chiesto gli stessi dati dai dirigenti al Personale ed alle Risorse Finanziarie per poi raffrontarli. «Emergono le seguenti difformità: l’importo delle retribuzioni e correlati oneri riflessi dichiarati nelle due delibere ammontano nel primo semestre 2012 a 20.956.328,04 euro, nel secondo semestre 2012 a 26.408.702,07 euro, per un totale, nell’intero anno, di 47.365,03 euro. Il dirigente dell’ufficio Personale, il quale è la fonte di tali capitoli di spesa, con comunicazione prot. n. 16779 del 30 gennaio scorso, ha attestato che per l’intero 2012 le retribuzioni lorde, complessivamente corrisposte, compresa la tredicesima, sono state di 29.913.585,20 euro. Diversamente, quella di cui sopra risulta, ingiustificatamente e per motivazioni ignote, complessivamente maggiorata di 17.451.445 euro». Discrepanze (tanto per usare un eufemismo) che colpiscono anche “le rate dei mutui”. «Per quel che concerne l’importo dei mutui, le rate in scadenza nei rispettivi semestri sono state quantificate nel primo semestre in 21.925.743 euro, nel secondo semestre 11.646.663 euro, quindi per complessivi 33.572.416 euro. La direzione della Ragioneria - spiegando Condemi e Renna - specificamente preposta alla negoziazione, gestione e pagamento delle rate dei mutui, ha invece attestato che, nell’intero anno 2012, sono state pagate rate, comprensive di interessi, per un importo complessivo di 10.161.439 euro. Anche in questo caso, la Giunta ha alterato reali esigenze di spesa “oscurando” la considerevole somma di 23.410.977 euro. E’ il caso di osservare che l’importo delle retribuzioni, nonché delle rate di mutuo dovute all’anno, sono fisse, costanti e non possono certamente variare di cifre così elevate». Anche riguardo “l’assistenza a persone, ricovero anziani e prevenzione e riabilitazione” si registrano incongruenze: «Il relativo fabbisogno è stato dichiarato dalla Giunta, nel primo semestre di 13.881.022, nel secondo semestre di 26.517.598 euro, quindi per un totale di 40.398.620 euro. Il dirigente del settore Servizi Sociali ha invece attestato che per l’intero 2012 l’esigenza di spesa era di 13.955.657 euro. Anche in questo caso la differenza tra il dichiarato ed il reale, pari a 26.442.963 euro, è molto rilevante».

Certo è che a Taranto i buoi chiamano cornuti i “ciucci”.

Il partito degli onesti candida un imputato a sindaco di Taranto, scrive Lello Parise su “La Repubblica”.  Per le elezioni comunali 2012 a Taranto il Pdl candida come sindaco un imputato: l' avvocato Filippo Condemi, classe 1949. Il "partito degli onesti" di Angelino Alfano rischia, all' ombra dell' Ilva, di restare solo una frase fatta. Niente di più. Gli azzurri ionici dopo avere collezionato un rifiuto dietro l' altro a proposito del competitore che deve sfidare il primo cittadino uscente Ippazio Stefàno, finiscono per aggrapparsi alla "vecchia guardia" e dal cilindro tirano fuori il nome di Condemi, le cui referenze non sono proprio rassicuranti. Non fosse altro perché Condemi faceva parte della giunta Di Bello, quella che aveva mandato in rovina la città, precipitata nel burrone del fallimento. MA I partiti evidentemente puntano tutto sulla memoria corta degli elettori. Accade così che nella capitale (avvelenata) dell' acciaio un ragazzo accusato, ingiustamente, di avere rubato l' ovetto kinder dal banco di un ambulante, deve rinunciare a partecipare ad un concorso pubblico per entrare in Marina. Ma il cappio al collo dei "carichi pendenti" non impedisce ad un uomo politico del centrodestra di scendere in campo per conquistare voti e potere. Quello stesso potere che, come dimostrano due sentenze della magistratura, gestiva in maniera piuttosto disinvolta. A luglio del 2007, i giudici Ingenito, Savelli e Di Todaro condannano Condemi ad un annoe mezzo per abuso d' ufficio e falso ideologico. Reati della serie "lei non sa chi sono io", e per i quali soprattutto un amministratore pubblico dovrebbe, una volta finito alla sbarra, tirare i remi in barca. L' avvocato-assessore (ai Lavori pubblici) aveva affidato ad una società per azioni la concessione perché smaltisse i rifiuti. Si era trattato, facevano notare i giudici, di «un affidamento diretto, senza gara, in violazione di quanto previsto dalle norme». Il risultato? L' ente pubblico ne esce con le ossa rotte «sotto il profilo patrimoniale». La sentenza della prima sezione del tribunale, non può essere più chiara: «Le condizioni pattuite con la Termomeccanica erano tutt' altro che economicamente favorevoli per il Comune, sicché il rilevante sacrificio finanziario imposto dai pubblici amministratori alla collettività che essi rappresentavano non si spiega, ragionevolmente, in alcun modo diverso da quello dell' esistenza di una precisa volontà di favorire l' aggiudicatario di quel servizio, con la conseguente volontà di arrecare un danno al Comune, rispetto alle cui sorti il loro disinteresse era totale». A distanza di quattro anni da quel verdetto, il processo d' appello non porta bene a Condemi, che ad onor del vero aveva «personalmente ed espressamente dichiarato di rinunciare alla prescrizione». Questo perché, faceva sapere, «non sarebbe stato consapevole dell'illegittimità e della falsità della delibera 97/00». Chi lo giudica, tuttavia, pensa esattamente il contrario: Condemi agisce «nella qualità di istigatore o promotore dei delitti contestati». E alla fine del dibattimento conferma la condanna ad un anno e mezzo. Aspettando che la Cassazione decida il da farsi, Condemi ritorna a vestire un' altra volta i panni dell' imputato: avrebbe commesso l' ennesimo abuso d' ufficio per l' approvazione di una delibera che nel 2004 diceva sì «all' utilizzo di strumenti di finanza derivata (swap) per il contenimento del costo complessivo di indebitamento» del municipio. Un' operazione, questa, che però procurava «un ingiusto vantaggio patrimoniale» alla banca. Il diretto interessato fa spallucce: «No, non sono assolutamente imbarazzato. Io do conto alla mia coscienza e basta. Da queste parti tutti mi conoscono. Perché dovrei rinunciare?».

Ma la stessa “La Repubblica” tiene a precisare che a Taranto nessuno si salverebbe e ciò in riferimento all’inchiesta “Ambiente Svenduto” attinente l’inquinamento dell’Ilva. Ci sono anche il sindaco di Taranto, Ippazio Stefàno, e don Marco Gerardo, segretario dell' ex arcivescovo di Taranto, Benigno Luigi Papa, fra i nuovi cinque indagati, oltre a quelli già indicati lunedì scorso nell' ordinanza di custodia cautelare. Il sacerdote sarebbe indagato nella vicenda dei 10mila euro che, secondo l' accusa, Girolamo Archinà, ex responsabile delle comunicazioni dell' Ilva, avrebbe consegnato in una busta il 26 marzo 2010 a Lorenzo Liberti, ex consulente della Procura nelle inchieste sull' inquinamento. Secondo la contabilità dell' Ilva la busta sarebbe una donazione dell' azienda alla Chiesa. L' ipotesi di reato contestata a don Marco Gerardo riguarda le dichiarazioni agli inquirenti riguardo quella presunta donazione. Il sindaco di Taranto risulterebbe indagato per omissioni in atti d' ufficio, un atto dovuto dopo che il consigliere comunale Aldo Condemi aveva denunciato la mancata azione di Stefàno a tutela della salute pubblica e la mancata costituzione di parte civile nel processo all' Ilva. «Voglio solo ricordare - ha dichiarato il sindaco - che l' unico vero atto di denuncia contro l' Ilva nei cinquant' anni di permanenza sul territorio tarantino porta la mia firma». Tra i nuovi cinque indagati anche un poliziotto. Si tratta di Cataldo De Michele, ispettore in servizio alla Digos della questura di Taranto. L' ipotesi di reato sarebbe rivelazione di segreti d' ufficio.

TARANTO IGNAVA. TANTO FUMO E NIENTE ARROSTO.

Diciannove per cento: questo il dato di affluenza che secondo le rilevazioni del Comune di Taranto ha raggiunto il referendum consultivo cittadino che si è svolto pro o contro la chiusura totale o parziale (solo l'area a caldo) dell'Ilva di Taranto. In termini assoluti sono circa 30-31mila elettori. Il referendum non è valido perchè il quorum fissato era del 50 per cento più uno degli elettori, ovvero sarebbero dovuti andare alle urne 86.351 elettori. Due i quesiti ai quali i cittadini dovevano rispondere: uno riguardava la chiusura totale del siderurgico, l'altro lo smantellamento dei parchi minerari e la chiusura dell'area a caldo, quella sottoposta a sequestro dalla magistratura e ritenuta più inquinante. Non lontano. Ma lontanissimo. Il referendum sulla chiusura dell'Ilva di Taranto non ha raggiunto il quorum previsto: alle 22, a urne chiuse, hanno votato 32mila tarantini, il 19,5 per cento degli aventi diritto. Una cifra lontanissima per rendere valida la consultazione (serviva il 50+1 dei voti) ma anche assai distante rispetto alle aspettative degli organizzatori che speravano in un trenta per cento di votanti. Emblematici anche i dati che arrivano dai quartieri: al Tamburi, il quartiere a ridosso dello stabilimento, hanno votato meno che nel resto della città. Dietro il risultato (la consultazione è costata al Comune più di 400mila euro), probabilmente il fatto che comunque fosse andata non sarebbe cambiato nulla. Il referendum è consultivo. Dal risultato - qualora fosse stato superato il quorum - il Comune dovrebbe trovare spunto per decidere come comportarsi con l'azienda, pur avendo l'amministrazione comunale solo un potere sanitario. Tutti i partiti - esclusi Movimento 5 stelle, Radicali e Sel, che però votava si solo per il secondo - avevano dato libertà di scelta. Stessa posizione dei sindacati. Il sindaco, Ippazio Stefano, si è recato alle urne. Ma è stato uno dei pochi. Al di là del risultato, il valore che c'era dietro quelle schede era fortissimo: c'è la prova della consapevolezza, quella che negli ultimi 20 anni è mancata a Taranto. Quando Riva veniva condannato a fine anni '90, le aule di giustizia erano vuote, i giornali lasciavano in pagina un colonnino per riportare la notizia. Nelle scuole quando chiedevi ai ragazzi cosa volessero fare da grandi, ti dicevano, senza pensarci un secondo, Ilva. La città dell’acciaio sbatte la porta in faccia al referendum consultivo sulla chiusura dell’Ilva. I numeri dell’affluenza alle urne nei quartieri fotografano la realtà. A ripudiare il referendum sono stati i quartieri operai. I Tamburi e Paolo VI hanno fatto registrare i dati più bassi di affluenza alle urne, rispetto agli altri rioni cittadini. Ai Tamburi, lì dove più sentito è il problema ambientale per la vicinanza alle acciaierie, ha votato il 14,5 per cento e a Paolo VI il 9,7, molto al di sotto del dato finale. Più generoso, ma sempre al di sotto della media, il dato offerto, per esempio, dai quartieri Italia Montegranaro-Salinella. Il 23,3 per cento si avvicina a quel 25 che il comitato organizzatore del referendum, «Taranto Futura», riteneva la soglia necessaria per parlare di un successo. Tuttavia, se si prende il numero dei partecipanti all’ultima marcia ecologista della scorsa settimana (5mila persone) c’è da constatare che a Taranto solo un’infima minoranza ha voglia di mettersi in vetrina per manifestare a favore dei magistrati di Taranto, più che palesare il loro disagio contro l’Ilva. Un eterogeneo nucleo per lo più composto da ambientalisti frastagliati in decine di comitati ed associazioni che altro tipo di lavoro hanno che non sia collegato all’Ilva. Questi signori, più che proporre una soluzione condivisibile anche dagli operai del siderurgico, adottano il solito sistema sinistroide di affermare le loro idee: lottare contro, sempre e comunque. Ma questo tipo di atteggiamento produce solo flop. Come la manifestazione che il 7 aprile 2013 ha visto sfilare in corteo, nel centro di Taranto, circa 5mila persone su oltre 200 mila tarantini. Obiettivi della mobilitazione: dire no all’inquinamento, dire no alla legge sull’Ilva e manifestare sostegno all’azione della Magistratura. Dati forniti dalla stampa, tra cui “Il Quotidiano Nazionale” e “La Repubblica”. La manifestazione si è tenuta all’insegna dello slogan “Taranto libera”. Il corteo era aperto da una folta rappresentanza di medici, pediatri, farmacisti, infermieri e operatori sanitari, tutti in camice bianco. In questo modo hanno voluto evidenziare la loro presenza ma anche sottolineare come l’inquinamento sia portatore di gravi conseguenze come malattie tumorali e decessi. Tantissimi cittadini in corteo, molte famiglie con bambini al seguito, ma nessuna presenza visibile di operai dell’Ilva, come è ovvio, specie se il corteo era contro di loro ed a favore dei magistrati. E di situazione pesante sotto il profilo ambientale hanno invece parlato i medici, che per la prima volta hanno deciso di scendere in strada e in modo visibile. Con loro anche il presidente dell’Ordine dei medici di Taranto, Cosimo Nume.

Ma non di solo Ilva Taranto è piena di flop. A parlare di flop, si rischia una querela per eccesso di benevolenza, scrive Michele Pennetti su “Il Corriere della Sera”. Il corteo di solidarietà per Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i due marò inquisiti in India per l’uccisione di due pescatori, i due figli del Sud - l’uno barese e l’altro tarantino - rimasti coinvolti in una delle matasse più imbrogliate nella storia della diplomazia italiana, si è rivelato un fallimento. La prova provata, probabilmente, che fra la città di Taranto e l’istituzione Marina Militare il rapporto si è clamorosamente sdrucito. La fine di un’epoca - o, per quanto visto, forse un’era geologica - cominciata il 21 agosto 1889, il giorno in cui re Umberto I di Savoia inaugurò l’Arsenale nel quale sono state costruite, nel ventesimo secolo, le varie flotte da guerra del nostro Paese. Centoventiquattro anni dopo, davanti allo stesso ingresso, ci sono appena cinquanta persone (fonte Digos) a raccogliere l’appello lanciato dall’Unione nazionale sottufficiali (Unsi) e che doveva tradursi in una popolosa processione mirata a sensibilizzare l’opinione pubblica sul caso dei due fucilieri rientrati nuovamente in India, qualche settimana fa, dopo l’ultimo accapigliamento fra i due Stati sfociato nelle dimissioni del ministro Giulio Terzi di Sant’Agata. Cinquanta persone precedute da uno striscione tragicomico: «Non vi lasceremo soli». Cioè, la sintesi perfettamente contraria della realtà. Una dimostrazione plenaria d’indifferenza che, nelle more, dovrebbe anche generare una riflessione serissima sullo scollamento tra l’universo militare e il resto del mondo. Un saggio unanime di noncuranza che Antonello Ciavarelli, segretario dell’Unsi e organizzatore della manifestazione, ha metabolizzato alla stregua di un pugno nello stomaco: «E’ accertato - ha dichiarato a margine del mesto ammainabandiera di fronte al castello Aragonese - la pigrizia è nel dna dei tarantini. L’importante è che poi i tarantini non si lamentino, quando non ottengono niente di ciò che vorrebbero. Ognuno, in fondo, ha un po’ ciò che si merita». Il risentimento si taglia a fette, causa partecipazione nulla. Nel cuore dei tarantini, ma soprattutto dei medesimi marinai, non ha fatto breccia nemmeno la presenza dei due figli di Latorre e Girone, messi a capo del corteo a mostrare, con le loro piccole mani, un cartone giallo con su scritto «Ridateci i nostri papà». Per la sfilata erano annunciati centinaia di marò in divisa e in borghese, poliziotti, guardie penitenziarie, forestali, vigili del fuoco e persino agricoltori, sportivi e civili a volontà. Invece, alle 18.20, quando la cupa parata muove dall’Arsenale per attraversare via Di Palma, via D’Aquino e approdare un’ora più tardi a corso due Mari, dinanzi alla sede dell’Ammiragliato, gli unici a marciare in divisa sono i militari in pensione dell’Associazione nazionale marinai d’Italia (Anmi), affiancati da familiari, amici e un gruppuscolo di colleghi dei due militari indagati in India. Con loro, una manciata di sindacalisti della Uil Polizia e di rappresentanti dell’Associazione Arma Aeronautica, oltre all’assessore comunale Francesco Cosa con al corpo la fascia di sindaco lasciatagli dall’assente Ezio Stefàno. Camminando in un silenzio spettrale, i pochi manifestanti sono i trasmettitori - per certi versi commoventi - di un messaggio che il resto della gente di Taranto, presumibilmente consumata dalla vicenda Ilva, non riesce a recepire. A un certo punto, nel disinteresse generale, al cospetto di inconsapevoli curiosi agli incroci con le strade perpendicolari al corteo, Ciavarelli apre il megafono e inizia a urlare: «Tarantini, forza, aggregatevi. Unitevi a noi. Il nostro appello per Massimiliano e Salvatore deve essere anche il vostro. Abbiate dignità. Aggregatevi, aggregatevi...». L’invito cade nel vuoto. Il grido non trova eco. Neppure l’intonazione di Fratelli d’Italia scuote le coscienze e coinvolge i praticanti dello shopping. Tanto che l’inno, abbozzato a gran voce, si spegne come il sole che sta tramontando alle spalle del castello Aragonese. Lì c’è l’ammainabandiera, la cerimonia che - nelle intenzioni - doveva suggellare la giornata di solidarietà per i due marò. Non c’è Taranto, però. Distaccata, lontana. Un’assenza che non impedisce alla moglie di Salvatore Girone, la signora Vania, di ringraziare «i tarantini per l’attaccamento palesato nei riguardi di mio marito e di Massimiliano Latorre». Parole sincere, nonostante l’evidenza. Piene di aspettative, magari. Un’illusione umanamente intelligibile. Ma fuori mano con quanto si vede, si tocca, si respira. Perchè Taranto e la Marina, anche rispetto alla contorta vicenda di due figli del Sud, danno ormai l’idea di vivere da separati in casa.

TARANTO VILE DIMENTICA I SUOI FIGLI. DALLA PARTE DEI MAGISTRATI E NON DALLA PARTE DI CARMELA FRASSANITO E DI TUTTE LE VITTIME DELLA MALAGIUSTIZIA.

Coloro che santificano i magistrati dovrebbero ricordarsi del male prodotto da un certo modus operandi di amministrare la giustizia. Il male ha tante forme. E nella storia di Carmela sembra che prenda il volto della lentezza burocratica. Dell’indifferenza delle istituzioni. Di quelle forze dell’ordine che non sono riuscite a proteggerla, dei magistrati che non le hanno creduto e che hanno sottovalutato la situazione. Prima le molestie di un pedofilo poi lo stupro del branco. Carmela Frassanito si è uccisa a 13 anni dopo aver subito più volte violenza ed essere stata allontanata da casa, obbligata a vivere in un centro per minori. Lei rinchiusa e i suoi aguzzini liberi. Il 15 aprile 2007 si è gettata dal settimo piano di casa sua a Taranto. E così, con quel gesto, ha messo fine alle sue sofferenze. Carmela era «una bambina come tante, che però resterà tale per sempre». La sua storia è diventata un fumetto scritto e pensato da Alessia Di Giovanni e Monica Barengo, edito da Beccogiallo, 160 pag . Io so’ Carmela è basato sul suo diario ritrovato dopo la morte. E’ un grido di aiuto, di rabbia e di speranza. E «per trovare così la forza e il coraggio di dire basta a queste atrocità tutti insieme, con un unico obiettivo comune, che è quello della tutela del bene più prezioso per l’intera umanità: i bambini», scrive il padre Alfonso nella prefazione. Lui non vuole che sua figlia «sia ricordata come una vittima». Anzi, spera «possa diventare il simbolo della ribellione contro questi abusi indegni di una umanità che si definisce civile e rispettosa dei diritti della persona». Carmela Frassanito: uno stupro e un suicidio senza giustizia, scrive Stefania Carboni su “Giornalettismo”. Al 15 aprile 2013 se per Sarah Scazzi dopo quasi un anno e mezzo si arriva alla sentenza di primo grado  nello stesso giorno, dopo sei anni il padre di Carmela aspetta ancora il giudizio di primo grado per tre uomini che abusarono di sua figlia. Mentre lui viene invece trascinato in aula per diffamazione. Solo perché chiede giustizia. Lui così come tanti altri. Carmela Frassanito aveva solo tredici anni. Quella dannata domenica del 15 aprile 2007, disse che andava in bagno. E invece volò dal settimo piano di un edificio. Farla finita così, col dolore che portava dentro, segnato da frasi non credute e da umiliazione. Troppo pesanti per una bambina vittima di violenza sessuale. Suo patrigno Alfonso Frassanito lotta per la sua giustizia da anni. Noi la sua storia la raccontiamo attraverso le parole di Floriana Rullo scritte su “Giornalettismo”. Ma anche se il tempo vola, le cose però sembrano non cambiare.

Carmela Frassanito: morire di stupro a 13 anni. Intervista con il padre della ragazzina suicida: "Dopo quell'abuso non e' stata più la stessa". Alfonso Frassanito è un uomo che ha imparato a convivere col dolore, ma soprattutto è un padre che non si rassegna alla morte senza senso della figlia Carmela. Per questo nonostante siano ormai passati 6 anni dal suo suicidio, lui continua a lottare e a chiedere giustizia. Giustizia che puntualmente lo beffa. Perché quando si han 13 anni si è troppo piccoli per morire. Anzi, la morte non si sa nemmeno che faccia abbia, nascosta come dovrebbe da una sottile linea d’ombra tra la spensieratezza e i giochi. Ma per Carmela non é stato così. Nonostante lei fosse una giovane segnata sin da piccola dal dolore, aveva perso il papà quando aveva appena un anno, poi la mamma Luisa Maiello si era sposata con Alfonso, venditore al mercato, che a Carmelina aveva voluto sempre bene come fosse figlia sua. Per lei la sua adolescenza è finita troppo in fretta rubata da un adulto che le ha fatto del male abusando di lei ma soprattutto privandola di ogni sogno. “Perché da dopo quell’abuso Carmela non è stata più la stessa” racconta il padre. ” Era cambiata. Spaventata. Irriconoscibile. Chiedeva aiuto per quello che le era stato fatto, ma nessuno l’ascoltò”. Carmela era stata maltrattata, di lei avevano abusato, e lei aveva denunciato gli sciacalli che l’avevano braccata e umiliata. Si era allontanata da casa sua e aveva vagato per quattro giorni in giro per Taranto, dal centro storico ai sobborghi, anche di notte. Fino a quando i suoi genitori non erano riusciti a ritrovarla nelle condizioni in cui può essere ritrovato un agnello che sia uscito in compagnia dei lupi. Drogata con anfetamine e violentata. In diverse occasioni e in luoghi diversi, di lei, come poi denuncerà al pm Vincenzo Petrocelli, abusano in otto. Sette minorenni, che hanno poco meno di 18 anni, tutti identificati e indagati per violenza sessuale, e un maggiorenne di cui ancora non si conosce il nome. Quattro giorni d’inferno che segneranno per sempre la piccola già vittima in precedenza di abusi. «Tutto era iniziato qualche mese prima quando Carmela ricevette le eccessive attenzioni di un marinaio - racconta Alfonso. - Ce lo aveva raccontato lei ma nei suoi confronti la polizia non ha trovato riscontri per avviare un procedimento penale. Anche se lui aveva ammesso di aver incontrato la bambina diverse volte - continua Frassanito - salvo poi ritrattare in sede di interrogatorio. Eppure lo vedevamo davanti alla scuola media Frascolla, sempre accanto a ragazzini. Continuava a passare sotto casa nostra, per noi era una provocazione. In città era conosciuto come “il pedofilo di San Vito”. Eppure in quel momento nessuno volle credere a quella ragazzina che invece stava raccontando la verità. Anzi - continua il padre con la voce gonfia di rabbia - tutti la pensavano strana, l’apostrofarono come la spostata di testa». Le perizie all’epoca dissero che la bambina soffriva di disturbi mentali e che la storia dello stupro era inventata. Così venne allontanata dalla famiglia e mandata in due diverse case famiglia. Solo dopo mesi ottenne di tornare dai genitori. «Carmela aveva denunciato i suoi aggressori, alcuni minorenni e un maggiorenne - continua Alfonso. - Eppure nessuno credette alle sue parole. Anzi, Contro la volontà mia e di sua madre, era subito partita la procedura per affidarla al centro “L’Aurora” di Lecce. Ci dissero di fidarci, che la bambina sarebbe stata in buone mani. Notammo dopo un po’ di tempo che qualcosa non andava. Carmela in quel posto non ci voleva stare, avrebbe preferito stare a casa con noi, ma non era solo questo. I medici ci assicuravano che tutto era sotto controllo. Solo dopo avremmo scoperto che in realtà la bambina era stata sottoposta a una cura di psicofarmaci. Che da quel posto era scappata due volte. Poi dopo circa tre mesi Carmela viene trasferita al centro “Il Sipario” di Gravina di Puglia. Qui sembrava – continua Alfonso - che le cose andassero meglio. I medici ci avevano però confermato, dopo l’arrivo delle cartelle di Carmela da Lecce, che la bambina era stata sottoposta a una cura di psicofarmaci e che non si poteva smettere d’un colpo. Che avrebbero dovuto diminuire le dosi poco a poco. Nel fine settimana andavamo a prenderla e la portavamo a casa. Ero io stesso a darle i farmaci: En e Haldol.  Ma Carmela non stava bene, anzi. Si sentiva disperata, umiliata, vilipesa, martoriata, derisa dagli inquirenti. Così alla sua tenerissima età decise di farla finita con questo mondo di vigliacchi. E la domenica del 15 aprile 2007, disse che andava in bagno. E invece volò dal settimo piano di casa: Si è sempre detto che è stato un suicidio - dice Frassanito - il corpo in strada era lontano dal palazzo, il che non sarebbe accaduto se si fosse trattato di una caduta. Ma noi non escludiamo che possa anche essere cascata giù, era sempre così stordita dai farmaci che prendeva. E poi una delle sue scarpe fu ritrovata al quarto piano del palazzo. Il che fa pensare che il suo corpo possa aver urtato durante la caduta». Una morte senza un motivo per cui la mamma e il papà di Carmela non si rassegnano e per cui continuano a chiedere giustizia: «Ma le istituzioni ci hanno abbandonato – dicono - il nostro Paese ha uno strano concetto di giustizia e dopo tutto questo tempo mi ritrovo ancora qui con un pugno di mosche in mano e con le beffe che la giustizia italiana impone alle vittime, come se non bastasse il danno subito».  Un calvario iniziato sei anni fa e che ancora non sembra vedere la fine. «La mia odissea, fino ad oggi, é durata sei anni. Anni di attesa senza alcun riscontro di giustizia, quella vera, da parte delle istituzioni, dello Stato, nonostante i miei innumerevoli appelli». E mentre venerdì prossimo è prevista un’altra udienza del processo che vede imputati i tre maggiorenni accusati di aver violentato la ragazzina, lui continua a puntare il dito contro chi quel suicidio poteva evitarlo. «Magistrati e medici dovrebbero sentirsi in colpa – spiega - Senza contare che il processo dopo tutto questo tempo è ancora nella fase del primo grado. Perché anche Carmela - conclude Frassanito facendo un parallelo con l’attenzione riservata dagli organi di informazione all’omicidio della 15enne Sarah Scazzi - é stata una figlia. Non solo Sarah. Tutti i bambini hanno diritto alla loro vita, ad avere giustizia, sempre e comunque, non solo quando la città si trasforma in una piccola Hollywood per via del circo mediatico, ma soprattutto macabro, che si attiva solo quando si possono sfruttare gli aspetti morbosi di vicende a sfondo sessuale o da thriller». Perché tragedie come queste dovrebbero essere evitate. Sempre.

CARMELA FRASSANITO: IL CASO – Tutto iniziò da un marinaio in servizio a Taranto che manifestò attenzioni pericolose verso la piccola. L’uomo è stato colto in flagrante dal padre di Carmela Frassanito, con tanto di testimoni sul posto. In quell’occasione avrebbe confessato, salvo poi ritrattare in sede di interrogatorio. L’episodio si conclude con un nulla di fatto, nonostante il personaggio sia conosciuto dai ragazzini del borgo come il “pedofilo di San Vito”. Il peggio però avviene poco tempo dopo. Carmela va via di casa alle 4 del pomeriggio. Il padre si mette alla sua ricerca immediatamente, nel giro di poche ore presenta la denuncia di scomparsa. Per quattro giorni, la bimba vaga in giro per la città, anche di notte. La ragazzina verrà ritrovata dai genitori stessi: drogata con anfetamine e violentata svariate volte e in luoghi diversi. Ad abusare di lei 5 aguzzini, di cui due minorenni. Tutti gli episodi vengono denunciati al pm Enzo Petrocelli. A trascinarla nell’incubo un ragazzino, minorenne come lei, di cui la vittima sembrava fidarsi ciecamente. Carmela Frassanito ha denunciato i suoi sciacalli. Indicando nomi, volti e luoghi. «In un garage – racconta il padre – poi forzato dagli agenti, l’ambiente era rimasto intatto così come lei lo aveva descritto. Non c’era più un tavolino di cristallo scheggiato, che Carmela aveva descritto, rimosso in quei giorni dalla proprietaria dell’immobile». Ma da quell’inferno la ragazzina non si è più ripresa. Nessuno sembrava credergli, le indagini furono lente. Da anni la famiglia denuncia la superficialità da parte degli inquirenti, che provarono perfino a riconsegnare alla famiglia gli indumenti di Carmela senza che fossero state periziate le tracce biologiche. Intanto dopo quei 4 giorni la bimba non è più la stessa. Tanto che le perizie evidenziano alcuni “disturbi mentali”. La giovane viene così allontanata dalla famiglia e mandata in due diverse case famiglia. Senza il consenso dei suoi. Viene portata prima al centro Aurora di Lecce dove viene sottoposta a una cura pesante di psicofarmaci. Poi, dopo circa tre mesi, viene trasferita al centro “Il Sipario” di Gravina di Puglia: «Qui sembrava – prosegue il padre- che le cose andassero meglio. I medici ci avevano però confermato, che la bambina era stata sottoposta a una cura così massiccia non poteva smettere d’un colpo. Che avrebbero dovuto diminuire le dosi poco a poco». Le cose sembrava andassero per il meglio la coppia va a trovare la piccola ogni fine settimana. «La bambina voleva rientrare a casa – racconta Alfonso – noi la rassicuravamo. Il lunedì (il giorno dopo la tragedia) avevamo organizzato un incontro a scuola con i suoi amici a cui lei teneva tanto. Credo che questo trasferimento sia stata la molla finale. Si sarà sentita tradita anche da noi. Come se nessuno la credesse più». La morte della piccola è archiviata come caso di suicidio. «Conoscendo Carmela – racconta Alfonso – non se ne sarebbe andata via in silenzio. Ci avrebbe lasciato una lettera, un saluto. Anche se il suo gesto fosse stato volontario, è comunque una bimba che aveva subito episodi di stupro e psicofarmaci. Noi abbiamo presentato un esposto affinché vengano alla luce la dovute responsabilità». Come è andata a finire? I due più giovani hanno ricevuto l’applicazione della messa alla prova (perché all’epoca dei fatti risultavano minorenni). Un periodo di soli 15 mesi che il padre racconta: «Neppure scontato realmente in quanto la Caritas revocò la disponibilità per mancanza di disponibilità». A settembre 2013, dopo sei anni, gli altre tre maggiorenni si presenteranno in aula per una sentenza, che sarà ancora di primo grado. Paradossalmente se la giustizia è lenta da una parte, si velocizza dall’altra. Alfonso Frassanito è stato rinviato a giudizio. A trascinarlo in tribunale il 3 aprile 2013 uno degli avvocati dei minori coinvolti nella vicenda. L’accusa è diffamazione. «Io vengo portato in aula per aver osato delinearmi in un confronto tv dove ho solo espresso la mia indignazione nei confronti di un legale». La puntata in questione è quella della trasmissione “Il graffio” su TeleNorba il 19 Gennaio 2009. In quel salotto gli animi si sono scaldati. D’altronde nella testa del padre di Carmela rimbombano ancora le frasi in aula del difensore degli accusati, dove, secondo l’uomo, la bimba viene definita con parole che la delineano come una “prostituta”. In quell’occasione Alfonso si è alzato ed è andato via sbattendo la porta. Parole pesanti che nei verbali non sembrano risultare. I genitori della piccola hanno però richiesto la registrazione audio integrale della seduta. Inoltre il signor Frassanito ha presentato un esposto anche all’ordine degli avvocati, affinché vengano presi dei provvedimenti disciplinari nei confronti del legale che, secondo quanto riporta il padre, ha mostrato in studio carte “sensibili” relative ad un processo (all’epoca) ancora in corso. Adesso si dovrà presentare a quell’aula che dirà? «Che sono sdegnato che si spendano soldi pubblici in processi quando mia figlia sta ancora aspettando giustizia. Se ascoltate quella trasmissione tv io non ho detto nulla di male. L’audio dell’udienza sarà dalla mia parte – aggiunge - Forse è un tentativo per farmi abbandonare. Ma io non mollo. Ho perso mia figlia. Andrò avanti fino in fondo. Qualunque genitore lo farebbe». La vicenda di Carmela va avanti da troppi anni, talmente tanti che i genitori hanno creato una associazione per la tutela dei diritti umani e civili dei minori e della famiglia. Si chiama “Io sò Carmela”, la stessa frase che la piccola pronunciava ogni volta che cercava di attirare l’attenzione o per farsi coraggio. Lo stesso spirito che lei gettava sull’inchiostro del suo diario. Una gola profonda che racconta tutti i mostri che lei ha dovuto affrontare. Righe per ricordare a chiunque l’avrebbe letto dopo. Era solo una ragazzina che voleva esser ascoltata.

Intanto la Consulta dice "no" alla Procura di Taranto sul caso Ilva. I giudici costituzionali, relatore Gaetano Silvestri, si sono riuniti il 13 febbraio 2013 in camera di consiglio per discutere se i due conflitti d’attribuzione tra poteri dello Stato sollevati dalla Procura di Taranto avessero tutti i requisiti per essere ammessi e discussi nel merito, ma hanno ritenuto che così non fosse e con due distinte ordinanze, già depositate, hanno giudicato inammissibili entrambi i ricorsi. Il motivo sta sostanzialmente nel fatto che, come indica la giurisprudenza, non si può ammettere il conflitto tra poteri quando ci sia la possibilità di sollevare in via incidentale, ossia nel corso di un procedimento in atto, la questione di legittimità costituzionale su una legge. Cosa che per l’Ilva, sottolinea la Corte, non si è prospettata solo "in astratto", ma "si è addirittura concretizzata" con due azioni distinte: una promossa dal Gip e l’altra dal Tribunale di Taranto. Di fatto, la soluzione della vicenda Ilva di fronte alla Consulta non passerà attraverso un conflitto di poteri, ma proprio attraverso l’analisi della legge salva-Ilva, varata a fine 2012, e della sua tenuta costituzionale. Le istanze espresse dai pm nei due ricorsi per conflitto d’attribuzione facevano leva sulla violazione di due articoli della Costituzione: il 112 sull'obbligo dell’azione penale e il 107 sulle garanzie dei pm fissati dall’ordinamento giudiziario. La Procura di Taranto, infatti, sosteneva che il decreto e la legge salva-Ilva impediscono l’esercizio dell’azione penale, producendo un’ingerenza nella sfera d’esercizio della magistratura indicata nella Costituzione. L’esito più eclatante di quest’ingerenza – che secondo i pm crea un "vulnus" – è dato dal fatto che le due norme mettono in scacco i provvedimenti di sequestro emessi dal gip il 25 luglio 2012 sull'area a caldo dello stabilimento siderurgico e il 22 novembre 2012 sul materiale prodotto. Le norme stabilisono che l’Ilva è una "priorità strategica nazionale" e, in forza di questo, le consentono di continuare a produrre e a commercializzare i prodotti nonostante i sequestri, purché lo faccia entro i limiti fissati dall’Aia, l’autorizzazione integrata ambientale, e nel rispetto delle norme anti-inquinamento, pena sanzioni che possono arrivare, per il Gruppo Riva, fino alla perdita della proprietà dell’azienda. Nelle ordinanze, una firmata dal gip Patrizia Todisco, l'altra inoltrata dal Tribunale del Riesame, si sostiene che la legge 231 del 2012, la salva-Ilva, appunto, viola la separazione tra poteri dello stato e "usurpa" le funzioni costituzionalmente affidate ai magistrati, ma allarga anche lo spettro d’azione. In particolare nell’atto del gip sono ben 17 gli articoli della Costituzione chiamati in causa. E tra questi anche l’articolo 3 sul principio di uguaglianza e il 32 sul diritto alla salute e la sua tutela.

TARANTO FORO DELL’INGIUSTIZIA. MICHELE MISSERI E BEN EZZEDINE SEBAI, CONFESSI OMICIDI NON CREDUTI E SULLO SFONDO L’ILVA.

Il paradosso dei rei confessi in libertà e di chi, dichiarandosi innocente, senza cedimenti e da presunti innocenti nelle more del processo, rimane per anni in carcere. A Taranto sono troppi gli errori giudiziari ed i reo confessi che non sono creduti, in onore di una tesi accusatoria frutto di un personale modo di pensare proprio di un magistrato requirente, che non può pregiudicare anni d’indagine da lui condotte, ed in virtù di un appiattimento a questa tesi dovuto ad un libero convincimento di una persona normale, suo collega, che fa il magistrato giudicante avendo vinto un concorso pubblico. Magistrati inseriti in un ambiente dove si tifa per la colpevolezza di qualcuno sotto influenza mediatica locale e nazionale. La stampa, anziché riportare i fatti e concentrasi sul perché l’evento confessato sia avvenuto, si concentra a minare la credibilità del confessore. E meno male che la confessione nel codice di procedura penale è considerata una prova regina! E che dire dei moventi, a cercare qualcosa che si adatta si trova sempre. Per Sabrina Misseri è la gelosia.

Ivano Russo: «C’è stato un momento che io mi sono sentito come un sospettato. Anche perché soprattutto mi ricordo al primo interrogatorio c’è stata una frase di un carabiniere. Parlandomi ha detto che….siccome mi stavano tenendo per parecchie ore, io gli ho chiesto “ma perché mi tenete qua tante ore” e lui mi rispose che praticamente…siccome a me era venuto a mancare mio padre, avevo…ero arrabbiato con l’esistenza, con Dio, poi…allora sarei stato capace di fare qualche cosa di grave, E lì ho incominciato ad aver paura di un errore giudiziario.» In virtù di una giustizia che va alla rovescia (chi si dichiara colpevole sta fuori, chi si dichiara innocente sta dentro) tutta la settimana, ed in special modo la domenica, tutti i talk show pomeridiani condotti da improvvisati conduttori, parlando di Michele Misseri, si concentravano a trovare breccia nelle sue dichiarazioni per minarne la sua attendibilità, fino a tendergli delle trappole televisive. Da un lato domenica 9 dicembre 2012, mentre venivano mandate in onda le dichiarazioni che Michele Misseri aveva rilasciato a Ilaria Cavo, Barbara d’Urso su Canale 5 intervistava Anna Pisanò, supertestimone dell’accusa al processo contro Sabrina Misseri e sua madre Cosima. Lo zio di Sarah è intervenuto telefonicamente. Misseri si è scagliato contro Anna Pisanò, coinvolgendo anche la conduttrice Barbara d’Urso per quello che ha definito un programma colpevolista che influenza la gente: “Voi la verità non la conoscete. E quando questa uscirà, vedremo chi avrà ragione. Sono arrabbiato non con voi, ma con me. Tu Anna perché vai in televisione? Tu non c’eri quel giorno, sei una bugiarda, vuoi influenzare la gente così nessuno crede alla mia verità. Sarah non voleva più vederti, lo sai!”. Nel proseguo del 16 dicembre la stessa D’Urso, con la sua maschera napoletana, definendosi anch’essa figlia del popolo che conosce il modo di pensare nei paesini (sic) tendeva delle trappole a Michele per trarlo in inganno con l’intento di farlo capitolare e fargli confessare le colpe di Sabrina. Un chiaro esempio di servilismo e sottomissione ai magistrati ed uno sfregio ad una emittente televisiva, se pur privata, che arriva in tutte le case della gente. Né Michele, né sua moglie, né sua figlia da anni non capitolano e non certo perché sono dei professionisti del crimine. 11 ore di interrogatorio di Michele da aggiungere alle altre 11 precedenti e su richiesta di esame della difesa degli imputati non può conseguire per la stessa difesa una risultanza negativa, eppure per la stampa è stato così, influenzando in questo modo il popolino. Certo è che nessuno ha paventato l’ipotesi che confessando l’omicidio Michele Misseri deve essere accusato di omicidio e di calunnia e di falsa testimonianza in aggiunta agli altri reati contestatogli ovvero essere accusato di falsa testimonianza ed auto calunnia, sempre in aggiunta al resto dei reati già contestati. Ma quanto può essere attendibile un testimone ed il suo racconto? Quando si parla di testimonianza si intende il racconto di un evento, filtrato tramite l'esperienza di un narratore che ha vissuto la scena; è chiaramente implicita, dunque, la connotazione soggettiva della testimonianza. Parte proprio da questa semplice osservazione il nodo del problema che si pone a riguardo: quanto può essere attendibile una testimonianza? La testimonianza riporta sia una parte di verità oggettiva sia una costruzione soggettiva dei fatti, legata a componenti emozionali e situazionali che influenzano il ricordo, ma anche ad errori di memoria. Data la grande rilevanza della testimonianza diretta, è posta grande attenzione al testimone oculare in casi giudiziari, in particolare alle caratteristiche della testimonianza, nell'intenzione di giudicare nel miglior modo possibile l'effettiva veridicità della stessa; ma si può credere in assoluto ad un individuo che dice di ricordare esattamente un evento che “ha visto con i suoi occhi”? La memoria è un meccanismo imperfetto, dal momento che è influenzato da molteplici fattori che possono intervenire nelle tre diverse fasi precedentemente citate ed ostacolare così la modalità corretta di codifica, mantenimento e recupero di un ricordo. Molti studi ed esperimenti hanno dimostrato che nell’osservazione e nel racconto di un evento, è fondamentale l’influenza delle caratteristiche proprie di un individuo, dei suoi schemi mentali e delle sue conoscenze pregresse, nonché delle caratteristiche della situazione. Si può affermare che l'attendibilità di una testimonianza possa essere determinata da due fattori principali: Accuratezza, ovvero la corrispondenza tra realtà oggettiva e soggettiva, e Credibilità, ovvero il rapporto tra ciò che si ritiene di sapere e le motivazioni a dichiararlo. Purtroppo gli esperimenti hanno evidenziato che il giudicante non è in grado di giudicare in maniera corretta l'attendibilità del testimone ed hanno messo in luce una sorta di processo inferenziale attraverso cui sembra che le persone, per giudicare l'attendibilità di un testimone, si affiderebbero al grado di sicurezza da lui stesso mostrato nel corso di una testimonianza. Sembra, infatti, che la percezione che i giurati hanno della sicurezza di un testimone, sia responsabile per un 50% delle variazioni nel loro giudizio sulla credibilità del testimone e che, in ogni caso, la maggior parte delle giurie crede che la sicurezza e la precisione di un resoconto testimoniale siano tra loro correlate positivamente, reputando più attendibile la testimonianza resa dalle forze dell'ordine o di chi riferisce nel racconto molti dettagli marginali, sopravvaluta il tempo impiegato per commettere un crimine e la possibilità di riconoscere un volto a distanza di mesi.

Detto questo e in riferimento alle confessioni si richiama un altro caso. Il “killer delle vecchiette”. Ma ormai il “killer delle vecchiette” è morto. E se dalla stampa era venuto questo appellativo di killer qualche omicidio doveva pur averlo commesso, sì, ma per i magistrati di Taranto era colpevole solo per quell’unico delitto per il quale non erano stati capaci di accusare qualcuno. E' morto il 15 dicembre 2012 nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Padova il detenuto tunisino 49enne Ben Mohamed Ezzedine Sebai, conosciuto come il 'serial killer delle vecchiette', trovato impiccato il giorno prima nella sua cella del carcere di Padova. Il legale di Sebai, l’avvocato veneziano Luciano Faraon, ha anche sollevato dubbi sul fatto che il suo assistito si sia effettivamente suicidato. Secondo il legale, dopo una recente sentenza della Cassazione che ha annullato con rinvio una condanna per un omicidio commesso da Sebai a Lucera, il tunisino era infatti nelle condizioni di ottenere la revisione dei suoi processi in quanto non in grado di intendere e volere a causa di una lesione cerebrale subita da piccolo. Aveva quindi, secondo il legale, molte speranze di potere tornare a casa o in un centro adatto alla sua patologia. Condannato a cinque ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. «L'ultima volta che ho incontrato in carcere Sebai, circa 10 giorni fa, mi aveva chiesto la Bibbia. Nonostante Sebai sia un musulmano – precisa il legale – mi aveva chiesto la Bibbia perchè io, da cristiano, gli ero vicino. - Secondo Faraon, che è anche presidente dell’Anveg, Associazione nazionale vittime errori giudiziari, Sebai, in carcere dal 1997, - decise di confessare altri omicidi nel 2006 per una crisi di coscienza, dopo aver appreso del suicidio in carcere di un tarantino condannato per uno degli omicidi confessati dal serial-killer». Condannato a cinque ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. L'avvocato Faraon ha chiesto che venga disposta l’autopsia sul corpo. Secondo quanto riferito dal legale, quando aveva sette anni il tunisino sarebbe stato colpito alla testa dal padre con una chiave inglese. Il colpo gli aveva provocato gravi lesioni cerebrali. Ed era del serial killer delle vecchiette l’impronta digitale dimenticata per 9 anni in casa della vittima. Fu rinvenuta su una scatola di caramelle «Rossana» nell’appartamento di Anna Maria Stella, la maestra settantenne di Trinitapoli sgozzata a scopo di rapina nella sua abitazione il primo maggio del ‘97. Ma per scoprire che appartenesse al serial-killer ci sono voluti 9 anni; la riapertura dell’indagine dopo la confessione dell’imputato arrivata nel 2006; l’intuito del pm foggiano Ludovico Vaccaro; gli accertamenti dei carabinieri del Ris. Proprio l’interrogatorio di un sottufficiale del Reparto investigazioni scientifiche di Roma ha caratterizzato l’udienza in corte d’assise del processo a Ben Ezzedine Sebai, il tunisino di 45 anni in cella dal settembre ‘97, già condannato a 4 ergastoli per altrettanti omicidi di vecchiette e che nel 2006 ha confessato d’aver ucciso e/o aggredito 15 anziane negli anni Novanta in Puglia e Basilicata. Sostiene d’aver agito perchè erano le voci a ordinargli di ammazzare. «Recentemente la corte di Cassazione ha disposto l'annullamento con rinvio di una condanna a 18 anni di carcere - precisa Faraon – per un omicidio compiuto a Lucera (Foggia) per esaminare, anche sulla base della perizia del prof. Mastronardi, la sua capacità di volere». Il legale ribadisce che nelle vicende giudiziarie che hanno riguardato Sebai ha «sempre visto delle abnormità».

«Due confessi omicidi che a Taranto non sono creduti. La magistratura requirente sposa una tesi spesso sbagliata e la magistratura giudicante gli va a ruota. Non è la prima volta che succede. Non era tanto malsana l’idea di Franco Coppi di chiedere la rimessione del processo Sarah Scazzi in altro foro» spiega Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente, che proprio sul delitto di Sarah Scazzi e su Taranto ha scritto dei libri inseriti nella collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare.

Basta ricordare i precedenti. «Non ha altro da aggiungere per fare chiarezza definitiva su tutto?» ha chiesto a Michele Misseri l’avv. Franco Coppi, uno dei difensori della figlia Sabrina. «Devo chiedere solamente – ha risposto zio Michele - perdono a tutti, anche alla mamma di Sarah che io non ho voluto mai contraddire perchè dopo tutto ha perso una figlia. Io sto nei panni suoi. Io non ho mai commentato contro di lei». «Non volete la verità. Solo io sto facendo la verità per quella poveretta. Io l'ho ammazzata una volta, voi chissà quante volte l'avete ammazzata». Lo ha detto Michele Misseri rivolgendosi ai pm Mariano Buccoliero e Piero Argentino in aula durante il processo sull’omicidio su Sarah Scazzi. «Lei – ha aggiunto il contadino riferendosi a Concetta Serrano – è convinta che sono state mia figlia e mia moglie, ma se erano state loro perchè io mi devo assumere ancora la responsabilità? Non ce la faccio ad andare avanti, devo parlare anche per gli innocenti che stanno in carcere». E poi la violenza sul cadavere, spiega Misseri, “era una bugia con altre bugie”. Perchè, sostiene, lui non ha mai tentato di violentarla e tantomeno ha oltraggiato il cadavere. «L’ho fatta trovare nuda nel pozzo e prima che me lo dicessero loro (gli inquirenti) l’ho detto io». Michele spiega il significato che ha per lui il luogo in cui porta il corpo della nipote. «Sotto il fico mio padre mi picchiava». Ha subito altre violenze lì? Gli chiede Coppi. Michele, in difficoltà, non smentisce: «Questo è stato sempre un segreto, che non conoscono né mia moglie né mia figlia. Non vorrei rispondere a questa domanda».

Caso Michele Misseri e caso Sebai, stessa sorte, stesso muro di gomma.

Il 13 febbraio del 2009 il giudice per l’udienza preliminare Valeria Ingenito emise sentenza di assoluzione per l’omicidio di Grazia Montemurro, la 75enne di Massafra ammazzata il 4 aprile del 1997, nei confronti del serial killer Ben Ezzedine Sebai, 43enne di Kairouan (Tunisia), reo confesso. Quella sentenza è stata impugnata dall’avv. Giorgio Faraon, difensore di Sebai, e dall’avv. Ignazio Dragone, legale di parte civile. Sebai dopo essere stato condannato in via definitiva a 4 ergastoli per l’assassinio di altrettante anziane, ha deciso di confessare altri 10 omicidi e un tentato omicidio. Autoaccusandosi, intende scagionare detenuti che a suo dire sono stati accusati ingiustamente. Il gup Valeria Ingenito lo ha condannato all’ergastolo per l’omicidio di Rosa Lucia Lapiscopia, di 90 anni, uccisa a Laterza il 21 agosto del 1997, mandandolo assolto dai delitti di Celestina Commessatti, 73 anni (Palagiano, 13 agosto 1995), Pasqua Rosa Ludovico, 86 anni (Castellaneta, 14 maggio 1997) e, appunto, Grazia Montemurro. A puntare alla condanna di Sebai è in maniera particolare l’avv. Ignazio Dragone, costituitosi parte civile per conto dei parenti della vittima ma legale anche di Cosimo Montemurro, l’ex dj di Massafra condannato a 18 anni di reclusione per l’omicidio della zia Grazia. Secondo l'accusa, Cosimo Montemurro avrebbe assassinato sua zia perchè non sopportava più di essere rimproverato. Il cadavere dell'anziana fu rinvenuto nell'abitazione di via Felice Cavallotti. Il nipote, che aveva trascorso la giornata a Mottola, dove abitava la fidanzata, rientrò a casa intorno alle 22. Fra zia e nipote, secondo le motivazioni della sentenza di condanna, scoppiò l'ennesimo diverbio. Colto da un raptus, Montemurro avrebbe afferrato un coltello da cucina con la lama zigrinata e sferrato un fendente alla gola dell'anziana zia. Poi avrebbe abbandonato l'appartamento per incontrarsi con due amici. Intorno a mezzanotte, sempre secondo la ricostruzione degli inquirenti, il presunto assassino sarebbe tornato sul luogo del delitto per allertare le forze dell'ordine. Il giovane massafrese crollò dopo quattordici ore di interrogatorio, motivando la follia omicida con la reazione ad un pesante rimprovero da parte della donna. Il caso sembrava chiuso. Poi, il presunto assassino ritrattò tutto, attaccando i carabinieri che lo avrebbero indotto, con la forza, a dichiarare il falso. Con la confessione del serial killer, Cosimo Montemurro, tornato in libertà dopo 10 anni di carcere, è tornato a sperare nella revisione del processo. La maestra sgozzata Anna Maria Stella fu sgozzata e rapinata nella sua abitazione di Trinitapoli il primo aprile del ‘97. In quel periodo in tutta la Puglia c’era la psicosi del killer delle vecchiette che aveva già colpito ripetutamente e ucciso: entrava in casa di anziane che vivevano sole, le uccideva con coltelli o punteruoli, rovistando in casa e rubando ori e soldi. All’epoca della morte della maestra trinitapolese, Ben Sebai non era stato ancora catturato: successe qualche mese dopo, il 16 settembre del ‘97, quando il tunisino fu arrestato dai carabinieri in flagranza a Palagianello, in provincia di Taranto, subito dopo aver ammazzato l’ennesima vecchietta. In seguito all’arresto di Ben Sebai, la Procura foggiana lo indagò formalmente - l’informazione di garanzia per omicidio gli venne notificata in carcere nel novembre del ‘98 - per l’omicidio della maestra trinitapolese. Fu disposto l’esame del dna su una cicca di sigaretta trovata in casa della vittima per verificare se fosse di Ben Sebai: visto l’esito negativo di quell’accertamento, le accuse contro il tunisino in relazione all’omicidio Stella furono archiviate. Nessuno pensò in quella fase investigativa di verificare se le due impronte digitali trovate su una scatola di caramelle in casa Stella fossero del serial killer. Le indagini sull’omicidio Stella (ed anche il delitto Garbetta e l’aggressione alla foggiana Assunta Aprile) si riaprirono nel 2006 con la decisione di Ben Sebai, detenuto da 9 anni, di confessare 15 delitti. Il pm Ludovico Vaccaro riaprì le indagini sui casi foggiani; rilesse il fascicolo processuale relativo al delitto Stella (non era lui il titolare dell’inchiesta nel ‘97/98); notò che su una scatola di caramelle rinvenuta in casa Stella furono trovate due impronte digitali; ordinò al Ris d’accertare se appartenessero al seriale killer. Responso positivo per una delle due impronte, il che rappresenta un fondamentale riscontro alla confessione del tunisino: basti pensare che Ben Sebai ha anche confessato l’omicidio di due anziane per le quali non è stato creduto, tant’è che sono stati condannati altri imputati. Quando Ben Sebai fu arrestato nel settembre ‘97 e poi condannato a 4 ergastoli per altrettanti omicidi si dichiarava innocente. La svolta e la confessione arrivarono 9 anni dopo nel carcere milanese: disse che le voci gli ordinavano di uccidere le vecchiette che gli ricordavano la madre e la nonna con cui da bambino aveva un rapporto di odio-amore. Il difensore, l’avv. Lucian Faraon, punta ad una perizia psichiatrica, ma Ben Sebai vi è stato già sottoposto recentemente per un altro omicidio scoperto dopo la confessione (quello della lucerina Madonna Celeste uccisa in casa il 24 aprile ‘96, per il quale è stato condannato a 18 anni) e gli esperti hanno escluso l’infermità mentale del serial killer.

La Vergogna di essere italiano. Faiuolo, Orlandi, Nardelli, Tinelli, Montemurro, Donvito sono innocenti, ma colpevoli solo per convinzione personale dei giudici? Ben Mohammed Ezzedine Sebai (il Killer delle vecchiette), che tra il 1995 e il 1997 si macchiò dell’omicidio di ben 14 anziane tra Puglia e Basilicata. Nonostante il legittimo sospetto che non vi potesse essere serenità di giudizio, ed non essendo prevista la ricusazione del PM, si è permesso di giudicare il Sebai a Taranto con il rito abbreviato per delitti di cui altri già erano già stati condannati dal quel foro e accusati, in particolare, dagli stessi PM. Nessuno delle parti in causa (pubblici ministeri, avvocati e giudice), che abbia chiesto la rimessione del processo in altro foro per legittimo sospetto di parzialità nel giudizio. I media tacciono la vergogna. Nella puntata di “Agorà” dell’8 febbraio 2011 su Rai Tre, dalle 9.00 alle 11.00, sarebbe dovuta andare in onda un’inchiesta della giornalista Angela Caponnetto sulla censurata vicenda Sebai. Nell’inchiesta si sarebbero potute ascoltare le parole di Michele Donvito, fratello di Vincenzo, suicidatosi nel carcere di Teramo nel 2005, accusato dell’omicidio di Celestina Commessatti, uccisa nella sua abitazione di Palagiano, in provincia di Taranto, il 14 agosto 1995. Eppure già nel 1999 il tunisino Ben Mohamed Ezzedine Sebai si era dichiarato colpevole dell’omicidio della stessa, confessione rafforzata di particolari e dettagli solo nel 2006. In studio era presente anche la giornalista che per cinque ore ha intervistato Donvito sulla triste vicenda, che ha coinvolto e stravolto la sua famiglia, eppure, a detta del suo conduttore, Andrea Vianello, di tempo non ce n’è stato a sufficienza e il servizio è saltato. La Caponnetto è stata liquidata con delle semplici scuse e la vicenda rimane nell’oblio. La quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha accolto la richiesta di revisione del processo, trasmettendo gli atti alla Corte d'Appello di Potenza, nei confronti di Vincenzo Faiuolo, arrestato per il delitto di Pasqua Ludovico, anziana uccisa in provincia di Taranto negli anni '90. Faiuolo è una delle otto persone arrestate per diversi omicidi di anziane uccise in Puglia in quegli anni. Omicidi dei quali poi si è confessato colpevole Ben Mohamed Ezzedine Sebai, soprannominato 'il serial killer delle vecchiette'. A darne notizia è l'avvocato Claudio Defilippi, legale dello stesso Faiuolo, condannato a 25 anni di carcere, di cui ne ha scontati 15 anni. Defilippi spiega che è stata accolta anche la richiesta di revisione del processo, con rinvio alla sezione per i minorenni della Corte d'Appello di Potenza, nei confronti di Davide Nardelli, all'epoca dei fatti minorenne, che fu condannato a 7 anni per il delitto di un'altra anziana e che ha già finito di scontare la pena. "La Cassazione dice che la revisione dei processi deve andare avanti. Chiediamo ora che siano riaperti i procedimenti per questi diversi omicidi", afferma Defilippi. Il signor Sebai viene schedato con foto ed impronte sin dal 1991, dai carabinieri di Bolzano. Egli, nel corso delle dichiarazioni rese al sostituto procuratore del tribunale di Milano, dottor Nobili, in data 10 febbraio 2006, e successivamente confermate, a dicembre 2008, davanti al sostituto procuratore del tribunale di Foggia, dottor, Ludovico Vaccaro, ha confessato i seguenti omicidi, compiuti tra il gennaio 1994 ed il settembre 1997:

gennaio 1994, presunta vittima ignota, in assenza di riscontri investigativi, poi identificata a seguito dell'interrogatorio di Sebai avanti al pubblico ministero di Foggia (avvenuto nel dicembre 2008, come citato in premessa) in Aprile Assunta, la quale è l'unica vittima sopravvissuta;

8 luglio 1995, Vernetti Petronilla, anni 83, Melfi (Potenza), assolto;

13 agosto 1995, Commessatti Celeste, anni 83, Palagiano (Taranto), per il quale delitto sono stati condannati Nardelli Davide e Tinelli Giuseppe, minorenni all'epoca del fatto, e Donvito Vincenzo, suicidatosi nel 2006 nella Casa di Reclusione di Teramo;

24 aprile 1996, Madonna Celeste, anni 81, Lucera (Foggia), omicidio irrisolto, nel 2008 Sebai condannato a 18 anni;

30 maggio 1996, Garbetta Giuseppina, anni 72, San Ferdinando di Puglia (Foggia), omicidio irrisolto fino alla confessione di Sebai;

10 agosto 1996, Stano Anna, anni 85, Ginosa (Taranto), ergastolo;

15 gennaio 1997, Totaro Maria, anni 76, Cerignola (Foggia), ergastolo;

5 aprile 1997, Montemurro Grazia, anni 76, Massafra (Taranto), per il quale delitto è stato condannato diciotto anni di reclusione Montemurro Cosimo, nipote della vittima;

1o maggio 1997, Stella Anna Maria, anni 69, Trinitapoli (Foggia), omicidio irrisolto fino alla confessione di Sebai;

9 maggio 1997, Leone Santa, anni 82, Canosa di Puglia (Bari), processato e assolto;

14 maggio 1997, Ludovico Pasqua, anni 86, Castellaneta (Taranto) per il quale delitto sono stati condannati Faiulo Vincenzo e Orlandi Francesco, rei confessi;

28 luglio 1997, Valente Maria, anni 84, Palagiano (Taranto), ergastolo per il quale delitto, oltre all'ergastolo per Sebai, sono stati condannati anche Tinelli Giuseppe e la di lui madre e sorella;

21 agosto 1997, Lapiscopa Rosa Lucia, anni 90, Laterza (Taranto), ergastolo;

27 agosto 1997, Sansone Angela, anni 84, Spinazzola (Bari), ergastolo;

15 settembre 1997, Nico Lucia, anni 75, Palagianello (Taranto), ergastolo;

per il delitto del gennaio 1994, ai danni di Aprile Assunta, unica sopravvissuta delle 15 vittime, quantunque ricoverata in prognosi riservata, gli investigatori non rilevarono le impronte digitali e, inoltre, a dispetto delle accuratissime descrizioni dell'aggressore, fornite dalla vittima, non fu esperita alcuna ricerca fra le foto schedate nel casellario centrale. Un tale accertamento avrebbe potuto impedire tutti i successivi 14 delitti, risalendo ai dati del Sebai schedati sin dal 1991;

per il delitto del 13 agosto 1995, ai danni di Commessatti Celeste, il signor Sebai viene fermato con la refurtiva sottratta alla vittima, viene fotografato, vengono rilevate le sue impronte digitali e poi rilasciato. In tale circostanza, la negligenza investigativa, manifestatasi già nel 1994, assume connotati gravi aprono la strada ai successivi 5 delitti, confessati dal Sebai;

per il delitto del 1o maggio 1997, ai danni di Stella Anna Maria, nel corso delle indagini successive, furono rilevate le tracce di Dna sulle cicche di sigaretta, rinvenute sulla scena del delitto, nonché le impronte digitali. Comparato il Dna a quello di Sebai, risultando negativo, Sebai fu rilasciato senza comparare le impronte digitali. Solo nel 2008, cioè 11 anni dopo, a seguito degli accertamenti disposti dal nuovo sostituto procuratore del tribunale di Foggia, dottor Ludovico Vaccaro, si scoprirà che Sebai aveva lasciato l'impronta sulla scena del delitto Stella. L'accertamento sulle impronte, omesso nel 1997, consente al Sebai lo stato di libertà nel corso del quale compie altri 6 omicidi. ''La procura di Taranto è spaccata sull'attendibilità del serial killer delle vecchiette pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai. Per due pm il tunisino non è credibile e va assolto dall’accusa di aver compiuto tre omicidi; per un altro pm è invece credibile e va condannato a 30 anni di reclusione”. Lo evidenzia l’avv. Claudio Defilippi legale di sei delle otto persone (una si è suicidata in carcere dopo la condanna) detenute da lunghi anni “pur essendo innocenti”.

Altra vergogna, altro precedente.

15 aprile 2007. Carmela volava via, dal settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi, ma soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui si era rivolta per denunciare e chiedere aiuto. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso, il padre di Carmela - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile.

Altro precedente. È il più clamoroso errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero dell’Economia ha deciso di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4 milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2 mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso. Il caso di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una transazione insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero dell’Economia ha capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso vissuto dall’uomo che oggi può tentare di rifarsi una vita. Così, per il tramite dell’avvocatura dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il ministero e la corte d’appello di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto». In pratica, Morrone prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere. E i soldi arriveranno subito: non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già viste in situazioni analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele Barillà, rimasto in cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno sfortunato scambio di auto. Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono condannate per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’assise d’appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Altro precedente: Non erano colpevoli, ora chiedono 12 mln di euro. Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono tornati in libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento. Pedone, meccanico di 51 anni, da innocenti ha trascorso quasi otto anni in cella prima di intravedere bagliori di giustizia. Ma gli elementi che hanno portato all’affermazione della sua innocenza e di altri tre imputati erano già parzialmente emersi nel corso del processo madre. «E’ certo - ha detto l’avvocato Petrone - che qualcuno sapeva di quanto avvenuto durante le indagini». Ora per gli innocenti si apre un lungo iter processuale per ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione. Carlo Petrone è l’avvocato di Dora Chiloiro nel processo sul delitto di Sarah Scazzi. Per la Procura, che sostiene la tesi della colpevolezza di Sabrina e della madre Cosima per il delitto e la responsabilità di Michele Misseri solo per la soppressione del cadavere di Sarah, la ritrattazione della psicologa sono manna dal cielo, un supporto alle proprie tesi. Da tenere presente una cosa: trattare come veritiere le dichiarazioni di Dora Chiloiro rese nell’udienza preliminare e nella precedente testimonianza in Corte d’Assise o considerare quest’ultima trattazione come la vera verità? Certo che a rettificare la dichiarazione nello stesso procedimento, porta la Chiloiro a liberasi del fardello del procedimento penale per falsa testimonianza, non incorrendo così nelle conseguenze di carattere professionale. Questa cosa dà da pensare. Scegliere la propria carriera ed i propri interessi o salvare delle vite umane dal carcere? Una scelta di carattere pratico o una strategia difensiva, oppure cedere al rimorso della coscienza? Questa è solo una considerazione di carattere logico, non una diffamazione nei confronti di chiunque. Anche perché a Taranto ogni logica, anche giuridica viene disattesa. Taranto dove i magistrati si sentono anche legislatori. I magistrati di Taranto hanno una loro ben definita contrapposizione: «Prendiamo atto che il governo, di fronte ad una situazione complessa e con gravi ripercussioni occupazionali, si è assunto la grave responsabilità di vanificare le finalità preventive dei provvedimenti di sequestro emessi dalla magistratura e volti a salvaguardare la salute di una intera collettività dal pericolo attuale e concreto di gravi danni», dice il segretario dell'Associazione magistrati (Anm), Maurizio Carbone, proprio a Taranto sostituto procuratore. Per Carbone «resta tutta da verificare la effettiva disponibilità dell'azienda ad investire i capitali necessari per mettere a norma l'impianto e ad adempiere alle prescrizioni contenute nell'Aia», tenuto conto che «sino ad ora la proprietà ha dimostrato di volersi sottrarre all'esecuzione di ogni provvedimento emesso dalla magistratura». Ed ancora non ha lesinato critiche al provvedimento d'urgenza di Palazzo Chigi: «È un'invasione di campo, dov'è finito il principio della separazione dei poteri? Il decreto legge vanifica di colpo tutti gli effetti dei provvedimenti presi dai magistrati per la tutela della salute dei cittadini. Il governo, così facendo, si è preso una grossa responsabilità». Per il gip di Taranto Patrizia Todisco la nuova Aia per l'Ilva «non si preoccupa affatto della attualità del pericolo e della attualità delle gravi conseguenze dannose per la salute e l'ambiente». L'attività produttiva dell'Ilva è «tuttora, allo stato attuale degli impianti e delle aree in sequestro, altamente pericolosa». I tempi di realizzazione della nuova Aia sono «incompatibili con le improcrastinabili esigenze di tutela della salute della popolazione locale e dei lavoratori del Siderurgico», scrive il gip. Tutela che «non può essere sospesa senza incorrere in una inammissibile violazione dei principi costituzionali» (articoli 32 e 41). Come è possibile, sulla base di quanto emerso dalle indagini, «autorizzare comunque l'Ilva alle attuali condizioni e nell'attuale stato degli impianti in sequestro, a continuare da subito l'attività produttiva», senza «prima pretendere» gli interventi di risanamento? aggiunge il gip dicendo no al dissequestro degli impianti. La partita con l'Ilva non è finita, «abbiamo ancora qualche cartuccia da sparare», sorride amaro il procuratore capo di Taranto, Franco Sebastio, che proprio non ci sta a passare per «il talebano», così come viene definito sui giornali, «il pazzo nemico di 20 mila operai», «se solo avessi cinque minuti per un caffè con il presidente Napolitano e con Mario Monti racconterei loro dei bambini che qui nascono già malati di tumore...», si sfoga il vecchio magistrato. La Procura solleva eccezioni di incostituzionalità del decreto legge di Palazzo Chigi, chiedendo l'intervento della Corte Costituzionale. Il diritto all'eguaglianza, ad esempio: la legge è uguale per tutti, no? Ma se la legge è nata per l'Ilva, dove finiscono i principi di astrattezza e generalità? Intanto, oltre al sindaco di Taranto, alcuni preti della città, alcuni giornalisti tarantini, alcuni parlamentari locali, l’inchiesta coinvolge anche la provincia. Così come per il delitto di Avetrana: nel dubbio, tutti dentro, avvocati compresi. L'inchiesta afferra il Presidente della provincia di Taranto, Gianni Florido, un passato importante da sindacalista quale ex segretario regionale della Cisl e un presente da dirigente locale del Pd. Un'informativa di 182 pagine in parte mutilata da omissis e allegata all'ordinanza di custodia cautelare che aveva già bussato al palazzo della Provincia, relegando agli arresti domiciliari l'ex assessore all'ambiente Michele Conserva, lo fulmina in poche righe. "Si evidenzia - scrivono i militari della Finanza - che alla luce di quanto accertato, vanno ascritte al dottor Gianni Florido, Presidente della Provincia di Taranto, specifiche responsabilità penali per il delitto di concussione o, in subordine, di violenza privata". Certo è che qualcuno dovrebbe spiegare ai magistrati, che si lamentano quando la legge si stila senza la loro dettatura, che non vi è scontro tra poteri, proprio perché la magistratura non è un potere.

Se l’articolo 1 della Costituzione detta che “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, ne consegue che Potere è quello Legislativo che legifera in modo ordinario e quello Esecutivo che legifera in modo straordinario. La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”

Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.

Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla. Per gli effetti l’art. 101 dichiara che “La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge.”

Ergo: i magistrati devono applicare la legge, rispettarla e farla rispettare, non formarla, né criticarla. Non devono sentirsi portatori di una missione non loro. E nessuna risonanza mediatica può essere ammessa, in special modo quando vi sono interessi più grandi che quelli castali. E si deve ricordar loro, ai magistrati ed alla claque che li santifica, che c’è anche quella legge ambientale che prevede il dogma “chi inquina paga”. Non esiste il dettato tutto di stampo tarantino: “chi inquina, chiude i battenti e tutti a casa”, specialmente se l’industria che viene chiusa, con le tasse che paga, mantiene i suoi detrattori.»

Una cosa è certa: a Taranto non si deve dire la verità. Chi parla paga. Così come è successo al dr Antonio Giangrande: denuncia la malagiustizia a Taranto e le pratiche mafiose a Manduria, paese retto da un commissario e sotto indagine per infiltrazioni mafiose, e viene processato a Potenza per diffamazione a mezzo stampa. Processo che dura da anni e che non vede fine. Giangrande, però, non può bearsi, come per Alessandro Sallusti, della “solidarietà” dei coraggiosi colleghi giornalisti, in quanto il Giangrande non fa parte di un Ordine, come tutti gli ordini professionali, di origine normativa fascista, ma è un semplice scrittore che racconta ai posteri quello che oggi non si osa dire.

A Taranto l’attenzione dell’opinione pubblica, aizzata da pseudo ambientalisti e da giornalisti che poco tempo prima erano foraggiati dall’Ilva, si concentra sul siderurgico più grande d’Europa. A loro poco interessa se anche l’Eni (Agip) e la Cementir inquinano. Né nessuno parla degli altri siti gravemente inquinanti che a Taranto ci sono. Ma a questo ci ha pensato Fabio e Mingo di Striscia la Notizia su Canale 5. Questi hanno evidenziato altre fonti di grave inquinamento. Ma di questo non ne parlano i salvatori di Taranto, che vogliono chiudere l’Ilva, simbolo del potere capitalistico, e non sanificarla.

Il 13 dicembre 2012 è stato trasmesso il video che parla dell’ex azienda “Fonderie spa”. Il Comune ha chiesto il 10 novembre 2007 5 milioni di risarcimento alla società Fonderie Spa. Traffico illecito di rifiuti e associazione per delinquere. Queste le accuse che coinvolgono gli ex vertici della società Fonderie Spa, ditta che in passato si è occupata di commercializzare e produrre prodotti in alluminio. Ad avanzare la richiesta di cinque milioni di euro nei confronti della Fonderie è stato il Comune di Taranto per il risarcimento dei danni causati dai rifiuti. Tra i punti sulla quale gli ex vertici dovranno rispondere c’è la gestione di una discarica abusiva situata in agro di Massafra dove l’azienda, in accordo con altre società del territorio jonico, depositava rifiuti pericolosi e nella quale si aggiungeva anche il trasporto degli stessi con la dispersione nell’aria di vapori tossici. Ad occuparsi in passato delle scorie d’alluminio gestite dalla società è stato il pubblico ministero Maurizio Carbone che ha rimarcato come le acque reflue salate e altamente pericolose sarebbero state scaricate abusivamente in contrada Pezzarossa. Un tipo di materiale prodotto dalla stessa azienda. Ad essere stati contestati a giudizio sono l’ex presidente della società Leonardo Rossetto e gli ex dirigenti Mario Tribuzio, Roberto Di Napoli Ernesto De Angelis, Alfio di Croce, Marco Ferraguzzo e Angelo Pelletti. L’amministrazione di Taranto a causa del danno provocato dall’emissione dei vapori tossici, per la mancata bonifica dei luoghi e per lo scarico di sacchi aperti e accantonati si è costituita parte civile chiedendo un risarcimento attraverso il proprio legale, l’avvocato Pasquale Annichiarico.

L’11 dicembre 2012 è stato trasmesso il video che parla dell’area ex Yard Belleli. Non dimentichiamo cosa è accaduto con lo Yard Belleli. Ad esempio, per ciò che riguarda lo Yard Belleli, sappiamo tutti che quell’area è stata oggetto di un grande inquinamento che ha provocato problemi ambientali ed economici, visto che quella zona è abbandonata da anni. Quell’area è inutilizzata perchè bisogna bonificarla e per bonificarla occorrono risorse di cui al momento nessuno dispone. E se accadesse la stessa cosa con l’Ilva? Taranto diventerebbe un deserto. E poi senza uno stabilimento da difendere la città perderebbe il potere contrattuale che oggi ha.

Ma torniamo alle bonifiche: la superficie interessata è pari a circa 22 Kmq (area privata), 10 Kmq (aree pubbliche), 22 Kmq (Mar Piccolo), 51 Kmq (Mar Grande), 9,8 Kmq (Salina Grande) e 17 Km di sviluppo delle coste.

Di qui i fortissimi ritardi denunciati da tutti a partire dalle più importanti aree necessarie per lo sviluppo del territorio dallo Yard Belleli all'area Distripark che solo da poco hanno potuto avviare il disinquinamento dei loro siti.

Detto questo dai dati del Piano si evince che pericoli maggiori per l'ambiente e per la salute dei tarantini provengono dalle Aree Ilva, Eni,ex Yard Belleli.

“Gli inquinanti maggiormente presenti nei suoli sono IPA (circa il 60 % dei superamenti riscontrati) e metalli pesanti, prevalentemente concentrati nell'area ex Yard Belleli mentre alcuni superamenti si riscontrano nell'area della raffineria Eni (10%) – dice Alfredo Cervellera - Si può osservare che per quanto riguarda l'IPA si sono riscontrati valori nel suolo pari a più di 75 volte il valore soglia, mentre per gli idrocarburi, lo Xilene e d alcuni metalli, come il Vanadio, lo Zinco ed il Rame, l'eccedenza arriva oltre 1000 volte del valore normativo. Se questo quadro è drammatico ancora più grave risulta l'inquinamento della falda acquifera da parte dell'ILVA, dell'ENI e della ex Belleli. Nell'ex Yard Belleli la falda è contaminata in maniera diffusa da arsenico, selenio, idrocarburi totali, fluoruri, solfati ed in forma puntuale da IPA.

Ma quello che mi ha fatto indignare di più è la situazione gravissima dell'inquinamento prodotto dall'Ilva sia nella falda di superficie con “manganese, ferro,alluminio, arsenico, cromo esavalente e cianuri totali per gli inorganici, mentre i contaminanti organici riscontrati sono IPA, BTXES e diversi composti clorurati”, e sia nella falda profonda con “piombo, ferro, manganese,alluminio, cromo totale, nichel e arsenico mentre per gli inquinanti organici si è avuto il superamento per triclorometano, tetracloroetilene, diversi IPA” ecc.ecc..”

Veleni micidiali che ammorbano la terra e le acque e che minacciano la nostra salute. Veleni micidiali, sì, ma prodotti da tutte le industrie tarantine. E Taranto senza industrie è solo una città di cozzari e non è con i suoi rappresentanti politici ed amministrativi che può coniugare salute e lavoro.

LA TARANTO DEI TALEBANI E LA CADUTA DEGLI DEI.

Il progresso, si sa, porta sviluppo tecnologico e sociale, ma produce anche inquinamento. Inquinamento prodotto dalle industrie, prodotto dalla circolazione dei veicoli, prodotto dal riscaldamento domestico. In inverno, spesso, si sente che le grandi città limitano la circolazione dei veicoli e l’uso del riscaldamento domestico, connubio velenoso, per render più respirabile l’aria. Proprio a Taranto l’ex sindaco Rossana Di Bello emise un’ordinanza di divieto al transito in città alle corriere della Sud Est che portavano i pendolari dalla provincia. Nei paesi sottosviluppati dove si muore ancora di fame il problema dell’inquinamento non esiste: aria pura e panza vuota. Ecco perché a nessuno verrebbe in mente di vietare i riscaldamenti o impedire la circolazione dei veicoli per le strade urbane ed extraurbane, ne tanto meno si proverebbe a chiudere qualsiasi attività economica, che direttamente o indirettamente produce inquinamento. Certo è che vige un principio: tutta quanto è dannoso deve stare lontano da noi, in casa d’altri!! Purtroppo spesso gli altri siamo noi e dobbiamo farci una ragione. Ovviamente non manca chi auspica la giunglalizzazione delle città, ma, per fortuna, ancora sono in pochi.

Inoltre, c’è da considerare un altro aspetto, a proposito di inquinamento, non c’è solo l'Ilva e non c’è solo Taranto. Ma anche Gela, Priolo, Bagnoli, Porto Torres, le miniere dell'Iglesiente, Marghera e decine di altri siti industriali ancora in funzione o abbandonati. Quelli di interesse nazionale sono 57. Da una stima approssimativa, per la bonifica servirebbero 30 miliardi di euro, ma nel bilancio del ministero dell'Ambiente, alla voce "bonifiche" sono disponibili 164 milioni. E la salute delle persone che lavorano negli impianti ancora in funzione, quelle che vivono nelle vicinanze, cosa rischiano? Nessuno osa negare, compresi i dirigenti e i proprietari delle aziende, che qualche problema c'è. E il perenne ricatto è: bonificare vuol dire chiudere la fabbrica e mandare a casa decine di migliaia di lavoratori. Ma cosa si è fatto nel passato, cosa si fa oggi e quali sono i programmi futuri per sanare i siti? Una cosa da non dimenticare: le persone coinvolte sono più di 6 milioni. In Italia si calcola che i siti potenzialmente inquinati siano circa 13 mila e di questi 1.500 impianti minerari abbandonati, 6 mila e 500 ancora da indagare e 5 mila sicuramente da bonificare. Poco meno di 13 mila siti sono di competenza regionale (dai distributori di benzina alle piccole fabbriche che lavorano i combustibili), mentre 57 sono sotto la giurisdizione statale. Questi ultimi sono definiti dalla sigla SIN, vale a dire Siti di Interesse Nazionale.

Allora ci si chiede: perché si parla tanto e solo di Taranto e di ILVA?

«Perché a Taranto ci sono i “talebani”, ossia chi non sente ragioni contrarie alle proprie – spiega il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente, che proprio su Taranto ha scritto un libro. – Quelli che nel privilegio dell’impiego pubblico si dedicano alla pseudo tutela dell’ambiente. Questi, nel nome della tutela della salute, non chiedono la sanificazione dell’Ilva, ma pretendono la sua chiusura. Non dell’Eni o della Cementir, anch’esse gravemente inquinanti: no, dell’Ilva. Questi che vogliono la chiusura dell’Ilva sono nati con l’Ilva o dopo che questa ha iniziato a produrre. Sono cresciuti con essa ed anche grazie ad essa. Però, si sa, non c’è gratitudine in questo mondo. E’ vero che sin da piccolo (ed i decenni son passati) quando mi apprestavo ad entrare in Taranto, la città da lontano la vedevo avvolta da una cappa di fumo, ma è anche vero che con l’Italsider (odierna Ilva) la gente non emigrava più. Tutti lavoravano in Ilva e tutti lavoravano per l’Ilva. Taranto senza l’Ilva e le altre grandi industrie sarebbe solo una città di cozzari. Ripeto. Non c’è gratitudine. Per esempio, anche Trieste ha la sua Ilva. Lì è stato perseguito per calunnia l’ambientalista che denunciava l’esistenza dell’inquinamento. Paese che vai, usanza che trovi. A Taranto affianco agli ambientalisti di maniera troviamo chi da operaio è stato traviato dall’azienda e per gli effetti gli si ritorce contro. Troviamo ancora il capo della procura con i suoi sostituti e l’ufficio del Gip-Gup che, in generale dai dati elaborati in Italia, delle procure è la longa manus. Uomini della Procura che nell’inerzia quarantennale ha deciso di essere deus ex machina senza controllo alcuno e di decidere, da uomini soli, per un’intera nazione. A proposito degli ambientalisti sprono della magistratura. Il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli, e il presidente di Peacelink Taranto, Alessandro Marescotti hanno fornito i dati dello studio del progetto “Sentieri”. Nel periodo 2003-2008 a Taranto è stato rilevato un aumento del 24% dei tumori del fegato e dei polmoni, del 38% per i linfomi e del 38% per i mesoteliomi. Bonelli e Marescotti hanno dichiarato “Il dato veramente preoccupante è quello dei bambini, per i quali si registra un +35% di decessi sotto un anno di età e per tutte le cause. Per quanto riguarda le morti nel periodo perinatale +71%. Questi sono i dati dell’aggiornamento che il ministro Balduzzi non ha voluto comunicare perché diceva che erano in fase di elaborazione. E’ falso perché questi dati sono stati elaborati, stampati e comunicati alla procura della Repubblica il 30 marzo di quest’anno”. Corrado Clini sostiene che questi dati siano falsi. Per questo motivo ha dato mandato all’avvocatura dello Stato di procedere nei confronti di Bonelli, che ha ripetutamente accusato il ministro dell’Ambiente di nascondere i dati sulla mortalità e di fornire informazioni false sullo stato della salute degli abitanti di Taranto. Clini ha detto “Fra l’altro mi preoccupa la diffusione di notizie false che generano allarme tra la popolazione e mirano a intimidire le autorità competenti in materia di protezione ambiente e tutele della salute”. Certo è che l’annunciata chiusura dell’Ilva di Taranto potrebbe rappresentare uno dei più grandi disastri industriali e sociali del nostro Paese degli ultimi anni, così come il suo funzionamento sembrerebbe esserlo stato per le condizioni di salute della città. E’ questa la considerazione che viene più spontaneo fare di fronte ai numeri sconvolgenti che lo stop degli altoforni di Taranto potranno portarsi come conseguenza più immediata. D’altronde stiamo parlando di un’azienda che rappresenta il 20esimo gruppo siderurgico del mondo, e dunque non è difficile immaginare l’impatto che ci sia sull’economia nazionale, sia in termini occupazionali che finanziari. E cominciamo allora proprio da qui, dal mettere in fila le prime drammatiche cifre sugli effetti umani e sociali di una sempre più probabile serrata dell'Ilva. Nella sola zona di Taranto andrebbero in fumo circa 12mila posti di lavoro, che rappresentano gli addetti diretti allo stabilimento, cifra che sale però a quota 20mila se si considera l’indotto. Quello di Taranto infatti rappresenta il più grande sito produttivo siderurgico d’Europa e allo stesso tempo lo stabilimento industriale con più addetti in Italia. Un particolare non da poco se si pensa che sorge in un contesto cittadino dove recenti statistiche parlano di un tasso di disoccupazione che viaggia intorno al 30%. In pratica chiudere l’Ilva potrebbe significare mettere in ginocchio l’economia di Taranto e a cascata di altre zone della Provincia e della Regione Puglia, visto che dei citati 12mila addetti diretti, solo 4mila sono tarantini, mentre gli altri vengono da fuori. Ma le conseguenze negative non finiscono qui sul fronte occupazionale, perché lo stop di Taranto si porta come conseguenza il blocco della produzione anche del sito Ilva di Genova, dove altri 1.760 dipendenti sono in agitazione perché vedono a rischio il proprio posto di lavoro. E il fatto che la chiusura dello stabilimento di Taranto si porti dietro conseguenze occupazionali così pesanti, si lega, come accennato, al rilievo che la sua produzione di acciaio riveste per l’intera economia italiana. Secondo i dati forniti dalla Confindustria pugliese infatti, la capacità produttiva di circa 10 milioni di tonnellate l’anno di acciaio che arrivano da Taranto, rappresentano circa il 40% del fabbisogno nazionale. Se l’Italia dovesse essere costretta a importare quantità di questo rilievo, andrebbe incontro ad una spesa del valore di circa 9 miliardi di euro. Una cifra che rappresenta circa un punto di Pil nazionale, e il 7-8% del Pil regionale pugliese. Un vero e proprio disastro economico dunque per il nostro Paese, che rischia, come accennato, di sfociare in dramma sociale a Taranto, dove monta la rabbia degli operai rimasti senza lavoro dalla sera alla mattina. Ma chi vive sulle spalle degli altri con la busta paga pubblica degli operai se ne fotte (l’intercalare spiega bene l’idea). Gli operai, talebani anche loro. Pronti a marciare su Taranto o a bloccare la circolazione dei veicoli, usando violenza sui malcapitati che si son trovati a passar dalle loro parti. Spintoni o gomme tagliate per chi non solidarizza con loro. L’esasperazione dirà qualcuno. In Italia, infatti, lavorano solo 23 milioni di persone e il nostro è il paese europeo col minor tasso di occupazione. In compenso, come è noto, abbiamo 16 milioni di pensionati oltre a un bel po' di disoccupati e un sacco di altra gente che il lavoro manco lo cerca. E' emergenza disoccupazione. Secondo le ultime stime provvisorie dell'Istat il tasso generale si è attestato all'11,1%. Per questo quando si dice che l'Italia lavora, non è vero. L’Italia non lavora e se ne fotte degli altri, ma il punto è che non vota sfiduciata da questa politica. Mai così tanti disoccupati, mai così tanti non votanti. C’è difetto di rappresentanza e la contrapposizione tra interessi è l’effetto. Per questo motivo, nel venire incontro a tutti gli interessi in campo il decreto legge varato dal Consiglio dei ministri "stabilisce che la società Ilva abbia la gestione e la responsabilità della conduzione degli impianti e che sia autorizzata a proseguire la produzione e la vendita per tutto il periodo di validità dell'Aia". Il rilascio a ottobre 2012 da parte del Ministero dell'Ambiente dell'autorizzazione integrata ambientale ha anticipato gli obiettivi fissati dall'Unione europea in materia di BAT - best available technologies (tecnologie più efficienti per raggiungere obiettivi di compatibilità ambientale della produzione) di circa 4 anni. Con il provvedimento  - spiega il comunicato di Palazzo Chigi - all'Aia è stato conferito lo status di legge, che obbliga l'azienda al rispetto inderogabile delle procedure e dei tempi del risanamento. Qualora non venga rispettato il piano di investimenti necessari alle operazioni di risanamento, il decreto introduce un meccanismo sanzionatorio che si aggiunge al sistema di controllo già previsto dall'Aia. "I provvedimenti di sequestro e confisca dell'autorità giudiziaria - spiega ancora il comunicato stampa - non impediscono all'azienda di procedere agli adempimenti ambientali e alla produzione e vendita secondo i termini dell’autorizzazione". "L'Ilva - spiega il comunicato stampa - è tenuta a rispettare pienamente le prescrizioni dell’autorizzazione ambientale". Palazzo Chigi definisce il decreto legge "un cambio di passo importante verso la soluzione delle problematiche ambientali, il rispetto del diritto alla salute dei lavoratori e delle comunità locali interessate, e la tutela dell'occupazione". "In questo modo - prosegue la nota - vengono inoltre perseguite in maniera inderogabile le finalità espresse dai provvedimenti assunti dall’autorità giudiziaria". Il Cdm stabilisce che la società "abbia la gestione e la responsabilità della conduzione degli impianti e che sia autorizzata a proseguire la produzione e la vendita per tutto il periodo di validità dell'Aia (sei anni). L'Ilva è tenuta a rispettare pienamente le prescrizioni. Le bozze del decreto sono state continuamente limate e ritoccate nel corso del Consiglio. Importante era evitare lo scontro frontale con la magistratura. Confermata, l'introduzione di una 'figura di garanzia', una 'figura terza' che possa dare fiducia a tutte le parti coinvolte: non un commissario ma un 'garante' che vigili sull'applicazione rigorosa ed efficace delle prescrizioni Aia. "Il garante - ha spiegato il sottosegretario Antonio Catricalà - deve essere persona di indiscussa indipendenza, competenza ed esperienza e sarà proposto dal ministro dell'Ambiente, dal ministro dell'Attività Produttive, e della Salute e sarà nominato dal presidente della Repubblica". Il Garante acquisirà dall'azienda, dalle amministrazioni e dagli enti interessati le informazioni e gli atti ritenuti necessari, segnalando al presidente del Consiglio e al ministro dell'Ambiente le eventuali criticità riscontrate nell'attuazione delle disposizioni e potrà proporre le misure idonee, tra le quali anche provvedimenti di amministrazione straordinaria. "Qualora non venga rispettato il piano di investimenti necessari alle operazioni di risanamento, il decreto introduce un meccanismo sanzionatorio che si aggiunge al sistema di controllo già previsto dall'Aia", si legge nella nota di Palazzo Chigi. In caso di inadempienze per l'Ilva - ha spiegato a questo proposito il ministro dell'Ambiente Corrado Clini - "restano tutte le sanzioni già previste e in più introdotta la possibilità di una sanzione sino al 10% del fatturato annuo dello stabilimento". Non solo. "Abbiamo introdotto interventi possibili sulla proprietà stessa - ha aggiunto il ministro dello Sviluppo Corrado Passera - che potrebbero togliere enorme valore a quella proprietà: se non fa quello che la legge prevede, vede il suo valore fino al punto di perderne il controllo di fronte a comportamenti non coerenti. E' possibile che variamo la procedura di amministrazione controllata. Insomma, se non si fanno gli investimenti e gli adempimenti di legge, viene messo qualcun altro a farlo". "Non possiamo ammettere - ha detto Monti in conferenza stampa - che ci siano contrapposizioni drammatiche tra salute e lavoro, tra ambiente e lavoro e non è neppure ammissibile che l'Italia possa dare di sé un'immagine, in un sito produttivo così importante, di incoerenza. L'intervento del governo è stato necessario perchè Taranto è un asset strategico regionale e nazionale", ha aggiunto. "Questo caso è la plastica dimostrazione per il passato degli errori reiterati nel tempo e delle incoerenze di molte realtà, sia imprenditoriali che pubblico-amministrative, che si sono sottratte, nel corso del tempo, alla regola della responsabilità, dell'applicazione e del rispetto della legge". La strada del decreto è stata intrapresa per evitare - aveva spiegato Monti - "un impatto negativo sull'economia stimato in otto miliardi di euro annui". Il provvedimento salva i 12mila dipendenti di Taranto e i lavoratori dell'indotto pugliese. Ma anche Genova, Novi Ligure, Racconigi. La possibilità di togliere l'azienda alla proprietà era stata prospettata anche da Clini intervenuto a Servizio Pubblico: aveva fatto intendere che il governo sarebbe stato pronto a prendere in mano la situazione nel caso in cui la famiglia Riva non voglia o non possa far fronte alle prescrizioni. "Sappiamo - aveva spiegato - che per essere risanato quel sito deve continuare ad essere gestito industrialmente. I Riva hanno detto che sono ponti a farlo. Il piano degli interventi prevede parchi minerari, altoforni, batterie delle cokerie. Se non fai questo, è la nostra posizione, non puoi continuare a gestire gli impianti. Se non sono in grado dobbiamo farci carico noi con un intervento che consenta di garantire la continuità produttiva ed il risanamento". Questo è il potere esecutivo, il cui operato sarà convalidato dal potere legislativo. I magistrati, però hanno una loro ben definita contrapposizione: «Prendiamo atto che il governo, di fronte ad una situazione complessa e con gravi ripercussioni occupazionali, si è assunto la grave responsabilità di vanificare le finalità preventive dei provvedimenti di sequestro emessi dalla magistratura e volti a salvaguardare la salute di una intera collettività dal pericolo attuale e concreto di gravi danni», dice il segretario dell'Associazione magistrati (Anm), Maurizio Carbone, proprio a Taranto sostituto procuratore. Per Carbone «resta tutta da verificare la effettiva disponibilità dell'azienda ad investire i capitali necessari per mettere a norma l'impianto e ad adempiere alle prescrizioni contenute nell'Aia», tenuto conto che «sino ad ora la proprietà ha dimostrato di volersi sottrarre all'esecuzione di ogni provvedimento emesso dalla magistratura». Ed ancora non ha lesinato critiche al provvedimento d'urgenza di Palazzo Chigi: «È un'invasione di campo, dov'è finito il principio della separazione dei poteri? Il decreto legge vanifica di colpo tutti gli effetti dei provvedimenti presi dai magistrati per la tutela della salute dei cittadini. Il governo, così facendo, si è preso una grossa responsabilità». Per il gip di Taranto Patrizia Todisco la nuova Aia per l'Ilva «non si preoccupa affatto della attualità del pericolo e della attualità delle gravi conseguenze dannose per la salute e l'ambiente». L'attività produttiva dell'Ilva è «tuttora, allo stato attuale degli impianti e delle aree in sequestro, altamente pericolosa». I tempi di realizzazione della nuova Aia sono «incompatibili con le improcrastinabili esigenze di tutela della salute della popolazione locale e dei lavoratori del Siderurgico», scrive il gip. Tutela che «non può essere sospesa senza incorrere in una inammissibile violazione dei principi costituzionali» (articoli 32 e 41). Come è possibile, sulla base di quanto emerso dalle indagini, «autorizzare comunque l'Ilva alle attuali condizioni e nell'attuale stato degli impianti in sequestro, a continuare da subito l'attività produttiva», senza «prima pretendere» gli interventi di risanamento? aggiunge il gip dicendo no al dissequestro degli impianti. La partita con l'Ilva non è finita, «abbiamo ancora qualche cartuccia da sparare», sorride amaro il procuratore capo di Taranto, Franco Sebastio, che proprio non ci sta a passare per «il talebano», così come viene definito sui giornali, «il pazzo nemico di 20 mila operai», «se solo avessi cinque minuti per un caffè con il presidente Napolitano e con Mario Monti racconterei loro dei bambini che qui nascono già malati di tumore...», si sfoga il vecchio magistrato. La Procura solleva eccezioni di incostituzionalità del decreto legge di Palazzo Chigi, chiedendo l'intervento della Corte Costituzionale. Il diritto all'eguaglianza, ad esempio: la legge è uguale per tutti, no? Ma se la legge è nata per l'Ilva, dove finiscono i principi di astrattezza e generalità? Intanto, oltre al sindaco di Taranto, alcuni preti della città, alcuni giornalisti tarantini, alcuni parlamentari locali, l’inchiesta coinvolge anche la provincia. Così come per il delitto di Avetrana: nel dubbio, tutti dentro, avvocati compresi. L'inchiesta afferra il Presidente della provincia di Taranto, Gianni Florido, un passato importante da sindacalista quale ex segretario regionale della Cisl e un presente da dirigente locale del Pd. Un'informativa di 182 pagine in parte mutilata da omissis e allegata all'ordinanza di custodia cautelare che aveva già bussato al palazzo della Provincia, relegando agli arresti domiciliari l'ex assessore all'ambiente Michele Conserva, lo fulmina in poche righe. "Si evidenzia - scrivono i militari della Finanza - che alla luce di quanto accertato, vanno ascritte al dottor Gianni Florido, Presidente della Provincia di Taranto, specifiche responsabilità penali per il delitto di concussione o, in subordine, di violenza privata". Certo è che qualcuno dovrebbe spiegare ai magistrati, che si lamentano quando la legge si stila senza la loro dettatura, che non vi è scontro tra poteri, proprio perché la magistratura non è un potere. Se l’articolo 1 della Costituzione detta che “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, ne consegue che Potere è quello Legislativo che legifera in modo ordinario e quello Esecutivo che legifera in modo straordinario. La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.” Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla. Per gli effetti l’art. 101 dichiara che “La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge.” Ergo: i magistrati devono applicare la legge, rispettarla e farla rispettare, non formarla, né criticarla. Non devono sentirsi portatori di una missione non loro. E nessuna risonanza mediatica può essere ammessa, in special modo quando vi sono interessi più grandi che quelli castali. E si deve ricordar loro, ai magistrati ed alla claque che li santifica, che c’è anche quella legge ambientale che prevede il dogma “chi inquina paga”. Non esiste il dettato tutto di stampo tarantino: “chi inquina, chiude i battenti e tutti a casa”, specialmente se l’industria che viene chiusa, con le tasse che paga, mantiene i suoi detrattori.»

TARANTO, ILVA, LA POLITICA, LA STAMPA E LA GIUSTIZIA. AMBIENTE VENDUTO.

La mattina del 28 novembre 2012 a due giorni dalla tempesta giudiziaria, si è squarciato il cielo e una tromba d'aria si è avventata sullo stabilimento. All'Ilva è sembrata l'apocalisse. Un fulmine è caduto su una delle ciminiere i cui pezzi si sono riversati su due tralicci dell’alta tensione. Da lì si è subito levato un incendio. Una violenta ondata di maltempo si è abbattuta sulla città dei due mari. Una tromba d’aria ha causato il crollo della torre del faro e del camino di una cokeria e il cedimento di un capannone nell’area portuale adibita al carico e scarico del materiale del siderurgico. Ci sarebbero almeno una ventina di feriti e un disperso. La violenza del vento ha trascinato via un capannone e ha abbattuto un camino e ha fatto staccare numerose lamiere che sono state riversate in strada. I lavoratori presenti sono stati presi dal terrore. La linea ferroviaria che collega Bari e Taranto è stata immediatamente bloccata, i passeggeri di un treno sono stati costretti a prendere un autobus per raggiungere la città. Intorno alle 10,30, una violenta tromba d'aria proveniente dal mare ha provocato il crollo del camino delle batterie 1 e 2 dello stabilimento Ilva di Taranto. Fiamme si levano in vicinanza della ciminiera spezzata. Molte lamiere sollevate in aria dalla tempesta e provenienti degli impianti bloccano le strade adiacenti. Sono caduti diversi quintali di cemento ma senza provocare ferimenti tra gli operai. In una nota, l'azienda ha comunicato che «al momento non si hanno notizie di infortuni» e che «non c'è evacuazione» in corso, una voce che si era diffusa subito dopo le prime notizie della tempesta. La tromba d'aria che si è abbattuta sull'Ilva ha provocato il crollo di un capannone all'imbarco prodotti e della torre faro; crollato anche il camino delle batterie uno e tre. I gasometri all'interno della fabbrica sono stati messi in sicurezza. All'esterno del siderurgico gruppi di lavoratori hanno abbandonato lo stabilimento

Politici, giornalisti e sindacalisti: tutti i tentacoli del “sistema gelatinoso dell’Ilva”. Per il gip Patrizia Todisco a curare questo 'ramo' degli interessi aziendali c'era un solo uomo al comando: Girolamo Archinà, l'ex responsabile per i rapporti istituzionali. Obiettivo: ricevere un trattamento di favore da parte di chi doveva vigilare, ognuno secondo il proprio ruolo, sull'inquinamento che ammorba Taranto, scrive “Il Fatto Quotidiano”. I rappresentanti delle istituzioni locali, la stampa e le televisioni, le parti sociali e anche qualche agente di polizia ‘infiltrato’: è un sistema onnicomprensivo e bipartisan quello creato dall’Ilva per ricevere un trattamento di favore da parte di chi dovrebbe vigilare, ognuno secondo il proprio ruolo, sull’inquinamento che ammorba Taranto. Un “sistema gelatinoso“, basato sul “do ut des”: così lo descrive nella sua ordinanza il gip Patrizia Todisco, secondo cui a curare questo ‘ramo’ degli interessi aziendali c’era un solo uomo al comando: Girolamo Archinà, l’ex responsabile per i rapporti istituzionali. Rapporti che coinvolgevano tutta la politica locale, nessuno escluso: si va dal sindaco di Taranto, Ippazio Stefano (Sel), al presidente della Provincia, Gianni Florido (Pd), per proseguire con parlamentari e consiglieri regionali di ogni colore. Ci sono l’onorevole Ludovico Vico e il consigliere regionale Donato Pentassuglia (entrambi Pd) e il defunto onorevole Pietro Franzoso (Pdl). Nelle informative degli investigatori, c’è anche un riferimento all’ex deputato e attuale consigliere regionale Pdl Pietro Lospinuso e spunta persino l’ex sindaco ed ex deputato Giancarlo Cito, che avrebbe tentato – secondo l’Ilva – una pressione indiretta per non parlare male dell’azienda in un convegno sulla diossina. E quando qualcuno, come l’onorevole Della Seta (Pd), cerca di far inserire norme più restrittive sulle emissioni di benzo(a)pirene, c’è il patron Emilio Riva che scrive al segretario dello stesso partito, Pier Luigi Bersani (lettera che non si sa se sia mai partita e trovata nella casella di posta elettronica di Archinà), spiegando le sue ragioni per far tornare indietro Della Seta. Non mancano i funzionari regionali, come Alessandro Antonicelli e Piefrancesco Palmisano (assessorato Ambiente), che l’Ilva avrebbe usato come riferimento per ‘raggiungere’ il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola. Anche il leader di Sel è ampiamente citato nell’ordinanza della Todisco, secondo cui il governatore è stato il “regista” delle pressioni sull’Arpa e in particolare contro il direttore Giorgio Assennato. I legami creati da Archinà per il gip sono “abilmente e utilmente intessuti al fine di condizionare pesantemente, orientandone l’azione a proprio favore, le agenzie e gli organismi chiamati ad esercitare, a vario titolo e per il proprio ruolo, funzioni di controllo critico nei confronti di una realtà industriale dal fortissimo e notorio impatto inquinante sul territorio”. Centrale anche il coinvolgimento delle testate giornalistiche locali, di carta stampata e televisive, che sarebbero stati utilizzati per far passare messaggi fuorvianti o aprire fronti di guerra nei confronti di chi, come il direttore dell’Arpa Puglia, non risultava gradito all’azienda. Neppure le forze di polizia vengono risparmiate in questa ragnatela. C’è un ispettore della Digos di Taranto che avrebbe fornito informazioni a catena ad Archinà su manifestazioni sindacali o ambientaliste contro l’Ilva, riferendo al dirigente persino del contenuto di un incontro in questura che il procuratore Franco Sebastio aveva avuto proprio con Assennato per disporre una relazione sulle emissioni di benzo(a)pirene perché la Procura ipotizzava il reato di disastro ambientale e voleva individuarne i responsabili.

I giornalisti tarantini cosa facevano?

Dalle carte giudiziarie sul caso Ilva sono emersi rapporti che potrebbero compromettere giornalisti di varie testate locali, di giornali e televisive, che sarebbero stati utilizzati per far passare messaggi fuorvianti o aprire fronti di guerra nei confronti di chi non risultava gradito all'azienda. L'Ordine dei giornalisti della Puglia ha convocato per venerdì prossimo una riunione straordinaria per valutare la «ipotesi di coinvolgimento di alcuni giornalisti in un sistema creato dall'Azienda per addomesticare le notizie sulle attività inquinanti del siderurgico». Lo afferma il presidente dell'Ordine, Paola Laforgia, che ricorda come l'Ordine, «già nei mesi scorsi, non appena sono trapelate le prime notizie su un possibile coinvolgimento di giornalisti in attività non in linea con le regole deontologiche della categoria, ha scritto alla Procura di Taranto chiedendo l'invio degli atti». «Ora che l'inchiesta è conclusa - è detto nella nota - e la documentazione è divenuta pubblica, l'Ordine potrà entrare in possesso delle carte necessarie a valutare l'eventuale avvio di procedimenti disciplinari». Dalle carte giudiziarie riguardanti altri sette arresti per il disastro ambientale Ilva sono emersi ieri rapporti che coinvolgono giornalisti di varie testate locali, di giornali e televisive, che sarebbero stati utilizzati per far passare messaggi fuorvianti o aprire fronti di guerra nei confronti di chi non risultava gradito all'azienda.

E la magistratura?

L’Ilva è solo l’inizio. Perché stupirsi, si chiede Barbara di Salvo su “Il Legno storto”. Non vedo perché stupirsi della decisione dell’Ilva di chiudere lo stabilimento di Taranto. Semmai mi stupisco che abbiano aspettato tanto. D’altronde la magistratura ha deciso di perseguire ed arrestare chiunque si sia azzardato a cercare di far continuare la produzione, arrivando persino a sequestrare il poco acciaio prodotto come corpo del reato (anziché la pistola, qui abbiamo l’acciaio fumante), quindi c’è da presumere che siano soddisfatti di questa decisione ormai inevitabile. Non vedo perché stupirsi poi che la magistratura abbia di fatto esercitato un potere politico, usando le leggi e i processi come grimaldello per ottenere risultati in contrasto con gli unici che dovrebbero occuparsi di economia, industria, lavoro, sanità ed ambiente in Italia. Sono vent’anni che politici, giornalisti e simpatizzanti delle toghe sostengono a spada tratta la magistratura quando entra a piedi pari nella vita politica. Come utili idioti hanno gioito ogni volta che veniva colpita la parte avversa, senza comprendere che non siamo allo stadio e quando gli arbitri si mettono a segnare a porta vuota dopo aver espulso tutti i giocatori di entrambe le squadre, non solo è finito lo spettacolo, ma è morta la democrazia. Non serve scomodare Montesquieu per comprendere che se un gruppo di persone non trova limiti al potere, né costituzionali, né legislativi, né di responsabilità personale, è inevitabile che continui ad espanderlo senza controllo. Non vedo perché stupirsi, quindi, se oggi un Gip o un Pm decidano di disinteressarsi del tutto dei provvedimenti del governo, dell’AIA ormai approvata, che, in tutta Europa e in qualsiasi altro Paese civile e democratico, è l’unico provvedimento che deve regolamentare uno stabilimento del genere, senza che un giudice si possa azzardare a metterlo in discussione. Se ritengono che le loro sentenze siano prioritarie rispetto a qualsiasi legge o provvedimento governativo, è ovvio che se questa sicumera valeva per politici avversi, valga a maggior ragione per un tecnico che politico non è. Bisognava preoccuparsene quando si è permesso a certi magistrati di cominciare a prendere questa pericolosa strada ed ora ormai è tardi per piangere sulla democrazia massacrata. Piuttosto, mi stupirei che quella che doveva essere la panacea di tutti i mali, il governo sottratto al voto del popolo ignorante, in mano a tecnici non corrotti dai palazzi della politica, che ha fatto della credibilità la sua unica ragione di esistere, anziché preoccuparsi solo delle banche straniere, non si sia posto il problema di ottenere anche una credibilità interna nei confronti della magistratura, dei lavoratori che manda a casa e di qualsiasi investitore estero che si guarderà bene dal venire ad investire in un Paese dove la legge ed i provvedimenti autorizzativi sono così aleatori. Mi stupirei che in tutti questi lunghi mesi di braccio di ferro tra l’Ilva e la magistratura, l’unico ministro che se ne sia occupato (a quanto pare con scarsi risultati) è solo quello dell’ambiente, Clini. Una vicenda tanto importante per tutta l’Italia, come minimo doveva coinvolgere quello del lavoro, Fornero, dello sviluppo (o meglio sottosviluppo) economico, Passera, della giustizia, Severino, della salute, Balduzzi, ma soprattutto quello che dovrebbe avere il compito istituzionale di coordinarli tutti ed assumersi la responsabilità di ogni azione, ed omissione, del governo, il presidente del consiglio. Ma non vedo perché stupirsi se Monti non ha fatto, ottenuto e concluso assolutamente nulla sull’Ilva in questi mesi, in cui se ne è evidentemente disinteressato, salvo oggi apparire come uno che corre ai ripari e cerca di metterci la pezza. D’altronde si è sempre saputo che il suo principale obiettivo fosse fare compiti a casa che soddisfacessero la Merkel... a cui in fondo in fondo non dispiacerà di veder così eliminato dal mercato uno dei principali concorrenti delle acciaierie tedesche.

Taranto ultima per qualità della vita: "Storia di un declino annunciato”.

Nell'anno dell'emergenza Ilva, Taranto è l'ultima città d'Italia per qualità della vita. In compagnia di Bari, Brindisi e Foggia, quattro province pugliesi nelle ultime otto posizioni in classifica della ricerca del Sole 24 Ore sulla qualità della vita nelle province italiane. Per il capoluogo ionico, che scalza dall'ultimo posto la vicina Foggia, è la "storia di un declino annunciato".  La ricerca - svolta ancora sulle 107 province invece che sulle 110 attuali - si articola su sei settori (tenore di vita, affari e lavoro, servizi ambiente e salute, popolazione, ordine pubblico, tempo libero) costruiti a loro volta su sei indicatori (per un totale di 36), che danno luogo a sei graduatorie di tappa e quindi alla classifica finale. In fondo alla classifica c'è Taranto che raggiunge il proprio risultato migliore solo nell'Ordine pubblico (54esimo posto grazie all'incidenza modesta di scippi, borseggi e rapine e di truffe) mentre si ferma al 94esimo posto in Tenore di vita e in Servizi-Ambiente-Salute e al 95esimo nella voce Affari e lavoro per registrare i risultati peggiori nel Tempo libero e nella Popolazione (rispettivamente al posto 104 e 103 della classifica). Taranto risulta anche fortemente deficitaria sotto il profilo dei giovani, visto che la loro quota sul totale degli abitanti è scesa del 6 per cento in dieci anni e la città è al 105esimo in Italia per l'imprenditorialità dei 18-29enni. Taranto inoltre non si piazza tra le prime quindici posizioni in dei 36 parametri alla base dell'indagine.

This is the end, si potrebbe scrivere di Taranto al cospetto di un giudizio così drastico che l'ha fatta rotolare all'ultimo posto della graduatoria sulla Qualità della vita, scrivono, appunto, Paolo Bricco e Mariano Maugeri su “Il Sole 24 Ore”. Mai come in questo caso, però, la sua fine (apparente) coincide con il suo inizio (reale). Tutte le iniziazioni vanno celebrate da un officiante, come insegna la grecità di cui Taranto è imbevuta. Tra i tanti cantori della città adagiata sul mare viola dei greci, non si può non citare Guido Piovene, lo scrittore vicentino autore a metà degli anni 50 di un celeberrimo «Viaggio in Italia»: «Questo porticciolo orientale, questa popolazione di pesci e di molluschi, è uno dei miei migliori ricordi italiani; e così nell'insieme il ricordo di Taranto, città di mare tersa e lieve, tanto che passeggiandovi sembra di respirare a tempo di musica». Quella che conobbe Piovene era la città arsenale, la città dei due mari ritagliata su misura da una natura generosa sfruttata per le operazioni belliche della Marina militare. Scriveva Piovene: «Taranto marinara giunse in tempo di guerra a impiegare 15mila operai. Con un'attività ridotta, con l'arsenale declinante, la disoccupazione si presenta grave». Due affermazioni dello scrittore vicentino hanno attraversato gli ultimi 57 anni per riproporsi come un mantra nella Taranto contemporanea: il respiro della città, avvelenato dalle emissioni dei quattro poli industriali (Ilva, Eni, Cementir e quel che rimane dell'Arsenale), che allo stesso tempo hanno riversato nel mar Piccolo quantità così imponenti di metalli pesanti e mercurio da costringere le autorità sanitarie a vietare tassativamente la coltura delle cozze in quella zona; e la mancanza di lavoro, la condizione di minorità che insieme all'inquinamento sta in cima ai pensieri di ogni famiglia, di ogni ragazzo, di ogni donna tarantina. L'ultima posizione è aggravata dalla pessima performance generale delle province pugliesi, che hanno monopolizzato la coda della graduatoria nazionale: quattro di loro si trovano negli ultimi otto posti, un po' meglio fa la sola Lecce, 91ª. Un quadro che dovrebbe impensierire Nichi Vendola e la sua squadra di fedelissimi da sette anni alla guida della Regione. Taranto, come sempre, fa da detonatore. Vieni «in quell'angolo di mondo che più di ogni altro allieta», come scriveva il poeta romano Orazio, scegli un ristorante a caso fra la città nuova dalle linee umbertine e la città vecchia dalle suggestioni arabe, scegli un gruppo di commensali e ritrovi, una dopo l'altra, le ansie di una città che nel Novecento ha rappresentato per il Sud la certezza di un futuro manifatturiero. Chi ha un parente stretto ammalato. Chi è senza lavoro. Chi ha i figli disoccupati.

Già, Nichi Vendola. Dai giornali e dai tg si apprende: Ilva, arresti e sequestri a Taranto: nel mirino i vertici dell'azienda e funzionari. "Contatti con Vendola". Gli investigatori indagano su una serie di pressioni che l’Ilva avrebbe effettuato sulle pubbliche amministrazioni. In carcere l'ad Fabio Riva, Luigi Capogrosso, ex direttore e l’ex consulente Girolamo Archinà. Avvisi anche al presidente Bruno Ferrante e al direttore generale, Adolfo Buffo. Pm: "Archinà e Riva in contatto con Vendola", scrive “Il Quotidiano Nazionale”. La Guardia di finanza sta eseguendo una serie di arresti e sequestri a Taranto nei riguardi dei vertici dell’Ilva e di esponenti politici nell’ambito dell’inchiesta ‘Ambiente venduto’. Sotto la lente degli investigatori una serie di pressioni che l’Ilva avrebbe effettuato sulle pubbliche amministrazioni per ottenere provvedimenti a suo favore e ridimensionare gli effetti delle autorizzazioni ambientali. Accuse a vario titolo di associazione per delinquere, disastro ambientale e concussione. In particolare, secondo quanto si apprende, le ordinanze di custodia cautelare, emesse dal Gip di Taranto, chiamerebbero nuovamente in causa la famiglia Riva, e anche funzionari e politici di enti locali pugliesi. Tra le persone raggiunte dalle misure cautelari ci sono Fabio Riva, vicepresidente del gruppo Riva e figlio di Emilio Riva (già ai domiciliari dal 26 luglio scorso) e fratello di Nicola Riva (anche lui ai domiciliari dal 26 luglio). Anche il presidente dell’Ilva Bruno Ferrante e il direttore generale dell’azienda, Adolfo Buffo, sono coinvolti nell’inchiesta che ha portato all’emissione di sette ordinanze di custodia cautelare e al sequestro dei prodotti finiti/semilavorati. I due dirigenti hanno ricevuto altrettanti avvisi di garanzia. In carcere sono finiti Fabio Riva, amministratore delegato dell’Ilva, Luig Capogrosso, ex direttore delle stabilimento l’ex consulente Girolamo Archinà. Ai domiciliari invece Emilio Riva, presidente della capogruppo della Riva Fire; Lorenzo Liberti, già presidente della facoltà di Ingegneria ambientale dell’università di Taranto, Michele Conserva ex assessore all’ambiente della provincia e l'ingegner Carmelo Dellisanti della Promed Engineering. Dalle nuove indagini sull’Ilva emergono ‘’numerosi e costanti contatti di Girolamo Archinà, direttamente, e di Fabio Riva, indirettamente, con vari esponenti politici tra cui il governatore della Puglia Nichi Vendola’’. E’ quanto scrive il gip di Taranto nell’ordinanza di custodia cautelare per i vertici dell’Ilva. L’ex consulente della procura di Taranto Lorenzo Liberti, già preside della Facoltà di Ingegneria a Taranto, secondo la tesi dell’accusa, sarebbe il destinatario di una ‘mazzetta’ di 10mila euro che Archinà gli avrebbe consegnato nel marzo 2010 in una stazione di servizio lungo l’autostrada Taranto-Bari. I soldi dovevano servire, sempre secondo l’accusa, ad attenuare la perizia che Liberti, assieme ad altri esperti, stava conducendo su incarico della Procura di Taranto relativamente all’impatto dell’inquinamento da diossina sulle condizioni di vita e salute della popolazione tarantina. L’Ilva ha sempre smentito che si trattava di una tangente a Liberti ma ha affermato che quei soldi Archinà avrebbe dovuto versarli come donazione alla Diocesi di Taranto. La procura di Taranto ha posto sotto sequestro tutta la produzione dell’Ilva degli ultimi quattro mesi. L`intera produzione stoccata nell`ex yard Belleli e nei parchi della zona portuale di Taranto è finita sotto sequestro preventivo richiesto dalla procura di Taranto. Sotto sequestro sono finite migliaia di lastre di acciaio e coils, grossi cilindri di materiale finito pronti per essere spediti alle industrie. La merce sequestrata non potrà essere commercializzata perché si tratta di prodotti realizzati in violazione della legge. Secondo la procura ionica, costituiscono profitto di reati perché realizzati durante i quattro mesi in cui l`area a caldo dello stabilimento era sotto sequestro senza alcuna facoltà d`uso. Il provvedimento, firmato dal gip Todisco sulla base del secondo comma della legge 321 (quella sulla responsabilità amministrativa delle società) collegato al 240 del codice penale, riguardante la confisca di beni, riguarda anche eventuali produzioni del futuro e pone uno stop definitivo alla produzione dell`acciaieria che dal 26 luglio, giorno del primo sequestro, è ugualmente andata avanti nonostante l`ordine della magistratura. Sette le misure cautelari eseguite questa mattina dalla guardia di finanza. Agli arresti domiciliari è finito anche il docente dell`università di Bari, Lorenzo Liberti, che secondo i pubblici ministeri avrebbe ricevuto pressioni dall`Ilva per ammorbidire una perizia che due anni fa stava elaborando per conto della procura ionica.

La bufera Ilva: sette arresti, una ventina di indagati e sequestro del prodotto, scrive Nazareno Dinoi su “La Voce di Manduria”. Sette arresti con una ventina di indagati tra imprenditori, funzionari pubblici e politici e sequestro delle materie lavorate dell’Ilva. E’ questa la nuova bufera che ieri ha scosso il siderurgico con un’onda d’urto che ha oltrepassato i confini provinciali e regionali. In carcere sono finiti Fabio Riva, amministratore delegato dell’Ilva (sino a ieri risultava irreperibile), Luigi Capogrosso, ex direttore dello stabilimento, l’ex consulente Girolamo Archinà, «licenziato» tre mesi fa dall’azienda dopo che, dall’inchiesta per disastro ambientale, era emerso un episodio di presunta corruzione che coinvolgeva l’ex preside della facoltà di ingegneria di Taranto Lorenzo Liberti (anche lui raggiunto ieri da un mandato di arresto ai domiciliari), al quale Archinà avrebbe consegnato una busta contenente la somma di 10mila euro in cambio di una perizia addomesticata sull’inquinamento dell’Ilva; domiciliari anche per l’ex assessore all’Ambiente della Provincia di Taranto, Michele Conserva, dimessosi circa due mesi fa dall’incarico quando si seppe che poteva figurare tra gli indagati della inchiesta sull’Ilva collaterale a quella per disastro ambientale. Domiciliari anche per l’ingegnere Carmelo Delli Santi, rappresentante della Promed Engineering. Conserva e Delli Santi sono entrambi accusati di concussione. I provvedimenti sono legati anche ad un’inchiesta, parallela a quella per disastro ambientale che il 26 luglio scorso ha portato al sequestro degli impianti dell’area a caldo del siderurgico. Questa operazione condotta dalla Guardia di Finanza, è stata denominata Environment Sold Out (Ambiente svenduto).

Il presidente dell’Ilva, Bruno Ferrante e il direttore generale dell’azienda, Adolfo Buffo, sono coinvolti nell’inchiesta che ha portato all’emissione delle sette ordinanze di custodia cautelare e al sequestro dei prodotti finiti/semilavorati. Con loro, nello stesso procedimento, sono indagati altri dici dirigenti dei reparti dello stabilimento. Nelle oltre 500 pagine dell’ordinanza firmata dal gip Patrizia Todisco, è contenuto uno sconvolgente sistema di potere gestito dalla famiglia Riva e dai loro referenti locali capaci di assoggettare non solo funzionari e dirigenti di pubbliche amministrazioni ma anche politici di alto livello. La spregiudicatezza dei proprietari dell’Ilva che emerge dalle carte lascia senza parole. Come nell’intercettazione tra Fabio Riva e uno degli avvocati dell’Ilva, Franco Perli, in cui il rampollo della famiglia Riva, commentando i rischi sulla salute rilevati da uno studio dell’Arpa, si esprimeva in questi termini: «Due casi di tumore in più all’anno… una minchiata». Nel resoconto dell’inchiesta sono numerose, inoltre, le telefonate intercorse tra gli indagati e personalità politiche di spicco. Dal presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, all’assessore Michele Conserva, dal consigliere regionale Donato Pentassuglia all’onorevole Ludovico Vico, tutti del Pd, sino al presidente della Regione Puglia Nichi Vendola. «Premesso che trattasi – si legge nel provvedimento – di conversazioni e comunicazioni che appaiono non irrilevanti ai fini del procedimento poiché sono strettamente afferenti al modus agendi funzionale al proseguimento, da parte degli indagati, del programma delittuoso». Una per tutti, a significare i rapporti amicali che intercorrevano tra uomini del gruppo Riva e i politici, la telefonata intercettata tra uno degli arrestati, Archinà, e il deputato Vico. Il parlamentare riferisce di una telefonata avuta con Vendola il quale si complimentava della disponibilità mostrata dal gruppo Ilva ma che si lamentava del sindaco di Taranto, Ippazio Stefano: «il sindaco lo vede come un irresponsabile». Sempre ad Archinà Vico riferisce il malumore di Vendola per il funzionario dell’assessorato ambiente della Regione, Antonio Antonicelli, responsabile della permanenza a capo dell’Arpa del presidente Assennato nemico giurato dei Riva: «io dovrei ammazzare Antonicelli, è un pazzo scatenato», riferiva Vico.

 “Due casi di tumore in più” all’anno? Una minchiata”. E’ il contenuto di un dialogo che coinvolge dirigenti Ilva intercettato telefonicamente dalla Guardia di finanza nel corso dell’inchiesta sul’Ilva di Taranto per disastro ambientale. Una frase shock che il procuratore di Taranto, Franco Sebastio ha riferito durante una conferenza stampa seguiti alla nuova raffica di arresti nell’inchiesta sull’Ilva. Una situazione che preoccupa il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini: “Non sono disponibile a subire una situazione che avrebbe effetti terribili: sono preoccupato che questa iniziativa blocchi l’Autorizzazione integrata ambientale con effetti ambientali gravissimi e sociali devastanti”. Nelle carte dell’inchiesta spunta il nome del governatore Nichi Vendola e le “pressioni” – scrive il gip nell’ordinanza – per “far fuori” il direttore generale dell’Arpa Puglia, Giorgio Assennato, autore della relazione sulle emissioni inquinanti dello stabilimento. L’accusa parla di “una regia di Vendola” nell’operazione per “frantumare” Assennato, colpevole di diffondere dati negativi sulle emissioni dell’Ilva. Oltre che la ‘disponibilità’ nei confronti dell’azienda, raccontata nel carteggio dell’ex responsabile delle relazioni esterne Girolamo Archinà con il suo capo Fabio Riva. Netta la smentita del governatore pugliese: ‘Il direttore dell’Arpa Giorgio Assennato può raccontare se ha mai subito o pressioni o tirate d’orecchie da parte mia. Le mie pressioni sono andate sempre nella direzione di essere inflessibili in termini di ambientalizzazione”. Ci sarebbe “la regia” di Vendola, nelle “pressioni” per “far fuori” il direttore generale dell’Arpa Assennato. Nell’ordinanza il gip riporta una telefonata del 30 giugno 2010 tra Archinà e il segretario provinciale della Cisl di Taranto Daniela Fumarola nella quale l’ex funzionario dell’Ilva afferma di come “l’avvocato Manna (allora capo di gabinetto del presidente della Regione, ndr) e l’assessore Fratoianni fossero stati incaricati dal presidente Vendola di ‘frantumare Assennato’”. In un’altra telefonata, del 2 luglio del 2010, a parlare sono invece l’ex direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso e uno degli avvocati dell’Ilva. Quest’ultimo, annota la Guardia di finanza, “riferisce che Archinà ha avuto contatti con il capo di gabinetto di Vendola il quale ha riferito che sono contro Assennato e che cercheranno di farlo fuori”. “Il complesso delle intercettazioni relative alle pressioni sul professor Assennato – scrive il gip – è da ritenersi, oltre ogni ragionevole dubbio, assolutamente attendibile, così come è altrettanto evidente… che il tutto si era svolto sotto l’attenta regia del presidente Vendola e del suo capo di gabinetto avvocato Manna”. “State tranquilli, non è che mi sono scordato!!… Il presidente non si è defilato”. E’ quanto il presidente della Regione Puglia ad Archinà in una telefonata intercettata il 6 luglio del 2010 e contenuta nell’ordinanza del gip. Dalle nuove indagini sull’Ilva emergono “numerosi e costanti contatti di Archinà, direttamente, e di Fabio Riva, indirettamente, con vari esponenti politici tra cui il governatore”. In particolare nell’ordinanza viene riportata una mail del 22 giugno 2010 che l’ex responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva invia a Fabio Riva e con la quale lo informa di un incontro avuto a Bari con Vendola. Incontro che è successivo al documento dell’Arpa Puglia del giugno 2010 in cui si sottolineavano i livelli di inquinamento prodotti dall’azienda. Nella mail Archinà “comunicava che il presidente Vendola si era fortemente adirato con i vertici dell’Arpa Puglia, cioè il direttore scientifico Blonda e il direttore generale Assennato, sostenendo che loro non devono assolutamente attaccare l’Ilva di Taranto e piuttosto si dovevano occupare di stanare Enel ed Eni che cercavano di aizzare la piazza contro l’Ilva”. Sempre secondo quanto scrive Archinà a Riva “Vendola aveva pubblicamente dichiarato che il ‘modello Ilva’ doveva essere esportato in tutta la regione riferendosi, chiaramente, alla famosa ‘legge sulla diossina’ la cui gestazione era stata evidentemente frutto della concertazione tra la Regione e l’Ilva che aveva sempre osteggiato il cosiddetto ‘campionamento in continuo’, ottenendo, appunto, in tale legge che ciò non fosse imposto”. Altro “elemento di rilievo” scrive ancora il Gip, è rappresentato dalla promessa “del presidente Vendola di occuparsi personalmente della questione Arpa al suo ritorno dalla Cina”. Un intendimento che “veniva mantenuto” tanto che Vendola “appena tornato… contattava personalmente l’Archinà rassicurandolo di non aver dimenticato la promessa fatta nella riunione precedente”. Nell’incontro con la stampa il procuratore Sebastio ha parlato di una “vicenda ampia, di dimensioni enormi, e devo dire – ha aggiunto – che si sta allargando notevolmente. Il nostro impegno deve essere quello di cercare ad arrivare comunque ad una conclusione definitiva nei tempi più rapidi possibili”. Il procuratore ha sottolineato che “il diritto alla vita e il diritto alla salute non sono comprimibili dall’attività economica. Non ci possono essere situazioni di inesigibilità tecnica ed economica quando è in gioco il diritto alla vita che è un diritto fondamentale sancito dalla Carta Costituzionale”. Il ministro Clini commenta amaramente il sequestro dello stock di produzione dell’Ilva deciso dalla magistratura. Se non ci fosse l’Aia “la situazione sarebbe più comprensibile ma con questo documento – ha ribadito il ministro – le altre iniziative rischiano di diventare conflittuali”. Il governo “non ha aperto questo conflitto – ha aggiunto - e chi dice che chiusa l’Ilva si risolveranno i problemi sa di dire cosa falsa”. Per quanto riguarda l’ex assessore provinciale all’Ecologia, Ambiente e Aree protette Michele Conserva, secondo le accuse, avrebbe imposto alle aziende interessate ad ottenere le autorizzazioni in materia ambientale un consulente ‘di fiducia’. “Avvalendosi dell’operato di un suo stretto collaboratore nonché del rappresentante legale di una società di progettazione ed ingegneria – si legge nell’ordinanza che lo ha posto ai domiciliari – poneva in essere più delitti di concussione per aver di fatto monopolizzato l’attenzione di diversi titolari di imprese interessate ad ottenere autorizzazioni di pertinenza del proprio assessorato, orientandoli ad avvalersi della consulenza tecnica professionale da lui indicata”. In sostanza, Conserva avrebbe costretto le aziende a corrispondere alla società Promed Engineering compensi “talvolta esorbitanti o comunque eccessivi rispetto al lavoro svolto”.

E quel di peggio che poteva succedere, secondo la legge di Murphy, succede. Ilva chiude, tutti i numeri di un disastro economico. A rischio oltre 20mila posti di lavoro e 9 miliardi di euro di nuove importazioni di acciaio, scrive Giuseppe Cordasco su “Panorama”. L’annunciata chiusura dell’Ilva di Taranto potrebbe rappresentare uno dei più grandi disastri industriali e sociali del nostro Paese degli ultimi anni, così come il suo funzionamento sembrerebbe esserlo stato per le condizioni di salute della città . E’ questa la considerazione che viene più spontaneo fare di fronte ai numeri sconvolgenti che lo stop degli altoforni di Taranto potranno portarsi come conseguenza più immediata. D’altronde stiamo parlando di un’azienda che rappresenta il 20esimo gruppo siderurgico del mondo, e dunque non è difficile immaginare l’impatto che ci sia sull’economia nazionale, sia in termini occupazionali che finanziari. E cominciamo allora proprio da qui, dal mettere in fila le prime drammatiche cifre sugli effetti umani e sociali di una sempre più probabile serrata dell'Ilva . Nella sola zona di Taranto andrebbero in fumo circa 12mila posti di lavoro, che rappresentano gli addetti diretti allo stabilimento, cifra che sale però a quota 20mila se si considera l’indotto. Quello di Taranto infatti rappresenta il più grande sito produttivo siderurgico d’Europa e allo stesso tempo lo stabilimento industriale con più addetti in Italia. Un particolare non da poco se si pensa che sorge in un contesto cittadino dove recenti statistiche parlano di un tasso di disoccupazione che viaggia intorno al 30%. In pratica chiudere l’Ilva potrebbe significare mettere in ginocchio l’economia di Taranto e a cascata di altre zone della Provincia e della Regione Puglia, visto che dei citati 12mila addetti diretti, solo 4mila sono tarantini, mentre gli altri vengono da fuori. Ma le conseguenze negative non finiscono qui sul fronte occupazionale, perché lo stop di Taranto si porta come conseguenza il blocco della produzione anche del sito Ilva di Genova, dove da stamattina altri 1.760 dipendenti sono in agitazione perché vedono a rischio il proprio posto di lavoro. E il fatto che la chiusura dello stabilimento di Taranto si porti dietro conseguenze occupazionali così pesanti, si lega, come accennato, al rilievo che la sua produzione di acciaio riveste per l’intera economia italiana. Secondo i dati forniti dalla Confindustria pugliese infatti, la capacità produttiva di circa 10 milioni di tonnellate l’anno di acciaio che arrivano da Taranto, rappresentano circa il 40% del fabbisogno nazionale. Se l’Italia dovesse essere costretta a importare quantità di questo rilievo, andrebbe incontro ad una spesa del valore di circa 9 miliardi di euro. Una cifra che rappresenta circa un punto di Pil nazionale, e il 7-8% del Pil regionale pugliese. Un vero e proprio disastro economico dunque per il nostro Paese, che rischia, come accennato, di sfociare in dramma sociale a Taranto, dove monta la rabbia degli operai rimasti senza lavoro dalla sera alla mattina. A questo proposito tra l’altro, il sindaco della città, Ippazio Stefano, ha chiesto che ministero del Lavoro e Inps, provvedano in maniera tempestiva a prevedere una forma di cassa integrazione straordinaria, almeno per i cinquemila dipendenti dell’area a freddo dello stabilimento la cui produzione è stata bloccata dai recenti provvedimenti giudiziari. Il rischio altrimenti è che si crei una vera e propria bomba sociale, in una città che non a caso, risultava all’ultimo posto, il 107esimo, nella recente classifica annuale stilata dal Sole 24 Ore che valuta il tenore di vita delle province italiane. Come di dire, di male in peggio.

Nuova bufera sull'Ilva: il 26 novembre 2012 gli uomini della guardia di Finanza hanno eseguito sette arresti a Taranto e in altre regioni nei riguardi dei vertici della società e di politici e funzionari pubblici. Tre persone sono in carcere e quattro agli arresti domiciliari, accusate a vario titolo di associazione per delinquere, disastro ambientale e concussione, scrive “Il Corriere della Sera”. In carcere sono finiti Fabio Riva, amministratore delegato dell'Ilva, che al momento risulta irreperibile, Luigi Capogrosso, ex direttore dello stabilimento l'ex consulente Girolamo Archina, «licenziato» tre mesi fa dall'azienda dopo che, dall'inchiesta per disastro ambientale, era emerso un episodio di presunta corruzione che coinvolgeva l'ex rettore del Politecnico di Taranto Lorenzo Liberti, al quale Archinà avrebbe consegnato una busta contenente la somma di 10mila euro in cambio di una perizia addomesticata sull'inquinamento dell'Ilva; Ai domiciliari Lorenzo Liberti, l'ex assessore all'Ambiente della Provincia di Taranto Michele Conserva, dimessosi circa due mesi fa dall'incarico quando si seppe che poteva figurare tra gli indagati della inchiesta sull'Ilva collaterale a quella per disastro ambientale, l'ingegnere Carmelo Delli Santi, rappresentante della Promed Engineering. Conserva e Delli Santi sono entrambi accusati di concussione. I provvedimenti sono legati anche ad una inchiesta, parallela a quella per disastro ambientale che il 26 luglio scorso ha portato al sequestro degli impianti dell'area a caldo del siderurgico. Questa inchiesta parallela è stata denominata Environment Sold Out (Ambiente svenduto). Il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante e il direttore generale dell'azienda, Adolfo Buffo, sono coinvolti nell'inchiesta che ha portato all'emissione delle sette ordinanze di custodia cautelare e al sequestro dei prodotti finiti/semilavorati. «Non ho alcuna intenzione di rinunciare all'incarico di Presidente di Ilva - Bruno Ferrante - contestazioni che mi sono state rivolte dal pm di Taranto appaiono inconsistenti e strumentali. Proseguirò nel mio compito - ha concluso Ferrante - nell'interesse dei tanti lavoratori e dell'azienda, convinto sempre che è possibile e doveroso coniugare ambiente, salute e lavoro». La procura di Taranto ha posto sotto sequestro tutta la produzione dell'Ilva degli ultimi quattro mesi. L'intera produzione stoccata nell'ex yard Belleli e nei parchi della zona portuale di Taranto è finita sotto sequestro preventivo. Sigilli alle migliaia di lastre di acciaio e coils, grossi cilindri di materiale finito pronti per essere spediti alle industrie. La merce sequestrata non potrà essere commercializzata perché si tratta di prodotti realizzati in violazione della legge. Secondo la procura ionica, costituiscono profitto di reati perché realizzati durante i quattro mesi in cui l'area a caldo dello stabilimento era sotto sequestro senza alcuna facoltà d'uso. L'ex assessore provinciale all'Ecologia, Ambiente e Aree protette Michele Conserva avrebbe imposto alle aziende interessate ad ottenere le autorizzazioni in materia ambientale un consulente «di fiducia». È quanto emerge dal provvedimento dalla nuova inchiesta sull'Ilva di Taranto. L'ex assessore «avvalendosi dell'operato di un suo stretto collaboratore nonché del rappresentante legale di una società di progettazione ed ingegneria, poneva in essere più delitti di concussione per aver di fatto monopolizzato l'attenzione di diversi titolari di imprese interessate ad ottenere autorizzazioni di pertinenza del proprio assessorato, orientandoli ad avvalersi della consulenza tecnica professionale da lui indicata». In sostanza, Conserva avrebbe costretto le aziende a corrispondere alla società Promed Engineering compensi «talvolta esorbitanti o comunque eccessivi rispetto al lavoro svolto». Sono almeno cinque, oltre a quelle indicate nelle ordinanze di custodia cautelare eseguite, le persone indagate nell'inchiesta sull'Ilva di Taranto. Lo si è appreso da fonti giudiziarie, scrive “Il Corriere della Sera”.  Tra queste ci sono don Marco Gerardo, il segretario dell'ex arcivescovo di Taranto monsignor Benigno Luigi Papa, il sindaco di Taranto Ippazio Stefano e un poliziotto. Si tratta di Cataldo De Michele, ispettore in servizio alla Digos della questura di Taranto. L'ipotesi di reato sarebbe rivelazione di segreti d'ufficio. Il sacerdote è accusato di false dichiarazioni al pubblico ministero in relazione ad una presunta tangente di 10mila euro che l'ex responsabile dei rapporti istituzionali dell'Ilva Girolamo Archinà, arrestato ieri, avrebbe consegnato al consulente del Tribunale nonché ex preside del Politecnico di Taranto Lorenzo Liberti per addomesticare una perizia sulle fonti di inquinamento. Archinà aveva riferito agli inquirenti che quella somma, prelevata da cassa aziendale, non era destinata a Liberti ma si trattava di una elargizione alla curia tarantina. Il sindaco di Taranto è indagato per omissioni in atti d'ufficio in relazione alle prescrizioni a tutela dell'ambiente cittadino. La sua iscrizione nel registro degli indagati sarebbe un atto dovuto derivante da una denuncia di un consigliere comunale, Filippo Condemi. Anzi, il tg di Telerama va oltre. Oltre a Vendola, Tiziana Collutto, chiama in causa lo stesso Bersani, citando delle intercettazioni e le lettere di Riva a Bersani. In particolare emerge una lettera datata 30 settembre 2010 ed inviata dal patron dell’Ilva, Emilio Riva, direttamente a Bersani per chiedere l’intercessione del partito Democratico in Parlamento al fine di agevolare l’approvazione della legge con cui allora si stava discutendo del provvedimento per poter innalzare i limiti di benzopirene. Sappiamo che questa sostanza è altamente cancerogena e contenuta nelle emissioni degli stabilimenti Ilva. Di innalzare, appunto, questi limiti nelle città con più di 150.000 abitanti. Quella legge, per chi lo ricorderà, era stata vista come una sorta di legge fatta e ritagliata a posta su Taranto ed in particolare per agevolare Riva.  

Ilva, indagati anche il sindaco di Taranto e un sacerdote. Da email e intercettazioni, spunta una rete di relazioni che tira in ballo la politica a tutti i livelli. I pm indagano sulle vecchie autorizzazioni ambientali. Il direttore dell'Arpa, Assennato: "Mai avuto pressioni da Vendola". Avviso di garanzia anche per il sindaco di Taranto Stefano e un sacerdote, scrive  Chiara Sarra  su “Il Giornale”. A Taranto gli operai non si arrendono e combattono contro la chiusura dell'Ilva. Ma la magistratura va avanti per la sua strada. Sette arresti e tutta la produzione degli ultimi quattro mesi (da quando cioè sono stati messi i sigilli) è stata sequestrata. Almeno altre cinque persone hanno ricevuto avvisi di garanzia e la procura di Taranto sta indagando anche a Bari e a Roma sulla vecchia Autorizzazione integrata ambientale (Aia) rilasciata il 4 agosto 2011 all’Ilva, poi riesaminata e approvata alcune settimane prima. Quel che viene fuori, però, è il chiaro coinvolgimento della politica locale: oltre all'ex assessore provinciale Michele Conserva, finito ai domiciliari, indagati anche il sindaco di Taranto Ippazio Stefano (Sel) e don Marco Gerardo, segretario dell'ex arcivescovo della diocesi. Dalle carte dei pm spunta anche il nome di Nichi Vendola, che avrebbe fatto pressioni sul direttore dell'Arpa Puglia, Giorgio Assennato, perché non pubblicasse gli studi sulle emissioni inquinanti dello stabilimento. A smentire un convolgimento del governatore pugliese è proprio Assennato che, in un'intervista a Vanity Fair, sostiene di non aver "subìto alcuna pressione da parte di Nichi Vendola o di uomini del suo staff: abbiamo soltanto avuto alcune discussioni, peraltro fisiologiche in un rapporto tra un organo tecnico come il nostro e una struttura politica". Alla base di tutto ci sarebbe però, il consulente Girolamo Archinà. Ci sarebbe, infatti, proprio l’ex responsabile per i rapporti istituzionali dell'azienda dietro la fitta rete di esponenti politici messa in piedi per tenere bassa l'attenzione sulle emissioni dello stabilimento. Coinvolti esponenti a tutti i livelli: dal sindaco, appunto, al presidente della Provincia, Gianni Florido (Pd), ma anche consiglieri regionali e parlamentari (sia Pd che Pdl). Spuntano anche azioni "virtuose", come quella compiuta dall'onorevole democratico Roberto Della Seta (Pd) che ha provato a far inserire norme più restrittive sulle emissioni di benzo(a)pirene, scatenando però la reazione dell'azienda. Emilio Riva, patron dell'Ilva, avrebbe infatto scritto direttamente a Pier Luigi Bersani attraverso Archinà spiegando le sue ragioni per far tornare indietro Della Seta chiedendogli di "non fare il coglione". E le intercettazioni tirano in mezzo altri bersaniani, a partire dal deputato Ludovico Vico che avrebbe minacciato di far "uscire il sangue" alla Camera al collega. Senza dimenticare, come rivela il Fatto Quotidiano, i 98mila euro che la famiglia Riva diede a Bersani per la sua campagna elettorale...

L'Ilva chiude, in 5mila a casa. E Vendola finisce indagato. Addio stabilimento di Taranto, la magistratura mette le manette ai vertici Il governo: "Chi ha fermato tutto è responsabile dei rischi". Il leader di Sel nei guai per il caso Miulli e per le nuove intercettazioni. Oggi si sciopera, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. Il patto «d'acciaio» di Nichi Vendola e le primarie del Pd con l'Ilva di mezzo. Sui miasmi politici e ambientali del polmone (malato) siderurgico di Taranto di cui è stata ieri annunciata la chiusura (che prevede l'allontanamento di 5mila operai), e sulla cui vicenda il governo ha convocato le parti sociali (con il ministro dell'Ambiente Clini che accusa la magistratura: «assurdo chiudere gli impianti»), su quei miasmi, appunto, la procura della città dei due mari punta in alto. E a sorpresa si ritrova a intercettare il governatore pugliese, a trascrivere negli atti il nome di Bersani, a inguaiare deputati e senatori democratici oltre che l'ex assessore all'ambiente di partito. Nell'indecisione di indagare o meno il presidente della Regione Puglia i pm decapitano i vertici dell'impianto siderurgico (domiciliari-bis per il patron 86enne Emilio Riva e detenzione in carcere per il vicepresidente Fabio Riva, indagati l'attuale numero uno ed ex prefetto candidato a sindaco di Milano col Pd, Bruno Ferrante, e il suo predecessore, Nicola Riva, già agli arresti casalinghi dal luglio scorso) e corrono dritti al terzo livello, appunto quello politico-istituzionale. Personaggio cardine dell'inchiesta sembrerebbe essere Girolamo Archinà, responsabile per le relazioni istituzionali dell'azienda. Intanto i sindacati di categoria Fim, Fiom e Uilm che hanno proclamato lo sciopero di 24 ore dei lavoratori di tutto lo stabilimento a partire dalle ore 7 di oggi. Per il gip sono infatti «numerosi e costanti contatti di Girolamo Archinà direttamente, e di Fabio Riva, indirettamente, con vari esponenti politici tra cui il governatore della Puglia Nichi Vendola». Del quale il giudice Patrizia Todisco individuerebbe la «regia» nelle «pressioni» per «far fuori» il direttore generale dell'Arpa Puglia, Giorgio Assennato, protagonista di un duro braccio di ferro con la multinazionale dell'acciaio. Vendola, che alla luce delle telefonate trascritte agli atti si ritrova in una posizione a dir poco imbarazzante, proprio ieri ha ricevuto un avviso di garanzia bis sottoforma di avviso di proroga indagine nell'ambito dell'inchiesta sull'ospedale Miulli di Bari. Gli indagati veri e propri sono accusati, a vario titolo, di associazione per delinquere, disastro ambientale e concussione per aver cercato di pilotare e ammorbidire le analisi sul livello di inquinamento prodotto. Le relazioni tecniche - secondo l'accusa - dimostrerebbero che l'Ilva non ha mai smesso di produrre e di immettere nell'aria sostanze velenose provocando un «gravissimo pericolo per la salute pubblica e dei lavoratori, contaminazione di terreni ed acque». E questo nonostante le ripetute iniziative a tutela dell'ambiente promosse da Enti locali e azienda che il gip definisce «grossolana presa in giro». La diossina c'era prima, e ha continuato ad esserci anche dopo la legge anti-diossina voluta da Vendola simile alla tela di Penelope perché autorizza di notte ciò che vieta di giorno. È il 19 dicembre 2008 quando la Regione vara un testo normativo che «obbliga» l'Ilva ad abbattere le esalazioni nocive, scendendo dai 7 nanogrammi di diossina per metro cubo emesse con la produzione a pieno regime ai più «tollerabili» 2,5 nanogrammi per giungere, in un anno, alla soglia dettata dall'Ue, di 0,4 nanogrammi. Il governatore sbandiera la nuova legge come un'eccezionale conquista ambientale. In realtà di lì a tre mesi la Regione tira fuori il bianchetto e vara una norma correttiva di «interpretazione autentica» della legge precedente che sa di revisione. Anzitutto, il termine per l'assestamento delle emissioni a 2,5 nanogrammi slitta a giugno 2009 invece che ad aprile. L'inganno è dietro l'angolo come ricostruito da Carlo Vulpio nel coraggioso libro La città delle nuvole: la norma correttiva della Regione elimina il campionamento continuo delle emissioni nocive (unica garanzia per i cittadini). Il monitoraggio è ridotto a tre fasi, a settimane alterne e solo nelle 8 ore di giorno. Una farsa. I cronisti locali ricordano un raggiante Vendola con Fabio Riva all'inaugurazione di un impianto di aspirazione polveri. Fino a due anni fa Nichi accostava il «modello Ilva» all'«ambientalizzazione della produzione». Era amore. Poi, a maggio, come spesso gli accade, il suo sesto senso giudiziario gli consiglia di interrompere l'idillio e di infierire sui Riva accusandoli di essere i mandanti dell'attacco confindustriale alla sua giunta. Fa sempre così, il Sommo intercettato: attacca sempre poco prima di essere attaccato. Ma come fa?

"Pronto, sono Nichi. Non sono sparito...". E spunta una lettera: Bersani, aiutaci tu. Dal cellulare del manager intercettato passa di tutto: pressioni, vendette trasversali e disprezzo per i malati, scrive Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo  su “Il Giornale”. È un centralino ambulante, l'ex manager Ilva Girolamo Archinà. Dal suo cellulare, intercettato per 9 mesi dalla Gdf, passano parlamentari, giornalisti, sindacalisti, vertici delle istituzioni, sbirri. A tutti chiede favori, interventi, aiuti. «Sono Nichi,non mi sono defilato». «Archinà, No? state tranquilli, non è che mi sono scordato». Vendola chiama il dirigente arrestato. «Ho paura che metto la faccia mia e si possono accendere ancora più fuochi», dice il governatore. «L'Ilva è una realtà produttiva cui non possiamo rinunciare, e quindi fermo restando tutto dobbiamo vederci? dobbiamo ridare garanzie, volevo dirglielo perché poteva chiamare Riva e dirgli che il presidente non si è defilato». Archinà incassa e ringrazia. Dalla segreteria del presidente parte una mail indirizzata all'ex dirigente per organizzare un incontro con Riva e Capogrosso (entrambi arrestati). Vendola: a quello «frantumatelo». Scrive il gip: «Archinà comunicava (alla sindacalista Cisl, Daniela Fumarola, ndr) che il presidente Vendola si era fortemente adirato con i vertici Arpa Puglia? sostenendo che loro non dovevano assolutamente attaccare l'Ilva di Taranto, piuttosto si dovevano occupare di stanare Enel ed Eni che cercavano di aizzare la piazza contro l'Ilva». Archinà, in un'altra telefonata intercettata con la sindacalista Cisl, Fumarola, riferisce che l'avv. Manna (capo segreteria di Vendola) e l'assessore Fratoianni «fossero stati incaricati da Nichi di frantumare Assennato (l'autore della relazione sulle emissioni inquinanti dell'Ilva)». La conferma arriverà dall'attuale capo di gabinetto di Nichi, Davide Pellegrino. Legge democratica ad personam. Archinà parla 5 volte con il deputato Ludovico Vico (Pd) e 3 con il defunto senatore Pietro Franzoso. A Vico viene chiesto di modificare una norma ad personam per alleggerire i reati di emissioni di gas nocivi che più spesso vengono contestati ai Riva. Pierluigi aiutaci tu. Sulla e mail di Archinà «veniva intercettato a gennaio 2010 il file di una missiva a firma dell'ing. Emilio Riva che ha come destinatario Pier Luigi Bersani». È il tentativo che i patron dell'acciaieria mettono in campo, coinvolgendo il segretario del Pd che nel 2006 aveva già ricevuto un contributo elettorale di 98mila euro dalla famiglia Riva, per fermare l'offensiva del senatore Pd Della Seta contro l'azienda a difesa della salute dei cittadini. Il Pd Vico è sensibile al tema: «Ora, a questo punto? lì alla Camera dobbiamo farli uscire il sangue a Della Seta (...) Perché lui deve capire che non deve rompere le palle no (?). Siamo alla fase di sputtanamento di Della Seta?». Archinà: «L'ingegnere ha scritto al tuo segretario». La lettera Ilva a Bersani. Eccola la missiva di lamentele di Riva al segretario Pd. «Come tante volte ho avuto modo di rappresentarle» l'Ilva è sottoposta «a pressione mediatica violentissima, alimentata da associazioni ambientalistiche purtroppo trova sponda in alcuni rappresentanti politici più preoccupati di compiacere l'opinione pubblica che di accertare il reale stato delle cose. Mi rivolgo a lei per un episodio di cui è stato protagonista il senatore Della Seta che mi ha sconcertato». Il riferimento è all'emanazione di un decreto legge sulla qualità dell'ambiente, sul Benzoapirene, sulle accuse delle associazioni al governo di aver prolungato i termini sui valori delle emissioni. E Della Seta avrebbe giocato su più tavoli. Dicendo una cosa, e facendone poi un'altra «Scusi lo sfogo ma proprio per quello che negli anni di reciproca conoscenza ha potuto constatare sulla mia azienda opera, confido che saprà comprenderlo» per salvare posti di lavori, senza star dietro ad «attacchi mediatici su posizioni di pregiudizio ideologico». Un partito di provincia. A interessarsi dei destini dell'Ilva c'è il presidente della Provincia Florido (Pd), ex sindacalista Cisl, alle prese con l'allora assessore Pd Conserva (ai domiciliari, aveva una microspia in ufficio) e con un supplemento di documentazione richiesto all'Ilva dagli uffici provinciali: «Senti Michè, in merito cosa vuol dire quella cosa (la lettera inviata all'Ilva, ndr)? cioè sono approfondimenti ma?». C'è poco da fare, gli risponde l'altro. «Comunque è un casino! Non si riesce a trovare una soluzione, speriamo che mo passano queste? queste elezioni». Emiliano e il «gioco del soldato». Il nemico di Vendola ai controlli all'Arpa, Assennato, che si sente attaccato pure dal sindaco Emiliano, inveisce contro Archinà e i tentativi del governatore di mettergli i bastoni tra le ruote: «Girolamo (Archinà) sono molto incazzato!(?) voi dovete smettere di fare così. Non dovete fare quello che avete fatto, andare dal Presidente e dire che siete vittime di persecuzione dell'Arpa (?). Il gioco lo facevamo quando avevamo 15 anni!». Dalla pistola al proselitismo. Nelle carte spuntano anche le chiamate tra Archinà e il sindaco vendoliano di Taranto (quello con il revolver alla cintola) Ezio Stefàno, con cui «intrattiene utili rapporti confidenziali» tanto da chiedergli e ottenere di spostare il referendum sul'Ilva in una data «più lontana possibile». Osserva il gip: «Lungi dall'intervenire nelle vicende sulle emissioni tossiche del siderurgico con la fermezza ed incisività che le esigenze di tutela della salute imponevano, il sindaco appariva incline ad assumere iniziative accondiscendenti e solidali verso l'Ilva». «Una minchiata due tumori in più». Anche il ministero dell'Ambiente avrebbe esercitato pressioni su Assennato grazie ai buoni uffici del legale dell'azienda. E, sull'aumento dei casi di neoplasie a Taranto, Fabio Riva è tranchant: «Due casi di tumore in più all'anno? una minchiata». Giornalisti e sindacalisti amici. Dalle carte emerge che Archinà passa «veline» ai quotidiani che le pubblicano sotto pseudonimo: 120mila euro per spot sulle tv e un milione e mezzo per i giornali. Poi ci sono i rapporti segreti Ilva-sindacati sul referendum indetto dall'associazione Taranto Futura per chiedere misure drastiche contro l'azienda. Per scongiurarlo Archinà «convoca» sindacalisti di Cgil e Cisl e li invita a ricorrere al Tar così da bloccare tutto. Detto, fatto.

L'Ilva chiude? Bersani, ridai i soldi che ti ha dato patron Riva. L'appello, minaccioso, arriva dal Fatto quotidiano, scrive “Libero Quotidiano. Il giornale diretto da Antonio Padellaro e Marco Travaglio non è morbido né con l'azienda siderurgica (la decisione di chiudere lo stabilimento di Taranto è definito una "rappresaglia" contro l'inchiesta e gli arresti stabiliti dalla Procura) né con il segretario del Pd, in questi giorni in altre faccende affaccendato. In un editoriale firmato dall'ex Repubblica Antonello Caporale, il Fatto picchia: "I Riva hanno sempre goduto di vasti appoggi. E spesso, benchè lontani dal mondo romano, hanno trovato ascolto le loro perorazioni, le richieste continue alla diluizione nel tempo delle minime, essenziali opere di messa in sicurezza del lavoro di migliaia di operai e della tutela delal salute di una intera città". In questo "sistema Taranto", sottolinea il Fatto, c'è dentro fino al collo anche il Partito democratico. "Oggi cosa dice Pier Luigi Bersani - scrive Caporale -, cosa pensa di dire davanti a questa crisi di legalità se egli stesso si trova a essere il destinatario di un dono, pari a 98mila euro, che i Riva hanno sottoscritto in favore della sua campagna elettorale del 2006?". Al tempo, i Riva versarono ua donazione anche a Forza Italia, 245mila euro. Caporale sottolinea la natura "legittima e prevista dalla legge" del doppio sostegno. Certo, il Fatto in prima pagina glissa un po' sui guai di un altro protagonista della sinistra italiana, il più vicino (politicamente) Nichi Vendola, che il Gip di Taranto ha definito "regista delle pressioni sull'Arpa" per sgonfiare l'allarme ecologico. Una telefonata intercettata getta pressioni non da poco sul governatore della Puglia, che al telefono con i dirigenti dell'azienda ha garantito sostegno e dato rassicurazioni. Ma i titolini meglio regalarli a Bersani.

I favori imbarazzanti dei sindacati all'Ilva. Ora dichiarano guerra all'azienda ma nelle intercettazioni andavano a braccetto con i "padroni, scrive Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo  su “Il Giornale”. Sindacati doubleface. Triplo salto carpiato con avvitamento per i rappresentanti dei lavoratori dell'Ilva svergognati dalle intercettazioni e ora impegnati a invocare una lotta dura senza paura dopo i sussurri e gli ammiccamenti coi vertici aziendali. Conversazioni sgradevoli e antipatiche, che un primo risultato l'hanno di certo ottenuto: il grido «venduti» urlato ieri mattina ai portavoce degli operai dai dipendenti a braccia conserte davanti ai cancelli dell'acciaieria. Nelle trascrizioni spuntano le «attrazioni fatali» della Triplice, o meglio di Cgil e Cisl, per la famiglia Riva e il management dell'azienda tarantina. Telefono caldissimo tra Girolamo Archinà, l'ex dirigente delle relazioni istituzionali del gruppo, e i referenti degli impiegati Ilva spesso proni ai desiderata del «padrone». Qualche esempio. Gli inquirenti annotano che «in vista del referendum proposto dall'associazione Taranto Futura» per obbligare il colosso siderurgico a rispettare i limiti di emissioni «Archinà svolgeva un'oscura opera di proselitismo pro-Ilva» finalizzata a scongiurare l'indizione della consultazione popolare che coinvolgeva anche «taluni sindacati (Cisl e Cgil) e Confindustria Taranto affinché ricorressero al Tar di Lecce per l'annullamento delle consultazioni popolari». In una conversazione Fabio Riva aggiungeva che anche la Uil si sarebbe decisa a disertare il referendum. Mentre, in un'altra chiacchierata, il legale della multinazionale Perli, parlando con Fabio Riva dei ricorsi al Tar, annunciava che «già mi han mandato delle cose in studio? e mi han mandato quello di Confindustria, quello di Cgil e Cisl credo l'abbiano? sono sicuro che l'han presentato, ecco?». In un'altra intercettazione la guardia di finanza fa presente che «il dottor De Biasi (ex responsabile delle relazioni industriali del gruppo, ora alla Fiat, ndr) comunica ai Riva e ad Archinà che il segretario provinciale della Cisl Daniela Fumarola, persona molto vicina al presidente Florido (presidente Pd della provincia di Taranto, ex Cisl) si sta facendo promotrice di un convegno». Una bella tavola rotonda dalla quale «emergerà che l'Ilva è molto impegnata a favore dell'ambiente e quindi non è assolutamente responsabile del degrado ambientale dell'area industriale». Alla fine, il meeting si tiene davvero e la Fumarola, annota la Gdf, è curiosa di conoscere «le impressioni di Riva». La telefonata ad Archinà si trasforma, però, ben presto in un processo a Giorgio Assennato, il tanto vituperato direttore dell'Arpa Puglia autore di una relazione durissima nei confronti dell'Ilva e, secondo il giudice, destinatario delle pressioni del governatore Vendola a favore proprio della multinazionale dell'acciaio. Per la Fumarola, il direttore dell'agenzia regionale è un «rimbambito, evanescente e difensore degli ambientalisti». Dei quali la sindacalista non sembra avere grande considerazione: «Non hai sentito pure nel suo intervento che ha detto: non avete citato gli ambientalisti! Ma allora sei un cretino patentato, scusa eh! Ma io gliel'ho pure detto dopo, gli ho detto: Ma mi scusi, ma che cosa devo difendere gli ambientalisti che stanno a massacrarci ogni giorno? Noi dobbiamo difendere chi costruisce un percorso». Già, il percorso. Assennato è tipo da prendere con le molle anche secondo l'ex manager Ilva, che ne approfitta per imbastire un'altra operazione delle sue. Il capo delle relazioni istituzionali del gruppo, infatti, «forte anche del chiaro appoggio fornitogli dal presidente Vendola e dall'avv. Manna (suo capo segreteria, ndr)», cerca di aizzare la Cisl contro Assennato suggerendo alla donna di «prendere contatti con l'avv. Manna o con l'assessore Fratoianni» indicati entrambi come le «persone che hanno avuto il compito di frantumare» il direttore dell'Arpa. Quanto a Vendola si lascia andare a una confidenza-choc con Archinà: «I vostri alleati principali, in questo momento, lo voglio dire, sono quelli della Fiom?». Le tute blu che vanno a braccetto coi padroni dell'Ilva non sono però solo quelli di nuova generazione. Nel libro La città delle nuvole Carlo Vulpio parla di un dossier dell'oncologo Mariano Bizzarri che analizza il boom di neoplasie a Taranto dal 1971 al 1990, passate da 284 a 454, e dei relativi decessi più che raddoppiati. Un rapporto devastante, snobbato soprattutto dai sindacati. Nessuno, per anni, ha fatto cenno allo studio che pure risultava protocollato, con tanto di timbro, alla Camera del lavoro-Cgil (numero 0651, 14 aprile 1995). Nessuno, oggi, si meraviglia se un dirigente come Capogrosso al telefono intima ai capireparto di stroncare «sul nascere» ogni iniziativa per far trapelare all'esterno problematiche sulle cockerie. L'input è categorico. «Stronchiamo ogni iniziativa», «non devo avere azioni contro l'azienda», «non voglio vedere comunicati». E i sindacati? Usi obbedir tacendo e tacendo morir. Di diossina.

AMBIENTE E GIUSTIZIA: CHI COPRE CHI?

La Liguria e la Puglia: ILVA e diossina, territori legati a doppio filo.

«Vogliamo che si faccia piena luce sul passato, in particolare su tutte le ricerche sulla diossina negli alimenti che non hanno mai registrato a Taranto alcun superamento dei limiti di legge, mentre quando noi abbiamo fatto fare quelle stesse analisi, sono emersi incredibili e scandalosi superamenti – affermano, come riferito da Maria Rosaria Gigante su La Gazzetta del Mezzogiorno, gli ambientalisti Rosella Balestra, Alessandro Marescotti e Fabio Matacchiera e sollecitano l’assessore regionale alle Politiche della salute, Ettore Attolini, perché si faccia luce su tali questioni. - Come mai dal 2002 al 2007 sono state analizzate cozze, orate, spigole, carne, uova, latte e mangimi senza mai trovare negli alimenti consumati a Taranto alcun superamento per diossina e Pcb?» Gli ambientalisti forniscono proprio gli esiti delle 72 analisi effettuate dal 16 ottobre 2002 a 23 maggio 2007 presso l'Istituto zooprofilattico di Foggia da cui risulta che non c’è mai stato alcuno sforamento (tutti i dati sono riportati sul sito www.tarantosociale.org). E’ bastato, invece, il pezzo di formaggio alla diossina a febbraio 2008 a scatenare la questione e ad aprire una vera e propria emergenza diossina col conseguente piano regionale di monitoraggio di latte e carni all’interno di un raggio di una ventina di chilometri dalla zona industriale. Proprio per la diossina ha chiuso la Copersalento di Maglie, per decenni un sansificio, poi trasformato in inceneritore di rifiuti e quindi in stabilimento per la produzione di energia. Varie sono state le denunce, le ispezioni, le chiusure, fino a quella definitiva posta dalla provincia di Lecce, dovuta all'inquinamento. La Copersalento è stata, infatti, accusata di aver superato per oltre 400 volte i limiti massimi di emissione di diossina. Per tutto ciò si aspetta di capire cosa succede a nostra insaputa. Da attente segnalazioni scopriamo alcune cose che la gente deve sapere, ma che nessuno dice.

Esito positivo inchieste giudiziarie=0

Risposte istituzionali ed amministrative=0

Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta 4-08079 presentata da ELISABETTA ZAMPARUTTI, lunedì 19 luglio 2010, seduta n.354

ZAMPARUTTI, BELTRANDI, BERNARDINI, FARINA COSCIONI, MECACCI e MAURIZIO TURCO.

- Al Ministro della salute, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare.

- Per sapere - premesso che: a Maglie, Ezio Armando Capurro è proprietario della Copersalento, per decenni un sansificio, poi trasformato in inceneritore di rifiuti e quindi in stabilimento per la produzione di energia. Varie sono state le denunce, le ispezioni, le chiusure, fino a quella definitiva posta dalla provincia di Lecce, dovuta all'inquinamento. La Copersalento è stata, infatti, accusata di aver superato per oltre 400 volte i limiti massimi di emissione di diossina;

secondo quanto riporta Terra di giovedì 8 luglio 2010, in Liguria, il pubblico ministero Biagio Mazzeo ha chiesto e ottenuto di sequestrare l'area dell'ex oleificio di Avegno, di proprietà del consigliere regionale Ezio Armando Capurro, perché la zona non è stata bonificata e si è trasformata in una discarica pericolosa -:

se i Ministri siano a conoscenza di quanto in premessa e di quali informazioni dispongano o intendano acquisire in merito alle attività di bonifica dell'ex oleificio di Avegno. (4-08079)

Ministero/i delegato/i a rispondere e data delega

Delegato a rispondere

Data delega

MINISTERO DELLA SALUTE

19/07/2010

MINISTERO DELLA SALUTE

19/07/2010

Attuale delegato a rispondere: MINISTERO DELL'AMBIENTE E DELLA TUTELA DEL TERRITORIO E DEL MARE delegato in data 10/09/2010

Stato iter:

IN CORSO

Fasi iter:

SOLLECITO IL 12/10/2010
SOLLECITO IL 01/12/2010
SOLLECITO IL 12/01/2011
SOLLECITO IL 03/02/2011
SOLLECITO IL 03/03/2011
SOLLECITO IL 06/04/2011
SOLLECITO IL 15/04/2011
SOLLECITO IL 23/05/2011
SOLLECITO IL 06/07/2011
SOLLECITO IL 21/09/2011
SOLLECITO IL 16/11/2011
SOLLECITO IL 15/02/2012
SOLLECITO IL 28/05/2012
SOLLECITO IL 04/07/2012
SOLLECITO IL 27/07/2012

L’inchiesta svolta da Floriana Bulfon su Terra News parla di un politico dotato di ubiquità. "Armando Capurro, già sindaco di centrodestra di Rapallo, è consigliere regionale della lista Burlando. Amico del ministro Fitto, in Liguria chiede più inceneritori. Ma in Puglia il Pd lo accusa di danni ambientali. Rapallo eletto sindaco con una lista di destra, in regione Liguria con la sinistra. In Liguria a difendere i valori della lista Burlando, a Maglie un tempo in società con il cugino di Fitto. Ezio Armando Capurro è un uomo “dall’esperienza molteplice”, come lui stesso afferma. Docente, industriale, già sindaco di Rapallo e ora consigliere regionale della lista Burlando in Liguria. Proprio Claudio Burlando ha visto in lui il politico ideale e ha deciso di candidarlo nella sua lista civica alle ultime elezioni regionali. Il presidente ex ministro Ds, oggi Pd, ha scelto Capurro per le sue qualità e poco importa che qualcuno in quel di Maglie, in quella Puglia terra natale di Capurro, sostenga che sia un caro amico del ministro berlusconiano Raffaele Fitto. Importa ancor meno che il Pd in Puglia affermi che il Capurro industriale abbia causato con il suo stabilimento danni ambientali, diossina e controverso aumento di tumori. “La fabbrica della morte”, lo chiama il sito del Pd di Maglie. Questioni di poco conto, questioni pugliesi. Meramente locali. A dire il vero, qualche questione è stata aperta anche in Liguria, da quando il pm Biagio Mazzeo ha chiesto e ottenuto di sequestrare l’area dell’ex oleificio di Avegno di proprietà del consigliere perché la zona non è stata bonificata e si è trasformata in una discarica pericolosa. Ma poco importa anche questo. Capurro è uomo di oleifici e inceneritori, uomo di destra e di sinistra. E a Maglie, nel cuore del Salento, lo conoscono tutti bene. E' il proprietario della Copersalento, per decenni un sansificio, poi trasformato in inceneritore di rifiuti e quindi in stabilimento per la produzione di energia. Tortuosi gli assetti societari dell’impianto che ha visto tra i proprietari anche Raffaele Rampino, cugino del sindaco di Maglie Antonio Fitto, parente di Raffaele. E varie le denunce, ispezioni, chiusure, fino a quella definitiva posta dalla Provincia di Lecce. Denunce dovute all’inquinamento. La Copersalento è stata infatti accusata di aver superato per oltre 400 volte i limiti massimi di emissione di diossina. Carne alla diossina e livello di inquinamento oltre i limiti, in base alle rilevazioni dell’Arpa, tali da risultare “gravemente pericolosi per la salute”. Problemi del Capurro industriale, certo, e del Capurro pugliese. Ma appare curioso che il Capurro consigliere ligure si appelli a Burlando con una interrogazione con oggetto «conferimento rifiuti dalla Provincia di Imperia alla discarica di Scarpino». La provincia di Imperia, quella cara all’ex ministro Scajola. Il Capurro ligure sostiene che per fronteggiare il problema dei rifiuti occorra dare attuazione immediata di un Piano di Rifiuti che permetta di risolvere le criticità e il superamento delle fasi emergenza. Capurro consigliere regionale vuole sapere come si intenda, e con quali tempi, realizzare più moderni impianti di trattamento finale dei rifiuti che prevedano il recupero energetico. Insomma, termovalorizzatori o gassificatori, indispensabili per risolvere i problemi dei rifiuti. Saranno l’anello di congiunzione tra il Capurro pugliese e quello ligure?"  

PARLIAMO DELLA MAFIA DEGLI AUSILIARI GIUDIZIARI.

A quanto ammonteranno i compensi per i custodi giudiziari dell’ILVA?

I custodi giudiziari spesso si spacciano anche per amministratori giudiziari, per poter pretendere con l’avvallo dei magistrati compensi raddoppiati e non dovuti.

«Essendo i consulenti tecnici, i periti, gli interpreti ed i custodi/amministratori giudiziari i principali ausiliari dei magistrati, come a questi ci si pretende di porre in loro una fiducia incondizionata. Spesso, però ci si accorge che tale fiducia è mal riposta, sia nei collaboratori, che nei magistrati stessi. Ma a ciò bisogna far buon viso a cattivo gioco (giudiziario), se no succede quello che succede a me - spiega il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it , e scrittore-editore dissidente che proprio sul tema ha scritto e pubblicato “Malagiustiziopoli” nella collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Uno tra i 40 libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare – Io sono inviso dalla classe forense e giudiziaria, in quanto rendo pubbliche le magagne che si annidano presso gli uffici giudiziari. Il giornalista che va per la maggiore non vuole o non può pubblicare certe notizie, perché non ha il coraggio o, pur saccente, non ha la perizia giuridica per affrontare tematiche processuali, che solo scaltri avvocati riescono a scalfire. Per esempio, pragmaticamente, su sollecitazione di molti avvocati di Taranto vicini all’Associazione Contro Tutte le Mafie, prendiamo il caso concreto della decisione del Presidente del Tribunale di Taranto, Antonio Morelli. Già abbiamo affrontato il caso di quel consulente tecnico che non ha risposto alle domande postegli dal giudice delegante ed anzi andò in antitesi alla consulenza tecnica della parte convenuta e ben oltre la richiesta della consulenza tecnica della parte attrice. In quel caso il Pm archiviò a carico del CTU la denuncia per falso, ma, ciò nonostante, il dr Antonio Morelli estromise tale CTU dall’apposito elenco e per gli effetti quel consulente non fu più chiamato. L’archiviazione dette modo al consulente estromesso di rivalersi contro il denunciante per calunnia. Il denunciante a sua volta denunciò, inopinatamente il sottoscritto che lo difendeva in giudizio, per diffamazione a mezzo stampa per aver svolto un’inchiesta giornalistica sul funzionamento della giustizia a Taranto. Una golosa occasione per i magistrati di Taranto per tacitarmi, così come spesso hanno fatto, non riuscendoci. Ma arriviamo al caso di specie. Trattiamo della nomina e della remunerazione dei custodi/amministratori giudiziari. In questo caso trattasi di custodia dei beni sequestrati in procedimenti per usura. Il custode ha pensato bene di chiedere il conto alle parti processande, ben prima dell’inizio del processo di I grado ed in solido a tutti i chiamati in causa in improponibili connessioni nel reato, sia oggettive che soggettive. Chiamati a pagare erano anche a coloro a cui nulla era stato sequestrato e che poi, bontà loro, la loro posizione era stata stralciata. Questo custode ha pensato bene di chiedere ed ottenere, con l’avallo del Giudice dell’Udienza Preliminare di Taranto, ben 72.000,00 euro (settantaduemila) per l’attività, a suo dire, di custode/amministratore.  Sostanzialmente il GUP, per pervenire artatamente all’applicazione delle tariffe professionali dei commercialisti, in modo da maggiorare il compenso del custode, ha ritenuto che la qualifica spettante al suo ausiliario non fosse di custode i beni sequestrati (art. 321 cpp, primo comma), ma quella di amministratore di beni sequestrati (art. 321 cpp, secondo comma, in relazione all’art. 12 sexies comma 4 bis del BL 306/1992 che applica gli artt. 2 quater e da 2 sezies a 2 duodecies L. 575/1965). Il presidente Antonio Morelli ha riconosciuto, invece, liquidandola in decreto, solo la somma di euro 30.000,00 (trentamila). A parte il fatto che non tutti possono permettersi di opporsi ad un decreto di liquidazione del GUP, è inconcepibile l’enorme differenza tra il liquidato dal GUP e quanto effettivamente riconosciuto dal Presidente del Tribunale di Taranto. Questa differenza fa sorgere qualche dubbio circa la bontà legale dei presupposti, a fondamento della richiesta, e la susseguente decisione di accoglimento della stessa. Va da sé che i giudicanti sono ingiudicati e poi si sa che su tutto si trova una giustificazione. E’ da scuola la lezione, però, data dal presidente del Tribunale, Antonio Morelli, al suo collega Giudice dell’Udienza Preliminare. Morelli ha spiegato che è sbagliato considerare il custode giudiziario tour cour come amministratore e per gli effetti liquidare un compenso maggiore. Per due ordini di motivi: il primo è che non è ancora intervenuto il DPR previsto dal DLgs 14/2010 (istituzione dell’albo degli amministratori giudiziari); il secondo è che l’attività ed i compiti del custode, che danno diritto all’indennità prevista dall’art. 58 del DPR 1157/2002, sono infatti quelli di custodire e conservare la cosa custodita. “Né la figura dell’amministratore giudiziario, inserita dal legislatore nell’ampio contesto normativo di contrasto alle associazioni mafiose ed alle forme di criminalità similari, ha soppiantato la figura del custode, ma soprattutto non ha abolito, pur nell’ambito della sua qualifica, le attività tipiche di quello e cioè la custodia e la conservazione del bene sequestrato. E’ sufficiente, oltre che alla logica ed ai principi generali, fare riferimento al comma 8 dell’art. 2 sexies della legge 575/1965 che attribuisce all’amministratore il compito di provvedere alla custodia, alla conservazione ed alla amministrazione dei beni sequestrati anche al fine di incrementare, se possibile, la redditività dei beni medesimi. Il senso del ragionamento - spiega Morelli - è che in concreto, tenuto conto della natura dei beni sequestrati, l’amministratore può svolgere attività tipiche del custode (custodire e conservare la cosa custodita), indipendentemente dal criterio nominalistico che lo definisce. Se si ragionasse diversamente si dovrebbe ritenere diverso dal custode colui che, nominato amministratore in procedimento per reati che prevedono tale figura, in concreto fosse chiamato a  svolgere compiti di mera custodia o di conservazione del bene nel senso sopra definito. Nel caso di specie i beni “amministrati” erano semplici immobili ad uso abitativo e le attività svolte non possono che considerarsi appropriata alla figura del custode e più in particolare al suo compito di sovrintendere alla conservazione del bene. Le argomentazioni di cui sopra conducono ad una conclusione di notevole rilievo in ordine ai criteri per determinare il compenso in maniera proporzionata alla natura e alla consistenza dei beni e delle attività svolta dal custode/amministratore. È infatti noto che ai sensi degli artt. 58 e 59 del DPR 115/2002 le tariffe relative alle indennità di custodia sono devolute a un decreto ministeriale e in mancanza agli usi locali. È noto, altresì, che il decreto ministeriale 256/2006 unico a provvedere un tariffario, contempla soltanto alcuni beni (motocarri, autoveicoli, motoveicoli e natanti) e che per gli immobili di cui al sequestro in questione, non vi sono usi locali che determinano le indennità di custodia. Non può allora che farsi ricorso ad un criterio di liquidazione secondo equità che, a parere del giudicante, deve prescindere dalle tariffe stabilite dagli ordini professionali, in quanto tutta la normativa in tema di custodia, così come di perizia e di consulenza tecnica, si scosta notevolmente dalle tariffe professionali, stante la diversità ontologica tra i compensi per attività chieste liberamente da privati e i compensi per attività costituenti un incarico di carattere pubblicistico. Prova di tale conclusione sta proprio nella necessità che il legislatore ha sentito di devolvere ad un decreto, non ancora emesso, un tariffario che, se avesse voluto, avrebbe potuto identificare con quello della categoria professionale. Alla stregua di tale considerazione, considerato il tempo della custodia, nonché la diligenza e la puntualità con la quale la stessa è stata espletata, ma anche la natura e la consistenza del patrimonio amministrato e la relativa semplicità degli interventi gestionali spiegati, si stima equo determinare l’indennità in euro 30.000,00” e non 72.000,00!!

Tutto ciò sta a dimostrare che spesso e volentieri vi è una certa complicità tra magistrati ed ausiliari a speculare sulle disgrazie di chi, poi spesso, è prosciolto dalle accuse.  Caso limite  e quello di Giuseppe Marabotto. Come racconta “La Stampa” ed altri organi d’informazione, Giuseppe Marabotto era scampato a un primo processo per un serio reato (aveva rivelato a un indagato che il suo telefono era sotto controllo). Chiacchierato da molti anni e divenuto procuratore di Pinerolo, ha costruito in una tranquilla periferia giudiziaria un regno personale e il malaffare perfetto per chi, come lui, si sentiva impunito stando dalla parte della legge: 11 milioni di euro sottratti allo Stato sotto forma di consulenze fiscali seriali ed inutili ai fini di azioni giudiziarie. Si sapeva dal 2005. Si sa anche che i commercialisti e consulenti della procura restituivano a un suo collettore il 30 per cento. «Ci sono spese da sostenere» veniva detto loro. In tre hanno confessato. Pesanti le accuse: corruzione, associazione per delinquere, truffa aggravata ai danni dello Stato. Per questo motivo anche a Taranto si augura lunga vita professionale al Presidente del Tribunale di Taranto, Antonio Morelli, anche perché il pensiero corre ai custodi giudiziari nominati per lo spegnimento degli impianti ILVA. Si pensi un po’, prendendo spunto da quanto suddetto ed adottando i criteri di liquidazione del GUP, quanto a questi sarà riconosciuto come compenso?»

Tortora, Sallusti. E Giangrande?

Enzo Tortora, icona dell’ingiustizia in Italia: un esempio per nulla. E poi Alessandro Sallusti esempio inane di ritorsione censoria. Ma perché nessuno parla di Antonio Giangrande?

«Questa è un’Italia ipocrita e dissimulatrice. - spiega il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it , e scrittore-editore dissidente che proprio sul tema ha scritto e pubblicato “Italiopolitania, Italiopoli allo sbaraglio”.  La premessa alla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Uno tra i 40 libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare – Si parla sempre a sproposito di meritocrazia, ma nulla si fa contro le rendite di posizione. Ruoli, funzioni ed incarichi pubblici immeritati? No! Meglio parlare sempre e solo di crisi e di soldi o sparlare di quella politica stantia che gli italioti votano e sempre voteranno. Il solito populismo sempre in cerca di una competenza ed onestà di parte. Periodicamente si parla di Enzo Tortora come icona dell’ingiustizia e di tutti coloro che scontano da innocenti le pene dell’inferno in carcere:  “Silvia mia carissima questo, te lo confermo, è un paese infame. Io sono, certe volte, proprio disperato. In questo paese non succede nulla. E’ questo che mi avvelena e mi dispera. Una ad una le speranze di una rigenerazione morale se ne vanno. Una Stampa stupida, serva, incline solo al pettegolezzo ed ai circensi. Aliena ai problemi veri e reali. Uno spettacolo immondo. Sono deluso Silvia. Mi pare di aver gettato via la mia vita e debbo fare anche autocritica. Credevo nella legge, nei magistrati e nelle istituzioni. Quello che non si sa è che una volta gettati in galera non si è più cittadini, ma pietre. Pietre senza suoni, senza voce, che a poco a poco si ricoprono di muschio. Una coltre che ti copre con atroce indifferenza. Ed il mondo gira: indifferente a quest’infamia.” (lettere di Enzo Tortora alla figlia Silvia). Enzo Tortora un martire che illumina le battaglie per la responsabilità dei magistrati, che i manettari non vogliono. Poi si è passati a parlare di Alessandro Sallusti come la vittima esemplare della ritorsione censoria del potere giudiziario. Un esempio per tutti i giornalisti liberi e coraggiosi che scrivono anche contro i magistrati, denunciandone abusi ed omissioni. Ma la Cassazione smentisce sé stessa pur di irrorare una pena esemplare: punire uno per tacitarne mille. La sentenza 19985 del 30 settembre 2011 della terza sezione della Cassazione parlava di «immediata rilevanza in Italia delle norme della Convenzione europea dei diritti dell'uomo», di «obbligo, da parte del giudice dello Stato, di applicarle direttamente» e di «tenere presente l'interpretazione delle norme contenute nella Convenzione che dà la Corte di Strasburgo attraverso le sue decisioni». Ma cosa dicono la Convenzione e la Corte Europea si chiede “Il Giornale”? Innanzitutto, stabiliscono un principio cardine e fondamentale: nessun giornalista può andare in carcere per il reato di diffamazione. L'assunto è stato ribadito nella sentenza del 2 aprile 2009 nella quale la Corte di Strasburgo ha condannato la Grecia a risarcire il giornalista Kydonis perché «le pene detentive non sono compatibili con la libertà di espressione» e perché «il carcere ha un effetto deterrente sulla libertà dei giornalisti di informare con effetti negativi sulla collettività che ha a sua volta diritto a ricevere informazioni». Se ciò non bastasse, la Corte di Strasburgo ha anche sottolineato come la previsione del carcere sia «suscettibile di provocare un effetto dissuasivo per l'esercizio della libertà di stampa». Anche la Corte Costituzionale è stata snobbata. Nella sentenza 39/2008, la Consulta aveva stabilito che «le norme della Convenzione europea devono essere considerate come interposte e che la loro peculiarità, nell'ambito di siffatta categoria, consiste nella soggezione all'interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l'eventuale scrutinio di costituzionalità, sono vincolati a uniformarsi». Concetto espresso anche dal Consiglio d'Europa. A questo punto, anziché indignarsi contro i magistrati, monta l’antipolitica e lì la stampa a cavalcare l’indignazione sugli sprechi dei politici. Dallo spreco e dall’approfittamento si passa direttamente a parlare di corruzione. I giustizialisti ed i manettari sviano i temi forti e sono sempre lì pronti a crocifiggere tutti coloro che sono, addirittura, colpiti solo da un rinvio a giudizio. Tapini loro che si beano della loro ignoranza o dissimulano la loro malafede. Loro non sanno, o fanno finta di non sapere, che ben pochi sono coloro che hanno il privilegio di subire un giudizio, rispetto a milioni di denunce, che spesso ci si astiene dal presentare per l’improvvida conclusione (insabbiate o archiviate), e che il Gip-Gup non è altro che la “Longa Manu” del Pubblico Ministero. Spesso tali rinvii a giudizio sono per reati bagatellari commessi da poveri cristi o per reati di opinione. Molte volte tali giudizi si risolvono in assoluzioni o proscioglimenti in senso lato. Quasi mai si procede per abuso d’ufficio: il reato dei poteri forti. Ergo: l’arma pretestuosa della giustizia per discernere i buoni (ricchi e potenti) dai cattivi (poveri ed analfabeti); gli amici (di sinistra) dai nemici (di destra). In questo stato di appannamento mentale, influenzato dalla crisi, che addita i politici della fazione opposta come causa di tutti mali, c’è chi racconta una realtà diversa. Antonio Giangrande è il portavoce nel mondo in video ed in testi (non icona, non esempio) di chi in questa Italia bigotta voce non ha. Rappresenta centinaia di migliaia di candidati non idonei ai concorsi pubblici truccati, denunciandone le anomalie: per questo da 15 anni avvocati e magistrati non lo abilitano alla professione forense. Gente, che lui ha denunciato, solo in 2 minuti giudica i suoi elaborati, lasciandoli immacolati ed immotivati. Elaborati tecnici che, a parte le operazioni ante e post, si leggono con la dovuta attenzione in non meno di 10 minuti. Egli rappresenta centinaia di migliaia di innocenti in carcere, raccontando della malagiustizia che rende il sistema inefficiente e facendo conoscere singole storie di ordinaria ingiustizia che altrimenti rimangono nell’oblio. Egli, a parte ciò, racconta l’Italia per quella che è, approfondendo tutte le problematiche che l’attanagliano. Ma non senza, però, dal presentare al mondo con la sua “Tele Web Italia” la bellezza di cui la penisola è composta. Egli discerne l’Italia dagli italiani. Per questo i suoi siti web di informazione vengono chiusi e lui accusato del reato di diffamazione a mezzo stampa. Peccato però, che a differenza di Alessandro Sallusti, egli in sentenza è sempre dichiarato estraneo ai fatti. Non innocente, ma estraneo ai fatti incriminati. Già. Ma, stante l’utilità sociale del suo operato e le ritorsioni subite, perché di Antonio Giangrande nessuno ne parla?»

TARANTO, QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

"L’Ilva sta chiudendo, il Taranto è fallito e neanche la birra Raffo si sente molto bene”. Parafrasa Woody Allen lo scrittore Giuliano Pavone, tarantino trapiantato a Milano che ha raccontato con ironia le varie anime della sua città d’origine nel romanzo “L’eroe dei due mari” (Marsilio). I ministri che si sono trovati a Taranto hanno trovato infatti una città in crisi d’identità. Il famigerato caso Ilva viene percepito come culmine di un progressivo smottamento delle certezze dei tarantini: la produzione di cozze è fortemente limitata dall’inquinamento marittimo; la squadra di calcio è fallita; la birra locale resiste sugli scaffali da quasi cent’anni ma, nonostante il recente inserimento nel logo dell’eroe eponimo Taras, l’acquisizione del marchio da parte della Peroni e la chiusura dello stabilimento cittadino sembrano ancora una ferita aperta. Dai giornali traspare l’immagine di una città tramortita e spaccata, in cui c’è chi protesta contro il sequestro dell’Ilva e chi protesta a favore. “Questa però è in buona parte una forzatura mediatica”, precisa Pavone. “Al contrario, credo che un aspetto positivo di questa vicenda sia proprio il necessario abbandono di certi opposti estremismi e il riavvicinamento dei due schieramenti: gli ambientalisti sono solidali con gli operai e questi ultimi non dimenticano mai di spendere una parola per l’ambiente. Questa ragionevolezza è per certi versi sorprendente, considerando l’estrema delicatezza della situazione, e credo che vada sottolineata in positivo”, dichiara ad Antonio Gurrado sul "Foglio". “D’altra parte è inevitabile: credo che in ogni famiglia ci sia un lavoratore dell’Ilva e contemporaneamente ogni famiglia sconta in qualche modo i danni che la grande industria porta con sé”. Meno ottimista, o più ottimista a seconda della prospettiva, è l’autore Maurizio Cotrona, ministeriale tarantino a Roma e collaboratore del webmagazine Bombacarta fondato da padre Antonio Spadaro. Nel suo romanzo “Malafede” (Lantana) Taranto è un lontano ricordo del protagonista, una specie di male necessario da frequentare il meno possibile. “L’Ilva è stata un alibi extralarge per i tarantini”, dice Cotrona al Foglio. “Negli ultimi trent’anni questo gigante siderurgico ha ridotto all’osso la possibilità di usare un margine di crescita con concretezza, fantasia ed entusiasmo”. Quindi, se l’Ilva sparisse con un colpo di bacchetta magico-giudiziaria, sarebbe meglio? “Personalmente respiro meglio solo all’idea. Superata la monocoltura dell’acciaio, Taranto potrà finalmente resistere alla tentazione dello scetticismo e cercare di darsi una dimensione sostenibile con un mix economico fatto di turismo, mitilicoltura, terziario avanzato e di molte altre cose che oggi non riusciamo nemmeno a immaginare”. Non è del tutto d'accordo Cosimo Argentina. Tarantino anche lui, professore in Brianza da vent’anni, nei suoi romanzi ha descritto una Taranto infernale e celiniana, un buco nero che divora anche chi è riuscito a trasferirsi altrove. In tempi non sospetti, Argentina ha dedicato all’Ilva il suo ultimo romanzo “Vicolo dell’acciaio” (Fandango). “Io stesso sono un prodotto del siderurgico perché mio padre lavorava all’Italsider”, rivela al Foglio. “Se l’Ilva non ci fosse più verrebbe fuori una nuova generazione non solo impoverita ma anche costretta a reinventarsi, con vantaggi e svantaggi: basta pensare alla parte di tessuto sociale estraneo alla fabbrica ma che da decenni si appoggia sulle commesse industriali. Il fatto è che, quando ci lavorava mio padre, decine di migliaia di famiglie campavano con l’Italsider mentre oggi sono molte meno; e soprattutto, indipendentemente dalla magistratura, prima o poi si arriverà a una chiusura dettata dalla concorrenza globale. L’acciaio dell’Ilva presto sarà improduttivo a fronte dei competitori extraeuropei, e il benessere creato dall’industrializzazione verrebbe meno comunque”. La questione centrale sembra essere proprio l'identità cittadina. Oggi Taranto ha più di 200.000 abitanti, spiega Cotrona, “ma dopo un decennio di smottamenti riscoprirà la voglia di essere una bella piccola città, da 70-80.000 abitanti, com’era prima dell’arrivo del Leviatano”. Argentina concorda: “Senza Ilva i tarantini dovrebbero riambientarsi in una città diversa, più piccola, riscoprendone la vocazione iniziale ossia la pesca, la Marina Militare”. Il discorso però, secondo Argentina, deve necessariamente trascendere l’Ilva: “Oltre al siderurgico e alla marina, a Taranto ci sono l’Eni e la Cementir, ma c’è anche un alto tasso di disoccupazione. Evidentemente qualcosa non quadra nel sistema: la grande industria non ha consentito lo sviluppo del microtessuto sociale, come invece è stato possibile nel Salento che qualche decennio fa era molto più arretrato di noi. Oggi invece il Salento brulica di turisti italiani e stranieri mentre gli stabilimenti della costa tarantina sono semivuoti. L’eventuale turista si domanda: perché dovrei andare in vacanza nella Manchester d’Italia?”. Rincara Pavone: “Anche se l’Ilva non chiudesse, Taranto dovrebbe comunque pensare a un’alternativa: è da decenni che il siderurgico non riesce a sopperire alla crisi occupazionale, e dai cittadini l’Ilva viene percepita più come ‘posto’ che come effettivo elemento di identificazione”. Fatte le debite proporzioni, non è peregrino azzardare un parallelo fra il caso Ilva e la vicenda pirandelliana della squadra del Taranto, attorno alla quale – negli anni gloriosi e tragici di Erasmo Iacovone, il cannoniere morto in un incidente stradale nel 1978 – si era orgogliosamente cementata l’identità cittadina. Nell'estate 2012 il Taranto è passato dalla mancata vittoria del campionato di Prima Divisione (l’ex C1) ai festeggiamenti per un ripescaggio in serie B rivelatosi poi uno scherzo di dubbio gusto, e infine al fallimento della società che a settembre ripartirà dai Dilettanti: un’altalena fra illusione e delusione che ricorda l’atteggiamento ambivalente dei tarantini nei confronti del siderurgico, foriero di lavoro e degrado, benessere e malattia al tempo stesso. “Però mi piacerebbe pensare che il parallelismo vada fatto con le modalità che hanno portato alla rinascita del club piuttosto che al fallimento”, argomenta Pavone. “I tifosi hanno dato vita a un’associazione di promozione sociale, la Fondazione Taras 706 a.C., che ha creato la nuova società sportiva lavorando con istituzioni e imprenditoria perché si arrivasse entro il tempo limite all’iscrizione in serie D, evitando la scomparsa del club. Il nuovo Taranto è la prima squadra di calcio in Italia fondata dai suoi tifosi. Nella realtà tarantina, storicamente caratterizzata da inerzia e individualismo, quest’esperienza di democrazia partecipata fa ben sperare”. Sarà possibile esportare sull'Ilva il modello calcistico, con una sinergia fra popolazione, istituzioni e impresa? Argentina è scettico: “Non so, ho fatto un recente giro delle associazioni culturali e civiche, giornali locali eccetera, e ognuna sembrava convinta di essere l’unica ad agire bene in città. E poi la nuova squadra del Taranto è improvvisata, ha prospettive abbastanza nere: non si vincono le partite solo col blasone e col nome di una squadra che è stata dodici anni di fila in B. Questo è indubbiamente un tratto comune fra calcio e industria”, dice al Foglio. “E poi l’Ilva, la squadra e la città hanno un nesso originario, una specie di maledizione: è come se il tarantino dovesse sempre pagare un conto più salato degli altri per quello che ottiene. Il presidente del Taranto che ha investito di più è lo stesso che l’ha portato al fallimento. Per cinquant’anni l’industrializzazione ha arrecato una specie di benessere però inscindibile dall’inquinamento. Entusiasmo e declino simultanei sembrano scritti nel destino della città e sono legati a un immobilismo, questo sì molto tarantino, che trascina con sé l’assenza di coesione”. La storia recente ha dunque fatto di Taranto una città contraddittoria, dai facili entusiasmi e dagli altrettanto facili scoramenti. Nel suo romanzo Pavone narra la parabola di Luis Cristaldi, il campione più forte della Serie A che fa voto di giocare una stagione in riva allo Ionio. La città intera gli si affida ciecamente, tanto che qualcuno scrive su un muro: “Cristaldi fa’ tu”; ma quando le cose volgono al peggio, una mano anonima trasforma la scritta in “Cristaldi fangù”. Chissà se può valere anche come metafora per l’Ilva. Pavone, se non altro, intravede una nota di speranza, ritenendo che l’affaire giudiziario possa paradossalmente ricompattare la città: “La spaccatura maggiore in realtà è fra chi tifa per la chiusura e chi invece crede che lavoro e ambiente possano essere conciliabili. Ormai però quasi tutti i tarantini sono consapevoli che stavolta o si vince o si perde tutti insieme”. Vedremo.

Intanto ciò che appare è chi è causa del suo mal pianga sè stesso.

Conclusa la tornata elettorale del 6 e 7 maggio 2012, analizzando i risultati usciti dalle urne a Taranto si possono trarre le seguenti considerazioni:

  • il 70,58% degli elettori di Taranto non riconosce Ippazio Stefano sindaco della città;

  • nei quartieri Tamburi, Città vecchia e Borgo vi è stato un maggiore astensionismo, probabilmente anche a causa di una più alta presenza di anziani. Ciò dovrebbe far riflettere che forse organizzare un servizio di accompagnamento ai seggi elettorali convincerebbe e aiuterebbe questi cittadini ad esprimere il proprio voto per chi deve amministrare la città;

  • il peso sempre maggiore che i quartieri periferici Paolo VI e Lama/Talsano/San Vito vanno assumendo rende necessario per chi intende proporsi a guida della città un’attenzione maggiore per la soluzione dei loro problemi. Sarebbe comunque utile fermare questa espansione verso le periferie che comportano dei costi sempre più crescenti per l’amministrazione comunale e per le aziende municipalizzate ad essa collegata;

  • la perdita di consensi dei partiti politici (il più suffragato rappresenta appena l’8,8% degli elettori). Si pensi che i vecchi partiti: “Democrazia Cristiana e Partito Comunista” insieme sommavano quasi l’80% dei consensi;

  • l’eccessivo numero di liste e conseguentemente di candidati denota come la società tarantina sia frammentata e molto individualista. Questo è l’aspetto più negativo emerso dal voto e sul quale bisogna fare un serio esame. Taranto deve crescere come comunità, favorendo una cultura associativa capace di fare sistema;

  • i cittadini di Taranto non hanno premiato i movimenti ambientalisti. La certezza del pane ha prevalso su ogni altra considerazione. Ma sul tema dell’ambiente la guardia di tutti i cittadini deve essere altissima. Ricordiamoci di quello che è successo in passato in altre zone dell’Italia (Casal Monferrato – fabbrica Eternit) dove le polveri di amianto, la cui nocività, in un primo tempo sottovalutata, ha prodotto la morte di tanti lavoratori e abitanti del paese. E’ indispensabile che la cittadinanza prenda coscienza che Taranto deve cominciare da subito a diversificare la propria economia con lo scopo in un futuro non molto lontano di potersi affrancare dalla grande industria inquinante.

Il panorama ambientalista di Taranto è variegato ed appare come una galassia di individualità che si arrogano una sorta di primogenitura composto da diversi ambientalisti di diverse realtà. A Taranto il voto, che ha portato all’exploit della galassia ambientalista ascesa al 7.60 per cento dall’1.95 di cinque anni prima della federazione dei Verdi, è quindi in parte inquinato. In virtù dei 7241 voti guadagnati come raggruppamento di liste, gli ecologisti saranno presenti nel prossimo consiglio comunale con tre consiglieri, Bonelli compreso. Il candidato sindaco, Bonelli, ha sovrastato le sue liste raccogliendo sul piano personale 12.277 consensi, a dimostrazione che migliaia di tarantini hanno preferito altri gruppi, ma hanno coagulato sul suo nome il voto d’opinione.

Nell'estate 2012, durante la sospensione delle udienze riguardanti il processo sul delitto di Sarah Scazzi, i fari mediatici sono stati puntati sul caso ILVA. Di ripiego, come per colmare un buco. E’ come la pubblicità che interrompe un film, anche se di tutt’altra importanza per le sorti del territorio. Ma anche questo serve a far capire il sistema giustizia a Taranto.

Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” ci ricorda che accadde tutto, anzi di tutto, il 26 agosto 2010. L’omicidio di Sarah Scazzi. L’incendio doloso a Castellaneta in cui persero la vita un uomo e la sua figlioletta di 5 anni. La visita al sostituto procuratore Mariano Buccoliero, di turno quel giorno, di due dei tre periti incaricati di verificare, su incarico del magistrato, da dove provenga la diossina che ha avvelenato migliaia di capi di bestiame. Il professor Lorenzo Liberti, indagato a piede libero assieme a tre dirigenti Ilva per corruzione in atti giudiziari, e il dottor Roberto Primerano, consulente della Procura al pari di Liberti, il 26 agosto del 2010, seguiti dalla Guardia di Finanza, si incontrano in un bar nei pressi di Palazzo di giustizia prima di far visita al dottor Buccoliero. I finanzieri, nell’ambito dell’indagine denominata «Ambiente venduto», ascoltano il colloquio dei due. Primerano dice a Liberti di non essere convinto riguardo ai parametri utilizzati per i valori del Pcb e della diossina. Liberti, però, vuole agire in fretta. La richiesta di incidente probatorio presentata dalla Procura alla fine di giugno 2010 lo preoccupa, perché teme che gli inquirenti abbiamo deciso di agire con la formula dell’incidente probatorio in quanto non si fidano più dei tre consulenti incaricati di fare la perizia. L’esplosione del caso Scazzi tranquillizza i tre periti. In una telefonata del 19 ottobre 2010, a quattro giorni dall’arresto di Sabrina Misseri, il professor Liberti, riferendosi alla Procura, dice «loro per adesso sono impegnati con la vicenda di Avetrana» e dunque non c’è alcun motivo di preoccupazione. Se sembra ormai destinata a non riservare ulteriori scossoni l’inchiesta sull’episodio di corruzione in atti giudiziari, per i quali sono indagati il professor Lorenzo Liberti, il vicepresidente del gruppo Riva Fabio Riva, l’ex direttore dello stabilimento Ilva Luigi Capogrosso e l’ex consulente Girolamo Archinà, l’uomo che avrebbe materialmente consegnato una busta bianca contenente 10mila euro a Liberti (il docente ha sempre respinto ogni addebito e la stessa Ilva sostiene che i soldi di cui si parla in alcune telefonate erano in realtà destinati alla diocesi di Taranto per la Pasqua 2010), c’è attesa per il troncone principale di «Ambiente venduto», indagine di cui è titolare il Pm Remo Epifani e che vedrebbe iscritti nel registro degli indagati una ventina tra politici e funzionari di enti pubblici, con reati ipotizzati molto gravi che vanno dall’associazione a delinquere alla corruzione, passando per la concussione. Sono state fissate le date dell’incidente di esecuzione (28 agosto) e delle udienze dei due ricorsi al Tribunale dell’appello (18 settembre) chiesti dall’Ilva riguardo ai provvedimenti del gip Patrizia Todisco relativi alla ridefinizione dei compiti dei custodi giudiziari e della revoca del presidente Bruno Ferrante proprio dal ruolo di custode. Con l’incidente di esecuzione, i legali dell’Ilva chiedono al Tribunale del Riesame (presidente Pietro Genoviva, giudici Paola Morelli e Filippo Di Todaro) quale titolo prevalga, se appunto quello del Riesame che nominava Ferrante, o quello del gip Todisco che lo ha revocato.

E giù la città di Taranto a sostenere la Todisco che vuol chiudere l’ILVA. Città di Taranto che non vede di buon occhio quella fabbrica che inquina e che dà lavoro perlopiù ai ragazzi provenienti dai paesi della provincia. Forse fatti entrare nel siderurgico proprio su spinta di politici e parlamentari non certo della città di Taranto. Taranto, la cui caratura e rappresentanza politica è pari a zero, però viene zittita. Quella Taranto che veniva foraggiata da regalie di ogni tipo. C’è la banda di Crispiano e la parrocchia Santi Angeli Custodi di Taranto. Il Lions club di Taranto e il Politecnico di Bari. Tutti inseriti, insieme a società sportive, comitati festeggiamenti ma anche due note enoteche dalle quali partivano casse di champagne per giornalisti e rappresentanti delle istituzioni ogni fine anno, nelle due pagine della voce «omaggi e regalie» del bilancio dell’Ilva finite nell’inchiesta della Guardia di Finanza per corruzione in atti giudiziari che vede indagati a piede libero il vicepresidente del gruppo, Fabio Riva; l’ex direttore dello stabilimento siderurgico, Luigi Capogrosso; l’ex consulente dell’Ilva per l’ecologia e i rapporti istituzionali, Girolamo Archinà e l’ex consulente della Procura di Taranto, Lorenzo Liberti, già preside del Politecnico. Due pagine, ottanta righe, spiega Giusi Fasano su “Il Corriere della Sera”. Ogni riga una data, un nome e una cifra. C'è la parrocchia dei Santissimi Angeli Custodi (2.500 euro il 19 ottobre 2010), c'è l'Unione italiana per il trasporto degli ammalati a Lourdes (5.000 euro il 23 luglio 2010), compare la Banda municipale del Comune di Crispiano (2.750 euro, il 31 dicembre del 2010), il Lions Club locale (2.500 euro il 15 giugno del 2011), piccole società sportive come la Okinawa karate (4.000 euro il 31 maggio 2011) o la Triton Taranto che si occupa di football (2.000 euro il 30 giugno 2011) o un'associazione tarantina di pattinatori (2.000 euro il 31 luglio del 2011). E poi società per azioni, aziende informatiche, il Politecnico di Bari, centri culturali, un comitato per un non meglio precisato festeggiamento, anche un omaggio floreale da 50 euro, il 5 aprile del 2011. Eccola qui la lista Ilva degli «omaggi e regalie» 2010-2011. Soldi regalati a questo o quello oppure spesi per comprare pacchi dono. Gesti che non comportano alcun reato, ma che secondo la Guardia di finanza indicano quanto elevato fosse il budget a disposizione di Girolamo Archinà, il capo delle relazioni pubbliche dell'azienda accusato di fare pressioni sulle istituzioni per favorire in ogni modo l'acciaieria. E la lista indica anche quanto estesa fosse la rete di contatti «sociali» dell'Ilva nel territorio. Contatti non solo locali, però. “Emilio Riva è il proprietario dell’Ilva, la fabbrica che da anni avvelena Taranto senza che la politica nazionale muova un dito per proteggere i cittadini e far rispettare la legge. Sarà una coincidenza, ma Emilio Riva è anche un grande finanziatore della politica. Uno di quelli che non fanno preferenze e foraggiano un po’ tutti, meno noi dell’Italia dei Valori che non accettiamo finanziamenti dai privati: un miliardo a destra, uno a sinistra e nessuno s’ingrugna”.

E’ quanto scrive sul suo blog il leader dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro. “Mentre appestava il mare, l’aria e la terra di Taranto, Riva donava 245mila euro a Forza Italia e 98mila non al Pd, che allora ancora non esisteva, né ai Ds, ma al futuro ministro dello Sviluppo Economico e futuro segretario del Pd, Pierluigi Bersani. Si trattava di finanziamenti leciti e del tutto regolari. Ma, che il signor Riva, un tipo accorto e ben attento al proprio portafogli, abbia cacciato tutti quei soldi gratis et amore Dei non lo crederebbe nemmeno un bambino: lo scopo era riceverne regalie. Riva si è fatto bene i suoi conti. Ha capito che avrebbe risparmiato milioni di euro intervenendo sul sistema e rendendoselo amico con il denaro, piuttosto che mettendo in sicurezza i suoi impianti e bonificando l’ambiente che aveva inquinato”.

Quella Taranto che per 40 anni ha taciuto ed ora protesta. Un’enorme zona rossa. Inavvicinabile. Come al G8 di Genova.

Sì, Taranto il 17 agosto 2012 sarà una città blindata. Chiusa. Una città in cui sarà di fatto impossibile manifestare e tanto meno sfilare in corteo. A stabilirlo è stato il questore di Taranto, Enzo Mangini, che ha fatto notificare dagli agenti della Digos un provvedimento con il quale viene di fatto annullata la manifestazione promossa e organizzata dal «Comitato cittadini lavoratori liberi e pensanti», lo stesso che lunedì 13 agosto aveva radunato in piazza della Vittoria un migliaio di persone per sostenere l’azione dei magistrati tarantini e in particolare della dottoressa Patrizia Todisco, il gip del Tribunale che a fine luglio ha ordinato il sequestro preventivo dell’area a caldo dell’Ilva; lo stesso comitato che aveva chiesto di poter sfilare in corteo (da piazza Municipio sino alla Prefettura) nella giornata del 17 agosto, quando a Taranto è previsto l’arrivo dei ministri Corrado Passera (Sviluppo economico) e Corrado Clini (Ambiente). Clini ha osservato che «a Taranto c’è un conflitto interno alla magistratura, visto che il Tar aveva valutato troppo severe le indicazioni dell’autorizzazione integrata ambientale, mentre il gip le ha considerate inadeguate».  Ancora più dura è la posizione dell’ILVA. Il gip di Taranto Patrizia Todisco - secondo l’Ilva - ha usurpato poteri propri del tribunale del Riesame e della procura della Repubblica. Lo ha fatto per ben due volte firmando le ordinanze del 10 e 11 agosto. Con la prima ha ordinato all’Ilva di fermare la produzione nei sei reparti a caldo sequestrati il 26 luglio; con l’altra ha revocato al presidente dell’Ilva, Bruno Ferrante, l’incarico di custode e amministratore delle aree sotto sequestro affidatogli dai giudici del Riesame quattro giorni prima.  A mettere nero su bianco le dure accuse al giudice Todisco è proprio il presidente del Siderurgico tarantino nei due appelli che egli stesso ha firmato e che ha voluto depositare personalmente nella cancelleria del tribunale del Riesame, assistito all’avv. Egidio Albanese. Il tribunale del riesame con le motivazioni ha confermato il sequestro degli impianti a caldo dell'Ilva, ma non la cessazione dell’attività. Il Riesame non ha concesso la facoltà d'uso, che peraltro - viene sottolineato - non era stata richiesta neppure dai legali del Siderurgico. Inoltre, dispone che «non si continuino a perpetrare i reati contestati nel provvedimento cautelare» e che si elimini «la fonte delle emissioni inquinanti» per «mantenere l'attività produttiva dello stabilimento», solo dopo averla resa «compatibile» con ambiente e salute. Secondo i giudici il «disastro» prodotto dall'Ilva è stato «determinato nel corso degli anni, sino ad oggi, attraverso una costante reiterata attività inquinante posta in essere con coscienza e volontà, per la deliberata scelta della proprietà e dei gruppi dirigenti». Questi «hanno continuato a produrre massicciamente nella inosservanza delle norme di sicurezza dettate dalla legge e di quelle prescritte, nello specifico dai provvedimenti autorizzativi». In un'altra parte del loro provvedimento i giudici del Riesame, sullo stesso tema, annotano: «Dalle varie parti dello stabilimento vengono generate emissioni diffuse e fuggitive non adeguatamente quantificate, in modo sostanzialmente incontrollato e in violazione dei precisi obblighi assunti dall'Ilva, nella stessa Aia e nei predetti atti d'intesa, volti a limitare e ridurre la fuoriuscita di polveri e inquinanti». Il disastro ambientale doloso prodotto dall'Ilva - prosegue il teso - è «ancora in atto» e «potrà essere rimosso solo con imponenti e onerose misure d'intervento, la cui adozione, non più procrastinabile, porterà all'eliminazione del danno in atto e delle ulteriori conseguenze dannose del reato in tempi molto lunghi». «Lo spegnimento degli impianti - proseguono i giudici - rappresenta, allo stato, solo una delle scelte tecniche possibili. Non è compito del tribunale stabilire se e come occorra intervenire nel ciclo produttivo (con i consequenziali costi di investimento) o, semplicemente, se occorra fermare gli impianti, trattandosi di decisione che dovrà necessariamente essere assunta sulla base delle risoluzioni tecniche dei custodi-amministratori, vagliate dall'autorità giudiziaria: per questo lo spegnimento degli impianti rappresenta, allo stato, solo una delle scelte tecniche possibili».

Mentre gli ambientalisti che si battono per la chiusura dello stabilimento, la pensano in modo diverso, anche travisando le parole. «Le motivazioni del Riesame - è scritto in una nota firmata da Alessandro Marescotti, presidente di Peacelink Taranto, e Fabio Matacchiera, del Fondo Antidiossina Taranto Onlus - sono chiarissime: la produzione dell'Ilva va fermata perché è un pericolo per la salute. È esattamente quanto sostenevamo noi. Non era difficile interpretare il testo in italiano del dispositivo del tribunale del Riesame. E, tuttavia, da parte di Vendola e di Clini, vi era un susseguirsi di dichiarazioni forse fatte appositamente per confondere le acque. Sembrava che non volessero capire». L'Autorizzazione integrata ambientale, affermano ancora gli ambientalisti, «andrà rilasciata a impianti fermi e adottando solo le migliori tecnologie, sempre per chi nutra ancora la speranza, per noi a questo punto vana, considerando che un impianto di siffatte dimensioni e vicinanza alla città, possa essere mai ecocompatibile». Ambientalisti uniti nell'intento di far chiudere l'ILVA

Antonio Giangrande, scrittore che proprio su Taranto ha scritto un libro su questioni che nessuno osa affrontare e presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” sodalizio nazionale antiracket ed antiusura che proprio a Taranto ha la sua sede legale, si chiede perché i magistrati, i partiti di sinistra, gli ambientalisti ed i cittadini di Taranto tutti a difendere il Gip Patrizia Todisco, che ha adottato atti a rischio di abnormità, e nessuno difende le prerogative violate del Tribunale del Riesame composto dal presidente Antonio Morelli, che è anche presidente del tribunale di Taranto, e dai giudici a latere Rita Romano e Benedetto Ruberto? Tribunale del Riesame che sembra apparire un optional nel caso ILVA e non un organo sovraordinato per legge a giudicare merito e legittimità delle decisione del Gip?

«Il collegio del riesame non ha bisogno di essere difeso, tantomeno da me – dice il dr Antonio Giangrande – che dovrei essere l’ultimo a farlo per grave inimicizia con i suoi componenti. Ma sembra che sia proprio costretto a farlo.  Il Gip di Taranto Patrizia Todisco, il 10 e l'11 agosto 2012, ha, rispettivamente, ribadito il sequestro degli impianti e revocato la nomina di Bruno Ferrante a curatore dello stabilimento disposta dal Tribunale del riesame. Nel mirino c'è soprattutto il secondo provvedimento che sembra avere profili di «abnormità» sia perché è stato preso d'ufficio – mentre il Gip può intervenire soltanto su richiesta – sia perché sancisce l'incompatibilità tra la posizione di custode e quella di amministratore che il Tribunale aveva conferito a Ferrante il 7 agosto e che la Todisco ha revocato senza aspettare le motivazioni del Riesame. Da questo punto di vista, anche il primo provvedimento potrebbe essere considerato intempestivo perché interpreta la decisione del Riesame solo sulla base del dispositivo, senza conoscerne ancora le motivazioni. Gli errori interpretativi possono essere impugnati e, in caso di provvedimenti abnormi, si può ricorrere direttamente in Cassazione. Perché questa alzata di scudi a favore della Todisco? In ogni caso, la Todisco ha incassato solidarietà e stima da molti suoi colleghi e dall'Anm, che l'ha difesa ad oltranza. Non solo. Anche alcuni membri del CSM hanno promosso un’azione di tutela a favore della Todisco. Una richiesta di pratica a tutela del giudice per le indagini preliminari di Taranto, Patrizia Todisco è stata presentata dai componenti del Consiglio superiore della magistratura: Guido Calvi, Paolo Carfì e Francesco Vigorito. Il primo, membro laico del Pd e gli altri due, togati di Area (il cartello di Magistratura democratica e Movimenti per la Giustizia). Così racconta Antonella Mascali per “Il Fatto”. Palazzo dei Marescialli è chiuso per ferie, ma i tre consiglieri si sono sentiti al telefono, hanno commentato le reazioni scomposte che si sono susseguite dopo che la giudice ha confermato la chiusura degli impianti dell'Ilva, e ha destituito il presidente, Bruno Ferrante da custode dell'area sotto sequestro, e hanno deciso di inviare una richiesta di pratica a tutela al Comitato di presidenza del Csm. Nella breve lettera fanno riferimento a una "campagna stampa" dai toni "lesivi del prestigio della magistratura e dell'indipendenza...tali da determinare turbamento alla credibilità della funzione giudiziaria". Nella richiesta non c'è un riferimento specifico a quali giornali si riferiscano, ma il primo pensiero va al titolo apparso sul sito del quotidiano Libero, il 13 agosto: "Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa (per i capelli) che licenzia 11 mila operai Ilva". Anche Il Giornale se l'è presa con la magistratura: "Le toghe si accaniscono. Produzione ferma all'Ilva ma l'azienda fa ricorso". Nelle mailing list dei magistrati ogni giorno si possono leggere decine di messaggi in solidarietà con la giudice. Proprio in merito al titolo di Libero, un magistrato (uomo) ha scritto: " In questo momento di crisi economica , di disoccupazione, di famiglie disperate e di suicidi, è un insulto ignobile, volgare e pericoloso". E un altro magistrato (donna): "se il gip di Taranto fosse stato uomo non avrebbero certamente fatto riferimento alla stato civile del giudice. Ed invece, oltre ad esserci il riferimento, lo stato é tradotto in un'accezione, secondo alcuni, offensiva: zitella. Perché una donna, sopratutto se non giovanissima, é zitella, non ‘single'. Purtroppo é il quid pluris che accompagna noi donne se svolgiamo un ruolo ‘non tradizionale'". Nella richiesta al Comitato di presidenza del Csm, che da prassi è sempre generica (a settembre 2012 entrerà nel merito la competente Prima commissione) non ci sono riferimenti alle prese di posizione del governo di questi giorni. Palazzo Chigi ha paventato un ricorso alla Corte costituzionale e un decreto legge, pur di neutralizzare l'ordinanza del gip Todisco. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Antonio Catricalà, il 13 agosto 2012, ha dato voce all'intenzione del governo di sollevare un conflitto davanti alla Corte costituzionale: "alcune volte queste sentenze non sembrano proporzionate rispetto al fine legittimo che vogliono perseguire e quindi noi chiederemo alla Corte costituzionale di verificare se non sia stato menomato un nostro potere: il potere di fare politica industriale". In contemporanea, il ministro della Giustizia, Paola Severino ha chiesto le carte del gip, ravvisando una possibile "abnormità". Ma sia il ricorso alla Consulta sia il decreto legge, di cui si è vociferato immediatamente dopo le decisioni di Todisco sono tramontati. Anche se il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, da Taranto ha addossato ai magistrati una responsabilità che è della politica: "si convinca la magistratura ad aiutare il processo di ammodernamento dell'Ilva, in modo tale che l'azienda sia totalmente in linea con le regole, ma che questo non porti alla chiusura dello stabilimento. In una fase così iniziale della procedura giudiziaria sarebbe per noi sbagliato che venissero prese delle decisioni, quelle sì irreversibili, che potrebbero causare un danno non più recuperabile...". L'associazione nazionale magistrati ha difeso Patrizia Todisco dalle accuse dell'esecutivo di aver travalicato i confini: "la magistratura non intende invadere l'ambito di competenza di altre autorità, ma, in presenza di violazioni della legge penale, non può fare a meno di intervenire, con gli strumenti giudiziari ordinari, ove gli organi amministrativi di controllo non siano riusciti ad assicurare negli anni la tutela ambientale, con gravissimo rischio per la salute dei cittadini". Colleghi, membri del CSM ed ANM che non ha avuto lo stesso atteggiamento con i magistrati del Tribunale riesame. Nessuna parola in loro favore. Tutto comincia il 25 luglio, con il sequestro firmato appunto dal Gip Todisco a cui segue, il 7 agosto, la decisione del Tribunale del riesame: i giudici Antonio Morelli, Rita Romano e Benedetto Ruberto, «in parziale modifica del decreto di sequestro preventivo», nominano «custode e amministratore delle aree e degli impianti sequestrati» anche il presidente dell'Ilva Ferrante, revocando Mario Tagarelli nominato in precedenza dalla Todisco. Poi dispongono che «i custodi garantiscano la sicurezza degli impianti e li utilizzino in funzione della realizzazione di tutte le misure tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo e dell'attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni inquinanti». Fine. A molti viene il dubbio se, con queste parole, il Tribunale abbia confermato il blocco degli impianti oppure no, consentendolo solo per la messa in sicurezza dell'Ilva. Bisogna attendere il deposito delle motivazioni. Ma il 10 agosto, a seguito di una richiesta di direttive e indicazioni dei custodi, il Gip dà la sua interpretazione: non è prevista «alcuna facoltà d'uso degli impianti a fini produttivi». Quanto a Ferrante, ne ridimensiona i poteri di custode-amministratore conferitigli dal Tribunale e lo indica come «datore di lavoro» ai sensi della legge sulla sicurezza sul lavoro. A quel punto, un'agenzia Ansa dell'11 agosto, alle 16,43 riferisce che Ferrante «impugnerà immediatamente» il provvedimento. Il Gip la legge, va in ufficio, accende il computer e scrive che «le circostanze rendono manifesta l'incompatibilità del presidente del Cda con l'ufficio pubblico di custode e amministratore delle aree e degli impianti» dell'Ilva sottoposti a sequestro preventivo «stante il palese conflitto tra gli interessi» di cui Ferrante è portatore, in quanto amministratore e legale rappresentante dell'azienda, «e gli obblighi gravanti sui custodi e amministratori dei beni in sequestro». Gli revoca la nomina e rimette Tagarelli, cioè rovescia la decisione del Riesame, senza aspettare di leggerne le motivazioni. Senza prender posizione sul merito, ma a fil di diritto perché nessuno difende il tribunale del Riesame che sembra apparire un optional nel caso ILVA e non un organo sovraordinato per legge a giudicare merito e legittimità delle decisione del Gip? Decisioni del Tribunale del Riesame che possono essere impugnati e riesaminate solo dalla Corte di Cassazione.»

ILVA. LA GRANDE TRUFFA. TARANTO, IN CHE MANI SIAMO MESSI. A QUALI MAGISTRATI CREDERE?

Tutto l’ambaradan per avere i soldi dallo Stato ed i magistrati lì a fare la figura delle comparse. 336 milioni di euro stanziati dal Governo per risanare l’ambiente al posto dell’ILVA. I Riva,  proprietari dell’ILVA,  si dimettono dalla guida dell’azienda (Nicola, forse informato degli sviluppi dell’inchiesta penale, si dimette  a pochi giorni dal sequestro e dal suo arresto)e nominano un ex alto funzionario statale, l’ex prefetto di Milano, Bruno Ferrante, come garanzia di tutela istituzionale.

SI E’ DALLA PARTE DELLA MAGISTRATURA, SI’, MA QUALE?

SI E’ CON LA PROCURA CHE CHIEDE LA CHIUSURA DELL’ILVA?

SI E’ CON IL GIUDICE DELLE INDAGINI PRELIMINARI CHE NE DISPONE LA CHIUSURA?

SI E’ CON IL COLLEGIO DEL RIESAME CHE SOLO PER LEGGE HA L’ULTIMA PAROLA NEL MERITO E LASCIA TUTTO COME E’ STATO PER 40 ANNI?

LA DIFFERENZA CON IL PROVVEDIMENTO DEL GIP - Secondo quanto disponeva il gip Patrizia Todisco su richiesta della procura, i tecnici erano incaricati di «avviare le procedure per il blocco delle specifiche lavorazioni e per lo spegnimento». «I custodi - dispone invece il tribunale del riesame - garantiscano la sicurezza degli impianti e li utilizzino in funzione della realizzazione di tutte le misure tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo e della attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni inquinanti». E, per rafforzare questa disposizione, il tribunale nomina custode giudiziario proprio il massimo rappresentante Ilva, Bruno Ferrante.

Al di la dei commenti di circostanza di politici e giornalisti (quelli con la lingua tagliata…) che volutamente evitano la polemica, vorrei analizzare da tecnico gli atti che sono stati prodotti sul caso ILVA  - dice il dr Antonio Giangrande, scrittore e presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”. - La ragion di Stato vuole che l’ILVA continui a produrre acciaio, tributi erariali e contributi INPS. Per questo il Ministro dell’economia Corrado Passera: "E' necessario evitare la chiusura dell'Ilva perché se si spengono quegli impianti, non si accendono più". Bruno Ferrante aveva espresso in Commissione rifiuti in Parlamento tutti i suoi dubbi sulla decisione relativa all'Ilva, sottolineando come da Taranto dipendano anche le sorti dei due stabilimenti di Novi e Genova. Anche il Ministro Corrado Clini si è sbilanciato in tal senso. “La parte offesa è l’ambiente, e chi lo rappresenta e dovrebbe tutelarlo é il ministro. Ministero, Regione, Provincia e Comune sono parti lese, che noi ci auguriamo di ritrovare dalla nostra parte nel processo”. Così si esprimeva esattamente il procuratore generale presso la Corte di Appello di Lecce, Giuseppe Vignola, in occasione della conferenza stampa presso il comando provinciale dei carabinieri a Taranto, il giorno dopo l’emissione dei provvedimenti del GIP Patrizia Todisco. Le motivazioni di tali affermazioni, trovavano spunto in una delle tante uscite folkloristiche del ministro all’Ambiente Corrado Clini, che poche ora prima aveva affermato quanto segue: “chiederò che il provvedimento di riesame avvenga con la massima urgenza”. Ignorando, tra l’altro, il fatto che non ha alcun potere per fare una cosa del genere. Ma il ministro dell’Ambiente Clini continua ancora oggi, pervicacemente, ad insistere sulla strada della difesa delle attività del siderurgico, esponendosi quasi fosse il ministro dell’Economia o addirittura un avvocato di parte. Dimenticando invece di essere la massima autorità statale in tema di tutela ambientale. Ed enunciando teoremi alquanto risibili. Come ad esempio quando ha affermato che i rischi ambientali riconducibili all’attività dell’Ilva di Taranto, “sono dei decenni passati, mentre è più difficile identificare una correlazione causa-effetto sull’eccesso di mortalità per tumori nell’area con la situazione attuale che, per effetto di leggi regionali e nazionali e misure ad hoc hanno avuto una evoluzione delle tecnologie con significative riduzioni delle emissioni, particolarmente della diossina e delle polveri”. Questo l’incipit del discorso del ministro che alla Camera, ha riferito sulla situazione del siderurgico, finito sotto inchiesta e sotto sequestro dopo i provvedimenti della magistratura tarantina.

Anche i cittadini (poveri illusi) hanno voluto manifestare la loro opinione in contrapposizione agli operai che hanno manifestato per la difesa del posto di lavoro.  In piazza della Vittoria a Taranto un sit-in di sostegno alla magistratura,  mentre in tribunale si discutevano le “sorti” dello stabilimento siderurgico più grande d’Europa. Liberi cittadini, associazioni ed operai, ma anche mitilicoltori ed allevatori, hanno partecipato alla manifestazione organizzata volutamente in concomitanza con l’avvio dell’udienza del Riesame, per mostrare vicinanza e piena solidarietà verso l’azione della magistratura. «Siamo qui con tutti i cittadini e le associazioni di Taranto che in questo momento chiedono vita e salute – spiega Rossella Balestra, coordinatrice del Comitato Donne per Taranto – siamo dalla parte della giustizia. Vogliamo che nessun tipo di interferenza, in questo momento, venga messa in atto nei confronti della magistratura, né di politici, né di sindacati o operai che chiedono solo il diritto al lavoro a prescindere dal diritto alla salute. Siamo cittadini consapevoli ed arrabbiati, disposti a bloccare l’intera città se non verremo ascoltati. Io dico con assoluta forza e certezza che c’è solo un diritto che deve essere salvaguardato, ed è proprio quello della salute. Onore quindi alla magistratura». Il Comitato cittadino Taranto Lider, in vista dell’udienza, ha realizzato un manifesto che campeggia in via Medaglie d’oro angolo via Marche, vicino al tribunale appunto. Difficile non notarlo. Una scritta nera a caratteri cubitali su uno sfondo giallo. Quasi accecante. la frase “Noi siamo con gli operai e fieri della magistratura”.

«Vogliamo dimostrare di esser solidali con la magistratura – spiega Grazia Maremonti in rappresentanza di Taranto Lider – perché è l’unica a voler tutelare la salute dei tarantini. Ritengo che si possano trovare gli strumenti giusti per dare finalmente una svolta a questa città, una svolta doverosa e necessaria. Taranto, sembra una città a vocazione industriale. In realtà la storia della nostra città, dice tutt’altro. Il nostro territorio ha mille altre opportunità culturali ed economiche, dal turismo alla pesca. Le alternative ci sono e bisogna dare nuova linfa vitale a Taranto”. Una manifestazione pacifica, come avevano promesso che fosse. O quasi. Già, perché qualcuno non ha gradito la presenza di Francesco Voccoli. Ex consigliere comunale e “colpevole” di essere un “politico”. Per la cronaca in piazza, di “politici” ce n’erano (legittimamente) anche altri. “Fuori dalla piazza!”, ha urlato la Balestra al megafono ad un certo punto, rivolgendosi indirettamente a Voccoli. Spogliato da mille occhi prima, ed invitato poi, con cori da stadio, ad andarsene ed abbandonare la piazza, l’ex consigliere di rifondazione comunista è stato accerchiato dai cittadini sempre più insistenti e innervositi. Voccoli non ha risposto, ha mantenuto la calma e solo dopo ha lasciato piazza. La manifestazione poi è ripresa regolarmente. Il sunto del messaggio è questo: il comitato Donne per Taranto: “Noi siamo con la magistratura”.

Al conflitto tra politica e magistratura, nella città dell'acciaio si consumano nuove fratture. Da un lato i lavoratori si sono divisi in due blocchi: Cisl e Uil hanno da una parte e, la Fiom dall’altra al grido di "Non attacchiamo i magistrati". Magistrati che in piazza sono stati difesi anche da mille persone del comitato "Cittadini liberi e pensanti" che hanno dedicato un lungo applauso al gip Todisco. Il conflitto tra ambiente e lavoro sta lacerando Taranto in due opposte fazioni.

SI E’ DALLA PARTE DELLA MAGISTRATURA, SI’, MA QUALE?

SI E’ CON LA PROCURA? "E' un'indagine a tutto campo per stabilire una volta per tutte che i morti determinati dagli inquinanti a Taranto, a Brindisi o a Lecce meritano rispetto, lo stesso rispetto, ad esempio, della Thyssen, di Marghera, di Genova. I nostri non sono morti di serie B. Sono persone, operai e cittadini che hanno lo stesso diritto costituzionalmente garantito di vedersi tutelati una volta per tutte". Così il procuratore generale della Corte di Appello di Lecce, Giuseppe Vignola, circa l'inchiesta della magistratura del capoluogo jonico che ha portato al sequestro degli impianti più importanti dello stabilimento siderurgico Ilva: le cokerie, l'agglomerato, la gestione delle aree ferrose, i parchi minerali, gli altiforni e le acciaierie. Le accuse, a vario titolo, sono di disastro ambientale doloso e colposo, getto e sversamento pericoloso di cose, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici. "Quindi - ha aggiunto - la necessità di intervenire con il sequestro nell'ambito dell'incidente probatorio con quella perizia medico-epidemiologica. Ci siamo limitati all'Ilva ma evidentemente questo si estenderà anche ad altre industrie inquinanti: Cementir, Agip o Eni e poi a Brindisi". Inoltre ha sottolineato che "mentre di giorno si rispettavano le prescrizioni imposte, la notte ci si muoveva in maniera diversa", ricordando che "dalla eloquente e impressionante documentazione filmata e fotografica del Noe sul reparto agglomerato" è emerso che di notte "venivano fuori dai camini le nubi contenenti polveri sottili. Questo è un fatto inoppugnabile ripreso fotograficamente. La perizia medico-epidemiologica è stata difficile ma ha dato risultati sui quali non penso si possa avanzare alcun serio dubbio". Infine Vignola si è augurato che presto venga istituito il registro tumori "che chiediamo da tempo" e che e' previsto dalla legge regionale approvata recentemente.

SI E’ CON IL GIUDICE DELLE INDAGINI PRELIMINARI? «La gestione del siderurgico di Taranto è sempre stata caratterizzata da una totale noncuranza dei gravissimi danni che il suo ciclo di lavorazione e produzione provoca all'ambiente e alla salute delle persone». È quanto scrive il gip di Taranto nell'ordinanza di sequestro dell'Ilva di Taranto. «Ancora oggi» gli impianti dell'Ilva producono «emissioni nocive» che, come hanno consentito di verificare gli accertamenti dell'Arpa, sono «oltre i limiti» e hanno «impatti devastanti» sull'ambiente e sulla popolazione. La situazione dell'Ilva «impone l'immediata adozione, a doverosa tutela di beni di rango costituzionale che non ammettono contemperamenti, compromessi o compressioni di sorta quali la salute e la vita umana, del sequestro preventivo. L'imponente dispersione di sostanze nocive nell'ambiente urbanizzato e non - scrive ancora il gip nelle carte - ha cagionato e continua a cagionare non solo un grave pericolo per la salute (pubblica)», ma «addirittura un gravissimo danno per le stesse, danno che si è concretizzato in eventi di malattia e di morte. In tal senso - aggiunge il gip - le conclusioni della perizia medica sono sin troppo chiare. Non solo, anche le concentrazioni di diossina rinvenute nei terreni e negli animali abbattuti costituiscono un grave pericolo per la salute pubblica ove si consideri che tutti gli animali abbattuti erano destinati all'alimentazione umana su scala commerciale e non, ovvero alla produzione di formaggi e latte. Trattasi di un disastro ambientale inteso chiaramente come evento di danno e di pericolo per la pubblica incolumità idoneo ad investire un numero indeterminato di persone». «Non vi sono dubbi sul fatto - conclude - che tale ipotesi criminosa sia caratterizzata dal dolo e non dalla semplice colpa. Invero, la circostanza che il siderurgico fosse terribile fonte di dispersione incontrollata di sostanze nocive per la salute umana e che tale dispersione cagionasse danni importanti alla popolazione era ben nota a tutti. Le sostanze inquinanti erano sia chiaramente cancerogene, ma anche comportanti gravissimi danni cardiovascolari e respiratori. Gli effetti degli Ipa e delle diossine sull'uomo non potevano dirsi sconosciuti». «Chi gestiva e gestisce l'Ilva ha continuato in tale attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza». Lo scrive il gip nel provvedimento di arresto nei confronti dei vertici del siderurgico tarantino.

SI E’ CON IL COLLEGIO DEL RIESAME CHE SOLO PER LEGGE HA L’ULTIMA PAROLA NEL MERITO E LASCIA TUTTO COME E’ STATO PER 40 ANNI? Il collegio del Riesame era formato dal presidente Antonio Morelli, che è anche presidente del tribunale di Taranto, e dai giudici a latere Rita Romano e Benedetto Ruberto. Sequestro finalizzato alla messa a norma, non alla chiusura. Colpo di scena, giuridicamente (c’è un precedente che riguarda una fabbrica nel Trentino) e soprattutto socioeconomicamente prevedibile, nell’inchiesta che il 26 luglio 2012 ha portato all’arresto di 8 tra proprietari e dirigenti dello stabilimento siderurgico Ilva e alla notifica di un decreto di sequestro preventivo firmato dal gip Patrizia Todisco su richiesta del procuratore capo Franco Sebastio, dell’aggiunto Pietro Argentino e dei sostituti Mariano Buccoliero e Giovanna Cannalire. Il tribunale del riesame (presidente Antonio Morelli, giudici Rita Romano e Benedetto Ruberto) ha confermato gli arresti domiciliari per Emilio e Nicola Riva, ex presidenti dell'Ilva, e per l'ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso ed ha accolto parzialmente il ricorso presentato dal gruppo Riva, annullando gli arresti dei capi-reparto Marco Andelmi, Angelo Cavallo, Ivan Dimaggio, Salvatore De Felice e Salvatore D’Alò, e - soprattutto - ha modificato il decreto di sequestro, revocando la nomina del commercialista Mario Tagarelli e affiancando il presidente dell’Ilva Bruno Ferrante agli ingegneri Barbara Valenzano, Emanuela Laterza e Claudio Lofrumento (già nominati dal gip Patrizia Todisco), nel compito di custodi e amministratori giudiziari delle aree e degli impianti sottoposti a sequestro. I quattro custodi dovranno garantire la sicurezza degli impianti e utilizzarli in funzione della realizzazione di tutte le misure tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo e della attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni inquinanti. Non c’è più, a differenza di come aveva disposto il gip Patrizia Todisco, il compito di «avviare immediatamente le procedure tecniche e di sicurezza per il blocco delle specifiche lavorazioni e lo spegnimento degli impianti, sovrintendendo alle operazioni ed assicurandone lo svolgimento nella rigorosa osservanza delle prescrizioni a tutela della sicurezza ed incolumità pubblica e a tutela della integrità degli impianti». Il tribunale del riesame con le motivazioni ha confermato il sequestro degli impianti a caldo dell'Ilva. Il Riesame non ha concesso la facoltà d'uso, che peraltro - viene sottolineato - non era stata richiesta neppure dai legali del Siderurgico. Inoltre, dispone che «non si continuino a perpetrare i reati contestati nel provvedimento cautelare» e che si elimini «la fonte delle emissioni inquinanti» per «mantenere l'attività produttiva dello stabilimento», solo dopo averla resa «compatibile» con ambiente e salute. Secondo i giudici il «disastro» prodotto dall'Ilva è stato «determinato nel corso degli anni, sino ad oggi, attraverso una costante reiterata attività inquinante posta in essere con coscienza e volontà, per la deliberata scelta della proprietà e dei gruppi dirigenti». Questi «hanno continuato a produrre massicciamente nella inosservanza delle norme di sicurezza dettate dalla legge e di quelle prescritte, nello specifico dai provvedimenti autorizzativi». In un'altra parte del loro provvedimento i giudici del Riesame, sullo stesso tema, annotano: «Dalle varie parti dello stabilimento vengono generate emissioni diffuse e fuggitive non adeguatamente quantificate, in modo sostanzialmente incontrollato e in violazione dei precisi obblighi assunti dall'Ilva, nella stessa Aia e nei predetti atti d'intesa, volti a limitare e ridurre la fuoriuscita di polveri e inquinanti». Il disastro ambientale doloso prodotto dall'Ilva - prosegue il teso - è «ancora in atto» e «potrà essere rimosso solo con imponenti e onerose misure d'intervento, la cui adozione, non più procrastinabile, porterà all'eliminazione del danno in atto e delle ulteriori conseguenze dannose del reato in tempi molto lunghi». «Lo spegnimento degli impianti - proseguono i giudici - rappresenta, allo stato, solo una delle scelte tecniche possibili. Non è compito del tribunale stabilire se e come occorra intervenire nel ciclo produttivo (con i consequenziali costi di investimento) o, semplicemente, se occorra fermare gli impianti, trattandosi di decisione che dovrà necessariamente essere assunta sulla base delle risoluzioni tecniche dei custodi-amministratori, vagliate dall'autorità giudiziaria: per questo lo spegnimento degli impianti rappresenta, allo stato, solo una delle scelte tecniche possibili».

LA DIFFERENZA CON IL PROVVEDIMENTO DEL GIP - Secondo quanto disponeva il gip Patrizia Todisco su richiesta della procura, i tecnici erano incaricati di «avviare le procedure per il blocco delle specifiche lavorazioni e per lo spegnimento». «I custodi - dispone invece il tribunale del riesame - garantiscano la sicurezza degli impianti e li utilizzino in funzione della realizzazione di tutte le misure tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo e della attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni inquinanti». E, per rafforzare questa disposizione, il tribunale nomina custode giudiziario proprio il massimo rappresentante Ilva, Bruno Ferrante.

Il Codacons, in merito alla vicenda dell'Ilva ha presentato  alla Procura di Taranto la propria nomina di parte offesa in qualità di associazione ambientalista e un esposto in cui si chiede di estendere le indagini anche nei confronti dei Ministeri dell'ambiente e della salute, nelle persone dei ministri che si sono succeduti negli anni, e degli enti locali territorialmente competenti. "La gravissima omissione delle istituzioni italiane, centrali e locali - scrive il Codacons nella denuncia - consistita nel non aver dato alcun allarme ufficiale ma soprattutto il mancato seguito da parte delle Autorità competenti, di un'adeguata campagna di informazione rivolta ai cittadini coinvolti e le azioni e gli interventi previsti nonché la violazione del principio di precauzione ripetutamente connessa al principio di informazione a favore della popolazione, appare indice di negligenza grave considerato che solo la conoscenza può consentire di adottare sistemi di prevenzione. Di rilevante importanza, quanto disposto dal d.lgs. 152/2006 (c.d. testo unico ambientale) e dell'ultimo suo "correttivo" (d.lgs. 4/2008) che prevede all'art. 257 una fattispecie di omessa bonifica che non solo sostituisce, con formula diversa, e per certi versi più limitativa, la fattispecie dell'art. 51-bis d.lgs. 22/97, ma che ricomprende di sicuro, al suo interno, parte della previgente fattispecie di cui all'art. 58 d.lgs.
152/99 (Danno ambientale, bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati)".

Per fare un esempio come tutti sono genuflessi al sistema massonico-economico tarantino si rappresenta un breve excursus di tentativi di getto di fumo negli occhi per tacitare le voci libere non conformate.

“La prima sentenza di condanna dell’Ilva per lo spargimento di polveri minerali sulla città è del 1982. La emise un pretore di Taranto, Franco Sebastio, ora a capo della Procura ionica. Ma i 32 anni trascorsi da quella prima sentenza sino al sequestro degli impianti dell’area a caldo del Siderurgico, il 26 luglio scorso, sono costellati da pronunciamenti e disposizioni della magistratura che lanciano allarmi o puniscono i presunti responsabili dell’inquinamento di Taranto”. Così esordisce il dettagliato focus dell’agenzia Ansa pubblicato ieri. La stessa inchiesta che ha portato al sequestro, senza facoltà d’uso, degli impianti e all’arresto di una parte dei vertici Ilva, indagine nata alla fine del 2009, riunisce tre procedimenti penali che si sono incrociati negli ultimi anni: quello sull’abbattimento di animali risultati contaminati dalla diossina, un altro contenente relazioni dell’Arpa e alcuni esposti, e infine un terzo basato sulle denunce di oltre un centinaio di famiglie del rione Tamburi, a ridosso del Siderurgico, che lamentavano problemi di salute e il danneggiamento delle loro case per colpa delle polveri minerali che si depositavano su muri e balconi. Ma già in una sentenza del 19 gennaio 1998 la Corte di Cassazione scriveva che è stata raggiunta "la prova certa del nesso di causalità materiale tra le modalità di svolgimento dell’attività produttiva e il fenomeno dello spolverio", nonchè "del consapevole mancato apprestamento di misure effettivamente idonee ad evitare la situazione di pericolo per l’incolumità pubblica". In quel pronunciamento l’Ilva era stata citata in giudizio dal titolare di una serra di fiori situata a 500 metri dal Siderurgico e danneggiata irrimediabilmente dalla quantità eccessiva di polveri minerali fuoriuscite dallo stabilimento siderurgico. Il 7 dicembre 2000, in una lettera inviata a governo, prefetto, Regione Puglia, presidente della Provincia e sindaco di Taranto, la Procura ionica lanciò un allarme indicando che dalle inchieste in corso emergeva "una grave situazione di inquinamento atmosferico" in città e nei territori limitrofi. La Procura sottolineò in quella lettera un drammatico paradosso: le polveri minerali rilevate nel quartiere Tamburi di Taranto "risultano maggiori di quelle rilevate all’interno di una zona industriale quale quella del parco materiali del cementificio Cementir"; dunque, un quartiere cittadino risultava più inquinato di un grande sito industriale. Nella lettera si aggiungeva che "l’esigenza di tutelare posti di lavoro in una terra che vive ancora drammaticamente fenomeni di sottoccupazione e disoccupazione è ben nota a chi scrive che se ne fa anche carico", ma si ricordava anche ai destinatari che "la tutela dei posti di lavoro non può prescindere dal rispetto della salute degli operai e degli abitanti della città di Taranto e dei comuni limitrofi e dell’ambiente". E nel 2007 l’allora giudice monocratico del tribunale, Martino Rosati, condannò, tra gli altri, Emilio Riva a tre anni di reclusione e l’ex direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso a due anni e otto mesi, per aver omesso di adottare le misure idonee ad evitare che le batterie delle cokerie, ormai obsolete, disperdessero nei luoghi di lavoro e nelle aree circostanti fumi, gas, vapori e polveri di lavorazione in modo da "prevenire la possibilità di disastri, infortuni e malattie conseguenziali". Le batterie 3-4-5-6 delle cokerie erano state sequestrate nel 2001 su disposizione della magistratura, alcune di queste vennero completamente ricostruite. Ma il primo allarme era stato lanciato nel 1996, un anno dopo l’avvento del gruppo Riva al Siderurgico: il dipartimento di prevenzione della Asl Ta/1 scriveva, dopo un’ispezione nelle cokerie, che c’era "rilevante presenza di idrocarburi policiclici aromatici, sostanze cancerogene derivanti dai processi di distillazione del carbon fossile". All’epoca, precisava la Asl, erano 629 i lavoratori, tra dipendenti Ilva e delle ditte d’appalto, ad essere "particolarmente esposti" e quindi a rischiare di contrarre malattie gravi.

Bene, la giustizia a Taranto così è, se vi pare……

Ma su tutto c’è da ridire. Il rapporto investigativo delle Fiamme gialle che era stato per più di un anno fermo sul tavolo del pm Remo Epifani, titolare di un’inchiesta parallela sulla presunta corruzione del consulente della Procura, Lorenzo Liberti, è lo spaccato di come il management dell’acciaieria riuscisse a controllare e manipolare tutto: enti, istituzioni e soprattutto l’informazione. Sempre Archinà in un’altra telefonata con il suo subalterno, Cattaneo, si sfogava così: «Ancora una volta ho avuto ragione, ho sempre detto che bisogna pagare i giornalisti per tagliargli la lingua». La condizione di assoggettamento di alcuni organi di stampa locali emerge con allarmante evidenza in altre conversazioni registrate dagli investigatori dove Girolamo Archinà si complimenta con i responsabili di testate per come avevano sviluppato una notizia (ovviamente favorevole all’Ilva) o che gli passava la «velina» da far pubblicare il giorno dopo sotto nome di fantasia.

Per tutti i giornali a Taranto in agosto 2012 si fa ancora più incandescente il "braccio di ferro" tra Ilva ed alcuni magistrati, dopo la nuova ordinanza del gip Patrizia Todisco con la quale il presidente Bruno Ferrante viene rimosso da custode e amministratore dei sei impianti delle aree "a caldo" sequestrati. La decisione ha immediati riflessi sul mondo politico con il leader del Bersani e quello del Pdl Alfano che chiamano in campo Monti invitando il premier a "fare chiarezza". Il governo non può restare a guardare e Monti telefona ai ministri Passera, Severino e Clini, poi sente l'ufficio legale di palazzo Chigi per un consulto sulle possibili contromosse con cui ricacciare il fantasma della fine della siderurgia di Taranto. Il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, che tuona: "La chiusura sarebbe un danno irreparabile. Bisogna unire risanamento, lavoro e produzione sostenibile". A questo punto Monti decide di inviare a Taranto la troyka dei ministri più direttamente interessati: la missione di Passera, Severino e Clini è di riferire al premier. La Severino si è già attivata: il ministro della Giustizia chiederà l'acquisizione dei due provvedimenti con i quali il gip ha confermato il sequestro degli impianti dell'Ilva di Taranto e ha revocato la nomina di Bruno Ferrante dall'incarico di curatore dello stabilimento. A Via Arenula si spiega che la decisione è motivata "dalla necessità di una valutazione degli atti per quanto è di competenza del ministro della Giustizia". Ma anche il ministro dell'Ambiente Clini ha fatto sentire la sua voce e ha pesantemente criticato la decisione del gip, sostenendo che "é in aperto contrasto" con i provvedimenti presi da lui. La revoca di Ferrante decisa dal gip è arrivata dopo l'annunciato ricorso dell' Ilva al secondo decreto di sequestro degli impianti senza l'uso ai fini della produzione. Secondo il gip, il ricorso dimostra che Ferrante sarebbe in "palese conflitto di interessi". Al suo posto il Gip ha nominato il presidente dell'Ordine dei commercialisti di Taranto, Mario Tagarelli. Per il giudice c'é una "manifesta incompatibilità" di Ferrante con "l'ufficio pubblico di custode ed amministratore delle aree e degli impianti dello stesso stabilimento sottoposti a sequestro preventivo". Era stato il Tribunale del Riesame, con l'ordinanza del 7 agosto che confermava il sequestro degli impianti dell'Ilva, a nominare Ferrante custode e amministratore delle aree e degli impianti sequestrati, revocando la nomina di Tagarelli disposta dal gip per le questioni amministrative. Ora Tagarelli ritorna e affiancherà i tre ingegneri nominati dal gip custodi e amministratori dei beni sequestrati, Barbara Valenzano (gestore e responsabile), Emanuela Laterza e Claudio Lofrumento. La maggioranza di governo con i massimi esponenti Alfano,Bersani e Casini chiedono al Presidente del consiglio di intervenire subito. La richiesta che viene da ABC è chiara: l'Italia rischia un clamoroso autogol mettendo in forse la produzione di uno dei suoi gioielli e dando all'estero un' immagine negativa sul fronte dell'appeal economico internazionale verso il Belpaese. "Se vogliamo spaventare gli investitori ci stiamo riuscendo" , dice il segretario del Pdl Alfano. Stesso concetto da parte di Pierluigi Bersani:"Bisogna essere consapevoli che la confusione attorno al più grande stabilimento siderurgico d'Europa farà presto il giro del mondo". Pier Ferdinando Casini si attesta sulla stessa linea e critica la scelta della magistratura che "rischia di segnare il punto di non ritorno di una vicenda drammatica" dopo anni di "incuria e noncuranza in primo luogo da parte delle autorità locali preposte alla funzione di vigilanza e di controllo della salute". Una definizione che non esclude il ruolo primario della magistratura. Quella del Gip, secondo Casini, è una "entrata a gamba tesa" che fa "solo danno a tutti" perché viziata dal "protagonismo di certi magistrati di dubbia competenza". Anche il Pdl calca la mano sui magistrati di Taranto: "C'é un settore della magistratura che, pur di affermare le sue posizioni ideologiche, non esita a far correre il rischio a tutto il Paese della chiusura di una industria fondamentale come l'Ilva" accusa il capogruppo Fabrizio Cicchitto. Le opposizioni, Lega e Idv, confermano il loro ruolo e le loro vocazioni politiche; il Carroccio è allarmato per i possibili rapidi ricaschi che possono colpire Genova e la sua sede Ilva; Di Pietro per gli attacchi ai magistrati che fanno - dice - solo il loro dovere applicando la legge. L'ex Pm in particolare dice che ormai "è un gioco nazionale" scaricare le contraddizioni dei politici sulle spalle delle toghe.  A lui bisogna chiedere a quali magistrati si riferisca: procura, Gip o riesame? A sinistra interviene Paolo Ferrero che attacca proprio le posizioni espresse da Alfano, Bersani e Casini dato che -dice- servono solo a far da megafono "agli interessi della famiglia Riva" (proprietaria dello stabilimento e inquisita dalla magistratura) che vuole "mantenere il controllo dell'Azienda e non investire i soldi necessari per abbattere drasticamente l'inquinamento".

Ferrante non vuol pronunciare la parola 'licenziamenti', ma "se ci bloccano la produzione - dice - la prospettiva si complica" perché "dire no all'attività produttiva vuol dire togliere linfa vitale all'azienda. Viene meno la ragione stessa dell'esistenza dell'Ilva. E poi banalmente, se non produco come faccio a pagare 12mila persone?". L'Ilva diventa un caso politico, scrive “Libero Quotidiano”, con Mario Monti contro il gip Patrizia Todisco: il governo si è detto pronto a fare ricorso alla Corte Costituzionale contro la decisione del gip di sequestrare gli impianti di Taranto, bloccandone la produzione, e revocare la nomina dell'ex prefetto di Milano Bruno Ferrante, attuale presidente dell'Ilva, dall'incarico di custode dello stabilimento. Di domenica invece è l'annuncio del premier di inviare a Taranto i ministri dell’Ambiente Corrado Clini e dello Sviluppo Corrado Passera per un sopralluogo sul sito industriale siderurgico sotto inchiesta per disastro ambientale. I ministri andranno a Taranto già venerdì 17 per un primo esame. Monti poi, che resterà in stretto contatto con loro, ha intenzione di far esaminare il quadro giuridico della vicenda e di verificare di conseguenza gli spazi di azione che ci sono per il governo.

Il ricorso alla Consulta - "Partiamo dal presupposto che la tutela della salute e dell’ambiente è un valore fondamentale che anche il governo vuole perseguire e anche dal presupposto che noi rispettiamo le sentenze dei giudici. Però, alcune volte queste sentenze non sembrano proporzionate rispetto al fine legittimo che vogliono perseguire e quindi noi chiederemo alla Corte Costituzionale di verificare se non sia stato menomato un nostro potere: il potere di fare politica industriale": con queste parole il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Antonio Catricalà, intervistato dal Gr1 Rai, ha annunciato la nuova iniziativa del governo. Il ricorrere alla Consulta per Catricalà non vuol dire scontro con la magistratura: "Noi contestiamo un singolo atto ritenendolo sproporzionato - tiene a precisare - noi abbiamo stabilito con un decreto legge in linea con un orientamento preciso del Tribunale della Libertà di continuare le lavorazioni che non sono dannose, che non sono nocive e nel frattempo cominciare seriamente la politica di risanamento. E abbiamo stanziato centinaia di milioni proprio per questo. Questo decreto legge resterebbe privo di qualsiasi valore se l’industria dovesse smettere di lavorare, se il forno si dovesse spegnere". E conclude: "Sarebbe un fatto gravissimo per l’economia nazionale, sarebbe un fatto grave non solo per la Puglia ma per l’intera produzione dell’acciaio in Italia". Al Corriere della Sera il ministro Clini si è detto "preoccupato che il piano di risanamento dell’Ilva adesso venga interrotto e si ricominci da capo con i contenziosi interminabili del passato". "Bloccare la produzione - ha aggiunto critico nei confronti della decisione del gip Todisco - vuol dire chiudere lo stabilimento, c'è poco da dire. E io francamente non la trovo la scelta migliore". Se "questa è un’emergenza ambientale, allora dobbiamo fare presto - ha aggiunto -. Questi sono problemi che non si affrontano con la carta da bollo o mettendo un custode giudiziario davanti ai cancelli di un impianto chiuso. L’Ilva - ricorda Clini - aveva dato un segnale concreto di collaborazione con le istituzioni e il tribunale del riesame bene aveva fatto a nominare il presidente dell’Ilva Bruno Ferrante custode degli impianti dell’area a caldo". Ciò, infatti, osserva il ministro, "voleva dire che l’impresa si assumeva la responsabilità diretta del risanamento, mettendo in campo le sue competenze e le risorse finanziarie necessarie. Ma adesso che il gip l’ha rimosso, cosa succederà? - si chiede Clini - Il risanamento degli impianti industriali va fatto da chi li conosce". E poi: "Se chiudiamo la produzione dell’Ilva, a parte la sorte dei 20mila lavoratori, chi fornirà l’acciaio per l’economia italiana? Chi ci guadagna? L’Italia ci perde, mentre alla finestra mi pare già di vedere i tanti competitori europei per non parlare dei cinesi, che ne trarrebbero di sicuro un grande vantaggio".

Magistrato di ferro, dalla pedofilia alle cosche, dice di Patrizia Todisco il “Quotidiano Nazionale” e “La Repubblica”. Si è occupata di violenza sessuale su minori, criminalità organizzata, usura, assenteismo e di reati ambientali prima di arrivare a diventare l’ incubo dell’Ilva. Anna Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari di Taranto che ha firmato l’ordinanza di sequestro dell’area a caldo, ma anche i provvedimenti di ... Si è occupata di violenza sessuale su minori, criminalità organizzata, usura, assenteismo e di reati ambientali prima di arrivare a diventare l’ incubo dell’Ilva. Anna Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari di Taranto che ha firmato l’ordinanza di sequestro dell’area a caldo, ma anche i provvedimenti di specifica e la revoca della custodia a Ferrante, è una donna di 49 anni, magra, capelli corti con sfumature rosse, segno zodiacale Toro, piglio più che deciso. Ha alle spalle una carriera all’insegna della difesa dei più deboli, i colleghi la definiscono «molto riservata e preparata». È nata a Taranto e ha da sempre negli occhi il profilo delle ciminiere dell’Ilva. Entra in magistratura nel 1993, arrivando tra i primi del suo concorso. L’ottima posizione in graduatoria le consente di scegliere la sede di lavoro e lei decide di rimanere a Taranto. Dal ’95 lavora presso il tribunale dei minori, poi passa al penale. Qui affronta casi di violenza in famiglia, ma anche di pedofilia: nel 2007, fece arrestate 21 uomini per aver abusato di due sorelle con grave disagio mentale, senza famiglia e senza alcun sostegno sociale. Persegue anche i clan ionico-salentini e i loro legami con la Sacra corona unita con un’operazione che nel 2009 porta in carcere 43 affiliati, per arrivare ad un caso di ‘lupara bianca’ nel 2011. Il suo nome è finito anche nel ‘caso dei casi’, quello di Avetrana. Dopo l’omicidio di Sarah Scazzi, Patrizia Todisco si reca nel carcere di Taranto per la convalida di arresto di un detenuto. Nello stesso istituto è rinchiusa Sabrina Misseri, la cugina di Sarah accusata dell’omicidio. In un’informativa riservata, poi pubblicata, il magistrato racconta: «Mentre attendevo nella sala magistrati transitava un agente di polizia penitenziaria il quale, rivolgendosi a me, profferiva con aria sconfortata una frase del tipo ‘dottoressa, non ce la facciamo più’. Per far capire a cosa si riferisse, racconta la Todisco, il poliziotto «passandomi davanti mi mostrava velocemente un foglio, ponendolo di fronte a me ed indicandomi il nome che vi compariva nella parte superiore e che riuscivo appena a leggere: ‘Misseri Sabrina’». Da lì si apre un’indagine interna per capire se il foglio mostrato al giudice fosse una lettera che Sabrina avrebbe tentato di far uscire dal carcere o una semplice richiesta di colloquio che non avrebbe avuto seguito.

Di tutt’altro tono è l’immagine data da “Libero Quotidiano”. “Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva”. Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto 2012 ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca.

Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come dice un avvocato "ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali".

Operai contro cittadini. Chi è in piazza, (con i sindacati, ma per la prima volta anche contro gli stessi sindacati che hanno svenduto la dignità di una classe operaia), per difendere il "diritto al lavoro" e chi, invece, non aspettava altro che l'intervento della magistratura per veder difeso il "diritto alla salute". Per anni chi ha provato a recarsi a Taranto per raccontare questa dicotomia, lavoro contro salute, ha incontrato una realtà difficile da capire prima ancora che da scrivere o riprendere. Perché a Taranto non ci sono famiglie che vivono di Ilva e famiglie che muoiono di Ilva. A Taranto "ci sono famiglie che vivono e muoiono di Ilva" spiegano i comitati che da anni si battono per chiedere la bonifica della città. «Cosa vogliamo? Lavorare e non inquinare. Si può, si deve». Parole in più non erano necessarie, né richieste. A migliaia di gradi, giù negli altiforni o volteggiando sulle gru, le parole si seccano. E infatti parlano poco gli operai dell’Ilva. In quelle giornate di lotta bastava il loro sguardo a far intuire che la maschera di fierezza non esiste. Esiste, semmai, l’umana paura del soldato in trincea: per sé, per le proprie famiglie e per il momento difficile da tutti contro tutti. Sindacati contro operai e viceversa, operai contro operai, lavoratori contro ambientalisti, cittadini contro operai. Tutti contro i politici, perché la politica è arrivata a un bivio di trasparenza oltre il quale c’è solo il precipizio se non si faranno scelte coraggiose.

Da parte sua anche l’Associazione dei magistrati è strabica nel difendere l’operato dei magistrati tarantini. Questi magistrati che di fatto hanno insabbiato ed oggi si sputtanano a vicenda emettendo ordinanze contrastanti. Neo-segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati, titolare dell’inchiesta che nel settembre del 2001 portò al sequestro di 4 batterie dell’area cokerie dello stabilimento siderurgico, tarantino da ormai quasi 20 anni, Maurizio Carbone offre il suo punto di vista sulle polemiche sorte a seguito del sequestro dell’area a caldo dell’Ilva e all’arresto di 8 tra dirigenti e proprietari. «Di fronte alla contestazione di reati così gravi c'è una sconfitta, una sconfitta di tutti, significa che non hanno funzionato a dovere la politica e gli organi amministrativi di controllo. È un provvedimento che è stato molto sofferto, si parla di supplenza della magistratura, ma questo - dice Carbone a Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” - è dovuto al fatto che non hanno funzionato evidentemente in questi anni gli altri organi di controllo. Non c'è dubbio che quando la magistratura interviene, interviene per salvaguardare il diritto alla salute e il diritto alla vita». Il segretario generale dell’Anm ricorda che «La magistratura tarantina è impegnata, purtroppo, devo dire, da decenni sulla questione ambientale, dell'inquinamento e dei gravi danni alla salute che questo comporta. Nella stessa ordinanza di sequestro sono citate le tante indagini che sono sfociate ricordiamolo in processi e con sentenze definitive di condanna. Si tratta di vicende giudiziarie che sono durate anni e che hanno portato a decisioni definitive, anche una decina di anni fa ci fu un altro sequestro che riguardò una parte dello stabilimento, in particolare alcune batterie delle cokerie, con questo voglio dire - spiega Carbone - che la questione è nota da tempo, sono state già accertate responsabilità con riferimento ai diversi settori dell'azienda e devo dire che oggi tra l'altro non aiuta fare riferimenti al passato». Carbone sottolinea che «oggi la preoccupazione di tutti noi che viviamo tra l'altro a Taranto è questa situazione di attuale pericolo per la salute e per la stessa vita, così come è stato delineato nel provvedimento del giudice Patrizia Todisco ed è molto triste vedere una cittadinanza dilaniata in due tra diritto al lavoro e diritto alla salute. Spero che al più presto, ma questo è un auspicio che faccio anche come cittadino di Taranto, che la politica si occupi in maniera seria della questione. Voglio sperare che non sia crei un clima di sfiducia nei confronti dei magistrati che sono intervenuti sino ad ora o peggio ancora una influenza o un condizionamento nei confronti degli altri magistrati che tratteranno della questione. Ci sono in ballo dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, è giusto che la magistratura operi in piena autonomia». Sulla vicenda interviene anche Cosimo Ferri, segretario di Magistratura indipendente, che chiede «fiducia e serenità, anche da parte dell'opinione pubblica, nei confronti dei magistrati requirenti e giudicanti che si stanno occupando del sequestro» degli impianti Ilva di Taranto. Secondo Ferri, i magistrati «stanno lavorando con grande impegno, professionalità e senso di responsabilità, garantendo il rispetto della legge, ben consapevoli dell'effetto dei loro provvedimenti. Desideriamo esprimere - conclude Ferri - profonda stima verso questi colleghi che con sobrietà, riservatezza svolgono il loro compito. Rispetto quindi per la delicatezza e la difficoltà del loro lavoro». 

Vorrei dare un mio contributo alla discussione sul blocco degli impianti dell’ILVA di Taranto. Non che la mia opinione conti tanto, ma almeno per il fatto che per questa, come per altre problematiche, ho dato il mio apporto inascoltato per la soluzione dei problemi. Questo in virtù della mia esperienza e preparazione. Più domande sorgono spontanee. Perché l’ordinanza di sequestro degli impianti dell’ILVA solo ora dopo 40 anni di inquinamento e solo (si fa per dire) dopo 6 mesi dal deposito della perizia e perché si agisce contro i lavoratori? Perché un’ordinanza cautelare reale non è immediatamente esecutiva? Perché l’ordinanza di custodia cautelare per Emilio e Nicola Riva e per gli altri dirigenti è stata solo ai domiciliari e non in carcere come i comuni mortali? Perché la stessa ordinanza non è stata emessa anche per i dirigenti attuali, quale l’ex prefetto di Milano? Perché i dirigenti precedenti si sono dimessi una settimana prima dell’ordinanza? Qualcuno ne ha anticipato il contenuto per poter evitare l’arresto? Gli ambientalisti vogliono desertificare l’economia; i politici ci hanno portato alla fame; i magistrati prima insabbiano e poi mannaiano. Il Procuratore capo della Procura presso il Tribunale di Taranto, Franco Sebastio, è 20 anni che indaga i dirigenti dell'ILVA. Si va dal disastro doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, getto e sversamento pericoloso di cose, più una serie di altri reati sugli infortuni del lavoro. Mai, però, si era arrivati a questo punto. «Il provvedimento del gip è inevitabile, serio, sofferto. E’ un’indagine a tutto campo per stabilire una volta per tutte che i morti determinati dagli inquinanti a Taranto, a Brindisi o a Lecce meritano rispetto, lo stesso rispetto, ad esempio, della Thyssen, di Marghera, di Genova. I nostri non sono morti di serie B. Sono persone, operai e cittadini che hanno lo stesso diritto costituzionalmente garantito di vedersi tutelati una volta per tutte». Così ha parlato alla conferenza stampa del 27 luglio 2012 il procuratore generale della Corte di Appello di Lecce, Giuseppe Vignola, circa l’inchiesta della magistratura del capoluogo jonico che ha portato al sequestro degli impianti più importanti dello stabilimento siderurgico Ilva: le cokerie, l’agglomerato, la gestione delle aree ferrose, i parchi minerali, gli altiforni e le acciaierie. Le accuse, a vario titolo, sono di disastro ambientale doloso e colposo, getto e sversamento pericoloso di cose, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici. «Quindi – ha aggiunto – la necessità di intervenire con il sequestro nell’ambito dell’incidente probatorio con quella perizia medico-epidemiologica. Ci siamo limitati all’Ilva ma evidentemente questo si estenderà anche ad altre industrie inquinanti: Cementir, Agip o Eni e poi a Brindisi». Inoltre ha sottolineato che «mentre di giorno si rispettavano le prescrizioni imposte, la notte ci si muoveva in maniera diversa - ricordando che - dalla eloquente e impressionante documentazione filmata e fotografica del Noe sul reparto agglomerato è  emerso che di notte venivano fuori dai camini le nubi contenenti polveri sottili. Questo è un fatto inoppugnabile ripreso fotograficamente. La perizia medico-epidemiologica è stata difficile ma ha dato risultati sui quali non penso si possa avanzare alcun serio dubbio». Infine Vignola si è augurato che presto venga istituito il registro tumori "che chiediamo da tempo" e che è previsto dalla legge regionale approvata recentemente. Il pg ha difeso le prerogative della magistratura. Citando Montesquieu sulla separazione dei poteri: “Nessuna invasione di campo”. Poi una nota polemica al ministro dell’ambiente Clini che ha sollecitato il reintervento del Riesame:”Dovrebbe essere parte offesa”. Già, ci chiediamo: per quarant'anni da quale parte è stata la magistratura ed ancora oggi da quale parte sta la politica. Com'è labile il confine tra legalità ed interesse. Ma c’è la legge: chi inquina, paga. La legge non dice: chi inquina, chiudilo. Perché devono pagare solo e sempre i lavoratori e non i poteri forti? Diritto al lavoro e diritto alla salute perché non possono coesistere? L’ILVA, come altre grandi imprese, privatizza il profitto e collettivizza le perdite. Sarà così anche stavolta. Possibile cassa integrazione per gli operai e bonifica dell’ambiente inquinato tutto a spese dello Stato. 336 milioni di euro stanziati. Se chiude l’ILVA il danno non è per la famiglia Riva. Loro hanno grandi principi del Foro che li difendono, compreso l’ex presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Egidio Albanese. Con il ricatto occupazionale ci si può permettere di tutto in un’Italia politicizzata. In altri tempi proposi una class action per danno, anche esistenziale, contro l’ILVA, affinchè si intaccasse l’interesse privato dell’azienda. In questo modo essa per forza di cose era costretta a limitare l’emissioni nocive contro le persone e l’ambiente, per non moltiplicare le azioni di tutela della salute. Azioni che limiterebbero il profitto dell’azienda. Invece no. Si lascia attendere fino a che lo Stato è costretto ad intervenire a vantaggio di un’impresa privata. Nessuno ha seguito il mio consiglio. Non vorrei che l’astio contro l’ILVA mosso da vari personaggi tarantini e il disinteresse dei cittadini tarantini nei confronti delle sorti dei suoi operai fosse insito nel fatto che proprio quegli operai sono cittadini della provincia e sappiamo quanto i cittadini tarantini abbiano la puzza sotto il naso nei confronti dei provinciali. Naturalmente allo stato dei fatti, senso di superiorità mal riposta.

La stampa a Taranto non è nuova a scandali. Come riportato da “La Repubblica” avrebbero gonfiato i fatturati per ottenere un punteggio maggiore nella graduatoria di concessione dei contributi pubblici stilata ogni anno dal Corecom per le emittenti televisive pugliesi. Così due tv sono finite nei guai. A scoprire il raggiro è stata la guardia di finanza. A Taranto dal 2007 al 2009 l' emittente Studio 100 avrebbe emesso fatture per operazioni commerciali mai poste in essere. Il sistema sarebbe stato realizzato con l' aiuto di altre "società sorelle". Conti correnti, quote societarie, beni mobili e immobili di proprietà dell' emittente televisiva, del suo amministratore e dei due soci rappresentati delle "società sorelle" sono stati sottoposti a sequestro preventivo. Il profitto derivato dall' illecito conseguimento dei contributi sarebbe di 2,5 milioni di euro. In tre sono stati denunciati per truffa aggravata. A Castellana Grotte invece Puglia Channel, con la complicità di tre società, avrebbe dichiarato un fatturato fittizio per ottenere i contributi: i finanzieri hanno verificato l' utilizzo di fatture false per spot pubblicitari e prestazioni di servizio mai avvenute, per un totale di oltre 4,3 milioni. Lo scorso luglio 2011, nel corso di una complessa attività di indagine nei confronti di alcune emittenti televisive locali beneficiarie di contributi pubblici per il sostegno dell’informazione, previsti dalla legge nr. 448/98, i militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto effettuarono un sequestro preventivo nei confronti della società proprietaria di una nota emittente locale tarantina e del suo legale rappresentante di beni mobili ed immobili fino alla concorrenza della complessiva somma di circa 900.000 euro, in relazione ad indebite percezioni di contribuzioni, relative alle annualità 2005 e 2006. Il prosieguo di detta attività d’indagine ha riguardato l’erogazione dei contributi relativi alle annualità dal 2007 al 2009 percepiti dalla stessa emittente televisiva. In particolare, nel corso di questi anni, il parametro di valutazione denominato “media dei fatturati dell’attività televisiva” risultante dal conto economico del bilancio di esercizio, utile per conseguire un maggiore punteggio nella graduatoria di concessione dei contributi, è risultato artatamente “gonfiato” con ricavi relativi a fatture emesse per operazioni commerciali che si ritiene non siano mai state effettivamente poste in essere. Questo sistema è stato realizzato con l’aiuto di altre società “sorelle” riconducibili ai soci di maggioranza e reali amministratori della stessa emittente locale. Le risultanze investigative sono state partecipate e condivise dalla Procura della Repubblica di Taranto che ha richiesto ed ottenuto dal giudice per le indagini preliminari l’emissione di un decreto di sequestro preventivo di conti correnti, quote societarie, beni mobili ed immobili di proprietà della stessa emittente locale, del suo amministratore pro tempore e di altri due soci, rappresentanti delle citate società “sorelle” protagoniste dell’illecito sopra descritto, fino alla concorrenza della complessiva somma di circa 2.500.000 euro, che costituisce l’ingiusto profitto derivato dalle indebite percezioni di contributi erogati nelle annualità dal 2007 al 2009 in favore dell’emittente stessa. L’amministratore pro-tempore dell’emittente televisiva e due soci di maggioranza sono stati denunziati all’Autorità Giudiziaria competente per le ipotesi di reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, nonchè per emissione ed utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. E dire che proprio il 12 settembre 2008, un'ora e mezzo di trasmissione in diretta sulla tv tarantina Studio 100, per l'occasione collegata con le emittenti Canale 7, Telebari e Teleonda Gallipoli. Argomento: la ripartizione - da parte del Corecom - dei contributi pubblici all'emittenza privata, previsti dalla legge 448 del 98. Nel corso della diretta - condotta dal direttore Walter Baldacconi con tre ospiti, due avvocati e l'editore di Canale 7, Gianni Tanzariello - una circostanziata denuncia. 13 emittenti pugliesi, su 42 ammesse ai contributi, avrebbero prodotto - in autocertificazione - documentazione non rispondente al vero in merito alla regolarità dei contributi versati all'Enpals per i lavoratori dipendenti. Ancora da accertare le posizioni con Inps e Inpgi. L'anno di riferimento è il 2006. Il puntuale versamento dei contributi previdenziali, costituisce condizione vincolante all'erogazione delle provvidenze pubbliche in questione. La denuncia è oggetto di interrogazione parlamentare del senatore di AN, Adriana Poli Bortone, che - collegata in diretta nel corso della trasmissione - ha ribadito la sua ferma intenzione di voler andare fino in fondo, nell'interesse di tutti. Nel corso del dibattito televisivo è emerso un altro dato: se quelle tv non sono in regola, non potranno sanare a posteriori la loro inadempienza. E’ al momento della richiesta del contributo che bisogna avere i titoli, come prevede la legge. Se è vero che il Corecom è tenuto ad accettare per buona l'autocertificazione sostitutiva, è altrettanto vero che quando questa dovesse risultare non veritiera - come pare nel caso di specie – sarà il ministero, erogante il contributo, a sospendere la procedura, e pare che questo stia già accadendo, con una prima richiesta di chiarimenti agli interessati.

Comunque per far capire l’ambiente e le circostanze su cui dileggiano le varie firme di stampa e tv e per chiudere la bocca a chi si destreggia tra ingiurie e diffamazioni gratuite basta la risposta delle istituzioni. «La Puglia e il Salento non sono diverse dalle altre zone di Italia, il Lazio, Roma Capitale, la Lombardia. Il Salento non è terra di sedimentate infiltrazioni mafiose». È questa la prima risposta data alla platea e all’intervistatore al capo della Polizia, Antonio Manganelli, ospite d’onore nella serata di venerdì 11 agosto 2012 a Miggiano (LE) della rassegna «Miggianosilibra», organizzata dall’assessorato comunale alla Cultura e patrocinata da Regione Puglia e Provincia di Lecce. Un evento d’eccezione con in prima fila il prefetto, Giuliana Perrotta, e il questore di Lecce, Vincenzo Carella e quello di Brindisi, Alfonso Terribile, autorità militari, consiglieri regionali, la vicepresidente della Provincia, Simona Manca e numerosi sindaci. Camicia bianca e jeans, accompagnato dalla moglie con la quale sta trascorrendo nel Salento alcuni gironi di relax, il prefetto Manganelli, come raccontato da Giuseppe Martella della Gazzetta del Mezzogiorno) è arrivato nel piccolo centro del Capo di Leuca poco dopo le 20. Ad attenderlo, il procuratore capo della Dda, Cataldo Motta. Tra loro un colloquio fitto che dura una manciata di minuti, prima che Motta saluti e vada via. Prima dell’inizio dell’intervista, curata dal giornalista Rosario Tornesello, il capo della Polizia si intrattiene con funzionari e autorità. «Molti dei colleghi che sono presenti qui stasera – dirà nel corso della serata Manganelli – sono stati con me nel corso della mia carriera quasi quarantennale e vissuta in larga misura per strada. Con loro ho consumato le notti durante sfiancanti appostamenti, con loro ho condiviso la paura». Investigatori eccellenti li definisce il prefetto Manganelli, anche se alla domanda del giornalista che gli chiede se qualcuno di loro potrebbe lavorare con lui a Roma, risponde: «Stanno bene qui, lavorano in maniera ottima e conquistano ogni giorno risultati importanti, al centro dei miei frequenti contatti telefonici col procuratore Motta». È innamorato del Salento «territorio di frontiera e accoglienza che ha saputo mettere in vetrina le sue peculiarità», di quel Salento che pochi mesi fa è stato ferito a morte dal vile attento dinanzi alla scuola «Morvillo Falcone» di Brindisi. Nelle ore successive all’esplosione, il capo della Polizia fu uno dei pochi a parlare del possibile gesto di un folle. Da navigato investigatore ricostruisce: «Il nostro lavoro spesso procede per esclusione. Esclusa la pista mafiosa. Cosa nostra colpisce per raggiungere obiettivi e non lascia la Sicilia per un atto dimostrativo dinanzi a una scuola di Puglia. Escluso il terrorismo rosso e l’anarco-insurrezionalismo. Gli anarchici colpiscono per poi rivendicare e spiegare e nell’omicidio di una povera studentessa non c’è nulla da spiegare. O si era di fronte a una cellula eversiva, oppure a un folle, come alla fine le indagini hanno dimostrato». Contrario a qualsiasi patto tra Stato e mafia «anche se bisogna distinguere tra i vari livelli di accordi, come quello che può insistere tra un investigatore e un criminale che decida di vuotare il sacco», Manganelli non si sottrae quando gli chiedono cosa ha provato a chiedere scusa per i casi Aldovrandi e G8 di Genova. «Quando si ha fiducia nella magistratura e nei pronunciamenti che essa presenta, condividendoli o meno, e nel momento in cui ci si trova dinanzi a sentenze definitive, è d’obbligo chiedere scusa e non nascondersi dietro un dito».

Bene, la giustizia a Taranto così è, se vi pare……»

TARANTO MAFIOSA, MA ANCHE CORROTTA.

Dall'Ilva soldi e favori per tacitare i media, il clero e la politica. Quando nel 1995 il Gruppo Riva mise le mani sulla più grande industria siderurgica di Stato, l’Italsider, Taranto guardò con sospetto il nuovo padrone. Non tanto perché veniva da Milano a «colonizzare» un pezzo preponderante della nostra economia, quanto per il fatto che temeva cessasse la pratica dei contributi elargiti per sagre, feste di santi, rassegne culturali, batterie di giochi pirotecnici e chi più ne ha più ne metta. A riannodare il cordone tra la città dell’acciaio e la grande fabbrica, fu chiamato lui, Girolamo Archinà, fino ad allora impegnato in politica nella vecchia Dc, e gli sguardi un po’ torvi dei tarantini nei confronti del nuovo patron della fabbrica si spensero. Intercettazioni telefoniche depositate in Procura e quelle non depositate - ma che girano ormai da giorni sui tavoli di giornali e tv - nomi eccellenti evocati ma mai pronunciati, presunte o millantate opere di «persuasione» a suon di euro verso quotidiani e tv locali... Su questo vischioso e invischiante panorama si allunga l’ombra della paralisi di un polo industriale, come quello dell’Ilva di Taranto, che sostiene di fatto l’economia di un intero territorio - e non solo - mentre la pioggia di milioni in arrivo, stanziati dal governo per la bonifica degli impianti, rischia di stimolare appetiti ben al di fuori delle mura dello stabilimento. È già avvenuto e potrebbe avvenire ancora. La vicenda, dunque, si complica ulteriormente. E mentre in un'intercettazione Girolamo Archinà del Gruppo Riva, proprietario dello stabilimento tarantino, assicura "Corrado Clini è uomo nostro", il Ministero dell’Ambiente prova a smentire: "Clini non ha mai avuto rapporti con la dirigenza Ilva". Che impressione il dirigente dell’Ilva che dice al telefono: «Ai giornalisti bisogna tagliargli la lingua, e cioè pagarli». Ma c’è anche l’avvocato che assicura il figlio del patron Riva: «La visita della commissione nello stabilimento va un po’ pilotata». Non fa una bella figura neppure il dirigente regionale dell’Arpa, l’Azienda regionale protezione ambiente, che all’uomo Ilva che si altera perché certe analisi sono risultate negative, a mo’ di giustificazione dice: «Sono solo osservazioni... mica prescrizioni...». L'Ordine dei giornalisti della Puglia ha annunciato che chiederà "formalmente alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Taranto l’invio degli atti dai quali emergano eventuali coinvolgimenti di colleghi in comportamenti illeciti" in relazione alle notizie pubblicate da vari organi di informazione sull'inchiesta Ilva in cui si fa riferimento ad intercettazioni telefoniche da cui risulterebbe che dirigenti dell’azienda avrebbero progettato di pagare "tutta la stampa". L’Ordine, spiega in una nota il presidente Paola Laforgia, auspica che la "Procura faccia quanto prima chiarezza anche su questo aspetto della delicata questione Ilva e si augura che le indagini possano escludere qualsiasi coinvolgimento di giornalisti in tentativi di manipolare l’informazione sulle vicende legate all’attività dello stabilimento siderurgico tarantino". Dopo l’esame della documentazione, l’Ordine "valuterà l'eventuale apertura di procedimenti disciplinari per violazioni deontologiche". La nota dell’Odg della Puglia fa riferimento in particolare ad un’intercettazione pubblicata dal quotidiano La Stampa, secondo la quale "un dirigente dice ad un altro: “la stampa dobbiamo pagarla tutta”. Ma di cosa si meravigliano? Quanto succede a Taranto è sotto gli occhi di tutti. Perché, con i magistrati cosa fanno? Non tacciono i loro abusi e le loro omissioni? L’Ordine dei giornalisti (di origine fascista, ed è tutto detto) vuol difendere un onore ed una dignità che ogni giorno vengono calpestati. E non solo a Taranto.

Esemplare è il titolo dato da Nazareno Dinoi al suo articolo pubblicato su “Il Corriere della Sera”: Archinà nell’ufficio di Pentassuglia: “dobbiamo distruggere Assennato”. «Te lo dico davanti al presidente Donato Pentassuglia che ci sente in diretta: Assennato lo dobbiamo distruggere». Così Girolamo Archinà, ex responsabile delle relazioni esterne dell’Ilva di Taranto (non lo è più perché è stato messo alla porta dal presidente del gruppo, Bruno Ferrante), informava al telefono Alberto Cattaneo, componente dell’ufficio comunicazione dello stabilimento, della sorte che avrebbe voluto per il presidente dell’Arpa. In quel periodo l’Agenzia regionale per l’ambiente aveva prodotto una relazione sconveniente all’Ilva sulle emissioni di benzo(a)pirene e diossina e Archinà era furioso. Coinvolto in quella telefonata intercettata dalla Guardia di Finanza che indagava Archinà per un caso di presunta corruzione in atti giudiziari, era proprio il presidente della Commissione Sanità della Regione Puglia, Donato Pentassuglia, del Pd e di Martina Franca, nel cui ufficio di Bari il dirigente Ilva si era recato per motivi non noti. Era ben chiaro invece il suo intento punitivo che trasmetteva così all’interlocutore che lo aveva chiamato al telefono: «Stai tranquillo, sto nell’ufficio di Donato Pentassuglia che è davanti a me e sta sentendo tutto in diretta: Assennato lo dobbiamo distruggere». «Ok, ottimo, ci sentiamo domani», rispondeva il suo collega. E’ solo una delle numerosissime intercettazioni telefoniche contenute nelle 500 pagine dell’informativa della Finanza prodotta l’altro ieri dalla pubblica accusa nell’udienza del Tribunale del riesame che dovrà esprimersi sulla richiesta di dissequestro dei sei impianti ritenuti inquinanti e sulla scarcerazione degli otto dirigenti Ilva indagati. Il rapporto investigativo delle Fiamme gialle che era stato per più di un anno fermo sul tavolo del pm Remo Epifani, titolare di un’inchiesta parallela sulla presunta corruzione del consulente della Procura, Lorenzo Liberti, è lo spaccato di come il management dell’acciaieria riuscisse a controllare e manipolare tutto: enti, istituzioni e soprattutto l’informazione. Sempre Archinà in un’altra telefonata con il suo subalterno, Cattaneo, si sfogava così: «Ancora una volta ho avuto ragione, ho sempre detto che bisogna pagare i giornalisti per tagliargli la lingua». La condizione di assoggettamento di alcuni organi di stampa locali emerge con allarmante evidenza in altre conversazioni registrate dagli investigatori dove Archinà si complimenta con i responsabili di testate per come avevano sviluppato una notizia (ovviamente favorevole all’Ilva) o che gli passava la «velina» da far pubblicare il giorno dopo sotto nome di fantasia. L’Ordine dei giornalisti per questo ha già chiesto gli atti relativi alla Procura per un possibile procedimento a carico dei giornalisti coinvolti negli intrecci poco puliti con l’Ilva. Un potere, quello del portavoce Riva, che gli permetteva di alzare la voce con persone come Assennato. In una telefonata in cui Archinà si ribella con il numero uno dell’Arpa per alcune prescrizioni imposte agli impianti più inquinanti, il tenore della conversazione era questo: «Ma ti rendi conto che così la produzione deve diminuire e questo non è bello? Ora secondo te quando la leggerà l’assessore (regionale) cosa dirà? Cosa ci chiederà?». E Assennato lo tranquillizza: «Ma no, stai tranquillo, non succederà niente, l’assessore non dirà niente, tranquillo». La Procura di Taranto ha smentito qualsiasi coinvolgimento nell’inchiesta del ministro dell’Ambiente, Corrado Clini il cui nome compariva in un articolo della «Gazzetta del Mezzogiorno» che attribuiva ad Archinà una frase intercettata in cui si vantava che l’allora direttore generale del Ministero era «un nostro uomo». Ancora la Gazzetta confermava l’indiscrezione.

Secondo Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” Girolamo Archinà conosceva per mestiere tante persone ma tra il ventaglio di conoscenze, svelate impietosamente dai mesi di intercettazioni telefoniche e ambientali compiute dai militari della Guardia di Finanza, non c’è il ministro dell’Ambiente Corrado Clini. La Gazzetta ha riferito di un colloquio avvenuto tra Archinà e un consulente del gruppo Riva nel 2010, chiacchierata nella quale Clini, allora direttore generale del Ministero dell’Ambiente, viene definito «uomo nostro». Clini ha però smentito con decisione qualsiasi contatto con la dirigenza dell’Ilva, lamentandosi della diffusione della intercettazione (il cui contenuto la Gazzetta conferma integralmente), dalla quale intravede «l’evidente l’intento insinuante e suggestivo, perché sfornita di qualsiasi supporto probatorio». Archinà, licenziato dall’Ilva dopo quanto emerso nel corso dell’udienza al tribunale del Riesame, conosce tante persone. Tra queste c’è il direttore dell’Arpa Puglia Giorgio Assennato che chiama il 21 giugno del 2010 per fargli le sue rimostranze verso un documento che a suo dire porterebbe alla chiusura dello stabilimento Ilva. Si tratta di una lettera dell’Arpa, firmata dai funzionari Blonda e Giua, relativa al benzo(a)pirene. Archinà è preoccupato perché all’Ilva potrebbe essere imposta una riduzione della produzione, riuscendo a trovare una soluzione.

ARCHINA’: Ci complica sempre la vita, porca miseria!

ASSENNATO: Non si complica la vita, queste sono le nostre proposte, che d’altra parte erano già note. E dopo di che si fa una riunione tecnica con l’Ilva e si vede che cosa concretamente si riesce a definire, se si riesce a definire, se non si può definire niente non c’è problema, qual è il problema? Ma noi questo l’avevamo già detto! Cioè non, che cosa c’è di sorprendente rispetto a quello che avevamo già detto?

ARCHINA’: ma no di sorprendente...di sorprendente c’è parecchio, che cioè nel senso...

ASSENNATO: e che cosa?

ARCHINA’: allora, la riduzione...ci sono tutte le forme di riduzione produttive e a funzione dei venti che questo e per esempio...

ASSENNATO: questo è quello che avevamo già anticipato che è una ipotesi se viene fuori da un tavolo tecnico o una ipotesi diversa concertata da Ilva e dall’Arpa ma trasmetteremo alla Regione dicendo che siamo d’accordo per un tavolo tecnico con Ilva che lo stesso risultato si ottiene diversamente.

ARCHINA’: va bene.

Tra giugno e luglio del 2010 l’Ilva vive giorni difficili. La coscienza ambientale tra i tarantini aumenta e con essa il numero di denunce. Il sindaco Ezio Stefàno firma una ordinanza con la quale vieta ai bambini di giocare in una piazza del rione Tamburi. Archinà parla al telefono con un consulente del gruppo Riva. Archinà giustifica Stefàno «si è presa la denuncia, quindi per reazione che deve fare, ti fa l’ordinanza». E all’interlocutore che lo sollecita a fare qualcosa contro gli ambientalisti, testualmente da colpire, dice.

ARCHINA’: è così che bisogna fare, è così che bisogna fare più che prendersela col sindaco e interrompere i rapporti col sindaco, più che prendersela con il procuratore e che lui l’azione penale è obbligatoria, più che prendersela, cioè il problema è questo, nel momento in cui ti fanno le denunce, ti fanno le sollecitazioni, trovano una sporca stampa che fa da cassa di risonanza. Perché il problema è questo, purtroppo ancora una volta...sono costretto a dire avevo ragione! Cioè, io ho sempre sostenuto che bisogna pagare la stampa per tagliarli la lingua! Cioè pagare la stampa per non parlare!

Non c’è solo Archinà nel mirino degli uomini delle Fiamme Gialle. Intercettando Fabio Riva, vicepresidente del gruppo e indagato per concorso in corruzione in atti giudiziari con Archinà, l’ex direttore dello stabilimento siderurgico Luigi Capogrosso e il consulente della Procura Lorenzo Liberti, gli inquirenti svelano i rapporti esistenti tra l’avvocato Franco Perli, uno dei componenti del collegio difensivo dell’Ilva, e Luigi Pelaggi, capo dipartimento del ministero dell’Ambiente. Perli il 9 giugno del 2010 dice a Fabio Riva che Pelaggi ha dato precise disposizioni all’ingegner Dario Ticali, presidente della Commissione istruttoria per l’autorizzazione ambientale integrata su come procedere nell’immediato futuro nel corso dell’iter della trattazione. «L’avvocato Perli chiama Fabio Riva, lo avvisa che è stato contattato da Pelaggi - si legge nel brogliaccio - con il quale ha discusso della situazione dopo aver visionato la documentazione. Perli dice che adesso si incontrerà con Pelaggi per discutere della strategia da adottare, gli riferisce che Pelaggi ha dato disposizione a Ticali di parlare con Assennato. Perli gli comunica che Pelaggi gli ha anche riferito che la Commissione ha accetato il 90% delle loro osservazioni e che la visita riguarda il restane 10%. Perli aggiunge che non avranno sorprese e comunque la visita della Commissione in stabilimento va un po’ pilotata».  Stralci di colloqui, una piccola goccia - 60 pagine appena - nel mare magnum di una informativa lunga 1000 pagine, in grado di svelare la fitta trama di contatti che l’Ilva aveva intessuto con i palazzi del potere, le redazioni giornalistiche, gli organi di controllo.

E’ uno Stato a sé la più grande acciaieria d’Europa dice Guido Ruotolo del “La Stampa”. Con le sue regole e i suoi principi. Potremmo dire che era uno Stato a sé, perché adesso la nuova dirigenza, il presidente Bruno Ferrante, riconosce la sovranità della legge e caccia via gli impresentabili, che fino a ieri erano destinati a rappresentare l’azienda ai tavoli tecnici. Se la linea Maginot dell’Ilva è stata quella di dimostrare di aver sempre rispettato l’Aia, l’Autorizzazione integrata ambientale - mentre l’accusa sostiene che le fonti di inquinamento sono le polveri e le diossine «diffuse e fuggitive» disperse non tanto dai camini, e quelle sono le emissioni convogliate i cui limiti sono fissati dall’Aia le nuove carte depositate dall’accusa al Tribunale del Riesame gettano una luce sinistra sulla stessa genuinità dell’Autorizzazione integrata ambientale. In un brogliaccio di una telefonata tra due dirigenti Ilva si accenna alla necessità di «parlare con Corrado...». La telefonata in questione non è stata depositata al Riesame, fa parte di un altro fascicolo, e nel brogliaccio gli uomini della Finanza ipotizzano che si tratti di Corrado Clini, all’epoca dei fatti direttore generale del Ministero dell’Ambiente. Un giornale locale fa il nome del ministro Clini, il quale protesta per essere stato tirato in ballo: «Non ho mai avuto rapporti con il gruppo dirigente dell’Ilva né mi sono mai occupato dell’Aia». Quella intercettazione fa parte di un fascicolo che vede Girolamo Archinà, responsabile relazioni istituzionali dell’Ilva di Taranto, indagato per corruzione in atti giudiziari, per aver corrotto un perito dell’accusa, il professor Liberti. Nove mesi di intercettazioni. Archinà ha parlato con mezzo mondo: politici, sindacati, uomini delle istituzioni. Sicuramente hanno discusso anche di richieste di posti di lavoro e di favori garantiti. Ma questa è un’altra storia (processuale). Si legge nel rapporto della Finanza: «Il fatto che la commissione Ipcc debba essere pilotata, e che sia stata in un certo qual modo avvicinata, si rileva anche dalla conversazione nella quale l’avvocato Perli aggiorna Fabio Riva dei rapporti avuti con l’avvocato Luigi Pelaggi, Capo dipartimento del ministero dell’Ambiente. Da quanto riferisce il Perli si rileva che Pelaggi abbia dato precise disposizioni all’ingegnere Dario Ticali - il presidente della Commissione Ipcc - su come procedere nell’immediato futuro nel corso dell’iter di dette trattazioni. Perri aggiunge che non avranno sorprese e comunque che la visita della commissione nello stabilimento va un po’ pilotata». Siamo nel giugno del 2010 e l’Aia stava per essere approvata. Nel marzo, c’era stata quella campagna di rilevamenti dell’Arpa che non era piaciuta all’azienda. I valori di benzapirene erano tre volte superiori a quelli accettabili. «In questo modo - dice Archinà al direttore dell’Arpa, Giorgio Assennato - farete chiudere l’Ilva...». E dunque, quando arriva la commissione Ipcc, l’avvocato Perli se ne esce con una frase colorita: «Ai dobbiamo tenere (si riferisce ai componenti della commissione) legati alla sedia: “Non avremo sorprese”». E quando si tratta di impiantare negli stabilimenti a rischio (non solo l’Ilva, ma anche Eni per esempio) le centraline per i rilevamenti, il direttore dell’impianto, l’ingegnere Capogrosso se ne esce: «Col cavolo che gli consentiamo - dice in sostanza - di metterle nell’area dello stabilimento». E infatti chissà perché le centraline sono fuori dai confini dell’acciaieria. Ma in un’altra telefonata, il responsabile - cacciato dal presidente dell’azienda tarantina, Bruno Ferrante - delle relazioni istituzionali Archinà, se la prende con la gestione interna delle «comunicazioni»: «Purtroppo ancora una volta sono costretto a dire che avevo ragione. Io ho sempre sostenuto che bisogna pagare la stampa per tagliarle la lingua, cioè pagare la stampa per non parlare». Il 3 agosto 2012 quando escono dall’aula del Riesame, gli avvocati dell’Ilva sono raggianti: «Noi abbiamo sostenuto che l’azienda ha sempre rispettato le prescrizioni dell’Aia - dice l’avvocato De Luca - e tutti i rilevamenti dell’Arpa non sono mai usciti dai parametri di legge. Le polveri? A Taranto nei quartieri più esposti, Tamburi e Borgo, non sono mai stati superati i 35 microgrammi per metro cubo. A Milano, sono 52 di media».

La "repubblica indipendente dell'Ilva" tutto vedeva e a tutti provvedeva, spiega Lello Parise su “La Repubblica”. Dagli uomini politici ai sindacalisti, dagli alti prelati ai giornalisti. Tremano gli operai, perché i magistrati sequestrano l'area "a caldo" del più grande centro siderurgico d'Europa. Ma adesso trema anche tutta Taranto, perché dalle carte di un'altra inchiesta penale tuttora coperta dal segreto istruttorio potrebbe saltare fuori l'immagine di una città più o meno compromessa col re dell'acciaio, Emilio Riva. L'indagine la coordina il pm Remo Epifani, che chiede sei mesi di proroga. Il reato è quello di corruzione in atti giudiziari. Si tratta della stessa indagine da cui il procuratore Franco Sebastio e il sostituto Mariano Buccoliero stralciano tra le dieci e le quindici intercettazioni per dimostrare che gli otto indagati accusati di disastro ambientale devono rimanere ai domiciliari perché potrebbero continuare, se fossero in libertà, a inquinare le prove. Ma ci sono altre decine di telefonate ascoltate dagli investigatori della Finanza e tuttora riservate, che raccontano della capacità di Ilva di tessere una impareggiabile rete di rapporti, ma pure dell'insistenza di chi dall'Ilva reclama piaceri, favori, un occhio di riguardo o solo un'attenzione particolare. Uomini politici che favorirebbero assunzioni, sindacalisti o ex sindacalisti che non disdegnerebbero promozioni aziendali o l'assegnazione di premi di produzione, preti altolocati che porgerebbero l'altra guancia se riuscissero a ottenere il contributo richiesto, cronisti disposti a diventare malleabili. Nei documenti nascosti di un processo destinato a prendere forma, si materializza lo spaccato di una comunità ostaggio nel bene come nel male dei "padroni delle ferriere". Tutto ruoterebbe attorno alla figura di Girolamo Archinà, ex responsabile delle relazioni istituzionali di Ilva nel capoluogo ionico. Era, perfino inevitabilmente, arruolato per chiacchierare con tutti. Ma non per questo autorizzato ad alzare la voce, come fa invece col direttore generale dell'Arpa, il professor Giorgio Assennato: protesta dopo l'uscita di un dossier dell'agenzia per l'ambiente che "a suo dire porterebbe alla chiusura dello stabilimento" annotano le fiamme gialle.  La conversazione telefonica risale al 21 giugno del 2010. Dodici giorni prima, un avvocato dell'Ilva, Francesco Perli, spiegava a Fabio Riva che la visita della commissione istruttoria l'autorizzazione ambientale integrata "va un po' pilotata" e che la pignoleria di Assennato "è dettata da ambizioni politiche". Tutto parte proprio dall'eclettico Archinà, filmato mentre consegna all'ombra di una stazione di servizio di Acquaviva delle Fonti una busta bianca al professore universitario Lorenzo Liberti. Non un professore qualsiasi, ma il consulente della procura ingaggiato per mettere a nudo presunti giochi di prestigio dell'Ilva lungo il fronte della tutela ambientale. Lo sospettano tuttavia di avere intascato denaro per 10mila euro. Comincia così questa storia, tenuta insieme dalle maledette-benedette intercettazioni andate avanti per nove mesi, nel 2010. Due anni più tardi Bruno Ferrante, nuovo presidente di Ilva, taglia la testa al toro: "La società ha da oggi interrotto ogni rapporto di lavoro con il signor Girolamo Archinà che pertanto in alcun modo e in nessuna sede può rappresentare la società stessa". E' la linea riveduta e corretta impressa alla multinazionale dall'ex prefetto di Milano: patti chiari e amicizia lunga. Con tutti. Per "abbassare i toni e essere meno conflittuali".

Da riportare è il commento di Massimiliano Martucci su “Martina news”: Ilva e giornalisti. Una questione che va oltre l’acciaio. Carlo Vulpio ci ha scritto un libro, sull’Ilva. O contro l’Ilva. Cita dati, dossier spariti, morti. Fa interviste. E non è il primo. A cercare sul web, oppure semplicemente su Youtube, di filmati di denuncia ce ne sono a decine. Oppure basterebbe parlare con un operaio, uno dei tanti che non aspetta altro di rispondere alle domande che anche lui si pone. I dati citati sono veri, dimostrati, confermati…L’Ilva è lì, maestosa, inquietante: il drago continua a sputare fumo e polvere e nessuno ha mai parlato, finora. Falso. Nessuno ha mai ascoltato. La stampa locale è sempre stata troppo presa a reperire inserzionisti per potersi occupare fino in fondo di quanto accadeva. E poi, perchè farlo? Per il misero stipendio da cronista alla Gazzetta o al Quotidiano? Rischiare di essere fatto fuori dalla redazione se si preparava un grafico con il numero di morti a causa di neoplasie? Non c’è giustificazione che tenga, se non l’amore per il territorio e la passione per il proprio lavoro, la coscienza che ogni riga pubblicata, sia su carta che sul web, influisce nello scorrere della quotidianità dei lettori, li informa e per questo ne modifica, anche impercettibilmente, le opinioni, i pensieri, le idee. Basti pensare che probabilmente tra i nostri lettori ce ne sarà uno che non sa che Paola Laforgia, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Puglia ha chiesto alla Procura di acquisire gli atti per capire meglio quella frase scambiata tra dirigenti: “La stampa dobbiamo pagarla tutta”. Un atto dovuto, da parte dell’Ordine, che non può rimanere con le mani in mano davanti ad una sciagura del genere, considerando che, la questione Ilva potrebbe portare degli sconvolgimenti in tutti gli ambiti. Non solo nelle dirigenze dei giornali, ma nei sindacati, in politica, in città. Ma la stampa collusa (parolone), meglio “embedded“, al seguito, ce n’è non solo dalle parti dei Tamburi, ma anche nei piccoli paesini di provincia. E da queste pratiche nessuno è immune, per due motivi. Il primo è che l’oggettività non esiste. Chi vi vende oggettività vi sta fregando, alla grande. E il secondo è che la stampa e l’editoria in generale sta vivendo un momento di crisi di cui nessuno vi parla, ma che ha inizio ben prima di Lehman Brothers e che non accenna a mutare, nonostante siano cambiati i mezzi di produzione del lavoro e le generazioni. Senza tediarvi oltremodo sulle difficoltà economiche di chi fa il mestiere del cronista, senza dirvi che nella professione si accede sempre meno per merito e sempre più per credito relazionale, ovvero raccomandazione, basti guardare i cognomi delle firme di Tg e articoli dei maggiori quotidiani e settimanali, il punto è che una parte di responsabilità ce l’ha il lettore che non pretende qualità dal nostro lavoro. Anzi, che spesso non premia la qualità, ma la quantità, senza rendersi conto che si alimenta in questo modo il circolo vizioso del giornalista embedded che non parla di fatti ma riferisce solo i commenti degli interessati. Un tipo di professionalità che premia subito ma contribuisce a distruggere in seguito. Adesso, però, è facile dirci quanto facciamo schifo. Basta mandare una mail, un tweet, un commento su Facebook. Aiutateci a migliorare. Naturalmente la maggior parte della responsabilità ce l’ha il livello dirigenziale, che non ha saputo trovare un modello economico alternativo a: pubblicità+vendite+abbonamenti, un modello ormai da accantonare, soprattutto perchè con il web l’informazione è gratuita e non avrebbe senso mettere un prezzo all’articolo. Rimane la pubblicità, quindi. E proprio per questo come si fa a scontentare un inserzionista che sostiene con i suoi soldi il lavoro? E’ una domanda che trova risposta solo se si accetta di assumere il punto di vista americano sulla questione: l’informazione è servizio pubblico, tanto quanto la sanità e l’educazione. Non può essere lasciata in mano a pochi gruppi di interessi privati, ma deve essere di sostenuta dal pubblico. E per pubblico intendiamo tutti coloro che leggono. Chiedetevi chi ci paga. Noi vi risponderemo per chi lavoriamo.

Con un Apecar preso in affitto avevano fatto irruzione in Piazza della Vittoria interrompendo il comizio dei sindacati confederali del 2 agosto 2012. Erano un centinaio, forse più, e la questura di Taranto utilizzando foto, riprese televisive e i video che girano su Youtube ne ha identificati sinora 41 «che saranno ora denunciati in stato di libertà all’autorità giudiziaria – si legge in un breve comunicato della polizia – per aver turbato a vario titolo la manifestazione in atto, determinando, la temporanea interruzione dei comizi ufficiali». L’attività degli investigatori – sottolinea la nota della questura – si è focalizzata in particolare su coloro i quali si sono resi responsabili di violenza sulle cose, abbattendo le transenne poste a protezione del palco per tentare di accedervi, e di coloro che lanciarono i fumogeni. Il gruppo dei rivoltosi non violenti era capeggiato da Aldo Ranieri, fondatore del «Comitato dei cittadini liberi e pensanti». Sarà anche lui tra i 41 denunciati. Quarantadue anni, da quattordici dipendente Ilva nel reparto impianti marittimi, Ranieri che è diventato il portavoce della ribellione «contro l’Ilva e contro i sindacati» è sposato, padre di due maschi di 13 e 9 anni «ed altri 25 anni di mutuo con rate da 250 euro al mese», aggiunge lui. Passato da dirigente della Fiom, il leader del Comitato è riuscito quel giorno a catalizzare su di lui e il suo gruppo l’attenzione degli osservatori esterni e delle telecamere. L’irruzione sotto il palco dei comizi, molto colorata e rumorosa, aveva fatto temere il peggio ma fortunatamente tutto poi si svolse senza incidenti. Qualcosa, però, non doveva essere fatta e per questo la questura chiederà contro ai responsabili. Nessuna sorpresa, nessun assalto improvviso e vigliacco ai sindacati. Quanto successo a Taranto è stato solo il frutto di incomprensioni, ripicche, divieti ed altro all'interno del mondo sindacale. Una protesta annunciata e di cui tutti erano a conoscenza. Una “contro manifestazione” di cui tutti sapevano da giorni, come è venuta a conoscenza Marino Petrelli (Panorama.it) da una fonte sindacale vicina ai manifestanti. Si tratta di un gruppo di cittadini che vuole farsi chiamare “liberi pensanti” e che aveva programmato di intervenire sul palco dei sindacalisti con argomenti a sostegno della magistratura locale e della salute prima di tutto, ma il permesso era stato rifiutato dagli stessi organizzatori del corteo di Cigl, Cisl e Uil. Il tam tam era partito da qualche giorno con riunioni pubbliche e con un volantinaggio per le strade della città jonica. Il giorno prima, la voce si era diffusa nella veglia di preghiera organizzata dal vescovo di Taranto. Tutti, dunque, sapevano, ma nessuno ha dato spazio a questo gruppo di “dissidenti”. “Manifestano da 15 anni alla luce del sole e svolgono un ruolo di rottura contro chi ha coperto gli scandali ambientali – aggiunge la fonte -. L'Ilva va chiusa prima che ci uccida tutti e obbligata a pesanti investimenti. E i sindacati confederali devono smetterla di ricattare gli operai e i cittadini”.

La stampa a Taranto non è nuova a scandali. Come riportato da “La Repubblica” avrebbero gonfiato i fatturati per ottenere un punteggio maggiore nella graduatoria di concessione dei contributi pubblici stilata ogni anno dal Corecom per le emittenti televisive pugliesi. Così due tv sono finite nei guai. A scoprire il raggiro è stata la guardia di finanza. A Taranto dal 2007 al 2009 l' emittente Studio 100 avrebbe emesso fatture per operazioni commerciali mai poste in essere. Il sistema sarebbe stato realizzato con l' aiuto di altre "società sorelle". Conti correnti, quote societarie, beni mobili e immobili di proprietà dell' emittente televisiva, del suo amministratore e dei due soci rappresentati delle "società sorelle" sono stati sottoposti a sequestro preventivo. Il profitto derivato dall' illecito conseguimento dei contributi sarebbe di 2,5 milioni di euro. In tre sono stati denunciati per truffa aggravata. A Castellana Grotte invece Puglia Channel, con la complicità di tre società, avrebbe dichiarato un fatturato fittizio per ottenere i contributi: i finanzieri hanno verificato l' utilizzo di fatture false per spot pubblicitari e prestazioni di servizio mai avvenute, per un totale di oltre 4,3 milioni. Lo scorso luglio 2011, nel corso di una complessa attività di indagine nei confronti di alcune emittenti televisive locali beneficiarie di contributi pubblici per il sostegno dell’informazione, previsti dalla legge nr. 448/98, i militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto effettuarono un sequestro preventivo nei confronti della società proprietaria di una nota emittente locale tarantina e del suo legale rappresentante di beni mobili ed immobili fino alla concorrenza della complessiva somma di circa 900.000 euro, in relazione ad indebite percezioni di contribuzioni, relative alle annualità 2005 e 2006. Il prosieguo di detta attività d’indagine ha riguardato l’erogazione dei contributi relativi alle annualità dal 2007 al 2009 percepiti dalla stessa emittente televisiva. In particolare, nel corso di questi anni, il parametro di valutazione denominato “media dei fatturati dell’attività televisiva” risultante dal conto economico del bilancio di esercizio, utile per conseguire un maggiore punteggio nella graduatoria di concessione dei contributi, è risultato artatamente “gonfiato” con ricavi relativi a fatture emesse per operazioni commerciali che si ritiene non siano mai state effettivamente poste in essere. Questo sistema è stato realizzato con l’aiuto di altre società “sorelle” riconducibili ai soci di maggioranza e reali amministratori della stessa emittente locale. Le risultanze investigative sono state partecipate e condivise dalla Procura della Repubblica di Taranto che ha richiesto ed ottenuto dal giudice per le indagini preliminari l’emissione di un decreto di sequestro preventivo di conti correnti, quote societarie, beni mobili ed immobili di proprietà della stessa emittente locale, del suo amministratore pro tempore e di altri due soci, rappresentanti delle citate società “sorelle” protagoniste dell’illecito sopra descritto, fino alla concorrenza della complessiva somma di circa 2.500.000 euro, che costituisce l’ingiusto profitto derivato dalle indebite percezioni di contributi erogati nelle annualità dal 2007 al 2009 in favore dell’emittente stessa. L’amministratore pro-tempore dell’emittente televisiva e due soci di maggioranza sono stati denunziati all’Autorità Giudiziaria competente per le ipotesi di reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, nonchè per emissione ed utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. E dire che proprio il 12 settembre 2008, un'ora e mezzo di trasmissione in diretta sulla tv tarantina Studio 100, per l'occasione collegata con le emittenti Canale 7, Telebari e Teleonda Gallipoli. Argomento: la ripartizione - da parte del Corecom - dei contributi pubblici all'emittenza privata, previsti dalla legge 448 del 98. Nel corso della diretta - condotta dal direttore Walter Baldacconi con tre ospiti, due avvocati e l'editore di Canale 7, Gianni Tanzariello - una circostanziata denuncia. 13 emittenti pugliesi, su 42 ammesse ai contributi, avrebbero prodotto - in autocertificazione - documentazione non rispondente al vero in merito alla regolarità dei contributi versati all'Enpals per i lavoratori dipendenti. Ancora da accertare le posizioni con Inps e Inpgi. L'anno di riferimento è il 2006. Il puntuale versamento dei contributi previdenziali, costituisce condizione vincolante all'erogazione delle provvidenze pubbliche in questione. La denuncia è oggetto di interrogazione parlamentare del senatore di AN, Adriana Poli Bortone, che - collegata in diretta nel corso della trasmissione - ha ribadito la sua ferma intenzione di voler andare fino in fondo, nell'interesse di tutti. Nel corso del dibattito televisivo è emerso un altro dato: se quelle tv non sono in regola, non potranno sanare a posteriori la loro inadempienza. E’ al momento della richiesta del contributo che bisogna avere i titoli, come prevede la legge. Se è vero che il Corecom è tenuto ad accettare per buona l'autocertificazione sostitutiva, è altrettanto vero che quando questa dovesse risultare non veritiera - come pare nel caso di specie – sarà il ministero, erogante il contributo, a sospendere la procedura, e pare che questo stia già accadendo, con una prima richiesta di chiarimenti agli interessati.

Sull’ipocrisia tarantina è esemplare la presa di posizione di Domenico Palmiotti su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Le intercettazioni telefoniche sull’Ilva fanno rotolare una prima testa, quella del consulente Girolamo Archinà, e forse potranno svelare, nel loro sviluppo, altri scenari e altri intrecci. C’è una Taranto che nella defenestrazione del consulente vede un segno di pulizia dell’azienda rispetto ad un passato recente e meno recente. In altri termini, il metodo Ferrante, cioè del nuovo presidente dell’Ilva, che si afferma rispetto a quello dei Riva, che comunque restano i padroni della fabbrica, e dei loro consiglieri. Può darsi che sia così, ma bisogna anche chiedersi se i rapporti e le pressioni che sembrano venir fuori dalle intercettazioni sono frutto dell’iniziativa del consulente, che magari voleva accreditarsi più del suo ruolo nei confronti della proprietà, o non scaturiscano, invece, da direttive partite dall’alto. Questo lo verificherà la Magistratura. Non si può non rilevare, però, che l’Archinà oggi travolto dalle intercettazioni è anche l’uomo che nell’Ilva privata, nell’Ilva dei Riva, ha un po’ continuato la vecchia logica dell’Italsider pubblica, dell’Italsider di Stato, che tutti ascoltava e quasi tutti accontentava. E sì, perchè le intercettazioni ci consegnano il consulente che chiama e preme su questo o quel funzionario pubblico perchè la posizione dell’Ilva sia tutelata, ma c’è anche un altro aspetto dell’uomo ed è che ad Archinà un bel pezzo di Taranto andava a bussare. A chiedere. A perorare. Non a caso l’ex consulente, nelle ore successive al suo licenziamento, ha detto che non è mica un reato conoscere tanta gente. Dalle mani di Archinà in questi anni sono passate le richieste più disparate e diverse. Qualche esempio? Mesi fa, quando ancora si stava cercando di salvare il Taranto calcio dal fallimento sportivo, a chi fu chiesto aiuto se non all’Ilva? E chi incontrò gli esponenti della società rossoblù se non Archinà? E risalendo nel tempo, chi ha risolto il problema delle fontanelle al cimitero che erano secche da un pezzo se non l’Ilva venendo incontro alle sollecitazioni del Comune? E ancora, quando in un giorno di festa una voragine si aprì in una strada della Città vecchia chi venne incontro al Comune, che allora in dissesto finanziario non aveva gli operai da mandare per la riparazione, se non l’Ilva? A Taranto non è un mistero che l’Ilva anni fa si sia fatta carico di alcuni lavori alla chiesa di Gesù Divin Lavoratore nell’inquinato rione Tamburi e di come a raccogliere l’invito del vescovo sia stato proprio Archinà. Ecco Archinà è stato anche questo, ha assolto anche a questo ruolo, e quella Taranto che magari oggi si indigna per l’Ilva, perchè inquina, perchè compromette pesantemente il nostro livello di vivibilità, è anche la Taranto che vuole, o vorrebbe ancora, l’Ilva «mamma» e «chioccia». Magari la Taranto che rimpiange il cinecircolo, la stagione dei concerti sull’erba alla masseria Vaccarella, il torneo internazionale di tennis. Quella Taranto che non disdegna dal chiedere il sostegno dall’Ilva. Ovviamente non va demonizzato il fatto che un grande gruppo industriale si relazioni col territorio. Esistono fior di casi. Per esempio, se l’Eni restaura monumenti mondiali come le facciate del Duomo di Milano o di San Pietro a Roma, perchè l’Ilva a Taranto non può intervenire per il completamento e la valorizzazione del Museo o per qualche altra iniziativa di chiara valenza collettiva? Pensate che la Fiat, tanto per restare nell’ambito delle grandi aziende, non abbia mai fatto niente per Torino? Il punto, anche qui, è come ci si muove e come si chiede un intervento. Se va bene la logica spicciola della «mancia», che quasi tutti accontenta, o se invece bisogna puntare a qualcosa di più ambizioso e importante e farlo tenendo presenti regole di chiarezza e trasparenza. Non la logica dello scambio ma quella dell’integrazione tra due realtà: città e industria. Se Taranto ha cominciato a riscrivere il suo rapporto con l’Ilva, ebbene deve farlo anche da qui. In quanto alle intercettazioni, che rischiano di diventare l’argomento-principe mentre la priorità è lo stato ambientale gravemente compromesso della città, la tutela della salute e del lavoro di migliaia di persone, e la continuità produttiva di una fabbrica che è un pezzo fondamentale dell’economia nazionale, c’è da capire quale sia il loro effettivo peso. Hanno davvero condizionato i controlli all’Ilva, pilotato l’Autorizzazione integrata ambientale, annacquato relazioni che avrebbero dovuto dire ben altro, o sono materiale ininfluente rispetto alla questione? C’è chi si è spinto, forse un po’ troppo frettolosamente, a dire che l’Aia rilasciata un anno fa all’Ilva è «farlocca». Un pezzo di carta senza alcuna efficacia. E che, proseguendo nel ragionamento ipotetico, magari anche le leggi fatte negli ultimi anni sono fumo negli occhi giusto per dare l’impressione che qualcosa si stesse facendo. Sicuramente il quadro delle norme va rivisto e migliorato, senza che diventi un capestro per l’impresa, altrimenti non saremmo al punto in cui siamo. Però, attenti anche a fare generalizzazioni e a farsi trascinare dalla fuga demolitoria. Vogliamo ricordare che contro l’Aia della Prestigiacomo, che non piaceva agli ambientalisti, l’Ilva ha fatto ricorso proprio perchè la riteneva troppo stretta dal suo punto di vista e che anche contro la revisione della stessa Aia annunciata da Clini il ricorso legale era bell’pronto. Ecco perchè bisogna fare chiarezza anche su questo fronte, vedere bene cosa c’è nelle carte delle intercettazioni, valutarne la consistenza e cercare i dovuti riscontri. Un compito che spetta ai giudici, certamente consapevoli della posta in gioco.

Neo-segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati, titolare dell’inchiesta che nel settembre del 2001 portò al sequestro di 4 batterie dell’area cokerie dello stabilimento siderurgico, tarantino da ormai quasi 20 anni, Maurizio Carbone offre il suo punto di vista sulle polemiche sorte a seguito del sequestro dell’area a caldo dell’Ilva e all’arresto di 8 tra dirigenti e proprietari. «Di fronte alla contestazione di reati così gravi c'è una sconfitta, una sconfitta di tutti, significa che non hanno funzionato a dovere la politica e gli organi amministrativi di controllo. È un provvedimento che è stato molto sofferto, si parla di supplenza della magistratura, ma questo - dice Carbone a Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” - è dovuto al fatto che non hanno funzionato evidentemente in questi anni gli altri organi di controllo. Non c'è dubbio che quando la magistratura interviene, interviene per salvaguardare il diritto alla salute e il diritto alla vita». Il segretario generale dell’Anm ricorda che «La magistratura tarantina è impegnata, purtroppo, devo dire, da decenni sulla questione ambientale, dell'inquinamento e dei gravi danni alla salute che questo comporta. Nella stessa ordinanza di sequestro sono citate le tante indagini che sono sfociate ricordiamolo in processi e con sentenze definitive di condanna. Si tratta di vicende giudiziarie che sono durate anni e che hanno portato a decisioni definitive, anche una decina di anni fa ci fu un altro sequestro che riguardò una parte dello stabilimento, in particolare alcune batterie delle cokerie, con questo voglio dire - spiega Carbone - che la questione è nota da tempo, sono state già accertate responsabilità con riferimento ai diversi settori dell'azienda e devo dire che oggi tra l'altro non aiuta fare riferimenti al passato». Carbone sottolinea che «oggi la preoccupazione di tutti noi che viviamo tra l'altro a Taranto è questa situazione di attuale pericolo per la salute e per la stessa vita, così come è stato delineato nel provvedimento del giudice Patrizia Todisco ed è molto triste vedere una cittadinanza dilaniata in due tra diritto al lavoro e diritto alla salute. Spero che al più presto, ma questo è un auspicio che faccio anche come cittadino di Taranto, che la politica si occupi in maniera seria della questione. Voglio sperare che non sia crei un clima di sfiducia nei confronti dei magistrati che sono intervenuti sino ad ora o peggio ancora una influenza o un condizionamento nei confronti degli altri magistrati che tratteranno della questione. Ci sono in ballo dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, è giusto che la magistratura operi in piena autonomia». Sulla vicenda interviene anche Cosimo Ferri, segretario di Magistratura indipendente, che chiede «fiducia e serenità, anche da parte dell'opinione pubblica, nei confronti dei magistrati requirenti e giudicanti che si stanno occupando del sequestro» degli impianti Ilva di Taranto. Secondo Ferri, i magistrati «stanno lavorando con grande impegno, professionalità e senso di responsabilità, garantendo il rispetto della legge, ben consapevoli dell'effetto dei loro provvedimenti. Desideriamo esprimere - conclude Ferri - profonda stima verso questi colleghi che con sobrietà, riservatezza svolgono il loro compito. Rispetto quindi per la delicatezza e la difficoltà del loro lavoro».

TARANTO MUORE DI FAME O DI TUMORE, O MUORE DI CODARDIA O DI COLLUSIONE.

Operai contro cittadini. Chi è in piazza, (con i sindacati, ma per la prima volta anche contro gli stessi sindacati che hanno svenduto la dignità di una classe operaia), per difendere il "diritto al lavoro" e chi, invece, non aspettava altro che l'intervento della magistratura per veder difeso il "diritto alla salute". Per anni chi ha provato a recarsi a Taranto per raccontare questa dicotomia, lavoro contro salute, ha incontrato una realtà difficile da capire prima ancora che da scrivere o riprendere. Perché a Taranto non ci sono famiglie che vivono di Ilva e famiglie che muoiono di Ilva. A Taranto "ci sono famiglie che vivono e muoiono di Ilva" spiegano i comitati che da anni si battono per chiedere la bonifica della città. «Cosa vogliamo? Lavorare e non inquinare. Si può, si deve». Parole in più non erano necessarie, né richieste. A migliaia di gradi, giù negli altiforni o volteggiando sulle gru, le parole si seccano. E infatti parlano poco gli operai dell’Ilva. In quelle giornate di lotta bastava il loro sguardo a far intuire che la maschera di fierezza non esiste. Esiste, semmai, l’umana paura del soldato in trincea: per sé, per le proprie famiglie e per il momento difficile da tutti contro tutti. Sindacati contro operai e viceversa, operai contro operai, lavoratori contro ambientalisti, cittadini contro operai. Tutti contro i politici, perché la politica è arrivata a un bivio di trasparenza oltre il quale c’è solo il precipizio se non si faranno scelte coraggiose.

Vorrei dare un mio contributo alla discussione sul blocco degli impianti dell’ILVA di Taranto. Non che la mia opinione conti tanto, ma almeno per il fatto che per questa, come per altre problematiche, ho dato il mio apporto inascoltato per la soluzione dei problemi. Questo in virtù della mia esperienza e preparazione. Più domande sorgono spontanee. Perché l’ordinanza di sequestro degli impianti dell’ILVA solo ora dopo 40 anni di inquinamento e solo (si fa per dire) dopo 6 mesi dal deposito della perizia e perché si agisce contro i lavoratori? Perché un’ordinanza cautelare reale non è immediatamente esecutiva? Perché l’ordinanza di custodia cautelare per Emilio e Nicola Riva e per gli altri dirigenti è stata solo ai domiciliari e non in carcere come i comuni mortali? Perché la stessa ordinanza non è stata emessa anche per i dirigenti attuali, quale l’ex prefetto di Milano? Perché i dirigenti precedenti si sono dimessi una settimana prima dell’ordinanza? Qualcuno ne ha anticipato il contenuto per poter evitare l’arresto? Gli ambientalisti vogliono desertificare l’economia; i politici ci hanno portato alla fame; i magistrati prima insabbiano e poi mannaiano. Il Procuratore capo della Procura presso il Tribunale di Taranto, Franco Sebastio, è 20 anni che indaga i dirigenti dell'ILVA. Si va dal disastro doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, getto e sversamento pericoloso di cose, più una serie di altri reati sugli infortuni del lavoro. Mai, però, si era arrivati a questo punto. «Il provvedimento del gip è inevitabile, serio, sofferto. E’ un’indagine a tutto campo per stabilire una volta per tutte che i morti determinati dagli inquinanti a Taranto, a Brindisi o a Lecce meritano rispetto, lo stesso rispetto, ad esempio, della Thyssen, di Marghera, di Genova. I nostri non sono morti di serie B. Sono persone, operai e cittadini che hanno lo stesso diritto costituzionalmente garantito di vedersi tutelati una volta per tutte». Così ha parlato alla conferenza stampa del 27 luglio 2012 il procuratore generale della Corte di Appello di Lecce, Giuseppe Vignola, circa l’inchiesta della magistratura del capoluogo jonico che ha portato al sequestro degli impianti più importanti dello stabilimento siderurgico Ilva: le cokerie, l’agglomerato, la gestione delle aree ferrose, i parchi minerali, gli altiforni e le acciaierie. Le accuse, a vario titolo, sono di disastro ambientale doloso e colposo, getto e sversamento pericoloso di cose, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici. «Quindi – ha aggiunto – la necessità di intervenire con il sequestro nell’ambito dell’incidente probatorio con quella perizia medico-epidemiologica. Ci siamo limitati all’Ilva ma evidentemente questo si estenderà anche ad altre industrie inquinanti: Cementir, Agip o Eni e poi a Brindisi». Inoltre ha sottolineato che «mentre di giorno si rispettavano le prescrizioni imposte, la notte ci si muoveva in maniera diversa - ricordando che - dalla eloquente e impressionante documentazione filmata e fotografica del Noe sul reparto agglomerato è  emerso che di notte venivano fuori dai camini le nubi contenenti polveri sottili. Questo è un fatto inoppugnabile ripreso fotograficamente. La perizia medico-epidemiologica è stata difficile ma ha dato risultati sui quali non penso si possa avanzare alcun serio dubbio». Infine Vignola si è augurato che presto venga istituito il registro tumori "che chiediamo da tempo" e che è previsto dalla legge regionale approvata recentemente. Il pg ha difeso le prerogative della magistratura. Citando Montesquieu sulla separazione dei poteri: “Nessuna invasione di campo”. Poi una nota polemica al ministro dell’ambiente Clini che ha sollecitato il reintervento del Riesame:”Dovrebbe essere parte offesa”. Già, ci chiediamo: per quarant'anni da quale parte è stata la magistratura ed ancora oggi da quale parte sta la politica. Com'è labile il confine tra legalità ed interesse. Ma c’è la legge: chi inquina, paga. La legge non dice: chi inquina, chiudilo. Perché devono pagare solo e sempre i lavoratori e non i poteri forti? Diritto al lavoro e diritto alla salute perché non possono coesistere? L’ILVA, come altre grandi imprese, privatizza il profitto e collettivizza le perdite. Sarà così anche stavolta. Possibile cassa integrazione per gli operai e bonifica dell’ambiente inquinato tutto a spese dello Stato. 336 milioni di euro stanziati. Se chiude l’ILVA il danno non è per la famiglia Riva. Loro hanno grandi principi del Foro che li difendono, compreso l’ex presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Egidio Albanese. Con il ricatto occupazionale ci si può permettere di tutto in un’Italia politicizzata. In altri tempi proposi una class action per danno, anche esistenziale, contro l’ILVA, affinchè si intaccasse l’interesse privato dell’azienda. In questo modo essa per forza di cose era costretta a limitare l’emissioni nocive contro le persone e l’ambiente, per non moltiplicare le azioni di tutela della salute. Azioni che limiterebbero il profitto dell’azienda. Invece no. Si lascia attendere fino a che lo Stato è costretto ad intervenire a vantaggio di un’impresa privata. Nessuno ha seguito il mio consiglio. Non vorrei che l’astio contro l’ILVA mosso da vari personaggi tarantini e il disinteresse dei cittadini tarantini nei confronti delle sorti dei suoi operai fosse insito nel fatto che proprio quegli operai sono cittadini della provincia e sappiamo quanto i cittadini tarantini abbiano la puzza sotto il naso nei confronti dei provinciali. Naturalmente allo stato dei fatti, senso di superiorità mal riposta.

Gli epidemiologi sono sempre stati molto cauti nel legare le condizioni di salute della popolazione dell’area di Taranto con l’inquinamento prodotto dallo stabilimento dell’Ilva, ma diversi studi hanno confermato quantomeno un aumento della mortalità. Ecco i più recenti. Lo studio Sentieri, coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità e dall’Oms, ha messo Taranto tra i 44 Sin (Siti di interesse nazionale per la bonifica) presenti in Italia. Dai dati, pubblicati nel 2011 dalla rivista Epidemiologia e Prevenzione, era emerso nella zona tra il 1995 e il 2002 "un eccesso di mortalità tra il 10 e il 15%". La ricerca aveva trovato anche un "eccesso di circa il 30% nella mortalità per tumore del polmone, per entrambi i generi, un eccesso compreso tra il 50% (uomini) e il 40% (donne) di decessi per malattie respiratorie acute, associato ad un aumento di circa il 10% nella mortalità per tutte le malattie dell’ apparato respiratorio, un eccesso di circa il 15% tra gli uomini e il 40% nelle donne della mortalità per malattie dell’apparato digerente ed un incremento di circa il 5% dei decessi per malattie del sistema circolatorio soprattutto tra gli uomini". Lo stesso studio aveva anche registrato un aumento delle malattie neonatali e durante la gravidanza. Uno studio di alcuni ricercatori dell’università di Bari e dell’Arpa su 272 soggetti, presentato qualche giorno fa durante un workshop, ha ricercato i livelli di arsenico, piombo, cadmio, cromo e manganese, confrontandoli con i valori presentati dalla Società italiana valori di riferimento (Sivr) per l’esposizione non professionale: "Le concentrazioni osservate di metalli nello studio sono complessivamente alte – hanno concluso gli autori - e questo può essere compatibile con la presenza di impianti industriali. Particolarmente alti i livelli di piombo: il valore medio nelle urine è risultato 9,5 microgrammi su litro, contro un valore massimo di riferimento di 4,5. Alcune campagne, effettuate dalla Asl di Taranto dal marzo 2008 al 2011, hanno segnalato che in alcune aziende zootecniche presenti sul territorio del Comune e della Provincia di Taranto è presente un’importante contaminazione da composti organoalogenati, principalmente diossina. In particolare, fino a ottobre 2008, su un totale di 41 aziende localizzate entro 10 km dal polo industriale sono stati raccolti 125 campioni di matrici alimentari. In 32 campioni (26%) raccolti complessivamente in 8 aziende (20%) la concentrazione di diossine e di Pcb, altre molecole inquinanti, ha superato i limiti di legge. Anche il registro tumori dell’Aiom ha registrato nel 2006, ultimo anno disponibile, un aumento delle varie forme della patologia fino al 30%.

«La gestione del siderurgico di Taranto è sempre stata caratterizzata da una totale noncuranza dei gravissimi danni che il suo ciclo di lavorazione e produzione provoca all'ambiente e alla salute delle persone». È quanto scrive il gip di Taranto nell'ordinanza di sequestro dell'Ilva di Taranto. «Ancora oggi» gli impianti dell'Ilva producono «emissioni nocive» che, come hanno consentito di verificare gli accertamenti dell'Arpa, sono «oltre i limiti» e hanno «impatti devastanti» sull'ambiente e sulla popolazione. La situazione dell'Ilva «impone l'immediata adozione, a doverosa tutela di beni di rango costituzionale che non ammettono contemperamenti, compromessi o compressioni di sorta quali la salute e la vita umana, del sequestro preventivo. L'imponente dispersione di sostanze nocive nell'ambiente urbanizzato e non - scrive ancora il gip nelle carte - ha cagionato e continua a cagionare non solo un grave pericolo per la salute (pubblica)», ma «addirittura un gravissimo danno per le stesse, danno che si è concretizzato in eventi di malattia e di morte. In tal senso - aggiunge il gip - le conclusioni della perizia medica sono sin troppo chiare. Non solo, anche le concentrazioni di diossina rinvenute nei terreni e negli animali abbattuti costituiscono un grave pericolo per la salute pubblica ove si consideri che tutti gli animali abbattuti erano destinati all'alimentazione umana su scala commerciale e non, ovvero alla produzione di formaggi e latte. Trattasi di un disastro ambientale inteso chiaramente come evento di danno e di pericolo per la pubblica incolumità idoneo ad investire un numero indeterminato di persone». «Non vi sono dubbi sul fatto - conclude - che tale ipotesi criminosa sia caratterizzata dal dolo e non dalla semplice colpa. Invero, la circostanza che il siderurgico fosse terribile fonte di dispersione incontrollata di sostanze nocive per la salute umana e che tale dispersione cagionasse danni importanti alla popolazione era ben nota a tutti. Le sostanze inquinanti erano sia chiaramente cancerogene, ma anche comportanti gravissimi danni cardiovascolari e respiratori. Gli effetti degli Ipa e delle diossine sull'uomo non potevano dirsi sconosciuti». «Chi gestiva e gestisce l'Ilva ha continuato in tale attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza». Lo scrive il gip nel provvedimento di arresto nei confronti dei vertici del siderurgico tarantino.

Sulle prime la reazione su “Il Corriere della Sera” è stata quella irruenta di sempre: «Adesso basta con quest'atteggiamento contro di me, io non ne posso più. Chiudo tutto e me ne vado». Dall'alto dei suoi 86 anni Emilio Riva non sa che farsene della diplomazia. Chi lo conosce bene giura che «lui è così, reagisce in modo duro ma alla fine è sempre disponibile a ragionare con calma». Ragionare. Trattare. Mediare. Essere aperti al dialogo. A tutto questo starebbe guardando adesso l'irascibile ragionier Riva, patron del'Ilva, il più grande gruppo siderurgico d'Europa. È l'uomo che può decidere il destino di ventimila famiglie. Per dirla con la parola d'ordine dei suoi operai: «Taranto vive soltanto se lui non ci abbandona, se lui se ne va è un disastro per tutti». Ma due giorni fa, mentre gli ufficiali dei carabinieri arrivati dalla città dei due mari stavano per notificargli l'ordinanza di arresti domiciliari, la tentazione di lasciare è tornata a galla con prepotenza. «Perché se la prendono così tanto con noi?» si è arrabbiato «il vecchio», (come lo chiamano in azienda). C'è un dettaglio che più di altri lo fa andare su tutte le furie: vedere che nell'inchiesta il suo nome è accanto a espressioni come «eccesso di mortalità» o «di ricoveri». «Lo devono capire che io non sono un killer di bambini. Io non ho ammazzato nessuno. Come si fa a sostenere una cosa del genere?» si arrabbia. Le perizie del giudice dicono che l'Ilva, soprattutto nei quartieri Tamburi e Borgo, produce morte e malattie. Tumori che non lasciano scampo, quattro volte più che nel resto della città. E poi malattie legate all'inquinamento tre volte più frequenti rispetto alle aree più lontane dalla fabbrica. Ma Riva è sempre stato convinto di non inquinare, di rispettare i parametri imposti dalle normative ambientali e di aver speso già moltissimo (un miliardo e trecento milioni) per il risanamento degli impianti. Ha minacciato più di una volta di abbandonare Taranto, soprattutto davanti a passaggi giudiziari a suo dire ingiusti e per via di quest'ultima inchiesta, si è lamentato con gli amici, ha perduto un contratto milionario con la Russia. Eppure dopo ore di nervi tesi («Qui nessuno chiude niente» è stato il primo commento davanti all'ordinanza di sequestro) il «vecchio» ha trovato la via della mediazione assieme all'ex prefetto Bruno Ferrante, che dopo suo figlio Nicola è diventato presidente dell'Ilva. «La famiglia Riva non ha nessuna intenzione di lasciare Taranto» ha tranquillizzato tutti lo stesso Ferrante. E a proposito del nuovo corso che punta al dialogo Emilio Riva fa sapere che la sua famiglia «non si sottrae» e, per bocca di Ferrante, adesso è convinto che «si possano coniugare salute, sicurezza, lavoro e impresa».

Il 26 ed il 27 luglio 2012 sono date da non dimenticare. Il 26 la notifica dell’ordinanza di sequestro degli impianti ILVA, il 26 e il 27 statali interrotte, blocchi stradali, città paralizzata, Sala degli specchi del Comune di Taranto occupata. Il giorno dopo il sequestro di sei reparti dell'area a caldo dell'Ilva di Taranto, dilagano la protesta e la rabbia degli operai che per giovedì 2 agosto già annunciano uno sciopero di 24 ore con manifestazione alla vigilia della convocazione del Tribunale del Riesame sul ricorso dell'Ilva. Rientra lo sciopero a oltranza. Al termine di una giornata cominciata con l'assemblea di migliaia di lavoratori nello stabilimento, scesi in strada per presidiare i ponti e impedire l'accesso alla città, paralizzata dagli operai in lotta, ma soprattutto dallo spettro della disoccupazione e delle conseguenze del provvedimento del gip che ha mandato ai domiciliari otto dirigenti, "perfettamente consapevoli" del problema, "attenti solo al profitto".  “La Repubblica” rendiconta la giornata. Mentre a Roma il consiglio dei ministri affronta il caso Ilva, a Taranto gli operai bloccano quattro statali, i ponti, i mezzi pubblici. "Non c'è futuro senza questa fabbrica", 'gridano' in corteo. "Siamo tutti qui a testimoniare la nostra disperazione. Se l'Ilva chiude come faremo, come daremo da mangiare alle nostre famiglie?". La paura dilaga e contagia anche Genova, dove i colleghi invadono le strade: "Abbiamo materiali per lavorare 5 giorni, e poi?". "La chiusura dello stabilimento avrebbe effetti devastanti sull'occupazione", avverte il ministro dell'Ambiente, Clini, spalleggiato da Confindustria ("a rischio la vocazione industriale del Paese", dice Squinzi) ma i magistrati (dispiaciuti) spiegano: "E' stato un provvedimento sofferto, ma non c'era alternativa al sequestro". "Un provvedimento duro e pesante - lamenta l'ex prefetto Ferrante, da poche settimane presidente del colosso e sfuggito all’arresto toccato a quelli prima di lui - ma l'Ilva non lascerà Taranto". Il ministro dell'Ambiente rassicura: "La nostra convinzione è che l'Ilva possa continuare a produrre acciaio e rapidamente allinearsi agli standard e le indicazioni dell'Ue in 4 anni". Gli operai sono arrivati ad occupare il municipio, incassando la comprensione del sindaco-medico Ippazio Stefano. A sera, al termine di una riunione in Prefettura, i segretari generali confederali dei sindacati comunicano la cessazione dello "sciopero a oltranza e tutte le altre forme di protesta messe in campo". Lo stato di agitazione proseguirà il lunedì successivo "modulando nuove iniziative di sensibilizzazione ed evitando, peraltro, disagi per la cittadinanza", fanno sapere. In calendari una grande manifestazione, probabilmente il 2 agosto, il giorno prima dell'udienza al Riesame. La questione dell'Ilva irrompe in Consiglio dei ministri. E' stato il ministro Clini a illustrare la situazione spiegando che la magistratura non ha considerato alcuni elementi e che si stanno preparando ricorsi in Appello contro la decisione del gip. Anche il presidente del Consiglio, spiegano fonti ministeriali, ha spiegato che sarebbe un duro colpo per il Paese fermare la produzione. Si punta in ogni caso ad accelerare sul piano di bonifica. Secondo il governo, "gli obiettivi del protocollo - tra i quali rientrano lo sviluppo di interventi infrastrutturali di bonifica, gli incentivi alle imprese locali e la riqualificazione industriale dell'area - verranno realizzati nelle prossime settimane attraverso appositi accordi e sotto la guida di un comitato di sottoscrittori e di una cabina di regia coordinata e gestita dalla Regione Puglia". Lo stanziamento complessivo previsto dal protocollo è di 336.668.320 euro, di cui 329.468.000 di parte pubblica e 7.200.000 di parte privata. Anche il ministro Riccardi ("sono molto preoccupato", dice) ha spiegato che l'orientamento del Cdm è "di fare in modo che non ci siano conseguenze per i lavoratori". Clini però si dice certo che mantenendo la fabbrica attiva, continuando a produrre, si possano raggiungere gli standard europei in quattro anni. L'inquinamento, spiega, è conseguenza di una storia di decenni, di inquinamento di lungo periodo. "Da 3 anni e in particolare nell'ultimo anno sono state date all'Ilva prescrizioni precise finalizzate ad allineare tecnologie a standard Ue per abbattere gli inquinanti forse causa di malattia. Grazie a queste indicazioni i livelli di diossina sono diminuiti di centinaia di volte e oggi sono le più basse degli impianti siderurgici in Ue" - "Il lavoro dei periti è stato ineccepibile: non c'era altra strada se non il sequestro, non c'era possibilità di adottare altri provvedimenti". Lo dice il pg di Lecce, Giuseppe Vignola, parlando del sequestro di sei reparti dell'area a caldo dell'Ilva e degli otto arresti eseguiti. "Su Taranto avevamo una serie di denunce, di morti, di malattie serie, di feriti, la magistratura non poteva non intervenire". Forse è per questo che Vignola, ricordando oggi i morti sul lavoro di Marghera e Genova ha detto che "i nostri morti non sono di serie B, hanno diritto di essere tutelati". "Mentre di giorno rispettava le prescrizioni imposte, di notte le violava", aggiunge. Ma la tesi di maggiori emissioni notturne è contestata dalle rilevazioni dell'Arpa Puglia che"non evidenziano variazioni nella notte rispetto al giorno". Nelle carte del gip, inoltre, c'è l'inquietante sospetto delle mazzette date dal Gruppo a un perito chiamato a valutare gli effetti delle emissioni. Mentre svolgeva, assieme ad altri due professionisti, una consulenza collegiale per conto della procura di Taranto sull'inquinamento da diossina e Pcb prodotto dall'Ilva, il docente universitario di ingegneria Lorenzo Liberti incontrò in un'area di servizio della A14 un dirigente dell'Ilva dal quale ricevette una busta bianca. Lo si legge nel provvedimento di arresto per gli otto dirigenti. Il giudice definisce l'incontro "sconcertante", anche perché vi è il sospetto che nella busta vi fossero 10.000 euro in contanti. L'incontro avvenne il 26 marzo 2010 in un piazzale adibito a parcheggio di autoarticolati sul retro di una stazione di servizio nei pressi di Acquaviva delle Fonti, nel Barese, ed è stato filmato dalla Guardia di finanza. Poco prima, quella mattina, il dirigente dell'Ilva si era fatto consegnare da un altro dipendente dello stabilimento Ilva con mansioni di responsabile della contabilità generale la somma di 10.000 euro (uscita di cassa imputata nei registri Ilva al conto "6120 - erogazioni liberali - omaggi e regalie"); ma prima ancora, non appena aveva saputo dal contabile che la somma era pronta, aveva telefonato a uno stretto collaboratore di Liberti "affidandogli un messaggio criptico per lo stesso docente". Liberti, interrogato sulla vicenda in qualità di indagato l'8 novembre 2011, ha ammesso le circostanze dell'incontro ma ha negato di aver ricevuto danaro "senza però fornire - annota il giudice - una spiegazione convincente né sulle circostanze nelle quali l'incontro ebbe a verificarsi né sul contenuto della busta a lui consegnata". Anche per questo motivo il giudice ha ritenuto che a carico degli indagati sia sussistente il pericolo di inquinamento probatorio, oltre a quello di fuga e di reiterazione dei reati contestati. Il procuratore di Taranto, Franco Sebastio, assicura: "Andiamo avanti con la schiena dritta, ragionando. Il sequestro ancora non è stato eseguito e non lo sarà prima del Riesame". Gli impianti non si fermeranno, anche perché "non è come spegnere un bottone". "Per essere disattivati - spiega - hanno bisogno di tecnici all'altezza, di una messa totale in sicurezza e di una graduale disattivazione degli impianti che sono a ciclo continuo e marciano a temperature elevatissime. Se si dovessero spegnere di colpo accadrebbe un disastro". Il sequestro all'Ilva di Taranto è "un segnale difficile da comprendere per gli investitori, soprattutto esteri", avverte il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi. "Non sono solo a rischio le sorti della prima acciaieria in Europa, di decine di migliaia di lavoratori e di un intero territorio; ad essere a rischio, proprio in un momento così delicato per l'Italia - dice il leader degli industriali - è la stessa vocazione industriale del nostro Paese". Da viale dell'Astronomia è poi netta la presa di posizione degli industriali siderurgici. "Mai avvenuto in Europa", commenta Federacciai, che non risparmia critiche all'inchiesta: "Se un impianto in regola può essere chiuso dal provvedimento di un magistrato sulla base di opinabili correlazioni tra esistenza dell'impianto industriale e salute all'intorno, non vi è più alcuna certezza del diritto e della possibilità di svolgere il proprio lavoro in situazione di normale serenità". Con la solidarietà alla famiglia Riva, "ed in particolare a Emilio e Nicola colpiti da provvedimenti cautelari", per gli industriali dell'acciaio verrà presto dimostrata "l'inutilità e l'infondatezza" degli arresti domiciliari. Per gli industriali metalmeccanici ora bisogna "agire con la massima urgenza per trovare soluzioni condivise che consentano la continuità produttiva dello stabilimento", anche "per garantire la fornitura della materia prima indispensabile per tutti i settori dell'industria metalmeccanica italiana".

Si è molto taciuto in quei frangenti la presa di posizione di quasi tutti gli operai dell’ILVA contro i sindacati. A riguardo su “Panorama” vi è stata pubblicata la posizione di un sindacalista. Rocco Palombella, il segretario generale della Uilm, all’Ilva di Taranto è un leader indiscusso. È qui infatti che ha costruito nel tempo la sua carriera sindacale, iniziando a lavorare da operaio circa 40 anni fa e scalando mano a mano le gerarchie. Da due anni si è trasferito a Roma in qualità di responsabile dell’intera categoria metalmeccanica della Uil, ma il suo sindacato nell’Ilva di Taranto controlla ancora due terzi di tutti i delegati, una vera forza. Palombella dunque è la persona che meglio di chiunque altro conosce la storia e le problematiche dello stabilimento che rischia la chiusura definitiva, e nella mattinata di oggi, in un incontro con gli operai, ha dovuto raccogliere anche qualche pesante critica.

Segretario Palombella, che effetto le hanno fatto le voci di protesta contro di lei? Quando arrivano dai lavoratori le contestazioni sono sempre tollerate perché sono per noi sindacalisti stimolo a fare sempre meglio. Nel caso specifico mi hanno rimproverato il fatto che dopo la mia partenza, nel giro di due anni, lo stabilimento rischia di chiudere. Si sono sentiti insomma un po’ abbandonati. In realtà però io da Roma ho sempre continuato a seguire le vicende dell’Ilva e oggi sono qui a Taranto per cercare di affrontare il problema.

Lei che ha lavorato una vita all’Ilva, ci può spiegare quando sono iniziati i problemi legati alle ricadute ambientali dell’impianto? La storia di queste acciaierie va divisa in due parti fondamentali. Il primo troncone di attività, che arriva fino al 1995, si è svolto con il controllo dello Stato. La mano pubblica ha agito con un misto di flebile attenzione alle problematiche ambientali e attraverso rapporti molto promiscui con le amministrazioni locali. In pratica si concedevano finanziamenti a pioggia un po’ a tutti gli enti territoriali a fronte dell’impatto ambientale che lo stabilimento procurava.

E poi c’era la questione del lavoro. Senza dubbio parliamo di epoche in cui creare occupazione, specialmente al Sud, era una priorità assoluta, e quindi sulle questioni ambientali non si è certo andati troppo per il sottile.

Poi però sono arrivati gli imprenditori privati. Cosa è cambiato? Con la privatizzazione dell’impianto, dal 1995 in poi, le leggi di tutela ambientale sono diventate sempre più rigide e siamo entrati in una fase in cui i controlli si sono fatti sempre più stringenti. Un dato su tutti: le emissioni di diossina ad esempio, nel giro di 4-5 anni sono passate da 800 parti per milione a 0,32 parti per milione. Un risultato che la dice lunga su come l’attenzione alle fonti di inquinamento sia cresciuta tantissimo.

Eppure non è servito a fermare la magistratura che in queste ore ha imposto il blocco dell’attività? A questo proposito, bisogna far notare innanzitutto che i danni alla salute che sono stati denunciati più e più volte, sono effetto soprattutto dell’inquinamento che c’è stato nei decenni passati. Detto ciò, non nego anche che la cosiddetta “ambientalizzazione” dello stabilimento continua ancora oggi. Attualmente si sta lavorando ad esempio per ridurre sempre più le polveri sottili. Ma tutto questo deve avvenire con lo stabilimento che continuerà a funzionare, altrimenti sarà la catastrofe.

In che senso? Forse non tutti sanno che fermare e far ripartire degli altiforni, non è come spegnere e accendere un’automobile. Non basta girare una chiave. Se l’area a caldo dell’Ilva si blocca non ripartirà più e quindi saremo in una situazione drammatica.

Ma allora lei contesta la decisione presa dai magistrati? Se il loro intervento doveva servire a sollecitare l’attenzione verso misure di sicurezza ambientali maggiori, allora è stato positivo. Ma se invece decideranno di applicare rigidamente quello che hanno annunciato, bloccando cioè gli altiforni, allora mi sembra una follia.

Una vicenda quella dell’Ilva che affonda le sue radici nel 1905, anno della fondazione della società omonima. Risale però al 1961 la costruzione del polo siderurgico di Taranto, in occasione della quale la denominazione sociale venne mutata in Italsider, oggetto in questi ultimi anni di aspre polemiche per i suoi potenziali effetti nocivi sulla salute pubblica. Dal 1988 torna la denominazione sociale Ilva, ripresa a causa della messa in liquidazione del gruppo Italsider-Finsider. Lo smembramento della società madre porta l’impianto siderurgico tarantino nelle mani del Gruppo Riva, attuale proprietario. Nell’estate 2012, questa è storia recente, arrivano i primi veri guai giudiziari per il colosso industriale. Dopo l’interessamento della magistratura genovese, che tra il 2002 e il 2005 portò alla chiusura dell’altro grande impianto dell’ex gruppo Italsider (quello del quartiere di Cornigliano a Genova), un’altra procura si interessa agli effetti sulla salute pubblica della grande siderurgia italiana. Nel marzo 2012 vengono depositate dalla Regione Puglia presso la prefettura di Taranto due perizie, una chimica e una epidemiologica, comprovanti l’elevato grado di pericolo del complesso industriale Ilva. Inequivocabile la frase di chiusura della perizia epidemiologica: L’esposizione continuata agli inquinanti dell’atmosfera emessi dall’impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell’organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte. Sempre di marzo 2012 è poi la decisione del presidente della Regione Puglia Nichi Vendola di richiedere nuovi esami per confermare l’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) e di scrivere al ministro Clini per richiedere la bonifica dello stabilimento Ilva. Negli ultimi mesi si è a lungo tentata una mediazione tra il Ministero dell’Ambiente, la Regione Puglia e gli stessi vertici Ilva per cercare di evitare la chiusura dello stabilimento ed avviare prima possibile le procedure di bonifica. Le prime attività per ridurre le emissioni nocive della struttura, messe in pratica dalla stessa società siderurgica hanno prodotto alcuni risultati già negli ultimi anni: la diossina immessa nell’aria è ad esempio scesa dagli 800 ai 3,5 grammi l’anno, mentre la media di emissioni annua di diossine e furari è scesa sotto il valore di 0,4 ngTEQ/Nm3 stabilito con la legge regionale “anti-diossina”. Risultati ritenuti insufficienti dal GIP, che ha predisposto gli arresti domiciliari per: Emilio e Nicola Riva (ex presidenti Ilva), l’ex direttore Luigi Capogrosso, i responsabili per l’area sottoposti Ivan Di Maggio e per l’area agglomerato Angelo Cavallo, Salvatore De Felice, responsabile area altiforni e attuale direttore dell’Ilva e Marco Andelmi, responsabile area parchi minerali.

Nata dalle ceneri della dismessa Italsider, dagli anni Novanta il colosso siderurgico Ilva S.p.a. appartiene al Gruppo Riva e si occupa di produzione e trasformazione dell’acciaio. Il nome trae origine dall’isola del’Elba, da cui veniva estratto il ferro che alimentava i primi altiforni costruiti in Italia a fine Ottocento. Cuore dell’azienda è lo stabilimento di Taranto – uno dei maggiori complessi industriali del Paese e d’Europa –, ma l’Ilva ha sedi anche a Genova, Novi Ligure (Alessandria), Racconigi (Cuneo), Patrica (Frosinone) e Varzi (Pavia). Creata originariamente nel 1905 dalla fusione delle attività siderurgiche dei gruppi Elba (che operava a Portoferraio), Terni e della famiglia romana Bondi, come “Quarto Centro Siderurgico”, nell’ambito della strategia di crescita delle Partecipazioni Statali, nel periodo della Prima Guerra Mondiale l’Ilva integrò anche aziende cantieristiche ed aeronautiche. Passata in mano pubblica negli Anni Venti, con la costruzione del nuovo polo siderurgico di Taranto, assunse la denominazione Italsider. Solo nel 1988, dopo aver ceduto l'acciaieria di Piombino, l’impianto di Cornigliano e chiuso quello di Bagnoli, tornò al nome originale. Poi nel ’95 il passaggio al gruppo privato Riva. Nello stabilimento di Cornigliano le cokerie (in cui viene lavorato il minerale per l' ottenimento del carbon-coke per alimentare l’altoforno e ottenere le colate di ghisa per fare l'acciaio) sono state chiuse già nel 2002 a causa del forte impatto sulla salute delle polveri emesse dall’impianto. Un problema ambientale che affligge anche Taranto, soprattutto nel quartiere Tamburi, dove gas, vapori e diossina creano coli per la salute dei suoi lavoratori e degli abitanti, secondo quanto spiegato nella maxi-perizia depositata quest’anno presso la Procura della Repubblica.

Dal “Il Secolo XIX” si apprende che in principio era l’Arsenale della Marina. Poi, nel 1964, arrivò l’Italsider. L’economia industriale di Taranto ha sempre girato intorno a queste due macchine distributrici di stipendi fissi e appalti garantiti. Niente turismo, malgrado la suggestione del Mar Piccolo e la bellezza dei dintorni, pochissimo terziario, un porto attivo solo per servire l’acciaieria. In questo deserto imprenditoriale l’Italsider è cresciuta fino a diventare due volte la città, che appare spaurita come un topolino di là dal ponte di Porta Napoli, come se la vera Taranto fosse l’“opificio”, il centro siderurgico più grande d’Europa, 15 milioni di metri quadri di impianti e immensi piazzali. L’acciaio è fatto così, secondo il credo di Oscar Sinigaglia, il geniale ricostruttore della siderurgia italiana che inventò lo stabilimento di Cornigliano e guidò la Finsider fino alla morte, nel 1953: grandi spazi a bordo mare, con un porto per le materie prime e i prodotti, e un grande quartiere operaio alle spalle. L’ambiente? Un problema di secondo piano. Sinigaglia tolse la fame ai genovesi e agli immigrati del dopoguerra condannando però il Ponente della città a un destino irreversibile: dopo l’acciaio il deserto o al massimo l’Ikea. È questo il “peccato originale” che Edoardo Bennato cantava a proposito di Bagnoli, l’altro mostro siderurgico ucciso dalla crisi e dalla cattiva politica. Il paradosso è che Taranto diventa gigantesco proprio nel 1974, quando entra in crisi il mercato dei suoi enormi tubi per le condotte di gas e petrolio e delle sue lamiere per piattaforme offshore: c’è lo shock petrolifero, ma il governo italiano, con la sola eccezione di Ugo La Malfa (ci costerebbe meno lasciare a casa tutti gli operai pagando loro lo stipendio, dice con la solita verve polemica), decide di raddoppiare Taranto e poi di costruire il centro siderurgico di Gioia Tauro, rimasto cattedrale nel deserto. L’Italsider di Genova e la sua holding romana Finsider cercano bene o male di gestire un processo di elenfantiasi per nulla condiviso. Negli anni ’80 Taranto diventa lo stabilimento per eccellenza, dove gli operai lavorano come samurai con il credo giapponese della qualità totale. Sergio Noce, il giovane manager di San Michele di Pagana che lo guida prima di arrivare al comando dell’Italsider, si aggira sorridente e confidenziale fra i reparti come un Marchionne ante litteram: sigaro, maglioncino e il tu ai dipendenti. Fioriscono leggende come quella della sostanza segreta lanciata da un caporeparto nella siviera, il pentolone dell’acciaio, per ottenere il prodotto perfetto: sono i resti della sua colazione, ma non importa. L’acciaio garantisce un reddito fisso a 40 mila famiglie, è venerato come un dio severo ma giusto da una città di 260 mila abitanti, il problema del polverino nero che il vento sparge per Taranto e finisce nei polmoni viene risolto tenendo bagnati i depositi di carbone. Nessuno osa fiatare. Ma prima o poi il peccato originale si paga, a Genova, a Bagnoli e anche a Taranto. Alla fine degli anni ’80 la crisi è devastante e la gestione faraonica di Mario Lupo e Giovanni Gambardella, nominati da Romano Prodi per passare dalla moribonda Italsider alla nuova Ilva, non aiuta. A Genova si presenta un ragioniere milanese con uno straordinario fiuto per gli affari, Emilio Riva, ex commerciante di rottami. Diventerà il primo produttore privato italiano con 3 milioni di tonnellate grazie all’Iri, che nell’89 non solo gli lascia Cornigliano, ma gli mette in mano 15 miliardi di lire per il risanamento ecologico degli impianti. Dove siano finiti quei soldi non si sa, visto che dopo una lunga battaglia politica e giudiziaria l’area a caldo dello stabilimento dovrà essere chiusa e Genova perderà un migliaio di posti di lavoro. Nei primi anni ’90 Taranto ha 64 mila disoccupati, l’Ilva taglia 4 mila posti di lavoro e la città diventa terra di malavita e degrado. Nel ’95 l’Iri di Michele Tedeschi cede a Riva tutto l’acciaio di Stato. Il prezzo è così basso che nel solo primo anno di esercizio il privato si ripaga la spesa. Il ragioniere sa fare i conti, che tiene ancora a penna su un quadernetto da vecchio scagno, ma i metodi suoi e dei suoi figli e la sostanziale indifferenza ai problemi ambientali e alle tutele sindacali sollevano l’attenzione dei magistrati. La saga dell’Ilva, cominciata oltre cent’anni fa, rischia di chiudersi nel peggiore dei modi.

Dati riguardanti il numero degli impiegati e le loro posizioni all’interno dello stabilimento Ilva di Taranto sono contenuti nello stralcio di un lavoro di approfondimento compiuto sul colosso siderurgico tarantino dalla task force sul lavoro della Regione Puglia. «Lo stabilimento dell’Ilva di Taranto – si legge nel documento – è ad oggi come singolo impianto il più grande d’Italia per il numero di dipendenti diretti: nell’Italia del Sud, pertanto è localizzato il primo complesso industriale del Paese». Al 31.10.2010 erano in servizio nella fabbrica 15 dirigenti, 91 quadri, 1.163 impiegati, 854 equiparati, 9.878 operai per un totale di 12.001 addetti. Aggiungendo i 226 lavoratori interinali, il personale in forza nella fabbrica ammontava a 12.227 unità, di cui il 98% costituito da uomini. Negli ultimi due mesi del 2010 hanno raggiunto l’età pensionale 306 persone e l’organico si è attestato a fine dicembre a 11.695 unità, mentre gli interinali sono scesi da 226 a 125. «Considerevole» la componente di giovani dipendenti assunti in seguito all’applicazione a molti altri più anziani delle agevolazioni previste dalla normativa sui rischi derivanti dall’esposizione all’amianto che ha comportato il pensionamento di tanti addetti ed un fortissimo ricambio generazionale: l’80% dei dipendenti è compreso in una fascia di età tra 20 e 39 anni. Anche le persone impiegate nelle imprese di subfornitura sono una risorsa importante per lo stabilimento: infatti, oltre ai dipendenti diretti dell’Ilva, nell’impianto lavorano abitualmente migliaia di addetti di ditte appaltatrici, che variano secondo i lavori da eseguirsi e che erano pari al 31.12.2010 a 2.702 unità.

Il sequestro senza facoltà d’uso di sei impianti dell’area a caldo dell’Ilva di Taranto, disposto dal gip del tribunale Patrizia Todisco, non significa automaticamente che gli stessi impianti cesseranno di funzionare nel giro di poche ore. Per spegnere gli impianti in questione, che hanno dimensioni gigantesche e caratteristiche molto particolari, è necessario seguire una serie di procedure tecniche che richiederanno alcune settimane. Non è un caso, ad esempio, che l’altoforno – uno degli impianti oggetto di sequestro – viene costantemente tenuto sotto controllo dalle cosiddette “comandate”, squadre di operai e tecnici specializzati che verificano il corretto funzionamento dell’impianto. L’altoforno è anche uno degli impianti che, se finisse per essere spento, andrebbe praticamente in distruzione e non potrebbe essere riacceso per utilizzarlo di nuovo. Gli impianti dell’area a caldo del Siderurgico sono finiti sotto sequestro anche perchè sono quelli che, per caratteristiche produttive, tendenzialmente scaricano nell’aria una quantità notevole di sostanze nocive.

Fin dall’insediamento del primo governo guidato da Nichi Vendola, numerosi sono stati gli interventi legislativi e regolamentari per l’ambientalizzazione della zona industriale di Taranto varati dalla Regione Puglia. In particolare, sono state varate normative che – si legge in una nota della Regione Puglia - “costituiscono un unicum nel panorama legislativo nazionale (ed europeo), la cui applicazione ha consentito obiettivi miglioramenti delle performances ambientali degli impianti insediati, tra cui Ilva”. Questi gli esempi più rilevanti:

1) DIOSSINA – Con la legge 44/2008 la Regione ha fissato limiti molto restrittivi di emissione di diossine e furani, prevedendo, nel caso di inottemperanza, l’arresto dell’impianto. Uno degli aspetti più importanti è l’introduzione di un limite di emissione conforme a quanto previsto dalle migliori tecnologie di settore (e pari, a regime, a 0,4 ng I-TE/Nm3 di diossine a camino). Dai rilevamenti eseguiti nel 2011 dai tecnici di Arpa al camino dell’impianto di sinterizzazione emerge il rispetto dei limiti di legge da parte di Ilva: ciò ha comportato l'abbattimento delle emissioni di diossine e furani da circa 100 grammi/anno (2006) a circa 10 grammi anno (2011), con un fattore di emissione inferiore a quello minimo previsto dalle migliori tecnologie di settore. Si consideri che prima della installazione dei filtri Meep, poteva stimarsi una emissione annua non inferiore a 500 grammi/anno (fino 1999).

2) BENZOAPIRENE – Le concentrazioni medie annuali di benzoapirene misurate nell’area di Taranto si sono andate riducendo sensibilmente: nel 2009 il livello medio annuale di benzoapirene si attestava a valori superiori a 3 ng/m3, il dato del 2011 è di 1,18 ng/m3. Si tratta ancora di un valore superiore a quello di 1,0 ng/m3 fissato dalla norma regionale come valore limite da raggiungere nel più breve tempo possibile e dalla norma nazionale e comunitaria come valore obiettivo da raggiungere entro il 31 dicembre 2012. Gli sforzi sono oggi concentrati sull'individuazione di misure di carattere impiantistico e gestionale a carico non solo di Ilva ma anche, in misura proporzionale al carico emissivo, di altri gestori di stabilimenti ubicati nell’area di Taranto che consentano nell’anno 2012 di abbattere ulteriormente le concentrazioni di benzoapirene misurate nel quartiere Tamburi. Inoltre, il Consiglio Regionale, su iniziativa della giunta, ha emanato, unica in Italia, una legge regionale (3/2011) che prevede un intervento immediato da attuare in caso di superamento del predetto limite onde prevenire il pericolo di danni alla salute.

3) VALUTAZIONE DEL DANNO SANITARIO – La Regione Puglia ha recentemente (luglio 2012) varato una legge che si prefigge l'obiettivo di tutelare la salute regolando e limitando gli scarichi e le emissioni inquinanti nelle aree contraddistinte da effettive criticità ambientali. Il testo prevede la redazione di un rapporto VDS (valutazione di danno sanitario) da parte di Arpa, Ares e Asl ed il conseguente abbattimento delle emissioni massive delle sostanze di cui si sia accertata la presenza a livelli potenzialmente critici per la salute.

4) EPIDEMIOLOGIA – La Puglia – sostiene la Regione – è l’unica regione del meridione d’Italia ad aver istituito un registro tumori a copertura regionale. Inoltre la Regione ha stanziato risorse (8 milioni di euro) per la realizzazione di un centro di ricerca sulle correlazioni tra inquinamento ambientale e salute; la localizzazione del centro è prevista nell’area industriale di Taranto.

ORGE IN CANONICA.

Vaticano, orge omosessuali scuotono l'opinione pubblica, scrive Valentina Gianfermo su “Magazine Excite”. Uno dei peccati capitali è la lussuria e sembra che oggi il Vaticano debba fare fronte proprio ad uno scandalo legato a questo vizio. Un'esposto arrivato al Tribunale ecclesiastico della regione Puglia infatti lascia senza parole l'opinione pubblica, oggetto della denuncia delle possibili attività sessuali praticate da alcuni sacerdoti, denunciati da un uomo che è molto vicino alla chiesa e ha voluto raccontare la sua relazione sessuale con il parroco. La Curia è subito corsa ai ripari appena visti i titoli scandalistici che gridavano ad orge omosessuali con sacerdoti in quel di Taranto e, in un comunicato, si legge “i fatti apparsi sulla stampa sulla condotta moralmente riprovevole e assolutamente non compatibile con il ministero presbiterale di un parroco dell'arcidiocesi di Taranto” hanno portato alla rimozione del sacerdote dalle sue funzioni appena è stata appurata “l'attendibilità dei fatti”. Il tutto sottolineando che il prete lussurioso non è parte del clero di Taranto “bensì di un ordine religioso”. La coppia formata dal sacerdote e dal suo amante si era conosciuta su Facebook e una serie di chat, foto e video hanno testimoniato una realtà che ha shoccato tanto il Vaticano quanto tutti i fedeli e il pubblico astante. Tutto il dossier presentato al Tribunale ecclesiastico infatti sarebbe un lungo susseguirsi di orge, prostituzione, foto intime e scambio di luoghi per incontrarsi tra una serie di preti omosessuali. L'uomo che ha denunciato il prete tarantino ha anche presentato una serie di prove relative ad altri sacerdoti in giro per l'Italia. Che le orge omosessuali potessero essere un caso isolato sembrava troppo bello per il Vaticano e, ora, i panni sporchi esposti così pubblicamente hanno fatto emergere un panorama piuttosto preoccupante dove sacerdoti hanno rapporti tra loro e con esterni, tra i quali emerge anche una Guardia Svizzera del Vaticano. I fedeli ora non sapranno più cosa aspettarsi alla prossima omelia della domenica, di certo ora la chiesa non potrà semplicemente insabbiare tutto e dovrà dare le dovute spiegazioni e risolvere questi problemi interni. Forse il celibato nei tempi moderni potrebbe essere rivisto alla luce di scandali come le orge omosessuali e i preti pedofili.

Sesso, orge e filmati hard in parrocchia: accusato prete catanzarese. Finisce sulla cronaca nazionale lo scandalo che sconvolge anche il Vaticano, e che riguarda Don Antonio Calvieri, accusato di sesso, orge e filmati hard, scrive Simona Stammelluti su “Cosenza Post”. Un semplice parroco catanzarese, operante nella Parrocchia del SS Crocefisso di Taranto, finisce nel vortice di uno scandalo che trascina a fondo anche il Vaticano, dove al momento c’è grande tensione e subbuglio, non solo mediatico. Le accuse mosse a Don Antonio sono gravissime. Orge, sesso estremo, filmati hard e foto di atti sessuali consumati in parrocchia anche con soggetti religiosi di altre regioni. Tutto ha avuto inizio da un esposto consegnato al  Tribunale Ecclesiastico Regionale della Puglia, da parte di un uomo 32enne che vive al nord e ha denunciato le attività omosessuali che si consumavano dentro le mura della parrocchia. Lo stesso aveva ricevuto in chat sul famoso social network, proprio da Don Antonio, la confidenza circa la propria omosessualità, nonché i dettagli sui rapporti sessuali che lui stesso intraprendeva con altri preti. La cosa si spera venga risolta in breve tempo, visto che Monsignor Giuseppe Donato Montanaro, vicario giudiziale, rispondendo all’uomo che aveva denunciato i fatti, era stato chiaro circa i tempi di risoluzione della faccenda poiché così come lui stesso sosteneva “nessuno vuole sacerdoti così”. A testimonianza di questa attività sessuale che si consumava tra le mura ecclesiastiche, e dunque ad incastrare il sacerdote, ci sono video, foto, conversazioni in chat, promesse di orge e di rapporti sessuali in cambio di un lavoro, proposte di viaggi, scambio di foto a luci rosse e di indirizzi di altri preti omosessuali, con cui si sarebbe potuto incontrare. Appurata l’attendibilità dei fatti, Don Antonio Calvieri è stato rimosso dalla Curia Parrocchiale e dal suo ruolo religioso. La stessa Curia ha dichiarato che la rimozione del parroco, avviene perché la sua condotta è ritenuta “moralmente riprovevole e assolutamente non compatibile con il ministero presbiterale”. La Curia, nella dichiarazione rilasciata sottolinea come nella documentazione acquisita dal tribunale ecclesiastico, non vi sia traccia di un eventuale coinvolgimento di altri sacerdoti. Giorni concitati, questi, per coloro che si trovano adesso a dover gestire la faccenda non proprio pulita e che dovranno dar conto ai piani alti del Vaticano. Don Antonio Calvieri è stato allontanato da Taranto, e presto la parrocchia avrà un nuovo sacerdote.

"Sesso in canonica, orge gay" trema la curia di Taranto e ​il vescovo rimuove un prete. Il tribunale ecclesiastico non aveva mosso un dito dopo le denunce. Ma quando il caso è finito sui giornali nel giro di poche ore il parroco incriminato è stato rimosso, scrive Anita Sciarra su “Il Giornale”. Sesso, orge omosessuali, video e foto hot. Trema la curia di Taranto e salta la prima testa. Quella del sacerdote contro cui ha puntato il dito un religioso 32enne di Rovigo. Il parroco è stato rimosso dall'arcivescovo di Taranto Filippo Santoro, per il suo coinvolgimento in uno scandalo di incontri gay. Secondo quanto riferito dalla Curia, è stato rimosso immediatamente dopo che le accuse hanno trovato conferma. La curia ha anche precisato che il sacerdote rimosso non appartiene al clero di Taranto ma ad un ordine religioso. Il 32enne aveva presentato l'esposto al Tribunale ecclesiastico regionale della Puglia, denunciando il suo rapporto sessuale con un parroco, conosciuto su Facebook, di un’importante chiesa di Taranto. La denuncia era corredata da documenti video, foto e conversazioni in chat: un dossier pesante che mette in luce una presunta attività sessuale in canonica: orge, amore a pagamento, scambio di foto intime e di indirizzi di preti gay con cui incontrarsi. Tutto documentato da screenshot delle chat su Facebook o Skype e con la registrazione in webcam di video incontri sessuali. Nel giro di religiosi gay, finito sul tavolo del vicario giudiziale della sede tarantina del Tribunale ecclesiastico della Puglia, ci sarebbero anche i nomi di altri esponenti di Chiesa di varie regioni d’Italia, fino al Vaticano. Oltre che al Tribunale ecclesiastico, la vicenda è stata comunicata dall’interessato anche alla sede romana dell’ordine a cui appartiene il presunto sacerdote gay che esercita a Taranto. "Prima di parlare con la stampa ho rispettosamente atteso un segnale che purtroppo non è arrivato", ha spiegato al Corriere del Mezzogiorno l’accusatore (prima dell’intervento di rimozione nel giorno di Pasquetta) mostrando il contenuto di risposta ricevuta dal Tribunale ecclesiastico: "Come può benissimo intendere questi sono giorni particolari e tutti siamo impegnati nelle diverse funzioni e mi auguro di poter informare chi di dovere appena rientro in Ufficio, dopo le feste pasquali". Così il 32enne è passato alle maniere forti e si è rivolto alla stampa. Detto, fatto: nel giro di poche ore il sacerdote è stato rimosso da Taranto.

«Orge tra sacerdoti su Internet». E l’arcivescovo rimuove il parroco. Segnalazione ai superiori di un religioso del Nord Italia per episodi accaduti a Taranto. I filmati e le foto accusano anche ecclesiastici di altre regioni, tensioni nella Curia, scrive Nazareno Dinoi su “Il Corriere del Mezzogiorno" del 6 aprile 2015. Tremano le stanze della curia tarantina per un esposto, presentato al Tribunale ecclesiastico regionale della Puglia, che scopre il velo su presunte attività sessuali di alcuni sacerdoti. Autore della denuncia è un trentaduenne del Nord Italia, molto vicino agli ambienti della Chiesa, che ha deciso di raccontare il suo rapporto sessuale con un parroco, conosciuto su Facebook, di un’importante chiesa di Taranto. La notizia, pubblicata dal Corriere del Mezzogiorno, ha già avuto una conseguenza pratica: l’arcivescovo di Taranto, Filippo Santoro, ha rimosso dalle sue funzioni il sacerdote coinvolto. L’ufficialità è arrivata da una nota emessa dalla Curia di Taranto nella serata del lunedì in Albis dopo «i fatti apparsi sulla stampa sulla condotta moralmente riprovevole e assolutamente non compatibile con il ministero presbiterale di un parroco dell’arcidiocesi di Taranto». Nel comunicato la Curia sottolinea che «il sacerdote interessato, che non appartiene al clero di Taranto, bensì a un ordine religioso, è stato rimosso da monsignor Filippo Santoro dalla cura parrocchiale, non appena lo stesso arcivescovo insieme ad alcuni curiali, ha appurato l’attendibilità dei fatti». Dalla Curia evidenziano anche che «nella documentazione acquisita dal tribunale ecclesiastico al momento non c’è traccia alcuna del coinvolgimento in diocesi di altri sacerdoti». «Sebbene i giorni trascorsi siano stati particolarmente impegnativi e gli uffici di Curia chiusi per le festività pasquali - si legge ancora nella nota - ugualmente, proprio per amore al popolo santo di Dio, l’intervento è stato immediato. Ora il parroco non si trova più nel capoluogo ionico e l’ordine religioso è stato interpellato ed esprimerà il nome di un nuovo parroco entro mercoledì prossimo. Inutile dire che i sentimenti dell’arcivescovo e della Curia sono quelli del rammarico e dello sconcerto, specie perché questa notizia arriva in giorni in cui la Chiesa di Taranto è stata attraversata da momenti indimenticabili dal punto di vista della fede, proprio per la ricchezza e la devozione del Triduo Santo». Tornando alla denuncia, il religioso ha raccolto documenti video, foto e conversazioni in chat consegnandole al Tribunale. Un dossier pesante che mette in luce una presunta attività sessuale in canonica: dalle orge, all’amore a pagamento, allo scambio di foto intime e anche lo scambio di indirizzi di preti gay con cui incontrarsi. Tutto documentato da screenshot delle chat su Facebook o Skype e con la registrazione in webcam di video incontri sessuali. Nelle carte finite sul tavolo del vicario giudiziale della sede tarantina del Tribunale ecclesiastico della Puglia, monsignor Giuseppe Donato Montanaro, non c’è solo la presunta attività sessuale del sacerdote tarantino, ma ci sarebbe anche quella di altri esponenti di Chiesa di varie regioni d’Italia, fino al Vaticano. «Verso metà dicembre del 2014 su Facebook mi contatta una persona (nella denuncia seguono le generalità del parroco,ndr) che mi dice essere un sacerdote». Sarebbe iniziato così, tra i due, il rapporto che si è protratto sino allo scorso mese di marzo. «Un giorno – continua la lettera — mi disse: ti devo confessare una cosa, ho una debolezza, sono gay». Il rapporto, spiega l’estensore della denuncia, è diventato sempre più confidenziale e intimo sfiorando la familiarità. Il parroco di Taranto, che ha superato i cinquant’anni, avrebbe confidato al suo giovane amico di avere un’intensa vita sessuale quasi sempre con preti, ma non solo. Racconta di una storia avuta anche con un giovane militare della Guardia svizzera del Vaticano. Scrive il trentaduenne del Nord. «Allora mi chiedo, questa persona ama Dio? Ama la Chiesa? Ha rispetto per Dio e tutta la santa Chiesa? Il Vescovo? Il Papa? Merita una persona così di essere chiamato alla parola di Dio …. Essendo un sacerdote che chiede di fare orge tra preti suoi conoscenti, amici e via così?». Oltre che al Tribunale ecclesiastico, la vicenda è stata comunicata dall’interessato anche alla sede romana dell’ordine a cui appartiene il presunto sacerdote gay che esercita a Taranto. «Prima di parlare con la stampa ho rispettosamente atteso un segnale che purtroppo non è arrivato», ha affermato al Corriere del Mezzogiorno l’accusatore (prima dell’intervento di rimozione nel giorno di Pasquetta) mostrando il contenuto di risposta ricevuta dal Tribunale ecclesiastico. «Come può benissimo intendere – scriveva un alto prelato nell’e-mail dello scorso venerdì santo – questi sono giorni particolari e tutti siamo impegnati nelle diverse funzioni e mi auguro di poter informare chi di dovere appena rientro in Ufficio, dopo le feste pasquali». Oggi, però, dopo la denuncia sulla stampa è arrivata la rimozione da parte del vescovo.

Orge tra preti su internet, nuovo colpo di scena: il denunciante non è un sacerdote. Intanto il parroco rimosso dall'incarico sta per essere sospeso "a divinis" e rischia anche l'espulsione dal suo ordine religioso, scrive “Taranto Buonasera”. Nuovo colpo di scena nello scandalo a luci rosse che ha sconvolto la Curia di Taranto proprio nei giorni della Pasqua. L'Ansa, infatti, riferisce che il 32enne di Rovigo che ha denunciato al Tribunale ecclesiastico di essere stato contattato ripetutamente da un parroco di una chiesa del capoluogo ionico, che gli avrebbe chiesto sesso on line e lo avrebbe molestato al punto da costringerlo a ricorrere a psicofarmaci, in realtà non è un prete. Ma è solo un millantatore. E' la versione dei fatti fornita proprio dalla Curia di Taranto. La vicenda è quella di un sacerdote, parroco a Taranto, che è stato rimosso dall'Arcivescovo, mons. Filippo Santoro, dopo il suo coinvolgimento in uno scandalo di incontri gay. Il parroco era stato immediatamente rimosso dall'incarico, secondo quanto riferito dalla stessa Curia, dopo che l'attendibilità delle accuse, mosse da quello che poi si è rivelato un falso sacerdote 32enne di Rovigo, hanno trovato conferma. Il 50enne sacerdote rimosso, come precisato nei giorni scorsi anche da Taranto BuonaSera, non appartiene al clero di Taranto ma ad un ordine religioso (i Carmelitani) ed è originario della Calabria. L' Ordine dei Carmelitani - sempre secondo l'Agenzia di stampa -, potrà emettere nei confronti del sacerdote un decreto di sospensione a divinis ed esonero dalle funzioni e da ogni attività sacerdotale o procedere all'espulsione. Il denunciante ha sostenuto di aver conosciuto tramite Faceboook il parroco di Taranto e di aver intrattenuto con lui rapporti sessuali virtuali. L'esposto è stato corredato da screenshot delle chat su Facebook o Skype e dalla registrazione in webcam di video. Si parla anche di promesse di orge, di rapporti sessuali in cambio di un lavoro, di proposte di viaggi ed ospitalità a Taranto, che tuttavia non avrebbero trovato riscontro. L'arcivescovo ha precisato che "non c'è traccia alcuna del coinvolgimento in diocesi di altri sacerdoti".

TARANTO COME NON LA SI CONOSCE.

“Taranto: non solo Scazzi, Serrano e Misseri. Quel Tribunale è il Foro dell’ingiustizia.”

Libertà di stampa violata ed adozione di atti intimidatori e persecutori per chi ha il coraggio di raccontare la verità.

Antonio Giangrande, il noto scrittore di Avetrana, accusato di violazione della Privacy, il 12 luglio 2012 è stato assolto con la formula più ampia: per non aver commesso il fatto. Una sentenza che crea un precedente nel campo della libera informazione.

E’ stato assolto dal giudice onorario della sezione distaccata di Manduria, avv. Frida Mazzuti, su richiesta del Pubblico Ministero Onorario avv. Gioacchino Argentino. E’ stato disposto, altresì, il dissequestro del sito web d’informazione inopinabilmente oscurato per anni dalla magistratura brindisina e tarantina.

Nulla di che, se non si trattasse dell’epilogo di un atto persecutorio da parte della magistratura tarantina. E la notizia dell’assoluzione si deve dare senza remore, così come si fa se, invece, fosse stata una condanna.

«Questa è una esperienza che insegna e che va raccontata – dice il dr Antonio Giangrande, autore di 40 libri pubblicati su “Amazon” e su “Lulu” - Il fatto risale al 2006 quando improvvisamente la Procura di Brindisi chiude completamente il portale web d’informazione dell’ “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Sodalizio nazionale antimafia non allineato a sinistra. L’oscuramento del sito web effettuato con reiterati atti nulli di sequestro penale preventivo emessi dal Pubblico Ministero togato Adele Ferraro e convalidati dal GIP Katia Pinto. Lo stesso GIP che poi diventa giudice togato del dibattimento e che alla fine del processo proclamerà la sua incompetenza territoriale. Dopo anni il caso passa al competente Tribunale di Taranto. Qui il Gip Martino Rosati adotta direttamente l’atto di reiterazione del sequestro del sito web, senza che vi sia stata la richiesta del PM. Il reato ipotizzato è: violazione della Privacy. Non diffamazione a mezzo stampa, poco punitiva, ma addirittura violazione della privacy, reato con pena più grave. E dire che gli atti pubblicati non erano altro che notizie di stampa riportate dai maggiori quotidiani nazionali. Era solo un pretesto. Di fatto hanno chiuso un portale web di informazione e d’inchiesta di centinaia di pagine che riguardava fatti di malagiustizia, tra cui il caso di Clementina Forleo a Brindisi e una serie di casi giudiziari a Taranto, oggetto di interrogazioni parlamentari. Tra questi il caso di un Pubblico Ministero che archivia le accuse contro la stessa procura presso cui lavora; che archivia le accuse contro sé stesso come commissario d’esame del concorso di avvocato ed archivia le accuse contro la sua compagna avvocato, dalla cui relazione è nato un figlio. Fatti di malagiustizia conosciuti e scaturiti da esperienze vissute personalmente o raccontate dalle vittime, fino a quando mi hanno permesso di svolgere la professione di avvocato e successivamente in qualità di presidente di un’associazione antimafia. Dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, nonostante i più noti avvocati di quel foro abbiano rifiutato di difendermi e sebbene tutti i miei avvocati difensori mi abbiano abbandonato, eccetto l’avv. Pietro DeNuzzo del Foro di Brindisi. Qualcuno si è fatto addirittura pagare da me, nonostante abbia percepito i compensi per il mio patrocinio a spese dello Stato. Ed ancora dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, anche in virtù del fatto che il giudice naturale, Rita Romano, sia stata ricusata in questo processo, perché non si era astenuta malgrado sia stata da me denunciata. A dispetto di tutte le circostanze avverse vi è stata l’assoluzione, ma i magistrati togati hanno ottenuto comunque l’oscuramento di una voce dell’informazione. Voce che in loco è deleteria al sistema giudiziario e forense tarantino e contrastante con la verità mediatica locale.

A tutti coloro, che in apparenza gridano alla libertà di stampa, direi di essere meno ipocriti, codardi, collusi  e partigiani, perché i giornalisti e gli operatori dell’informazione locale, anziché esprimere solidarietà ad un collega, hanno pensato bene di trattarmi come appestato e recidere quelle collaborazioni che avevo con loro. A tutti quelli che spesso rappresentano un potere criminogeno e ciò nonostante proclamano “fuori i condannati dal Parlamento” direi: se i condannati sono coloro i quali sono perseguitati per le opinioni espresse, allora direi fuori le caste e le lobbies e le mafie e le massonerie dal Parlamento, che a quanto a pericolosità sociale non sono seconde a nessuno».

Il Parlamento italiano, composto per lo più da avvocati, giusto per dare un taglio all’annosità dei procedimenti giudiziari civili, forieri di condanne della Corte Europea dei Diritti Umani, ha partorito la riforma della mediazione. A seguito dell'approvazione del decreto legislativo che introduce la mediazione nel nostro ordinamento (con il d.lgs. 28/2010, "Attuazione dell'articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali"), il 21 marzo 2011, la mediazione è divenuta obbligatoria. Prevista dall'art. 5 del decreto legislativo 28/2010 (che attua l'art. 60 della legge 69/2009), la mediazione dovrà essere esperita a pena di improcedibilità della domanda giudiziale, in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari. A Taranto e provincia vi sono tantissimi organismi di mediazione e camere di conciliazione. L’Organismo di Mediazione dell’Ordine degli Avvocati di Taranto è iscritto, con P.D.G. del 21.03.2011, al n. 184 del Registro degli Organismi di Mediazione istituiti presso il Ministero della Giustizia. Dal sui sito web si rileva che responsabile dell'Organismo è Angelo Esposito, presidente dell’Ordine; mentre il Consiglio direttivo è composto dallo stesso Esposito come presidente, Aldo Feola come segretario, Vito Fico come tesoriere, Vincenzo Di Maggio come responsabile della scuola forense e Paola Silvestri come coordinatore. E' cosa ovvia che tale organismo abbia il monopolio della mediazione, non perché sia più quotato di altri, ma perché è maggiormente indicati dagli stessi avvocati, chiamati in causa dai loro clienti per dirimere le controversie. Ed all’interno dello stesso organismo, così come risulta dai dati forniti dalla stessa camera di conciliazione dal suo sito web, fa la parte del leone proprio il direttivo, con in prima fila il suo presidente con il compenso più elevato, pur con poche assegnazioni. Detto questo, dalla piena regolarità dell'operato dei soggetti in questione, ogni lettore tragga le conclusioni più opportune.

MAI DIRE INTERDIZIONE ED INABILITAZIONE: “MESSI A TACERE PERCHE’ RICERCAVAMO LA VERITA’….”

In questo campo, io Antonio Giangrande, mi sono imbattuto quando svolgevo l’attività forense. Professione che fatta da me in modo etico, ha portato gli operatori della giustizia ad adottare atti di ritorsione, che mi impediscono di proseguirla. La mia testimonianza sui casi di malagiustizia da me affrontati, o di cui sono venuto a conoscenza, hanno indotto i magistrati a far chiudere i miei siti web e di processarmi per diffamazione a mezzo stampa. Ad oggi, nonostante che a giudicarmi siano gli stessi magistrati criticati, nessuna sentenza di condanna ha sporcato la mi onorabilità. E quantunque fosse stato il contrario, sarebbe comunque salva la mia dignità. Il tutto ben illustrato nel dossier ingiustizia a parte. Perché il potere ti dice: subisci e taci. La Mafia ti distrugge la vita, lo Stato di uccide la speranza. In Avetrana, una mia cliente, alla morte del padre, quale unica erede, riceve centinaia di milioni di lire. Il fratellastro, che da tempo non aveva rapporti con loro, al fine di impossessarsi dell’eredità, promuove il procedimento d’interdizione per dichiarare incapace d’intendere e volere la stessa sorella. Contestualmente, presenta esposto penale, ritenendola vittima di circonvenzione d’incapace a seguito di condotta di un’altra parente. Il sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, non nuovo ad abusi giudiziari, in violazione degli artt.257 e 322 c.p.p., sequestra tutti i beni, compresi quelli di sostentamento, senza notifica del decreto per poter opporre richiesta di riesame. Inoltre attiva, d’ufficio, altro procedimento d’interdizione. Nei tre procedimenti, 1 penale e 2 civili d’interdizione, per anni si impedisce il diritto di difesa all'interdicenda, perché non gli viene nominato un difensore d’ufficio, né gli viene nominato il curatore-tutore provvisorio per la nomina del difensore di fiducia. Si abbandona l’interdicenda e la si sente dopo anni, anziché dopo giorni, in procedimento d’interdizione, in udienza pubblica, alla presenza di decine di spettatori divertiti. Il sottoscritto, suo difensore, pur con regolare abilitazione al patrocinio legale, operando nell’interesse dell’assistita nei molteplici mandati extragiudiziari, sol perché è Praticante Avvocato con patrocinio legale, viene indagato per esercizio abusivo della professione e per gli effetti anche di circonvenzione d’incapace, nonostante non fossi io il denunciato dal fratellastro, e lo viene a sapere dal fascicolo del P.M., segretato per le indagini in corso, ma alla mercé pubblica del procedimento d’interdizione. Tutti gli atti richiesti al sottoscritto sono stati consegnati senza sapere di essere indagato e senza la presenza del difensore. Non si indaga in suo favore, per accertare la regolare abilitazione con il patrocinio legale, né viene sentito su fatti e circostanze. Al sottoscritto gli viene impedito di nominare un difensore, in quanto gli si impedisce l’accesso al gratuito patrocinio, perché gli viene comunicato il limite di reddito di lire 11.260.000, anziché lire 18 milioni. Così come fanno altre Procure per altri accusati. Inoltre per 3 rituali richieste di accesso al gratuito patrocinio non viene dato riscontro, nemmeno per il diniego. Il PM, ricevendo la prima richiesta, invia al GIP parere negativo, che diniega, ma non comunica. Il PM, ricevendo la seconda richiesta, inviata al GIP tramite carabinieri, la fa sparire. Il giudice del Tribunale di Manduria, nell’udienza del 4 novembre 2003, rigettando la terza richiesta impone la nomina illegale preventiva dell’avvocato, nominandolo ella stessa, in violazione della legge, che stabilisce la scelta dell’avvocato, da parte dell’imputato, solo ad ammissione avvenuta al gratuito patrocinio. Il giudice viene sostituito per altri motivi ed il successore, nonostante le illegalità e gli abusi, rigetta l’istanza di annullamento e rinvio al GIP degli atti processuali. Insomma, dopo anni è stata impedita la difesa, per una condanna scontata. Al sottoscritto indagato non gli si impedisce di reiterare il presunto reato, perché continua a lavorare per la persona offesa dallo stesso reato, abbandonata da tutti, e continua a lavorare per altri. In violazione dell’art.50 c.p.p. non si indaga sui veri responsabili, oggetto di denuncia. Inoltre, in udienza di interdizione, il Giudice, alla richiesta del sottoscritto di attivarsi, affinché l’interdicenda potesse esercitare il suo diritto di difesa, lo sbatté fuori fisicamente a spintoni, sbattendogli dietro la porta, sfiorandoli la spalla. Questo nonostante fosse stato il Giangrande stesso a portare la donna in udienza, cosa che avrebbe dovuto fare, invece, il fratello o l'autorità giudiziaria. Ad istigare il Giudice era il legale del fratellastro, che nella stessa udienza, derideva il sottoscritto, sua controparte, per essere praticante, fino a farlo cacciare dall’aula, affermando, che i Praticanti possono solo esercitare presso i Giudici di Pace. In sede di udienza preliminare, il GUP, anziché effettuare reale udienza preliminare con contraddittorio delle parti, si limita a ratificare tout cour la richiesta di rinvio a giudizio, senza dare modo di interloquire. In tale sede, pur denunciando la nullità degli atti di indagine, le cause di non procedibilità, ovvero le cause di giustificazione, il GUP, non sente ragioni. L’avvocato nominato d’ufficio per il sottoscritto, non si presenta nemmeno. L’avvocato nominato in udienza in sua sostituzione, non se ne frega niente del suo assistito. Egli è silente e inattivo. L’interdicenda, addirittura, in udienza era assente e non rappresentata per la mancanza di nomina del difensore o del curatore-tutore giudiziale provvisorio. Con questo stato di cose si è impediti, inoltre, ad essere interrogati, a conoscere gli atti del P.M. e a costituirsi nei termini, decadendo dal diritto di chiamare testi e produrre prove a discarico. La stessa cosa è nel proseguo presso il Tribunale di Manduria, dove è disattesa l’ennesima istanza di accesso al Gratuito Patrocinio e dove è impedita la nomina dell’avvocato di fiducia. Lo stesso Presidente della Camera Penale, iscritto nell’elenco degli avvocati del gratuito patrocinio, rifiuta il mandato. L’interdicenda abbandonata da parenti ed Istituzioni, impedito l’aiuto del sottoscritto e ritenuta capace da tutti, improvvisamente, viene allontanata dalla sua casa e ricoverata coattivamente presso un ospedale, presumibilmente, psichiatrico. All’uscita essa entra in uno stato di depressione senza soluzione di continuità. Non si poteva non presentare alla procura di Potenza le denunce penali contro i magistrati. Invece la Procura di Taranto dichiara in udienza che non esistono denuncie presentate presso di loro, né presso altre Procure. Dichiarazioni mendaci confermate dalla Procura di Potenza. La Procura di Potenza si affretta ad archiviare la denuncia del 02/09/03. Lo stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, denunciato, per ritorsione alle battaglie di legalità, impedisce l’accesso al gratuito patrocinio al Giangrande per due procedimenti civili. Nel primo procedimento civile era controparte lo stesso Consiglio dell’Ordine, dichiarato contumace, e l’INPS; nel secondo procedimento civile era controparte l’INPS. La seconda causa è stata tenuta da un avvocato, che per 10 anni non ha svolto fedele patrocinio, chiedendo ed ottenendo, sistematicamente, il mero rinvio, rasentando la soccombenza e decadendo dal diritto di chiamare i terzi garanti in causa, i quali erano titolari della esattoria comunale e per questo delegati dall’INPS ad incassare le somme richieste per i contributi previdenziali. Esattori che, sembra, non hanno versato al delegante le somme percepite. In seguito alla doverosa e necessaria estromissione dell’avvocato, avendone le qualità, si è attuata la difesa personale da parte dell’istante, ex art.86 c.p.c., così come è stato fatto per l’altro procedimento, fino a che non è scaduto il patrocinio legale, con conseguente indigenza e mancanza di difesa. COMUNQUE IN DATA 14 LUGLIO 2009 SI E’ PRONUNCIATO IN APPELLO IL NON LUOGO A PROCEDERE PER ANTONIO GIANGRANDE E LA CONDANNA DI CIRCONVENZIONE D’INCAPACE ED ESERCIZIO ABUSIVO DELLA PROFESSIONE E’ DECADUTA.

Questo a Taranto, nel Sud dell’Italia. Ed al Nord?

Che fine ha fatto la professoressa Borgna? Questo si chiede Alessandro Barbaglia della “Tribuna Novarese”. Tutto comincia così con una domanda che la testata torinese “Cronaca Qui” nel gennaio 2009 fa risuonare dalle proprie colonne. Che fine ha fatto? Rapita? Confinata all’ospizio? Fatta interdire da avidi parenti con l’intenzione di spartirsene l’eredità? O forse semplicemente ricoverata in una struttura adatta ad accogliere le esigenze di un’anziana 83enne resa sorda dagli anni o dai ricordi di una vita difficile, molto difficile? Le ipotesi in quel gennaio freddo sulla stampa si fanno roventi. Anche fantasiose. Salta fuori pure una lettera (autentica) firmata dai vicini di casa della professoressa che racconta quanto sia stato anomalo quel ricovero forzato eseguito per far sparire la vecchia professoressa di latino e greco definita “donna lucida e sempre presente e sé stessa, eppure è stata caricata a forza su un’ambulanza, legata e portata via: era evidente che c’era qualcosa di poco chiaro”. Ma chi è la signora Borgna? E perché ricordare oggi questa vicenda torinese e passata? Perché quella domanda, quella che poneva ai lettori “Cronaca Qui”, ha aperto un vortice di strane vicende fatte anche di minacce ed intimidazioni che ha allargato le proprie spire fino a coinvolgere un’assistente sociale novarese che si è interessata del caso, ha proposto una chiave di lettura della vicenda drammaticamente differente da quella che i giudizi ed i tutori legali stavano seguendo ed è stata radiata dall’ordine professionale con gravi accuse: aver rivelato a terzi informazioni sul conto della propria cliente; aver contattato la persona interdetta senza autorizzazione; aver effettuato attività professionale senza aver ricevuto compenso ed incarico. Radiata perché ha fatto il suo lavoro. Inoltre questa storia vede imputata un’altra donna finita in questo ciclone: la badante della professoressa Borgna accusata di circonvenzione d’incapace. Ma cosa è successo? Che storia e cosa si nasconde dietro il mistero della scomparsa professoressa Borgna e della radiazione dell’assistente sociale novarese? Proviamo a ricapitolare la vicenda, proprio con lei, l’assistente sociale Luigia Padalino, specializzata tra l’altro, in psichiatria forense. «Inizia quasi tutto per caso – spiega – Una mattina di oltre un anno fa quando mi sono imbattuta nella lettura di alcuni articoli del giornale “Cronaca Qui”. Si raccontava della sparizione, o del ricovero forzato, di un’anziana professoressa, la signora Borgna e delle accuse rivolte alla badante della donna: circonvenzione d’incapace. In quegli articoli c’era qualcosa che non mi convinceva, le modalità con cui la donna era stata prelevata dalla sua abitazione sembrava una deportazione: polizia, finanzieri ed infermieri che l’hanno addirittura legata. Tutto ciò per una pacifica donna di 82 anni.» in realtà, secondo gli atti, la donna era stata interdetta un anno prima e affidata ad un tutore. «Già, anche questo era un elemento anomalo: il nuovo tutore legale era l’avvocato che accusava la badante di circonvenzione d’incapace: mentre sulle capacità mentali della donna ci sono lettere lucidissime inviate poco prima del sequestro ad un amico di vecchia data. Una persona interdetta non potrebbe scrivere lettere tanto precise». Insomma la questione la incuriosisce e cosa fa? «Mi occupo di malagiustizia e malasanità, anche in forma privata e gratuita: quando ho letto la storia della professoressa ho inviato una mail al procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli chiedendogli di non sottovalutare il caso, presentava anomalie, mi ricordava altre vicende simili e drammatiche in cui donne anziane, e molto ricche come la Borgna, erano state fatte internare dai parenti per potersi spartire l’eredità». E lei a Caselli fa presente questa ipotesi? «No, assolutamente no, chiedo solo di prestare attenzione al caso perché poteva presentare anomalie». La mail parte ad inizio gennaio, due giorni dopo l’assistente novarese viene convocata in procura. A Torino. «Mi sono stupita molto, nemmeno credevo l’avrebbero letta quella mail, e invece nel giro di pochi giorni mi convocano, mi interrogano e mi chiedono cosa sapessi di quella storia. Il bello è che io non sapevo nulla, richiamavo l’attenzione della Procura al caso. È a quel punto che ho la conferma che tutta quella situazione è anomala: perché la procura di Torino ha voluto sentirmi? Cosa supponeva potessi sapere? Perché è scattata sull’attenti appena ho nominato il caso della ricca professoressa fatta interdire e poi ricoverare con la forza? Qui inizi il gorgo del mistero. L’assistente sociale incontra la badante della professoressa Borgna, accusata di circonvenzione di incapace ai danni della Borgna, e la versione dei fatti che la donna fornirà sarà sconcertante. «La badante era accusata in sede penale sulla base di un’unica prova: nel suo appartamento era stato ritrovato un testamento a firma della Borgna a lei favorevole. L’avvocato dell’accusa, nonché tutore della Borgna, non ha dubbi: la badante è colpevole. Senza averla mai ascoltata, altrimenti avrebbe appreso dell’altro, di un complotto ordito da persone vicine alla Borgna nei confronti della professoressa: in una lettera scritta dalla Borgna ai carabinieri, la donna racconta di persone che le si aggiravano in casa e le sottraevano mobili, oggetti preziosi e documenti … E’ per quello che la Borgna aveva chiesto alla badante di conservare il testamento: per evitare che sparisse! La Borgna collezionava mobili antichi, oggi in casa sua non ce ne è più nemmeno uno. Dove sono finiti?» questa è una sua tesi? «Questo è quanto si evince dal racconto della badante e dalla lettura della lettera scritta dalla Borgna ai carabinieri di Torino e mai considerata quel che succede poi è un “giallo”. Con regolare assunzione d’incarico svolgo tre indagini sociali per conto della badante sollevando interrogativi inquietanti corredandole di documenti e testi che nessuno aveva considerato arrivando però alla sbrigativa conclusione che la badante fosse responsabile di qualcosa. Tre indagini sociali che finiscono negli atti processuali contro la badante, privati degli allegati dei documenti dei testi». E il processo ha preso in considerazione le sue indagini? «Il processo non è ancora iniziato (la prima udienza è fissata per oggi ) ma l’accusa invia le perizie, prive degli allegati fondamentali, all’ordine degli assistenti sociali che mi ha sospeso per un anno sostenendo che, per stenderle, avevo agito in maniera deontologicamente scorretta. Un bavaglio che ha messo a tacere me e tutti quelli che, anche con intimidazioni, come dimostrato dalle mie indagini sociali, tentavano di presentare la vicenda sotto altre vesti, cercavano di sollevare dubbi sulle monolitiche verità che erano state assunte: la colpevolezza della badante, il corretto internamento della Borgna, l’affidamento del suo patrimonio ad altri. Ho cercato di fare il mio lavoro, di cercare la verità, forse ho toccato tasti o interessi che non andavano nemmeno sfiorati…». Mentre il processo sulla colpevolezza della badante è ancora tutto da dibattere, l’assistente sociale, Luigia Padalino, scusate il giro di parole, paladina della giustizia: è radiata dall’Ordine. “NESSUN COMMENTO, MA LA SANZIONE POGGIA SU MOTIVAZIONI SERIE”. La storia di Luigia Padalino è complessa e scivola in temi per cui le colonne del giornale rischiano di essere strette. Dall’ordine degli assistenti sociali di Torino, organo da cui è partita al sospensione annuale nei confronti dell’operatrice novarese, sulla questione c’è un riserbo totale. «E’ impensabile- ci spiega Povero Graziella, segretaria dell’ordine- che si possano fare commenti ad una sospensione che è un atto ufficiale e notificato su cui incide il segreto professionale e la tutela della privacy». Quindi per capire cosa ha spinto l’ordine ad assumere il provvedimento disciplinare contro Padalino, che bisogna fare? «Chiederlo a lei e attenersi agli atti. È chiaro però che se l’ordine ha deciso per la sospensione, non ha agito in maniera sconsiderata: è in possesso di atti e ragioni che lo giustificano e lo motivano chiaramente. Tutti atti e ragioni di cui non si può sapere nulla. All’interessata tutto è stato spiegato e tutte le carte che la riguardano le sono state consegnate. Se la signora dovesse avere qualcosa da ridire è libera di impugnare il provvedimento davanti al consiglio nazionale, ma noi non siamo tenuti a dare ulteriori spiegazioni».

Già! Peccato che il potere non può tacitare una verità inconfessabile e censurata dai media.

Sane di mente o psichicamente disturbate? Lucide testimoni di gravissimi atti criminali o instabili mitomani da manicomio? Pezzi di giustizia asserviti a potenti poteri criminali o casuali coincidenze? A proporre il dubbio due storie. Protagoniste due donne. Di età, città, vissuti diversi, ma con un unico filo conduttore: due cause di "interdizione," che si inseriscono in vicende per nulla chiare. Secondo il codice civile si può richiedere l'interdizione quando una persona maggiorenne si trova in situazione di abituale infermità di mente. Si applica dunque in casi di incapacità legale a compiere atti giuridici. Piera Crosignani è la prima vittima di una delle due storie ai limiti di ordinaria follia. La vicenda è clamorosa, non fosse altro per i 150 miliardi di lire che fanno da sfondo o, più propriamente, da protagonisti. L'incubo di cui parla inizia il 9 giugno 1999, quando, con una sentenza del tribunale di Milano (pubblico Ministero Ada Rizzi, giudice tutelare Ines Marini – nomi da tenere presente, perché torneranno nella seconda storia), viene stabilita l'interdizione della Crosignani su richiesta dell'ex marito, un diplomatico di nazionalità austriaca. La Crosignani, da ricchissima che era, rimane senza nulla. Si trasferisce nella provincia lucchese dove amici l'accolgono e la sostengono. La paranoica Piera, maturità classica, quattro lingue parlate correntemente, studi alla Sorbona e a Cambridge, legge Sofocle e Ibsen quando incontra lo psichiatra Gian Luca Biagini all'Asl 2 di Lucca. E Biagini contesta da subito la perizia ammessa dal tribunale di Milano. E lo psichiatra di Lucca va oltre: spedisce un esposto al Ministero della Giustizia e al Consiglio Superiore della Magistratura oltre che segnalare all'Ordine dei medici di Milano il comportamento del perito del tribunale e la validità della perizia a suo dire inspiegabile. Silenzio e ancora silenzio. Si susseguiranno perizie su perizie, finchè la Crosignani, matta per legge da anni, viene riabilitata da una revoca della sentenza di interdizione accolta nel giugno 2005. Il giudice tutelare del tribunale di Lucca impedisce alla signora di ritornare in possesso delle sue proprietà. Sana sì, ma che non tocchi il suo patrimonio (per quello ci sono i tutori, sempre). Delle due l'una: se la Crosignani proprio non è matta, allora il suo delirio paranoico diagnosticato può anche essere, al contrario, una lucida consapevolezza di essere divenuta vittima di una organizzazione truffaldina. Ancora anni fa raccontava a Il Giornale del 17 settembre 2000 le parole di un magistrato milanese «su piani orditi per impossessarsi dei beni di anziani soli e abbienti, di notai manigoldi, di avvocati conniventi». A non avere dubbio alcuno sull'esistenza di un vero racket delle interdizioni e a denunciarlo pubblicamente e in ogni sede è Claudia Mariani, un'altra vittima di quel meccanismo perverso e criminale che ha rovinato l'esistenza di Piera Crosignani e di chissà quanti come loro. Laureata in filosofia con orientamento psicologico, lucidissima e agguerrita, pronta a ripercorrere ancora una volta quei dodici anni che iniziano con la denuncia di un traffico illecito, passano per processi, minacce di morte, divorzio, lutti familiari e, non una, ma ben quattro procedimenti di interdizione. Il caso fu oggetto anche di 2 interrogazioni parlamentari. Claudia non vuol rendersi indirettamente complice degli illeciti del marito e informa Autorità pubbliche e magistratura di quanto scoperto, continuando, su loro indicazione, a raccogliere informazioni utili. E le informazioni documentali Claudia le porta copiose alla competente Procura di Tortona; ma l'inchiesta non prosegue, rallenta, si insabbia, e si ferma. Di più: il procuratore capo Aldo Cuva, che da lì a pochi mesi verrà radiato dalla magistratura per essere accusato di aver manomesso i verbali d'interrogatorio nell'inchiesta sui drammatici fatti dei sassi dal cavalcavia di Tortona, «cercò – dirà la Mariani – di farmi passare per pazza e colpevole, impedendo in tutti i modi il proseguimento delle indagini». Emblematico a questo proposito un documento, di cui siamo in possesso, redatto a mano dal dottor Cuva su carta intestata della Procura indirizzato al comandante della Guardia di Finanza di Tortona con il quale si suggerisce di «farsi carico… di elementi di giudizio utili, eventualmente, sotto il profilo della calunnia». Sembrano ora trovare conferma, nei fatti, le tante minacce rivolte dal marito e rintracciabili nelle numerose denunce depositate dalla Mariani negli anni: «Non immagini neppure chi sta dietro a sto giro!!! Abbiamo amici magistrati, finanzieri, poliziotti che lavorano per noi. Ti distruggiamo fino a farti interdire e internare in un manicomio. E quando sei lì dentro ti distruggiamo fisicamente e cerebralmente». Trasferitasi a Milano si fa pressante la condizione della madre, l'allora ottantenne Cesarina Fumagalli già affetta da patologie psichiche che peggiorano di giorno in giorno. Si rivolge dunque alle strutture sanitarie per chiedere il Trattamento Sanitario Obbligatorio e al Tribunale di Milano l'interdizione della madre. E qui i fatti si susseguiranno con una sequenza travolgente che ha dell'incredibile: il Tso viene revocato e la Mariani si ritrova una imputazione per sequestro di persona da parte del PM Ada Rizzi (la ricordate? La stessa della storia Crosignani). Ma non basta: ora il caso Mariani si riannoda indissolubilmente con il caso Crosignani. Perché manca ancora il colpo di scena: non solo la domanda di interdizione per la madre è stata rigettata ma è ora la stessa Mariani che si dovrà difendere da una richiesta di interdizione. Ad avallare la causa c'è ancora lei, il PM Ada Rizzi. E a proporla, assistita dall'avvocato Calogero Lanzafame, la stessa Fumagalli. Nel 1997 la dottoressa Mariani, sollecitata anche dai giudici tutelari della madre, denuncia Lanzafame per circonvenzione e reati connessi e presenta un ricorso urgente per la limitazione della capacità di agire della madre. Ma denuncia e ricorso, assegnate come sempre alla Rizzi, vengono naturalmente respinte. Seguono negli anni: denunce e controdenunce; perizie e controperizie (saranno addirittura 12); istanze e controistanze; citazioni in giudizio, richieste di avocazioni, richieste di sequestri cautelari, archiviazioni in un via vai di fascicoli che appaiono e scompaiono interessando tutti i piani di Procura, Tribunale e Corte d'Appello di Milano. Siamo nel 2000 quando il sostituto procuratore Gherardo Colombo, consultata la memoria presentata dalla Mariani, inoltra con urgenza per competenza alla Procura di Brescia i procedimenti aperti. Mentre quella Claudia Mariani che chiede l'interdizione della madre malata, presenta alla procura di Brescia, su suggerimento del presidente di corte d'Appello Seriani e del sostituto Colombo, una denuncia per abuso d'ufficio contro il PM Rizzi. Di rimando, la Rizzi cita in giudizio la denunciante Mariani per richiederne l'interdizione, in quanto affetta principalmente da «querulomania». Il 4 aprile 2007 presso il Tribunale di Milano all'udienza in appello per il giudizio di interdizione intentato contro la dottoressa Claudia Mariani dal pm Ada Rizzi, la corte ha preso atto della perizia del tutto favorevole redatta dal Consulente tecnico d'ufficio dottor Vittorio Boni. Claudia Mariani è ufficialmente sana di mente. Come lo è la Crosignani. Questa inchiesta sulla Crosignani e sulla Mariani è stata pubblicata sul mensile Casablanca, che rischia di chiudere per "dimenticanze" dello Stato, e perchè forse l'antimafia è concepita solo se si parla di coppole e lupara.

Amministrazione della Giustizia e responsabilità civile dei magistrati. La posizione di un addetto ai lavori.

La verità di Matteo Di Giorgio. Il magistrato di Taranto arrestato dalla Procura di Potenza. Quello che la stampa non osa riportare. Così come fanno tutti i giornalisti locali e nazionali con il dr Antonio Giangrande, soverchiato da magistrati indegni della toga che indossano e coperti mediaticamente da giornalisti omertosi. La verità del magistrato Matteo Di Giorgio dopo l'arresto pubblicate in video ed in testi alla pagina territoriale di Taranto su www.telewebitalia.eu. Cose che Giangrande è da anni che le grida al mondo, accusando infame ritorsioni. Giudici contro. Della serie: anche i sostituti procuratori della Repubblica di Taranto provano l’onta dell’ingiustizia e subiscono la gogna mediatica. La voce agli imputati, presunti innocenti, in un sistema dove voce non hanno. La sua Verità di giudice arrestato e buttato nella bolgia infernale come i comuni mortali a provare la legge del contrappasso. A ristabilire la sua verità Matteo Di Giorgio il 2 maggio 2012 ha incontra pubblicamente a Castellaneta i suoi cittadini. La sua difesa: «Vittima di un complotto». Il pm ha respinto le accuse. Fallite le mediazioni del sen. Putignano e del vescovo Fragnelli. Il resoconto parziale e politico di Michele Cristella sulle colonne de "Il Corriere del Giorno di Puglia e Lucania", dove non si fa menzione delle accuse alla procura di Potenza.

Risposta, confutazione, dignità. Oltre due ore di intervento nel cinema Valentino gremito, Matteo Di Giorgio, magistrato che ha subìto l’onta degli arresti domiciliari dichiara la sua innocenza dinanzi alla sua città. La moderatrice Sara Trovato gli pone subito la domanda più spinosa: perché parla oggi, in piena campagna elettorale? «So, dice Di Giorgio, che di queste cose bisogna parlare nelle aule dei tribunali. Ma io ogni giorno vengo attaccato nei comizi come il cancro della mia città e come il responsabile della stasi edilizia e dello sviluppo. Sento come mio diritto difendere e ristabilire la mia dignità dinanzi alla pubblica opinione. La mia coscienza è pulita, adamantina, cristallina. Parlo ora, dopo un manifesto gravemente pregiudizievole nei miei confronti e per gli attacchi nei comizi, fino ad essere un additato come “giudice deviato”». E continua: «Il prof. Rocco Loreto dice di non avermi mai nominato, ma i riferimenti a me sono numerosi: responsabile dello scioglimento della sua maggioranza nel 2001, sequestro del Prg, favorito un testimone a me avverso». E confuta le accuse. «Non posso aver sequestrato il Prg perché esso era stato annullato dalla stessa maggioranza per vizio di forma. Non posso aver minacciato Mimmo Trovisi perché si dimettesse per far cadere la maggioranza, perché egli non era l’undicesimo, ma si dimise dopo altri dodici, né sarebbe stato possibile minacciarlo perché la nipote, essendo minorenne, non poteva né essere indagata né arrestata. Quanto alla storia del testimone Coccioli è una vicenda lunga e complessa che si incentra su un favore di fargli avere dal comune 1500 euro da dare alla squadra che poi li avrebbe girati a lui, cosa che nessun “capo di cupola”, come sono stato definito, avrebbe mai potuto fare, essendo io, per altro ben in grado di elargire di tasca mia una somma così esigua». Di Giorgio, dopo aver sostenuto di non aver mai perseguitato Loreto, di aver accettato di indagare su di lui e di aver accettato da Sebastio e Petrucci di essere affiancato da colleghi e dagli stessi Procuratori, spiega la sua tesi di essere vittima di un complotto, di aver subito un processo kafkiano, cioè di essere passato da vittima a carnefice, ha mostrato come alcune ordinanze coperte da segreto istruttorio erano in possesso e a conoscenza di alcuni suoi denuncianti: «Il complotto contro di me è indiscutibile». Una storia, racconta Di Giorgio, «che comincia nella notte del bar Gorgo. E fu questo episodio che m’indusse a parlare con la stampa e dire che avrei chiesto la sua rimozione da dirigente scolastico». Un particolare: il senatore Putignano prima e il vescovo Fragnelli, prosegue, «dopo mi chiesero di partecipare al rasserenamento del clima; rinuncio a tutto, chiedo solo che Loreto dicesse in pubblico che ero onesto. Ma egli si rifiuta. E chiamo a testimone mons. Fragnelli». La conclusione: «Mai minacciato nessuno, mai fatto del male ad alcuno, almeno scientemente, mai danneggiato la mia città, rivendico il diritto alla mia dignità».

Anche Mimmo Mazza da “La Gazzetta del Mezzogiorno” rendiconta l’avvenimento. Anch'esso con stampo politico, omettendo ogni riferimento alle critiche sull'operato della magistratura potentina.

A un mese dall'inizio del processo che lo vedrà alla sbarra per concussione e corruzione in atti giudiziari e, soprattutto, a quattro giorni dalle elezioni comunali che rischiano di riportare alla guida del Comune il suo acerrimo nemico Rocco Loreto, l'ex pubblico ministero Matteo Di Giorgio riempie l'unico cinema cittadino per raccontare la sua verità, «tutta la verità», come annuncia negli inviti trasmessi via mail alla stampa, postati sul suo profilo Facebook e rivolti in maniera particolare ai suoi detrattori. «Armato» di computer portatile e faldoni, come se occupasse il suo ufficio del Palazzo di Giustizia di Taranto dal quale manca dall'11 novembre del 2010, giorno in cui fu sottoposto agli arresti domiciliari dai carabinieri del Reparto operativo di Potenza, Di Giorgio è un fiume in piena, desideroso di rompere gli argini che i suoi legali avevano faticosamente costruito in tutti questi mesi. Il dibattito, quasi un one man show, parte con sul grande schermo un manifesto dell'Italia dei Valori dal titolo emblematico «Dopo oltre dieci anni la giustizia prevale sul potere», fatto affiggere per le vie del paese all'indomani dello scorso 14 marzo, giorno in cui il gup Petrocelli di Potenza ha rinviato a giudizio il magistrato, sospeso cautelativamente dal Csm, il sindaco uscente Italo D'Alessandro, Antonio Vitale, già noto alle Forze dell'ordine, accusato di favoreggiamento, il comandante della Polizia municipale Francesco Perrone, Giovanni Coccioli e Agostino Pepe. «Non voglio fare il processo penale qui, ma riabilitare la mia persona pubblica, il mio essere magistrato, perché statene certi, la toga la indosserò ancora. Devo rispondere - attacca Di Giorgio, compiendo una vera e propria requisitoria e non a caso un paio di volte chiamando aula quella che è una sala cinematografica - a una valanga di accuse che ogni giorno mi travolge. La mia vicenda è finita nei comizi, nelle interviste, sui social network. Ho il diritto di difendere la mia dignità, e dunque ho deciso di sottopormi ad un processo pubblico. La mia coscienza è pulita, è adamantina. Non mi interessa la campagna elettorale, ma ho deciso di parlare oggi perché gli attacchi sono diventati insopportabili». L'ex pm mostra uno spezzone del comizio del 22 aprile del Pd, facendo ascoltare le critiche che gli rivolge il candidato al Consiglio comunale Antonello Montanaruli. E parte con una lunga teoria di atti, delibere, verbali di interrogatorio e stralci di brogliacci telefonici, con costanti riferimenti alla poca serenità dell'autorità di giudiziaria di Potenza, con la ricostruzione del tanto chiacchierato sequestro del Piano Regolatore generale, «un falso problema, il Piano regolatore - annota Di Giorgio - era stato già revocato», con il fissare nella lite stradale alla vigilia delle elezioni del 2007 con la famiglia Loreto, la causa del suo arresto (e non è obiettivamente così, nè per il fatto in sè, nè soprattutto per la pretesa attualità della vicenda, vecchia di 5 anni, rispetto agli altri capi di imputazione). Quella del magistrato, in predicato nel 2009 di essere il candidato alla presidenza della Provincia per il Pdl, è una ricostruzione faticosa da seguire, una discussione lunga due ore degna di una aula di giustizia più di una chiacchierata a duecento persone che nella quasi totalità nulla sanno di atti giudiziari e aule di giustizia. Legge i verbali dell'ex consigliere comunale del Pd Stefano Ignazzi, arrestato per l'operazione antidroga Valentino, condotta proprio da lui, per dimostrare la sua estraneità ad un rilievo che gli viene mosso dalla Procura di Potenza, quella di aver piegato la sua funzione giurisdizionale agli interessi personali. Uno degli episodi sul quale il magistrato, dicendo con chissà quanta convinzione di voler rasserenare il clima, si concentra riguarda la concussione che avrebbe compiuto ai danni di Domenico Trovisi, consigliere comunale nel 2001, a cui sarebbero state chieste le dimissioni, minacciando in caso contrario l'arresto della nipote e del fratello nell'ambito di una inchiesta antidroga, dimissioni poi effettivamente rassegnate da Trovisi. «Non solo io sono sempre stato amico di Trovisi, ma soprattutto le sue non erano dimissioni indispensabili per lo scioglimento del Consiglio comunale, la sua era la tredicesima firma, e la nipote all'epoca dei fatti era minorenne, quindi non potevo nemmeno indagare su di lei, figuriamoci se potevo arrestarla». Infine Di Giorgio tenta di sfatare quella che definisce una leggenda, la sua rivalità con Loreto. «Mi sono occupato solo due volte nella mia carriera di lui, una nel 1996, quando chiesi l'archiviazione di un procedimento che avevo ereditato da un altro magistrato, e una nel 2000, quando, essendo di turno, mi arrivò una denuncia contro Loreto. Decisi di astenermi quando il 4 giugno del 2001 seppi dell'arresto di Loreto. Ritenni in quel momento che non era più ammissibile che mi occupassi di lui. È da 11 anni che non mi occupo più di Loreto, come si fa a dire che sono l'artefice di una persecuzione giudiziaria nei suoi confronti?». «Avrò sbagliato mille volte nella mia carriera professionale - urla Di Giorgio - ma mai scientemente. Mai. Così come mai mi sono intromesso nelle vicende politiche di Castellaneta, mai stato il sindaco ombra, come d'altronde dimostrano le oltre 50mila intercettazioni telefoniche effettuate nei miei confronti».

Nessuno di questi giornalisti, però, ha osato riportare il pensiero del Di Giorgio sull’amministrazione della Giustizia. Amministrazione della Giustizia e responsabilità civile dei magistrati. La posizione di un addetto ai lavori.

La verità di Matteo Di Giorgio. Il magistrato di Taranto arrestato dalla Procura di Potenza. Quello che la stampa non osa riportare. Così come fanno tutti i giornalisti locali e nazionali con il dr Antonio Giangrande, soverchiato da magistrati indegni della toga che indossano e coperti mediaticamente da giornalisti omertosi. La verità del magistrato Matteo Di Giorgio dopo l'arresto pubblicate in video ed in testi alla pagina territoriale di Taranto su www.telewebitalia.eu. Cose che Giangrande è da anni che le grida al mondo, accusando infami ritorsioni. Giudici contro. Della serie: anche i sostituti procuratori della Repubblica di Taranto provano l’onta dell’ingiustizia e subiscono la gogna mediatica. La voce agli imputati, presunti innocenti, in un sistema dove voce non hanno. La sua Verità di giudice arrestato e buttato nella bolgia infernale come i comuni mortali a provare la legge del contrappasso.

Bene Matteo Di Giorgio ha dichiarato: «Il procedimento che mi riguarda prende le mosse proprio da una denuncia di Italo Pontassuglia, 22 settembre 2007. In questa denuncia, signori, si dice di tutto sul mio conto. Non si parla delle sciocchezze che sono emerse nell’ordinanza, perché poi vedremo sono comunque delle sciocchezze, anche se fossero vere e non lo sono. Ora, io non ho molto tempo per spiegarvi l’enormità, però devo far notare che quello che dice Pontassuglia è smentito da tutti gli atti del processo. Amministratore di fatto significa prendere le decisioni in luogo dell’amministratore formale, di colui il quale il Sindaco, o la Giunta, o il Consiglio Comunale, si sostituisse di fatto agli stessi. Ebbene. Signori sapete quante intercettazioni telefoniche ed ambientali hanno visto oggetto la persona del sottoscritto? Quasi cinquantamila. E io dico, meno male che ci sono le intercettazioni. Dico meno male che ci sono le intercettazioni, perché dalle intercettazioni non è emerso nulla. Perché la procura di Potenza, consentitemi da questa vicenda è strabica. Perché da un lato ha messo sotto processo Rocco Loreto per la minaccia rivolta a mio figlio, dall’altra ha arrestato me perché ho detto “ha minacciato mio figlio”. Io sono stato arrestato perché mi si dice “non è vero, tu hai diffamato Loreto, dicendo che ha minacciato tuo figlio”. Questo è l’oggetto dell’arresto mio, signori. Questo è. Ed è la prova che ho detto che c’è una certa contiguità tra gli investigatori ed i miei denuncianti. Volete un’altra prova? La disponibilità dell’ordinanza in originale. Questa è una copia dell’originale. E’ una copia che qualcuno ha avuto al più tardi il 18 novembre 2010, cioè una settimana dal mio arresto, quando l’ordinanza era coperta dal segreto istruttorio. E sapete da dove proviene questa ordinanza? Signori, sta scritto qua. E’ il signor Pontassuglia Italo: il mio denunciante. Questo è un avviso di accertamento tecnico irripetibile notificato il 15 novembre 2010 a Pontassuglia. Questo significa che Pontassuglia ha creato questo file, ha avuto l’ordinanza al più tardi il 18 di novembre 2010. Questo significa che una settimana dopo il mio arresto il mio accusatore aveva l’ordinanza. Chi gliel’ha data? Io certo no. Signori, questo è agli atti del processo, poi tutto il resto è inutilmente, perché a Potenza le porte sono chiuse. Questa è la prova che Pontassuglia ha una corsia preferenziale con Potenza, perché non può che averla ricevuta da Potenza. Non sono sospetti, questa è una prova. Io ho denunciato Potenza. Ci sarà un motivo se io ho denunciato gli Uffici giudiziari di Potenza. Perché a Potenza non sono tutelato. Io ho detto alla dottoressa Triassi, ho detto, quando mi ha fatto una valutazione giuridica, ho detto lei mi fa paura, ho detto. Come cittadino io ho paura di lei. Sapete perché? Perché quando la Cassazione ha annullato il capo d’imputazione della vicenda Coccioli, ha detto la Cassazione “me la date sta prova che Di Giorgio sta d’accordo con l’amministrazione comunale?”. E s’è rifatta l’udienza. Viene la dottoressa Triassi e dice “ecco la prova dell’accordo”. La prova dell’accordo è questo. In una telefonata tra il dottor Di Giorgio e l’assessore allo Sport, si tratta di Alfredo Cellammare, che nei 6 mesi successivi al fatto, in cui io ed Alfredo Cellammare parliamo di tutt’altra cosa. Non parliamo del contributo, parliamo di tutt’altro. E dice la dottoressa Triassi “ecco, questa è la prova che Di Giorgio e Cellammarre si conoscono. Io gli ho detto “guardi che avrebbe potuto chiedermelo, glielo avrei detto io, perché ci conosciamo da quando avevamo i calzoncini corti. Ma se la prova del concorso in un reato, scusatemi devo fare un discorso tecnico, risiede nel mero rapporto di conoscenza, allora io sono complice di tutti i reati commessi dai castellanetani, perché li conosco un po’ tutti. Quindi io verrò chiamato a rispondere in qualsiasi reato possa commettere un castellanetano. Questa è un abnormità; un’aberrazione giuridica. E io alla dottoressa Triassi dissi “lei mi fa paura. Io ho paura di una che ragiona così. Come uomo”. Se parliamo dell’amministrazione della Giustizia dobbiamo uscirne, se ciascuno di noi recupera il proprio ruolo. Che cosa voglio dire: la nostra magistratura vive di correnti, di amicizie. Io non sono iscritto a nessuna corrente ed ho sbagliato, perché se fossi stato iscritto, non mi sarebbe successo niente. Ve lo dico!! No, forse bisognerebbe anche avere il coraggio in Italia, io lo dico contro tutta la categoria, di introdurre il principio della responsabilità civile del magistrato, perché io devo avere paura di sbagliare. Ci devo pensare cento volte prima di far qualcosa. Perché signori il magistrato ha il compito più alto: decide della libertà delle persone; ha in mano la vita delle persone. Tutti possono sbagliare, ma purchè ci sia la buona fede e purchè ci sia il rispetto di alcune regole. Spesso ciò non avviene. L’altro giorno a chi a detto, e rispondo a quest’avvocato, che il rinvio a giudizio, parlo dell’avvocato Giuseppe Clemente, faccio nome e cognome, Clemente, il quale impazza su Facebook contro di me dicendo delle cose invereconde, delle quali io mi vergognerei. Quest’avvocato ha detto che un rinvio a giudizio è praticamente una affermazione di responsabilità penale. Ecco vorrei ricordare all’avvocato Clemente che in Italia ancora esiste l’articolo ventisette della Costituzione e quindi la presunzione di innocenza, tecnicamente di non colpevolezza, e che questa presunzione vale fino al terzo grado di giustizia. Io ancora non sono stato giudicato e gli ricordo Raniero Busco. Ce l’ho qua. L’altro giorno. E’ stato condannato in primo grado a ventotto anni di reclusione. E’ stato assolto dalla Corte d’Appello. Buon per lui che non sia stato sottoposto alla misura cautelare. Però io vi voglio leggere soltanto un passo di un’intervista di Raniero Busco, che la dice tutta. “Cosa ha imparato da questo processo? Che in queste aule non si trova niente di umano. Ognuno è proiettato a salvaguardare la propria idea, la propria posizione. Nessuno è disposto a fare un passo indietro in nome della verità. Questa sentenza però mi restituisce un po’ di fiducia nella Giustizia”. Ed è quello che dico io: perché a fronte di tutto ciò che è emerso dal processo potentino, dei tentativi di inquinamento, dei tentativi di agganciare i testimoni, non è successo niente. Perché ciascuno si innamora della propria posizione e la difende fino alla fine anche contro l’evidenza dei fatti. E questo un magistrato non lo deve fare mai. Il magistrato deve avere l’onestà di dire “ho sbagliato, faccio un passo indietro” e non deviare da alcune regole che sono indefettibili e che a Potenza sono state violate. Io lo dico qua perché l’ho già detto, l’ho già scritto e non posso tediarvi, perché è tardissimo, se no lo farei volentieri. E vi dimostrerei tutte le violazioni che sono avvenute nel mio caso. Tutte.»

Ogni commento è superfluo: basta non essere dalla parte sbagliata.

A Taranto indagini "all'acqua di rose" sui concorsi pubblici truccati. Prendiamo ad esempio un caso di rilevanza nazionale, a prescindere dall'esito e dai suoi protagonisti. Personaggi, questi, osannati dai media nella fortuna ed infangati appena sono sfiorati da dubbi sul loro operato. "La Gazzetta del Mezzogiorno" e Il Corriere della Sera ed altri giornali riportano a titoli cubitali la notizia riguardante il concorso a Taranto per il Segretario Generale della Camera di Commercio: "indagato Sportelli e altri cinque. Indagini sulla nomina del vincitore del concorso. Abuso d'ufficio:nel mirino anche il vice presidente". Per la serie: così si fanno le indagini sui concorsi pubblici truccati. Le vittime dovranno sperare nella coscienza di qualche Giudice per le Indagini Preliminari che contesta ai Pubblici Ministeri le mancate indagini. Si ottiene giustizia se si è fortunati nell'incorrere in qualche giudice coscienzioso, che molto spesso non si trova.

Arriva al capolinea l’inchiesta sul concorso per il nuovo segretario generale della Camera di Commercio aperta dal sostituto procuratore Remo Epifani a seguito dell’esposto presentato dall’ex commissario dell’ente Roberto Falcone. L’accusa di tentato abuso d’ufficio aggravato viene contestata ai cinque componenti della commissione esaminatrice (il presidente della Camera di Commercio Luigi Sportelli, il vicepresidente Leonardo Giangrande, i consiglieri Paolo Nigro e Riccardo Caracuta e il rappresentante di Unioncamere Ugo Girardi) ed al dirigente delle cancellerie del tribunale Tommaso Valentino, designato quale vincitore lo scorso 5 settembre 2011 a seguito della prova orale svolta il 25 luglio. La relativa delibera fu però poi revocata in autotutela, fatto che fa ritenere il reato tentato e non consumato, mentre la contestazione riguardante l’abuso d’ufficio riguarda la sovrabbondante valutazione dei titolo posseduti da Valentino. Il pubblico ministero aveva presentato al giudice per le indagini preliminari Martino Rosati richiesta di archiviazione, ritenendo che quanto segnalato da Falcone riguardo la presenza di irregolarità nelle procedure di selezione per l’incarico di segretario generale della Camera di Commercio non era meritevole di approfondimento investigativo, ma al limite di ricorso al competente giudice amministrativo. Falcone tramite l’avvocato Ludovica Coda si è però opposto alla richiesta del pm Epifani, fornendo al gip elementi tali da ordinare alla pubblica accusa di svolgere tutti gli accertamenti del caso. Il gip Rosati aveva ritenuto, infatti, che nel caso in specie, «a fronte di specifiche circostanze di fatto, seppure in parte rappresentate sulla base di notizie generiche e da fonti anonime, non è stata operata alcuna verifica, sebbene delle circostanze, allo stato in astratto, potrebbero essere rivelatrici di comportamenti suscettibili di rilevanza penale».

Ma nell'inchiesta è finito anche Tommaso Valentino, vincitore del concorso dopo il superamento della prova orale, ma di fatto mai investito della carica. La nomina di Valentino fu bloccata in autotutela degli stessi vertici della Camera di commercio, dopo l’esposto presentato da Roberto Falcone, ex commissario dell’ente. Ed è stato proprio lo stesso Falcone a opporsi alla successiva richiesta di archiviazione presentata dal pubblico ministero al gip Martino Rosati. Mettendo in luce una serie di interrogativi: «Come mai i commissari della commissione giudicatrice, chiamati a valutare la prova orale di lingua straniera sostenuta dai concorrenti, non sono stati nominati dalla Giunta della Camera di Commercio, così come previsto dalla legge? Come mai il verbale conclusivo della procedura di selezione è stato redatto, sebbene fossero assenti taluni componenti della commissione giudicatrice e non dal responsabile del procedimento? Come mai dello stesso esistono due differenti versioni: una redatta nelle ore antimeridiane ed altra nelle postmeridiane?». Argomenti, portati dall’avvocato Ludovica Coda, che hanno convinto il giudice Rosati che quindi ha rigettato la richiesta dell’accusa. Il gip nella sua ordinanza ha infatti spiegato che per alcune «specifiche circostanze di fatto, seppure in parte rappresentate sulla base di notizie generiche e da fonti anonime, non è stata operata alcuna verifica». Le indagini sono così andate avanti fino alla contestazione del reato.

Già. Ma questa benevolenza dei Procuratori della Repubblica (o loro sostituti) dedicata ad alcuni indagati, stride con l'accanimento giudiziario destinato ad altri, spesso non sostenuto da prove, ma coperto dai loro colleghi giudicanti.

TARANTINI, FACCIAMOCI SEMPRE RICONOSCERE!

A Taranto, Ippazio Stefàno, esponente di Sel alla guida di una coalizione di centrosinistra, pacifisti a loro dire, si è riconfermato alla carica di sindaco con il 69,67% dei voti. E alla fine il dato ufficiale parla del 69.6% a Stefàno contro il 30.3% a Cito. In termini assoluti, a Stefàno sono andati 51.239 voti, a Cito 22.305 (figlio del più noto Giancarlo, noto alle cronache locali e nazionali come «telegiustiziere», sindaco sanguigno eletto nel capoluogo nei primi anni Novanta, attualmente in carcere per un cumulo di condanne passate in giudicato). Ezio Stefàno (Ippazio all’anagrafe) è nato il 25 agosto del 1945 a Casarano (Le), ma ha sempre vissuto a Taranto, dove ha frequentato la scuola elementare «Acanfora», la scuola media «Bettolo» ed il liceo classico «Archita»; diplomatosi nel 1964, si è iscritto all’università di Bari dove si è laureato in Medicina e Chirurgia il 16 dicembre 1970. E’ specialista in pediatria e in oncoematologia pediatrica. Genetica e Biofisica per lo studio delle emoglobine e delle thalassemie, la clinica pediatrica di Bologna nel reparto di oncoematologia pediatrica. Iscritto al vecchio Pci, è stato consigliere comunale dal 1982 al 1992, anno in cui venne eletto al Senato e poi riconfermato nel 1994, pur senza mai interrompere la sua attività professionale di volontariato e di ricerca. Nel 2007 era stato eletto per la prima volta sindaco di Taranto, superando al ballottaggio l’altro candidato del centrosinistra, Gianni Florido, e dedicandosi subito a ripianare il dissesto-monstre che aveva fatto precipitare il Comune di Taranto (gestione centrodestra, sindaco Rossana Di Bello) nel baratro di un deficit di oltre 500 milioni di euro, il «buco» più clamoroso nella storia dell’Italia repubblicana. A supportare oggi Stefàno nella sua rielezione un’ampia coalizione composta dalla lista «Sds per Stefàno», da Sel, Pd, Api, Udeur, Italia dei Valori, Udc, Ambiente e Lavoro, La Puglia per Vendola. Infine non va sottaciuto l’impressionante dato relativo all’affluenza alle urne. La linea Maginot era quella del 50%, ma l’onda d’urto dell’esercito astensionista ha sfondato le trincee facendo segnare - per ora - il record negativo di ogni tempo quanto ad affluenza alle urne. A Taranto città, il pomeriggio del 21 maggio 2012 alle 15, a seggi elettorali chiusi, avevano votato appena 75.053 elettori, pressoché equamente suddivisi fra maschi (37.513) e femmine (37.540). In termini percentuali, equivale a parlare di un risicato 43.25%, uno dei dati più bassi in assoluto a livello nazionale, anche considerando la media generale che è stata su tutto il territorio italiano molto vicina al 51%. 

Tuttavia, ciò di cui i cittadini non fanno altro che discutere, non è la rappresentanza politica ed amministrativa di un'esigua fetta di cittadinanza, ma è l’immagine che lo ritrae con una pistola. Pubblicata sulla rivista locale wemag.it, poco conosciuta ai più, la fotografia è stata scattata durante i festeggiamenti per la vittoria al ballottaggio, a discapito di Mario Cito, candidato sostenuto anche da La Destra di Storace e da alcune liste civiche. Si vede l’appena rieletto Stefàno che alza un bicchiere di plastica con lo spumante per brindare insieme ai suoi sostenitori, gesto a causa del quale la giacca si apre, lasciando intravedere una pistola fissata alla cintura dei pantaloni.

I mortaretti fatti esplodere per strada, per festeggiare la vittoria, non li ha graditi, Ezio Stefàno. E tuttavia al suo comitato elettorale in via Principe Amedeo, ai festeggiamenti per la riconferma a sindaco di Taranto, si è presentato con fondina e pistola. «Sono passato di là soltanto per pochissimi minuti e per invitare tutti a non festeggiare, visto che a Brindisi si stavano celebrando i funerali di Melissa Bassi. Sono stato lì per pochi secondi». Dice Stefano. In quel gigantesco bailamme formatosi nell’angusto locale abitualmente utilizzato come sede di Sds, il suo movimento politico, stretto tra l’attrezzatura sistemata lì da ben due emittenti per le rispettive dirette televisive e la folla, districandosi tra le urla di giubilo dei militanti e le richieste di commenti da parte dei cronisti, Stefàno come accade in queste circostanze, si è scatenato, ha saltato, ha sollevato le braccia in segno di vittoria e dispensato baci e pacche sulle spalle a chi l’ha sostenuto. In tutto questo movimento, spunta la pistola, ben ancorata, assicura lui e per la quale il sindaco il porto d’armi da trent’anni. Per difesa personale. Fotocamere e telecamere immortalano Stefàno che festeggia e la sua pistola. Stefàno non è il primo sindaco armato di Taranto. Mentre sul web si scatena la polemica sull’opportunità, per l’appena rieletto sindaco, di presentarsi davanti alle telecamere con la pistola nella cintura, qualcuno ricorda quando fu l’ex sindaco ed ex parlamentare Giancarlo Cito (oggi in galera per diverse condanne passate in giudicato) ad agitare un’arma. Negli anni Novanta girava per le strade di Taranto capeggiando le pattuglie di vigili urbani, tra i primi in Italia ad essere dotati di sfollagente: non a caso, era stato soprannominato “sindaco-sceriffo”. Ma un indignato Stefàno ha rifiutato qualsiasi paragone: «Giro armato da trent’anni. E da quando sono sindaco ho ricevuto minacce molto pesanti. Ho rifiutato la scorta e per questo porto con me la pistola. Ho scelto infatti di difendermi da solo. E di tutelare la mia vita. Prima delle elezioni ho ricevuto lettere minatorie affinché ritirassi la mia candidatura. Non mi sono arreso ai delinquenti e sono andato avanti per la mia città». E a suscitare un’ondata di sdegno. «Non c’è da far paragoni tra me e Cito – risponde seccato Stefàno -. Io ho una pistola soltanto per difendermi. Sono stato minacciato, anche di recente, perché rinunciassi a correre per la riconferma a sindaco, ma non mi sono fatto intimorire. Io non ho mai fatto del male a nessuno. Né ho mai inteso farlo. Ma avendo rinunciato alla scorta, avrò almeno il diritto di difendermi?».

Discutono i tarantini sul web per una foto pubblicata su un quotidiano locale che ritrae con una pistola nella cintura dei pantaloni il sindaco rieletto alla guida di una coalizione di centrosinistra Ippazio Stefano (Sinistra ecologia e libertà). Durante i festeggiamenti per la vittoria al ballottaggio sul candidato sindaco Mario Cito (At6, La Destra di Storace e liste civiche), Stefano alza un bicchiere di plastica con lo spumante per brindare alla rielezione e la giacca si apre. I fotografi hanno immortalato la scena e si vede nella cintura un oggetto che sembra una pistola. «Ma il sindaco sceriffo non l'avevamo già avuto?», commentano i tarantini critici. Che Stefano avesse un porto d'armi e tenesse una pistola per difesa personale era comunque un fatto noto. La foto ha spopolato su Facebook. Negli anni Novanta fu Giancarlo Cito, padre di Mario (risultato perdente nel ballottaggio con Stefano), a guadagnarsi l'appellativo di sindaco-sceriffo perchè girava per la città capeggiando le pattuglie di vigili urbani, che - tra i primi sindaci in Italia - dotò di sfollagente. Quindi Stefano sottolinea che "le città del Sud vivono un periodo di grandi sofferenze sociali". E che ciò ha comportato anche gesti di esasperazione estrema della cittadinanza fino a giungere a gesti come quello di recarsi "a Palazzo di città con la benzina. In questi anni - continua il sindaco - ben 18 vigili sono finiti in ospedale a Taranto e anche io sono stato aggredito fortunatamente senza conseguenze. Porto la pistola più che altro come deterrente e come arma psicologica per me stesso". Il primo cittadino spiega di "aver denunciato tutto alla Polizia che era molto preoccupata poichè si trattava di minacce concrete. Ma ho rifiutato la scorta: non tollero che persone più giovani di me possano rischiare la vita per proteggermi. Voglio continuare a fare il sindaco in tutti i quartieri e a tutte le ore del giorno e della notte". Infine ricorda di aver preso il porto d'armi 30 anni fa all'epoca della campagna sociale contro la droga e l'Aids che si faceva nelle scuole e nei quartieri. Poi non l'ho più rinnovata. Cinque anni fa all'inizio del primo mandato l'ho rinnovata e ricordo che anche allora ci furono delle polemiche. Ma devo anche tutelarmi, non voglio immolarmi". Infine promette: "voglio continuare la battaglia per la legalità perche' questa fa bene a tutti".

La critica o la constatazione di un dato di fatto viene da Maddalena Tulanti, vice direttora de “Il Corriere del Mezzogiorno”, capo della redazione di Bari, una città che in tema di illegalità non ha niente da invidiare a Taranto:  «Diciamo la verità, prima di tutto siamo rimasti sorpresi. Sì, sorpresi. Fosse stato Mario Cito (o meglio suo padre), ci saremmo senz’altro indignati, ma non sorpresi. Che Ippazio Stefàno, il sindaco «buono», il pediatra dei bambini poveri, vada in giro per Taranto con una pistola ci ha fatto rimanere di sasso. Ha detto nell’intervista a Cesare Bechis che la porta da 30 anni con regolare porto d’armi e che nella sua città lo sanno tutti. Lasciando intendere di essere sorpreso della nostra sorpresa. Per la verità nella stessa intervista ha detto anche che recentemente è stato minacciato di morte e che dopo regolare denuncia ha rifiutato la scorta perché non vuole mettere a rischio la vita di nessuno per difendere la propria. Pur avendo la massima stima del sindaco di Taranto, ci permettiamo di essere in totale disaccordo quasi su tutto.

Cominciamo proprio da quella pistola che gli spunta dalla cintura dei pantaloni. Ha il diritto di averla, ha un regolare porto d’armi, nulla da eccepire. Ma deve essere proprio esibita come fossimo nel Far West, passeggiando sul corso come abbiamo visto da piccoli nei film dei cow boy? E’ così che è stata notata da occhi non tarantini (evidentemente i suoi concittadini avvezzi, come dice il sindaco, a incontrarlo armato): il calcio dell’arma a tamburo occhieggia dalla cintura dei pantaloni nella foto che ritrae Stefàno mentre cammina per la città raggiante dopo la sua rielezione. E lo stesso calcio spunta sempre dai pantaloni mentre il sindaco alza le braccia in trionfo nel suo comitato elettorale. Qualcuno ricorda adesso che nella passata consiliatura Stefàno ha portato quell’arma perfino in consiglio comunale e che il suo avversario l'ex questore di Taranto Introcaso, poi eletto al Parlamento per il centrodestra, presentò un’interrogazione sull’argomento. Insomma il sindaco è sincero nel mostrare la sua sorpresa, è vero che lui la pistola l’ha portata sempre. Lo ammettiamo, noi invece abbiamo un problema con le armi, gli uomini armati ci fanno sempre impressione, anche quelli che devono esserlo per lavoro, figuriamoci i cittadini-giustizieri. Un sindaco armato, poi, lo confessiamo, ci fa più che impressione, ci fa raccapriccio. In un solo gesto egli dimostra che si sente solo, che conta solo su se stesso, che non ha fiducia in nessuno, tanto meno in quanti sono pagati per la sua e la nostra sicurezza. L’impressione è di un uomo impaurito, non di un uomo forte. E ci chiediamo se deve essere questo il messaggio che il capo di una comunità deve trasmettere. E veniamo alla sostanza dopo la forma. Cosa succederebbe se Stefàno incontrasse un malvivente? Sparerebbe? E’ già accaduto a un uomo politico, a Bari, a un ex consigliere regionale. Aggredito, ha sparato e ucciso. In primo grado è stato condannato a 10 anni di detenzione. Stefàno in 30 anni non l’ha mai usata quell’arma, ci tiene a ribadirlo. Ma altrettanto ovviamente l’avrebbe fatto se fosse stato necessario, altrimenti sarebbe stato inutile avere preso quel porto d’armi. Non intendiamo dare indicazioni al sindaco Stefàno su come si deve comportare nella vita, ci mancherebbe altro. Tanto più se ritiene che quello è l’unico modo per sentirsi sicuro e protetto, se stesso e la sua famiglia. Crediamo tuttavia che una cosa dovrebbe farla, non esibisca mai più in pubblico quella sua pistola. Per un problema di forma, un eletto dal popolo deve mostrare di saper credere nelle istituzioni che rappresenta, forze dell’ordine comprese; e per un problema di sostanza, non volesse mai il cielo che un giorno quell’arma dovesse sparare e dovesse capitare di giudicare un (altro) uomo politico che si è fatto giustizia da sè».

“TERRONE E’ CHI IL TERRONE FA”.  Questo detto sembra fare il verso all’attore Tom Hanks che interpreta Forrest Gump.

Non è forse vero che il limite di Taranto siano proprio i tarantini, che, scusate il giro di parole, non riescono a riconoscere i propri limiti? Tutti scienziati; tutti saccenti. E poi all'analisi dei fatti, questi parlano chiaro: chi li rappresenta politicamente e quali sono i risultati?

Si prenda ad esempio l’articolo de “Il Fatto Quotidiano” che parla delle amministrative 2012. Nel comune più afflitto d’Italia dai veleni della grande industria e con il più grande dissesto della storia repubblicana, la responsabilità della gestione della cosa pubblica avrebbe dovuto mettere i brividi e invece, a Taranto, la corsa alle poltrone ha abbattuto le inibizioni e il buon senso, dando il via a una campagna elettorale tragicomica. I candidati sindaco sono 11, ben 31 le liste e quasi mille gli aspiranti consiglieri comunali. Ma al di là dei numeri, sono forse alcuni nomi a spiegare, con maggiore efficacia, il quadro della situazione. Filippo Condemi, avvocato ed ex assessore ai lavori pubblici della giunta ("Di Bello") di centro-destra che portò il comune al dissesto, oggi è il candidato sindaco del Pdl. “Un uomo scelto per la sua onestà” ha dichiarato a un’emittente locale il coordinatore provinciale Luigi Montanaro, forse dimenticando che poche settimane prima a Condemi era stata inflitta una condanna a un anno e sei mesi di carcere dalla corte d’appello di Taranto, per una delle tante vicende giudiziarie legate proprio al suo passato di amministratore comunale. L’avvocato tarantino nel processo di secondo grado aveva anche rinunciato alla prescrizione puntando all’assoluzione piena, che però non è arrivata (i suoi coimputati che se ne sono avvalsi, sono stati tutti prosciolti). Questo, tuttavia, non ha impedito ai vertici del Pdl ionico di individuarlo come candidato idoneo alla carica di primo cittadino. Ma Taranto è anche la culla dei telepredicatore Giancarlo Cito. E se ufficialmente il candidato sindaco è il figlio Mario, il motto resta “Cito sindaco”. E’ sempre lui, Giancarlo, a parlare nelle conferenze stampa, dinanzi alle telecamere della sua emittente locale e ad attaccare politicamente i suoi avversari. Mario Cito è una specie di entità fluttuante che ruota intorno alla figura ingombrante del padre. Giancarlo Cito è il vero terrore della destra e della sinistra tarantina:l’ex sindaco ed ex parlamentare di At6 riesce sempre ad esercitare un fascino sulle masse della città dei due mari nonostante una condanna a quattro anni già scontata in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, una condanna definitiva per una vicenda legata allo stadio comunale e una nuova condanna in Cassazione a 4 anni per concussione per avere chiesto tangenti per la realizzazione del porticciolo turistico di San Vito (avuta la notizia, Cito ha accusato un malore). Nonostante tutto questo ha sfiorato il ballottaggio nelle scorse amministrative e oggi ci riprova, favorito anche da un centro-destra completamente invisibile (La Destra sostiene Cito e FLi a Taranto non ha una sua lista). Nello schieramento opposto poi c’è il sindaco uscente Ippazio Stefàno, sostenuto da tutto il centro-sinistra e soprattutto da Vendola che ha imposto al Partito democratico di rinunciare alle primarie e al proprio candidato Michele Pelillo, assessore regionale al Bilancio della giunta guidata dal leader di Sel. Primarie urlate da tutto il Pd ionico, fino a poche settimane prima, ma improvvisamente messe da parte dopo il diktat del governatore. Ma l’asse Stefàno-Vendola dovrà però fare a meno, in questa tornata elettorale, di Rifondazione Comunista che sostiene Dante Capriulo (ex assessore al bilancio di Stefàno defenestrato dopo aver manifestato la volontà di candidarsi alle primarie) e della galassia ambientalista, che a Taranto ha scelto di correre in autonomia schierando come candidato il leader nazionale dei Verdi Angelo Bonelli. L’arrivo di Bonelli però ha suscitato malumori anche all’interno del fronte ambientalista che ha perso diversi pezzi per strada. A questi si aggiungono, infine, i nomi di tutti gli altri candidati sindaco, tra cui il grillino Alessandro Furnari e il candidato di Io Sud, Massimiliano Di Cuia, di famiglia socialista, figlio di un ex assessore di centro destra, eletto con la sinistra di Stefàno e oggi finito al centro come candidato di Adriana Poli Bortone.

Certo è che l’articolo tace il fatto che Ippazio Stefano è sostenuto da quel Vendola che secondo “Il Giornale” incorre in guai giudiziari a raffica. Nichi Vendola è inciampato in quel marasma che è la sanità pugliese. Altro che superiorità morale: due inchieste in meno di 24 ore. Altra inchiesta, altra storia: il pasticciaccio che tira in ballo anche il governatore del Sel è esploso quando un avviso di conclusione delle indagini è stato notificato dalla procura di Bari a 47 persone coinvolte in una delle inchiesta sulla gestione della sanità pugliese. Un'inchiesta che serve ad accertare gli accreditamenti delle cliniche private. Tra gli indagati ci sono pure il senatore democratico Alberto Tedesco, l'ex direttore Ares Mario Morlacco, un luogotenente della Guardia di Finanza, imprenditori e dirigenti regionali. Un vero e proprio terremoto per la sinistra pugliese. La mala gestione della sanità nella terra di Vendola rischia di far implodere il sistema sanitario dell'intera Regione. Le accuse formulate dagli inquirenti vanno dall’associazione per delinquere al falso. Secondo l’accusa, infatti, la Giunta guidata da Vendola avrebbe nel corso degli ultimi otto anni concesso accreditamenti a strutture sanitarie che non avrebbero avuto i requisiti. L’inchiesta, condotta dai pm Francesco Bretone, Desiree Digeronimo e Giorgio Lino Bruno, parte dalla clinica Kentron di Putignano, oggetto di una lunga inchiesta del nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza. E al centro dello scandalo c'è pure il governatore della Puglia. "Chi fa un mestiere come il mio mette nel conto i rischi oggettivi che ci sono - commenta Vendola - un concorso in abuso d’ufficio è il titolo di una ipotesi di reato. Ho le spalle larghe anche perchè ho la coscienza molto pulita". Il presidente ha ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini della Procura di Bari su una transazione da 45 milioni di euro conclusa tra la Regione e l’ospedale Miulli di Acquaviva delle Fonti. Questa volta i reati ipotizzati sono abuso d’ufficio, peculato e falso. Dopo l’avviso di garanzia notificato per concorso in abuso d’ufficio su presunte pressioni per la nomina di un primario, Vendola si ritrova coinvolto in un’altra vicenda giudiziaria nata come costola della maxi inchiesta sull'associazione a delinquere guidata da Tedesco che per anni avrebbe gestito una parte della sanità pugliese. Il senatore del Pd aveva, infatti, seguito anche l’accordo con l'ente di Acquaviva delle Fonti. Atto poi però concluso e ratificato dalla successiva composizione della giunta Vendola. Il problema riguarda proprio quella delibera, poi annullata in autotutela dalla stessa giunta Vendola e che oggi, dopo un contenzioso col Miulli finito davanti al Consiglio di Stato, sta costringendo la Regione a restituire all’ente di Acquaviva differenze tariffarie per 150 milioni di euro. Proprio per questo sono indagati Anche il vescovo Mario Paciello e don Mimmo Laddaga, direttore dell’ospedale ecclesiastico Miulli di Acquaviva. Nel complesso, a detta dell'accusa, sarebbero sei le società che hanno beneficiato, senza averne i requisiti, delle procedure amministrative per il rilascio dei provvedimenti autorizzativi sanitari provocando danni per milioni di euro alle casse della Regione. Numerose le società coinvolte: dalla "Cbh-Città di Bari Hospital" di Modugno alla Kentron di Putignano, dal Gruppo Villa Maria di Lugo alle Case di Cura Riunite Villa Serena e Nuova San Francesco di Foggia. Tra i dirigenti coinvolti invece figura anche Lucia Buonamico, responsabile del settore programmazione e gestione sanitaria della Regione Puglia. Quest’ultima avrebbe gestito "in maniera clientelare" le procedure per alcune strutture sanitarie. "Le scelte di Buonamico - spiega la procura - hanno orientato gli impegni di bilancio regionale per la sanità privata in Puglia verso imprenditori amici della dirigente, ai danni del Fondo sanitario regionale". Secondo la Guardia di Finanza, insieme ad altri pubblici ufficiali, la Buonamico era asservita agli interessi imprenditoriali di alcuni soggetti "in totale spregio dei principi di trasparenza, di buona e corretta amministrazione della cosa pubblica".

Bene a questo punto pare che a Taranto il più pulito abbia la rogna. Però c’è sempre il capro espiatorio. Quel Giancarlo Cito che nel bene (per molti) o nel male (per pochi) ha fatto sì che Taranto si sentisse orgogliosa di essere Taranto. Si lasci perdere quel modo di fare sgradassone tipico dei leghisti padani. A me non piace quel modi fare, ma anche loro, sì, tengono al loro territorio. Il candidato sindaco o parlamentare può aspirare ad avere immagine, avere loquacità ed oratoria, essere diretti e non bizantini, e comunque avere competenza, capacità e coraggio per combattere i poteri forti, compreso contro quella fronda di magistratura politicizzata che si crede unta dal signore. Ma siamo a Taranto, anzi meglio, siamo in Italia e queste aspirazioni sono utopia. Ma fa schifo il fatto che a Taranto si sentano alti pure i nani, che dove non arrivano alla ragione con la bocca, ci arrivano con le mani.

Ebbene, Giancarlo Cito pare essere il migliore della compagnia, checché ne possano pensare i sinistroidi e i magistrati di carriera. Ed i fatti e i dissesti parlano chiaro.

TARANTO: SUBISCI E TACI! TARANTINI: COLLUSI O CODARDI?

Giancarlo Cito, prima di essere nuovamente arrestato è stato intervistato dal direttore di Studio 100 tv, Walter Baldacconi, e dal direttore di Taranto Sera, Michele Mascellaro, su Attenti a quei due - Sesta Puntata del 5 Marzo 2012. Cito alla domanda cosa ha sbagliato nella vita, lui ha risposto: «attaccare le istituzioni». Bene. Il guerriero è stato domato ed imbavagliato. Che fine ha fatto quel Giancarlo Cito che, come Antonio Giangrande, denunciò gli insabbiamenti delle denunce scomode a Taranto, tanto da essere presentate delle interrogazioni parlamentari? Si possono rinnegare giuste azioni per possibili ingiuste ritorsioni?

I fatti per i quali l’ex sindaco di Taranto è chiamato a scontare la pena si riferiscono al periodo in cui ricopriva la carica di primo cittadino e riguardano due reati consumati nel 1996 e 1997. Nel primo caso, sostengono i giudici, intascò tangenti da una ditta di facchinaggio vincitrice di un appalto comunale (ditta Cervelli), nel secondo avrebbe favorito una società sportiva minore di terza categoria vietando l’uso dello stadio, per ripicca, alla squadra del Taranto calcio che militava nel campionato di C2. Per quest’ultimo episodio i reati riconosciuti a suo carico furono quelli di violenza privata, tentata concussione, abuso d’ufficio e falso ideologico. Giancarlo Cito era stato colto da malore già la sera di mercoledì 11 aprile 2012 quando da Roma erano giunte le non buone notizie di un’altra sentenza di condanna a quattro anni di carcere confermata dalla Cassazione. Quest’ultimo procedimento passato in giudicato, che riguarda il reato di concussione consumato sempre quando era primo cittadino di Taranto, comporterà l’emissione nei suoi confronti di una seconda ordinanza di custodia, per un totale di otto anni e dieci mesi da scontare. Da questo cumulo si dovrà togliere il periodo già pagato con i precedenti arresti o con la misura alternativa dell’affidamento ai servizi sociali per un saldo definitivo di 7 anni e 11 mesi. La condanna a quattro anni è maturata dopo un processo concluso in terzo grado per una mazzetta che secondo la magistratura che lo condanna fu intascata da Cito quando era sindaco. Tale tangente, sostiene sempre l’accusa, derivava da contratti pubblicitari per un valore di 120 milioni di lire stipulati con l’emittente televisiva Super 7 e il portavoce della Dirav, la multinazionale liberiana interessata al progetto del porto turistico. L’ex deputato e fondatore del movimento AT6-Lega d’Azione meridionale ha già scontato in carcere una precedente condanna a quattro anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Le sue precarie condizioni di salute avevano fatto sperare la famiglia Cito in una clemenza dei giudici nel trasformare la detenzione ai domiciliari. Recentemente l’esponente politico ha subito un delicato intervento al fegato.

Giancarlo Cito secondo una striminzita biografia.

E' nato a Taranto il 12 Agosto 1945, sposato, ha due figli: Antonella e Mario.

La sua carriera politica inizia negli anni Settanta iscrivendosi al Movimento Sociale Italiano, si distinse all'interno di esso per il suo estremismo tanto che nel 1979 fu espulso dal MSI per le sue posizioni non conformi alla linea del partito. Nel 1980 presenta una sua lista "Taranto Nostra" alle amministrative, riportando circa 1000 voti. Torna a candidarsi con il MSI alle regionali del 1985, e riscuote 2400 voti di preferenza. Dopo di che esce definitivamente dal Movimento Sociale. Presta servizio militare nei Vigili del Fuoco dove guadagna un elogio del Ministero dell'Interno per aver salvato un bambino di 9 mesi, con altri vigili, in seguito ad un'esplosione che provocò 5 morti. Sempre negli anni Ottanta lavorò come imprenditore edile (era diplomato geometra) ma subì alcune condanne e cambiò settore puntando sulla televisione locale. Fondò nel 1985 il canale Antenna Taranto 6 che, in breve tempo ebbe un grande successo e Cito divenne molto popolare anche perché, capendo il malcontento per la pessima gestione di centro sinistra agli inizi degli anni novanta, condusse una politica di denuncia contro gli illeciti compiuti dagli amministratori locali. Nel 1990 Cito fondò un suo partito, AT6-per Taranto, divenendo di colpo la quarta forza politica a Taranto, con il 14% dei voti. Nel 1993 l'elezione a Sindaco: la lista che ora si chiama "AT6 - Lega d'Azione Meridionale" ottiene il 32% e, al ballottaggio del 5 dicembre, conquista il 53% dei voti e diviene Sindaco di Taranto. I cittadini tarantini ricordano ancora le azioni dimostrative a nuoto per protestare contro l'inquinamento delle acque: nel settembre del 1995 nuota ininterrottamente per 24 ore e 30 minuti, coprendo una distanza di 50 chilometri (si dice con varie interruzioni). Sempre in questi anni Taranto balza alla cronaca per la "Marcia su Mantova", da lui inventata e capeggiata, contro la "Lega Nord", a cui parteciparono migliaia di attivisti di AT6-Lega d'Azione Meridionale. Fu il primo sindaco d'Italia a dotare i vigili urbani di manganello, finendo per questo sotto processo per abuso d'ufficio. Il 16 dicembre del 1995 fu rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. Il 21 aprile 1996 viene eletto deputato nazionale con 33.960 preferenze, dimettendosi da sindaco. La primavera del 1997 si ricorda per un nuovo atto mediatico, presentandosi come candidato Sindaco a Milano, sostenuto da una lista di AT6 Lega d'Azione Meridionale risultando il quinto su 15 candidati. Il 9 dicembre del 1997 viene condannato definitivamente e dal 2003 al 2007 sconta quattro anni di carcere. Il 20 aprile del 2007 ha annunciato il suo ritorno in politica, candidandosi alla carica di consigliere comunale (candidatura che verrà successivamente invalidata), proponendo invece il figlio Mario alla carica di sindaco, supportato dalla sola lista "Lega d'Azione Meridionale". Sempre nell'aprile 2007 si è laureato in Scienze Giuridiche con tesi (ovviamente) sul concorso esterno in associazione mafiosa, che come lui stesso ha affermato a Panorama: "un reato che non esiste. E la Costituzione italiana, articolo 25, secondo comma, dice che non si può condannare una persona per un reato che non esiste, Guardi che in diritto costituzionale ho preso 27, in diritto amministrativo 28…". Tra le sue passioni ricordiamo: le arti marziali ( è cintura nera 2° dan di judo e 1° dan di kendo), la pratica dello yoga e del nuoto. Ricordiamo inoltre la sua investitura a presidente onorario del Taranto, anche se per breve tempo.

Giancarlo Cito secondo Vikipedia.

Negli anni settanta si iscrisse al Movimento Sociale Italiano e si distinse per il suo estremismo, tanto che nel 1979 fu espulso dal MSI per le sue posizioni non conformi alla linea del partito. Presta servizio militare nei Vigili del Fuoco. Negli anni ottanta lavorò come imprenditore edile ma subì alcune condanne (ad esempio, un anno e quattro mesi per ricettazione) e cambiò settore puntando sulla televisione locale. Nel 1980 presentò una sua lista "Taranto Nostra" alle amministrative, riportando circa 1000 voti. A notte fonda, sul Canale 33 che poi diventerà Antenna Taranto 6, viene trasmesso materiale pornografico - come ricorda il magistrato e scrittore Giancarlo De Cataldo: "Porno DOC. Cassette inverosimilmente zozze, di quelle che ci si vergogna a noleggiare nelle ore calde del pomeriggio nelle bottegucce di periferia. Ammucchiate, perversioni, esibizioni... insomma, il vero porno. In TV, gratis senza canone, da videoregistrare per poi rivedere con calma... il porno...Da lì a qualche tempo, su quel canale 33 comincerà a trasmettere Antenna Taranto 6. (...) La storia del porno va avanti a lungo: finite le trasmissioni, scompare il logo dell'emittente e partono le zozzerie notturne. Non so se il geom. Cito sia stato processato per diffusione di spettacoli osceni, se il fatto abbia lasciato indifferenti i miei concittadini, se gli inquirenti si siano mai sintonizzati su quegli spettacoli" (De Cataldo, G., "Terroni", Edizioni Theoria, Roma-Napoli, 1995, pag. 62). In breve tempo il suo canale, Antenna Taranto 6, ebbe un grande successo e Cito divenne molto popolare anche perché, intercettando il malcontento per la gestione fallimentare di centro sinistra agli inizi degli anni novanta, condusse una rubrica politica in cui denunciava gli illeciti compiuti dagli amministratori locali. Oggi è proprietario di Tele Basilicata Matera. Nel 1992 Cito fondò un suo partito, AT6-Lega d'Azione Meridionale, con cui un anno dopo venne eletto sindaco di Taranto con un ampio consenso. In questo periodo si contraddistinse per iniziative clamorose e spettacolari, come la lunga nuotata nel Golfo di Taranto per richiamare l'attenzione sul problema dell'inquinamento marino. Per breve tempo fu presidente onorario del Taranto Calcio, per tentare di risollevare la squadra che non navigava in buone acque nel campionato di Serie C2 1995-96. In quello stesso periodo, dopo che la società Taranto Calcio 1906 gli aveva revocato la carica di presidente onorario, trattò l'acquisto dell'Altamura. Per ripicca nei confronti dei dirigenti della società ionica, Cito negò l'utilizzo dello stadio "E.Iacovone" al Taranto Calcio 1906 (che militava in serie C2) e lo concesse al Taranto 2000 (squadra di Terza Categoria). La Corte d'Appello di Taranto, nel luglio del 2010, condannerà Giancarlo Cito a 2 anni di carcere per violenza privata, tentata concussione, abuso d'ufficio e falso ideologico (La Gazzetta del Mezzogiorno, edizione di Taranto, 14 luglio 2010, pag. IV). Il 16 dicembre del 1995 fu rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa mentre al termine delle elezioni politiche del 1996 divenne deputato nazionale con 33.960 preferenze, pari al 45,9% dei voti. Nel maggio del 1996 capeggiò la "Marcia su Mantova" contro la Lega Nord e le sue mire secessioniste ed autonomiste, a cui parteciparono migliaia di attivisti di AT6-Lega d'Azione Meridionale. A questa seguì, il 15 settembre dello stesso anno, una manifestazione a Chioggia, nella quale lo stesso Cito rimase contuso durante gli scontri con le forze dell'ordine. Inoltre, alle elezioni amministrative del 1997, si candidò a sindaco di Milano con lo slogan: «Voglio tarantizzare Milano. Voglio che questa città diventi come Taranto, la Svizzera del Sud», risultò quinto su quindici candidati (ottenendo lo 0,8% dei voti). Il 9 dicembre del 1997 fu condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa, per i suoi rapporti con la Sacra Corona Unita e dal 2003 al 2007 scontò quattro anni di carcere. Nel 2000 si candida a presidente della Puglia raggiungendo l' 1,32 % di preferenze pari a 29.317 voti. Il 20 aprile del 2007, nel periodo in cui si laureò in scienze giuridiche, annunciò la sua intenzione di ricandidarsi alla carica di primo cittadino di Taranto. In realtà si sarebbe candidato alla carica di consigliere comunale (candidatura che verrà successivamente invalidata), proponendo il figlio Mario alla carica di sindaco, supportato dalla sola lista Lega d'Azione Meridionale. E' durante la detenzione in carcere che sostiene alcuni degli esami che nel 2007 gli permetteranno di laurearsi in Scienze Giuridiche. Al termine della consultazione elettorale comunale la Lega d'Azione Meridionale, nonostante l'assenza in lista di Giancarlo Cito, ottenne un inaspettato successo risultando il primo partito in città con il 15,44% dei consensi, e mancando con il candidato sindaco del suo partito il ballottaggio per meno di ottocento voti. Si tratta, però, di una specie di inganno agli elettori: nei manifesti elettorali, infatti, il nome di Mario Cito non compare mai (c'è soltanto il cognome "Cito" che induce gli elettori a ritenere che il candidato sindaco sia Giancarlo), alle trasmissioni televisive ed ai comizi è Giancarlo Cito a parlare, mai il figlio Mario. Nel 2009 presenta la sua lista alle provinciali schierandosi insieme alla coalizione che appoggia il candidato presidente Giuseppe Tarantino. La coalizione è composta da: At6 Lega D'azione Meridionale, Udc, Io Sud (di Adriana Poli Bortone), Lista Tarantino, Pensionati, Destra Sociale. L'esito delle elezioni ha visto al primo posto il candidato Domenico Rana per il centro destra, al secondo il candidato Gianni Florido per il centro sinistra, e Giuseppe Tarantino che arriva terzo. Nell'aprile del 2011 viene condannato in via definitiva dalla Corte di Cassazione a 5 anni e 6 mesi di carcere per il cosiddetto "caso Cervelli" (dal nome della ditta di trasporti costretta a pagare una tangente di 80 milioni di lire per il rinnovo di un appalto comunale). I fatti risalgono agli anni Novanta, periodo in cui il movimento politico di Giancarlo Cito governava la città di Taranto (La Gazzetta del Mezzogiorno, edizione di Taranto, 7 aprile 2011, pag. V). Grazie all'indulto ed alla possibilità di fruire dell'affidamento in prova al servizio sociale, l'ex-sindaco di Taranto eviterà il carcere. La parte lesa, in cambio del ritiro della costituzione di parte civile, è stata risarcita con 100.000 euro.

L’epilogo del 12 aprile 2012 è con l’ennesima condanna della Cassazione che gli ha procurato un malore. Secondo l’accusa, Cito avrebbe ottenuto una "mazzetta", mascherata da contratti pubblicitari stipulati con l’emittente televisiva Super 7, di 120 milioni di lire dal portavoce della Dirav, la multinazionale liberiana interessata al progetto del porto turistico. L’ex primo cittadino ed ex deputato, fondatore del movimento AT6-Lega d’Azione meridionale, ha già scontato una condanna a quattro anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. È stato anche condannato in via definitiva a cinque anni e mezzo di reclusione per tangenti incassate in cambio del rinnovo dell’appalto biennale alla ditta di traslochi "Cervelli" e, in un altro processo, a due anni di carcere per violenza privata, abuso d’ufficio e falso ideologico. Quest’ultima vicenda riguarda la temporanea chiusura dello stadio comunale 'Erasmo Iacovonè, negato per un lungo periodo, nel 1997, al Taranto Calcio 1906 (società che militava nel campionato di serie C2) e concesso al Taranto 2000 (che disputava il torneo di Terza Categoria).

Dopo il malore è stato trasferito in carcere. Quattro anni di reclusione per concussione a Giancarlo Cito. Arriva il sigillo della Corte di Cassazione sul processo che ha visto imputato l’ex sindaco di Taranto per una storia di mazzette connesse al progetto che prevedeva la realizzazione di un porticciolo turistico a San Vito. Secondo "Taranto Buona Sera" i giudici della Cassazione hanno infatti respinto il ricorso proposto dai legali dell’ex deputato contro la condanna a quattro anni che gli era stata già inflitta dalla Corte di Appello il 27 aprile del 2010. Per Cito una tegola giudiziaria imponente che va a sommarsi all’altra condanna, già divenuta definitiva con il verdetto della Cassazione, per la querelle con l’ex dirigenza del Taranto calcio per l’utilizzo dello stadio Erasmo Iacovone. La vicenda giunta alla definizione affonda le radici a metà degli anni ‘90 quando At6 lega d’azione meridionale, il movimento fondato e guidato da Cito, aveva conquistato il Comune ed il suo vulcanico leader era accomodato sullo scranno più alto di Palazzo di Città. Tra i progetti al vaglio della giunta arrivò anche quello per la realizzazione del porticciolo turistico a San Vito. Al progetto era interessata una multinazionale, la Dirav International, che a Taranto era rappresentata dall’imprenditore Ildebrando De Franco. Fu proprio quest’ultimo ad innescare l’inchiesta sul balletto di mazzette con un esposto in procura. La vicenda finì all’attenzione dei pubblici ministeri Maurizio Carbone ed Antonio Costantini. L’indagine esplose con l’arresto di un imprenditore, accusato di aver fatto da tramite per il pagamento delle tangenti destinate all’ex sindaco per spianare la strada al progetto, e lo stesso Cito si salvò dal carcere in quanto nel frattempo era stato eletto deputato e quindi il provvedimento cautelare venne congelato in ragione delle garanzie riconosciute ai parlamentari. Cito che si è sempre professato innocente, già all’epoca a gran voce si difese davanti alle telecamere senza risparmiare attacchi al suo grande accusatore. Al termine della lunga attività di indagine gli altri imputati del procedimento definirono la loro posizione con i riti alternativi. Cito, invece, optò per il procedimento ordinario. In primo grado, il tribunale accolse le tesi della sua difesa e l’ex sindaco fu assolto perchè “il fatto non sussiste”. Quel verdetto non convinse affatto il pm Maurizio Carbone, che impugnò la sentenza. In appello arrivò la condanna a quattro anni che è stata confermata. Cito, è reduce da un grosso intervento chirurgico. Intanto Maurizio Carbone il 23 marzo 2012 diventerà il nuovo segretario dell’Associazione Nazionale Magistrati.

Che Giancarlo Cito debba pagare da solo le colpe di una città, oltretutto 20 anni dopo i fatti, merita l’onore delle armi, specialmente se a Taranto non è il peggiore, esclusa ogni forma di impunità. E l’onore lo rendo io, che né da Cito, né dalla sua televisione, ho avuto mai un attimo di attenzione. Perché Giancarlo Cito non è un personaggio senza arte né parte, ma è solo e semplicemente un vero tarantino. Condannato per concorso esterno di associazione mafiosa, che per la Cassazione è un reato che non esiste e che come reato ha colpito pochi soggetti (Giancarlo Cito come Bruno Contrada, ma evidentemente non come Marcello Dell'Utri). Evidentemente, quando si dice che è un vero tarantino e c'è chi si offende dell’accostamento: questi non è un tarantino o è un ipocrita.

A questi riporto dotti citazioni.

«…l'umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz'uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà... Pochissimi gli uomini; i mezz'uomini pochi, ché mi contenterei l'umanità si fermasse ai mezz'uomini... E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi... E ancora più in giù: i piglianculo, che vanno diventando un esercito... E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre... » (II giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961).

Una volta un tal Leonardo Sciascia scrisse («I professionisti dell'antimafia» da «Il Corriere della Sera» del 10 gennaio 1987) «... l'antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando. E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi - in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei - come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall'acqua che manca all'immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. ... chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un'azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno».

Che forse lo scrittore siciliano avesse visto lontano?

Precari e veleni, Taranto muore.

L’inchiesta di Michele Azzu su “L’Espresso”. Seicento operai senza futuro. E una fabbrica, l'Ilva, che continua a inquinare. Il risultato è una guerra senza fine tra chi vuole un lavoro e chi non vuole morire intossicato. E nemmeno Vendola riesce a venirne a capo.

«'A gueeerra, 'a gueeerra!» urlava il piccolo Giovanni per i vicoli di Taranto, mentre assieme agli amici lanciava sassi ai questurini. Era il 1963 e a Giovanni, il figlio del fornaio, pareva proprio di stare in guerra: da una parte i tarantini a protestare contro il taglio delle convenzioni mutalistiche, dall'altra la polizia a reprimere con forza la manifestazione. Se passate oggi nelle strade di quel quartiere antico che chiamano "L'isola", sembra proprio ci sia stata una guerra in quei palazzi mai ristrutturati che sembrano sventrati dalle bombe. E nonostante siano passati 50 anni - e Giovanni sia ora autore teatrale - a Taranto la guerra non è finita: da una parte gli operai Ilva che lottano per i contratti e per la sicurezza sul lavoro, dall'altra una gran parte della cittadinanza chiede la chiusura dello stabilimento per porre fine all'inquinamento.

E' una guerra fatta di solitudini.

Sono rimasti soli i 'somministrati' dell'Ilva, cioè i precari assunti tramite agenzia interinale: che per ben due volte - nel novembre 2010 e nel febbraio 2012 - hanno occupato il ponte davanti la fabbrica per ottenere l'assunzione. Ci sono i sindacalisti come Lorenzo Semeraro, cancellato d'ufficio dalla Fiom, lui che chiedeva la messa in sicurezza del tubificio: «Sei mesi prima era morto un ragazzo, schiacciato dai tubi», racconta. Solo è anche Saverio Farilla, operaio che si denuncia vittima di mobbing e che su Facebook minaccia: «Al prossimo rapporto disciplinare la mia vita finirà». Fuori dall'Ilva, invece, ci sono gli ambientalisti come Fabio Matacchiera, che è stato minacciato di morte: «Mi hanno mostrato la pistola all'uscita di casa», dice. «Taranto è una città che potrebbe essere bella come Taormina», spiega Marco che ha una piccola impresa e che pensa a trasferirsi altrove. Ma Taranto è anche una città devastata, con l'Ilva grande il doppio la città, e in mezzo a quei 12 comignoli di fumo che racchiudono l'orizzonte c'è ancora un gruppo di persone, sole, che combattono una guerra per la sopravvivenza.

Incontriamo Nico Leggieri e Vincenzo Collocolo, i due leader dei somministrati dell'Ilva, nel quartiere Tamburi, ai piedi dello stabilimento. Le case sono popolari, coi panni stesi fuori, e per la via principale il riferimento non è un campanile ma la ciminiera azzurra. «Ai cancelli abbiamo occupato il ponte per ben due volte - racconta Nico - l'ultima solo a febbraio». Nel novembre 2010 erano in venti sul ponte, al freddo, e portavano avanti uno sciopero della fame. I somministrati erano 600 in Ilva nel 2008, e come da accordo con i sindacati dovevano essere tutti regolarizzati entro due anni. Due anni dopo, invece, vengono tutti licenziati: «A quel punto decidemmo di occupare il ponte»,racconta Nico. Vendola fece un accordo con l'azienda: entro un anno i somministrati saranno assunti. Nico e Vincenzo sono stati sì assunti, ma a tempo determinato e in due ditte appaltatrici differenti, non all'Ilva stessa come nell'accordo firmato da Vendola. «Sto otto ore al giorno in un magazzino, a non fare nulla», spiega Leggieri, «solo, con la compagnia di due cani». Per i due giovani operai, che hanno figli piccoli, lo scopo dell'assunzione sarebbe stato allontanarli dal resto dei lavoratori: «A me dopo qualche tempo mi hanno chiamato in direzione della ditta dove lavoro ora», spiega Vincenzo, «per chiedermi spiegazioni. Dall'Ilva chiamavano spesso per sapere come mi comportavo», sostiene il lavoratore. Nel frattempo l'azienda ha assunto altri 140 somministrati, ex novo. Così i 'vecchi' operai somministrati, il 14 febbraio 2012 decidono di tornare sul ponte. Ancora al freddo, perchè l'accordo del 9 dicembre 2010 venga rispettato. «Mi ha chiamato la Fornero mentre stavo sul ponte», racconta Nico. «Aveva un tono molto serio e mi ha detto che la questione stava nelle mani di Vendola». Il governatore della Puglia arriva poco dopo e promette che in due settimane troverà una soluzione. «Stiamo inseguendo Vendola ad ogni incontro a Taranto e Bari. Gli stiamo col fiato sul collo».All'ultima visita i due operai sono riusciti ad incontrare il governatore, che ha assicurato una soluzione entro il 30 marzo.

Lorenzo Semeraro fino al 2008 ha lavorato all'Ilva, e lì dentro è rimasto per sette anni. «Ero Rsu Fiom, ma dopo aver scritto una lettera a Rinaldini dove dicevo che la Fiom a Taranto era troppo morbida, mi sono allontanato dal sindacato», racconta l'ex sindacalista. «Ho subìto tanti provvedimenti disciplinari all'Ilva, e mi hanno lasciato solo - continua - alla fine mi firmavo "Rsu libero"». Ha lottato, Lorenzo, per tante battaglie, alcune vinte e molte perse: «Ricordo l'ultima, bloccammo la produzione perchè si mettesse in sicurezza un tubificio dove i tubi non erano bloccati per bene». Solo sei mesi prima era morto un operaio di 26 anni, Domenico Occhinegro, schiacciato dai tubi. Poi la lettera a Rinaldini, e la cancellazione d'ufficio dalla Fiom: «Nessuno mi disse che non ero più in Fiom - dice Lorenzo - lo scoprii quando mi accorsi di non aver ricevuto le trattenute sindacali in busta paga». Così Lorenzo ha fatto il sindacalista gratis per alcuni mesi, poi non ce l'ha fatta più: «Ho accettato la mobilità e sono andato via. Vivere all'Ilva è stato massacrante, o ti pieghi o soffri. Non sono l'unico sindacalista finito male là dentro. Penso a Massimo Battista, che era il più 'pericoloso' dei delegati sindacali e ora è isolato da tutti».

All'Ilva, da otto anni, lavora anche Saverio Farilla, che per due volte ha fatto parlare di sè. Nel 2008, da responsabile della sicurezza nel reparto di sua competenza aveva addirittura chiamato la Digos in stabilimento, per accertare la persecuzione che denunciava nei suoi confronti da parte dei dirigenti aziendali. Saverio era stato carabiniere, poi aveva lavorato in un'agenzia di investigazione, e una volta entrato in Ilva era subito diventato caporeparto con mansioni di controllo sicurezza, poi rsu Fiom. Ma in fabbrica erano troppe, secondo lui, le misure di sicurezza regolarmente disattese. Anche lui come Lorenzo Semeraro inizia a protestare, e viene relegato in un reparto isolato. Saverio inizia a soffrire di attacchi di panico, cosa che non gli era mai successa prima. Dopo aver chiamato la Digos cade tutto nel dimenticatoio: in Italia il reato di mobbing non esiste. Ad oggi sono 24 i provvedimenti disciplinari in cui Saverio è incorso al lavoro, una media da record, per questo ai primi di marzo ha scritto sul suo profilo Facebook: «Al prossimo rapporto disciplinare la mia vita finirà per sempre (...) Spero che poi si parlerà di me per aiutare tanti altri lavoratori». Ora Saverio ha una causa in corso tramite l'Inail per il riconoscimento della malattia professionale.

Se la notte passerete nei paraggi dello stabilimento vedrete grandi volute di fumo rosso, sotto il cielo stellato. La fabbrica lavora anche di notte, e per gli ambientalisti come Fabio Matacchiera il buio potrebbe favorire l'assenza dei controlli alle emissioni, come sostiene in un video agli infrarossi del 2010, che gli è costato una querela. Matacchiera negli anni '80 è stato campione di nuoto, poi si è specializzato in riprese subacquee e ha collaborato a documentari per la Rai e Folco Quilici. Ora ha fondato la onlus "Fondo Antidiossina Taranto" che è stata fondamentale per la rilevazione delle diossine nelle cozze del mar piccolo: «Segnalammo che le cozze del fondale erano inquinate e fui sottoposto a una gogna mediatica», racconta, «ma cinque mesi dopo Asl e Arpa ci hanno dato ragione». Sono in fase di svolgimento al tribunale di Taranto le indagini preliminari al processo che accusa l'Ilva di inquinamento, con l'ausilio di una maxi perizia che per la prima volta individua le patologie derivanti dalle emissioni inquinanti: «Il Gip Todisco sta facendo chiarezza», commenta Matacchiera, «e per la perizia si è affidata a periti esterni alla provincia di Taranto». Ma come si coniugano le richieste sull'inquinamento con l'esigenza di lavoro? «Io sono in contatto con molti operai, che vivono in condizioni difficili... l'inquinamento è prima di tutto un loro problema. Dalle bonifiche ci sarebbe lavoro per tutti, se si facessero». Nell'attesa Matacchiera da diversi anni gira armato, dopo essere stato minacciato di morte. Da bonificare, a Taranto, ci sono prima di tutti gli animi esasperati.

Mentre altrove si ottiene giustizia, a Taranto (Foro dell'Ingiustizia) le denunce del dr Antonio Giangrande contro i poteri forti vengono sistematicamente tutte archiviate. Ma così non per le denunce presentate presso altri fori. Secondo la Corte di Cassazione con sentenza n.1584/2012 sono nulli i contratti d’investimento «My Way» e «For You» della ex Banca 121 sottoscritti fuori dai locali commerciali. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con sentenza del 3 febbraio 2012. Furono proposti dalla Banca 121 - assorbita dal gruppo Monte Paschi di Siena - negli anni 2001 e 2002, a migliaia di cittadini che si accorsero solo in seguito di aver sottoscritto non dei piani di accumulo di capitale a basso rischio e con prospettive di guadagno illimitate, ma dei contratti di investimento ad alto rischio. Dopo le segnalazioni e l’avvio di un procedimento, anche l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha stabilito l’ingannevolezza delle informazioni fornite ai clienti. «Siamo soddisfatti di questa sentenza della Cassazione - dice Antonio Giangrande, scrittore, autore della collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", e presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie - perché abbiamo sempre sostenuto che si trattava di un inganno, checchè la pensassero i magistrati di Taranto. I risparmiatori venivano consigliati a sottoscrivere quei contratti pubblicizzati come prodotti di investimento anche ai fini previdenziali e con l’impegno della restituzione del capitale in qualsiasi momento. I cittadini prendevano soldi in prestito dalla banca per investire in strumenti speculativi e, se non si riuscivano a pagare perché il piano di finanziamento durava dai 15 ai 30 anni, veniva chiuso il mutuo, con una grossa penale. I titoli venivano svenduti e la differenza addebitata sul conto corrente gravato di spese e interessi anatocistici». Numerose sono state le condanne per la banca. «Lo squilibrio contrattuale derivante da quelle operazioni bancarie - si legge in una delle sentenze, di fine dicembre 2011, del Tribunale di Civitavecchia - è evidente e va ben oltre l’ordinarietà. Il contratto è vantaggioso per la banca che percepisce gli interessi sul finanziamento, lucra i compensi per la gestione delle risorse finanziarie nell’interesse del cliente, colloca titoli dalla stessa negoziati o in regime di conflitto di interessi, in quanto si tratta di titoli emessi da una società facente parte dello stesso gruppo, mentre è esclusa la possibilità per il cliente di effettuare operazioni di passaggio fondi, indispensabili in caso di turbolenze del mercato».

Il 4 YOU, come il gemello piano finanziario MY WAY, differente solo per la diversa composizione dei titoli acquistati, è una singolare forma di indebitamento, con tassi dal 6,15 ed il 6,99 %; non è un investimento ma un vero e proprio mutuo (che viene anche segnalato e registrato dalla Centrale Rischi e può impedire altri mutui come per l’acquisto della casa) per l’acquisto di titoli, tra cui titoli dalla stessa Banca, in evidente conflitto di interessi. Non solo. Si chiedeva anche al consumatore di tradurre un’oscura equazione economico-finanziaria per comprendere che il recesso è talmente costoso da essere impraticabile.

Tutta Italia ne parla. Ed è niente in confronto alle denunce che arrivano a Potenza, destinate ad un infausto destino, ossia lettera morta, senza che sia conseguita accusa di calunnia per i denuncianti, ma a Taranto si fa finta di niente. Anzi, si processa per diffamazione a mezzo stampa chi osa parlarne come Antonio Giangrande. Il diritto di cronaca e di critica, però pretende la sua soddisfazione: qualcuno deve pur informare il mondo su quello che succede a Taranto, definito Foro dell'Ingiustizia.

Sono stati sorpresi mentre si scambiavano una mazzetta di quattromila euro. Così sono stati presi, in flagranza di reato, il giudice Pietro Vella e l'avvocato Fabrizio Scarcella. I due sono stati arrestati il 13 marzo 2012 su ordine di cattura firmato dal gip del Tribunale di Potenza su richiesta della locale procura della Repubblica che è competente per i procedimenti a carico dei magistrati di Taranto. Vella e Scarcella, che operavano nel settore civile, portati nel carcere del capoluogo jonico devono rispondere di concussione. I carabinieri di Taranto che hanno indagato su delega della procura hanno sorpreso i due in flagranza di reato mentre si scambiavano una mazzetta di quattromila euro. La vicenda riguarda una presunta concussione ai danni di un imprenditore di Taranto titolare di una grossa stazione di servizio. L'uomo aveva un contenzioso con la compagnia petrolifera che minacciava di ritirargli il marchio. L'avvocato Scarcella avrebbe fatto avvicinare l'imprenditore da un suo collaboratore che lo avvisava di una prossima visita degli ispettori delle Entrate che lo avrebbero rovinato. L'emissario consigliava quindi di rivolgersi al legale che avrebbe risolto il problema. All'appuntamento con l'avvocato Scarcella l'imprenditore avrebbe ricevuto la proposta di una mazzetta di ottomila euro che il legale avrebbe diviso con il giudice Vella al quale toccava il compito di aggiustare il contenzioso con la compagnia petrolifera. L'imprenditore avrebbe finto di accettare l'accordo raccontando tutto ai suoi avvocati e ai carabinieri che avrebbero organizzato la trappola. Con una telecamera nascosta, il presunto concusso si sarebbe recato in mattinata nello studio dell'avvocato con la prima tranche della mazzetta di quattromila euro in banconote tutte precedentemente fotosegnalate. Per tutto il pomeriggio i carabinieri hanno pedinato l'avvocato che si è incontrato con il giudice al quale avrebbe consegnato la sua parte di banconote. A quel punto è scattata la trappola.

Secondo "Il Corriere della Sera" il giudice civile Piero Vella e l'avvocato Fabrizio Scarcella sono stati arrestati martedì sera del 13 marzo 2012 in flagranza di reato per corruzione in atti giudiziari. Tutto nasce dalla denuncia di un cliente dello stesso legale, il quale lo avrebbe convinto a passare con lui, affidandogli il fascicolo della causa che lo interessava, con la promessa che avrebbero avuto partita vinta in quanto sarebbe intervenuto sul giudice che avrebbe dovuto decidere. L'avvocato ha però chiesto al cliente 4mila euro. Questi prima è rimasto sorpreso, poi ha accettato la proposta ma si è recato dai carabinieri denunciando l'accaduto. L'avvocato aveva chiesto 8mila euro per intervenire favorevolmente in un processo, un sequestro patrimoniale, la cui sentenza era attesa per metà marzo. I soldi avrebbe dovuto girarli al magistrato investito del caso e ottenere così un giudizio favorevole per il suo cliente. Ma questi ha fatto finta di accettare e ha denunciato tutto ai Carabinieri che sono intervenuti ed arrestato, per corruzione in atti giudiziari, l'avvocato Fabrizio Scarcella e il giudice civile Pietro Vella, entrambi tarantini. Il cliente ha parlato con i Carabinieri i quali prima hanno tracciato le banconote (una prima tranche di 4mila euro) che l'uomo avrebbe dovuto consegnare all'avvocato, poi lo hanno dotato di una microcamera per filmare tutte le fasi dell'incontro. Due elementi, questi, che hanno incastrato l'avvocato, spianando la strada all'intervento dei Carabinieri che hanno anticipato l'incontro tra Scarcella e Vella in cui ci sarebbe dovuto essere il passaggio dei soldi. Sia Vella che Scarcella sono finiti in carcere. Le indagini sono della Procura di Potenza competente a indagare sui magistrati di Taranto.

Mazzette per aggiustare i processi, arrestati un giudice civile e un avvocato. Ottomila euro da dividere in due. Sono stati sorpresi mentre si dividevano i soldi del gestore di un distributore di benzina che rischiava di perdere la sua attività. L'uomo ha denunciato tutto ai carabinieri. Secondo "La Repubblica" pretendevano soldi cash per aggiustare un processo. Ma sono stati arrestati al termine di un pedinamento. In manette a Taranto un giudice e un avvocato. Sullo sfondo, una causa da sistemare e il titolare di una grossa stazione di servizio nei panni dell'onesto cittadino che finge di accettare il ricatto e invece denuncia tutto ai carabinieri. In carcere sono finiti il giudice Pietro Vella, in servizio nella sezione civile del tribunale ionico, e l'avvocato Fabrizio Scarcella. Il piccolo imprenditore era impelagato in una complessa vicenda in cui rischiava di perdere la stazione di servizio che è tutta la sua vita. Così l'avvocato gli ha spiegato che pagando tutto si poteva aggiustare. Per accontentare il giudice, servivano 8.000 euro. Metà subito, gli altri all'esito del giudizio. Lui ha finto di acconsentire, ma sin dal primo momento ha avvisato i carabinieri. Gli incontri per le trattative sono stati filmati e registrati. Ieri l'ultimo appuntamento con i soldi in mano. Il legale ha intascato i quattromila euro e poi si è dileguato con le banconote che erano state precedentemente fotocopiate. I militari, armati di telecamera, lo hanno pedinato tutto il giorno. Sino a quando, nel tardo pomeriggio avvocato e magistrato si sono incontrati. Al momento della consegna dei soldi le manette. Accusa pesante, secondo "La Gazzetta del Mezzogiorno", frutto della circostanziata denuncia di un imprenditore che, facendo finta di acconsentire alla richiesta del suo nuovo avvocato, Scarcella appunto, ha invece deciso di raccontare tutto ai Carabinieri, e di seguire passo passo i consigli degli inquirenti. Stando a quanto trapelato dal fitto riserbo caduto sulla vicenda, l'imprenditore aveva subìto un sequestro patrimoniale di rilievo – una stazione di servizio – e il prossimo 16 marzo attendeva di conoscere il suo destino economico, in quanto su quel sequestro doveva esprimersi proprio il giudice Vella. Nei giorni precedenti sarebbe stato avvicinato dall'avvocato Fabrizio Scarcella che gli avrebbe proposto di affidare a lui il mandato difensivo, facendo capire senza tanti giri di parole di essere stato mandato a parlare con lui proprio dal giudice Vella. L'imprenditore ha fatto finta di stare al gioco ma in realtà ha subito informato i Carabinieri che - dopo essersi coordinati con la Procura della Repubblica di Potenza, competente per i fatti riguardanti i magistrati in servizio a Taranto, e con il sostituto procuratore Mariano Buccoliero, di turno nel tribunale jonico - sono passati all'azione. Ieri mattina l'imprenditore si è presentato nello studio dell'avvocato con 4mila euro, che costituirebbe l’acconto sull'importo totale che sarebbe stato chiesto da Scarcella per «sistemare» la causa. Le banconote erano state debitamente fotocopiate dai Carabinieri, mentre l'imprenditore aveva indosso un registratore ed una telecamera con la quale ha ripreso l'incontro e la consegna dei soldi. Il pomeriggio i Carabinieri sono entrati in azione, anticipando l'incontro tra Scarcella e Vella nel quale ci doveva essere lo scambio del denaro. Spetterà al giudice per le indagini preliminari, probabilmente quello di turno a Potenza, decidere se convalidare o meno l'arresto del magistrato e del legale, difesi dagli avvocati Carlo Petrone, Luca Balistreri e Franco De Feis.

Ma il giudice non è nuovo agli altari della cronaca. Ruolino di marcia disastroso anche per Pietro Vella, giudice a Taranto. Le sue sentenze arrivavano dopo il periodo previsto: con 700-800 giorni di ritardo in 14 casi (in 12 dei quali superiore a due anni); 800-900 giorni dopo il tempo stabilito in 28 casi; con 900-1.000 giorni di troppo dopo in 28 casi. Vella ha addirittura infranto 47 volte il muro dei 1000 giorni; in 21 di questi 47 casi ha cincischiato più di tre anni e 5 volte ha indugiato più di quattro anni, con una punta massima di 1684 giorni. Per la sezione disciplinare del Csm si tratta di «ritardi pluriennali gravemente lesivi del generale interesse pubblico... sintomatici di negligenza e di insufficiente laboriosità, nonché di inadeguata capacità di organizzazione del lavoro giudiziario». Risultato: l’ammonimento !!!

Ma ci sono altri precedenti di arresti eccellenti. Il pubblico ministero di Taranto, Matteo Di Giorgio, è stato arrestato dai Carabinieri del Comando provinciale di Potenza con l’accusa di concussione. Di Giorgio è stato arrestato al termine di un’inchiesta avviata nel 2008. Secondo quanto è stato possibile apprendere, i Carabinieri hanno cominciato ad indagare dopo una serie di denunce presentate da cittadini che si ritenevano danneggiati dal magistrato. Le indagini hanno permesso di stabilire che Di Giorgio avrebbe compiuto atti contrari al suo ufficio e avrebbe ricevuto in cambio numerose utilità, ma non denaro. L'inchiesta è stata coordinata dalla Procura della Repubblica di Potenza, competente sui magistrati del Distretto della Corte di Appello di Lecce.

Che dire: siamo a Taranto.

Tutta la stampa e la tv ne parla....finalmente! A Taranto, per colpa dell'inquinamento, ci si ammala più di tumore di quanto su dovrebbe. Salgono il numero di malattie cardiovascolari per via del benzoapirene, prodotto quasi esclusivamente dall'Ilva. E sono segnalate anche anomalie nei tumori che colpiscono i bambini. Questi i risultati della perizia epidemiologica depositata dai tecnici esperti nominati dal gip di Taranto, Patrizia Todisco, davanti alla quale si è svolto l’incidente probatorio nell´inchiesta per disastro ambientale ai cinque vertici Ilva. L'indagine, affidata a tre specialisti, ha accertato l'esistenza di una possibile connessione tra le malattie, le morti causate da tumori e l'inquinamento prodotto dalle emissioni dagli impianti industriali dell'Ilva. E' la seconda parte della maxi-indagine: la prima, svolta dai chimici, ha già accertato la pericolosità delle sostanze inquinanti per la salute di lavoratori e cittadini di Taranto. Oltre 500 pagine per mettere nero su bianco che dall'Ilva di Taranto vengono emesse in atmosfera sostanze come diossine e Pcb, pericolose per i lavoratori e la popolazione. E' la prima verità sull'inquinamento a Taranto, dove è stata depositata la relazione dei periti chimici che costituisce la prima parte della maxi perizia sull'Ilva, disposta nell'ambito di un incidente probatorio, che dovrà accertare se le emissioni di fumi e polveri dallo stabilimento siderurgico siano nocive alla salute umana nell'inchiesta al maxi colosso. I documenti sono ora al vaglio del gip Patrizia Todisco, che ha nominato gli esperti e disposto l'accertamento peritale durato oltre un anno. Ad essere indagati sono Emilio Riva, presidente dell'Ilva spa sino al 19 maggio 2010, Nicola Riva presidente dell'Ilva dal 20 maggio 2010, Luigi Capogrosso, direttore dello stabilimento Ilva, Ivan Di Maggio, dirigente capo area del reparto cokerie, Angelo Cavallo, capo area del reparto Agglomerato. Le accuse sono disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose, inquinamento atmosferico. "L'esposizione continuata agli inquinanti dell'atmosfera emessi dall'impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell'organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte". E' quanto sostengono i periti Annibale Biggeri, docente ordinario all'università di Firenze e direttore del centro per lo studio e la prevenzione oncologica, Maria Triassi, direttore di struttura complessa dell'area funzionale di igiene e sicurezza degli ambienti di lavoro ed epidemiologia applicata dell'azienda ospedaliera universitaria Federico II di Napoli, e Francesco Forastiere, direttore del dipartimento di Epidemiologia dell'Asl di Roma. I periti sono stati incaricati dal gip Todisco nell'ambito dell'incidente probatorio sull'llva chiesto dal procuratore capo Franco Sebastio, dall'aggiunto Pietro Argentino e dal sostituto Mariano Buccoliero. "Nei sette anni considerati, per Taranto nel suo complesso, si stimano 83 decessi attribuibili ai superamenti del limite Oms di 20 microgrammi al metro cubo per la concentrazione annuale media di Pm10. Nei sette anni considerati per i quartieri Borgo e Tamburi - rilevano ancora i periti - si stimano 91 decessi attribuibili ai superamenti Oms di 20 microgrammi al metro cubo per la concentrazione annuale media di PM10". E ancora nei sette anni considerati per Taranto "si stimano - sempre secondo la perizia - 193 ricoveri per malattie cardiache attribuibili ai superamenti del limite Oms di 20 microgrammi al metro cubo per la media annuale delle concentrazioni di Pm10 e 455 ricoveri per malattie respiratorie". Le emissioni dello stabilimento Ilva causano malattie e 90 morti l’anno nella popolazione di Taranto. È quanto hanno stabilito i medici nominati dal gip Patrizia Todisco nella perizia epidemiologica per comprendere lo stato di salute dei tarantini in relazione agli inquinanti emessi dallo stabilimento siderurgico. Nelle 282 pagine che compongono il documento depositato, Annibale Biggeri, Maria Triassi e Francesco Forastiere, hanno risposto ai tre quesiti posti dal giudice. Su richiesta del pool di inquirenti, il gip ha infatti chiesto ai tre esperti di individuare le patologie derivanti dall’esposizione agli inquinati emessi dallo stabilimento industriale, il numero dei morti e degli ammalati attribuibili all’inquinamento prodotto dagli impianti di proprietà del gruppo Riva. A Taranto, secondo i periti, tra il 2004 e il 2010 vi sarebbero stati mediamente 83 morti all’anno attribuibili ai superamenti di polveri sottili nell’aria, mentre i ricoveri per cause cardio-respiratorie ammonterebbero a 648 all’anno. La media dei decessi sale però fino a 91 se si prendono in considerazione i quartieri Tamburi e Borgo, geograficamente più vicini alla fabbrica. “L’analisi per i quartieri Borgo e Tamburi – scrivono i periti – mostra che, nonostante la ridotta numerosità, una forte associazione tra inquinamento dell’aria ed eventi sanitari è osservabile e documentabile solo per questa popolazione”. Ironia della sorte però, il record per i decessi e ricoveri per malattie croniche spetta al quartiere Paolo VI, il rione costruito proprio per ospitare, dopo la nascita del polo siderurgico negli anni ’60, i nuovi cittadini di Taranto: coloro cioè che dalle campagne della provincia si trasferirono in città per diventare operai. A Paolo VI, infatti, vi è una percentuale maggiore rispetto alla media complessiva della città e i decessi dovuti a malattie dell’apparato respiratorio sono addirittura superiori del 64%. Ma non è solo la lunga esposizione a creare danni secondo i periti. Nei bambini e negli adolescenti fino a 14 anni, i periti hanno infatti accertato “un effetto statisticamente significativo per i ricoveri ospedalieri per cause respiratorie” e un’elevata presenza di tumori in età pediatrica. La situazione peggiore è quella che riguarda gli ex operai dello stabilimento siderurgico. L’analisi “dei lavoratori che hanno prestato servizio presso l’impianto siderurgico negli anni ’70-’90 – allora Italsider acquisita Gruppo Riva nel 1995 e denominata Ilva, ndr – con la qualifica di operaio ha mostrato un eccesso di mortalità per patologia tumorale (+11%), in particolare per tumore dello stomaco (+107), della pleura (+71%), della prostata (+50) e della vescica (+69%). Tra le malattie non tumorali sono risultate in eccesso le malattie neurologiche (+64%) e le malattie cardiache (+14%). I lavoratori con la qualifica di impiegato hanno presentato eccessi di mortalità per tumore della pleura (+135%) e dell’encefalo (+111%). Il quadro di compromissione dello stato di salute degli operai della industria siderurgica è confermato dall’analisi dei ricoveri ospedalieri con eccessi di ricoveri per cause tumorali, cardiovascolari e respiratorie”. Dopo la prima relazione sulle condizioni ambientali della città, questo nuovo documento, contribuisce a fare chiarezza sui danni causati dalle emissioni inquinanti.

TARANTO: CULLA DELLA CULTURA SOCIO MAFIOSA

Non solo concorso di abilitazione notoriamente truccato ed impunito. L’Ordine degli avvocati di Taranto ostacola la professione degli avvocati dei Paesi Ue: indagine Antitrust contro l’Ordine degli avvocati di Taranto. La notizia pubblicata su molti giornali dell’11 gennaio 2012 rende pubblico un fatto risaputo che colpisce anche altri Fori.

Avvocati nel mirino dell’Antitrust. L'Autorità, presieduta da Giovanni Pitruzzella, sta indagando su dodici Ordini – Chieti, Roma, Milano, Latina, Civitavecchia, Tivoli, Velletri, Tempio Pausania, Modena, Matera, Taranto e Sassari – perchè starebbero ostacolando «l'esercizio della professione in Italia da parte di colleghi qualificati in un altro Stato dell’Unione Europea, ponendo in essere intese restrittive della concorrenza. Le prassi degli Ordini «sarebbero discordanti dai criteri imposti dal diritto comunitario». L'istruttoria – spiega una nota dell’Autorità per la concorrenza e il mercato – «è stata avviata alla luce di due segnalazioni, effettuate da un avvocato che aveva conseguito il titolo in Spagna e dall’Associazione Italiana Avvocati Stabiliti, che rappresenta i possessori di titolo di laurea in giurisprudenza e chi ha acquisito l'abilitazione alla professione di avvocato in ambito comunitario». Secondo le due denunce, «gli Ordini segnalati hanno posto ostacoli all’iscrizione nella sezione speciale dell’albo dedicata agli 'avvocati stabiliti, in violazione di una direttiva comunitaria recepita in Italia dal decreto legislativo n. 96 del 2001. Il decreto consente l’esercizio permanente in Italia della professione di avvocato ai cittadini degli Stati membri in possesso di un titolo corrispondente a quello di avvocato, conseguito nel paese di origine. Il professionista che voglia esercitare in Italia deve iscriversi alla sezione speciale, potendo così esercitare sia pur con alcune limitazioni. Unica condizione è che il professionista sia iscritto presso la competente organizzazione professionale dello Stato d’origine. Successivamente, dopo tre anni di esercizio regolare ed effettivo nel paese ospitante, l’avvocato può iscriversi all’albo degli avvocati ed esercitare la professione di avvocato senza alcuna limitazione». I comportamenti degli Ordini, «che potrebbero costituire intese restrittive della concorrenza finalizzate a escludere dal mercato professionisti abilitati nel resto dell’Unione - conclude la nota – sono peraltro oggetto di valutazione anche della Commissione Europea, che l’Autorità intende affiancare con l’utilizzo dei propri poteri antitrust verso gli Ordini stessi».

Un fiume in piena ben oltre gli argini consentiti ad un rappresentante istituzionale le parole rilasciate dal sindaco Stefàno durante una intervista alla emittente locale TeleRama, riportate da “Taranto Sera”. del 15 ottobre 2011. Pesantissime le accuse al Pd, il partito che con i suoi consiglieri comunali gli ha finora garantito la sopravvivenza politica al Comune ed i cui esponenti siedono in giunta al suo fianco. Fatti che evidentemente non sono bastati al primo cittadino, parecchio nervoso, punto sul vivo, evidentemente, quando l’intervistatrice gli ha chiesto delle elezioni primarie, invocate solo poche ore prima dai due principali candidati alla segreteria provinciale del partito, Ressa e Parisi, bollate dallo stesso sindaco come “strumento torbido”.

Ma sentite le parole precise che TarantoSera ha trascritto dall’intervista a TeleRama.

«Non abbiamo fiducia nelle primarie fatte dal Pd».

Sindaco, ma questo bagno di umiltà se lo fa o no? (Si riferisce alle dichiarazioni di Ressa di poche ore prima). «Guardi, non è un problema di bagno di umiltà. Il problema è che non abbiamo fiducia nelle primarie fatte dal Pd, punto. Lo ha dimostrato Napoli dove è entrata la camorra. Lo sospettiamo, perchè tutti sanno di alcuni voti che sono stati acquistati nella nostra città, quindi invece il bagno d’umiltà è quello di non fare le analisi in famiglia ma di esporsi al giudizio di tutti i cittadini. Noi vogliamo sottoporli al giudizio dei tarantini. Le primarie in questo caso a Taranto sono uno strumento torbido, lo ha detto la Magistratura che ha aperto un’inchiesta sui voti di scambio. Io ti dico che ti posso fare nome, cognome, indirizzo, promesse fatte che non sono state mantenute, l’ha detto la Magistratura che hanno venduto i voti. Io non mi vado a misurare in una fogna, mi vado a misurare a cielo aperto. Quando hanno avuto le botte perchè hanno fatto le promesse e non le hanno mantenute. Vuoi che ti faccio un elenco e te lo dico quali sono?»

Hanno avuto le botte? «Certo, leggi i giornali e vedrai, leggi i giornali e vedrai, leggi i giornali di Taranto e vedrai chi ha avuto botte perchè ha fatto promesse elettorali. Voglio parlare dei problemi della città, io non li penso proprio. Non li penso proprio. Non li penso proprio. Ci misureremo alle votazioni, qual è il problema? Ma perchè devono fare gli esami fatti in casa? E’ come gli esami fatti a porta chiusa, quando il professore poi mette le mani addosso alle studentesse, invece gli esami si fanno in aula, così non noi gli esami li facciamo alla luce aperta, quando voteranno i cittadini che vengono in sedia a rotelle perchè credono nella democrazia, non quelli che vanno perchè hanno ottenuto le promesse».

Veniamo al dunque: è la prima volta nella storia planetaria che un sindaco dichiara papale, papale, che un partito con cui divide la gestione amministrativa prende i voti dalla camorra e che mai e poi mai può fare con esso le primarie.

Ma non è tutto. Lo stesso presidente del Consiglio comunale, avv. Gina Lupo (UDEUR), il 17 novembre 2011 abbandonando l’aula e facendo venire meno il numero legale si lascia andare ad un libero sfogo ai microfoni di TeleRama. L’intervista infuocata ripresa dall’emittente salentina riporta: «Da parte della maggioranza (Giunta Ippazio Stefano - sinistra) ci sono atteggiamenti mafiosi nei confronti della sottoscritta. Consiglieri della maggioranza mi hanno minacciato, addirittura dicendomi “ci vediamo dopo”!»

Ma non è finita qui. Il sindaco di Taranto indagato per agevolazione di associazione mafiosa. Notizia riportata da Mimmo Mazza sulla Gazzetta del Mezzogiorno.

Abuso d’ufficio aggravato dall’agevolazione dell’associazione mafiosa. È il reato ipotizzato dalla Direzione investigativa antimafia di Lecce nei confronti del sindaco di Taranto Ippazio Stefàno, 66 anni, iscritto nel registro degli indagati a seguito delle dichiarazioni rese da Mario Babuscio, aspirante collaboratore di giustizia, in un interrogatorio svoltosi nel capoluogo salentino il 19 novembre del 2010 dinanzi al sostituto procuratore Lino Giorgio Bruno. La posizione di Stefàno è stata poi stralciata lo scorso 8 settembre 2011 con un provvedimento, accluso agli atti depositati in cancelleria nell’ambito dell’incidente probatorio che vedrà protagonista lo stesso Babuscio l'11 gennaio, del quale fanno parte il verbale dell’aspirante collaboratore di giustizia e tre informative redatte dagli agenti della Squadra Mobile di Taranto. Il 53enne Mario Babuscio è stato condannato a un anno e 4 mesi con il rito abbreviato nell’ambito del procedimento scaturito dal blitz antimafia denominato «Scarface» che nell’ottobre del 2010 lo fece finire in carcere.

La Dda di Lecce ha chiesto e ottenuto dal giudice per le indagini preliminari Antonia Martalò un incidente probatorio per acquisire le dichiarazioni di Babuscio. Il suo racconto ha portato all’apertura di diversi fascicoli di inchiesta, uno dei quali, riguarda il sindaco di Taranto per episodi relativi al 2008. Il rapporto con il sindaco Stefàno viene a galla, nell’interrogatorio del 19 novembre del 2010, quando il dottor Bruno chiede a Babuscio conto del suo interessamento, per conto del boss Cataldo Ricciardi, riguardo la gestione del bar dell’ospedale «Santissima Annunziata». Dall’attività d’indagine compiuta dagli agenti della Squadra Mobile, è emerso che l’esercizio era formalmente gestito da una società tarantina partecipata da Francesco Presicci, arrestato come Babuscio nell’ambito del blitz «Scarface». I sopralluoghi della polizia avevano consentito di accertare che nella gestione del bar si alternavano la convivente di Mario Babuscio, con Anna Guarella e le due donne, insieme allo stesso Babuscio, provvedevano ad intrattenere anche i rapporti con i fornitori. Ricciardi torna alla carica nel 2007 quando viene creata una società «Nuovo Bar padiglione Vinci srl», con unico socio Francesco Ricciardi, figlio di Cataldo, alla quale la società di Presicci ha poi ceduto in fitto il bar. Due anni fa – il 15 ottobre 2009 – è stato stipulato tra l’Asl e la società di Ricciardi un contratto della durata di 9 anni mentre lo scorso 8 maggio la Cassazione, accogliendo il ricorso presentato dagli avvocati Gaetano Vitale e Domenico Di Terlizzi, ha annullato il sequestro dei beni nei confronti dei Ricciardi, eseguito nell’ambito del blitz «Scarface», quando i finanzieri i sigilli al bar ubicato all’interno del padiglione Vinci. Ma ecco uno stralcio del verbale di interrogatorio.

BABUSCIO: Io i contatti ce li avevo frequentemente da solo, andavo a Palazzo di città, mi incontravo alle 8 e mezzo di mattina, perché so l’orario quand’è che arriva, andavo sopra e gli esponevo qualche problema, tra i quali il problema che ci aveva il bar dell’ospedale, che io andavo e gli dicevo….e lui mi disse una volta…sono andato io e la Guarella.

BRUNO: Ma il sindaco sapeva che la Guarella era la moglie di Cataldo Ricciardi?

BABUSCIO: No, non lo sapeva. (…) Quei contatti che si sono stati più frequenti con il sindaco erano proprio per far passare questa società da Presicci, diciamo che si doveva fare questa cessione di azienda e c’era da mettere a posto…

BRUNO: Ma le risulta che in qualche modo sia stato agevolato dal sindaco questo trasferimento? Perché quella era una competenza dell’Asl più che del sindaco.

BABUSCIO: il sindaco dice: “Va bene, rivolgetevi a tizio e digli che ti ho mandato io”.

L’iscrizione nel registro degli indagati del primo cittadino va considerata un atto dovuto, praticamente inevitabile dopo le dichiarazioni fatte da Babuscio. Spetterà alla Dda di Lecce, ed in particolare al sostituto Alessio Coccioli a cui sono passati i fascicoli del dottor Bruno dopo il suo trasferimento alla Procura di Bari, valutare se e come proseguire l’azione penale nei confronti del sindaco.

Alessio Coccioli, già magistrato a Taranto prima di essere trasferito a Lecce, è colui che ha denunciato il dr Antonio Giangrande, presidente dell’associazione Contro Tutte le Mafie, per diffamazione a mezzo stampa. Non è seguita condanna. Antonio Giangrande denunciato senza colpa perché la Gazzetta del Sud Africa ha pubblicato un articolo riguardante il modo in cui il Coccioli svolge le indagini. Il giornale ha pubblicato le motivazioni di una richiesta di archiviazione presentata dal Coccioli, poi accolta dal GIP di Taranto. Nelle motivazioni il Coccioli dubita della fondatezza delle accuse di una vittima di un concorso pubblico palesemente irregolare per conflitto di interessi del vincitore che, contestualmente, a Manduria era il responsabile del procedimento concorsuale. Lo stesso Coccioli nelle motivazioni riteneva, altresì, che fosse regolare che all’ufficio Protocollo del Comune di Manduria non si rilasciasse ricevuta degli atti consegnati. Ritenuto regolare dal PM e avallato dal fatto che, a suo dire e secondo anche le risultanze delle indagini dei carabinieri di Manduria, non vi fossero altri a lamentarsi della prassi comunale, se non il denunciante che non ha trovato traccia del materiale consegnato.

E meno male che a Taranto tutti, compresa la magistratura, additavano Cito come lo fonte di tutte le mafiosità.

Sui giornali si legge "Dopo quelle di Bari e Lecce, adesso a tremare sono le Asl di Taranto e della Bat. Due filoni della maxi inchiesta sulla sanità (che comprende anche il capitolo escort e Finmeccanica) condotta dai pm della Procura di Bari, Ciro Angelillis ed Eugenia Pontassuglia, sono rimasti ancora aperti e puntano i riflettori proprio le due aziende sanitarie pugliesi. Entrambe le indagini riguardano presunti illeciti che sarebbero stati compiuti durante le gare di appalto bandite in alcuni ospedali delle due province pugliesi. Occhi puntati anche sulle forniture di attrezzature e dispositivi medici, in sostanza il «modello Tarantini», così come è stato ribattezzato, sarebbe stato riproposto, oltre che a Bari e Lecce dove le inchieste sono state chiuse e hanno portato a diversi arresti, anche nella sesta provincia e nel Tarantino. Complessivamente gli indagati dovrebbero essere una decina, ma con un distinguo: se l’indagine sulla Asl Bat risulta essere ancora in corso, per quanto riguarda Taranto gli accertamenti degli inquirenti sarebbero conclusi da diverse settimane."

Ma gli scandali, le truffe, le inchieste giudiziarie a Taranto non sono una novità. A tal proposito però non ci dimentichiamo l’inchiesta di “Report” trasmessa su Rai tre. Il programma di giornalismo di inchiesta REPORT, in onda sulla emittente televisiva di RAI 3, nella puntata andata in onda il 20 maggio 2007, dal titolo "Gli Intoccabili" si è occupata quasi globalmente degli scandali avvenuti a Taranto: dalla Asl agli stipendi d'oro del Comune, passando per il dissesto e l'arsenale.

E Adesso andiamo a Taranto in un luogo vietato ai non addetti: cioè all'arsenale militare.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
Suona la sirena delle sette e trenta. Entrano nell'arsenale militare di Taranto i circa 2200 dipendenti del ministero della difesa, di questi 1300 sono operai addetti alla manutenzione delle navi.

UOMO 1
Sono intorno ai 1300 lavoratori pubblici che non fanno niente insomma la stragrande maggioranza non fa niente.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
È la denuncia di un operaio di una ditta privata che lavora in appalto all'interno dell'arsenale. Sostiene che i 400 addetti esterni hanno svolto per anni il lavoro al posto dei 1300 interni, gli statali.

UOMO 1
Mentre noi siamo un po' schiacciati da noi si lavora, si lavora tanto, anche in condizioni un po' disumane.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
Questo documento mostra l'attività interna dell'arsenale proprio in quell'area dove gli operai statali dovrebbero fare le manutenzioni. Le numerose auto parcheggiate fuori dalle office fa pensare che siano già tutti al lavoro. Questa è l'officina congegnatori, si dovrebbero fare lavori di meccanica. C'è un operaio fuori. Dentro dovrebbero lavorare 50 addetti, ma non c'è nessuno. I Macchinari sono fermi, in stato di abbandono. Questa è la fonderia, non viene utilizzata da anni. C'è un addetto, e ha le mani in tasca. Questa è l'officina motori: deserta. Anche nell'officina tubisti non c'è nessuno. Questa è la carpenteria. Ancora una volta strutture fatiscenti e costosissimi macchinari inutilizzati. I dipendenti vivono alla luce del sole la loro inoperosa condizione, convinti che nessuno li possa vedere dentro quella città militare protetta dalle mura.

UOMO FUORI CAMPO
Beh passano il tempo così, andando per l'arsenale, chiacchierando o almeno in certe ore poi diciamo negli orari pomeridiani vanno anche addirittura a riposarsi, insomma, oppure si fanno la partita a carte, si passa un po' il tempo.

SABRINA GIANNINI
Ma loro non si lamentano del fatto che venissero dati i lavori fuori, cioè a gente di fuori i lavori che avrebbero dovuto fare loro?

UOMO FUORI CAMPO
Beh questo gli ha fatto sempre comodo perché poi la maggior parte di questi adesso hanno la doppia attività di fuori no!

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
Per esempio un operaio che la mattina anziché stare in arsenale lavora in un negozio di un parente e quando arrivo sta etichettando la merce.

SABRINA GIANNINI
Cercavo l'uomo che lavora nell'arsenale chi è?

UOMO 2
Io non lavoro qua.

SABRINA GIANNINI
No stava lavorando.

UOMO 2
No non stavo lavorando!

SABRINA GIANNINI
No stava lavorando!

UOMO 2
No sto dando una mano così se passo..

SABRINA GIANNINI
Ma è lei o no?

UOMO 2
No non sono io.

SABRINA GIANNINI
E' quello che lavora all'arsenale?

UOMO 2
No.

SABRINA GIANNINI
No è lei?

UOMO 2
No.

SABRINA GIANNINI
No perché siccome mi avevano detto che lei esce dall'arsenale quando dovrebbe lavorare.

UOMO 2
Chi glielo ha detto?

SABRINA GIANNINI
Non importa che me lo ha detto, però è vero evidentemente?

UOMO 2
No, non è vero.

SABRINA GIANNINI
Permesso, malattia?

UOMO 2
No.

SABRINA GIANNINI
No.

UOMO 2
L'hanno informata male sa!

SABRINA GIANNINI
Sì?

UOMO 2
Sicuramente, tranquilla.

SABRINA GIANNINI
Mi sembra che funziona così.

UOMO 2
Io non lo so che cosa dove mira o che cosa vuole mirare.

SABRINA GIANNINI
No, io voglio capire perché non vi fanno lavorare?

UOMO 2
Chi non mi fa lavorare?

SABRINA GIANNINI
I vostri capi là, no vi fanno lavorare, perché non vi fa fare i lavori dentro? E' chiaro che poi uno esce.

UOMO NEGOZIO
Se lei ha avuto queste notizie, anziché venire lei come giornalista, dentro ci sarà qualcuno addetto ai controlli.

UOMO 2
Innanzi tutto non mi faccia veder perché mi precipiti.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
Se non lavora all'arsenale perché ha paura che io "lo precipiti".

SABRINA GIANNINI
Invece i sindacati che rappresentato i presidenti di base o i sindacati in generale che cosa dicono?

UOMO 1
Hanno sempre un po' coperto questa situazione. Però ormai questa rivendicazione per fare in modo che le lavorazioni le facessero loro, non c'è mai stato questo, anzi secondo me era una questione che faceva pure comodo, tanto loro erano degli statali, lo stipendio lo prendevano ugualmente.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
Da una parte i dipendenti di piccole aziende private, tutte con meno di 15 operai, quindi con poche garanzie e tutele. Dall'altra gli ipergarantiti, ma capaci anche di slanci di solidarietà verso i meno fortunati.

UOMO 1
Dicevano che dovete dire grazie a noi che non lavoriamo perché voi lavorate, perché se lavoriamo noi, voi rimanete senza lavoro, dovete andar via.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
Si può capire il tornaconto dei dipendenti statali, perché lavorare stanca. Si può capire il tornaconto dei sindacati che qui inseguono tessere e il consenso. Non si capisce quale sia il tornaconto del direttore. Che interesse avrebbe l'ammiraglio a lasciare con le mani in mano i suoi dipendenti e le attrezzature a invecchiare, sprecando denaro pubblico? Un evidente tornaconto l'avrebbero avuto gli imprenditori delle ditte esterne, che grazie a questa situazione si sarebbero presi, per anni, appalti per milioni di euro.

UOMO 1
Ci sono 15 gruisti là dentro, che stanno lì senza fare niente, passano l'intera giornata a giocare a carte. Vedi le gru sono quelle, sono le tre altre lì, sono tutte quelle bianche e rosse, uno, due e tre, sono tutte ferme vedi non lavora nessuno.

SABRINA GIANNINI
E quando c'è da fare un lavoro le usano o no?

UOMO 1
No, a parte che non vogliono salire là sopra i gruisti.

SABRINA GIANNINI
I gruisti che sono dipendenti statali?

UOMO 1
I dipendenti statali. Dicono che gli gira la testa, poi non sono a norma.

SABRINA GIANNINI
E se c'è un lavoro dove serve la gru chi lo fa?

UOMO 1
Gli autogrù la ditta privata. Ci sono queste autogrù private, dei camion.

SABRINA GIANNINI
E vengono pagate le ditte per far questo?

UOMO 1
Adesso le pagheranno in nero mi dicevano, 800 euro.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
Come tutte le mattine un auto blu attende il vicedirettore dell'arsenale. Esce da casa. Sale in auto. Svolta l'angolo. E l'arsenale è lì davanti, a duecento metri. Avrebbe fatto prima a piedi. Lo stato al servizio del servitore dello stato. Come da copione.

MILENA GABANELLI IN STUDIO
Ma il ministero della Difesa lo sa che là dentro 1300 operai sarebbero addetti alla manutenzione delle navi, e i lavori li fanno le ditte esterne? Pare che andasse bene a tutti almeno fino a 18 mesi fa quando un provvedimento di un magistrato ha autorizzato un ispettore del lavoro a effettuare dei controlli. L'area è stata messa sotto sequestro. Il problema degli apparati militari esiste perché esplodono di personale ma sembra che ci sia da fare proprio poco.

Cosa succede invece quando un funzionario pubblico viene rinviato a giudizio ? Il comune di Taranto è stato spolpato, è fallito. Nell'attesa dei tempi giudiziari dove stanno i responsabili?

ALDO PETRUCCI - Procuratore generale Taranto
Ho coniato questa definizione per le vicende del comune di Taranto: la realtà supera l'immaginazione.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
Nella sede comunale di via Plinio 23 impiegati lavoravano molto altroché i fannulloni. Per far quadrare i conti facevano straordinari su straordinari finché un bel giorno.

TGR PUGLIA
"una ventina di arresti a Taranto per gli emolumenti gonfiati a favore dei dipendenti comunali".

ALDO PETRUCCI - Procuratore generale Taranto
Peculato, truffa aggravata, associazione a delinquere.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
Secondo la procura i dipendenti coinvolti nella vicenda giudiziaria si sarebbero gonfiati illecitamente le buste paga fino a 20,40,100 mila euro al mese, aggiungendo varie voci di straordinario.

GIOVANNI MONACO - Guardia di Finanza Taranto
Avrebbero dovuto avere delle capacità soprannaturali, insomma, per poter far fronte a questa mole di lavoro. Praticamente partecipavano contestualmente sia a progetti sia a commissioni, sia a straordinario. Una giornata avrebbe dovuto essere minimo di 48 ore.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
48 ore al giorno e per 5 anni, in via Plinio non si usava timbrare il cartellino, i marcatempo sono stati acquistati soltanto dopo lo scandalo. Erano i dirigenti a segnare le ore su un foglio presenza, attestando che i dipendenti partecipavano a commissioni e a progetti obiettivo.

GIOVANNI MONACO - Guardia di Finanza Taranto
Un progetto fatto per la raccolta e la numerazione delle fatture, destinato al comune. Questo è un compito ordinario della direzione risorse finanziarie.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
Ma è bastato farlo diventare straordinario e i ragionieri si sono spartiti 26 mila e 500 euro. Progetti obiettivo ne sono stati fatti almeno 122.

ALDO PETRUCCI - Procuratore generale Taranto
Per le casse comunali oltre 5 milioni di euro.

GIOVANNI MONACO - Guardia di Finanza Taranto
Lo stipendio base è 1747.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
Aggiungendo la parola magica progetto sono comparsi 50 mila euro, in un solo mese. Dal 2001 al 2005 questo dirigente si è guadagnato 600 mila euro grazie ai progetti. Quest'altro 500 mila. Facevano tutti parte della direzione Risorse finanziarie del personale.

ALDO PETRUCCI - Procuratore generale Taranto
Loro avevano il rubinetto della spesa, quella direzione ha il rubinetto della spesa, per cui attingevano nei capitoli di bilancio che prevedevano interventi in favore di altri settori delle vita amministrativa.

SABRINA GIANNINI
Gli altri settori non si sono accorti?

ALDO PETRUCCI - Procuratore generale Taranto
Accorti o no nessuno ha protestato.

UOMO TARANTO 1
Vuole sapere un detto tarantino: "Lontano un palmo da me tutto può succedere".

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
Le indagini hanno chiarito che gli assessori non verificavano le determine di spesa firmate dai dirigenti, ma i politici sapevano. Nel corso delle perquisizioni è stato trovato in un cassetto il rapporto del 2001 redatto dagli ispettori del ministero dell'economia dove si segnalavano irregolarità nella gestione delle finanze. Ma per cinque anni e mezzo il sindaco Rossana Di Bello eletta in modo plebiscitario per due tornate elettorali, non ha fatto correttivi. Si è dimessa il giorno dopo aver ricevuto la condanna per la gestione degli appalti dell'inceneritore a febbraio dello scorso anno, lasciando nelle mani del commissario inviato dal governo un comune in bancarotta.

TOMMASO BLONDA - Commissario del Governo
Il lunedì cominciare una settimana con quest'incubo dei soldi che mancavano, di questi poveracci che stavano qui senza stipendio, due mesi senza stipendio! Due mesi! E' troppo!

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
Taranto da un estremo all'altro. Nel giro di poche settimane i suoi dipendenti comunali sono passati dal record dei più pagati in Italia al record dei meno pagati. La grande abbuffata era finita per tutti, anche per gli onesti. I 23 arrestati che si sono mangiati 5 milioni di euro non possono rappresentare gli altri 1300, ma la spartizione pare fosse più allargata e non solo ai piani alti di via Plinio. All'appello mancano infatti almeno 20 forse 30 milioni di euro, elargiti come salario accessorio ma presi illecitamente da altri fondi.

GIOVANNI MONACO - Guardia di Finanza Taranto
Noi praticamente quando le dobbiamo analizzare le prendiamo da giù le portiamo qua, le analizziamo e le riportiamo in archivio.

SABRINA GIANNINI
In tutto quante sono le buste paga?

GIOVANNI MONACO - Guardia di Finanza Taranto
85.000.

SABRINA GIANNINI
Ne guardate una ad una?

GIOVANNI MONACO - Guardia di Finanza Taranto
Certo. Voce per voce.

SABRINA GIANNINI
Uno dei suoi primi atti è stato quello di bloccare questi di progetti quindi di avere contro quasi tutti i dipendenti.

TOMMASO BLONDA - Commissario del Governo
E' quello che è stato difficile, fermare questo dissanguamento della finanza pubblica attraverso questa diffusione pratica del progetto.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
E adesso che non c'è più trippa per gatti in 100 chiedono di andare in pensione tra questi quattro degli indagati.

UOMO GUARDIA DI FINANZA
C'è il rischio che lo stato gli debba dare anche una pensione quindi un vitalizio per tutti gli anni a venire basata sull'entità dei compensi accessori che finora hanno percepito. E quindi avendo quegli importi mediamente di 20/30 mila euro al mese, lascio immaginare a tutti l'entità della pensione che questi in linea potenziale potrebbero percepire.

SABRINA GIANNINI
Il fatto che avessero chiesto la pensione, l'avevano chiesta prima delle indagini?

COSIMA DI STANI - Subcommissario del Governo
No, no dopo.

SABRINA GIANNINI
Qui ci hanno provato ad andare in pensione sperando che voi non interveniste no?

COSIMA DI STANI - Subcommissario del Governo
Per cui a queste persone è stato consentito di poter andare in pensione ma non è stata versata o quindi non è stata calcolata sulla busta, sul pagamento della pensione la quota riferibile agli stipendi loro.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
Riepilogando i 23 contabili vengono arrestati a luglio, quando scadono i termini di custodia cautelare gli indagati riprendono servizio a parte 8 dirigenti.

COSIMA DI STANI - Subcommissario del Governo
Questi sapevano che il comune stava sull'orlo del dissesto e con tutto ciò hanno continuato a prendere i soldi.

UOMO TARANTO 2
Il commissario di cui tutti parlano male almeno ha avuto il coraggio di dire "Non dovete ritornare a lavorare almeno fino a quando ci sto io".

COSIMA DI STANI - Subcommissario del Governo
Erano proprio come dire gli ideatori dei progetti obiettivo.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
La subcommissario li ha sospesi lasciandoli vivere con l'assegno familiare di 700 euro al mese. I sospesi hanno fatto ricorso in tribunale per rientrare al lavoro. Uno si è persino lamentato per la mancanza dello stipendio. Il giudice ne respinge il ricorso, gli ha ricordato che aveva guadagnato in due anni 230 mila euro.

UOMO TARANTO 2
Com'è possibile che un funzionario di un'amministrazione comunale quindi non è un politico, è una persona che io pago attraverso le mie tasse, si possa prendere tutti questi soldi di superstipendi, va bene, e non viene licenziato nel momento in cui viene e io quando lavoravo all'Ilva, avessi rubato un cacciavite mi avrebbero già licenziato. Mistero perché queste persone.. che cosa bisogna fare la rivoluzione per ottenere ciò che è normale?

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
Bisognerebbe cambiare la legge che oggi non consente di licenziare un dipendente pubblico se nei suoi confronti è stato aperto un procedimento giudiziario, si deve aspettare che la lenta macchina della giustizia finisca il suo corso. Per i lavoratori del privato la musica è un'altra. Qui siamo nel tribunale di Milano, è appena terminata l'udienza che vedi imputati alcuni dipendenti delle poste di Peschiera Borgomeo. Aprivano le buste rubando il contenuto sotto gli occhi delle telecamere nascoste. Poste Italiane spa ha potuto recapitare ad ognuno di loro una lettera di licenziamento, non hanno avuto una condanna ma sono stati espulsi lo stesso. All'azienda non conviene compromettere la propria immagine per tutelare venti ladruncoli preferisce rischiare un eventuale risarcimento in caso di loro assoluzione. La pubblica amministrazione che può licenziare soltanto davanti ad una condanna, può però utilizzare la sospensione cautelare, come a Taranto, ma non sembra molto applicata. Perfino nella scuola di fronte ai rinvii a giudizio per reati gravi quando il ministro Fioroni se ne è accorto ha inviato una circolare ai dirigenti rinfrescando loro la memoria.

GIUSEPPE FIORONI - Ministro dell'Istruzione
Oggi c'è una norma che sui reati di abusi sessuali, pedofilia e quant'altro c'è la decadenza immediata del servizio come ha richiamato una circolare per far applicare.

SABRINA GIANNINI
Quindi lei ha chiesto ai dirigenti qualora ci fossero questi casi in sospensione cautelare.

COSIMA DI STANI - Subcommissario del Governo
Il rientro in servizio è la regola. L'eccezione è appunto la valutazione in termini discrezionali dell'opportunità o meno di far rientrare il dipendente.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
Infatti non vi è obbligo ma discrezione nell'allontanare un inquisito e a discrezione si sceglie quasi sempre di lasciarlo sul posto. Basta restare a Taranto per avere un esempio.

SABRINA GIANNINI
Il peso che un dirigente di una asl che ha più dirigenti inquisiti in assoluto?

MARCO URAGO - direttore generale ASL Taranto1
Statisticamente non so le altre, però io sono messo bene.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
La tangentopoli della sanità tarantina prende avvio nel 2002, secondo l'accusa le gare di appalto erano sproporzionate rispetto ai servizi forniti alla asl, a volte le forniture erano del tutto inesistenti, quindi le fatture false. I funzionari della asl avrebbero secondo l'accusa il loro tornaconto in tangenti. Direttore da un anno Marco Urago sta cercando di ridimensionare il deficit di 90 milioni di euro, in compenso può vantare un bagno costoso lasciatogli in eredità da uno dei direttori inquisiti.

MARCO URAGO - direttore generale ASL Taranto1
Questo è un bagno che è stato oggetto anche in questo caso di interesse da parte della magistratura perché fu un bagno ristrutturato ad un prezzo decisamente elevato. Circa 200 mila euro. E una doccia che non funziona.

SABRINA GIANNINI
Pure! Perché lei ha detto che almeno la doccia funzioni no!

MARCO URAGO - direttore generale ASL Taranto1
Che la doccia funzioni, magari mi posso fare una doccia, stando qui dalla mattina alle otto alla sera tardi, questa cosa poteva capitare e invece no.

SABRINA GIANNINI
Quanti dirigenti hanno questa pendenza giudiziaria? Più o meno lei lo sa?

MARCO URAGO - direttore generale ASL Taranto1
Diversi.

SABRINA GIANNINI
Decine?

MARCO URAGO - direttore generale ASL Taranto1
Sì.

SABRINA GIANNINI
Quanti ancora oggi sono ancora qua che lavorano?

MARCO URAGO - direttore generale ASL Taranto1
Tutti tranne una.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
E' da pochi giorni rientrata anche lei Antonia Manghisi. E' l'unica ad aver fatto i 5 anni di sospensione previsti e adesso vuole un risarcimento. Era l'ex direttore amministrativo nel 2002, si fece anche otto mesi di carcere, l'anno successivo gli arresti domiciliari per un'altra vicenda di appalti e tangenti e adesso la rosa dei funzionari inquisiti è al gran completo.

SILVANO BAGLIVO - Dirigente ASL Taranto 1
Io pure sono sotto processo sempre per abuso di ufficio, però successivamente.

SABRINA GIANNINI
Quindi anche lei è un graziato dei provvedimenti disciplinari che non sono arrivati.

SILVANO BAGLIVO - Dirigente ASL Taranto 1
No, no non c'era la necessità.

SABRINA GIANNINI
Beh si dovevano fare. E' partito un procedimento penale?

SILVANO BAGLIVO - Dirigente ASL Taranto 1
E' partito, è partito il procedimento penale, ma attenzione dipende. Per abuso di ufficio, attenzione!

SABRINA GIANNINI
Lei è solo per abuso di ufficio?

SILVANO BAGLIVO - Dirigente ASL Taranto 1
Per abuso di ufficio.

SABRINA GIANNINI
Può essere veramente soltanto abuso di ufficio?

MARCO URAGO - direttore generale ASL Taranto1
Noooo!

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
Oltre al reato di abuso di ufficio, l'ex capo area gestione del patrimonio è imputato per i reati di corruzione e corruzione aggravata.

SABRINA GIANNINI
Non sarebbe giusto che una persona che è a servizio dello stato no, venga sospesa nel frattempo.

SILVANO BAGLIVO - Dirigente ASL Taranto 1
No perché personalmente, bisogna vedere se le cose stavano esattamente così come sono apparse.

SABRINA GIANNINI
Nel 2002 queste persone non hanno subito un procedimento di sospensione per esempio. Questo non è attribuibile a lei chiaramente.

MARCO URAGO - direttore generale ASL Taranto1
No.

SABRINA GIANNINI
A chi è attribuibile?

MARCO URAGO - direttore generale ASL Taranto1
Ai direttori generali precedenti.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
Perché i dirigenti della pubblica amministrazione sospendono così poco? Diciamo che non gli conviene avere coraggio, se non lo fanno non rischiano niente, tanto la legge dice che è discrezionale. Se invece sospendono ma il dipendente torna perché è stato assolto ed il suo reato prescritto.

SABRINA GIANNINI
Si rifà su di lei?

MARCO URAGO - direttore generale ASL Taranto1
Assolutamente sì.

SABRINA GIANNINI
E questo è un rischio del dirigente no?

MARCO URAGO - direttore generale ASL Taranto1
Più che un rischio con l'andamento, con i tempi dell'andamento della magistratura italiana diventa quasi una certezza.

SABRINA GIANNINI
Ed è ancora in corso il procedimento penale?

SILVANO BAGLIVO - Dirigente ASL Taranto 1
Sì, questi qua sono cominciati da poco.

SABRINA GIANNINI
Primo grado non c'è stato?

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO
Cinque anni ed è appena iniziato il primo grado. Il sogno della prescrizione si sta realizzando.

PIERCAMILLO DAVIGO - Consigliere di Cassazione
Ai pubblici funzionari, è richiesto di avere disciplina d'onore. Allora se vuoi continuare a fare il pubblico funzionario non prendi la prescrizione. Oppure se vuoi continuare a fare il pubblico funzionario non patteggi, non ricorri all'applicazione di pena. Se sei innocente ti difendi e accetti l'esito del giudizio.

A Taranto succede anche questo. «Ho già fatto sapere che d’ora in avanti mi rifiuterò di fare Consigli comunali in seconda convocazione». Un fulmine a ciel sereno per chi pensava di “tirare a campare” contando sul trucchetto della “convocazione d’urgenza”. Il presidente del Consiglio comunale Gina Lupo, come suo costume, non le manda di certo a dire ed anzi lo dice a Fabio Mancini su "Taranto Sera", e blocca ogni tentativo di usare per l’ennesima volta lo stratagemma che garantisce di abbassare l’asticella del numero legale. Si perché,  abbiamo assistito ad un trucchetto degno del migliore dei prestigiatori. Che Stefàno, ormai da tempo, non avesse o quasi i numeri per governare è persino anacronistico dirlo, ma che il presidente del Consiglio metta fine alla pratica (fuorilegge, secondo qualche consigliere d’opposizione) della “seconda convocazione” è una notizia pessima per chi pensava di approvare in questo modo norme di estrema importanza per il futuro della città. Ma in che cosa consiste il trucchetto? Il Consiglio viene convocato con i crismi dell’urgenza. In questa maniera, nel caso di “seduta deserta” in prima convocazione è possibile svolgere la seduta in seconda convocazione con un abbassamento del numero legale da 21 a 13. In questo modo la maggioranza, che ha numeri risicati, avrebbe la possibilità di approvare provvedimenti di estrema importanza come i debiti fuori bilancio. Una pratica che definire poco ortodossa è poca cosa. Forse per questo il presidente del Consiglio ha deciso di dire basta. «Mi rifiuto di fare Consigli comunali in seconda convocazione. Qualcuno – spiega Gina Lupo – sarebbe felice di usare sistematicamente questo escamotage, ma ho già fatto sapere che sono contraria a questa pratica».

Tutto questo e ben altro, però, a Taranto accade nella più totale omertà mediatica.

Essere il megafono delle procure e lo zerbino del potere politico ed economico spesso non paga.

L'inchiesta archiviata, per cui Paolo Pagliaro, editore di Telerama, aveva querelato il Tacco d'Italia di Lecce, ricostruiva brevemente una vicenda che anni fa aveva sollevato un polverone nell'opinione pubblica leccese e occupato non poche pagine di giornali. Riguardava i soldi dati dalla Provincia di Lecce (Giunta Giovanni Pellegrino) con affidamento diretto a Telerama, per la messa in onda di varie campagne promozionali. Parlava anche del meccanismo con cui vengono stilate le graduatorie per l'attribuzione alle televisioni locali, dei finanziamenti pubblici ai sensi della legge 448/98, spiegando il meccanismo perverso con cui è sufficiente dichiarare di essere in regola con il versamento dei contributi previdenziali ai dipendenti, anche se in regola non lo si è, per poi ricevere i soldi pubblici e sanare il proprio debito con gli Istituti di previdenza con gli stessi finanziamenti ricevuti. Parlava infine di altre cosucce relative all'occupazione delle frequenze Rai riscontrata e denunciata dalla stessa emittente statale.

Per questo si ha clamorosa conferma la notizia del Corriere della Sera del 1 luglio 2011: Dichiarazioni fasulle per i contributi. Sequestro di 900mila euro a Studio 100.

Le domande non veritiere sarebbero del 2005 e 2006. Dei 31 giornalisti, 12 non avrebbero svolto attività tv.

Nel chiedere i contributi relativi agli anni 2005 e 2006, aveva reso false dichiarazioni in ordine al numero di addetti all’attività televisiva, incrementandolo in maniera artificiosa e ottenendo un maggiore ed immeritato punteggio. Così la società proprietaria dell’emittente televisiva Studio 100 tv, che ha la sede sociale a Taranto, ha subìto un sequestro di circa 900mila euro dalla Guardia di finanza di Taranto. Grazie a quelle false dichiarazioni, infatti, avrebbe beneficiato indebitamente dei contributi pubblici erogati tramite il Corecom Puglia. Il provvedimento riguarda quote societarie, conti correnti, depositi bancari, beni mobili ed immobili. Dagli accertamenti è emerso che i dipendenti impiegati in attività televisiva non erano 31 come esposto nelle domande di contribuzione. Di questi, infatti, 12 non avrebbero svolto attività prettamente televisiva in quanto occupati in un’altra attività svolta dalla società proprietaria della rete televisiva, ovvero la rilevazione e il censimento della cartellonistica pubblicitaria sulle strade provinciali di Taranto.

E dire che proprio su Studio 100 si tenne una trasmissione: I CONTRIBUTI ALLE TV LOCALI: DENUNCIATE IRREGOLARITA’.

Il 12 settembre 2008, un'ora e mezzo di trasmissione in diretta sulla tv tarantina Studio 100, per l'occasione collegata con le emittenti Canale 7, Telebari e Teleonda Gallipoli. Argomento: la ripartizione - da parte del Corecom - dei contributi pubblici all'emittenza privata, previsti dalla legge 448 del 98. Nel corso della diretta - condotta dal direttore Walter Baldacconi con tre ospiti, due avvocati e l'editore di Canale 7, Gianni Tanzariello - una circostanziata denuncia. 13 emittenti pugliesi, su 42 ammesse ai contributi, avrebbero prodotto - in autocertificazione - documentazione non rispondente al vero in merito alla regolarità dei contributi versati all'Enpals per i lavoratori dipendenti. Ancora da accertare le posizioni con Inps e Inpgi. L'anno di riferimento è il 2006. Il puntuale versamento dei contributi previdenziali, costituisce condizione vincolante all'erogazione delle provvidenze pubbliche in questione. La denuncia è oggetto di interrogazione parlamentare del senatore di AN, Adriana Poli Bortone, che - collegata in diretta nel corso della trasmissione - ha ribadito la sua ferma intenzione di voler andare fino in fondo, nell'interesse di tutti. Nel corso del dibattito televisivo è emerso un altro dato: se quelle tv non sono in regola, non potranno sanare a posteriori la loro inadempienza. E’ al momento della richiesta del contributo che bisogna avere i titoli, come prevede la legge. Se è vero che il Corecom è tenuto ad accettare per buona l'autocertificazione sostitutiva, è altrettanto vero che quando questa dovesse risultare non veritiera - come pare nel caso di specie – sarà il ministero, erogante il contributo, a sospendere la procedura, e pare che questo stia già accadendo, con una prima richiesta di chiarimenti agli interessati.

A tanta meticolosità si contrappone la mancata inchiesta sulle baronie baresi. Dalla lontana redazione di "Repubblica" di Palermo per poter svelare verità taciute dalle redazioni dei giornali pugliesi. "L'università affare di famiglia. A Bari mogli e figli in cattedra" di Attilio Bolzoni.

PERO' SE SI DENUNCIANO ERRORI DEI MAGISTRATI: SCATTA LA REAZIONE.

Si sono concluse il 5 aprile 2008 le perquisizioni operate dalla Polizia nella sede di Telenorba, a Conversano, in provincia di Bari, nell'ambito delle indagini sull'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher e sulla trasmissione 'Il Graffio', che lunedì sera ha mostrato le immagini girate dalla Polizia Scientifica subito dopo il ritrovamento del corpo della vittima. Secondo quanto si apprende, oltre a un'indagine della procura del capoluogo umbro per violazione della privacy (sarebbero indagati il direttore responsabile della testata giornalistica e conduttore della trasmissione Enzo Magistà e un altro giornalista impegnato in alcuni servizi per 'il Graffio'), sarebbe stata aperta un'azione penale anche da parte della Procura di Bari per pubblicazione di atti osceni (articolo 528 del Codice Penale).

«Mannaggia alla miseria» è una tipica imprecazione meridionale e solo a una meridionale come Arcangela Wertmuller, detta Lina, lucana di Palazzo San Gervasio, o al compianto Nanni Loy, poteva venire l'idea di farne il titolo di un film. Un titolo quanto mai azzeccato, bisogna dire, sia per il luogo, Taranto, sia per ciò che poi è successo, cioè richiesta di «pizzo» di 50 mila euro per continuare a lavorare in pace. Si potrebbe raccontare il guaio capitato alla Wertmuller proprio con un film di Nanni Loy.

Ciononostante, a Taranto adesso sono tutti contenti. Così scrive Carlo Vulpio su "Il Corriere della Sera". Non soltanto perché il pizzo non è stato pagato, ma perché «Mannaggia alla miseria» è già diventato il motto della città. E si capisce. Circa quattromila persone decedute da anni risultavano ancora in carico all'Asl di Taranto e concorrevano regolarmente alla quantificazione delle retribuzioni dei rispettivi medici di base convenzionati: la scoperta è stata fatta da militari del comando provinciale della guardia di finanza a conclusione di indagini che hanno comparato i dati delle anagrafi comunali con gli elenchi degli iscritti all'Asl nel periodo compreso fra il 2004 e il 2008. Taranto è il Comune italiano che ha anticipato la crisi finanziaria mondiale grazie a «derivati», obbligazioni spazzatura e cartolarizzazioni d'ogni tipo, facendo bancarotta per un miliardo e 200 milioni di euro (spalmati su 200 mila abitanti fanno 6 mila euro a cranio). Ed è anche la città che ha l'acciaieria più grande d'Europa, l'Ilva, che però non ha pagato l'Ici per 13 anni (13 milioni di euro). Cosa le resta da dire se non «mannaggia alla miseria»?

A Taranto la gestione del pubblico denaro negli ultimi anni è stata indecente. A raccontarla tutta, la storia del crac del Comune di Taranto, il primo in assoluto in Italia ad avere un liquidatore come capita alle società fallite, ci sarebbe da scrivere un libro. Un po’ comico e un po’ horror. Prendete la faccenda dei semafori, scoperta da Cesare Bechis del «Corriere del Mezzogiorno». Un bel giorno un funzionario butta un occhio sulle bollette: come è possibile che un semaforo costi meno di 18 euro di elettricità e un altro 1.749? Se fanno entrambi la stessa cosa (luce verde, gialla, rossa…) come è possibile che uno costi cento volte più di quell’altro? Sfoglia i conti e ci resta secco: non c’è semaforo che abbia una bolletta uguale a un altro. Come mai? A certi semafori si attaccavano con i cavi per fregare la luce tutti gli abitanti dei dintorni. Non c'è settore nel quale, per anni, le pubbliche casse non siano state viste come mammelle alle quali era «normale» succhiare il più possibile. Un paio di esempi? Tra tutti i conti presentati dai creditori del Comune (per un totale di 5.960 istanze di gente che diceva di avanzare soldi) spiccano tre parcelle di un avvocato per un totale di 150 mila euro. Mario Pazzaglia, il presidente veneto-marchigiano dell’Ols (l’Organo Straordinario di Liquidazione), non è convinto. Spulcia e scopre che si tratta di tre fatture per la stessa pratica. «Oh, scusate, un errore della segretaria…». Pagamento concordato: 6 mila euro. Venticinque volte di meno. Altro esempio? Lo racconta ancora Bechis: «Fatta cento la tassa sui rifiuti (Tarsu) accertata a carico di un nuovo contribuente, finisce nelle casse comunali il 26,34%». Poco più di un quarto. Ma soprattutto la metà di quello che si trattenevano le società (l’ultima fetta, storicamente, riguarda gli evasori) delegate agli accertamenti e alla riscossione. Che si portavano via addirittura il 47,29% sull’accertato. Un delirio. Per non dire della maxi evasione dell'Ici da parte delle grandi imprese, come la stessa Ilva, che per anni avevano «dimenticato» come l’imposta andasse pagata non solo per le opere in muratura. Totale dell’evasione accertata dal 2003 al 2007: 57 milioni. Una somma enorme. Tanto più per un Comune con l'acqua alla gola. C’è poi da stupirsi che Taranto sia affondata nel 2006 sotto una montagna di debiti che Pazzaglia e i suoi hanno definito  in 835 milioni? E meno male che controllando documento su documento («le fatture erano ricaricate in media del 40% e perfino Equitalia diceva di avanzare dal Comune 25 milioni e invece ne avanzava 4») la somma finale è stata ridotta. Quella iniziale era di 920. Cioè 14.000 euro di buco a famiglia.

Dovrebbero studiarla a scuola, la storia degli anni della Grandeur Tarantina, scrive Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella su "Il Corriere della Sera". Quando il Comune era amministrato da Rossana Di Bello, una biologa titolare di alcune gioiellerie, fondatrice del primo club pugliese di Forza Italia, eletta nel 2000, rieletta trionfalmente nel 2005 e dimessasi l’anno dopo in seguito a una condanna per abuso di ufficio e falso ideologico nell’ambito dell’inchiesta sull’inceneritore. Appalti incredibili. Contabilità allegra. Megalomanie. Al punto che fu avanzata l’idea (travolta dal crac) di costruire il Colosso di Zeus, una statua gigantesca che avrebbe dovuto ricordare l’antica opera di Lisippo. Colossale fu il buco lasciato dalla giunta berlusconiana. E colossale la legnata inflitta alle elezioni del 2008 alla Casa delle Libertà, precipitata in due anni dal 57,8 al 15,5%, con tracollo di 42,2 punti. Tanto che il ballottaggio per il sindaco vide scontrarsi due schieramenti di centrosinistra con travolgente vittoria (76%) di Ippazio Stefàno, un pediatra che dopo essere stato senatore pidiessino aveva chiuso con la politica attiva per dedicarsi al volontariato ed era appoggiato da un «fritto misto», dall’Udeur a Rifondazione comunista. Tre anni dopo nel 2010, assediato da mille cittadini in difficoltà, mille beghe interne alla sinistra e mille grane ereditate dal crac («non abbiamo diritto neppure ad avere un direttore generale o un addetto stampa e io me le sogno le venti persone nello staff che aveva la Di Bello!») il sindaco allarga le braccia: «Su 40 seggi la sinistra ne ha 29, la destra 11. Teoricamente dovrei leccarmi le dita. E invece è una lite al giorno. Per ragioni di bottega. Destra e sinistra, solo bottega. Un ostruzionismo continuo, che di fatto va contro la povera gente. Dibattiti sui destini della città, zero. La commissione ambiente e paesaggio, per dire, non è ancora stata nominata. Dovrebbe occuparsi delle spiagge. Siamo a metà luglio e il consiglio comunale non l’ha nominata. Non so se mi spiego». I conti, certo, vanno meglio. Le entrate Ici, per esempio, sono salite da 32 milioni nel 2006 a 45 l’anno 2009 e probabilmente 55 nel 2010. Quelle della Tarsu da 19 a 33. Ma alcuni problemi annosi, spiega Stefàno, sono rimasti irrisolti: «Il Comune ha 2000 appartamenti e ne ricava 400 mila euro l’anno. Fatti i conti ogni appartamento rende 200 euro d’affitto. Da non dormirci di notte. Vorrei e dovrei censirli a uno a uno, ma mi mancano perfino i vigili. Sulla carta ce ne sono 194 ma 56 figurano "non idonei". Ne restano 140, su due turni. Togli malattie, riposi, assenteisti e di fatto, la domenica, per una città di 200.000 abitanti, sì e no in servizio ce n’è una dozzina». I dipendenti comunali, dice, con «una pianta organica che era stata gonfiata fino a 1.750 dipendenti, sono calati da circa 1.500 a 1.050». Miracolo? Magari. Quando scoppiò il bubbone saltò fuori che decine di funzionari e dirigenti si erano auto-aumentati lo stipendio, autocertificando di avere fatto per il Comune dei lavori al progetto. Buste paga da venti, trentamila euro al mese. Con punte di 39.160. Basti dire che a un certo Cataldo Ricchiuti, accusato di essersi regalato 567 mila euro di aumenti illegittimi, furono sequestrati 12 fabbricati, un terreno, 124 mila euro in banca…

Ma quelle megatruffe, spiega il sindaco, erano solo la punta dell’iceberg: «Tutti i dipendenti, salvo forse una ventina di persone pulitissime, avevano gli stipendi più alti. Dico tutti. Straordinari senza controllo, "progetti" pagati a parte per fare niente, autocertificazioni di familiari a carico... Tutto "normale" pareva. Quando ho cercato di ripristinare un po’ di serietà (ci guardavano come dei marziani rompicoglioni) chi poteva se n'è andato in pensione così che questa fosse calcolata sulla base dell’ultimo stipendio. Sa, piuttosto che vedersela conteggiare su una busta paga ribassata...». Dice che lui, con i conti messi in quel modo, lo stipendio da sindaco non lo tocca neppure: «Lo versano su un conto corrente a parte. E i soldi servono per fare tante cose. Pubbliche. A me basta la pensione». Lo stesso Giancarlo Cito, incazzosissimo bastian contrario, riconosce che sì, «Ippazio è uno che fa le cose con spirito missionario. Pediatra bravissimo. Se i nipotini hanno un problema chiamo lui. Sarebbe un grande missionario in Africa. Per fare il sindaco di Taranto però servono gli attributi. Durissimi bisogna essere. Lui non lo è». Era dimagrito di 45 chili, l’ex sindaco costretto a dimettersi e poi condannato a quattro anni per concorso esterno in associazione mafiosa, quando nel 2006 «La Voce del Popolo» lo sparò spettrale in copertina col titolo: «Vi prego, non mi abbandonate!». Pagato il conto con la giustizia, anche se ha ancora qualche gatta da pelare, l'istrionico imprenditore televisivo sembra tornato quello di una volta. Che conquistò la carica di primo cittadino e poi un seggio alla Camera sventagliando sulla sua tv (Tbm: Tele Basilicata Matera ma i tarantini ammiccano che in realtà è Tele Benito Mussolini) raffiche di sgrammaticati insulti ai politici: «Siete delle carogne, dei ladri, dei delinquenti!». «Io vi do un sacco di botte perché avete rubato a quattro ganasce!». «Signori che avete le orecchie a livello di Trombo di Eustacchio!». Per il momento, in politica, c’è tornato per interposta persona. Candidando il figlio Mario (l’unico candidato del pianeta muto come Bernardo, il servo di Zorro: «a parlare penso io») fino a portarlo incredibilmente al 20% alle comunali e addirittura al 30% (solo in città, si capisce) alle provinciali del 2009. Due trionfi. A dispetto della fama che ha nel resto d'Italia dai tempi in cui si candidò a sindaco di Milano con uno slogan purtroppo incompreso: «Voglio tarantizzare Milano. Farla diventare come la mia Taranto, la Svizzera del Sud». Una scalata cui seguì quella all’Europa per «tarantizzare Strasburgo ». Ora che l'interdizione dai pubblici uffici è scaduta si candiderà ancora? Cito gigioneggia: «Mah…». In ogni caso, convinto com’è di essere stato il più grande sindaco di tutti tempi («io feci rimuovere 40 mila auto in seconda fila, io portare qui l’università, io scendere gli scippi a un paio l’anno…») è tornato a mostrare i muscoli. Letteralmente. Andando a nuoto da Reggio Calabria a Messina («da Villa San Giovanni son capaci tutti») per glorificare l’idea di unire il Mezzogiorno contro l’odiata Lega Nord. Una nuotata alla Mao Tzetung? Ma va là: «Quello s’era fatto un bagnetto nel Fiume Giallo. Plop, plop, fine. Io invece...».

La storia del sindaco Cito diventa un film, la sceneggiatura del giornalista di Annozero. Bianchi: «ha anticipato Berlusconi». L'ex parlamentare di AT6, è stato imprenditore edile e presidente del Taranto Calcio, poi la condanna.

La storia di Giancarlo Cito, ex parlamentare di AT6 già sindaco di Taranto, sta per diventare un film: la sceneggiatura del giornalista Stefano Bianchi, inviato di Annozero, è pronta per essere girata. Le somiglianze tra i trascorsi di Cito e quelli di Berlusconi in effetti non sono poche: negli anni ottanta lavorò come imprenditore edile, ma dopo alcune condanne cambiò settore puntando sulla televisione locale. Così nacque Antenna Taranto 6, e sempre nel 1980 presentò una sua lista «Taranto Nostra» alle amministrative, riportando circa 1000 voti. La carriera politica continuò con la fondazione del partito AT6-Lega d'Azione Meridionale e un anno dopo venne eletto sindaco di Taranto con un ampio consenso. Nel 1995 fu rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa, e condannato definitivamente per rapporti con la Sacra Corona Unita due anni dopo, mentre al termine delle elezioni politiche del 1996 divenne deputato nazionale. Scontata la condanna a quattro anni, possiede Tele Basilicata Matera, e per un breve periodo - altra somiglianza col premier - fu presidente onorario del Taranto Calcio. Ma la storia continua….

Le CONDANNe.

TARANTO 13 luglio 2010  - La sezione distaccata di Taranto della Corte d’Appello di Lecce ha condannato a 2 anni di carcere l’ex sindaco Giancarlo Cito e a un anno e 3 mesi l’ex vicesindaco Vito Rotolo, accusati di violenza privata, abuso d’ufficio e falso ideologico. La vicenda riguarda la temporanea chiusura dello stadio comunale “Erasmo Iacovone”, negato per un lungo periodo, nel 1997, al Taranto Calcio 1906 (società che militava nel campionato di serie C2) e concesso al Taranto 2000 (che disputava la Terza Categoria). I due imputati hanno beneficiato di un leggero sconto di pena rispetto al primo grado. È stata invece dichiarata la prescrizione per il dirigente comunale Marcello Vuozzo. Secondo l’accusa, l’ex sindaco Giancarlo Cito vietò l’utilizzo dello stadio alla società rossoblù per dispetto nei confronti dei dirigenti del Taranto Calcio 1906, che gli avevano revocato la carica di presidente onorario.

TARANTO 27 aprile 2010 - La sezione distaccata di Taranto della Corte d’appello di Lecce ha condannato a quattro anni di reclusione ciascuno l’ex sindaco di Taranto Giancarlo Cito, leader del movimento At6-Lega d’azione meridionale, e l’ex dirigente comunale Vincenzo De Palma, accusati di concussione. Secondo la tesi degli inquirenti, gli imputati avrebbero chiesto tangenti per la realizzazione del porticciolo turistico in località San Vito, alla periferia di Taranto. In un procedimento parallelo, per la stessa vicenda, erano stati già condannati due architetti, mentre un imprenditore ha patteggiato due anni di reclusione. Cito è accusato di aver ottenuto una tangente, mascherata da contratti pubblicitari stipulati con l’emittente televisiva Super 7, di 120 milioni di lire dal portavoce della Dirav, la multinazionale liberiana interessata al progetto del porto turistico. In primo grado l’ex sindaco fu assolto, mentre fu dichiarata la prescrizione (dopo la derubricazione del reato da concussione a corruzione) per l’ex dirigente comunale De Palma.

Cito ha già scontato quattro anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa ed è stato già condannato in appello a cinque anni e mezzo di reclusione perchè ritenuto colpevole di aver intascato tangenti per il rinnovo dell’appalto biennale concesso dal Comune ad una ditta di traslochi.

Dagli organi di stampa la magistratura tarantina sembra mettere le mani avanti per giustificare un esito infausto delle inchieste sulla "Amministratopoli" tarantina.

Quando non si arriva al risultato previsto dalle norme, si dà la colpa alla ex Cirielli.

Chi pagherà? «Probabilmente, nessuno, scrive Tonio Attinio su "La Stampa". I tempi di prescrizione sono troppo brevi e alcuni processi finiranno all’udienza preliminare. Non è giusto illudere chi attende giustizia». Il pm Maurizio Carbone, presidente della sezione tarantina dell’associazione nazionale magistrati, è brutalmente concreto. Il crac di Taranto resterà impunito. Carbone addolcisce il concetto: «E’ ragionevole ipotizzarlo».

Sotto il peso di una zavorra pesantuccia, cioè un debito di 901 milioni di euro, il Comune di Taranto è affondato ufficialmente il 17 ottobre 2006. Dissesto finanziario. Ci vorrà ancora un po’ di pazienza per chiudere la pratica con una bolla di sapone. I processi rischiano di non concludersi. E quando la prescrizione avrà definitivamente cancellato falso, abuso di ufficio, truffa, peculato, corruzione, qualche altro reato contro la pubblica amministrazione e 17 inchieste giudiziarie, si avrà la certezza che non è successo nulla. Oppure - come dice il pubblico ministero Carbone - «che i magistrati hanno fatto processi inutili sapendo che si sarebbero conclusi con la prescrizione».

Il caso Taranto - arresti, decine di indagati - ha lasciato la città al crac, le imposte locali al massimo (l’Ici è salita dal 6,25 al 7 per cento; la Tosap, l’occupazione del suolo pubblico, è raddoppiata) e a secco di risposte. Chi ha fatto sparire 901 milioni? Forse i dipendenti comunali che intascavano stipendi da quarantamila euro al mese? Impossibile: secondo i calcoli degli inquirenti, hanno fatto solo un «piccolo» buco da cinque milioni di euro. Allora gli imprenditori ai quali il Comune cedeva attività commerciali pagando perfino le bollette? Nessuna risposta.

Luigi Lubelli, ex dirigente responsabile del settore finanziario comunale coinvolto in una mezza dozzina di inchieste, ha detto pubblicamente che i politici sapevano. Rossana Di Bello, sindaco per quasi sei anni, è uscita di scena il 25 febbraio 2006: condannata a un anno e quattro mesi per falso e abuso d’ufficio per l’appalto dell’inceneritore, si dimise. Da allora, tace. Dopo la condanna confermata in secondo grado, la Corte di Cassazione ha annullato la condanna con rinvio. Dovrebbe farsi in Appello un nuovo processo. Ma i reati saranno prescritti, come ricorda il suo avvocato, Rocco Maggi: «C’è la volontà di discutere il processo nel merito per chiedere l’assoluzione - dice - ma sappiamo, ovviamente, che in subordine c’è la prescrizione». E’ vero, Rossana Di Bello (ex Forza Italia) dovrà essere giudicata anche per altro. Con il suo vice Michele Tucci (Udc), per esempio, è accusata di avere truccato i bilanci di cinque anni. Per la procura, sono falsi. Si concluderà mai, il processo?

Non c’è un solo grande appalto che non sia finito sotto inchiesta. La pubblica illuminazione (28 milioni). La proroga del servizio di vigilanza. La gestione della società partecipata Taranto Servizi. L’appalto per il porto turistico. La condotta fognaria sottomarina. Il telesoccorso. I maxi stipendi intascati mentre il Comune affondava. Carbone sottolinea che la legge ex Cirielli «ha dimezzato i tempi di prescrizione per i reati contro la pubblica amministrazione, sette anni e mezzo dal commesso reato, non della sua scoperta». E cita un caso esemplare vissuto da pm a Taranto: il processo contro l’ex direttore dell’azienda ospedaliera Giuseppe Nocco, ex senatore di Forza Italia, accusato di avere intascato tangenti pagate da alcuni imprenditori. «Quando sono cominciate le indagini la prescrizione per la corruzione era di quindici anni, poi è diventata di sette e mezzo. Come mi sono sentito? Come un calciatore che sta in campo e sa di dover giocare novanta minuti. E invece a un certo punto arbitro dice: si gioca fino al quarantacinquesimo».

E’ una vicenda istruttiva, il caso Nocco. Solo l’udienza preliminare - e qui la ex Cirielli non c’entra niente - dura due anni e mezzo. I fatti risalgono al 2003. Sono passati cinque anni. Prima che il processo cominci, la storia è già finita. Più o meno lo stesso destino toccherà all’inchiesta sugli appalti comunali prorogati per non bandire nuove gare.

Intanto l’erede del disastro, il rifondazionista Ippazio Stèfano, sindaco alla guida di un Comune indigente e con le toppe, cerca di rianimare la città incoraggiandola con l’ottimismo e i manifesti per le strade: «Taranto rinasce».

Una domanda sorge spontanea: ma chi ha fatto sparire 901 milioni di euro?

Si scelga la risposta:

Gli amministratori con i bilanci truccati?

I dirigenti comunali con gli stipendi gonfiati?

Gli imprenditori con gli appalti truccati?

I cittadini con l'assistenza clientelare?

Certo è che parlare di prescrizione, per creare un alibi, è un po' troppo.

Dalla conoscenza del reato si attivano le indagini: durata 6 mesi, salvo proroga di pari termine. Ci sono 7 anni di tempo per evitare la prescrizione, come si fa per processi con gente meno importante.

Dai fatti risulta che l'amministrazione Di Bello è accusata di aver truccato i bilanci di 5 anni.

Un'altra domanda sorge spontanea: se la Di Bello si è dimessa il 25 febbraio 2006, perché si è dato modo di reiterare il presunto reato dal bilancio del 2001 ???

SI E' CAUSATO IL DISSESTO PER IL MANCATO INTERVENTO URGENTE E NECESSARIO.

MANCATE DENUNCE O MANCATE INCHIESTE ????

MAGGIORANZA E OPPOSIZIONE, TUTTI COLLUSI ???

MAGISTRATI CODARDI E OMISSIVI ???

Comunque, alla fine della fiera, in una Italia di impuniti, è sempre il cittadino onesto a pagare: una città al crac, le imposte locali al massimo, (l'Ici è salita dal 6,25 al 7 per cento; la Tosap e l'occupazione del suolo pubblico raddoppiate. Come il cittadino italiano pagherà i 12 milioni di euro al tarantino Domenico Morrone, che ha scontato una condanna di 15 anni, 2 mesi e 23 giorni, di cui 11 anni e 6 mesi in carcere, o ai tarantini Pedone, Aiello, Caforio, Bello, che condannati fino a 30 anni di carcere, hanno scontato 7 anni di galera, perché tutti vittima di un errore giudiziario causato da un magistrato tarantino, che continua a fare il suo lavoro.

LA NOSTRA INCHIESTA

L'Ilva dà da mangiare a più di 15 mila famiglie ma è una delle fabbriche italiane in cui più si muore e ci si infortuna. La provincia di Taranto è una delle più inquinate, forse la più inquinata, d'Italia. I valori di alcuni veleni presenti nell'aria sono anche trenta volte più alti rispetto alla media europea

L’Ilva è lo stabilimento siderurgico più grande d'Europa, con i suoi 15 milioni di metri quadri di superficie è due volte e mezzo la città. Attraversato da duecento chilometri di binari, 50 di strade, centonovanta di nastri trasportatori, ogni anno produce oltre 10 milioni di tonnellate d'acciaio.

L'Ilva dà vita perché dà da mangiare a più di 15 mila famiglie ma dispensa anche morte fra incidenti sul lavoro e malattie. E' una delle fabbriche italiane in cui più si muore e ci si infortuna.

La provincia di Taranto è una delle più inquinate, forse la più inquinata, d'Italia. I valori di alcuni veleni presenti nell'aria sono anche trenta volte più alti rispetto alla media europea; molti sono i casi di tumore e la probabilità di ammalarsi è elevata: solo in Veneto va peggio.

Taranto che è, anche, una delle città più indebitate del Paese. Un buco di novecento milioni di euro frutto del saccheggio sistematico delle casse comunali, almeno stando alle accuse formulate nei processi.

Dirigenti, funzionari e anche qualche impiegato si sono gonfiati gli stipendi in maniera spropositata sfruttando falsi progetti, premi di produttività e straordinari: alcuni guadagnavano anche più di 30 mila euro al mese. Gli appalti, anche quello della cancelleria, sempre stando alle accuse, venivano dati in affidamento a ditte di "amici" o di "amici di amici"... il Comune pagava a qualcuno persino le bollette delle utenze private.

Come si è potuti arrivare a tutto questo?

Per capire la Taranto di oggi bisogna tornare agli anni '80 del secolo scorso, gli anni in cui l'Ilva, che allora si chiamava ancora Italsider, cominciò a licenziare.

Durante tutto il corso degli anni '80, come in tutti i grandi centri industriali, anche a Taranto ci furono licenziamenti massicci. Ristrutturazione si chiamava all'epoca.

Nei primi anni di quel decennio la città era amministrata da sindaci comunisti retti da precarie giunte di sinistra, un'anomalia se rapportata al resto d'Italia. Giunte che, tra le altre cose, si erano opposte alla costruzione della nuova base navale in Mar Grande, oggi realizzata.

Sono anni di impoverimento e imbarbarimento della città. E' anche il periodo in cui la malavita comincia a diffondersi e a rafforzarsi grazie alle tante braccia disponibili a causa dei licenziamenti.

L'anno di rottura, il momento in cui i vecchi equilibri vengono meno e se ne devono creare dei nuovi, è il 1985.

A maggio di quell'anno si vota per il rinnovo del Consiglio comunale. Dalle elezioni esce un quadro frammentato. Il Pci perde molti voti in città, dove raccoglie il 29,2%, pur restando, con il 37%, il primo partito a livello provinciale. Neanche la Dc va bene, non raccoglie il consenso che si aspettava e, nel complesso, la coalizione di sinistra è più forte: passa da 27 a 29 consiglieri, grazie soprattutto ai discreti incrementi di Psi e Psdi. Cominciano gli incontri per formare una giunta: trattative su trattative senza mai trovare una soluzione.

Passa l'estate e Taranto non ha ancora un sindaco. Passa anche settembre. Siamo in ottobre, precisamente è la notte fra il dieci e l'undici ottobre del 1985.

A Taranto in quelle ore si conclude un accordo fra i partiti della sinistra con Pri e Pli per una nuova giunta a guida socialista.

Il Consiglio comunale per eleggere il nuovo sindaco viene fissato per il 14. Quel giorno, però, Guadagnolo, il sindaco socialista designato, viene eletto da una coalizione che invece del Pci comprende la Dc, il classico pentapartito che in quegli anni governa l'Italia.

Cosa è successo in tre giorni?

Sono intervenuti i dirigenti nazionali di Pli e Pri ad impedire che, a livello locale, i loro partiti entrassero in una giunta di sinistra. Socialdemocratici prima e socialisti poi si sono tirati indietro. Taranto, dopo dieci anni di amministrazioni di sinistra, passa al pentapartito.

L'ottobre del 1985 non fu solo un periodo di trattative e complotti politici.

All'inizio del mese il Csm aveva messo sotto inchiesta e trasferito l'allora procuratore capo di Taranto, Giuseppe Raffaelli. Due dei suoi sostituti, Giuseppe Lezza e Giuseppe Lamanna, vennero invece sospesi dall'incarico e dallo stipendio. Erano accusati di corruzione, omissione di atti di ufficio e abuso di potere.

Si comincia ad ipotizzare che in città vi sia un "super partito" che riunisce esponenti di diversi settori.

La polemica divampa. Sono molte le storie che sul finire del 1985 vengono a galla.

Qualche mese prima di quell'ottobre un funzionario del ministero dell'interno, Aldo Luzzi, inviato a Taranto per alcune indagini, ha depositato la propria relazione. Nel documento mette in risalto il ruolo di due dirigenti della polizia: il capo della mobile, Giuseppe De Donno, e il responsabile della squadra volanti-furti, Eugenio Introcaso.

La relazione di Luzzi contiene, fra l'altro, riferimenti a comportamenti presumibilmente illeciti di alcuni esponenti della magistratura locale e Martinazzoli, allora Ministro della giustizia, decide di inviare a Taranto un ispettore.

Secondo quanto emergeva dai rapporti degli ispettori del Viminale e del Ministero della giustizia a Taranto si era costituita un'organizzazione composta da politici, imprenditori, magistrati, esponenti delle forze dell'ordine e malavita organizzata che aveva contatti con la mafia siciliana e che gestiva i traffici leciti ed illeciti. Un'organizzazione addirittura in grado di influenzare la composizione di una giunta.

Tutto però si concluse con qualche trasferimento e nessun risultato rilevante nelle seguenti indagini: tutti furono scagionati.

Quel lungo 1985 era finito. La giunta Guadagnolo amministrerà per cinque anni, saranno anni, però, in cui si parlerà più della guerra di mala che di politica.

A comandare la malavita tarantina è il "messicano", Tonino Modeo.

Ha tre fratellastri Tonino: Gianfranco, Riccardo e Claudio. La madre, Mina Ceci, è la stessa ma i padri diversi. Gestisce con loro i propri traffici ma non ne ha molta stima.

Molte famiglie cominciano a criticarlo, i rapporti con i fratelli, appoggiati dalla madre, si incrinano sempre più e attorno a loro si coagulano gli avversari di Tonino, quelli che vogliono commerciare la roba ( "loro non erano altro che dei delinquenti del rione che, per il fatto che si erano messi contro Tonino il messicano, si erano ingranditi" dirà dei fratelli Modeo Salvatore Anacondia nella sua deposizione dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia).

A quel punto Antonio Modeo stringe un patto di ferro con il gruppo di Salvatore De Vitis: pur di non trafficare eroina, ma anche per non far calpestare la propria autorità, si mette contro i fratelli. Questi decidono di ammazzare De Vitis, ma non ci riescono.

La scissione ormai è aperta, ci sono due clan fra loro contrapposti. Uno vuole smerciare eroina, l'altro si oppone.

Comincia così la guerra di mala tarantina: durerà sino ai primi anni novanta concludendosi il primo ottobre del 1991 con una strage di innocenti, quella della barberia, dove un commando, per sbaglio, uccide quattro innocenti e non il bersaglio che si era prefissato. Sarà una guerra pesantissima, si conteranno più di cento morti.

Il primo a morire è il padre di De Vitis, Paolo, ucciso per "sfregio" dal clan dei fratelli Modeo; subito dopo tocca alla madre dei Modeo e del "messicano", Cosima Ceci, uccisa per vendetta. Poi è una valanga di morti, fino al 1991 (il prologo alla guerra lo aveva messo in scena Gregorio Cicala: incaricato di ammazzare De Vitis, al quale è legatissimo perchè gli ha permesso di liberarsi dall'eroina, decide di ammazzare il mandante e di schierarsi con De Vitis e il "messicano". Sarà lui ad uccidere Cosima Ceci per vendicare l'omicidio del padre di De Vitis).

Nel 1990 i fratelli di Tonino vengono arrestati. Erano nascosti in un bunker scavato sotto un'abitazione di campagna a Montescaglioso, in Basilicata ma a quattro passi da Taranto. Sono i loro cani a tradirli: continuano ad annusare sempre nello stesso punto della casa, proprio dove, rimuovendo il pavimento, viene ritrovata una botola.

In quell'anno Tonino non è più a Taranto, ha lasciato la borgata di Statte (oggi Comune autonomo) già da tempo. E' stato avvistato a Milano ma il 16 Agosto di quel 1990 è a Bisceglie, in provincia di Bari. E' lì che viene ammazzato da Salvatore Anacondia.

Anacondia non è uno qualsiasi, è, per sua stessa ammissione, affiliato alla mafia siciliana ed ha un grado elevato, "santista", nella gerarchia malavitosa. Quello che i fratelli Modeo, dal carcere, gli hanno fatto sapere per convincerlo ad ammazzare il "messicano" è infamante: Tonino avrebbe cercato di violentare la moglie di uno dei fratelli.

Anacondia esegue la condanna. La mafia esegue la condanna e, forse, più che per l'episodio di violenza che i fratelli gli attribuiscono, decide di ucciderlo per punire quella caparbietà con cui si era opposto al traffico di eroina e all'infiltrarsi di cosa nostra nella sua città (il "messicano", si dice, fosse stato "innalzato" dai campani).

Nel maggio del 1990, prima che il "messicano" fosse ucciso, si votò per il rinnovo del consiglio comunale: ne venne fuori una situazione ancora più confusa che nel 1985. Il Pci è tracollato al 19% ma è possibile una giunta di sinistra con Pri e Pli, proprio come cinque anni prima. Si ipotizza, è quasi fatta, ma salta. La nuova giunta di Taranto è appoggiata da Dc, Psi, Psdi, Pri.

La novità politica venuta fuori dalle elezioni è Giancarlo Cito: si è presentato per la prima volta con il partito che prende il nome dalla sua tv, At6 (Antenna Taranto 6), raccogliendo il 13,5% dei voti e sette consiglieri comunali. Solo tre anni dopo diventerà sindaco. Saranno tre anni di elevata instabilità politica.

La guerra di mala, invece, dopo la strage del '91, sembra essersi arrestata. Con la morte del "messicano" hanno vinto i fratelli e, nonostante siano in carcere, riescono a far giungere le proprie direttive in città.

Taranto si è impoverita ulteriormente: l'Italsider, che nel frattempo è diventata Ilva, ha continuato ad espellere operai dal ciclo produttivo; altre aziende importanti, come la Belleli, sono entrate in crisi. Anche l'arsenale è in difficoltà e in quei primi anni novanta non si parla più di riapertura dei cantieri navali ma di costruire un parco giochi al loro posto.

La gente comincia ad essere stanca e rassegnata, per tutto il decennio precedente si è diffusa una pericolosa mentalità secondo la quale tutti rubano e sono uguali. C'è netta sfiducia nella politica. Il malcostume si diffonde sempre più, anche fra i cittadini. La città di sera è buia, sporca, ci sono vistose buche sull'asfalto, quasi delle voragini, e ogni due passi incontri una siringa. Dopo una certa ora non esce più nessuno: hanno paura.

Sembra grigia, opaca, la Taranto dei primi anni '90. E opachi sono gli aspetti della sua vita economica, politica e sociale. In tre anni cambiano tre giunte. Tre sindaci diversi si succedono, il secondo dei quali appoggiato anche dal Pci che nel frattempo si scinde e diviene Pds. La precarietà sociale e l'instabilità politica non fanno che portare acqua al mulino di Cito. Non passa giorno senza che sbraiti dalla sua televisione contro i politici corrotti, la partitocrazia e tutti quelli che siedono in consiglio comunale al di fuori del suo gruppo. Non passa giorno che non segnali strade dissestate, chioschi abusivi ed episodi di malcostume riferiti a dipendenti comunali. Tutto si conclude sempre con: "se fossi sindaco io questo non succederebbe".

Diventa sindaco nel dicembre del 1993. Il sistema elettorale è ormai cambiato, per la prima volta c'è l'elezione diretta del primo cittadino. Anche a Taranto i partiti tradizionali, dopo tangentopoli, sono in seria difficoltà. I poteri forti hanno bisogno di referenti nuovi, diversi.

Cito sembra la persona giusta, e vince. Il suo partito è il primo con il 25,9% dei consensi. Lui, invece, come candidato sindaco raccoglie il 30,3% dei voti, il 3,4% in meno di Gaetano Minervini, candidato da Pds, Rifondazione, Verdi, Rete e Psi: si va al ballottaggio.

Nella campagna elettorale seguente sono ripetuti gli appelli ai democratici che votano Dc ma questi, evidentemente, preferiscono Cito, che diventa sindaco con il 52,6% dei voti (Minervini ottiene solo il 47,4%).

Ma chi è il geometra, ora dottore, Giancarlo Cito?

Quando c'è da rifare le strade lui è lì, con le telecamere che riprendono tutto, a dirigere i lavori di chiusura delle voragini che si erano aperte. E anche quando i vigili devono sgomberare un chiosco abusivo o i dipendenti comunali illuminare una via, lui è sempre lì, a dirigere i lavori, ripreso dalle sue telecamere.

A modo suo ama davvero la città e riesce a trasmetterlo ai tarantini. La sua base sociale va dal professore di liceo al disoccupato, dall'operaio all'avvocato, dalla casalinga al commerciante. Tutti sono stanchi di una città allo sbando, degradata e in crisi e Cito sembra la persona giusta per uscirne: "almeno lui le cose le fa" si sentiva spesso dire in quel periodo. E non era del tutto falso: alcune fontane, chiuse dalle giunte precedenti, riprendono a zampillare; si riparano le strade; ritorna la luce di sera; viene realizzata a tempo di record la rotonda sul lungo mare...

La criminalità intanto non uccide più, molti capi clan, anche quelli che reggevano le redini per conto dei fratelli Modeo, vengono arrestati. Alcuni, come Marino Polito, si pentono e vengono fuori intrecci inaspettati fra il clan Modeo, Licio Gelli, cosche siciliane e calabresi. Polito parla dei rapporti fra la sua organizzazione e Cito e anche Salvatore Anacondia, il killer del "messicano", pentitosi nel frattempo, riferisce di un incontro fra il politico e i malavitosi nel loro bunker di Montescaglioso.

Oltre ai pentiti che lo tirano in ballo Cito comincia ad accumulare numerose denunce per diffamazione. Partono i processi a suo carico, quelli per reati di mafia sono solo i più gravi. Viene rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione di stampo mafioso, secondo la legge italiana non può più essere sindaco.

Siamo alla fine del 1995. La politica nazionale è ormai cambiata: tangentopoli ha spazzato via i vecchi partiti e sulla scena si è affacciato Berlusconi con il suo centrodestra. Hanno vinto le elezioni l'anno precedente battendo "la gioiosa macchina da guerra" progressista ma, dopo pochi mesi, il governo è caduto.

Le elezioni per il rinnovo del Consiglio comunale di Taranto sono fissate per il 9 giugno del 1996, le elezioni politiche per il 21 aprile. Cito non può ricandidarsi a sindaco. Si candida alla Camera e viene eletto con il 45,9% dei voti. Il suo è il primo partito in città e ottiene buoni risultati in tutti gli altri collegi della provincia. Toglie voti al centrodestra, però, avvantaggiando il centrosinistra che vince le elezioni anche a livello nazionale.

E' un campanello d'allarme che Pinuccio Tatarella, in quegli anni plenipotenziario dell'alleanza berlusconiana in Puglia, non trascura. Sotto la sua benedizione nasce un'alleanza fra il centrodestra e At6 che decide di candidare a sindaco, nelle imminenti elezioni comunali, Mimmo De Cosmo, il braccio destro di Cito che, invece, si presenta al Consiglio comunale.

Vincono le elezioni e At6 è ancora, di gran lunga, il primo partito di Taranto.

De Cosmo, però, non ha vita facile e le contraddizioni nella sua maggioranza vengono presto a galla. Spesso non si riesce a trovare un accordo e le rotture sono evidenti, anche all'esterno. Cito è troppo accentratore, non è adeguato a mediare fra i molteplici interessi di cui dovrebbe essere il riferimento; a molti comincia a non andare giù che il vero sindaco sia lui. Probabilmente non è l'uomo della provvidenza come i poteri forti avevano creduto.

Sul finire del 1996, dopo una polemica che ebbe lunghi strascichi, Cito lascia il posto di consigliere comunale: l'incarico, per legge, non è compatibile con i processi ai quali è sottoposto.

Nel novembre del 1997 De Cosmo viene arrestato; gli viene imputato di aver truccato gare d'appalto per l'affidamento di alcuni servizi in cambio di tangenti. Non si dimette, viene scarcerato e continuerà ad amministrare, con una maggioranza in fibrillazione, sino alla scadenza del mandato prevista per il 2000.

Cito, viene condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, decade da parlamentare e passa gli anni che vanno dal 2003 al 2007 in carcere. Nelle elezioni del 16 aprile 2000 At6, che non è in coalizione con il centrodestra, raccoglie solo l'otto per centro dei voti.

Vince Rossana Di Bello, invece, candidata sindaco del centrodestra, che per un pelo, con il 49%, non vince al primo turno. E' lei l'astro nascente della politica tarantina; sarà lei a garantire il mantenimento degli equilibri, cosa che Cito non aveva saputo fare, fino al 2006. La Di Bello, il 25 febbraio del 2006, si dimette in seguito alla condanna ad un anno e quattro mesi, con sospensione della pena, per alcune vicende legate all'affidamento della gestione dell'inceneritore.

Immediatamente dopo fu scoperto il disavanzo, poi seguì il dissesto. Ma pochi mesi prima di dimettersi, il 3 aprile del 2005, la Di Bello era stata rieletta al primo turno con il 57,7% dei voti. Un trionfo!

Possibile che nessuno si fosse accorto di quello che stava avvenendo?

Dal 2007 Taranto è amministrata da una giunta di sinistra, senza il Pd ma con l'Udeur. Ezio Stefano,  ha battuto il candidato del Partito democratico al ballottaggio. Eugenio Introcaso, ex questore di Taranto, il candidato del centrodestra, non ci è arrivato neanche al ballottaggio. Il figlio di Cito, invece, Mario, lo ha sfiorato per un pelo: At6, con il 15,4% dei voti, è di nuovo il primo partito.

I cattivi rapporti con il Pd non garantiscono una collaborazione proficua con la Provincia presieduta da Gianni Florido, lo sfidante di Stefano al ballottaggio, ma la cui amministrazione è appoggiata anche dagli stessi partiti che formano la giunta comunale. Florido, nel 2000, quando era segretario della Cisl, diede la sua benedizione alla Di Bello e uomini del sindacato ebbero incarichi in giunta. Nel 2004 venne eletto presidente della Provincia con il centrosinistra.

Taranto è contorta sino alla fine.

Per l'ennesima volta sembra che tutto sia cambiato... ma affinchè nulla cambi. Il "super partito", se esiste davvero, ha semplicemente passato il turno, in attesa di tempi migliori e di qualche prescrizione.

Intanto Cito, nelle vesti del figlio, è tornato, ed è forte. Anche il capo dell'opposizione, Introcaso, non è nuovo in città. E' l'ex capo della volanti-furti, quello allontanato dopo la relazione di Luzzi. E' tornato a Taranto nel 2004, da questore. Nel 2007 si è candidato per quella parte politica che aveva condotto la città al dissesto.

TARANTO: CITTA' PIù INQUINATA DELL'EUROPA OCCIDENTALE

Le nuove cifre dell'Ines: qui si produce il 92% del «veleno» italiano.

A 13 anni ha il tumore da fumo. «E' la diossina».

Il medico: mai visto un caso così. Tre mamme con il latte contaminato, cinque adulti con il livello più alto del mondo, 1.200 pecore da abbattere

Tre anni fa, S. aveva 10 anni, scrive Carlo Vulpio su "Il Corriere della Sera". E senza aver mai fumato una sigaretta in vita sua era già conciato come un fumatore incallito. Un caso simile, Patrizio Mazza, primario di ematologia all'ospedale «Moscati» di Taranto, non l'aveva mai visto. E nemmeno la letteratura medica internazionale lo contempla. Anche a cercare su Internet, la risposta è negativa: « No items found ». Per questo, Mazza temeva di avere sbagliato diagnosi. Invece no. Quel bimbo aveva proprio un cancro da fumatore: adenocarcinoma del rinofaringe. Come tanti altri tarantini, specie quelli del Tamburi, «il quartiere dei morti viventi».

A Bruxelles forse ancora non lo sanno, ma Taranto è la città più inquinata d'Italia e dell'Europa occidentale per i veleni delle industrie. L'inquinamento di Taranto, infatti, è di fonte civile solo per il 7%. Tutto il resto, il 93%, è di origine industriale. A Taranto, ognuno dei duecentomila abitanti, ogni anno, respira 2,7 tonnellate di ossido di carbonio e 57,7 tonnellate di anidride carbonica. Gli ultimi dati stimati dall'Ines (Inventario nazionale delle emissioni e loro sorgenti) sono spietati. Taranto è come la cinese Linfen, chiamata «Toxic Linfen», e la romena Copša Miça, le più inquinate del mondo per le emissioni industriali.

Ma a Taranto c'è qualcosa di più subdolo. A Taranto c'è la diossina. Qui si produce il 92% della diossina italiana e l'8,8% di quella europea. «In dieci anni — dice Mazza — leucemie, mielomi e linfomi sono aumentati del 30-40%. La diossina danneggia il Dna e un caso come quello di S. è un codice rosso sicuramente collegato alla presenza di diossina. Se nei genitori c'è un danno genotossico non è in loro che quel danno emerge, ma nei figli».

Tre mamme il cui latte risulta contaminato dalla diossina, cinque adulti che scoprono di avere il livello di contaminazione da diossina più alto del mondo, 1.200 pecore e capre di cui la Regione Puglia ordina l'abbattimento, forti sospetti di contaminazione nel raggio di 10 chilometri dal polo industriale (con i monitoraggi sospesi perché sempre «positivi ») sono, più che un allarme, una emergenza nazionale. La diossina si accumula nel tempo e a Taranto ce n'è per 9 chili, il triplo di Seveso (la città contaminata nel 1976). Ma sono sette le sostanze cancerogene e teratogene che, con la diossina, colpiscono Taranto come sette piaghe bibliche.

Mentre però a Bruxelles e a Roma (e a Bari, sede della Regione) si discute, Taranto viene espugnata dalla diossina. Basta dare un'occhiata, oltre che ai dati Ines, ai limiti di emissione, il cuore del problema. Il limite europeo è di 0,4 nanogrammi per metro cubo. Quello italiano, di 100 nanogrammi. «Un vestito su misura per l'Ilva di Emilio Riva», dicono le associazioni ambientaliste. «Siamo in regola e abbiamo anche investito 450 milioni di euro per migliorare gli impianti», replica l'Ilva, che l'anno scorso ha realizzato utili per 878 milioni, 182 milioni in più dell'anno prima e il doppio del 2005.

L'Europa però è dal 1996 che ha fissato il limite di 0,4 nanogrammi. L'Inghilterra, per esempio, si è adeguata. E la Germania ha fatto ancora meglio: 0,1 nanogrammi, lo stesso limite previsto per gli inceneritori.

Nel 2006, Ilva e Regione Puglia hanno anche firmato un protocollo d'intesa, ma con scarsi risultati. La «campagna di ambientalizzazione» procede a rilento e sembra che l'Ilva intenda concluderla nel 2014, proprio quando scadrà il Protocollo di Aarhus, recepito anche dall'Italia, che impone ai Paesi membri di adottare le migliori tecnologie per portare le emissioni a 0,4-0,2 nanogrammi.

Eppure a Servola, Trieste, acciaierie «Lucchini», per risolvere il problema è bastato un decreto del dirigente regionale Ambiente e Lavori pubblici, che ha imposto al siderurgico, pena la chiusura, di rispettare i limiti europei. In due anni, grazie anche alle pressioni della confinante Austria, il miracolo: dalla maglia nera, in tandem con Taranto, Servola è diventata un centro di eccellenza, con la diossina abbattuta fino al teutonico limite di 0,1 nanogrammi.

 Certo, con una legge regionale, o con un decreto come quello friulano, si eviterebbe anche il referendum sull'Ilva, giudicato ammissibile dal Tar di Lecce e sicura fonte di drammatiche spaccature fra i 13 mila dipendenti del siderurgico. Invece c'è soltanto una delibera del consiglio comunale di Taranto che chiede timidamente alla Regione «di fare come in Friuli». Ma la Puglia non confina con l'Austria. Al di là del mare, c'è l'Albania.

Il dossier-choc dell´Arpa: veleni e tumori, ecco le prove

Benzoapirene. Pm10. Diossine, fino a trenta volte maggiori che nel resto d´Europa, scrive Giuliano Foschini su "La Repubblica". Tradotto: tumori. Tanti, tantissimi, troppi. Ci sarà scritto questo nella relazione che l´Arpa pugliese dovrà consegnare al ministero dell´Ambiente entro il 15 giugno. Numeri sulla base delle quali Roma dovrà dire si o non all´Aia (autorizzazione ambientale integrata), un acronimo bucolico dietro il quale però si nasconde il futuro dello stabilimento dell´Ilva. Senza l´Aia, l´Ilva non può lavorare. In queste ore i tecnici dell´Agenzia regionale per l´ambiente stanno mettendo a punto gli ultimi dettagli, e come spiega il direttore, Giorgio Assennato, «si tratterà sostanzialmente di una raccolta dati sulla situazione di Taranto, numeri elaborati in questi anni da noi direttamente o da enti accreditati, come l´università».

Saranno segnalati aspetti non allarmanti, come l´inquinamento del suolo. Ma anche tutte quelle situazioni che rendono Taranto una delle città (forse la prima) più inquinate d´Italia. «Uno degli aspetti più tragici - spiega Assennato - è sicuramente la presenza massiccia di benzoapirene, una delle sostanza maggiormente cancerogene, nella zona del quartiere Tamburi, la più vicina all´Ilva». Gli ultimi dati a disposizione parlano di una concentrazione anche dieci volte superiore alla media nazionale ed europea. «Il prodotto arriva principalmente dalle cokerie, che forse più ancora dei camini sono la causa principale dell´inquinamento in città» spiega il direttore dell´Arpa. Non soltanto benzoapirene. Nell´area di Taranto, e in particolare nelle zone vicine all´Ilva, girano anche metalli più che altrove: ferro, manganese e zinco soprattutto.

Stesso discorso vale per il pm10, la sostanza abitualmente prodotta dalle marmitte delle automobili. A Taranto lo scorso anno ci sono stati 69 superamenti del limite massimo imposto dalla legge, quando la stessa norma ne consente soltanto 35. Uno studio più approfondito ha poi dimostrato come i valori erano dettati direttamente dall´Ilva: crescevano o diminuivano a seconda delle condizioni del vento. C´è poi il problema solito delle diossine, i cui valori invece di diminuire continuano a crescere. Le ultime rilevazioni - effettuate nel febbraio del 2008 - sono state di 7 nanogrammi per metro cubo d´aria, mentre erano state rispettivamente di 2,4 il 12 giugno 2007, 4,3 il 14 giugno e di 4,9 il 16. Dati preoccupanti che a maggio avevano spinto la Regione a prendere una decisione molto dura sulla vicenda: «O questi dati calano - avevano detto - oppure saremo costretti a prendere provvedimenti e a dare parere negativo all´Autorizzazione ambientale integrata», quella necessaria all´Ilva a proseguire l´attività. E sulla quale il Ministero si dovrà esprimere sulla base anche dei dati che l´Arpa sta per inviargli.

La questione più tragica riguarda però gli effetti che tutti questi fattori inquinanti hanno avuto, hanno e sicuramente avranno sulla gente. Malattie, tumori, morti. Secondo gli ultimi dati a disposizione, a Taranto (ma anche a Brindisi, dove il Petrolchimico fa male uguale) si ammalano di cancro seimila persone ogni anno e duemila cinque vengono uccise. Tumori al polmone, soprattutto, ma anche alla prostata e alla vescica: malattie strettamente correlate all´inquinamento atmosferico e che hanno un tasso di incidenza molto maggiore rispetto al resto d´Italia. Sono leggermente inferiori soltanto a quelle del nord Est, ma sono il doppio rispetto alla Puglia e a tutto il Mezzogiorno. Si muore di più a Taranto e Brindisi, ma muore ancora di più chi ha i balconi, le finestre a pochi passi dalle cokerie: la statistica dice infatti che nella zona rossa si ammalano di tumore 496 persone su 100mila. Nel resto delle province 370.

Centoventisei in meno. Ad aggiungere poi preoccupazione alla preoccupazione c´è l´ultima inchiesta della procura di Taranto in seguito a una segnalazione del Noe. Dieci giorni fa sono state sequestrate 16mila tonnellate di pet coke (due milioni di euro il valore di mercato) appena arrivate dall´America. Si tratta di uno scarto di lavorazione del petrolio che l´azienda tarantina voleva utilizzare insieme e al posto del carbon fossile. Il pet coke è però assai più tossico. E secondo i carabinieri vietato.

DIOSSINA A TARANTO: 26 MESI DI RITARDO PER FARE I PRIMI MONITORAGGI

Il 29 febbraio 2004 è stato firmato il secondo atti di intesa avente ad oggetto gli interventi per la riduzione dell'impatto ambientale derivante dallo stabilimento ILVA di Taranto. Tale atto fu firmato dall'Ilva (Claudio Riva), dalla Regione Puglia (Raffaele Fitto) e dagli enti locali alla presenza dell'allora Prefetto di Taranto Giancarlo Ingrao. In quell'occasione nulla fu sottoscritto a proposito del monitoraggio della diossina. Fu solo preso un generico impegno per il monitoraggio della cokeria e dell'impianto di agglomerazione, senza specificare quali inquinanti monitorare.

Il 22 aprile 2005 in una tavola rotonda presso la Facoltà di Ingegneria di Taranto l'associazione TarantoViva presenta un dossier sugli inquinanti a Taranto basato sul registro europeo delle emissioni Eper. In tale dossier TarantoViva evidenzia una stima di diossina altissima: l'Ilva di Taranto immetterebbe nell'atmosfera un quantitativo di diossina pari all'8,8% del totale europeo. Nella tavola rotonda, a cui partecipavano esperti ambientali, si evidenziava che non esiste in città alcun sistema di monitoraggio dell'inquinamento da diossina. Il giorno stesso PeaceLink invia un comunicato stampa e la "notizia" viene amplificata dal Tg3 che ne fa la notizia di apertura del telegiornale regionale. Il giorno dopo nessuna istituzione commenta la gravità della notizia.

A questo punto PeaceLink avvia una campagna informativa sulla diossina che fa il giro di Internet ed evidenzia le inadempienze delle istituzioni.

Il 7 luglio 2006 viene varata la "cabina di regia" dal presidente Vendola. Vi partecipano i sindacati, le organizzazioni di categoria e imprenditoriali, il presidente della Provincia Giovanni Florido, dirigenti del Ministero delle Attività Produttive, gli assessori Frisullo, Losappio, Barbieri e Ostillio, il direttore dell'Arpa Giorgio Assennato, il consigliere regionale Luciano Mineo, il commissario del Comune di Taranto Tommaso Blonda, il sindaco del comune di Statte e per l'Ilva l'ing. Felice Riva. Il presidente Vendola parla in quella sede per la prima volta del "rilevamento delle diossine e dei furani".

Il 18 luglio 2006 PeaceLink, Legambiente e Wwf intervengono congiuntamente e pubblicamente sulla questione diossina in vista dell'incontro del 19 luglio con cui viene riunito il gruppo di lavoro sull'inquinamento atmosferico costituito da due rappresentanti del Comune, della Provincia, dell'Asl e dell'Arpa. Le associazioni scrivono al presidente della Provincia Gianni Florido: " Vogliamo proporre che a Taranto venga effettuato un costante monitoraggio della diossina. Tale sostanza cancerogena sfugge attualmente ad ogni controllo e le attuali centraline di rilevamento non sono attrezzate a misurare il tasso di diossina presente nell'aria di Taranto. Eppure a Taranto è stato rilevato da un registro europeo dell'inquinamento (l'European Pollutant Emission Register) l'8,8% di tutta la diossina europea. Taranto è la Seveso del Sud senza che i tarantini lo sappiano. Per questo motivo riteniamo urgente dare realizzazione di un progetto di monitoraggio della diossina. Come azione successiva e conseguente andranno individuate e censite le fonti di diossina in modo tale da mettere in atto tutte le strategie più indicate per ridurre queste emissioni".

Dopo quella pressione congiunta la questione "diossina" diviene prioritaria, anche se il monitoraggio incontra evidentemente delle resistenze. Lo testimonia l'intervista del quindicinale "La voce del popolo" ( 1 settembre 2006) al direttore generale dell'Arpa Giorgio Assennato, il quale dichiara: "A Taranto la pressione ambientale è altissima. C'è anche la diossina, eppure la classe dirigente non ha mai mosso un dito". La frase diventa il sottotitolo di una copertina con Assennato sovrastato dal titolo "Politici colpevoli".

Passano mesi e mesi senza che nulla accada, nonostante la tenacia del professor Giorgio Assennato e il tenore della sua denuncia.

Occorre un primo scossone per risuscitare la "diossina" e farla uscire dai cassetti dei "politici colpevoli". E' il settimanale l'Espresso che la sbatte in prima pagina, assieme alla foto di Taranto: 30% di tutta la diossina nazionale. E' il 5 aprile 2007.

Pochi giorno dopo sul blog dell'Espresso il chimico Vittorio Ascalone segnala che la situazione è ancora più grave snocciolando nuovi dati aggiornati. PeaceLink raccoglie le nuove informazioni e il 3 maggio 2007 invia alla stampa il "dossier diossina". Nel comunicato si legge: "Nuovo record: a Taranto il 90,3% della diossina nazionale. Il dato è stimato rispetto alle emissioni complessive stimate per la grande industria. All'Ilva il primato nazionale per PCDD (policlorodibenzo-p-diossine) e PCDF (policlorodibenzo-p-furani). Sotto accusa l'impianto di agglomerazione".

E' il secondo scossone ed è salutare. Il 7 maggio 2007 infatti si costituisce un gruppo di studio dell'Arpa per monitorare la diossina nell'Ilva. Sono passati 10 mesi dal varo della "cabina di regia". Ed è chiaro che è stato perso troppo tempo. L'assessore Michele Losappio si fa intervistare dai TG e rilascia dichiarazioni per dire che la Regione vuole fare subito il monitoraggio della diossina. Peccato che abbia perso dieci mesi per farsi scoprire inadempiente su un impegno così rilevante e urgente. Ma almeno così parte il progetto che fino a quel momento era rimasto sulla carta.

"Allo scopo di affrontare una situazione così complessa - dichiara il Prof. Giorgio Assennato - ARPA Puglia ha costituito un apposito Gruppo di Studio, composto oltre che da propri tecnici, da esperti di ARPA Piemonte, del Politecnico di Milano, della Johns Hopkins University, del Politecnico di Bari, di ARPA Toscana e dell'Istituto Superiore di Sanità. L'obiettivo non è solo quello di procedere, per la prima volta, alle misure, ma anche di individuare i determinanti di tali emissioni, in modo da stabilire i criteri per minimizzare la formazione di diossine".

La costituzione del gruppo di studio, con diverse modifiche, porta poi ai campionamenti di metà giugno, realizzati in condizioni idilliache, da "Mulino Bianco", con visibili difformità rispetto alla gestione abituale dell'impianto siderurgico.

Ciò nonostante alla fine emergono valori di diossina 27 volte più alti del limite vigente in Friuli Venezia Giulia.

Scopriamo che il limite valevole per i friulani non è valevole per i tarantini.

Scopriamo che i livelli di diossina che per i friulani sono un pericolo, non lo sono per i tarantini. Per la la salute per i tarantini 11,1 nanogrammi a metro cubo di diossina sono un "valore a norma" mentre in Friuli il limite è di 0,4.

Che vergogna!

In Friuli Venezia Giulia i controlli della diossina li fanno in tre ore, qui in Puglia ci sono voluti 26 mesi!

Ci sono voluti ben 10 mesi solo per istituire un semplice gruppo di lavoro per il monitoraggio.

Intanto ogni anno si svolge la manifestazione contro l'inquinamento, a cui aderiscono, in buona fede, migliaia di cittadini di Taranto e provincia e sostenuta in modo solidale da tutti i mezzi di informazione tarantini. Una manifestazione INQUINATA proprio dalla presenza di tutti quei politici, amministratori e sindacalisti che, corresponsabili dello stato dei fatti, con demagogia rappresentano una realtà utopistica: Taranto senza la grande industria e senza inquinamento.

Gli stessi che da una parte hanno rinunciato in passato a vedersi risarciti i danni collettivi da inquinamento, ritirandosi dalla costituzione di parte civile nei procedimenti penali con sentenza di condanna, e dall’altra parte rinunciando ad attivare altre forme ripristinatorie e risarcitorie future, con gli strumenti che dà l’ordinamento giuridico.

Gli stessi che per anni hanno impedito la rilevazione e misurazione delle emissioni inquinanti, risultanti fatali.

Se per i cittadini, sull’onda dell’indignazione, la partecipazione alla manifestazione è doverosa per sollevare un problema, per i parlamentari, gli amministratori e i sindacalisti locali, è una vergogna farne parte. Senza alcun imbarazzo in prima fila fanno passerella pubblicitaria in previsione di future elezioni, manipolando lo stato d’animo della gente, contro quel poco lavoro che c’è, senza attivarsi ad attuare soluzioni fattibili alternative.

TARANTO: IL FORO DELL’INGIUSTIZIA.

ANOMALIA SOTTACIUTA DAI MEDIA E LEGITTIMATA DALLE ISTITUZIONI.

Per gli errori giudiziari non ci sono avvocati locali che hanno il coraggio di mettersi contro i magistrati di Taranto. I Pubblici Ministeri che, presumibilmente, hanno sbagliato, intervengono in processi in cui si dovrebbe acclamare il loro errore e perseguono chi si oppone a questo stato di cose.

"Basta errori giudiziari che distruggono la vita dei cittadini. Basta impunità per i responsabili". Questo dice il dr Antonio Giangrande, Presidente della Associazione Contro Tutte le Mafie, che ha svolto una inchiesta sulla Giustizia in Italia, in generale, e a Taranto, in particolare. Una società civile che permette di tenere in carcere degli innocenti, per essere genuflessa ai poteri forti, è una società collusa e codarda. Dove c’è l’errore giudiziario, lì vi è un’omissione o un abuso d’atti di ufficio da parte del magistrato che non ha saputo o voluto cercare prove a discarico, così come la legge lo obbliga a fare. Dove c’è l’errore giudiziario, lì vi è un infedele patrocinio da parte del difensore che non ha saputo o voluto difendere il proprio cliente, spesso dovuto allo stato d’indigenza dell’indagato/imputato".

Il presidente continua: “Secondo l’Eurispes sono 4 milioni gli italiani vittime di errori giudiziari negli ultimi 50 anni, ma a noi interessano i casi concreti. E’ di questi giorni l’ennesima denuncia, riportata da alcuni giornali, contro la violazione della libertà personale presso il Tribunale di Taranto. Succede a Taranto, ma tutta Italia ne parla. E’ una cosa normale? E, soprattutto, è possibile che simili situazioni siano tollerate?

I fatti. Leggendo i giornali si viene a sapere che alcune persone sono detenute (altre, invece, hanno già scontato la pena detentiva inflitta) per una serie di reati per i quali, invece, si ha il reo confesso con tanto di ritrovamento delle prove. Ma per la giustizia italica tutto ciò non è sufficiente ed in carcere si ritrovano un po’ tutti: innocenti (presunti colpevoli) e colpevole (per sua stessa ammissione).

Il Caso Sebai: l’ingiustizia più grande d’Italia.

La Vergogna. Ben Mohammed Ezzedine Sebai (il Killer delle vecchiette), che tra il 1995 e il 1997 si macchiò dell’omicidio di ben 14 anziane tra Puglia e Basilicata. Nonostante il legittimo sospetto che non vi potesse essere serenità di giudizio, ed non essendo prevista la ricusazione del PM, si è permesso di giudicare il Sebai a Taranto con il rito abbreviato per delitti di cui altri già erano stati condannati dal quel foro e accusati, in particolare, dagli stessi PM. Nessuno delle parti in causa (pubblici ministeri, avvocati e giudice), che abbia chiesto la rimessione del processo in altro foro per legittimo sospetto di parzialità nel giudizio.

L’umiliazione. I media tacciono la vergogna. Nella puntata di “Agorà” dell’8 febbraio 2011 su Rai Tre, dalle 9.00 alle 11.00, sarebbe dovuta andare in onda un’inchiesta della giornalista Angela Caponnetto sulla censurata vicenda Sebai. Nell’inchiesta si sarebbero potute ascoltare le parole di Michele Donvito, fratello di Vincenzo, suicidatosi nel carcere di Teramo nel 2005, accusato dell’omicidio di Celestina Commessatti, uccisa nella sua abitazione di Palagiano, in provincia di Taranto, il 14 agosto 1995. Eppure già nel 1999 il tunisino Ben Mohamed Ezzedine Sebai si era dichiarato colpevole dell’omicidio della stessa, confessione rafforzata di particolari e dettagli solo nel 2006. In studio era presente anche la giornalista che per cinque ore ha intervistato Donvito sulla triste vicenda, che ha coinvolto e stravolto la sua famiglia, eppure, a detta del suo conduttore, Andrea Vianello, di tempo non ce n’è stato a sufficienza e il servizio è saltato. La Caponnetto è stata liquidata con delle semplici scuse e la vicenda rimane nell’oblio.

Il 10 febbraio del 2006, Sebai Ezzedine – un 33enne immigrato tunisino - rilascia una confessione al dott. Nobile della Procura di Milano, successivamente confermata dinanzi al P.M. di Taranto Dott.ssa Montanaro, nell'ambito della quale ammette la propria responsabilità in merito all'omicidio di 15 anziane signore. Si tratta di donne sole, sgozzate nelle loro abitazioni, che ricordavano al reo confesso le donne che da bambino lo picchiavano e seviziavano. Sulla decisione del Sebai di confessare la verità e di scagionare persone che egli sapeva con sicurezza essere innocenti ha, senza alcun dubbio, influito il suicidio di Vincenzo Donvito il quale, dopo aver proclamato per anni la sua innocenza, non ha retto al regime carcerario ed al tormento di essere recluso ingiustamente e si è tolto la vita impiccandosi in carcere.

13 agosto del 1995, omicidio di Celestina Commessatti avvenuto in Palagiano (Taranto)– Condannati: Giuseppe Tinelli, Davide Nardelli, Vincenzo Donvito. La confessione del Sebai è supportata da una perquisizione locale effettuata presso un pregiudicato della zona nell'ambito della quale venivano rinvenuti gioielli di sicura appartenenza della Commessatti e che il ricettatore afferma essergli stati venduti da un tunisino rispondente al nome di Fathi Said, pseudonimo di Sebai Ezzedine. Giuseppe Tinelli è recluso presso il carcere di Ivrea da 11 anni, Davide Nardelli ha scontato 7 anni di carcere e Vincenzo Donvito in data 21 luglio 2005, si è tolto la vita all'interno del carcere di Castogno, nei pressi di Teramo, dopo aver scontato 7 anni di carcere. Donvito aveva sempre proclamato, inutilmente, la propria innocenza e si è determinato a togliersi la vita non potendo più reggere il peso di una ingiusta detenzione, nè si era tenuto conto delle testimonianze a discarico.

17 maggio del 1997, omicidio di Pasqua Rosa Ludovico avvenuto a Castellaneta – Condannati: Vincenzo Faiuolo, Francesco Orlandi. Il Sebai nella dichiarazione rilasciata all'autorità giudiziaria afferma la completa estraneità di Faiuolo ed Orlandi ai fatti di sangue per cui sono stati condannati. Uno dei punti fondamentali di questa confessione, e dalla quale si desume l'innocenza degli stessi, è l'individuazione dell'ora esatta della morte della vittima che è avvenuta in un'ora in cui i due fratellastri si recavano nei campi a lavorare e vi rimanevano per tutto il pomeriggio. Alla luce delle dichiarazioni del Sebai veniva emesso decreto di perquisizione locale dell'appartamento di cui il tunisino aveva la disponibilità fino al momento del suo arresto. In data 15.05.2006 il reparto operativo dei Carabinieri di Taranto procedeva ad ispezionare la cantina dove, all'interno di una buca, rinvenivano oggetti che le nipoti della vittima riconoscevano essere appartenuti alla loro zia. In tutti questi casi, il Sebai afferma la completa estraneità dei condannati ai delitti da lui commessi. E, soprattutto, riferisce circostanze precise e pienamente concordanti, relative sia alle modalità che ad i tempi di esecuzione degli omicidi. Le modalità di uccisione delle vittime sono state definite dai periti incaricati del “caso Totaro” come una sorta di “firma dell'autore”. Il Sebai, inoltre, descrive la scena dei crimini con dovizia di particolari dimostrando di essere a conoscenza dello stato dei luoghi in cui i delitti sono stati commessi. Vincenzo Faiuolo (che da 12 anni sconta la propria pena ed attualmente è ristretto presso il carcere di Volterra) e Francesco Orlandi (attualmente in regime di libertà vigilata, dopo aver scontato 11 anni di carcere).

29 luglio del 1997, omicidio di Maria Valente – Condannati: Giuseppe e Arcangela Tinelli, Carmina Palmisano. Il Sebai, già condannato per questo omicidio, confessa di non aver mai conosciuto i coimputati e di aver sempre agito da solo. Anche in questo caso a carico dei condannati non c'è nessuna prova. Infatti in casa della Valente venne rinvenuta solo un'impronta digitale appartenente al Sebai. La procura di Taranto ha rinviato il Sebai a giudizio per l'omicidio della signora Celeste Commesatti e della signora Pasqua Ludovico, ma non per la signora Maria Valente, per il quale il Sebai era già stato condannato unitamente a Giuseppe Tinelli, Arcangela Tinelli e Carmina Palmisano, ritenendo impossibile processare nuovamente il Sebai per lo stesso omicidio, secondo il principio del ne bis in idem. Non ha però preso in considerazione il fatto che, in relazione a detto omicidio, sono stati condannati anche Giuseppe Tinelli (ad oggi ancora ristretto presso il carcere di Ivrea), Arcangela Tinelli e Carmina Palmisano. A questo proposito preme sottolineare come la Procura generale di Taranto avrebbe potuto e, secondo lo scrivente, avrebbe dovuto chiedere la revisione penale della sentenza che vedeva condannati ingiustamente, per l'omicidio della Valente, il Sebai unitamente agli altri tre summenzionati imputati, in quanto questi sono stati scagionati dalle dichiarazioni confessorie di Sebai Ezzadine Ben Mohamed, ed alcuni di loro stanno ancora scontando un'ingiusta pena.

L'innocenza dei condannati è ulteriormente suffragata dalla sentenza emessa dal Gup di Lucera in data 15.02.2008 il quale ha rilevato che nessun dubbio è scaturito dalle emergenze processuali “in ordine alla ricostruzione del fatto ed alla sua ascrivibilità ad un'azione cosciente e volontaria del Sebai”. La confessione del serial killer delle vecchiette, Ben Mohamed Ezzedine Sebai, tunisino di 44 anni, è “pienamente attendibile”: lo scrive il gup del tribunale di Lucera (Foggia) Carlo Chiriaco motivando la sentenza con la quale, il 15 febbraio, ha condannato Sebai a 18 anni di reclusione (con rito abbreviato) per l’omicidio di Celeste Madonna, di 81 anni, uccisa a Lucera il 25 aprile 1996.

A seguito delle dichiarazioni confessorie formulate da Sebai Ezzadine Ben Mohamed, in riferimento alla posizione di Giuseppe Tinelli l'avvocato Claudio Defilippi, difensore di quest'ultimo ha proposto istanza di revisione presso la Corte d'Appello di Potenza, presentata in data 2 settembre 2008, avverso la sentenza n. 05.1998 che lo riteneva colpevole, in concorso con Davide Nardelli e Vincenzo Donvito, dell'omicidio della signora Celestina Commesatti (omicidio avvenuto in Palagiano il 13 agosto 1995) ed una successiva istanza di revisione volta ad ottenere la revoca della sentenza n. 06 del 2002 che lo riteneva colpevole, in concorso col Sebai Ezzedine, in qualità di esecutori materiali dell'omicidio di Maria Valente (omicidio avvenuto in Palagiano il 29 luglio 1997). La prima istanza di revisione è stata rigettata dalla Corte d'Appello di Potenza che ha ritenuto inesistente un contrasto di giudicati, non essendo ancora pervenuti ad una sentenza di condanna definitiva in ordine ai fatti dei quali si è autoaccusato il Sebai. Sulla seconda istanza di revisione l'esito negativo è scontato. Anche in riferimento alle posizioni di Vincenzo Faiuolo e Francesco Orlandi l'avvocato Claudio Defilippi ha presentato due istanze di revisione davanti alla Corte d'Appello di Potenza, volte ad ottenere la revoca della sentenza che li ha ritenuti responsabili, in concorso tra loro, dell'omicidio di Pasqua Ludovico. Anche queste istanze di revisione sono state rigettate. Le dichiarazioni confessorie del Sebai Ezzadine Ben Mohamed, a seguito delle quali lo stesso è stato mandato a giudizio per gli stessi fatti, evidenziano la possibilità dell'esistenza di gravi errori giudiziari. Si tenga presente, a questo proposito, che sono già stati comminati a persone presumibilmente innocenti complessivi 100 anni di carcere, con il conseguente pericolo per lo Stato italiano di dover pagare ingenti somme a titolo di risarcimento per detti errori giudiziari, pari a 100 milioni di euro, più spese processuali. Tutto a carico della collettività e non dei responsabili.

A questo punto la “logica” e i precedenti giurisprudenziali vorrebbero che – di fronte all’ammissione di colpa da parte di Sebai Ezzedine ed in base ai riscontri oggettivi – i condannati innocenti venissero scarcerati, almeno coloro che non sono già fuori dopo aver scontato una pena ingiustificata. E invece nulla, perché la giustizia (e la “g” è minuscola non a caso) prima di tirarli fuori dalle patrie galere attende che il tunisino venga condannato in via definitiva di fronte alla Cassazione per i quindici delitti commessi in terra pugliese. Si noti bene, l’attesa secondo i tempi biblici italici. Potenza, competente per il processo di revisione risponde di no. "Sebai è credibile, ma questo non basta”.

Invece a Taranto, dove il 19 dicembre 2008 e l’8 gennaio 2009 si è tenuta l’udienza contro Sebai, questo non è credibile, perché si è autoaccusato dei delitti solo per scagionare i veri responsabili, che ha conosciuto in carcere. La richiesta di assoluzione per il Sebai è giunta da parte del Pm Pina Montanaro al termine del processo con rito abbreviato per l’uccisione di Grazia Montemurro, di 75 anni (Massafra, 4 aprile 1997), e di Pasqua Rosa Ludovico, di 86, (Castellaneta 14 maggio 1997). La stessa richiesta ha fatto il Pm Vincenzo Petrocelli per l’omicidio di Celeste Commessatti, di 73, (Palagiano, 13 agosto 1995).  A sorpresa, però, vi è stata una richiesta di condanna, formulata nel corso dello stesso processo con rito abbreviato, riguardante l’omicidio di Rosa Lucia Lapiscopia, di 90 anni, uccisa a Laterza (Taranto) il 21 agosto del 1997. La richiesta di condanna è stata presentata dal Pm Maurizio Carbone.

A Taranto per due magistrati su tre, dunque, Sebai non è credibile. Il tunisino è stato etichettato dalla pubblica accusa come un «mitomane» che vuole scagionare detenuti che ha conosciuto in carcere. Solo l’omicidio Lapiscopia, per il quale è stata chiesta la condanna, era ancora insoluto, quindi senza alcun condannato a scontare la pena.

Il gup Valeria Ingenito nel corso dell’udienza ha respinto la richiesta di sospensione del processo e l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 52 del Codice di procedura penale nella parte in cui prevede la facoltà e non obbligo di astensione del pubblico ministero. L'eccezione era stata sollevata dal legale di Sebai, Luciano Faraon. Secondo il difensore, i pm Montanaro e Petrocelli, che hanno chiesto l’assoluzione del tunisino per tre dei quattro omicidi confessati dall’imputato, "avrebbero dovuto astenersi per gravi ragioni di convenienza per evidenti situazioni di incompatibilità, esistente un grave conflitto d’interesse, visto che hanno sostenuto l’accusa di persone, ottenendone poi la condanna, che alla luce delle confessioni di Sebai risultano invece essere innocenti e quindi forieri di responsabilità per errore giudiziario".  Non solo i pm erano incompatibili, ma incompatibile era anche il foro del giudizio, in quanto da quei procedimenti addivenivano responsabilità delle parti giudiziarie, che per competenza erano di fatto delegate al foro di Potenza. Nessuno ha presentato la ricusazione per tutti i magistrati, sia requirenti, sia giudicanti.

L’ingiustizia si evidenzia nel fatto che a decidere sulle eventuali responsabilità dei magistrati requirenti sia un collega dello stesso foro. Si palesa, altresì, dal fatto che la procura di Taranto è spaccata sull'attendibilità del serial killer delle vecchiette pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai. Per due pm il tunisino non è credibile e va assolto dall’accusa di aver compiuto tre omicidi; per un altro pm è invece credibile e va condannato a 30 anni di reclusione. Strano che proprio in quel caso la credibilità non dia seguito ad alcuna conseguenza per i magistrati che hanno sbagliato, non essendoci innocenti in carcere da risarcire. Da tener conto che il pm Vincenzo Petrocelli è stato coinvolto in un altro caso di grave errore giudiziario, in quanto già accusatore di Domenico Morrone, 15 anni di carcere da innocente, risarcito con 4,5 milioni di euro, senza contare che era, anche, il Pubblico Ministero procedente al caso di Carmela, la ragazza che si tolse la vita gettandosi dal 7° piano, vittima di abusi sessuali e mai creduta dal Petrocelli.

Per questi motivi l'avv. Luciano Faraon di Venezia, difensore di Sebai, si è rivolto al Premier, al Guardasigilli, al Procuratore generale presso la Cassazione, al CSM e al Procuratore generale di Lecce.

Mentre il difensore di alcuni dei condannati «per orrore», Claudio Defilippi, avvocato di Modena, legale di 6 delle otto persone (una si è suicidata in carcere dopo la condanna), ha chiesto al Guardasigilli di inviare gli ispettori per verificare l’operato della procura di Taranto. Tutto lettera morta. ''La procura di Taranto è spaccata sull'attendibilità del serial killer delle vecchiette pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai. Per due pm il tunisino non è credibile e va assolto dall’accusa di aver compiuto tre omicidi; per un altro pm è invece credibile e va condannato a 30 anni di reclusione”. Lo evidenzia l’avv.Claudio Defilippi legale di sei delle otto persone (una si è suicidata in carcere dopo la condanna) detenute da lunghi anni “pur essendo innocenti”.

Dei delitti per i quali gli otto sono stati condannati si è successivamente accusato Sebai. Defilippi chiede che il gup di Taranto Valeria Ingenito, dinanzi alla quale è a giudizio Sebai, disponga un confronto all’americana tra i suoi assistiti e il tunisino. E rilancia: “il fatto che i tre pm di Taranto non la pensino allo stesso modo sull'attendibilità di Sebai dovrebbe spingere il ministro della Giustizia a disporre un’ispezione in procura”. Per Defilippi, vi è nel processo una “situazione di incompatibilità dei pm Montanari e Petrocelli”.

“Questi – sottolinea – prima hanno chiesto ed ottenuto il rinvio a giudizio e la condanna definitiva di alcune persone che si proclamano da sempre innocenti (Vincenzo Donvito, poi suicidatosi, Francesco Orlandi e Vincenzo Faiuolo) e successivamente chiedono l’assoluzione per gli stessi omicidi per il serial killer”.

27 aprile 2010. Al contrario della Procura Generale di Potenza, la Procura Generale presso la Corte d’appello di Bari ha espresso parere favorevole al giudizio di ammissione alla revisione del processo per il detenuto Vincenzo Faiuolo, condannato alla pena definitiva di 25 anni di reclusione (13 anni e 6 mesi già scontati) per l’omicidio di un’anziana della quale si è poi accusato il serial killer di anziane donne pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai.

Faiuolo, in carcere a Volterra per il delitto di Pasqua Ludovico, di 86 anni, compiuto a Castellaneta (Taranto) il 14 maggio 1997. Egli è stato ritenuto esecutore materiale del delitto, per il quale fu processato anche il suo fratellastro, Francesco Orlandi. Questi si ritenne avesse avuto un ruolo secondario, motivo per il quale fu condannato per omicidio a 11 anni di reclusione, pena che ha interamente scontato.

Entrambi hanno confessato il delitto ma tempo dopo hanno spiegato che la confessione era stata estorta con minacce e violenza degli investigatori, tesi questa che ha portato la magistratura barese ad affermare che il caso deve essere riaperto, sia alla luce delle «prove sopravvenute», che sono ritenute «serie», sia in virtù degli elementi di riscontro forniti da Sebai negli ultimi anni: il serial killer si è infatti accusato di aver ucciso 14 anziane tra il 1995 e il 1997, compresa Ludovico.

Sebai ha così scagionato otto persone che erano state condannate negli anni per aver compiuto i diversi omicidi. I magistrati che finora hanno giudicato il serial killer non lo hanno ritenuto credibile perchè – è il ragionamento – egli si è autoaccusato degli omicidi solo per scagionare gli otto veri responsabili, che ha conosciuto in carcere. Uno di questi, Vincenzo Donvito, si è suicidato in cella a Teramo il 21 luglio 2005 dopo aver proclamato per sette anni la propria innocenza.

La richiesta di revisione è stata presentata da Defilippi sulla base di una serie di elementi. Tra l’altro Faiuolo aveva confessato di aver ucciso la donna con un coltello (recuperato) che si è poi rivelato diverso da quello usato dall’assassino; ha poi spiegato di aver colpito la vittima con fendenti sferrati personalmente con la mano sinistra (perchè è mancino), invece la donna è stata assassinata da un killer destrimano. Ancora: gli anelli che la donna possedeva sono stati trovati nella disponibilità di Sebai, così come un articolo di giornale che parlava del delitto.

"La decisione dei giudici baresi è un successo importante perchè riapre il caso Sebai. L'attenzione ora va agli otto innocenti, di cui uno si è suicidato in carcere, che sono stati condannati a complessivi 100 anni di carcere per delitti che non hanno compiuto. Il silenzio di questi otto innocenti oggi è finalmente finito”. Così l’avv.Claudio Defilippi commenta la decisione della Corte d’appello di Bari di ammettere la revisione del processo per il proprio assistito, Vincenzo Faiuolo, condannato a 25 anni di reclusione per aver ucciso un’anziana.

Del delitto si è poi accusato il serial killer delle anziane donne pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai, tunisino di 46 anni. “Abbiamo trovato a Bari dei magistrati che hanno voluto vedere dentro le cose. Mi auguro – afferma Defilippi – che si possa al più presto verificare la responsabilità di un altro innocente, Giuseppe Tinelli, condannato all’ergastolo per gli omicidi di Celeste Commesatti (Palagiano, Taranto, 13 agosto 1995) e di Maria Valente (Palagiano, 29 luglio 1997), ma che da sempre si dice innocente”.

“Tinelli – prosegue il legale – ha tentato di suicidarsi per due volte in carcere ingerendo candeggina. Spero che, dopo 15 anni di detenzione, possa ottenere la sospensione della pena per questi due delitti che non ha commesso”. Il legale sostiene inoltre che il giudizio di revisione per Faiuolo, per attrazione, riaprirà anche la posizione processuale dell’altro concorrente nel delitto, Francesco Orlandi, condannato a 11 anni, pena che ha interamente scontato a Trani (Bari) ed è ora libero. Delle otto persone “innocenti”, sei delle quali sono difese da Defilippi, le sole detenute sono Tinelli e Faiuolo.

Dunque cosa è successo dal giorno in cui venne comunicato che la richiesta di revisione era stata accettata?

“E’ successa una cosa molto grave - dice l’avvocato De Filippi a "Il Democratico". - Prima la Corte di Appello di Bari ha accettato la richiesta di revisione, ma poi mi è arrivato un provvedimento dalla Corte di Assise di Appello di Bari che non c’entra niente e che ha revocato tutto. Ora: cosa c’entra la Corte di Assise di Appello di Bari?! Questo si chiama provvedimento abnorme: cioè quando non c’entra niente!

Praticamente un giudice che non c’entra niente ha fatto un provvedimento che revoca quello emesso dal giudice competente. La Corte di Assise di Appello di Bari non ha nessuna competenza in merito a questo processo”.

Cioè lei sta dicendo che la Corte di Appello di Bari e la Corte di Assise di Appello di Bari sono due cose diverse e sganciate in merito a questo caso giudiziario?

“Assolutamente si. È la Corte di Appello di Bari che ha la competenza del caso, non quella di Assise”.

Ma allora come spiega questo provvedimento? Perché è stato fatto?

“Io non lo so. Non so le ragioni per le quali sia avvenuto tutto questo. Io non so più cosa pensare perché sinceramente ogni mia mossa viene cancellata. Ogni mia mossa viene bloccata: non so cosa pensare”.

Ma lei non ha nemmeno una vaga idea del perché si sia verificato questo ennesimo, improvviso intoppo al normale svolgimento del processo di Faiuolo?

“Questo è il più grosso caso di errore giudiziario della storia d’Italia. Si immagini un po’ se c’è gente che non lo vuole bloccare…Io non so chi sia e cosa faccia, so solo che tutte le cose che faccio mi vengono bloccate sistematicamente. Questo provvedimento qua è assolutamente abnorme, dato da un giudice non competente e che non doveva essere di competenza. Non si capisce perché questo giudice lo abbia fatto. Non si capisce niente!”

Ma quindi ora che ne sarà del processo? E’ stato tutto ‘chiuso’?

“Non è chiuso niente: io ho fatto ricorso in Cassazione contro questo provvedimento, perché è assolutamente abnorme. I provvedimenti abnormi sono tali per cui ci potrebbe essere una responsabilità disciplinare per il giudice che lo ha emesso. Non doveva venire fuori questo giudice, perché è assolutamente incompetente con il caso”.

Come si può commentare tutto questo?

“Dicendo che è una situazione paradossale, assolutamente strana. E il tutto nell’assoluta assenza di media, giornali e tv”.

Quello di Vincenzo Faiuolo potrebbe essere, a tutti gli effetti, un grave caso di malagiustizia. La riapertura delle indagini e la revisione del processo, infatti, potrebbero testimoniare l’esistenza di plurimi errori giudiziari fatti dal foro competente (quello di Taranto) che all’epoca condannò Vincenzo Faiuolo ed altri con l’accusa di omicidio. Qualora tali ipotetici errori giudiziari venissero dimostrati, infatti, un gran numero di giudici e magistrati verrebbe a trovarsi in seria difficoltà poiché dovrebbe rispondere e giustificare il perché di tali errori. In più c’è da considerare che questo è un caso, complessivamente, da 100 anni di carcere: risarcire 100 anni di carcere costerebbe moltissimo allo Stato.

Nonostante ciò, i Magistrati di Taranto hanno denunciato presso la Procura di Potenza il Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, dr. Antonio Giangrande, il collegio difensivo del Sebai ed altri testimoni perché questi hanno espresso dubbi di legalità riguardo il Processo Sebai, ossia il “killer delle vecchiette”. Il reato contestato: calunnia nei confronti della difesa, per essersi permessi di contestare con atti di rito le sentenze avverse; false dichiarazioni rese a difensore nei confronti dei testimoni. In quest'ultimo caso la denuncia non è stata fatta dal difensore, ma dai magistrati. Ba!!

Continua la battaglia dei Magistrati di Taranto contro l’Associazione Contro Tutte le Mafie ed il suo presidente. “Non contenti di aver archiviato tutte le mie denunce e dei miei clienti, fino a che mi hanno permesso di fare l'avvocato, compresa quella ricevuta da altra procura e nella quale gli stessi magistrati di Taranto erano denunciati, ed accolte tutte quelle contro di me, pur pretestuose, come quella di calunnia per aver proposto come avvocato di terzi opposizione ad una archiviazione - dice il dr Antonio Giangrande - alcuni Magistrati di Taranto, prima mi hanno denunciato a Potenza perché ho pubblicato sui miei siti le interrogazioni parlamentari e gli articoli di stampa, che parlavano degli insabbiamenti delle inchieste presso il foro di Taranto, poi mi hanno denunciato a Potenza, assieme al collegio difensivo del Sebai, per aver rilevato abnormi anomalie riguardo il processo al killer delle vecchiette. Le anomalie sollevate erano che il foro di Taranto, magistrati giudicanti ed inquirenti, non doveva occuparsi, per conflitto di interesse, dei delitti di cui il Sebai si dichiarava autore e per i quali i giudici di Taranto avevano già condannato altri imputati. In quel processo il Sebai si accusava di 14 delitti, dando dovuti riscontri. A Taranto è stato creduto solo per un delitto, guarda caso, per quello dove non si è mai trovato un colpevole. Gli esiti di quel processo potevano far emergere responsabilità dei magistrati che si erano prodigati a far condannare dei presunti innocenti e per questo si urla che era poco opportuno che gli stessi dovessero intervenire, più che sulle sorti dei detenuti, sulle conseguenze della loro presunta negligenza od imperizia.”

Su questi fatti, silenzio assordante da parte delle Istituzioni. Le denunce penali presentate dal presidente dell'Associazione Contro Tutte Le Mafie, Dr Antonio Giangrande, contro la Procura di Taranto, inviate a Potenza, sono rimaste lettere morta. A seguito dell'indifferenza della Procura di Potenza le denunce penali contro la Procura di Taranto sono state inviate presso altre Procure. Queste hanno reinviato a Taranto le denunce ricevute. Risultato: la Procura di Taranto da denunciata ha archiviato con abuso, in conflitto di interessi, le denunce contro se stessa.

Silenzio assordante da parte delle Istituzioni. Così come è per tutte le interrogazioni parlamentari che hanno sollevato problemi di etica giudiziaria e forense di quel foro. Interrogazioni che sono state presentate non da Parlamentari tarantini. Nemmeno l'On. Franzoso ha avuto il coraggio di ribellarsi, se non per altri, almeno per se stesso. Come molti ricorderanno, l'on. Pietro Franzoso, tarantino, all'epoca non ancora deputato ma assessore regionale ai trasporti della Giunta Fitto, a dicembre del 2004 fu arrestato come un malfattore, rinchiuso in cella per una settimana, accusato di voto di scambio che avrebbe ottenuto attraverso la concessione di non precisati favori a una cosca mafiosa. Il Tribunale di Taranto lo ha assolto dalla infamante accusa ma la stampa ha riservato alla notizia poco spazio e pochissimo risalto.

Nella problematica è da segnalare l’astensione alla lotta della classe forense tarantina contro i magistrati di quel foro per procedimenti di declaratoria di errori giudiziari.

Il presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ricorda altri casi.

Gronda ingiustizia la storia della strage della barberia, così come è stata rivisitata dalla Corte di Appello di Potenza. Quella Corte ha scagionato quattro innocenti, condannati come feroci killer per la mattanza dell’1 ottobre del 1991. Il punto di non ritorno della guerra di mala. Quel maledetto giorno i sicari della mala irruppero nella barberia di Giuseppe Ierone, all’imbocco di via Duomo. Spararono all’impazzata con mitra e pistole. Poi fuggirono lasciandosi alle spalle quattro morti e due feriti. Cercavano i boss rivali, invece, inchiodarono al suolo innocenti che con quella guerra tra bande non avevano nulla a che fare. Il primo di una lunga serie di tragici errori. Nelle ore successive alla mattanza, le indagini imboccarono la strada sbagliata. In carcere finirono cinque persone.

A distanza di sedici anni la Corte di Appello di Potenza ha definitivamente scritto che quattro erano innocenti. Giovanni Pedone, Massimo Caforio, condannati a trent’anni come esecutori materiali, e Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati ad undici anni come fiancheggiatori. Con quel tremendo delitto non c’entravano. Ma la Corte di Potenza, nel motivare la revisione va oltre il verdetto, svelando definitivamente particolari che inducono a riflettere. Un aspetto su cui oggi si è soffermato l’avvocato Carlo Petrone che in questa brutta vicenda ha assistito Giovanni Pedone, noto con il soprannome di “fafetta”. Pedone, meccanico di 51 anni, da innocente ha trascorso quasi otto anni in cella prima di intravedere bagliori di giustizia. Ma gli elementi che hanno portato all’affermazione della sua innocenza e di altri tre imputati erano già parzialmente emersi nel corso del processo madre. Collaboratori di giustizia del calibro di Francesco Di Bari avevano parlato, adombrando il sospetto di un depistaggio messo in atto da un boss che a suo dire era vicino ai servizi segreti. Ma quando quelle dichiarazioni furono portate in Appello, la Corte le bollò come un tentativo di inquinamento probatorio. E fa specie leggere che quel secondo grado del procedimento cominciò e si concluse in un giorno a dispetto della complessità del caso. Come dire che se la giustizia è lenta l’ingiustizia in quel caso fu rapidissima. Così come rapidi giunsero gli arresti per il quadruplice omicidio. A spianare la strada sbagliata agli uomini della Squadra Mobile un confidente. “Quel confidente - scrivono i giudici di Potenza - fu messo in camera di sicurezza con Aiello e Bello i quali si decisero poi a parlare”.

«E’ certo - ha detto l’avvocato Petrone - che qualcuno sapeva di quanto avvenuto durante le indagini».

Continua il dr Antonio Giangrande, parlando del caso Morrone.

Domenico Morrone un terzo della sua vita l'ha spesa dietro le sbarre. 16 anni. Ingiustamente. Lo avevano arrestato nel 1991 e condannato a 21 anni, perché, secondo l'accusa, aveva ucciso a colpi di pistola due ragazzini davanti a una scuola media di Taranto. Non era vero. E la verità è saltata fuori. Grazie alle confessioni di due pentiti e ad una revisione del processo, la Corte d'Appello di Lecce l'ha assolto. La stessa Corte gli ha riconosciuto 4,5 milioni di euro: soldi che pagheranno i cittadini italiani e non i responsabili dell'errore.

In base agli indizi raccolti da polizia e carabinieri, coordinati dal pm del tribunale di Taranto Vincenzo Petrocelli, Morrone, poche ore dopo i fatti, fu sottoposto a fermo per duplice omicidio, detenzione e porto illegale di arma da fuoco e munizioni e spari in luogo pubblico. Ad incastrarlo - secondo l'accusa - c'erano le testimonianze di alcune persone. Sia al momento del fermo sia durante i processi a suo carico, l'imputato ha sempre detto di essere estraneo ai fatti, ma nessuno gli ha creduto.

«Questo processo è stato caratterizzato da lacune immense - denuncia l'avv. Defilippi - e i giudici di merito non hanno mai tenuto conto dell'alibi che Morrone aveva, che era stato confermato sin dal primo annullamento con rinvio della sentenza da parte della Cassazione. L'imputato ha sempre detto che al momento del delitto si trovava nell'appartamento dei coniugi Masone, che vivevano sullo stesso pianerottolo dell'abitazione della sua famiglia. I Masone hanno confermato l'alibi del giovane durante il processo ma sono stati condannati per falsa testimonianza, così come è stata condannata la mamma del giovane che aveva riferito la stessa circostanza: «Queste persone - conclude il legale - sono cadute nella fossa dell' inferno solo per aver detto la verità».

A Taranto si deve subire e si deve tacere. Potenza agevola. Processato per diffamazione a mezzo stampa il presidente della “Associazione Contro Tutte Le Mafie”, perché sul web e sulla stampa nazionale ed internazionale (La Gazzetta del sud Africa) riporta le prove che a Taranto, definito Foro dell’Ingiustizia, vi sono eccessivi errori giudiziari ed insabbiamenti impuniti.

Si apre a Potenza il processo a carico del Dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte Le Mafie”.

L’accusa: diffamazione a mezzo stampa, su denuncia di un procuratore della Repubblica di Taranto.

La difesa: aver pubblicato i dati ufficiali del Ministero della Giustizia sul Foro di Taranto, le interrogazioni parlamentari, le richieste di archiviazione e gli articoli di stampa nazionale.

I dati ufficiali: Denunce penali presentate a Taranto 21.720, condanne conseguite 364.

Le varie interrogazioni dei parlamentari: Patarino, Bobbio, Bucciero, Lezza, Curto e Cito.

Le motivazioni di una richiesta di archiviazione in cui si dubita della fondatezza delle accuse di una vittima di un concorso pubblico palesemente irregolare per conflitto di interessi del vincitore e, contestualmente, responsabile del procedimento concorsuale.

La richiesta di una auto-archiviazione per una denuncia in cui la stessa Procura richiedente era stata palesemente denunciata. Denuncia, oltretutto, iscritta falsamente a carico di ignoti.

Articoli di stampa: Giudice scriveva sentenze con gli avvocati; ritardi colossali delle sentenze; Vigili Urbani, pronto intervento per il sindaco, 50 minuti; Vigili urbani, violenza sui cittadini; insabbiamenti alla Procura; giudici, cancellieri, avvocati e consulenti accusati di corruzione; ispettore di polizia denuncia i giudici che insabbiano, lo processano in un giorno; corruzione al Palazzo di Giustizia; concorsi forensi truccati ed impedimento del ricorso al Tar.

Articoli di stampa sugli innumerevoli errori giudiziari: caso on. Franzoso, caso killer delle vecchiette, caso della barberia, caso Morrone, ecc.

La denuncia è stata presentata da un magistrato di Taranto, la cui procura ha già cercato, non riuscendoci, di far condannare il dr Antonio Giangrande per abusivo esercizio della professione forense, pur sapendo di essere regolarmente autorizzato a patrocinare; ovvero di farlo condannare per calunnia per la sol colpa di aver presentato per il proprio assistito opposizione provata avverso ad una richiesta di archiviazione; ovvero di farlo condannare per lesione per essersi difeso da un’aggressione subita nella propria casa al fine di impedirgli di presenziare ad una sua udienza; ovvero di farlo condannare per diffamazione per aver pubblicato le inchieste sulle consulenze o perizie false; ovvero farlo condannare per violazione della privacy e per diffamazione per aver pubblicato atti pubblici nocivi alla reputazione della stessa procura. Sempre con impedimento alla difesa.

Il processo si apre a Potenza. Foro in cui lo stesso Presidente di quella Corte di Appello aveva più volte chiesto conto alle procure sottoposte sulle denunce degli insabbiamenti a Taranto, rimaste lettera morta.

Il processo si apre a Potenza, più volte sollecitata ad indagare sui concorsi forensi truccati, in cui vi sono coinvolti magistrati di Lecce, Brindisi e Taranto.

Il processo si apre a Potenza, foro in cui è rimasta lettera morta la denuncia contro alcuni magistrati di Brindisi, che a novembre 2007 hanno posto sotto sequestro per violazione della privacy (censura tuttora vigente) un intero sito dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie composto da centinaia di pagine, effettuato con atti nulli e con incompetenza territoriale riconosciuta dallo stesso foro. La procura di Taranto, investita per competenza, ha reiterato il sequestro. Il sito conteneva, alla pagina di Brindisi, le notizie di stampa nazionale riguardanti il presunto complotto della medesima procura di Brindisi contro il Giudice di Milano, Clementina Forleo, e alla pagina di Taranto, le prove sugli insabbiamenti della Procura locale.

Il processo si apre a Potenza, foro in cui è rimasta lettera morta la denuncia contro il giudice di Manduria, che condanna sempre quando il Giangrande o un suo assistito è imputato, ovvero assolve sempre quando il Giangrande o un suo assistito è persona offesa. Questo sempre in contrasto alle prove acquisite.

Il processo si apre a Potenza, dove si è costretti a presentare istanza di ammissione al gratuito patrocinio, a causa dell’indigenza procurata dalle ritorsioni del sistema di potere, che impedisce l’esercizio di qualsivoglia attività professionale. Situazione che non assicura una adeguata difesa.

Tutto questo, e anche peggio, succede a chi, non conforme all’ambiente, non accetta di subire e di tacere, per sè e per gli altri.

ANTIMAFIA CLIENTELARE

In data 2-3-4 marzo 2010, il servizio di Stefania Petix, inviata di Striscia La Notizia, per la prima volta in Italia ha sollevato il problema della destinazione clientelare dei beni confiscati alla mafia.

In quel caso si evidenziava che a Palermo la destinazione a fini sociali dei beni confiscati era stata effettuata a favore di associazioni inesistenti o a fini di lucro.

Inascoltata la “Associazione Contro Tutte le Mafie” da sempre ha denunciato che il fenomeno è nazionale.

Si riscontra che l’associazione “Libera” ha un rapporto privilegiato con le strutture Prefettizie a scapito delle tantissime associazioni indipendenti che non fanno capo a quel coordinamento.

In questo caso vi è silenzio assoluto delle Istituzioni e degli organi di stampa su un fatto gravissimo.

Allo stesso sodalizio nazionale denominato “Associazione Contro Tutte le Mafie”, iscritta presso la Prefettura di Taranto al n. 3/2006, è impedita l’iscrizione presso altre prefetture pur operando nel loro territorio, in virtù del Decreto del Ministero dell’Interno n. 220 del 24/10/2007, che prevede l’iscrizione delle associazioni antiracket solo ed esclusivamente presso le prefetture competenti sulla sede legale.

In data 3 marzo 2010, anche grazie ad una legge regionale, denominata appunto “Libera il bene”, attraverso la quale la Regione Puglia si assume il 90% dell’onere economico delle spese per la ristrutturazione degli immobili, il commissario straordinario prefettizio di Manduria Giovanni D’Onofrio ha promosso ed ottenuto, con la firma del protocollo di intesa, la collaborazione della stessa associazione Libera (rappresentata da Davide Pati e Annamaria Bonifazi) e della Prefettura di Taranto (rappresentata dalla dott.ssa Distante), finalizzata all’analisi dei beni confiscati agli esponenti mafiosi di Manduria, al monitoraggio delle loro condizioni strutturali, alla verifica del possibile riutilizzo e alla progettazione per la trasformazione in centri di aggregazione o per altro uso (da stabilirsi). Con il protocollo l'Ente pubblico si assume l'onere del restante 10%.

“Libera” è un coordinamento, non un’associazione, e come tale, in virtù del Decreto citato, non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, in quanto il coordinamento non ha la sede legale in quella città, ma in via IV Novembre, 98, Roma, per cui il protocollo d’intesa è nullo e la Prefettura di Taranto e il Comune di Manduria, dovrebbero collaborare con le associazioni con sede legale nella provincia di Taranto, e l’Associazione Contro Tutte le Mafie, ha la sede legale in Avetrana, 15 Km da Manduria.

Se passa il principio che chiunque spenda il nome “Libera” possa essere iscritto e privilegiato dagli enti Prefettizi, è normale che in Italia si formi un monopolio illegale delle assegnazioni dei beni, specie se poi questa attività è sostenuta dai finanziamenti pubblici.

E’ ancor più grave se poi i coordinamenti hanno sede presso la CGIL. In questo caso parrebbe un’espropriazione proletaria.

Poi non si capisce come mai la Regione Puglia possa riconoscere finanziamenti solo a “Libera”, escludendo le altre associazioni indipendenti, specie se dopo tanta enfasi, dopo anni non è ancora stato istituito l’albo regionale delle associazioni antiracket, che dovrebbe legittimare gli stessi finanziamenti.

A Taranto, venerdì 16 aprile 2010, una delegazione dei parlamentari del PD della Commissione Parlamentare Antimafia, insieme ad altri parlamentari pugliesi del PD, ha tenuto una serie di incontri con autorità, associazioni ed organizzazioni sindacali e di categoria della provincia tarantina, tra cui i rappresentanti locali di “Libera” e della CGIL.

La delegazione, guidata dall’on. Laura Garavini, presidente della Commissione Antimafia, era costituita dal sen. Alberto Maritati, dall’on. Michele Bordo, dall’on. Ludovico Vico, dall’on. Teresa Bellanova, dall’on. Dario Ginefra, dal sen. Salvatore Tomaselli, dall’on. Cinzia Capano e dall’on. Gero Grassi.

La delegazione antimafia di sinistra non ha voluto incontrare il dr. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Sodalizio nazionale che, purtroppo, proprio presso la Prefettura di Taranto ha la sua iscrizione.

“Non capisco perché quest’ostracismo istituzionale nei nostri confronti – dice il presidente Antonio Giangrande – discriminarci perché non siamo di sinistra e perché non santifichiamo i magistrati, fa apparire la loro lotta alla mafia come lotta di parte o di facciata. Purtroppo per loro e per tutti quelli che ci emarginano noi siamo gli unici ad avere una competenza specifica sul fenomeno mafioso e sul sistema antimafia. I nostri studi ed inchieste sono la fonte di articoli di stampa e di tesi di laurea. I tentativi di emarginare le contro voci, noi come Leonardo Sciascia, dimostrano la malafede di chi li compie e la codardia di chi, mediaticamente, li copre. Noi additiamo il sistema di potere corrotto come madre di tutte le mafie, ma, come diceva Sciascia, lo Stato non può processare se stesso. La gente lo sa bene e, non corrisposta nei suoi interessi, si astiene dal dare un voto inutile a chi si bea di aver vinto, ma, in virtù dell’astensione, solo con il 25-30% dell’elettorato votante. L’informazione pubblica, purtroppo si ostina a dare spazio a questa politica lontana dai cittadini, anziché far parlare le contro voci foriere di rinnovamento.”

Spero che questa denuncia pubblica sia approfondita, nell’interesse della collettività, delle associazioni antimafia indipendenti e della vera lotta alla mafia e cessi l’ostracismo a danno dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

CONCORSOPOLI

ACCESSO ALL'AVVOCATURA

Antonio Giangrande, dal 1998, entrato nell'ambiente come praticante avvocato, denuncia pubblicamente i concorsi pubblici truccati, lo sfruttamento dei praticanti, gli insabbiamenti delle denunce e l'impedimento al gratuito patrocinio: da allora non lo abilitano alla professione di avvocato.

Il dr Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato, presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ed autore del libro “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo”, presenta il “Dossier sui concorsi pubblici truccati”.

Esso è il frutto di anni di ricerche ed approfondimenti su un sistema che sforna la nostra classe dirigente, e per questo, dai risultati che ottiene, la medesima dimostra la propria inadeguatezza.

Antonio Giangrande lo fa in occasione della prova scritta del concorso forense, che si tiene presso la Corte d’Appello, come ogni anno a metà dicembre, e in relazione alla riforma che imprime maggiori tutele alla lobby, stilata in Parlamento da chi si è abilitato con un sistema truccato.

Lo fa in seguito alla missiva del Governo del 5 ottobre 2009, in risposta alla sua richiesta di intervento per la tutela dei diritti soggettivi su un caso concreto: “esistono concorsi irregolari e violazione della tutela giudiziaria. Provvederemo”. Intervento mai arrivato.

Con il discorso ufficiale del Magnifico Rettore, Prof. Ing. Domenico Laforgia, è stato inaugurato a Brindisi il 3/12/2009 l'anno accademico 2009-2010 dell'Università del Salento. Presenti alla cerimonia Gianfranco Fini, Presidente della Camera dei Deputati e diverse altre insigne personalità del mondo politico, economico e culturale della penisola salentina. In quella sede ha palesato una realtà, che molti cercano di ignorare o tacitare. “…..Questo è un altro dato che si presta ottimamente ad una lettura politica. Il familismo non è la ferita pruriginosa di questa o quella Università, ma di tutto il sistema occupazionale italiano. È una malattia endemica del Paese che ha contagiato tutti i campi, dalla politica alle libere professioni, dal giornalismo al mondo dello spettacolo, dall’industria a tutto il comparto pubblico. Familismo, nepotismo e clientelismo non sono le conseguenze di un sistema malato, come spesso si dice, ma sono il segno più evidente di una mancanza effettiva di alternative possibili. Ed è questa povertà di occasioni che mette in moto il meccanismo, che diventa perverso e nocente alla comunità quando non è neppure compensato dal merito."

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Il sistema di abilitazione truccato riguarda tutte le professioni intellettuali: magistrati, avvocati, professori universitari, giornalisti, ecc. La domanda che ci si dovrebbe porre è: dov’è il trucco?

COMMISSIONI D’ESAME: con la riforma del 2003, (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180), dopo gli scandali e le condanne sono stati esclusi dalle commissioni d’esame i Consiglieri dell'Ordine degli Avvocati, competenti per territorio, mentre i Magistrati e i Professori universitari non possono correggere gli scritti del loro Distretto. Le commissioni locali fanno gli orali e vigilano sullo scritto, mentre gli elaborati sono corretti da altre commissioni estratti a sorte. Questa riforma, di fatto, mina la credibilità delle categorie coinvolte. Le Commissioni  e le sottocommissioni hanno un diverso metro di giudizio, quindi alla fine bisogna affidarsi anche alla buona sorte per avere una commissione più benevola. Naturalmente, le Commissioni del nord continuano ad avere un atteggiamento pro lobby, limitando l’accesso all’avvocatura al 30% circa dei candidati, per paura che i futuri avvocati del sud emigrino al nord. A riguardo ci sono state interrogazioni scritte al Ministro della Giustizia da parte di deputati (n. 4-10247, presentata da Pietro Fontanini mercoledì 16 giugno 2004 nella seduta n. 478 e n. 4-01000 presentata da Silvio Crapolicchio mercoledì 20 settembre 2006 nella seduta n. 038). Dubbi sono sorti anche sul modo di abbinare le commissioni. Il deputato lucano Vincenzo Taddei (PdL) ha presentato un’interrogazione scritta al Ministro della Giustizia. Il motivo della richiesta di intervento è preciso: per ben tre anni consecutivi, nel 2005, 2006 e 2007, da quando sono entrate in vigore le modifiche sullo svolgimento dell’esame di avvocato, le prove scritte dei candidati della Corte d’Appello di Potenza stranamente sono state sempre corrette presso la Corte d’Appello di Trento con percentuali di ammessi all’orale sempre molto basse (nel 2007 circa il 18%).

LE TRACCE: sono conosciute giorni prima la sessione,  tant’è che il senatore Alfredo Mantovano ha presentato una denuncia penale ed una  interrogazione a al Ministro della Giustizia (n. 4-03278 presentata il 15 gennaio 2008 Seduta n. 274).

INIZIO DELLE PROVE: la lettura delle tracce avviene secondo le voglie del Presidente della Corte d’Appello, che variano da città a città. Nel 2006 la lettura delle tracce a Lecce è stata effettuata alle ore 11,45 circa, anziché alle 09,00 come altre città. In questo modo i candidati hanno tempo di farsi dettare le tracce e i pareri sui palmari e cellulari, molto prima della lettura ufficiale.

IL MATERIALE CONSULTABILE: nel 2008, tra novembre e dicembre il caos. Se al concorso di magistratura succede di tutto, a quello di avvocatura è ancora peggio. Due concorsi diversi, stessa sorte. Niente male per essere un concorso per futuri magistrati ed avvocati. Niente male, poi, per un concorso organizzato dal ministero della Giustizia. Dentro le aule di tutta Italia, per il concorso di avvocati che si svolge in ogni Corte d'Appello italiana, è entrato di tutto: fotocopie, bigliettini con possibili tracce e, soprattutto, palmari e cellulari. Ma sul concorso in magistratura svolto a Milano c’è ne da parlare. Sopra i banchi i codici «commentati» vietati, con il timbro del ministero che ne autorizzava l'utilizzo. Relazione pubblicata sul sito del Ministero della Giustizia e protocollata con il n. 19178/2588 del 24/11/2008, in cui il presidente denuncia l'atteggiamento «obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra questi, un vicequestore della Polizia di Stato, trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima». Eppure le regole dovevano essere più rigide. Dovevano esserci più controlli. Era stato assicurato dal ministero della Giustizia. Con tanto di sanzioni e espulsioni.

IL MATERIALE CONSEGNATO: per norma si dovrebbe consegnare ogni parere in una busta, contenente anche una busta più piccola con i dati del candidato. Ma non è così. Le buste con i dati si possono aprire prima della lettura degli elaborati. A Roma, venerdì 13 marzo 2009, alla fine è dovuta intervenire la polizia penitenziaria. Al grido di “Buffoni! Buffoni!” centinaia di esaminandi del padiglione 6 al concorso di notaio si sono scagliati contro la commissione. “Questo esame è una farsa – hanno gridato – ci sono gli estremi per poterlo annullare”. Si è visto “gente che infilava un nastro rosso nella busta” per farsi riconoscere, gente che “aveva le tracce già svolte” e gente che, dopo aver chiacchierato con i commissari, “si faceva firmare la busta in modo diverso”.

CORREZIONE DEGLI ELABORATI: la legge 241/90 e il Ministero della Giustizia dettano le regole in base alle quali si deve svolgere la correzione, per dare i giudizi. Essi attengono alla rappresentanza delle categorie degli avvocati, magistrati e professori universitari, oltre all’attenzione data alla sintassi, grammatica, ortografia e, cosa, fondamentale, sui principi di diritto del parere dato. Cosa fondamentale, la legge regola la trasparenza dei giudizi. Di fatto le commissioni sono illegittime, perché mancanti, spesso, di una componente necessaria. Di fatto i compiti non sono corretti, perché sono immacolati e perché non vi è stato tempo sufficiente a leggerli. Di fatto le motivazioni sono mancanti o infondate. Su tutti questi notori rilievi vi è stata interrogazione presentata dal deputato Giorgia Meloni (n. 4-01638 mercoledì 15 novembre 2006 nella seduta n.072). Oltre che quella n. 4-01126 presentata da Giampaolo Fogliardi mercoledì 24 settembre 2008, seduta n.054. Illegale ed illegittimo è anche il ritardo con cui sono consegnate dalle commissioni di esame le copie degli elaborati, al fine di impedire la presentazione in termini dei ricorsi al Tar, in quanto la maggior parte di questi ricorsi sono accolti dalla giustizia amministrativa.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

Badate, questi signori sono poi quelli che, quale organo supremo amministrativo, devono dirimere le controversie attinenti i concorsi truccati in tutta l’amministrazione pubblica.

Intanto il concorso notarile ha i suoi i precedenti che parlano chiaro: nel 2005 candidati ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati "non idonei" e poi promossi agli orali.

Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

O ancora l'esame di ammissione all'albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un' agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere.

E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

TUTELA AMMINISTRATIVA: i ricorsi al Tar, stante l’immane giurisprudenza a sostegno, sono automaticamente vincenti. Unica condizione presentarsi con il principe del foro locale. Per ovviare all’ovvia ritrosia degli ordini di abilitare chi ha vinto un ricorso, la legge 17 agosto 2005 n. 168 di conversione (con modificazioni)  del decreto legge 30 giugno 2005 n. 115, contiene un norma destinata a sconvolgere gli esami di Stato di tutte le professioni intellettuali (in particolare di quelle di avvocato, notaio, commercialista  ed architetto, le più bersagliate di ricorsi ai Tar e al Consiglio di Stato). Insomma, il candidato che supera le prove orali, anche se l’ammissione è stata decisa da ordinanze dei Tar, “consegue a ogni effetto” l’abilitazione professionale. Se si è indigenti, però, l’ammissione al patrocinio pagato dallo Stato è impedito dalle relative commissioni presso i Tribunali Amministrativi formate ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato. Le commissioni, stante i requisiti di accoglimento per il fumus e per l’indigenza, rigettano la domanda, con giudizi anticipati senza contraddittorio: “Manca il Fumus”, inibendo così anche l’inoltro ordinario a pagamento del ricorso avverso all’esito concorsuale.

ENNESIMO RICORSO AL GOVERNO, INVIATO PER CONOSCENZA AI 630 DEPUTATI, AI 320 SENATORI, AI 72 PARLAMENTARI EUROPEI

RISULTATO: LETTERA MORTA

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SIG. PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI

SIG. MINISTRO DELLA GIUSTIZIA, DELL'INTERNO, DELLA FUNZIONE PUBBLICA, DEL LAVORO, DEI GIOVANI, DEI RAPPORTI CON LE REGIONI

 

E’ VERGOGNOSO, NON OTTENERE GIUSTIZIA

Giangrande Antonio, nato ad Avetrana (TA) il 02/06/1963 ed ivi residente alla via Manzoni 51.

Tel. 0999708396. Cell. 328.9163996

Presidente dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie;

autore del libro “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo” ;

ha svolto l’attività forense per ben 6 anni;

da 12 anni vittima di bocciature ritorsive al concorso forense, nonché perseguito per aver dato notorietà alle interrogazioni parlamentari riguardanti gli insabbiamenti delle denunce presentate nel distretto della Corte d’Appello di Lecce.

PREMESSO CHE

il 16, 17, 18 dicembre 2008 ha partecipato alla prova scritta del concorso forense presso la Corte di Appello di Lecce;

il 26 marzo 2009 la commissione presso la Corte di Appello di Reggio Calabria si è riunita per la correzione dei 3 elaborati: IN FORMA ILLEGITTIMA;

il 24 giugno 2009 (dopo 3 mesi) si sono pubblicati i risultati: giudizio identico negativo, 25, 25, 24;

il 3 luglio 2009 si visionano i compiti, i verbali e i criteri di correzione: SI OTTIENE PROVA CHE I COMPITI NON SONO STATI LETTI E CORRETTI E IL GIUDIZIO RESO E’ FALSO;

l’8 luglio 2009 si presenta istanza di ammissione al gratuito patrocinio con gli allegati probatori presso la Commissione del Tar di Lecce per poter presentare ricorso al TAR per manifesta irregolarità dei giudizi, su contestazioni accolte da ampia giurisprudenza amministrativa;

il 7 agosto (dopo un mese e a pochi giorni dalla decadenza del ricorso) si riceve diniego dalla Commissione: MANCA IL FUMUS;

il 12 agosto 2009 si presenta esposto penale ed amministrativo per fax e posta elettronica con gli allegati probatori ai vari uffici competenti di:

Presidenza della Repubblica, quale capo del CSM;

Presidenza del Consiglio dei Ministri (vari uffici fax 0667793289, 0667793578, 0667795441, 0667793543, 0667796571, 0658492087, 063236210, 0647887878, 0668997064, 066795807, 066797428, 066791131, 0667795049, 066794569, 066798648, 0667796569);

Ministero della Giustizia (vari uffici fax 0668852864, 0668897418, 0668897768, 0668897394, 0668897523, 0668892770, 0668897350, 0668892671, 0666165680, 0666162817, 0668897951, 0666598265, 0668897519, 0668897538, 0668891493);

Ministero degli Interni e sottosegretario Alfredo Mantovano (vari uffici fax 0646549832, 064741717, 0646549599, 0646549815, 064814661, 0646549725, 0646549415);

Ministero della Funzione Pubblica (vari uffici fax 0668997188, 0658324118, 0668997428, 0668997060, 0668997320);

Ministero del lavoro ( vari uffici fax 064821207, 0648161441, 0659945301, 0648161558);

Ministero dei giovani (vari uffici fax 0667796679, 0667795715, 0667792516, 0667792039, 0667792041, 0667792376);

Ministero Pari opportunità fax 06 67792471;

Ministro Raffaele Fitto per i rapporti con le regioni (vari uffici fax 0667794447, 066795500, 0667794078);

Presidenti di Camera e Senato; Commissioni Giustizia di Camera e Senato; Direzione Nazionale Antimafia; Antitrust; Consiglio Superiore della Magistratura; Consiglio Nazionale Forense; Consiglio di Stato; Avvocatura dello Stato; Corte dei Conti; Procura Generale ed ordinaria di Lecce, Taranto, Bari, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria; Prefettura di Lecce e Taranto; Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e Taranto.

RISULTATO: TUTTO LETTERA MORTA.

DOMANDA: E’ PIU’ SCANDALOSO L’ABUSO O L’OMISSIONE ?!?! 

Tanto premesso si chiede alla S.V. di intervenire in questa vicenda, per mezzo di una interrogazione agli uffici interessati.

Le competenze amministrative ed istituzionali sono varie: impedimento alla difesa; impedimento al lavoro, specie giovanile; impedimento alla libera concorrenza ed al libero accesso professionale; impedimento alla pari opportunità; commissione di reati in procedimenti concorsuali ministeriali; impedimento all’attività di un sodalizio riconosciuto dal Ministero dell’Interno; abusi ed omissioni; ecc.

Giusto per sapere se merito giustizia e per non vergognarmi di essere italiano.

Mi dispiace che in Italia il problema non abbia l’attenzione che merita, solo perché ritengo non dignitoso adottare forme estreme di protesta. O forse perché sono sottovalutate le mie segnalazioni. Si pensi, per esempio, che per quello forense, in Italia, presso tutte le sedi di Corte di Appello, ci sono circa 40.000 candidati all’anno e solo il 30 % di loro ottiene l’abilitazione, oltretutto senza merito.

Il concorso notarile o giudiziario non è diverso.

Il far passare il sottoscritto per mitomane o pazzo, condannandolo all’indigenza, non disobbliga l’autorità adita ad un doveroso riscontro. Sempre che si sia in un paese civile e giuridicamente avanzato.

Dr Antonio Giangrande

 

 


INGIUSTIZIOPOLI

IL CASO MARTINO SCIALPI

«La magistratura punisca i responsabili o sarò costretto a farmi giustizia da solo», scrive "Il Corriere della Sera". È ormai al limite della sopportazione Martino Scialpi, il sessantenne ambulante di Martina Franca (Taranto) che il primo novembre del 1981 realizzò un 13 al Totocalcio da oltre un miliardo di lire, ma non ha mai incassato la vincita perchè la titolare della ricevitoria smarrì la matrice della schedina. Da allora ha affrontato un calvario giudiziario che dura da 29 anni e, malgrado 23 anni fa il Tribunale di Taranto abbia attestato l’autenticità del tagliando, il Coni è tornato a contestare e a mettere in dubbio la genuinità della schedina. La vincita oggi varrebbe dieci milioni di euro oltre al risarcimento dei danni morali e materiali.

FUNZIONARI DEL CONI - Il commerciante ritiene che vi siano anche responsabilità di funzionari del Coni nella falsificazione di un documento sulla cessione dell’attività del ricevitore da un proprietario all’altro e quindi del rilascio della concessione (già dimostrata da una perizia disposta dal gip di Bari nel 2004). Per questo aspetto della vicenda è in corso un procedimento penale per frode processuale a carico degli ex vertici del Coni. Scialpi ha depositato anche una relazione del commercialista Luigi Perrini che certifica l’esborso di denaro che ha dovuto sostenere in questi anni per viaggi, spese legali e di cancelleria, quantificato in 383mila euro a partire dal 1987.

INCHIESTA SUI MAGISTRATI DI TARANTO - A luglio 2010 la procura di Potenza aprì un fascicolo di indagine sui magistrati di Taranto che nell’arco di oltre vent’anni si sono occupati della vicenda di Scialpi. L’apertura dell’inchiesta a carico dei magistrati tarantini risulta dal provvedimento con cui la stessa procura di Potenza, attraverso il pm Anna Piccininni ha trasmesso alla procura di Roma per competenza territoriale. Si tratta di atti relativi alla denuncia presentata dallo scommettitore nei confronti della titolare della ricevitoria, Maria Luisa Taiana, degli ex funzionari del Totocalcio di Bari Mario Bernacchia e Rocco De Vivo, degli ex segretari generali del Coni Mario Pescante e Raffaele Pagnozzi e del coordinatore degli affari giuridici del Coni Leonardo Zauli, per associazione per delinquere e altri reati. La denuncia di Scialpi si riferisce a comportamenti e dichiarazioni rese dai protagonisti della vicenda fino al 2005 e sostiene che i rappresentanti del Totocalcio hanno esibito un documento, inerente la cessione dell’attività di ricevitore da un proprietario all’altro e quindi del rilascio della concessione, risultato manipolato. A supporto di questa tesi Scialpi dispone di una doppia perizia grafica e merceologica. Tale circostanza, secondo Scialpi, farebbe scattare la responsabilità extracontrattuale del Coni.

L'INCHIESTA - Dopo che la procura di Potenza aveva trasmesso gli atti a Roma su una parte dell’indagine trattenendo per sè quella sui magistrati tarantini, la procura romana ha chiesto l’archiviazione nei confronti della titolare della ricevitoria e dei funzionari dell’ente olimpico. Scialpi ha presentato opposizione. «Sono stanco - disse già allora l'ambulante - di rincorrere una giustizia che non ha ancora fermato chi ha commesso o dichiarato il falso per impedirmi di incassare una vincita sacrosanta e che in passato ha creato una vera anomalia nel sistema giustizia italiano con poteri forti che hanno coperto le responsabilità del Coni».

UN MARE DI FOTOCOPIE - L’opposizione all’archiviazione è corredata da sei fascicoli e 8500 fotocopie che raccontano una odissea giudiziaria che si trascina da 29 anni. «Nel 1983 - osserva ora Scialpi - mi accusarono di aver cercato di truffare lo Stato, ma una perizia dimostrò che la schedina era genuina e che costituiva valido titolo per il pagamento della vincita. Poi sono emerse varie irregolarità amministrative nella concessione della ricevitoria da parte del Coni, che quindi avrebbe dovuto subito pagarmi». «Devono corrispondermi quella vincita, ne ho diritto - conclude oggi l'ambulante - dalle carte emergono gravi responsabilità, chiedo alla magistratura di fare finalmente giustizia». Altrimenti provvederà «a modo suo».

IL CASO CARMELA CIRELLA

15 aprile 2007. Carmela volava via, dal settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi, ma soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui si era rivolta per denunciare e chiedere aiuto. Per dare giustizia e un senso al suo sacrificio e affinché non vi siano più altre “Carmele”, nasce l’associazione in suo onore e memoria “IoSòCarmela”, come la frase che lei stessa ripeteva sempre e scriveva dappertutto per urlare a tutti il suo diritto di esistere e di essere rispettata.

Delle lettere scritte si è perso il conto. Soltanto in quest’ultimo mese al ministro di Grazia e Giustizia e al ministro delle Pari Opportunità ne saranno state inviate cinque o sei. Risposte? Nessuna. Certezze che siano state almeno aperte? Nessuna. E così Alfonso Frassanito ha deciso che era il momento di fare qualcosa di più per dare voci a tutti quelli come lui: genitori di bambini o adolescenti che hanno subito un abuso, che forse conoscono anche il nome del colpevole, ma hanno capito che non otterranno mai giustizia.

Per la prima volta lui - e tanti altri come lui - saranno sotto il ministero di Grazia e Giustizia a urlare quello che era scritto nelle lettere. «Perché nessuno stavolta possa dire di non aver sentito», spiega Alfonso. Sarà una catena umana di genitori, arriveranno da tutt’Italia, qualcuno ogni giorno per mantenere viva l’attenzione su quello che denunciano essere un vero e proprio business: i servizi sociali, le case-famiglia, gli istituti di accoglienza. Più o meno negli istituti sono collocati circa 30.000 minori per vari motivi: separazioni, abbandono, disagio dei figli e incapacità dei genitori di occuparsene secondo le perizie il Tribunale dei Minori. Per ciascun minore il Comune di appartenenza versa una quota di 100-150 euro al giorno, per un totale complessivo annuale di circa mille milioni di euro che rappresentano un giro d’affari molto interessante. «E che fanno sì che la giustizia italiana a volte provochi più danni degli stessi criminali», ha provato a spiegare Alfonso Frassanito nella sua lettera al ministro Alfano.

La sua storia è esemplare: è il padre di Carmela. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile.

Invece di perseguire chi l’aveva violentata, hanno di fatto perseguito una bambina rinchiudendola in vari istituti in cui Carmela non voleva stare. E, come ha denunciato il padre, usando il metodo facile di «calmarla» con psicofarmaci.

Carmela aveva manifestato in vario modo la sua disperazione, ma per tutta risposta era stata classificata come “soggetto con problematiche psichiatriche”. E questi stessi magistrati, psichiatri che hanno deciso per Carmela, contro Carmela, quando è morta, si sono detti «sorpresi».

Drogata con anfetamine e violentata. In diverse occasioni e in luoghi diversi, di lei, come poi denuncerà al pm Enzo Petrocelli, abusano in otto. Sette minorenni, che hanno poco meno di 18 anni, tutti identificati e indagati per violenza sessuale, e un maggiorenne. È questo l' episodio che innesca la procedura per l' affidamento della ragazza al centro di accoglienza «L' Aurora» di Lecce. Dal quale, dopo circa tre mesi, Carmela verrà trasferita, per andare nel centro «Il Sipario», a Gravina di Puglia, proprio quello che ospitava Francesco e Salvatore, i fratellini scomparsi di Gravina. Carmela, prima delle violenze subìte in quei quattro giorni, aveva raccontato di un interessamento nei suoi confronti da parte di un giovane sottufficiale della Marina in servizio a Taranto, sul quale però la polizia non aveva trovato riscontri per l' avvio di un procedimento penale. Carmela, dicevano, spesso inventa le cose e non ha la completa padronanza di sé. Poi l' allontanamento da casa e l' intervento di assistenti sociali e medici e giudici. Da qui alla perizia psichiatrica il passo non è stato lungo. E ancora più breve è stato il cammino verso gli abusi sessuali, tanto ormai Carmela era per tutti «quella sbroccata», «quella che ci stava». Chi le avrebbe mai creduto? Il padre di Carmela adesso dice che la colpa è di quei medici e di quell'istituto che somministravano alla ragazza pesanti dosi di psicofarmaci per tenerla tranquilla.

Ma sulle scrivanie dei ministri dovrebbe essere arrivata anche la lettera di Luigi Bitonto, padre dei quattro fratellini che a gennaio del 2008 denunciarono con un video inviato da loro stessi su You Tube gli abusi subiti. Dopo tutti questi mesi gli abusi sono stati accertati anche dalle perizie ma i fratellini sono stati allontanati dal padre, unica figura familiare di riferimento, e ora vivono in una casa-famiglia. E a Luigi Bitonto non è rimasto che prendere carta e penna e denunciare «le tragiche lungaggini, che producono confusione, con Tribunali che seguono contemporaneamente strade diverse, perizie che si accavallano e l'una sconfessa l'altra e alla fine chi subisce sono appunto le vittime. E i criminali se ne vanno in giro in tutta tranquillità, casomai continuando a delinquere».

D'altro canto c’è anche il risvolto della medaglia.

La Corte di Cassazione ha confermato in via definitiva due condanne per molestie sessuali su bambini che frequentavano un asilo a La Loggia. Per Valerio Apolloni, all'epoca dei fatti presidente dell'ente di gestione della struttura, e Vanda Ballario, direttrice, la pena è di due anni e dieci mesi di reclusione, in parte già scontati per effetto di un periodo di custodia cautelare. I due educatori hanno sempre respinto ogni accusa. Anzi, Valerio Apolloni è il figlio di Vittorio Apolloni, presidente dell'Associazione Falsi Abusi, che da anni si batte (dai casi esplosi a Brescia fino a quelli di Rignano) per dimostrare come la stragrande maggioranza delle denunce sia del tutto inventata dai bambini.

IL CASO FAIUOLO, ORLANDI, NARDELLI, TINELLI, MONTEMURRO, DONVITO

     
     
   

La quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha accolto la richiesta di revisione del processo, trasmettendo gli atti alla Corte d'Appello di Potenza, nei confronti di Vincenzo Faiuolo, arrestato per il delitto di Pasqua Ludovico, anziana uccisa in provincia di Taranto negli anni '90. Faiuolo è una delle otto persone arrestate per diversi omicidi di anziane uccise in Puglia in quegli anni. Omicidi dei quali poi si è confessato colpevole Ben Mohamed Ezzedine Sebai, soprannominato 'il serial killer delle vecchiette'. A darne notizia è l'avvocato Claudio Defilippi, legale dello stesso Faiuolo, condannato a 25 anni di carcere, di cui ne ha scontati 15 anni. Defilippi spiega che è stata accolta anche la richiesta di revisione del processo, con rinvio alla sezione per i minorenni della Corte d'Appello di Potenza, nei confronti di Davide Nardelli, all'epoca dei fatti minorenne, che fu condannato a 7 anni per il delitto di un'altra anziana e che ha già finito di scontare la pena. "La Cassazione dice che la revisione dei processi deve andare avanti. Chiediamo ora che siano riaperti i procedimenti per questi diversi omicidi", afferma Defilippi.

Sarà la Corte d’appello di Potenza, dopo le pronunce della Cassazione, ad occuparsi di tre richieste di revisione del processo avanzate dalla difesa di altrettanti imputati condannati con sentenza definitiva per l’omicidio di anziane donne pugliesi. Di questi tre delitti si è poi accusato il serial killer Ben Mohamed Ezzedine Sebai, tunisino di 48 anni, che ha ammesso di aver ucciso 14 anziane in Puglia tra il 1995 e il 1997. Delle decisioni della Cassazione ne dà notizia il legale dei tre condannati, avv.Claudio Defilippi. Le richieste di revisione riguardano le posizioni dei detenuti Vincenzo Faiuolo (condannato a 25 anni, 15 dei quali già scontati), di Giuseppe Tinelli, condannato all’ergastolo; e di Davide Nardelli, libero dopo aver scontato sette anni in carcere. Di Tinelli e Nardelli dovrà occuparsi la sezione per i minorenni della Corte d’appello potentina perchè erano entrambi minori quando uccisero Celeste Commesatti a Palagiano (Taranto) il 13 agosto 1995. Tinelli è stato riconosciuto colpevole anche del delitto di Maria Valente (Palagiano, 29 luglio 1997). Faiuolo è invece detenuto per l’omicidio di Pasqua Ludovico, compiuto a Castellaneta (Taranto) il 14 maggio 1997. Gli imputati ”ingiustamente” coinvolti nei delitti, ma tornati frattanto in libertà, sono Francesco Orlandi (fratellastro di Faiuolo, condannato a 11 anni) e Cosimo Montemurro. Vincenzo Donvito si è invece suicidato in carcere dopo essere stato condannato, in concorso con Nardelli e Tinelli, per l’omicidio di Celeste Commesatti. «Dopo le decisioni della Cassazione – dice Defilippi – si faccia la revisione dei processi, si fermi il ping-pong giudiziario che va avanti ormai da cinque anni e si sospenda la pena nei confronti dei due detenuti. Da cinque anni chiedo un provvedimento umanitario che oggi reclamo con ancora più forza dopo le decisioni univoche della Suprema Corte. Dalle nostre indagini – conclude – emerge che a carico di Sebai c’e’ una montagna di prove in ordine agli omicidi per i quali sono stati condannati ingiustamente i miei assistiti, ed emerge anche che il tunisino, che è il secondo serial killer italiano dopo Donato Bilancia, ha agito da solo».

Ora il serial killer è credibile. Dopo le confessioni di Ben Mohamed Ezzedine Sebai, per il 48enne tunisino di Kairouan già condannato a sei ergastoli (quattro dei quali passati in giudicato) per gli omicidi di altrettante anziane donne pugliesi e lucane, si riaprono tre processi. Sarà la Corte d'appello di Potenza, dopo le pronunce della Cassazione, ad occuparsi delle richieste di revisione del processo avanzate dalla difesa degli imputati condannati con sentenza definitiva. Di questi tre delitti si è accusato Sebai, soprannominato il «collezionista», che ha ammesso di aver ucciso 14 anziane in Puglia tra il 1995 e il 1997. Le richieste di revisione riguardano le posizioni dei detenuti Vincenzo Faiuolo (condannato a 25 anni, 15 dei quali già scontati), di Giuseppe Tinelli, condannato all'ergastolo; e di Davide Nardelli, libero dopo aver scontato sette anni in carcere. Di Tinelli e Nardelli dovrà occuparsi la sezione per i minorenni della Corte d'appello potentina perché erano entrambi minori quando vennero accusati di aver ucciso Celeste Commesatti a Palagiano (Taranto) il 13 agosto 1995. Tinelli è stato condannato all’ergastolo anche per l’uccisione di Maria Valente (Palagiano, 29 luglio 1997). Faiuolo è invece detenuto per l'omicidio di Pasqua Ludovico, compiuto a Castellaneta (Taranto) il 14 maggio 1997. Gli imputati «ingiustamente» coinvolti nei delitti ma tornati frattanto in libertà, sono Francesco Orlandi (fratellastro di Faiuolo, condannato a 11 anni) e Cosimo Montemurro (condannato per l’omicidio della zia Grazia, di 75 anni, uccisa a Massafra il 4 aprile 1997). Vincenzo Donvito, invece, si suicidò il 7 luglio 2005 nel carcere di Teramo dopo essere stato condannato, in concorso con Nardelli e Tinelli, per l'omicidio di Celeste Commesatti. «Dopo le decisioni della Cassazione – ha sottolineato l’avv. Claudio Defilippi, che ha fatto ricorso per gli imputati condannati - si faccia la revisione dei processi, si fermi il ping-pong giudiziario che va avanti ormai da cinque anni e si sospenda la pena nei confronti dei due detenuti. Da cinque anni chiedo un provvedimento umanitario che oggi reclamo con ancora più forza dopo le decisioni univoche della Suprema Corte». Sebai, il serial killer per destinazione, ha svelato il motivo per il quale si è trasformato in pluriomicida. «Bevevo 11 litri di vino al giorno e sentivo delle voci che mi dicevano di uccidere le vecchiette» ha detto il tunisino ai giudici. «Ho avuto un’infanzia difficile. Mia nonna mi faceva picchiare dagli zii. Mi legavano e bastonavano e per questo sono stato sempre abituato a girare con il coltello in tasca. Dopo il mio arresto avevo bisogno di un ospedale per essere curato, non di un carcere. Ora chiedo perdono».

Sebai è considerato un vero fenomeno da antologia criminale. Il tunisino fu arrestato a Palagianello, il 16 settembre del 1997 poco dopo aver ucciso la 75enne Lucia Nico. Il tunisino fu bloccato da un coraggioso finanziere e riconosciuto da mezzo paese. Sempre in zona, fra i binari e una casupola per attrezzi, furono rinvenuti un borsone bianco contenente vestiti macchiati di sangue e più in là, nelle travette, un coltello anch’esso insanguinato. Lui, Sebai, fumava e simulava sicurezza. Anche quando lo misero alle strette, perfino quando gli contestarono una serie di bugie sul suo nome. Scavando nel suo passato, collegando i suoi movimenti con la scia di sangue che stava terrorizzando le anziane donne pugliesi, si fece strada la pista più inquietante: l’extracomunitario poteva essere il «collezionista» assassino tanto temuto. «Dalle nostre indagini - ha aggiunto l’avv. Defilippi - emerge che a carico di Sebai c'è una montagna di prove in ordine agli omicidi per i quali sono stati condannati ingiustamente i miei assistiti».

A proposito di questa vicenda la Redazione de Il Democratico ha avuto più volte occasione di occuparsi della vicenda Sebai, il tunisino che negli anni ’90 seminò il terrore tra Puglia e Basilicata uccidendo quattordici anziane signore. I gravissimi fatti di sangue hanno dato adito ad una complicatissima vicenda giudiziaria ancora in gran parte sub iudice. Difatti, insieme al serial killer tunisino sono finiti in carcere con pesanti condanne altre persone la cui colpevolezza, alla luce dello stato delle indagini, risulta essere più che dubbia. Di questi Tinelli e Faiuolo attendono ancora che la giustizia restituisca la libertà, mentre un terzo, Vincenzo Donvito, si è drammaticamente suicidato in carcere nel 2005 dopo essersi sempre proclamato innocente.

Il calvario di Giuseppe Tinelli non conosce fine. In carcere dal 1996 per l’omicidio Valente, sfiancato da una lunga attesa che la giustizia faccia il suo corso, il Tinelli ha recentemente subito due gravissimo lutti familiari, consumatisi, per volontà della sorte beffarda, nel giro di sole 48 ore. Sono infatti venute a mancare Carmine Palmisano ed Elena Tinelli, rispettivamente madre e sorella del reo confesso (obbligato, come risulta dalle carte). La signora Palmisano era tra le persone coinvolte nella scia di sangue che negli anni ’90 terrorizzò la Puglia; un groviglio di omicidi che ancora attende una verità materiale che superi quella processuale. E gli avvocati non hanno dubbi; la verità è che gli omicidi seriali hanno un solo autore, Ezzedine Sebai.

La Palmisano era stata condannata per favoreggiamento nell’omicidio Valente ed aveva finito di scontare la sua pena. «Il coinvolgimento di terzi in questa sequela di omicidi urta contro le risultanze di una perizia della dott. Riccadonna che proverebbe l’azione unilaterale nell’omicidio Valente, così come in tutti gli altri per cui il Sebai si è dichiarato colpevole - dice l’Avvocato De Filippi, legale di fiducia di Giuseppe Tinelli - Elena Tinelli si trovava invece in carcere per atti osceni in presenza di minori. Le circostanze della sua morte sono attualmente oscure, la famiglia Tinelli chiederà l’autopsia, si dovrà verificare il diario clinico della donna per accertare se questa morte si poteva evitare - prosegue l’avvocato. - Già la famiglia Tinelli, una famiglia sfortunata, che ha incrociato i dardi della mala giustizia e che ancora ne paga le conseguenze nella persona di Giuseppe Tinelli. Il mio assistito è ovviamente molto toccato dal doppio lutto, ma quello che mi ha sorpreso durante l’ultimo colloquio che ho avuto con lui, è stata la sua determinazione, e la sua volontà di portare avanti la sua battaglia» - afferma il De Filippi. Una battaglia che si combatte nelle aule di Tribunale e che si appresta ad arricchirsi di nuovi capitoli e colpi di scena. L’ultimo è il ritrovamento di una perizia del tribunale penale di Foggia, datata 1997 (quando ancora non si parlava di omicidi seriali). Nella perizia si riferisce che l’autore degli omicidi di Madonna Celeste, Garbetta Giuseppina, Totaro Maria e Stella Anna Maria è con ogni probabilità straniero ed estraneo alla Puglia. Tutti gli omicidi considerati presentano il medesimo modus operandi, tutti riconducibili univocamente ad un unico soggetto. L’assassino ha sempre agito con coltellate al collo, ma i magistrati allora non dettero evidentemente peso alla perizia, nè la confrontarono con gli elementi probatori emersi durante le indagini relative ai casi Lodovico e Valente. «Non tutti gli omicidi sono stati però consumati in maniera materialmente identica, in alcuni casi il killer era privo del pugnale, oppure ha dovuto confrontarsi con la ribellione della vittima - dice De Filippi - Paradigmatico è l’omicidio Commesatti, consumato mediante strangolamento. Questa perizia rappresenta una prova regina che dovrebbe far riflettere bene i giudici di Taranto per una pluralità di elementi, in primis, per la sua datazione, anteriore ad ogni ipotesi relativa alla presenza di un serial killer. Il caso Stano è sicuramente una delle maggiori stranezze che si sono viste in tutta questa vicenda. I magistrati della Procura di Taranto, a colloquio con il Sebai gli dissero che lui era già stato condannato per questo omicidio, Sebai invece, fece presente agli inquirenti che non era stato condannato per questo omicidio. Ora, la pronuncia che attendiamo dai giudici di Taranto sarà di fondamentale importanza; se, come auspico, verrà riconosciuta la colpevolezza del Sebai, allora significa che il cerchio si va stringendo ancora di più. L’eventuale pronuncia di colpevolezza di Sebai è destinata a dispiegare la sua efficacia anche su agli altri processi pendenti e precisamente su quelli in cui gli inquirenti hanno portato avanti tesi innocentiste sul tunisino, i casi Commesatti e Montemurro. Ovviamente mi sembra evidente che la Corte d’assise d’appello di Taranto dovrà sentire tutti i protagonisti di questa vicenda, da Tinelli a Faiuolo a Sebai. Sarà poi compito dei giudici chiarire alcuni aspetti relativi alle modalità dell’uccisione e al movente, elementi che sono stati trascurati in primo grado. Spero che Taranto segua l’esempio della Corte d’appello di Bari, che in seguito all’apertura della revisione della posizione di Faiuolo ha constatato la necessità di acquisire le dichiarazioni di tutti i protagonisti e in particolare del Sebai, che, ha sempre dichiarato, di non aver mai visto Tinelli in vita sua». Non che a Bari non vi siano stati problemi di sorta; dopo che il Procuratore era forse in procinto di chiedere la sospensione per Faiuolo, è intervenuto un provvedimento della Corte d’assise d’appello di Bari che ha arrestato l’iter procedurale. Un provvedimento più volte definito “abnorme” da De Filippi, e infine dichiarato nullo dalla Cassazione. Ma in seguito alla dichiarazione la Corte d’appello di Bari ha denegato la sua competenza territoriale; “un provvedimento ancora più abnorme, la revisione è un diritto del Faiuolo, i giudici stanno dicendo “non liquet”, stanno negando la giustizia”. L’avvocato De filippi ha dunque dovuto procedere nuovamente mediante ricorso per Cassazione, ma questa volta ha chiesto alla Suprema Corte, che il processo di revisione di Faiuolo venga spostato lontano dalla Puglia, “il più lontano possibile, anche al nord”.

Continua dunque la battaglia di Tinelli, Faiuolo e del loro legale affinchè emerga la verità. Una verità scomoda per molti perché rivelerebbe in un sol colpo mille mali dell’italica giustizia, eppure una verità necessaria per restituire la libertà a dei giovani innocenti. Ma per portare a galla questa verità bisognerà scardinare quelle apodittiche tesi circa la mitomania del Sebai che ancora fanno breccia presso alcuni magistrati di Taranto. La sensazione è che questo triste capitolo di cronaca giudiziaria sia lungi dall’archiviarsi in tempi brevi.

In questa sede, è nostra ferma intenzione rendere omaggio alla storia di Vincenzo Donvito, ripercorrendo la sua vicenda attraverso il racconto di un “testimone” illustre, il suo legale di fiducia Avv. Danilo Dinoi, nella speranza sempre viva nell’animo di chi pratica l’attività giornalistica, che questi “frammenti” possano innescare un circolo virtuoso all’interno dei palazzi di giustizia e, in via più immediata, a riportare all’attenzione del circo mediatico, una vicenda finita troppo presto nell’oblio.

Avvocato, A beneficio dei nostri lettori, ripercorriamo l’iter fattuale e processuale “kafkiano” affrontato da Vincenzo Donvito, dal suo principio fino al suo tragico epilogo.

Vincenzo Donvito, ad oggi risulta essere l’autore di un omicidio nel suo paese, ma è purtroppo noto che egli risulta essere la vittima di questa storia nonostante si sia proclamato innocente fino all’ultimo, fin quando ha deciso di farla finita e di togliersi la vita nel carcere. Oggi abbiamo comunque fiducia nella possibilità che gli possa essere resa giustizia, e questa fiducia diventa sempre più fondata, in quanto nell’udienza del 18 maggio 2011, la Corte di Assise d’appello di Taranto, all’esito della discussione in aula ha ritenuto che allo stato degli atti, e quindi anche in riferimento all’omicidio della signora Commesatti, non sia possibile decidere ed hanno quindi chiesto l’acquisizione di tutte le sentenze passate in giudicato relative ai vari omicidi commessi dal Sebai a danno di donne anziane. Dunque allo stato degli atti, viene sconfessata la sentenza di primo grado del giudice monocratico (GUP) di Taranto, il quale aveva riconosciuto il Sebai innocente per tre omicidi per cui erano state condannate altre persone su richiesta della Procura della Repubblica di Taranto. Questo significa anche che le deposizioni del Sebai sono ritenute credibili analogamente a come giudicate in altre processi. Nell’udienza di maggio vi è stata in effetti l’ennesimo riscontro positivo delle dichiarazione del Sebai il quale aveva confessato 15 omicidi. In particolare il Sebai aveva dichiarato che l’ultimo omicidio fosse avvenuto a Foggia, ma nella data apparsa sugli atti non risultava avvenuto alcuno omicidio. Grazie all’intraprendenza del Procuratore di Foggia Vaccaro, è stato possibile rintracciare la signora Aprile, la quale risultava essere stata effettivamente aggredita dal Sebai, ma che era rimasta incolume e fortunatamente solo svenuta. Dunque anche le indagini di Foggia hanno fornito un riscontro positivo delle dichiarazioni di Sebai. Sempre a Foggia, è stata effettuata una perizia su una scatola di caramelle “Rossana” sequestrata all’epoca di un altro delitto. L’esito della perizia ha dato la possibilità di rintracciare le impronte digitali del Sebai sulla scatola. Rimangono ancora irrisolti i casi per cui a Taranto sono state condannate altre persone. Ripeto però che l’udienza del 18 maggio ha segnato un fondamentale ripensamento da parte dei magistrati giudicanti, i quali, attraverso il confronto con le altre sentenze, potranno ottenere i riscontro necessari con le dichiarazione del Sebai, e confermare le tesi della difesa dei soggetti condannati in luogo del Sebai, il quale risulta essere un vero e proprio serial killer.

La morte di Donvito nel 2005 ha costituito un momento di svolta nell’iter processuale. Essa ha dato adito alla confessione del Sebai e alla riapertura delle indagini relative al caso Commesatti. Eppure, dopo 6 anni, questa abnorme vicenda giudiziaria pare essere ostaggio dell’elefantiasi burocratica che governa le procure. La vicenda è stata oggetto di un’interrogazione a risposta in commissione giustizia alla Camera (a firma Rita Bernardini del Pd) in data 10 novembre 2008, rivolta al ministro Alfano affinchè proceda alle rituale ispezioni all’interno della Procura di Taranto. Nonostante le richieste formulate in tal senso anche dal legale di Tinelli e Faiuolo Avv. De Filippi, lo stato del processo sembra sempre avanzare in tempi biblici. Secondo lei questi meccanismi sono da imputare a gravi negligenze all’interno degli uffici giudiziari ed in particolare all’interno della Procura di Taranto.

Vorrei precisare che l’intenzione di Sebai di confessare l’omicidio Commesatti risaliva già al 2005, ma purtroppo non c’è stato il tempo materiale di far pervenire la notizia a Donvito. Alla domanda è comunque difficile rispondere, e le spiegherò il perché. Noi riteniamo che in primo grado siano stati commessi dei gravissimi errori di valutazione, non me la sento però di attribuire ulteriori responsabilità ai vari magistrati che si sono occupati del caso. Gli errori come accennato si sono verificati in particolar modo nel processo di primo grado, non è stato dato adeguato peso infatti a quanto emergeva dall’istruttoria dibattimentale, non sono stati valutati adeguatamente i documenti che erano all’interno del fascicolo processuale. La Corte d’assise d’appello di Taranto sta invece confermando di aver compreso il valore di determinati documenti e di determinati fatti, e di valutarli in maniera più adeguata. Voglio ribadire ancora una volta che alla luce della requisitoria del Procuratore generale nell’udienza del 18 maggio, l’impossibilità di non decidere allo stato degli atti è un passo avanti decisivo. La sentenza che chiuderà il processo ci dirà quanto e come siano state errate le valutazioni della procura e dei magistrati giudicanti effettuate anni addietro.

Questa vicenda ha sicuramente messo in luce le lacune del sistema giudiziario italiano. Quali sono secondo lei, da operatore del diritto, i meccanismi più adeguati da introdurre in sede di riforma del processo penale e del Codice di Procedura Vassallo del 1988? La riforma della giustizia, di cui si fa spesso un gran parlare, dovrebbe concentrarsi sulla modifica della revisione giudiziale delle sentenze passate in giudicato e su una più celere definizione del procedimento? Cosa pensa inoltre dell’eventuale meccanismi che sanciscano nel nostro Ordinamento la responsabilità dei magistrati per gli errori giudiziari?

Dobbiamo distinguere i differenti piani di analisi. Per quanto concerne ciò che è accaduto in primo grado nel caso di specie, sarebbe bastata una più accurata attività investigativa al principio. Faccio esempio, semplice e banale ma dai risvolti nefasti: nel caso di Donvito e del delitto Commesatti non furono ad esempio rilevate le impronte digitali nella abitazione che ha costituito la scena del crimine. Rilevamento che era invece stato effettuato per un caso parallelo dalla Procura di Foggia. Proprio in virtù di questa “ovvia” accortezza investigativa, i tempi processuali a Foggia hanno seguito ritmi molto più spediti. Grazie alla conservazione dei referti presso la Procura, si è potuto risalire alle impronte di Sebai. Noi riteniamo che, in analogia a gli altri omicidi avvenuti in abitazioni, anche nella dimora della signora Commesatti sarebbe stato possibile rintracciare le impronte digitali del Sebai. Purtroppo non è mai stato effettuato alcun prelievo in loco. Questa lacuna emerge sia dall’istruttoria dell’epoca sia da un altro elemento a dir poco paradossale: dopo 10 giorni dall’omicidio della signora Commesatti, i Carabinieri hanno fatto analizzare delle tracce ematiche che erano stato rilevate sul copri divano della defunta signora. Questo copri divano era stato fatto recapitare alle autorità investigative dal nipote della signora che stava effettuando le pulizie all’interno dell’abitazione. Io non voglio attribuire responsabilità a nessuno, ma i fatti parlano chiaro; quando le indagini vengono svolte con tutti i crismi e la perizia necessaria, i risultati possono arrivare. Per questo motivo io non ritengo necessario apportare modifiche al Codice di Procedura Penale, si tratta semplicemente di applicarlo. Per quanto concerne invece la problematica cui lei ha fatto riferimento, afferente ai meccanismi di revisione giudiziale, la problematica è differente. In quel settore qualcosa va sicuramente modificato, in quanto non si può aspettare una sentenza contraria affinchè la magistratura possa nuovamente pronunciarsi e riconoscere gli errori commessi. Bisognerebbe avere un più libero accesso valutativo per addivenire ad una revisione processuale. Ma questo potrebbe essere un ulteriore carico che difficilmente, ad oggi, il sistema giudiziario potrebbe sopportare. Il problema di fondo è che gli organi giudiziari devono poter agire serenamente per adempiere diligentemente il loro dovere.

Passiamo a delle domande meno “tecniche”. Le va di condividere con noi un ricordo di Vincenzo Donvito? Quale era in particolare la personalità del suo assistito e quali circostanze lo hanno portato ad una opzione così drammatica.

Donvito, anche a detta dei suoi parenti, era una persona piena di vita. Era un giovane che all’epoca dei fatti aveva un problema, in quanto assumeva anche sostanze stupefacenti, ciò era indice di una sua carenza di serenità, ma ciò non intaccava la sua “voglia di vivere”. Spesse volte in gioventù il mondo della tossicodipendenza attira gli animi sensibili (ma con ciò non voglio dire che tutti gli animi sensibili facciano uso di droghe) e Vincenzo Donvito era una persona di elevatissima e spiccata sensibilità. Egli aveva anche creduto nella giustizia finchè si è mantenuta viva la speranza. In virtù della decisione da lui presa mi sento di paragonarlo ad un personaggio Shakespeariano, egli è stato vinto “dai dardi dell’oltraggiosa fortuna”, quando ha capito che non c’era più nulla da fare, ha deciso di porre in essere il gesto che aveva già preannunciato durante la sua ultima dichiarazione processuale. Il dolore più grande per Donvito, ancor più grande della prospettiva di passare 24 anni in carcere, era quello di essere ritenuto un assassino, cosa che lui non era assolutamente. Il ricordo più grande di Donvito dovrebbe essere questo: un forte attaccamento alla verità e un’ansia vera e profonda di giustizia. Mi sento di accostare a lui la virtù della “beatitudine evangelica”, nel senso di originario di virtù accostata a chi ha sofferto molto ed ingiustamente.

Un ultima domanda: la vicenda di Sebai e dunque quella connessa degli innocenti che hanno intrecciato le loro storie con quella del serial killer tunisino, sembra essere completamente dimenticata dal circuito mediatico, che pure spesso non si tira indietro dal puntare i riflettori su vicende dal sapore analogo. Tanto per rimanere in terra di Puglia, pensiamo all’attenzione riservata dai media all’omicidio di Sarah Scazzi, o, qualche anno addietro, a quella della scomparsa e poi della morte dei “gemellini” in Provincia di Bari. Cosa spiega secondo lei questa vera e propria “asimmetria informativa”?

E’ stata dimenticata per più motivi: in primis perché mancano gli elementi di morbosità, le vittime sono esclusivamente signore anziane e ciò spiega in parte il minore appeal mediatico della vicenda. Sotto altro profilo suppongo che sia difficile per l’opinione pubblica confrontarsi con l’evidenza di errori giudiziari a seguito di sentenze passate in giudicato. Per questi motivi mi sembra quasi fisiologico che i media attendano da tempo sviluppi prima di concentrarsi nuovamente su questa questione. Fortunatamente ci sono delle lodevoli eccezioni come la “battaglia di civiltà” portata avanti da IlDemocratico, consistente nel tenere i riflettori accesi su quei dinieghi di giustizia nel nostro paese. Anche se è difficile prendere posizioni su argomenti così delicati credo che mantenere vivi i riflettori su questa.

INTERROGAZIONI PARLAMENTARI

Atto Camera

Interrogazione a risposta in Commissione 5-00589

presentata da RITA BERNARDINI lunedì 10 novembre 2008, seduta n.082

BERNARDINI. - Al Ministro della giustizia - Per sapere - premesso che:

tra il 1994 ed il 1997 in Puglia vi furono quindici omicidi di donne anziane che vivevano da sole, per i quali vennero arrestate 7 persone, delle quali due sono ancora in carcere;

i suddetti omicidi avvennero tutti con le stesse modalità, tanto che anche i giornali dell'epoca formularono l'ipotesi del serial killer. Ipotesi non seguita dai magistrati inquirenti, che rinviarono a processo e condannarono molteplici imputati;

in particolare, per l'omicidio della signora Celeste Commesatti, avvenuto in Palagiano (Taranto) il 13 agosto 1995, furono condannati Giuseppe Tinelli, Davide Nardelli e Vincenzo Donvito;

Giuseppe Tinelli è recluso presso il carcere di Ivrea da 11 anni, Davide Nardelli ha scontato 7 anni di carcere e Vincenzo Donvito in data 21 luglio 2005, si è tolto la vita all'interno del carcere di Castogno, nei pressi di Teramo, dopo aver scontato 7 anni di carcere. Donvito aveva sempre proclamato, inutilmente, la propria innocenza e si è determinato a togliersi la vita non potendo più reggere il peso di una ingiusta detenzione;

per l'omicidio della signora Pasqua Ludovico avvenuto a Castellaneta il 14 maggio 1997, sono stati condannati Vincenzo Faiuolo (che da 12 anni sconta la propria pena ed attualmente è ristretto presso il carcere di Volterra) e Francesco Orlandi (attualmente in regime di libertà vigilata, dopo aver scontato 11 anni di carcere);

per l'omicidio della signora Maria Valente, avvenuto a Palagiano in data 29 luglio 1997, sono stati condannati Giuseppe Tinelli, Arcangela Tinelli, Carmina Palmisano e Sebai Ezzadine Ben Mohamed;

in riferimento ai fatti narrati, in epoca successiva alle condanne, sono emerse nuove e decisive prove, volte a dimostrare l'erroneità delle condanne impartite e l'effettiva esistenza di un unico serial killer. Infatti, in data 10 febbraio 2006, Sebai Ezzadine Ben Mohamed, già condannato a quattro ergastoli perché ritenuto responsabile dell'uccisione di quattro donne anziane, rendeva la propria confessione davanti al Procuratore della Repubblica di Milano, dottor Alberto Nobili, ammettendo la propria responsabilità in ordine ai quindici omicidi, tra i quali anche quelli relativi alle signore Celeste Commesatti, Pasqua Ludovico e Maria Valente;

il Sebai si determinò a rendere tale confessione per liberarsi la coscienza a seguito del suicidio del Donvito, scagionando completamente le persone condannate per i fatti sopra menzionati. Il Sebai, infatti, ha così dichiarato: «è mia intenzione ammettere le mie responsabilità in ordine a quindici omicidi. Preciso che per quattro omicidi sono già stato condannato in ciascun caso alla pena dell'ergastolo nel mentre sono responsabile anche per altri undici omicidi. Per alcuni di questi omicidi so che sono state condannate persone innocenti e quindi voglio liberarmi la coscienza da questo peso»;

le sue dichiarazioni sono state molto dettagliate, precise e concordanti in quanto lo stesso ha fornito puntuali descrizioni non solo circa le modalità degli omicidi, ma anche con riferimento ai luoghi ed alla refurtiva. Tali descrizioni hanno trovato oggettivi riscontri. In particolare, per quanto riguarda la refurtiva sottratta alle vittime, è da sottolineare come le dichiarazioni del Sebai abbiano portato al ritrovamento di parte della stessa presso la sua abitazione e presso un ricettatore al quale il Sebai l'aveva venduta;

nella sua confessione Sebai Ezzadine Ben Mohamed narra della sua infanzia difficile, dei maltrattamenti che riceveva in famiglia e di come fosse dedito all'alcolismo sin da piccolo nonché delle rapine che ha iniziato a fare dall'età di 12 anni a danno prima dei suoi familiari e successivamente a danno di donne anziane sole, e di come agisse sempre sotto l'effetto dell'alcool;

in particolare, riguardo all'omicidio di Celeste Commesatti, per il quale sono stati ingiustamente condannati Giuseppe Tinelli, Davide Nardelli e Vincenzo Donvito, il Sebai narrò di come l'avesse uccisa strangolandola con le proprie mani fornendo una dettagliata descrizione dei luoghi;

in data 3 giugno 2006 il Sebai confermava la sua confessione in modo ancor più dettagliato, davanti alla dottoressa Pina Montanaro, PM di Taranto, e le sue dichiarazioni vennero verificate e confermate dagli inquirenti, tanto che si determinarono ad aprire a carico del Sebai un ulteriore procedimento penale, recante RG n. 386/06, relativo all'omicidio di Celeste Commesatti e di Pasqua Ludovico;

la prossima udienza per il processo de quo, dopo una serie di rinvii d'ufficio, è stata fissata per il giorno 22 novembre 2008, davanti al GUP dottor Ingenito;

l'avvocato del Sebai ha formulato istanza di rito abbreviato, anticipando che la sua richiesta sarà comunque di condanna in quanto sarà volta all'accertamento della parziale incapacità di intendere e di volere del Sebai, all'epoca dei fatti contestati, e non la sua incapacità totale;

per l'omicidio di Celeste Commesatti e Pasqua Ludovico, Faiuolo è ancora detenuto presso il carcere di Volterra, mentre Orlandi ha scontato la pena ed è stato scarcerato nel giugno di quest'anno, avendo ancora da scontare tre anni di libertà vigilata;

la procura di Taranto ha rinviato il Sebai a giudizio per l'omicidio della signora Celeste Commesatti e della signora Pasqua Ludovico, ma non per la signora Maria Valente, per il quale il Sebai era già stato condannato unitamente a Giuseppe Tinelli, Arcangela Tinelli e Carmina Palmisano, ritenendo impossibile processare nuovamente il Sebai per lo stesso omicidio, secondo il principio del ne bis in idem. Non ha però preso in considerazione il fatto che, in relazione a detto omicidio, sono stati condannati anche Giuseppe Tinelli (ad oggi ancora ristretto presso il carcere di Ivrea), Arcangela Tinelli e Carmina Palmisano;

a questo proposito preme sottolineare come la Procura generale di Taranto avrebbe potuto e, secondo gli interroganti, dovuto chiedere la revisione penale della sentenza che vedeva condannati ingiustamente, per l'omicidio della Valente, il Sebai unitamente agli altri tre summenzionati imputati, in quanto questi sono stati scagionati dalle dichiarazioni confessorie di Sebai Ezzadine Ben Mohamed, ed alcuni di loro stanno ancora scontando un'ingiusta pena;

a seguito delle dichiarazioni confessorie formulate da Sebai Ezzadine Ben Mohamed, in riferimento alla posizione di Giuseppe Tinelli l'avvocato Claudio Defilippi, difensore di quest'ultimo ha proposto istanza di revisione presso la Corte d'Appello di Potenza, presentata in data 2 settembre 2008, avverso la sentenza n. 05.1998 che lo riteneva colpevole, in concorso con Davide Nardelli e Vincenzo Donvito, dell'omicidio della signora Celestina Commesatti (omicidio avvenuto in Palagiano il 13 agosto 1995) ed una successiva istanza di revisione volta ad ottenere la revoca della sentenza n. 06 del 2002 che lo riteneva colpevole, in concorso col Sebai Ezzedine, in qualità di esecutori materiali dell'omicidio di Maria Valente (omicidio avvenuto in Palagiano il 29 luglio 1997);

la prima istanza di revisione è stata rigettata dalla Corte d'Appello di Potenza che ha ritenuto inesistente un contrasto di giudicati, non essendo ancora pervenuti ad una sentenza di condanna definitiva in ordine ai fatti dei quali si è autoaccusato il Sebai. Sulla seconda istanza di revisione non è ancora pervenuta alcuna decisione da parte della Corte d'Appello di Potenza;

anche in riferimento alle posizioni di Vincenzo Faiuolo e Francesco Orlandi l'avvocato Claudio Defilippi ha presentato due istanze di revisione davanti alla Corte d'Appello di Potenza, volte ad ottenere la revoca della sentenza che li ha ritenuti responsabili, in concorso tra loro, dell'omicidio di Pasqua Ludovico;

anche in riferimento all'istanza presentata per conto di Faiuolo non è ancora stata comunicata alcuna decisione, ma è stata rigettata la revisione proposta a favore di Orlandi per gli stessi fatti;

le dichiarazioni confessorie del Sebai Ezzadine Ben Mohamed, a seguito delle quali lo stesso è stato mandato a giudizio per gli stessi fatti, evidenziano la possibilità dell'esistenza di gravi errori giudiziari. Si tenga presente, a questo proposito, che sono già stati comminati a persone presumibilmente innocenti complessivi 100 anni di carcere, con il conseguente pericolo per lo Stato italiano di dover pagare ingenti somme a titolo di risarcimento per detti errori giudiziari -:

se i tempi relativi al procedimento a carico di Sebai Ezzadine Ben Mohamed davanti al GUP dottor Ingenito, volto ad accertare le responsabilità dell'imputato per l'omicidio di Celestina Commesatti e Pasqua Ludovico, siano coerenti con i tempi medi di svolgimento dei giudizi nel medesimo tribunale e, nel caso in cui si rilevi l'abnormità della dilatazione dei medesimi, se non intenda disporre un'ispezione presso il citato tribunale di Taranto al fine dell'esercizio dei poteri di competenza;

se intenda inviare un'ispezione presso la procura generale presso la Corte di Appello di Taranto al fine di verificare i motivi per cui la stessa, alla luce delle dichiarazioni confessorie rilasciate da Sebai Ezzadine Ben Mohamed, non abbia ritenuto necessario formulare istanza di revisione delle sentenze che hanno visto condannati Giuseppe Tinelli (attualmente in carcere da 11 anni), Arcangela Tinelli e Carmina Palmisano in relazione all'omicidio di Maria Valente, omicidio per il quale era già stato condannato anche Sebai Ezzadine Ben Mohamed;

se intenda inviare un'ispezione presso la Corte d'Appello di Potenza per comprendere i motivi in base ai quali detta Corte non abbia concesso, pur avendone la facoltà la provvisoria scarcerazione di Vincenzo Faiuolo e di Giuseppe Tinelli, detenuti da oltre 11 anni, nonostante sussista il fumus relativo alla loro innocenza. (5-00589)

Martedì 13 ottobre 2009. - Presidenza del vicepresidente Federico PALOMBA. - Interviene il sottosegretario di Stato per la giustizia Giacomo Caliendo. La seduta comincia alle 12.50.

Il sottosegretario Giacomo CALIENDO risponde all'interrogazione in titolo nei termini riportati in allegato (vedi allegato 1).

5-00589 Bernardini: Sulle vicende giudiziarie relative a quindici omicidi di donne anziane commessi in Puglia tra il 1994 ed il 1997.

TESTO DELLA RISPOSTA

Con riferimento all'interrogazione indicata in oggetto, si comunica che Sebai Ezzedine Ben Mohamed, di nazionalità tunisina, già condannato alla pena dell'ergastolo per omicidi commessi negli anni novanta, rendeva spontanee dichiarazioni in data 10 febbraio 2006, nel procedimento 686/2006 mod. 45, avanti al Pubblico Ministero della D.D.A. di Milano, dottor Alberto Nobili, poi reiterate quale persona sottoposta ad indagini nel procedimento penale 7133/2006 mod. 21. In tali dichiarazioni costui confessava quindici omicidi a scopo di rapina (per taluni dei quali era già stato a suo tempo sottoposto a procedimento penale da solo o in concorso con altri) commessi nell'anzidetto periodo nei circondari di Foggia (in danno di Barbetta Giuseppina e Stella Annamaria), Taranto (in danno di Anna Stano, Grazia Montemurro, Ludovica Pasqua, Rosa Lucia Lapiscopia e Celeste Commessatti), Melfi (in danno di Petronilla Vernetti), Lucera (in danno di Celeste Madonna) e Trani (in danno Leona Santa).

In conseguenza di tali dichiarazioni, il Procuratore della Repubblica di Milano trasmetteva i relativi procedimenti agli uffici requirenti competenti per territorio; detti uffici avviavano le indagini relative agli omicidi prima menzionati accludendo gli atti dei procedimenti già definiti con esiti vari (sentenze di condanna o di assoluzione passate in giudicato, ovvero decreti di archiviazione «per essere rimasti ignoti gli autori del reato»).

I difensori dei soggetti condannati con sentenza irrevocabile per gli omicidi citati presentavano istanze di revisione alle competenti Corti di Appello, che però venivano dichiarate inammissibili per i motivi illustrati in modo specifico nei vari provvedimenti, nei quali si rilevava, in sostanza, l'assenza di un giudicato circa la responsabilità dell'autore della confessione, in contrasto con quello già formatosi.

Al riguardo, il Procuratore della Repubblica di Taranto ha comunicato che a seguito di tali dichiarazioni autoaccusatorie sono stati instaurati presso detto Ufficio i seguenti procedimenti penali:

n. 4082/06 Mod. 21, relativo all'omicidio di Ludovico Pasqua (per il quale erano stati condannati in precedenza Faiuolo Vincenzo e Orlandi Francesco, entrambi rei confessi) e all'omicidio di Montemurro Grazia;

n. 4081/06 Mod. 21, relativo all'omicidio di Commessatti Celestina (per il quale era stato condannato in precedenza Donvito Vincenzo, come da procedimento n. 7/96 Mod. 21 già instaurato dallo stesso Pubblico Ministero);

n. 2833/97 Mod. 21, relativo all'omicidio di Lapiscopia Rosa, per il quale il Pubblico Ministero aveva chiesto ed ottenuto l'archiviazione dell'indagine nei confronti del Sebai, già indagato per quel fatto, poiché gli elementi a carico del predetto, pur se dotati di una certa concretezza, non avrebbero consentito di sostenere l'accusa in dibattimento. A seguito della dichiarazione autoaccusatoria del Sebai, il medesimo Pubblico Ministero provvedeva a chiedere ed ottenere l'autorizzazione alla riapertura delle indagini.

Per tutti i tre procedimenti di cui sopra, i Pubblici Ministeri assegnatari hanno avanzato richiesta di rinvio a giudizio in data 9 maggio 2007, 18 giugno 2007 e 10 ottobre 2007.

Nel corso dell'udienza davanti al GUP, svoltasi con rito abbreviato, i Pubblici Ministeri hanno concluso chiedendo l'assoluzione del Sebai per gli omicidi di Ludovico Pasqua, Montemurro Grazia e Commessatti Celestina, poiché gli elementi a sostegno dell'accusa non avevano evidenziato un complesso di acquisizione probatoria tale da giustificare la condanna dell'imputato.

Il Pubblico Ministero, invece, evidentemente ritenendo che l'autoaccusa del Sebai in relazione all'omicidio Lapiscopia valesse ad integrare il quadro giudiziario già esistente, che tuttavia all'epoca non gli aveva consentito di insistere per il rinvio a giudizio, avanzava richiesta di condanna allo stesso GUP.

Tanto premesso in relazione a tale complessa vicenda processuale e passando a rispondere al primo dei quesiti posti, posso far presente che il GUP del Tribunale di Taranto ha fornito esaustivi dati informativi in ordine ai tempi ed agli sviluppi dell'udienza preliminare, relativa al procedimento penale n. 3407/07 R. GIP, connesso a quello in cui gli eredi di Vincenzo Donvito, già condannato per taluni omicidi, hanno intrapreso giudizio di revisione.

In particolare è stato riferito che all'udienza del 4 dicembre 2007 la difesa ha chiesto un aggiornamento del processo per riunire il procedimento con altri pendenti sempre nei confronti del SEbai. All'udienza del 14 febbraio 2008 il GIP procedeva alla riunione di uno dei procedimenti in questione e la difesa insisteva per la riunione degli altri procedimenti.

La trattazione del procedimento n. 3407/07 R. GIP, a causa della legittima assenza in data 6 maggio 2008 del GIP assegnatario, in congedo ordinario, fu rinviata all'udienza del 14 ottobre 2008.

In tale udienza, riuniti tutti i procedimenti sopra indicati, assente l'imputato - detenuto per altro in località del Nord e «rinunciante» a presenziare al giudizio - la difesa, sfornita di valida procura speciale, annunciava la volontà di chiedere che la trattazione del procedimento proseguisse con le forme del giudizio abbreviato «condizionato». L'assenza di una valida procura speciale determinava l'opportunità di rinviare a breve la trattazione per consentire alla difesa la regolarizzazione della procura e la corretta formulazione dell'annunciata istanza.

All'udienza del 28 ottobre 2008, l'istanza, così come proposta dal procuratore speciale - ancora assente l'imputato, nuovamente «rinunciante» - veniva respinta e si disponeva che la trattazione del procedimento proseguisse con le forme del giudizio abbreviato, giusta richiesta tempestivamente avanzata dal medesimo procuratore speciale. Subito dopo, la difesa manifestava l'intenzione dell'imputato di rendere interrogatorio e, conseguentemente, si disponeva un ulteriore rinvio all'udienza straordinaria, all'uopo fissata.

In data 21 novembre 2008, Sebai Ezzedine, tradotto dalla Casa circondariale in cui era detenuto, veniva interrogato nel corso dell'udienza tenutasi dalle ore 10,50, alle ore 14,25. La lunghezza dell'atto, tenuto conto della molteplicità dei fatti narrati in relazione a quattro omicidi, impediva l'immediata discussione. Va precisato, al riguardo, che tutti i soggetti processuali erano d'accordo ad acquisire preventivamente la fono trascrizione dell'udienza e il procedimento veniva quindi rinviato al 19 dicembre 2008. Svolta l'udienza del 19 dicembre 2008 in cui il Pubblico Ministero chiedeva un integrazione probatoria, respinta dal GIP, il procedimento era rinviato a quella dell'8 gennaio 2009, nella quale il difensore del Sebai sollevava eccezione di incostituzionalità dell'articolo 52 del codice di procedura penale nella parte in cui prevede la facoltà e non l'obbligo del Pubblico Ministero di astenersi, avendo tutti e tre i Pubblici Ministri titolari dei procedimenti riuniti trattato in passato procedimenti relativi agli stessi fatti-reato e/o comunque procedimenti il cui il Sebai era o indagato o imputato o persona offesa.

Il GUP del Tribunale di Taranto rigettava tale eccezione, ritenuta manifestamente infondata, e il procedimento in questione si concludeva, con rito abbreviato, con sentenza n. 105/09 del 13 febbraio 2009 (depositata il 16 aprile 2009), con la quale il Sebai, riconosciuto colpevole dell'omicidio di Lucia Lapiscopia, è stato condannato alla pena dell'ergastolo, mentre è stato assolto per gli omicidi di Pasqua Ludovico, Grazia Montemurro e Celestina Commessatti per non aver commesso il fatto.

Peraltro, deve al riguardo chiarirsi che il Pubblico Ministero, nel corso della discussione ha espressamente chiesto che gli atti fossero trasmessi all'Ufficio Requirente per procedere per il reato di autocalunnia nei confronti del Sebai ed il GIP ha disposto in conformità. In conseguenza di ciò, la Procura di Taranto ha quindi iscritto un procedimento penale a carico del Sebai per il delitto di cui all'articolo 369 del codice penale in ordine alle dichiarazioni da lui rese in merito agli omicidi di Ludovico Pasqua, Montemurro Grazia e Commessatti Cristina.

Deve poi evidenziarsi che l'imputato ha proposto appello avverso la suddetta sentenza e gli atti sono stati trasmessi in Corte di Appello - Sezione distaccata di Taranto - il 16 settembre 2009.

Tanto chiarito, si precisa che le competenti articolazioni ministeriali non hanno riscontrato anomalie o ritardi nella trattazione dell'anzidetto procedimento a carico di Sebai Ezzedine, la cui definizione è comunque pregiudiziale rispetto al giudizio di revisione intrapreso dagli eredi di Donvito.

Con riferimento al secondo quesito, riferito all'operato della Procura Generale presso la Corte di Appello di Taranto, l'interrogante chiede quali siano i motivi per cui, alla luce delle dichiarazioni confessorie rilasciate da Sebai Ezzedine Ben Mohamed non sia stata formulata, dalla Procura Generale di Taranto, istanza di revisione delle sentenze che hanno visto condannati Giuseppe Tinelli, Arcangela Tinelli e Carmina Palmisano in relazione all'omicidio di Maria Valente, per il quale era stato già condannato anche lo stesso Sebai Ezzedine Ben Mohamed.

In relazione a tale quesito si osserva come, prima della formazione di un giudicato incompatibile, è rimessa al competente Procuratore Generale la valutazione circa i presupposti di un'eventuale richiesta di revisione di una sentenza di condanna e tale valutazione, espressione dell'attività giurisdizionale, rimane estranea al sindacato disciplinare.

L'interrogante, inoltre, ha censurato l'operato della Corte di Appello di Potenza per non aver concesso, pur avendone la facoltà, la provvisoria scarcerazione di Vincenzo Faiuolo e di Giuseppe Tinelli, detenuti da oltre 11 anni, nonostante sussista il fumus relativo alla loro innocenza.

Su tale quesito sono stati forniti esaustivi dati informativi dal Presidente della Corte di Appello di Potenza, il quale ha trasmesso documentata nota del Presidente della Sezione penale, dalla quale è emerso che le dodici istanze di revisione proposte a seguito delle dichiarazioni autoaccusatorie di Sebai Ezzedine Ben Mohamed, sono tutte state dichiarate inammissibili con provvedimenti puntualmente motivati, tenendo anche conto dei principi fissati in materia dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui «la individuazione di un diverso responsabile del delitto, per il quale l'imputato venne definitivamente condannato, assume la qualità di prova nuova, legittimante la revisione del processo, laddove sia avvenuta mediante sentenza passata in giudicato, che quindi escluda la validità di quello precedentemente formatosi» (cfr. Cass. 30 giugno 2004 n. 31610).

Va precisato, inoltre, che i ricorsi proposti avverso le ordinanze emesse dalla Corte territoriale sono stati tutti rigettati dalla Corte di Cassazione.

In ordine alla medesima vicenda, sono pervenuti numerosi esposti di avvocati, fra cui quelli del difensore di Sebai Ezzedine Ben Mohamed, ma le censure mosse sono riferite all'attività giudiziaria in corso da parte dei pubblici ministeri e dei giudici delle indagini preliminari titolari dei procedimenti penali ricevuti per competenza territoriale dalla Procura di Milano e all'attività già svolta dal magistrati delle Corti di Appello investite delle predette richieste di revisione, giudicate inammissibili.

Alla luce della complessa ricostruzione processuale sin qui operata, nonché dall'esame della voluminosa documentazione acquisita non è emerso alcun profilo suscettibile di rilievo disciplinare nell'operato dei magistrati che si sono occupati delle vicende processuali in argomento.

Non sussistono, infatti, i presupposti per l'adozione di iniziative di carattere ispettivo, dovendosi rilevare che è precluso sindacare in sede amministrativa il merito dei provvedimenti giurisdizionali, ai sensi dell'articolo 2, comma 2 del decreto legislativo 109/06 ed in assenza di indici rilevatori di talune delle ipotesi tipiche indicate nella medesima norma.

Rita BERNARDINI (PD) dichiara di non potersi considerare soddisfatta della risposta del Governo, dalla quale emerge l'immagine precisa di una malattia tutta italiana nel funzionamento della giustizia, a causa della quale alcuni cittadini stanno scontando una pena ingiusta e uno di questi si è tolto la vita. Ricorda, quindi, come nel caso di specie si stia discutendo di un serial killer che ha confessato. La sentenza, tuttavia, ha assolto il Sebai solo per i delitti per cui erano state già condannate altre persone, considerando la sua confessione inattendibile solo per questi casi, salvo ritenerla perfettamente attendibile soltanto per l'unico omicidio che era rimasto privo di autore. Si è quindi applicato ad un serial killer reo confesso un inaccettabile principio di scindibilità della confessione. Ritiene conclusivamente indispensabile che siano adottate tutte le misure affinché questa incresciosa situazione sia risolta in tempi brevi e per evitare che situazioni analoghe si verifichino in futuro.

Federico PALOMBA, presidente, dichiara concluso lo svolgimento delle interrogazioni all'ordine del giorno. La seduta termina alle 13.05.

Atto Camera

Interrogazione a risposta scritta 4-06484

presentata da RENATO FARINA mercoledì 10 marzo 2010, seduta n.297

RENATO FARINA. -  Al Ministro dell'interno, al Ministro della giustizia - Per sapere - premesso che:

davanti alla corte dì Assise di Foggia è in corso il processo di Sebai Ezzedine, di nazionalità tunisina, nei procedimenti penali iscritti ai nn. R.G. 146848/08 e riuniti e R.G. 823/09, per il reato di rapina e tentato omicidio di Aprile Assunta (Foggia, 12 gennaio 1994), e per i reati di rapina e omicidio ai danni di Garbetta Giuseppina (San Ferdinando di Puglia, Foggia, il 30 maggio 1996) e di Stella Anna Maria (Trinitapoli, Foggia, il 1o maggio 1997);

il signor Sebai viene schedato con foto ed impronte sin dal 1991, dai carabinieri di Bolzano. Egli, nel corso delle dichiarazioni rese al sostituto procuratore del tribunale di Milano, dottor Nobili, in data 10 febbraio 2006, e successivamente confermate, a dicembre 2008, davanti al sostituto procuratore del tribunale di Foggia, dottor, Ludovico Vaccaro, ha confessato i seguenti omicidi, compiuti tra il gennaio 1994 ed il settembre 1997:

gennaio 1994, presunta vittima ignota, in assenza di riscontri investigativi, poi identificata a seguito dell'interrogatorio di Sebai avanti al pubblico ministero di Foggia (avvenuto nel dicembre 2008, come citato in premessa) in Aprile Assunta, la quale è l'unica vittima sopravvissuta;

8 luglio 1995, Vernetti Petronilla, anni 83, Melfi (Potenza), assolto;

13 agosto 1995, Commessatti Celeste, anni 83, Palagiano (Taranto), per il quale delitto sono stati condannati Nardelli Davide e Tinelli Giuseppe, minorenni all'epoca del fatto, e Donvito Vincenzo, suicidatosi nel 2006 nella Casa di Reclusione di Teramo;

24 aprile 1996, Madonna Celeste, anni 81, Lucera (Foggia), omicidio irrisolto, nel 2008 Sebai condannato a 18 anni;

30 maggio 1996, Garbetta Giuseppina, anni 72, San Ferdinando di Puglia (Foggia), omicidio irrisolto fino alla confessione di Sebai;

10 agosto 1996, Stano Anna, anni 85, Ginosa (Taranto), ergastolo;

15 gennaio 1997, Totaro Maria, anni 76, Cerignola (Foggia), ergastolo;

5 aprile 1997, Montemurro Grazia, anni 76, Massafra (Taranto), per il quale delitto è stato condannato diciotto anni di reclusione Montemurro Cosimo, nipote della vittima;

1o maggio 1997, Stella Anna Maria, anni 69, Trinitapoli (Foggia), omicidio irrisolto fino alla confessione di Sebai;

9 maggio 1997, Leone Santa, anni 82, Canosa di Puglia (Bari), processato e assolto;

14 maggio 1997, Ludovico Pasqua, anni 86, Castellaneta (Taranto) per il quale delitto sono stati condannati Faiulo Vincenzo e Orlandi Francesco, rei confessi;

28 luglio 1997, Valente Maria, anni 84, Palagiano (Taranto), ergastolo per il quale delitto, oltre all'ergastolo per Sebai, sono stati condannati anche Tinelli Giuseppe e la di lui madre e sorella;

21 agosto 1997, Lapiscopa Rosa Lucia, anni 90, Laterza (Taranto), ergastolo;

27 agosto 1997, Sansone Angela, anni 84, Spinazzola (Bari), ergastolo;

15 settembre 1997, Nico Lucia, anni 75, Palagianello (Taranto), ergastolo;

per il delitto del gennaio 1994, ai danni di Aprile Assunta, unica sopravvissuta delle 15 vittime, quantunque ricoverata in prognosi riservata, gli investigatori non rilevarono le impronte digitali e, inoltre, a dispetto delle accuratissime descrizioni dell'aggressore, fornite dalla vittima, non fu esperita alcuna ricerca fra le foto schedate nel casellario centrale. Un tale accertamento avrebbe potuto impedire tutti i successivi 14 delitti, risalendo ai dati del Sebai schedati sin dal 1991;

per il delitto del 13 agosto 1995, ai danni di Commessatti Celeste, il signor Sebai viene fermato con la refurtiva sottratta alla vittima, viene fotografato, vengono rilevate le sue impronte digitali e poi rilasciato. In tale circostanza, la negligenza investigativa, manifestatasi già nel 1994, assume connotati gravi aprono la strada ai successivi 5 delitti, confessati dal Sebai;

per il delitto del 1o maggio 1997, ai danni di Stella Anna Maria, nel corso delle indagini successive, furono rilevate le tracce di Dna sulle cicche di sigaretta, rinvenute sulla scena del delitto, nonché le impronte digitali. Comparato il Dna a quello di Sebai, risultando negativo, Sebai fu rilasciato senza comparare le impronte digitali. Solo nel 2008, cioè 11 anni dopo, a seguito degli accertamenti disposti dal nuovo sostituto procuratore del tribunale di Foggia, dottor Ludovico Vaccaro, si scoprirà che Sebai aveva lasciato l'impronta sulla scena del delitto Stella. L'accertamento sulle impronte, omesso nel 1997, consente al Sebai lo stato di libertà nel corso del quale compie altri 6 omicidi -:

se i Ministri interrogati dispongano di elementi sulla vicenda, se dagli atti dei Ministeri risulti se siano state assunte iniziative ispettive in relazione ai fatti citati in premessa e, qualora ne sussistano i presupposti, se intendano avviarne. (4-06484)

TARANTO – 8 gennaio 2009 - Il sostituto procuratore del tribunale di Taranto, Maurizio Carbone, ha chiesto la condanna alla pena di 20 anni di reclusione per Ben Mohamed Ezzedine Sebai, il tunisino di 44 anni ritenuto il serial killer delle vecchiette uccise in Puglia negli anni Novanta. La richiesta di condanna, formulata nel corso di un processo con rito abbreviato, riguarda l’omicidio di Rosa Lucia Lapiscopia, di 90 anni, uccisa a Laterza (Taranto) il 21 agosto del 1997. Sebai è già stato condannato con sentenza definitiva a quattro ergastoli per altrettanti omicidi commessi in Puglia, a 18 anni (in primo grado) per un altro delitto compiuto nel foggiano ed ha confessato di aver ucciso altre nove donne. Nel corso del processo in corso a Taranto, che riguarda quattro omicidi di altrettante anziane, un altro pm, Vincenzo Petrocelli, sempre oggi ha chiesto invece l’assoluzione del tunisino dall’omicidio di Celestina Commessatti, di 73 anni, assassinata a Palagiano (Taranto) il 13 agosto 1995. Nella scorsa udienza, invece, il pm Antonella Montanaro aveva chiesto l'assoluzione del serial killer per gli omicidi di Grazia Montemurro, di 75 anni (uccisa a Massafra il 4 aprile 1997), e di Pasqua Rosa Ludovico, di 86 anni (morta a Castellaneta il 14 maggio 1997). Per due magistrati su tre, dunque, Sebai non è credibile. Il tunisino è stato etichettato dalla pubblica accusa come un «mitomane» che vuole scagionare detenuti che ha conosciuto in carcere. Solo l’omicidio Lapiscopia, per il quale è stata chiesta oggi la condanna, era ancora insoluto. Per gli altri delitti erano stati condannati in via definitiva altri imputati che vengono ritenuti «assolutamente innocenti» dai loro difensori.

IL GUP RESPINGE LA RICHIESTA DI SOSPENSIONE DEL PROCESSO
Il gup Valeria Ingenito nel corso dell’udienza ha respinto la richiesta di sospensione del processo e l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 52 del Codice di procedura penale nella parte in cui prevede la facoltà e non obbligo di astensione del pubblico ministero. L'eccezione era stata sollevata dal legale di Sebai, Luciano Faraon. Secondo il difensore, i pm Montanaro e Petrocelli, che hanno chiesto oggi l’assoluzione del tunisino per tre dei quattro omicidi confessati dall’imputato, "avrebbero dovuto astenersi per evidenti situazioni di incompatibilità visto che hanno sostenuto l’accusa di persone (ottenendone poi la condanna, ndr) che alla luce delle confessioni di Sebai risultano invece essere innocenti".

IL LEGALE DI SEI DELLE OTTO PERSONE DETENUTE DA ANNI
''La procura di Taranto è spaccata sull'attendibilità del serial killer delle vecchiette pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai. Per due pm il tunisino non è credibile e va assolto dall’accusa di aver compiuto tre omicidi; per un altro pm è invece credibile e va condannato a 30 anni di reclusione”. Lo evidenzia l’avv. Claudio Defilippi legale di sei delle otto persone (una si è suicidata in carcere dopo la condanna) detenute da lunghi anni “pur essendo innocenti”.

Dei delitti per i quali gli otto sono stati condannati si è successivamente accusato Sebai. Defilippi chiede che il gup di Taranto Valeria Ingenito, dinanzi alla quale è a giudizio Sebai, disponga un confronto all’americana tra i suoi assistiti e il tunisino. E rilancia: “il fatto che i tre pm di Taranto non la pensino allo stesso modo sull'attendibilità di Sebai dovrebbe spingere il ministro della Giustizia a disporre un’ispezione in procura”. Per Defilippi, vi è nel processo una “situazione di incompatibilità dei pm Montanari e Petrocelli”.

“Questi – sottolinea – prima hanno chiesto ed ottenuto il rinvio a giudizio e la condanna definitiva di alcune persone che si proclamano da sempre innocenti (Vincenzo Donvito, poi suicidatosi, Francesco Orlandi e Vincenzo Faiuolo) e successivamente chiedono l’assoluzione per gli stessi omicidi per il serial killer”.

Il perfetto canovaccio di un film sull’assurdità della giustizia italiana è stato scritto la scorsa settimana in una piccola aula del tribunale di Taranto. Sinossi: due magistrati indagano sulle proprie inchieste. Negli anni passati hanno ottenuto la condanna di sei persone, che si proclamano innocenti, per l’omicidio di tre anziane. Delitti di cui si è poi accusato il tunisino Ezzedine Sebai, il “killer delle vecchiette”.

Sulla base di questa nuova ipotesi, la procura decide quindi nel 2006 di riaprire i casi. E a chi vengono affidati? A Pina Montanaro e Vincenzo Petrocelli, gli stessi pubblici ministeri che avevano chiesto il carcere per i sei. I magistrati in sostanza si dovranno adoperare per scoprire se hanno mandato degli incolpevoli in galera. Se sono gli autori di quello che potrebbe essere il più grande errore giudiziario mai avvenuto in Italia. Stando al Codice di procedura penale, potrebbero astenersi “per gravi ragioni di convenienza”. Eppure, la procura procede. Le inchieste inciampano in prove e riscontri: il tunisino è rinviato a giudizio. Ma la scorsa settimana i due magistrati ne chiedono l’assoluzione: è un “mitomane”, sostengono.

Un loro collega, che ha indagato sull’omicidio di un’altra anziana, la pensa diversamente: quello che dice Sebai è vero, merita trent’anni. Spaccatura che esemplifica i guazzabugli di una procura già coinvolta in ingiuste detenzioni clamorose.

Come quella di Domenico Morrone, per cui ottenne la pena proprio Petrocelli, che a dicembre 2008 ha avuto il risarcimento record di 4,5 milioni di euro. O come la vicenda dei quattro uomini ritenuti colpevoli e poi assolti per la “strage della barberia”, che ora chiedono 12 milioni di euro di risarcimento.

Il tunisino che rischia di generare l’ennesimo cortocircuito giudiziario ha 44 anni. Ha affermato di avere ucciso 14 anziane in Puglia, tra il 1995 e il 1997. Vedove che gli ricordavano le megere che da bambino abusavano di lui: per questo le avrebbe ammazzate, stordito da alcol e risentimento. Oggi è rinchiuso nel carcere di Augusta, vicino a Siracusa, dove sconta l’ergastolo per cinque omicidi. In molti casi invece le indagini non sono partite. Per quattro assassinii è sotto processo a Taranto: per tre di questi sono già stati puniti presunti innocenti. A dispetto delle parole del serial killer e dei riscontri alle sue dichiarazioni.

Come nel caso dell’uccisione di Grazia Montemurro, sgozzata nella sua casa di Massafra il 5 aprile 1997. La sera stessa viene arrestato il nipote, Cosimo Montemurro. Si prende 18 anni ed esce dal carcere a novembre 2007. Due anni prima Sebai si era intestato i 14 delitti, compreso quello di Massafra. Racconta dettagli, dà orari precisi, ricostruisce dinamiche.

Del caso si occupa il pm di Taranto Pina Montanaro, che aveva già chiesto la condanna del nipote della signora. Per il magistrato le parole del tunisino non bastano. Potrebbe avere letto quei particolari sui giornali. O averli appresi in carcere. Allora imbastisce la prova del nove. Fa accompagnare Sebai alla stazione di Massafra. I carabinieri gli dicono di raggiungere la casa dell’omicidio. Il serial killer ha raccontato di essersi spostato in treno e poi a piedi. Quella strada dovrebbe conoscerla: infatti porta i militari all’abitazione. Mentre riemerge la testimonianza di un prete che ha parlato con il tunisino nei giorni dell’assassinio. Riassumendo: il serial killer conosce i particolari dell’uccisione, il luogo del delitto, il modo per arrivarci, è stato visto da un testimone. Ma non gli credono. Colpevole è ritenuto Cosimo Montemurro, che si dice innocente. Il magistrato, riconsiderando la sua vecchia indagine, conclude che il tunisino non c’entra: mente, per motivi oscuri.

“L’incompatibilità del magistrato è evidente” accusa Luciano Faraon, che difende Sebai da tre anni. “È troppo coinvolta nel caso, visti i precedenti. Avrebbe dovuto astenersi, però inspiegabilmente non l’ha fatto. A Taranto stanno ammazzando il giusto processo”.

La procura sostiene l’ipotesi contraria: per sveltire gli accertamenti era necessario affidare i casi a chi se n’era già occupato.

Montanaro ha riaperto l’inchiesta su un altro delitto. L’omicidio di Pasqua Ludovico, 86 anni, sgozzata con 12 coltellate nel maggio 1997 a Castellaneta. Vengono condannati a 16 anni due braccianti: i fratellastri Vincenzo Faiuolo e Francesco Orlandi. Si incolpano a vicenda, ma ritrattano subito dopo. È l’unico elemento contro di loro. Contro Sebai, invece, c’è molto di più. Anche in questo caso il tunisino viene portato alla stazione e raggiunge l’appartamento della vittima: “Riconosce senza ombra di dubbio due porte finestre di colore verde” annotano i carabinieri di Taranto.

Il tunisino racconta di avere rubato una pistola e dei proiettili. Dopo li ha nascosti a casa. In effetti dall’abitazione dell’anziana manca una vecchia rivoltella del marito, morto nel 1950. E nell’appartamento di Sebai c’è una pistola arrugginita: “Potrebbe risalire agli anni 1940-1950 circa” scrivono i carabinieri. Eppure, il magistrato chiede l’assoluzione. “È un mitomane” dice nella requisitoria. Vuole scagionare i detenuti conosciuti in carcere. Ma perché? E com’è arrivata quella pistola a casa sua? Come faceva a conoscere la strada? Gli avevano schizzato una piantina nell’ora d’aria ipotizzando già che venisse portato alla stazione?

Claudio Defilippi, che difende i fratellastri incolpati dell’omicidio, chiede che intervengano il Csm e il ministero della Giustizia: “Le prove contro il tunisino sono lampanti. I magistrati non dovevano accettare l’incarico per chiara incompatibilità. Avevano già chiesto la condanna di persone che si assumono innocenti. Ora il tunisino è stato scagionato. Così resta il dubbio che i pm abbiano ratificato le loro precedenti decisioni”.

Anche per il delitto di Celeste Commessatti, 73 anni, assassinata a Palagiano il 13 agosto 1995, il pm Vincenzo Petrocelli, che adesso ha chiesto l’assoluzione per Sebai, aveva ottenuto il carcere per tre persone, tra cui Vincenzo Donvito, suicida in cella il 19 luglio 2005. Petrocelli è lo stesso magistrato che fece condannare a 21 anni il pescatore tarantino Domenico Morrone: incarcerato per l’uccisione di due ragazzi, poi assolto e risarcito un mese fa: i 4,5 milioni di euro sono la più alta somma mai pagata dal ministero della Giustizia per un’ingiusta detenzione.

Pure per l’assassinio di Palagiano Sebai fornisce dettagli con una dovizia che non ha il sapore dei racconti di seconda mano. Al pm dichiara di avere venduto la refurtiva a un ricettatore di Taranto, “Silviuccio”. La polizia, dal nomignolo, risale a Silvio Epiro. Lo torchia, fino a quando l’uomo non tira fuori dalla tasca sinistra della giacca due collane e tre anelli di oro giallo: i gioielli rubati nella casa di Celeste Commessatti. “Me li ha dati Fathi Said”. E chi è? Uno degli alias di Ezzedine Sebai, il serial killer a cui due magistrati hanno deciso di non credere.

Conseguenza del modo di fare non omologato all’ambiente all’avvocato Luciano Faraon, del Foro di Roma, difensore di Sebai, è stato riservato un trattamento particolare da parte del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto. Su migliaia di avvocati  in Italia che subiscono la sanzione della sospensione, atto notificato a tutti i Consigli dell’ordine, il Faraon ha avuto il privilegio di vedersi pubblicato in modo esclusivo l’atto di sospensione sul sito degli avvocati di Taranto.

IL CASO MORRONE

È il più clamoroso errore giudiziario del dopoguerra, scrive Stefano Zurlo su "Il Giornale". Ora il ministero dell’Economia ha deciso di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4 milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2 mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso.

Il caso di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una transazione insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero dell’Economia ha capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso vissuto dall’uomo che oggi può tentare di rifarsi una vita.

Così, per il tramite dell’avvocatura dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il ministero e la corte d’appello di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto». In pratica, Morrone prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere. E i soldi arriveranno subito: non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già viste in situazioni analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele Barillà, rimasto in cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno sfortunato scambio di auto.

Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono condannate per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui al Giornale - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’assise d’appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Ora, finalmente, la giustizia si mostra comprensiva con chi è stato vittima di un errore così grave: la corte d’appello di Lecce nota anzitutto che l’Avvocatura dello Stato «non si oppone alla liquidazione» della cifra. La scorsa estate Morrone aveva chiesto allo Stato un risarcimento di 12 milioni di euro; il tempo di condurre una rapida trattativa e il ministero si è detto disponibile a chiudere la pratica a quota 4, 5 milioni di euro. Senza opposizioni e contestazioni. La somma totale di 4,5 milioni è così ripartita: 1 milione e 300mila euro per la privazione della libertà; 1 milione e 700mila euro per i danni non patrimoniali; 1 milione per il danno patrimoniale da mancato guadagno; 500mila euro per le spese legali e per gli onorari del difensore. Un record per l’Italia. E anche un primato di velocità.

Ma non finisce qui. Morrone vuole presentare il conto anche ai magistrati che hanno sbagliato e per questo ricorrerà alla legge sulla responsabilità civile dei giudici. Il pescatore, come impone la norma, si rivolgerà alla Presidenza del consiglio, chiedendo 8 milioni di euro per l’operato di Vincenzo Petrocelli, il magistrato di Taranto che l’aveva messo sotto accusa.

IL CASO FRANZOSO

L’on. Franzoso è stato assolto, ma la notizia non fa notizia.

Come molti ricorderanno, l'on. Franzoso, tarantino,all'epoca non ancora deputato ma assessore regionale ai trasporti della Giunta Fitto, a dicembre del 2004 fu arrestato come un malfattore, rinchiuso in cella per una settimana, accusato di voto di scambio che avrebbe ottenuto attraverso la concessione di non precisati favori a una cosca mafiosa. Ora, il Tribunale di Taranto lo ha assolto dalla infamante accusa ma la stampa riserva alla notizia poco spazio e pochissimo risalto. In proposito ecco il testo della lettera che i deputati pugliesi di Forza Italia hanno inviato alla Stampa. Per parte nostra non possiamo non testimoniare all'on. Franzoso la più viva solidarietà, insieme alla gioia per l'affermazione della verità e della sua innocenza.

LETTERA APERTA ALLA STAMPA DEI DEPUTATI PUGLIESI DI FORZA ITALIA

La felicità per aver visto confermata la nostra assoluta certezza che il collega Pietro Franzoso fosse del tutto estraneo ai fatti che nel 2004 portarono al suo arresto mentre era assessore regionale, con accuse gravi e infamanti, viene oggi turbata da più di una vena di amarezza.

Leggendo i giornali nazionali, gli stessi che nel 2004 dedicarono ampio spazio all’arresto dell’On. Franzoso, non si trova traccia alcuna della notizia della sua assoluzione “perchè il fatto non sussiste"; leggendo quelli regionali su alcuni si trova un trafiletto con la notizia oltre la pagina 10 e su altri non si trova nulla se non nelle edizioni cittadine di Taranto.

Atteggiamento ben diverso rispetto al clamore dato quando il 16 dicembre 2004, l’allora assessore Franzoso fu prelevato al suo arrivo in aereo a Brindisi e fu portato in carcere dove trascorse una settimana. Allora i giornali nazionali pubblicarono servizi densi di particolari sulla presunta collusione di Franzoso con la mafia tarantina, quelli regionali dedicarono le prime pagine.

Non è al rispetto della legge sulla stampa che sentiamo di volerci appellare oggi, pur essendoci tutti i margini per farlo, ma alla deontologia, alla onestà intellettuale, alla coscienza di quegli stessi direttori e capiredattori che a dicembre 2004 decisero di dedicare le prime pagine regionali e le pagine nazionali all’arresto di un assessore in carica e oggi non danno neanche la notizia della sua assoluzione o la relegano nelle edizioni locali.

Non è un Paese giusto quello in cui un arresto viene sbattuto in prima pagina e un’assoluzione relegata in 15ma o addirittura ignorata; non è un Paese “normale" quello in cui l’onorabilità di un assessore, di un politico, di un uomo, viene cancellata nel momento in cui lo si ritiene colpevole e non gli viene riconsegnata quando, dopo tre anni, un Tribunale lo giudica innocente. Non è un Paese né normale né giusto quello in cui bisogna appellarsi al rispetto delle leggi, affinché ad una assoluzione sia dato lo stesso clamore che ad un arresto.

Non siamo animati da spirito polemico, né tantomeno da vittimismo.

Invochiamo solo giustizia e normalità.

IL CASO NARDELLI

Salve Dr. Giangrande,

ho letto gran parte di quanto scritto sul suo sito. Devo essere sincero ne sono rimasto spaventato in quanto non immaginavo che potesse esserci a Taranto un sito simile.

Sono un semplice cittadino che sta subendo una situazione di malagiustizia.

La mia storia è scritta su molti siti, Mediaset ha mandato in onda una intervista della mia storia intitolata " Malagiustizia", sono usciti articoli di giornale a Napoli e Teramo.

Ho fatto 60 giorni di carcere, 3 lunghi anni di cause penali per altre 1.000 accuse. Per la difesa mi hanno tolto 21.000 euro.

Sono stato assolto da tutte le accuse, COMPRESA L'ACCUSA INFAMANTE DI ABUSI SESSUALI SU MIA FIGLIA. Sono ridotto in povertà, non riuscirò mai a spuntarla perché l'Ispettore della Polizia di Stato, che ha indagato su di me e che personalmente mi ha arrestato, è stato beccato nella sua auto con mia moglie.

Quando ho scoperto quanto su detto pensavo di chiudere la mia vicenda ed invece quella scoperta è stata la mia rovina.

Sergio Nardelli da Taranto

IL CASO PEDONE, CAFORIO, AIELLO, BELLO

Non erano colpevoli, ora chiedono 12 mln

Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono tornati in libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento.

TARANTO – 2 maggio 2008 - Quattro imputati prima condannati e poi assolti nel processo di revisione per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, in cui morirono quattro persone, hanno chiesto complessivamente un risarcimento di 12 milioni di euro per ingiusta detenzione.

I quattro erano stati condannati con sentenza definitiva a pene comprese fra 30 anni e 11 anni di carcere. Si tratta di Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, tornati in libertà il 5 aprile del 1998 dopo sette anni di detenzione. Sta scontando la condanna a 30 anni di carcere invece, Giovanni Caforio, considerato uno degli esecutori materiali della strage. Alla revisione del processo si è arrivati dopo dichiarazioni di pentiti che hanno scagionato gli imputati.

Il primo ottobre del 1991, un commando di killer entrò nel salone da barba di via Garibaldi, uccidendo quattro innocenti. Il vero obiettivo, secondo gli investigatori, doveva essere il noto pregiudicato Antonio Martera. La richiesta di risarcimento passa al vaglio della Corte d’Appello di Potenza.

Strage della Barberia. Sospetti ed errori

Gronda ingiustizia dalla storia della strage della barberia, così come è stata rivisitata dalla Corte di Appello di Potenza.

Quella Corte ha scagionato quattro innocenti, condannati come feroci killer per la mattanza dell’1 ottobre del 1991.

Il punto di non ritorno della guerra di mala. Quel maledetto giorno i sicari della mala irruppero nella barberia di Giuseppe Ierone, all’imbocco di via Duomo.

Spararono all’impazzata con mitra e pistole. Poi fuggirono lasciandosi alle spalle quattro morti e due feriti.

Cercavano i boss rivali, invece, inchiodarono al suolo innocenti che con quella guerra tra bande non avevano nulla a che fare.

Il primo di una lunga serie di tragici errori.

Nelle ore successive alla mattanza, le indagini imboccarono la strada sbagliata. In carcere finirono cinque persone.

A distanza di sedici anni la Corte di Appello di Potenza ha definitivamente scritto che quattro erano innocenti.

Giovanni Pedone, Massimo Caforio, condannati a trent’anni come esecutori materiali, e Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati ad undici anni come fiancheggiatori, con quel tremendo delitto non c’entravano. Ma la Corte di Potenza, nel motivare la revisione va oltre il verdetto, svelando definitivamente particolari che inducono a riflettere.

Un aspetto su cui oggi si è soffermato l’avvocato Carlo Petrone che in questa brutta vicenda ha assistito Giovanni Pedone, noto con il soprannome di “fafetta”. Pedone, meccanico di 51 anni, da innocenti ha trascorso quasi otto anni in cella prima di intravedere bagliori di giustizia. Ma gli elementi che hanno portato all’affermazione della sua innocenza e di altri tre imputati erano già parzialmente emersi nel corso del processo madre.

Collaboratori di giustizia del calibro di Francesco Di Bari avevano parlato, adombrando il sospetto di un depistaggio messo in atto da un boss che a suo dire era vicino ai servizi segreti. Ma quando quelle dichiarazioni furono portate in Appello, la Corte le bollò come un tentativo di inquinamento probatorio. E fa specie leggere che quel secondo grado del procedimento cominciò e si concluse in un giorno a dispetto della complessità del caso. Come dire che se la giustizia è lenta l’ingiustizia in quel caso fu rapidissima. Così come rapidi giunsero gli arresti per il quadruplice omicidio. A spianare la strada sbagliata agli uomini della Squadra Mobile un confidente.

“Quel confidente - scrivono i giudici di Potenza - fu messo in camera di sicurezza con Aiello e Bello i quali si decisero poi a parlare” . E poco dopo i giudici aggiungono che i due “furono convinti a rendere dichiarazioni accusatorie. Questa prima fase delle indagini - scrivono ancora i giudici di Potenza- si svolse in maniera informale e ovviamente in mancanza di garanzie processuali”.

A distanza di tanti anni, però, uno dei veri killer della strage è passato nella schiera dei collaboratori di giustizia ed ha ammesso le sue responsabilità. Quella confessione ha finalmente aperto un varco nel destino atroce degli innocenti. ma sul tavolo restano i sospetti di una lunga storia.

«E’ certo - ha detto questa mattina l’avvocato Petrone - che qualcuno sapeva di quanto avvenuto durante le indagini». Ora per gli innocenti si apre un lungo iter processuale per ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione.

Eloquente a tal proposito il commento di Giovanni Pedone: «I soldi mi interessano fino ad un certo punto. La mia vita è stata segnata in maniera indelebile. Mi piacerebbe vedere pagare i responsabili di questa enorme ingiustizia».

Erano stati condannati per omicidio

Taranto, sono innocenti. Scarcerati in quattro dopo 7 anni di prigione

Sono tornati liberi dopo essere stati in carcere per sette anni per le condanne irrogate loro per aver partecipato ad un quadruplice omicidio col quale non c'entravano per nulla, secondo le ultime acquisizioni degli investigatori. Giovanni Pedone (condannato a 30 anni di reclusione), Massimo Caforio (condannato a 29 anni e sei mesi), Francesco Aiello e Cosimo Bello (condannati a 11 anni di reclusione ciascuno per aver favorito i presunti assassini) sono usciti lunedì sera dal carcere: la Corte di appello di Taranto ha infatti accolto la richiesta, presentata dai loro avvocati sin dal luglio '97, di sospendere l'esecuzione della pena ed ha disposto la scarcerazione dei detenuti.

Le condanne erano state inferte per il quadruplice omicidio compiuto a Taranto la sera del primo ottobre '91 in una sala da barba e divenuto noto come "la strage della barberia".

Dichiarazioni di "collaboratori di giustizia" e nuove indagini avevano portato però nel giugno '97 i pm inquirenti, Nicolangelo Ghizzardi, della procura di Taranto, e Antonio Maruccia, della Dda di Lecce, a chiedere il giudizio per lo stesso fatto di altre persone: le nuove indagini avevano anche accertato che sicuramente Pedone, ma di conseguenza anche gli altri tre condannati, non c'entravano nella strage. Di qui, la richiesta di revisione del processo e, nelle more, l'istanza di sospensione della esecuzione della pena, accolta dalla Corte col parere favorevole della procura generale. Di coloro che furono condannati per la prima volta nel '93 per la "strage della barberia" resta così in carcere solo Giovanni Caforio (fratello di Massimo Caforio), condannato a 30 anni di reclusione come Pedone e ritenuto tra gli organizzatori del quadruplice omicidio. «Questi sette anni pesano come venti.

Forse le indagini all'epoca sono state troppo frettolose, sbagliare è umano, l'essenziale è ravvedersi», ha spiegato con calma ammirevole Giovanni Pedone. «Ho trascorso sette anni in cella innocente - dice - e penso che chiunque al mio posto si sarebbe suicidato. Sapevo però che prima o poi doveva accadere qualcosa, anche se qualcuno forse da oggi non potrà più guardarsi allo specchio».

IL CASO DEI BRACCIANTI AGRICOLI

CONDANNA SENZA PROCESSO: DECRETI PENALI DI CONDANNA.

Condannati per aver finto un rapporto di lavoro, mentre in realtà erano veramente andati in campagna a fare il proprio dovere. Sono infatti 292 i braccianti agricoli coinvolti in un’inchiesta riguardante la società di intermediazione di manodopera Saag, nei confronti dei quali sono stati emessi decreti penali di condanna per truffa e induzione al falso, con una sanzione pecuniaria di 5.000 euro ciascuno. La vicenda è stata illustrata in una conferenza stampa da dirigenti della Cgil e della Flai jonica e dai legali del sindacato. «I braccianti - spiegano i sindacati - sarebbero stati colpiti dall’indagine documentale dell’Inps che avrebbe contestato alla società la congruità tra giornate di lavoro e capienza dei fondi agricoli. Un iter procedurale classico che tende a scovare i rapporti di lavoro fittizi, ma che lascia al palo anche tutti i lavoratori agricoli che realmente sono andati a lavorare».

I fatti contestati risalgono al periodo 2004-2005. Secondo i legali, ora i braccianti rischiano anche la beffa di una richiesta di risarcimento danni da parte dell’Inps, mentre nell’indagine non sarebbe stata fatta alcuna verifica sui fondi e non ci sarebbe traccia di interrogatori, tanto che l’ispettorato del lavoro avrebbe già accertato che molti braccianti hanno realmente lavorato.

MALAGIUSTIZIA

 Un fallimento? In Italia può durare anche mezzo secolo !!!

Quarantasei anni: a tanto ammonta la durata della procedura fallimentare di un’azienda di Taranto. Lo racconta Sergio Rizzo nella “Cricca”, un saggio Rizzoli dedicato alle lentezze e ai mille conflitti d’interesse del nostro Paese. Leggiamone un estratto.

A Berlino la costruzione del Muro procedeva a ritmi serrati. Papa Giovanni XXIII aveva scomunicato il comunista Fidel Castro e la Francia riconosceva l’indipendenza dell’Algeria. In Italia Aldo Moro apriva la stagione del centrosinistra, Enrico Mattei regnava sull’Eni, Antonio Segni entrava al Quirinale. E mentre per la prima volta, dopo 400 anni, le orbite di Nettuno e Plutone si allineavano e gli Stati Uniti mandavano il loro primo uomo in orbita intorno alla Terra, in quel 1962 falliva a Taranto la ditta del signor Otello Semeraro. Non meritò nemmeno due righe in cronaca la notizia che al tribunale del capoluogo pugliese stava per cominciare una delle procedure fallimentari più lunghe della storia della Repubblica. Quarantasei anni.

Nel 2008 il tribunale di Taranto ha approvato il rendiconto finale del fallimento Semeraro, con un verbale condito da particolari burocraticamente esilaranti. «Avanti l’Illustrissimo Signor Giudice Delegato Pietro Genoviva assistito dal cancelliere è personalmente comparso il curatore Michele Grippa il quale fa presente che tutti i creditori ed il fallito sono stati avvisati mediante raccomandata con avviso di ricevimento dell’avvenuto deposito del conto di cancelleria.» Nonostante ciò il giudice «dà atto che all’udienza né il fallito né alcun creditore è comparso». Sulle ragioni dell’assenza dei creditori non ci sono informazioni certe. Invece il signor Semeraro, pur volendo, difficilmente si sarebbe potuto presentare. Fitto è il mistero dell’indirizzo al quale gli sarebbe stata recapitata la raccomandata, con tanto di ricevuta di ritorno: perché egli, purtroppo, non è più tra i vivi.
Come il tribunale di Taranto non poteva non sapere, avendo accertato, nel rendiconto del fallimento, un versamento di 10.263 euro «a favore della vedova di O. Semeraro». Quarantasei anni.

Una lentezza inaccettabile per qualunque procedimento. Figuriamoci per un fallimento che ha fatto recuperare in tutto 188.314 euro, ai valori di oggi. Con la doverosa precisazione che un terzo abbondante se n’è andato in spese: 70.000 euro, di cui 50.398 soltanto per gli avvocati. Nei tribunali mancano i cancellieri, è vero. Nemmeno i giudici sono così numerosi. Poi la burocrazia, le procedure...

Sulla scia del fenomeno denunciato è scandaloso quanto succede a Taranto.

L’avv. Patrizio Giangrande, fratello del presidente Antonio Giangrande, e l’avv. Giancarlo De Valerio vincono la causa contro Equitalia Spa per risarcimento danni, sulla base di ipoteche su immobili emesse da detta società senza alcun avviso e per importi milionari attinenti presunti crediti, risultati inesistenti. Il Tribunale ha riconosciuto il risarcimento di svariate migliaia di euro liquidati in via equitativa.

La cosa scandalosa è che, purtroppo, sono migliaia i casi in cui avvengono invii di cartelle talvolta recanti debiti anche estinti e con scadenze decennali. Il sistema permette al Fisco di effettuare sequestri di immobili o fermo amministrativo di auto, senza aver verificato, come nel caso di causa, la effettiva esistenza debitoria applicando interessi e spese che spesso superano l’importo del debito stesso, stranamente somme non calcolate come usuraie.

Allucinante è il fatto che gli avvocati, in virtù della sentenza di condanna, recatisi unitamente all’ufficiale giudiziario per rendere ad Equitalia il torto subito ed eseguire il pignoramento presso la loro sede a Taranto, gli è stato comunicato dalla stessa Equitalia spa che non intende pagare, ritenendo i beni e i fondi insequestrabili.

Pazzesco è che solo il Quotidiano di Puglia, alla pagina interna su Manduria, a firma di Gianluca Ceresio, si è occupato della vicenda che interessa tutti i cittadini, non solo tarantini, per la disparità di trattamento dei diritti lesi.  

IL RESOCONTO ANNUALE DELLO STATO DELLA GIUSTIZIA INDICA IL PERCHE' DI TANTA SFIDUCIA DEI CITTADINI NELLE ISTITUZIONI, SE GIA' LE DENUNCE DELLE FORZE DELL'ORDINE HANNO UN ESITO INCERTO.

DENUNCE ITALIA FORZE DELL'ORDINE TOTALE AUTORI IGNOTI AUTORI NOTI
  2.456.887 1.840.209 616.678
TOTALE CONDANNE ITALIA 198.263    
RAPPORTO DENUNCE-CONDANNE 8%    
       
DENUNCE PUGLIA      
Foggia 24.368 15.643 8.725
Bari 61.003 44.814 16.189
Taranto 19.333 13.419 5.914
Brindisi 16.538 11.621 4.917
Lecce 28.202 20.373 7.829
Totale 149.444 105.870 43.574
       
CONDANNE PUGLIA      
Foggia 1.923    
Bari 5.639    
Taranto 5.513    
Brindisi 2.348    
Lecce 2.113    
Totale 17.536    
RAPPORTO DENUNCE-CONDANNE 11%    

Fonte Istat/Ministero Giustizia

PARLIAMO DI INSABBIAMENTI.

INSABBIAMENTI: SE SUCCEDE A LORO, FIGURIAMOCI AI POVERI CRISTI !!!!!

Quando la legge non è uguale per tutti.

Denunce fondate presentate a Potenza contro i magistrati di Bari, Brindisi, Lecce e Taranto: nessuna condanna per i denunciati, nessuna calunnia contestata ai denuncianti !!!!

Il Gip presso il Tribunale di Potenza ha disposto l’archiviazione della denunzia presentata dal ministro per gli Affari Regionali, Raffaele Fitto, contro il procuratore della Repubblica di Brindisi, Marco Dinapoli, per violazione del segreto d’ufficio, scrive "La Gazzetta del Mezzogiorno". La denuncia ipotizzava una presunta divulgazione di notizie riservate compiuta da Dinapoli quando questi era procuratore aggiunto a Bari e coordinava il pool di magistrati che indagava sui reati contro la pubblica amministrazione.

L’ipotesi di violazione del segreto riguardava anche gli altri tre magistrati del pool barese (Roberto Rossi, Lorenzo Nicastro e Renato Nitti), che ha indagato su Fitto per fatti che risalgono a quando il ministro era presidente della Regione Puglia. Lorenzo Nicastro, divenuto assessore regionale dipietrista con la Giunta di Vendola, ha indagato su Fitto fino al giorno prima di candidarsi alle regionali pugliesi nel distretto in cui operava. A sollevare perplessità sulla candidatura del pm è stato il presidente dell'Anm, Luca Palamara, ribadendo che "il tema della credibilità della magistratura non può essere disgiunto da quello dell'inopportunità della partecipazione alla vita politica dei magistrati nei luoghi dove abbiano esercitato la giurisdizione, per evitare il rischio di indebite strumentalizzazioni dell'attività svolta". Roberto Rossi, è stato eletto nel Consiglio superiore della magistratura. Roberto Nitti, l’unico a essere rimasto nell’organico della Procura di Bari. Già nel giugno 2010 vi furono nuovi colpi di scena nell’ambito dell’inchiesta delle Procure di Bari e Trani sulle ormai note fughe di notizie su Berlusconi. Quattro magistrati sarebbero stati intercettati mentre parlavano con giornalisti rivelando notizie relative ad indagini in corso. Ad avere il telefono sotto controllo sono però i cronisti: scopo degli inquirenti è quello di stanare le loro fonti.

L’archiviazione, disposta con ordinanza il 23 luglio 2010. Fitto aveva lamentato che “la diffusione alla stampa di notizie riservate costituisca la regola seguita dai predetti magistrati” sostenendo inoltre la sussistenza di “una vera e propria emorragia di notizie dalla Procura di Bari a fini politici verso alcuni organi di stampa".

"In seguito alla pubblicazione di notizie riservate di carattere penale, erano stati chiesti accertamenti per scoprire gli autori di tali rivelazioni. Il gip, pur individuando precise responsabilità penali per la pubblicazione non consentita di atti giudiziari, si è dovuto arrendere dinanzi alla difficoltà delle indagini e al muro di gomma innalzato dal silenzio dei giornalisti”. Lo afferma l'avv. Francesco Paolo Sisto, difensore del ministro per i Rapporti con le Regioni, Raffaele Fitto e al contempo deputato al Parlamento, commentando in una nota il provvedimento del gip del Tribunale di Potenza. “Come al solito, quindi – aggiunge il legale – non è stato possibile scoprire i responsabili. Un film già visto, troppe volte. I giornalisti tacciono, le indagini, se e quando effettuate, non servono allo scopo”.

Lecce come Potenza.

La seconda sezione penale del Tribunale di Lecce il 12 luglio 2010 ha assolto "perchè il fatto non sussiste" l'ex presidente aggiunto della sezione gip del Tribunale di Bari, Piero Sabatelli, dalle accuse di rivelazione del segreto d'ufficio e accesso abusivo al sistema informatico della Procura della Repubblica barese. I fatti contestati risalgono al 2004. Lo ha reso noto il difensore del magistrato, avvocato Mario Guagliani. Sabatelli, che è attualmente in servizio presso la sezione lavoro della Corte d'Appello di Bari, era imputato con due segretarie e altre quattro persone che sono state tutte assolte. Secondo l'accusa (sostenuta dalla procura di Lecce competente per i procedimenti relativi ai magistrati in servizio nel distretto della Corte d'appello di Bari), Sabatelli e le sue segretarie, dopo aver consultato il registro generale della Procura di Bari, avrebbero rivelato a terzi notizie coperte dal segreto d'ufficio in relazione all'andamento delle inchieste sulle cooperative romana e barese La Cascina (quest'ultima aveva portato nell'aprile 2003 all'esecuzione di dieci provvedimenti cautelari) e La Fiorita. L'accusa, sostenuta dal pm Valeria Mignone, aveva chiesto la condanna ad un anno di reclusione.

PARLIAMO DI PROCEDIMENTI A CARICO DI MAGISTRATI

Il pubblico ministero di Taranto, Matteo Di Giorgio, è stato arrestato dai Carabinieri del Comando provinciale di Potenza con l’accusa di concussione, scrive "La Gazzetta del Mezzogiorno".

Di Giorgio – che è agli arresti domiciliari – è stato arrestato al termine di un’inchiesta avviata nel 2008. Secondo quanto è stato possibile apprendere, i Carabinieri hanno cominciato ad indagare dopo una serie di denunce presentate da cittadini che si ritenevano danneggiati dal magistrato. Le indagini hanno permesso di stabilire che Di Giorgio avrebbe compiuto atti contrari al suo ufficio e avrebbe ricevuto in cambio numerose utilità, ma non denaro. L'inchiesta è stata coordinata dalla Procura della Repubblica di Potenza, competente sui magistrati del Distretto della Corte di Appello di Lecce.

Nel 2001 Di Giorgio fu parte offesa in un’inchiesta nell’ambito della quale finì agli arresti domiciliari l’ex senatore dei Ds, Rocco Loreto, che era stato anche sindaco di Castellaneta (Taranto). L'ex senatore, poi rinviato a giudizio, era accusato di aver calunniato Di Giorgio, il quale aveva inviato alcune inchieste sulla sua attività di sindaco del comune jonico. La Procura della Repubblica di Potenza indagò prima su alcune accuse rivolte da Loreto a Di Giorgio: avendole trovate infondate, l’allora pm del capoluogo lucano, Henry John Woodcock, indagò per calunnio contro l’ex senatore.

Nessun commento da parte del procuratore della Repubblica di Taranto, Franco Sebastio sull'arresto del pm Matteo Di Giorgio. Il provvedimento ha provocato sorpresa e clamore negli ambienti giudiziari tarantini. Mentre era ancora in corso l’udienza del tribunale del riesame sul ricorso per Sabrina Misseri, il pm Ida Perrone è arrivata di corsa dinanzi all’ingresso dell’aula, invitando un carabiniere a riferire che voleva parlare urgentemente con il procuratore aggiunto Pietro Argentino. Pochi minuti dopo, giunta la sospensione dell’udienza del tribunale del riesame, lo stesso Argentino e successivamente il procuratore Franco Sebastio e il pm Mariano Buccoliero sono usciti dall’aula recandosi nei rispettivi uffici al terzo piano, tra la ressa di fotografi e operatori televisivi.

MINACCE ED ABUSI TRA I REATI CONTESTATI AL PM
Minacce in ambito politico e ad un imprenditore, altre per proteggere un parente, e azioni dirette a garantire l’attività di un bar «completamente abusivo»: sono i fatti alla base delle accuse mosse al pm di Taranto, Matteo Di Giorgio, posto agli arresti domiciliari dai carabinieri nell’ambito di un’inchiesta coordinata dal pm di Potenza, laura Triassi. I carabinieri del comando provinciale di Potenza hanno notificato anche due divieti di dimora nel comune di Castellaneta (Taranto), dove il magistrato è agli arresti nella sua casa. Uno dei due uomini raggiunti dal provvedimento è il dipendente dell’azienda sanitaria di Taranto.

Di Giorgio, abusando della sua qualità di pubblico ministero, avrebbe minacciato di un «male ingiusto» un consigliere comunale di Castellaneta, costringendolo a dimettersi per provocare lo scioglimento del consiglio comunale e assumere una funzione di guida politica di uno schieramento. Vi è anche l’accusa di aver intimorito un imprenditore, al quale fu sequestrato un villaggio turistico, e di aver indotto un’altra persona a non denunciare - per usura – un parente del magistrato. Infine, insieme ai due indagati ai quali è stata vietata la dimora a Castellaneta e ed amministratori e dirigenti comunali, Di Giorgio avrebbe commesso atti contrari ai suoi doveri d’ufficio pur di permettere ad un bar aperto senza autorizzazioni amministrative ed edilizie di continuare l’attività.

La Gazzetta del Mezzogiorno web 11/11/2010

Le accuse al pm arrestato a Taranto: "Minacce per un posto in Parlamento". Nell'ordinanza del gip di Potenza, Matteo Di Giorgio viene definito il vero politico di Castellaneta. Pressioni su Fitto che resiste, per ottenere un incarico nel centrodestra. Dall’inviato del “La Repubblica”  GIULIANO FOSCHINI.

A Taranto ci sarebbe un pubblico ministero che in realtà è un politico. Un magistrato che usa "la sua qualità e i suoi poteri" - per citare il gip Gerardina Romaniello di Potenza - per influenzale le scelte amministrative della sua città, Castellaneta, e di tutta la provincia di Taranto. Un pm che fa pressioni inutilmente sui ministri (Raffaele Fitto), obbliga amministratori ad appoggiarlo, fa cadere consigli comunali minacciando di arresti politici locali, tutto pur di spuntare una candidatura a parlamentare o presidente della provincia con il centrodestra. Il racconto è nelle 500 pagine di ordinanza di custodia che costringono da giovedì il pm Matteo Di Giorgio agli arresti domiciliari. Mentre il suo procuratore capo, Franco Sebastio, imbarazzato si affida a dichiarazioni di rito ("fiducia nel lavoro dei colleghi" e "speranza in tempi certi, il più possibile") da Potenza arriva uno spaccato molto duro sul pm vicino a Marcello Dell'Utri, Alfredo Mantovano e Giancarlo Cito. Secondo la ricostruzione che fa il gip nell'ordinanza, "dall'analisi delle conversazioni telefoniche intercettate è emerso che Di Giorgio, di fatto, è l'amministratore del comune di Castellaneta in quanto nella realtà dirige e condiziona le scelte dell'amministrazione comunale, venendo addirittura interessato ogni qual volta sia necessario ottenere una sorta di placet ove ci siano provvedimenti e scelte politiche da adottare".

Il pm, dicono a Potenza, controllerebbe direttamente il sindaco di Castellaneta, Italo D'Alessandro, il vice sindaco, Vito Perrone, il comandante della polizia municipale, Francesco Perrone, più un'altra serie di personaggi locali. Di Giorgio ha l'ambizione di scendere in politica. Ci prova prima a farsi candidare alle elezioni europee, poi mira alla presidenza della provincia. E per questo punta a convincere Fitto, che invece aveva un suo candidato. "Lui si deve sentire un po' assediato - dice Di Giorgio a Perrone, riferendosi a Fitto in un'intercettazione del 4 aprile del 2009 - deve prendersi paura, dice "ancora facciamo una piazzata qua" ma se poi c'hai qualche altro che può chiamare anche lui, cioè io voglio che lui si senta un po' stretto mi sono spiegato? Dai, vedi un poco, vedi un poco". Il gip è esplicito: "Nel processo politico innescatosi nell'area tarantina per la scelta del candidato da proporre alla Presidenza della provincia di Taranto - spiega - il Di Giorgio, come già visto, è riuscito a far sottoscrivere ai Sindaci dell'area sud un documento per la sua candidatura. La scelta, tuttavia, è di competenza del coordinatore regionale del Pdl, onorevole Raffaele Fitto, che a sua volta è orientato sul candidato Rana nonostante il veto dei sindaci. A questo punto il magistrato tenta l'ultimo assalto proprio nei confronti di Fitto con modalità identiche: dettare le strategie che i propri gregari devono porre in essere. Pur di raggiungere il suo obiettivo - continua - Matteo Di giorgio non ha lesinato neppure l'appoggio politico di Giancarlo Cito ex sindaco del comune di Taranto". L'operazione non riuscirà. Ma invece andrà a buon fine quella di far cadere la giunta comunale: "Tramite Vito Pontassuglia minaccia il consigliere Domenico Trovisi che se non avesse firmato le dimissioni avrebbe chiesto l'arresto per la nipote Paola e il fratello Pompeo. Per questo lo costringeva a sottoscrivere le proprie dimissioni da consigliere comunale, così da determinare lo scioglimento del consiglio comunale di Castellaneta e la sua successiva ascesa politica nell'area di Castellaneta prima e tarantina poi, assumendo, in tali contesti, ruolo di leader e condizionandone le scelte e gli esiti degli scrutini elettorali".

D’altro canto “Il Fatto Quotidiano” scrive

“Dall’analisi delle intercettazioni telefoniche – scrive il gip – è emerso che Matteo di Giorgio è, di fatto, l’amministratore del Comune di Castellaneta: nella realtà dirige e condiziona le scelte dell’amministrazione comunale”. Il punto è che Matteo di Giorgio, agli arresti domiciliari da tre giorni, è un pubblico ministero, e non un politico. È ancora tutto da dimostrare, ma se l’inchiesta condotta dalla Procura di Potenza dovesse rivelarsi solida, il magistrato dovrà rispondere di accuse pesanti, dalla concussione alla corruzione al favoreggiamento. Secondo l’accusa ambiva alla presidenza della provincia di Taranto e, per questo, avrebbe fatto pressioni (inutilmente) anche sul ministro Raffaele Fitto. Ciò che più appare grave, però, è il presunto abuso della sua funzione di pm per ottenere lo scioglimento del consiglio comunale di Castellaneta: mirava alle dimissioni del consigliere Mimmo Trovisi.

“Abusando della sua qualità di pubblico ministero – scrive il Gip di Potenza Gerardina Romaniello – faceva pervenire a Domenico Trovisi, tramite Vito Pontassuglia, la minaccia che, se non avesse firmato le dimissioni, avrebbe chiesto l’arresto per la nipote, Paola Trovisi, e il fratello Pompeo, lo costringeva a sottoscrivere le dimissioni da consigliere comunale, ponendo in essere una condotta di sviamento delle funzioni giudiziarie concretamente esercitate, così da determinare l’indebita utilità costituita dallo scioglimento del consiglio comunale di Castellaneta e la sua successiva ascesa politica nell’area di Castellaneta prima, e tarantina poi, assumendo, in tali contesti, il ruolo di leader, e condizionandone le scelte e gli esiti degli scrutini elettorali”. Accuse gravissime che, scrive l’accusa, sono supportate dal tenore delle intercettazioni. E sempre dalle intercettazioni, scrive il gip, emerge che “Di Giorgio è interessato alla sua candidatura per la presidenza della Provincia”.

“Il 22 maggio 2009 – si legge negli atti – il sindaco di Castellaneta Italo D’Alessandro informa di Giorgio che si sta recando a Palagianello per un incontro con Fitto, “per quella cosa”. Di Giorgio prima spiega che hanno “già fatto”, poi riferisce di ribadire “il concetto”. In una conversazione successiva D’Alessandro rassicura di Giorgio: “Matteo tutto a posto quella cosa…”.

Il pm, secondo l’accusa, s’inserisce nella bagarre politica: “Riesce a far sottoscrivere ai sindaci dell’area sud un documento per sostenere la sua candidatura. La scelta, tuttavia, è di competenza del coordinatore regionale del Pdl, Raffaele Fitto, che a sua volta è orientato sul candidato Rana, nonostante il veto dei sindaci. A questo punto il magistrato tenta l’ultimo assalto proprio nei confronti di Fitto, con modalità identiche: dettare le strategie che i propri gregari devono porre in essere. “Lui si deve sentire assediato – dice al telefono – prendersi paura”, dice, “ancora facciamo una piazzata qua”. Il fatto più inquietante, però, riguarda le dimissioni di Trovisi.

“Vito Pontassuglia (un politico del posto, ndr) ha denunciato come di Giorgio abbia utilizzato la sua posizione di magistrato per ottenere risultati politici”. Tutto comincia nel 2000: “Pontassuglia afferma che il suo ingresso in politica avvenne con le elezioni comunali del 2000, nello schieramento di Rocco Loreto (poi senatore Ds, ndr) ma dopo alcuni scontri si schierò contro questi, andando all’opposizione e formando un gruppo denominato ‘L’alternativa’. Da allora iniziò – si legge sempre negli atti – la collaborazione con un gruppo di uomini, nemici di Rocco Loreto, tra i quali di Giorgio, che aveva sposato la loro causa, mettendosi a loro disposizione, sfruttando addirittura il supporto della Digos. Per giungere allo scioglimento del consiglio comunale, il gruppo di lavoro era riuscito, fino al 13 febbraio 2001, a portare alla firma 10 consiglieri. Mancava l’undicesimo: Mimmo Trovisi, per il quale ci voleva qualcosa di forte per indurlo a firmare”.

In base alle informazioni raccolte dalla procura, in quel periodo il pm di Giorgio era titolare del fascicolo “Valentino”, un’inchiesta sul traffico di stupefacenti: “Personaggio fulcro – scrive il gip – era Riccardo Papa, fidanzato di Paola Trovisi, nipote del consigliere comunale. (…). Di Giorgio doveva procedere non solo all’arresto di Paola, ma anche dei fratelli Trovisi”. Ed ecco la ricostruzione dell’accusa: “La notte del 30 agosto 2001 Trovisi firmò le dimissioni da consigliere comunale. Il giorno dopo seguì la sospensione del consiglio comunale. Il mancato arresto dei Trovisi era stato barattato con le dimissioni”.

"TOGHE SPORCHE SULLO JONIO".

Taranto, ex procuratore e capo dei gip indagati per corruzione.

Se si trattava degli amici, la giustizia a Taranto poteva diventare strabica, scrive Mario Diliberto su "La Repubblica". E all'occorrenza anche cieca. Da questa accusa ora dovranno difendersi due alti magistrati, sospettati di aver pilotato alcuni procedimenti, approfittando del loro ruolo. Si trascina dietro una carica dirompente l'indagine condotta dai giudici di Potenza sul conto di toghe sino a poco tempo fa adagiate su poltrone strategiche del palazzo di giustizia ionico.

I pm Cristina Correale e Ferdinando Esposito hanno messo sotto inchiesta l'ex procuratore capo di Taranto Aldo Petrucci e l'ex coordinatore dell'ufficio gip-gup Giuseppe Tommasino. Nello scottante caso è coinvolto anche l'avvocato Leonardo Conserva, ex sindaco di Martina Franca. Gravi le imputazioni contenute nelle informazioni di garanzia, con le quali gli inquirenti hanno concluso la loro attività. I pm lavorano sull'ipotesi di concorso in corruzione in atti giudiziari ma Petrucci, ora procuratore minorile a Lecce, deve difendersi anche dall'accusa di peculato per le tante telefonate private fatte dagli apparecchi di servizio. Su Tommasino, inoltre, aleggia la contestazione di rivelazione di segreto d'ufficio.

L'inchiesta ruota proprio sul rapporto stabilito tra le due toghe, piazzate a Taranto a presidio di snodi obbligati delle inchieste. Da quelle postazioni, sostengono i pm lucani, Petrucci e Tommasino si sarebbero scambiati favori a ripetizione sviando l'attività giudiziaria. Tutto ha preso il via da una segnalazione alla procura di Potenza, competente ad indagare sui magistrati ionici. L'attività delegata ai carabinieri ha rivelato più di una sorpresa, saltate fuori da diverse testimonianze e acquisizioni documentali. Così si sono fatti largo i sospetti su quel binomio in grado di gestire il destino dei fascicoli, spedendo in archivio quelli "sgraditi". Tra i presunti beneficiari l'ex primo cittadino di Martina, Leonardo Conserva. Il procuratore Petrucci, a parere dei pm potentini, si sarebbe assegnato un procedimento sul conto del sindaco. Le indagini sarebbero state condotte in maniera poco approfondita spianando la strada all'archiviazione, firmata puntualmente dal gip Tommasino. Ma tra sindaco e procuratore sarebbe nata una vera amicizia, tradotta dai pm nell'accusa di corruzione, in virtù delle consulenze comunali, per un valore di 283.000 euro, dirottate da Conserva verso lo studio legale in cui lavora la figlia del magistrato.

Quello che riguarda il sindaco di Martina, però, è solo uno dei capitoli del rimpallo di favori che si sostiene si sia sviluppato tra il terzo piano del Tribunale, dove c'è l'ufficio del procuratore, e il pianterreno dove si trova quello del capo dei gip. Lo stesso Tommasino, oggi in aspettativa perché componente della commissione per il concorso di notaio, sarebbe stato graziato da Petrucci. Era finito nei guai nel 2004 dopo una clamorosa indiscrezione. Un imprenditore, coinvolto nello scandalo sanitopoli, aveva saputo in anticipo del suo imminente arresto per una storia di forniture pagate a peso d'oro. Quella fuga di notizie aveva mandato su tutte le furie il pm titolare dell'inchiesta, che aveva preteso un'indagine interna. Seguendo le tracce nel sistema informatico del Tribunale si era risaliti al desk dal quale era stato violato il registro generale. Era la scrivania di un cancelliere che non aveva esitato a puntare il dito contro Tommasino.

A quel punto sarebbe intervenuto il procuratore capo che, dopo essersi assegnato l'indagine, aveva iscritto sul registro degli indagati solo il cancelliere, poi scagionato, insabbiando la posizione dell´amico gip. A distanza di anni, però, ci ha pensato la procura di Potenza a risistemare i pezzi del puzzle incriminando l´ex capo dei gip. Dopo quella ciambella di salvataggio, Tommasino avrebbe ricambiato il favore. Nel giugno del 2006 sul suo tavolo arrivò la richiesta di rinvio a giudizio per una banda accusata di rapine. Anche in questo caso sarebbe scattata l'intesa. Dal procedimento venne estromesso, con sentenza di non luogo a procedere poi annullata in Cassazione, un giovane tarantino. Quell'uomo era il marito di una conoscente del procuratore e per questo a Tommasino avrebbe chiuso un occhio. Ora i due magistrati hanno a disposizione venti giorni per farsi interrogare, nel tentativo di allontanare l'accusa di aver degradato la giustizia ad un affare tra amici.

In data 13 aprile 2011 arriva dal dr Giuseppe Tommasino una richiesta di rettifica all’articolo di cui sopra a firma di Mario Diliberto - Repubblica del 22 febbraio 2009.

Richiesta aggiornamento: «Lei è contro tutte le mafie? Onestamente non credo visto che esercita la sua attività di blogger con modalità discutibili. La invito a prendere atto che sono stato assolto con ampia formula e su richiesta del PM. di udienza in data 17 maggio 2011 dopo aver combattuto strenuamente. Un dossier a firma è anche a sua disposizione, così si chiarirà le idee». Giuseppe Tommasino

Prontamente si è riportata la richiesta di rettifica e non è certo il tono usato che può sminuire quello che io faccio per la società. Sicuramente non si conosce quello che noi facciamo e chi noi siamo. Non si conosce il mio libro, lo spot nazionale antiracket ed antiusura, il film, la nostra web tv di promozione del territorio, i nostri siti d'inchiesta o il nostro movimento politico. Tutto questo senza aver vinto alcun concorso pubblico che possa contenerci o darci l’appoggio o il potere istituzionale. L’aggiornamento avviene prontamente non per timore, ma perché devo essere grato al dr. Tommasino per aver ricevuto solo un’intimazione e non direttamente una ritorsione come hanno fatto i suoi colleghi, tanto da dover presentare istanza di rimessione per legittimo sospetto, che i processi a mio carico a Taranto, artatamente formati, possano essere inficiati da inimicizia e pregiudizio. Preme precisare, però, ad un valido tecnico di discipline giuridiche come è il dr. Tommasino che il nostro non è un blog. Un blog è un sito, generalmente gestito da una persona o da un ente, in cui l'autore (blogger) pubblica più o meno periodicamente, come in una sorta di diario online, i propri pensieri, opinioni, riflessioni, considerazioni ed altro, assieme, eventualmente, ad altre tipologie di materiale elettronico come immagini o video. Il definirmi blogger per molti è l’intento diffamatorio per denigrare il mio operato e su questo si montano dei processi. Peccato però che gli innumerevoli detrattori devono mettersi in fila e aspettare il proprio turno per colpirmi, essendo in molti, in quanto le nostre inchieste coprono l’intero territorio nazionale. Il nostro, peccato per loro, è un vero portale d’inchiesta letto in tutto il mondo. Strumento con cui si esercita il sacrosanto diritto di critica e di informazione, di cui all’art. 21 della Costituzione. Portale dove la cronaca diventa storia attingendo da fonti pubbliche. I dati riportati sono pubblici e si basano su: a) la verità dei fatti (oggettiva o “putativa”); b) l’interesse pubblico alla notizia; c) la continenza formale, ossia la corretta e civile esposizione dei fatti. In ossequio al dettato della Suprema Corte. Non è nostra intenzione danneggiare o favorire alcuno. Le nostre inchieste non riportano alcun nostro commento: bastano ed avanzano quelli dei redattori degli articoli di stampa. L’inchiesta citata dal dr Tommasino è inserita in un più ampio spettro di fatti e circostanze che minano la credibilità del sistema giustizia. L’abitudine all’omertà mediatica degli organi d’informazione territoriale non può impedirmi di dire la verità. Il fatto che per il dr. Tommasino sia intervenuta l’assoluzione, questo non salva l’immagine che il sistema giustizia dà di sé a Taranto ed in Italia. E' certo, però, che le nostre inchieste sono state fatte anche per Potenza, foro in cui, spesso, si assolvono o si archiviano le denunce contro i magistrati tarantini.

Tanto io dovevo ad un magistrato che è da me tra i più stimati a Taranto, in integrazione esplicativa alla sua richiesta di aggiornamento.   

CORSI E RICORSI STORICI. A proposito di come funzioni la giustizia (con la g minuscola) in questi paraggi riportiamo questo stralcio di premessa del libro-inchiesta del giornalista Alfredo Ancora:

"Un anno dopo, a maggio del 2010, tutti gli imputati di cui si parla in questi articoli di stampa sono stati prosciolti dall'accusa di corruzione; il giudice Tommasino anche da quella per la fuga di notizie. Solo l'ex procuratore capo della Repubblica di Taranto Petrucci è stato rinviato a giudizio con l'accusa di peculato, perché avrebbe utilizzato per uso personale il cellulare di servizio. Ad ogni modo fui molto colpito dalle notizie di stampa che annunciavano l'inchiesta di Taranto, perché alcuni anni prima l'allora procuratore aggiunto della Repubblica di Lecce, Aldo Petrucci, era stato l'autore di un'inchiesta mirata e puntigliosa che aveva portato all'arresto dell'ex sindaco di Calimera, Giorgio Aprile, del suo vice sindaco Fernando Gaetani, e di chi scrive, Alfredo Ancora, allora capogruppo del Pds in Consiglio comunale. Non eravamo dei ladri, non eravamo corrotti, non eravamo accusati di nessuno dei reati per i quali in quegli anni era nata ed è poi divenuta famosa l'inchiesta milanese di "Mani Pulite", quali concussione, corruzione, peculato, appropriazione indebita, truffa ai danni dello Stato, etc.. No, nulla di tutto questo. Fummo arrestati con un'ordinanza di custodia cautelare emanata a causa di una mia lettera di dimissioni dalla carica di consigliere comunale. Una vicenda oscura e strana che aveva portato tre cittadini, i quali per anni, da postazioni e con intensità diverse, avevano combattuto contro il malaffare e la gestione allegra della cosa pubblica, a finire quasi in prigione. Solo la "magnanimità" del giudice per le indagini preliminari consentì che ci fosse risparmiata l'onta delle manette e del carcere. Finimmo però agli arresti domiciliari. Per una lettera di dimissioni per la quale una prima inchiesta era stata archiviata. Ma l'inchiesta fu riaperta dopo un anno dal procuratore aggiunto Aldo Petrucci, senza alcun fatto nuovo che non fosse la nostra attività politica e di amministratori a Calimera. Al termine di un'indagine che aveva anche visto un mandato di perquisizione e il sequestro del mio computer, quando le prove della nostra presunta colpevolezza sembravano essere state tutte raccolte, ecco arrivare l'incredibile ordinanza di custodia cautelare. Gli arresti domiciliari durarono otto giorni e furono una violenza insopportabile alla nostra coscienza di cittadini onesti. Alla fine, rinviati a giudizio, il teorema accusatorio rivelò tutta la sua inconsistenza, sia in fatto che in diritto, e cadde miseramente come un castello di sabbia. Fummo assolti. Non senza che, durante tutta quella vicenda, il procuratore aggiunto Aldo Petrucci mostrasse nei nostri confronti un forte pregiudizio che lo portò ad avere un atteggiamento che ho definito allora, e non esito a definire ancora oggi, persecutorio. Perché è bene si sappia: nonostante in quel Comune negli anni fino ad allora trascorsi fossero accaduti fatti che avrebbero meritato, quelli sì, l'attenzione della magistratura, l'unico sindaco arrestato nella storia di Calimera è stato Giorgio Aprile; gli unici amministratori arrestati di quel Comune della Grecìa Salentina siamo stati noi, che non abbiamo rubato una lira ma che, anzi, ci abbiamo rimesso di tasca nostra, sindaco e giunta più dei consiglieri. Finimmo invece arrestati per una banale lettera di dimissioni. Appropriazioni indebite, clamorosi falsi in atti pubblici, ammanchi di denaro pubblico, truffe elettorali, e una gestione allegra della cosa pubblica che avevano portato quel Comune alla bancarotta certificata da decreti ministeriali, mai avevano visto la magistratura così puntigliosa come lo fu con noi in quel caso, quando arrivò addirittura ad ordinare gli arresti. Mai una giunta comunale aveva subito tante e tali inchieste, basate tutte sul nulla e che portarono al nulla totale, ma nate tutte col solo scopo di intimidire chi aveva osato ribaltare trentennali equilibri di potere, come invece era accaduto a quella giunta, guidata prima da Giorgio Aprile e poi da Rocco Montinaro. Passata la tensione di quei mesi, una volta assolti gli imputati, la vicenda è finita nel dimenticatoio. La politica e il paese avevano bisogno di guardare avanti, a noi erano stati restituiti la serenità e l'onore che, per la verità, agli occhi dei nostri concittadini non avevamo mai perduto. Poi, dopo 15 anni, ecco questa storia del nostro inquisitore che viene a sua volta messo sotto inchiesta. E per reati molto più gravi di quelli per i quali egli ci mise sotto accusa e ci fece arrestare. Sarebbe stato facile dire, come dicevano gli antichi, che "il tempo è galantuomo". Sarebbe stato, forse, anche un po' meschino. Certo, non possiamo non notare come lui, il dottor Petrucci, messo sotto accusa, si sia augurato, come farebbe ogni indagato, «che nell'inchiesta non abbia trovato cittadinanza la maldicenza». Non si preoccupò però quando nella sua inchiesta di allora, che portò ai nostri arresti, la maldicenza egli la lasciò entrare, eccome. Comunque al procuratore della Repubblica Aldo Petrucci auguriamo sinceramente di avere la coscienza tranquilla almeno quanto l'avevamo noi, Aprile, Gaetani ed il sottoscritto, quando fummo arrestati e poi rinviati a giudizio; gli auguriamo che egli, nel procedimento a suo carico, dimostri, come facemmo noi, la sua innocenza e la totale estraneità anche al reato di peculato per il quale sarà sottoposto a giudizio. La giustizia italiana è fin troppo malata per potersi permettere che al suo interno agiscano magistrati sui quali pesi anche solo l'ombra di un uso distorto del loro posto di lavoro, e di potere. Resta da capire cosa avevamo fatto noi, o cosa lui pensava avessimo fatto noi, di peggio delle cose delle quali lui è stato accusato dai Pm di Potenza al punto che noi meritammo la custodia cautelare e lui no. Forse, come io ero e sono convinto, si voleva solo darci una lezione, per imparare a stare al nostro posto. Ma è inutile fare ipotesi che il lettore non capirebbe se non raccontando, carte alla mano, tutta la storia relativa al nostro arresto. Anche perché oggi, chiunque venga a sapere che tre persone furono arrestate per una banale lettera di dimissioni di un consigliere comunale, ha una reazione di sorpresa e incredulità. E in tanti mi hanno esortato: «Perché non scrivi questa storia?». E' quanto mi accingo a fare, chiedendo perdono a quanti si vedranno scaraventati, attraverso queste pagine, in una fase della vita che essi consideravano ormai alle spalle. Anche perché dopo tanti anni il tempo ha sparigliato le carte, cambiato le vite e i pensieri di molti dei protagonisti di allora. Alcuni di loro, purtroppo, non ci sono più. Ma il passato, che piaccia o no, fa parte della nostra vita. E col passato i conti vanno fatti, senza ipocrisie. Soprattutto quando il presente sembra fornire di esso nuove chiavi di lettura."

Glocal editrice è una piccola realtà editoriale del Salento portata avanti con coraggio e tenacia dal giornalista Lino De Matteis. Specializzata soprattutto in editoria d’inchiesta, tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo “Giornali e democrazia” di Beppe Lopez, “Il Giallo di Ugento” di Lino De Matteis sul controverso caso di nera riguardante Giuseppe Basile, e tutta una serie di e-book scaricabili gratuitamente sul sito dell’editore  dalle tematiche accattivanti come “Le mani sulla Puglia”, un’inchiesta sulla criminalità organizzata in Puglia e sulla zona grigia in cui si annidano i rischi di collusione tra criminalità e politica, oppure l’interessantissimo “Il caso Fonte. La prima vittima della mafia nel Salento” ovvero un reportage sull’assassinio dell’assessore comunale repubblicano di Nardò, Renata Fonte, avvenuto nel 1984. Ora Glocal editrice punta su un libro che farà discutere ovvero “Un processo per caso” di Alfredo Ancora, volume che racconta il caso emblematico di “mala-giustizia”, avvenuto a Calimera (un piccolo centro del basso Salento), raccontato da uno dei protagonisti. Tutt’altro che un fatto locale, la vicenda può divenire un vero e proprio esempio di un fatto accaduto a tre pubblici amministratori arrestati per una semplice lettera di dimissioni dal consiglio comunale presentata da uno di loro. Fatto accaduto a tre amministratori pubblici vittime di un accanimento persecutorio da parte di un giudice, che mette piede in una vicenda squisitamente politica. Ora Alfredo Ancora, vuole dire la sua, e lo fa mettendo in luce la disparità di trattamento avuta dai diversi imputati nelle fasi istruttorie delle due inchieste: da una parte, tre integerrimi amministratori (sono stati poi tutti assolti) che vengono arrestati per una normale lettera di dimissioni e, dall’altra, un magistrato che, per reati certamente più gravi, come corruzione e peculato, non viene privato della libertà. Fuori da ogni dubbio la vicenda dei tre amministratori rappresenta l’incarnazione perfetta delle disfunzioni della Giustizia nel nostro Paese, e soprattutto il libro si presta a mantenere aperto il dibattito sulla giustizia che ancora oggi non ha trovato alcun punto di efficienza e obiettività. 

Il libro "Un processo per caso. Storia di tre arresti per dimissioni" (Glocal Editrice, pp. 208) del giornalista Alfredo Ancora. La storia è quella di tre amministratori di un Comune del Sud Italia, Calimera, arrestati diversi anni fa per una semplice lettera di dimissioni. Lettera che un consigliere comunale di maggioranza aveva presentato in Comune e che vicesindaco, prima, e sindaco, poi, avevano iscritto nel protocollo riservato. Dall’opposizione arrivò la richiesta di copia di quella lettera, che fu negata dal sindaco perché la ritenne riservata. Partì un esposto alla Procura che avviò un’inchiesta, ma il sostituto procuratore incaricato non rilevò alcun reato e archiviò tutto. Partì allora un secondo esposto alla Procura Generale e si riaprirono le indagini a conclusione delle quali ci furono tre ordinanze di custodia cautelare a carico di sindaco, vicesindaco e del consigliere dimissionario. Mentre in Italia infuriava la bufera di Tangentopoli, nel Salento avveniva questa vicenda surreale, conclusasi con l’assoluzione di tutti e tre gli imputati al termine di un processo d’appello celebrato – fatto più unico che raro – sulla base del ricorso del procuratore aggiunto della Repubblica contro le conclusioni del Pm di udienza nel processo di primo grado che i giudici del Tribunale, peraltro, avevano accolto. Una storia assurda sul filo dei rapporti tra giustizia e politica, che qui viene raccontata da uno dei protagonisti, con grande passione e rigore documentale. L’autore del volume è nato a Zollino (LE) nel 1953 e dal 1976 vive a Calimera. Laureato in Scienze Politiche all’Università di Bari discutendo una tesi sul rapporto di lavoro giornalistico, ha subito iniziato un’intensa attività pubblicistica. È stato infatti direttore del giornale “Il ponte”, poi de “La civetta”, ha collaborato con “Calimera città futura” e con la “Kinita”, tutti giornali editi a Calimera. Assunto dal “Quotidiano di Lecce” nel 1979, è diventato giornalista pubblicista nel 1982 e professionista nel 1999. Nel 2003 ha iniziato la collaborazione con il “Corriere del Mezzogiorno”, protrattasi per alcuni anni, e con il settimanale “Città Magazine” diretto allora dal collega Mino De Masi. Attualmente collabora con il “Nuovo Quotidiano di Puglia”. Nella sua attività giornalistica si è sempre interessato soprattutto di politica, di politica-amministrativa e di giustizia amministrativa. È anche stato consigliere comunale di Calimera dal 1985 al 1996, prima eletto come indipendente nelle liste del Pci, poi in quelle del Pds. Durante questa esperienza politica è accaduta la vicenda raccontata nel libro Un processo per caso. Negli anni ’90 ha assunto la direzione di Radio Salentina. Nel 2003 ha iniziato le collaborazioni con la rivista dell’Università di Lecce, “Unile”.

Una storia tra politica e persecuzione giudiziaria di tre pubblici amministratori, raccontata da uno dei protagonisti. Non è un fatto locale, come si potrebbe pensare, poiché la vicenda è talmente emblematica e unica che diventa un caso universale nel panorama della “malagiustizia” italiana. Non era mai successo, infatti, che tre pubblici amministratori venissero arrestati per una semplice lettera di dimissioni dal consiglio comunale presentata da uno di loro, con un accanimento persecutorio da parte di un giudice che entra a gamba tesa in una vicenda squisitamente politica. Ma il “colpo di scena”, se così si può dire, sta nel fatto che proprio quel giudice che si era tanto accanito all’epoca contro i tre amministratori, un giudice noto in Puglia per essere stato prima procuratore aggiunto a Lecce, poi procuratore capo a Taranto e, infine,  di nuovo procuratore capo al Tribunale dei minorenni di Lecce, Aldo Petrucci, è passato di recente agli onori della cronaca, pugliese e nazionale, perché imputato di corruzione e peculato in un’inchiesta sulle “toghe sporche” a Taranto (poi è stato prosciolto dall’accusa di corruzione ma rinviato a giudizio per peculato). Indipendentemente, comunque, dalle conclusioni della vicenda giudiziaria, è la fase istruttoria dell’inchiesta che ha riguardato Petrucci che ha fatto scattare la voglia di raccontare la sua esperienza ad Ancora, mettendo in parallelo proprio la diversità di trattamento avuta dai diversi imputati nelle fasi istruttorie delle due inchieste: da una parte, tre onesti amministratori (sono stati infatti poi tutti assolti) che vengono arrestati per una semplice lettera di dimissioni e, dall’altra, un magistrato che, per reati molto più gravi, come corruzione e peculato, non viene privato della libertà. Al di là di quello che potrebbe sembrare una sorta di curioso contrappasso dantesco, comunque, la vicenda dei tre amministratori è emblematica per come certa giustizia può accanirsi sui semplici cittadini impotenti a difendersi e come invece il corso della giustizia possa essere frenato o aggirato facilmente dagli uomini di potere. Il dibattito sulla giustizia è aperto ed è, anzi, oggi al centro della vita pubblica italiana: la vicenda raccontata da Ancora ne è a pieno titolo uno dei tasselli di cui bisogna discutere.

GIUDICE SCRIVEVA SENTENZE CON AVVOCATI, TRASFERITO DAL CSM

Assegnava perizie a medici che non avevano specializzazioni in materia e, per la stesura di decreti ingiuntivi, aveva chiesto aiuto ad alcuni avvocati difensori, scrive "La Repubblica". Per queste ragioni il presidente della sezione Lavoro di Taranto, Vito Vozza, a pochi mesi dalla pensione, è stato trasferito, in via cautelare, dalle funzioni e dalla sede dalla sezione disciplinare del Csm. Il Tribunale delle toghe ha così accolto la richiesta di trasferimento che era stata avanzata nei confronti di Vozza dal guardasigilli Angelino Alfano, ribadita anche dalla Procura generale della Cassazione, titolare assieme al ministro dell'azione disciplinare, rappresentata dal Pg Pasquale Ciccolo. Nei confronti di Vozza, difeso davanti al Csm da Nicola Buccico, è stato aperto anche un procedimento penale a Potenza per falso ideologico.

RITARDI COLOSSALI NEL DEPOSITO DELLE SENTENZE

Ruolino di marcia disastroso anche per Pietro Vella, giudice a Taranto, scrive "Il Giornale". Le sue sentenze arrivavano dopo il periodo previsto: con 700-800 giorni di ritardo in 14 casi (in 12 dei quali superiore a due anni); 800-900 giorni dopo il tempo stabilito in 28 casi; con 900-1.000 giorni di troppo dopo in 28 casi. Vella ha addirittura infranto 47 volte il muro dei 1000 giorni; in 21 di questi 47 casi ha cincischiato più di tre anni e 5 volte ha indugiato più di quattro anni, con una punta massima di 1684 giorni. Per la sezione disciplinare del Csm si tratta di «ritardi pluriennali gravemente lesivi del generale interesse pubblico... sintomatici di negligenza e di insufficiente laboriosità, nonché di inadeguata capacità di organizzazione del lavoro giudiziario». Risultato: l’ammonimento !!!

DENUNCE OCCULTATE CONTRO I MAGISTRATI !!!

 

 


 


 

 

MOTIVAZIONI PER RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE, CHE FANNO RIFLETTERE !!!

L'INCARICATO DELLE INDAGINI, CHE HA OMESSO DI INDAGARE PER UN REATO PERSEGUIBILE DI UFFICIO, RITIENE PACIFICA LA PRASSI DELL'UFFICIO PROTOCOLLO DI NON RILASCIARE IDONEA RICEVUTA E NUMERO DI ISCRIZIONE, ANCHE SE LA FUNZIONE DELL'UFFICIO SIA PROPRIO QUELLA DI ATTESTARE LA REGOLARE E COMPLETA CONSEGNA DEI DOCUMENTI.

NON C'E' REATO DI ABUSO DI UFFICIO SE LE PARTI OFFESE SONO TANTE E NON UNA SOLA.

SONO PROPALAZIONI IL RITENERE CHE SIA ILLEGALE VINCERE UN CONCORSO PUBBLICO IN PALESE E GRAVE CONFLITTO DI INTERESSE, ANCHE SE A VINCERLO E' COLUI IL QUALE L'HA INDETTO E REGOLATO.

SI ISCRIVE CONTRO IGNOTI E SI ARCHIVIA UN DENUNCIA. PECCATO CHE LA PROCURA SIA LA STESSA, CHE IN DENUNCIA E' ACCUSATA DI PRESUNTI ABUSI ED OMISSIONI.


 

 

CORPI DEL REATO SULLE BANCARELLE

Le griffe false tornavano sul mercato direttamente dal Tribunale. A gestire il presunto traffico illecito era un cancelliere in servizio a Palazzo di Giustizia. Nel mirino della Squadra Mobile è finito il tarantino Raffaele Tricarico, di 64 anni, responsabile dell’ufficio corpi di reato. Nella giornata di ieri i poliziotti guidati dal dottor Fabio Abis, hanno notificato al cancelliere la misura interdittiva spiccata dal dottor Giuseppe Disabato, giudice delle indagini preliminari presso lo stesso Tribunale. E al cancelliere è andata anche bene, visto che il pubblico ministero Antonella Montanaro aveva chiesto per lui gli arresti domiciliari. Ma il gip ha ritenuto che le esigenze di natura cautelare connesse alla clamorosa inchiesta fossero sufficientemente salvaguardante con la sospensione dal lavoro del cancelliere, volto piuttosto noto in Tribunale.

VIGILI VIOLENTI ?!? Arrestato per violenza a vigile, ma una telecamera lo scagiona.

«Le cose non sono andate come le hanno raccontate a voi. E io ho le prove». Oscar Morello, l’imprenditore  48enne arrestato  mercoledì scorso dai vigili urbani perché  accusato di aver aggredito gli  agenti in seguito alla contestazione di una multa, si difende.

L’uomo, processato per direttissima giovedì, è stato rimesso  in libertà dal giudice. Il prossimo 5 maggio è fissata l’udienza che vede Morello imputato per lesioni nei confronti degli agenti. Ma, d’intesa con il suo legale Marino Galeandro, Morello ha deciso di contrattaccare. «Chiederò anche il risarcimento dei danni. Ho un  taglio alla testa e un occhio pesto».

 Il suo asso nella manica è una registrazione dell’episodio immortalato dalla telecamera a circuito chiuso posizionata sotto il balcone dell’ufficio di Morello. «Non sono stato io ad aggredire il vigile, ma è accaduto l’esatto contrario e come prova ho la registrazione. Questo video è la mia salvezza. Se non ci fosse stata la telecamera la mia vita sarebbe cambiata. Non avrei potuto provare come farò, la mia innocenza». Dell’esistenza  dei nastri si è saputo solo giovedì in aula durante l’udienza per direttissima.

«Non ho fatto mai riferimento alla registrazione perché avevo paura. Temevo, visto quello che ho subìto, che qualcuno potesse addirittura spaccare tutto per distruggere questa prova. È stata un’esperienza bruttissima. Non sapevo più di chi fidarmi».  Sul nastro si vede l’auto parcheggiata al solito posto in via Umbria, il vigile che si avvicina ed eleva la contravvenzione. Morello arriva per protestare, ma non è lui a fare violenza.

Il processo si terrà a maggio, ed in tribunale figurerà come imputato per lesioni nei confronti di tre agenti di Polizia Municipale, che hanno denunciato di essere stati aggrediti da lui mercoledì in via Umbria, per una multa. Ma Oscar Morello, ex tassista ed oggi titolare di un’azienda di autoservizi, non ci sta. E racconta la sua verità in merito a quanto accaduto. «Non sono stato io ad aggredire i vigili, è stato uno di loro che invece mi ha picchiato. Posso provarlo». La prova è in un video, che conserva nel suo computer e che Morello definisce «la mia salvezza». Il filmato è stato registrato da una videocamera posizionata sul balcone dell’azienda. «E’ lì come forma di sicurezza, per me ed i miei dipendenti. Adesso la benedico».  Intanto, nella sua azienda, insieme ai suoi due figli ed alla squadra di dieci dipendenti che lavora con lui, Morello racconta la sua verità. «Perché per una persona perbene è terribile essere accusati di qualcosa che non si è fatto», dice mentre mostra i segni che gli avrebbero lasciato i colpi di walkie talkie del vigile. «Dal balcone ho visto che mi stavano multando, e sono sceso. La macchina non era neppure dinanzi al passo carrabile. E’ nata una discussione, ed ho detto al vigile che doveva vergognarsi. Lui ha perso la testa e mi ha picchiato». Ne è seguita una gazzarra, con l’arrivo di altri agenti della Municipale. Per Morello è scattato l’arresto, eseguito dagli stessi vigili urbani. Un agente si è fatto refertare cinque giorni di prognosi, tre giorni invece per due vigilesse.

PRONTO INTERVENTO ?!? PER IL SINDACO 50 MINUTI, PER I CITTADINI....

Il Sindaco di Taranto Ezio Stefàno ha chiamato il centralino dei vigili urbani per segnalare la presenza di diverse vetture in doppia fila, ma la pattuglia sarebbe giunta sul posto dopo 50 minuti. Dal canto loro, i vigili negano questa tesi e dicono che la pattuglia sarebbe arrivata dopo soli 25 minuti. La replica del Sindaco non si è fatta attendere:”ci sono orari delle telefonate e testimoni".

LA NOTTE DI CAPODANNO I VIGILI URBANI TUTTI A CASA.

Sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 23 dicembre 2010 ennesima notizia scandalo. Solo tre Vigili urbani in servizio durante la notte di San Silvestro. Ovvero, 3 su 193 (l’organico al completo). Anche se sarebbe meglio dire, 3 su 80 riferendosi solo al reparto Viabilità. E questo nonostante, per quella sera, il Comune di Taranto abbia organizzato in piazza della Vittoria il concerto per festeggiare la fine dell’anno e salutare con la musica l’inizio del 2011. E, per questo motivo, è facile immaginare che il traffico, in quelle ore, in quella sera, possa andare in tilt.  In altre parole, il concerto in piazza organizzato dall’Amministrazione comunale rende, praticamente, obbligatoria la presenza degli agenti di Polizia municipale. E non solo per dirigere il traffico ma anche per fronteggiare eventuali imprevisti (incidenti stradali ed altro). Eppure, all’appello dell’Amministrazione comunale hanno risposto solo in tre. Sono stati i pochi, pochissimi evidentemente, ad accettare di effettuare per la notte di San Silvestro il lavoro straordinario. Evidentemente, i 15 euro lordi all’ora previsti sono stati ritenuti poco appetibili da parte dagli agenti che hanno, dunque, rifiutato. Lo straordinario, del resto, non può essere considerato obbligatorio ma facoltativo. E, quindi, i vigili non possono essere obbligati a lavorare, come se il loro lavoro fosse uguale a tanti altri. La passione, il buon senso e la responsabilità civica a Taranto è un optional.

INSABBIAMENTI ALLA PROCURA DI TARANTO

Sullo scandalo della Asl di Taranto era stata sollevata una polemica durissima dall'ex parlamentare di Forza Italia, Pino Lezza. Aveva accusato la Procura di aver insabbiato parte dell'inchiesta, soprattutto il filone di indagine che riguardava i politici che avrebbero intascato tangenti da Parnasso. Secondo Lezza, inoltre, molte denunce su sprechi di denaro per concessioni di lavori a personaggi in odore di malavita da parte del Comune sarebbero rimaste inascoltate.

DENUNCIA I GIUDICI CHE INSABBIANO: LO PROCESSANO IN UN GIORNO

Non capita quasi mai. Quasi, scrive Alessia Mariani su "Il Giornale". E infatti è capitato che a Taranto la giustizia-lumaca ha preso a correre come un treno. L’eccezione che conferma la regola è nell’incredibile vicissitudine giudiziaria capitata a Franco Maccari, poliziotto-sindacalista del Coisp, denunciato per aver sollevato accuse scomode.

È capitato tutto in un giorno: la querela nei suoi confronti è approdata in procura la mattina stessa in cui è stata presentata; il suo fascicolo è stato immediatamente assegnato dal Procuratore Capo; prima del calar del sole da neoquerelato si è ritrovato iscritto nel registro degli indagati; tempo due giorni e ha subìto un sequestro preventivo prontamente autorizzato, notificato a casa e convalidato.

Roba da guinness. Da far strabuzzare gli occhi ad avvocati e magistrati di mezzo Stivale: una piccola luce di speranza per migliaia di uomini e donne in attesa di un giudizio da anni.

Non succede mai, ma è successo. A Taranto, in quella stessa Procura finita a novembre in un’inchiesta dei colleghi potentini per un sospetto «rallentamento» nelle indagini, accuse di insabbiamento con incartamenti al vetriolo su intrecci tra politica e malaffare, con Asl e Comune nel mirino.

Certi faldoni, secondo un’interrogazione parlamentare di Pino Lezza, ex deputato di Forza Italia, ora a capo di un'associazione cattolica liberale, sarebbero stati messi appositamente in sordina, con un andamento lento, molto lento.

Ecco invece che, oggi, a presentarsi in Procura per rispondere di diffamazione arriverà puntuale il poliziotto-sindacalista. Tre dei quattro procedimenti penali a suo carico sono stati aperti con velocità supersonica e abnegazione esemplare.

Il tutto nasce da un esposto dell’ex questore Eugenio Introcaso, risentitosi per certe affermazioni. Non sappiamo com’è, ma le carte contro Maccari sono arrivate a destinazione a velocità ipergalattica. «Con rapidità decisamente inusuale - commenta Giuseppe Salvatore Cutellè, legale di Maccari - tanto da averci indotto a scrivere al Csm e al Procuratore generale di Cassazione. Questo doppio passo della giustizia ci lascia quantomeno perplessi».

Nel corso dell'attività di sindacalista, Maccari prende di petto alcune scelte gestionali dell'ex numero uno della questura tarantina, lo fa riempiendo comunicati destinati all'ufficio relazioni sindacali del Viminale, poi pubblicati sul sito internet del sindacato.

La prima querela per diffamazione è del 13 gennaio 2006. Il 30 dello stesso mese la squadra mobile redige il verbale d'elezione a domicilio e nomina dell'avvocato. Il 28 febbraio scatta il sequestro preventivo del sito www.coisp.it, sequestro subito convalidato ed eseguito a Roma il 6 marzo dagli agenti della Digos appositamente inviati da Taranto. Quindi, la denuncia del 13 luglio, trasformata in avviso di garanzia nel corso di una stessa mattinata.

Procedura lampo anche per la denuncia del 17 luglio dello scorso anno. «Circostanze - afferma Maccari - che evidenziano senza ombra di dubbio una corsia preferenziale che ci lascia quantomeno perplessi. Pare incredibile che in una Procura oberata dalla mole di lavoro come quella di Taranto, tutto passi in secondo piano rispetto a una semplice querela di diffamazione. Vi sono denunce per reati ben più gravi che restano ferme nei cassetti per mesi. Eppure nel mio caso, e per più di una volta, tutto si è svolto con una celerità che ha del paradossale. Per questo chiediamo al Csm di controllare se non vi siano i presupposti di incompatibilità ambientale e, nel caso, di avviare dei procedimenti disciplinari».

GIUSTIZIA

ALLEGATO B SEDUTA N. 80 DEL 30/11/2006 Pag. 2643

Interrogazioni a risposta scritta:

PATARINO. - Al Ministro della giustizia. - Per sapere - premesso che:

il Sottosegretario alla Giustizia senatore Alberto Maritati, dopo aver recentemente visitato il Tribunale di Taranto, ha voluto far notare che lo scopo della visita era dovuto anche ad una propria richiesta di accelerazione delle inchieste;

il Procuratore Capo della Procura della Repubblica di Taranto dottor Aldo Petrucci, in un'intervista al Corriere del Mezzogiorno, ha evidenziato che le inchieste non devono essere soltanto concluse presto ma anche e soprattutto concluse bene,

Quali provvedimenti intenda assumere per verificare i gravissimi fatti su descritti e per tutelare l'autonomia della Magistratura tarantina da pressioni ed interferenze esterne, anche a garanzia della credibilità del suo operato in una fase politico-amministrativa particolarmente delicata come quella pre-elettorale. (4-01814)

GIUSTIZIA

Atto n. 4-08911

Pubblicato il 22 giugno 2005 Seduta n. 824

BOBBIO Luigi , BUCCIERO - Al Ministro della giustizia. Premesso:

che sono pervenute all’interrogante 3 audiocassette e la trascrizione del relativo contenuto, concernente alcuni colloqui intercorsi tra il sig. Antonio Criscuolo ed il sig. Giuseppe Bellino, entrambi ex amministratori del Comune di Castellaneta (Taranto);

che il Bellino risulta essere attualmente indagato nel procedimento penale n. 2827/00 r.g.n.r. della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Taranto per numerosi reati, tra i quali quelli di cui agli artt. 323, 479, 353, 640, 317 del codice penale, che sarebbero stati commessi quando il Bellino rivestiva la qualità di assessore presso il Comune di Castellaneta;

che il tenore delle precitate trascrizioni si presenta meritevole di approfondimento, in quanto nelle stesse si dice apertamente che lo svolgimento di tutta l’udienza preliminare per tale procedimento penale, tenutasi dinanzi al Dott. Pio Guarna, il suo strano ed anomalo andamento connotato da circa una ventina di udienze (veramente tante per una semplice udienza preliminare), il suo esagerato protrarsi per circa un triennio, la sentenza conclusiva, sarebbero il risultato di un accordo intercorso tra il giudice dell’udienza preliminare, dott. Pio Guarna, e l’imputato Rocco Loreto, già sindaco del Comune di Castellaneta, nonché ex Senatore della Repubblica;

che delle frasi contenute in queste trascrizioni appaiono realmente di contenuto inequivoco, soprattutto alla luce di un fatto fondamentale: Giuseppe Bellino, che era ed è attualmente imputato nel processo in questione, e rispondeva di gravi reati, è stato assolto da alcuni di essi, e soprattutto dal più grave, ossia da una concussione sessuale;

che evidentemente non ha motivi di astio o risentimento nei confronti del giudice che lo ha giudicato, e che lo inducano a dire il falso;

che anzi precisa, come si ricava dalle trascrizioni, che a lui stanno solamente facendo del bene;

che a più riprese emerge dalle trascrizioni come l’andamento del processo sia frutto di quello che viene definito come un accordo generale;

che l’intera attività processuale ha conosciuto un grande dispendio di tempo, in quanto ci sarebbero stati ritardi fatti apposta, e che devono fare delle cose per perdere tempo;

che di molte attività che si sarebbero tenute nel corso dell’udienza alcuni, imputati e non, erano a conoscenza in anticipo;

che il latore di queste anteprime sarebbe stato un tale Mimmo Salemme;

che ciò tanto era vero, che in una circostanza il Salemme in questione era così ben informato da avere addirittura in suo possesso una copia della sentenza autentica e scritta di pugno dal Dott. Guarna;

che sarebbe stato appositamente commesso un errore nel corso del processo per ottenere una ulteriore perdita di tempo;

che in sostanza tutto il processo sarebbe stato pilotato in virtù del precitato accordo generale, in quanto si dice che sta facendo tutto Rocco, da identificare nell’ex sindaco Rocco Loreto;

che dalle trascrizioni emerge inequivocabilmente come il Bellino sia assai bene informato, e come dia per effettivo e pacifico l’accordo tra Guarna e Loreto;

che riferendosi ad altra vicenda sempre connessa al processo in questione, e sempre dando per scontata la sussistenza di un previo accordo, si leggerebbero nella trascrizione frasi che parlerebbero di un giudice che è d’accordo con Rocco e che potrebbe forse fare qualcosa;

che un cenno merita anche la figura del Salemme il quale, oltre ad essere in possesso di una copia della sentenza scritta di pugno dal giudice, oltre ad essere colui che dava le notizie in anteprima circa lo svolgimento del processo, dimostra quasi una sorta di organicità rispetto a questo accordo, in quanto nel tranquillizzare il Bellino circa l’andamento del processo a quest’ultimo diceva che occorreva perdere tempo;

che, in effetti, le gravissime dichiarazioni contenute nell’audiocassetta trovano oggettivi riscontri nei fatti che di seguito si evidenziano ed elencano, ed in primis nell’andamento stesso del processo in questione;

che Cosimo Salemme, ossia colui che avrebbe dato le anteprime sullo svolgimento delle udienze, ed era in possesso di una copia della sentenza scritta di pugno dal giudice prima che venisse pronunciata, effettivamente sarebbe persona assai vicina al Loreto in quanto facente parte della sua coalizione politica;

che effettivamente il processo n. 2827/00 r.g.n.r. è stato oggettivamente un processo di inspiegabile (almeno sino ad oggi) lunghezza, se si considera che si è trattato della sola udienza preliminare;

che la prima udienza si è celebrata in data 18/10/2001 e la sentenza, per quanto pronunciata in data 8/7/2003, è stata depositata solo il 1°/6/2004;

che la decisione del GUP è stata una sentenza di non luogo a procedere, e considerato che è stato proposto gravame avverso la stessa, e che deve celebrarsi anche il consequenziale giudizio di appello, la fase dell’udienza preliminare non può ancora ritenersi virtualmente conclusa (nonostante, appunto, la prima udienza si sia celebrata il lontano 18/10/2001);

che la sentenza, anche con una motivazione assai discutibile come si dirà a breve, ha assolto dalle imputazioni relative ai fatti più recenti, rinviando al contrario a giudizio solo le imputazioni per i fatti più risalenti nel tempo, e quindi più prossimi alla prescrizione;

che tale circostanza, evidentemente, avvalora l’ipotesi che rinviene dalla registrazione, ossia che tutta l’attività di udienza è stata pilotata per far perdere più tempo possibile ed arrivare indenni alla maturazione dei termini di prescrizione dei reati contestati;

che ulteriore elemento da considerare è che il dott. Guarna al momento della lettura del dispositivo si riservava novanta giorni per il deposito della motivazione, benché nessuna norma consenta al GUP di motivare entro un determinato termine, mentre appare strano che un giudice abilitato alle magistrature superiori come il dott. Guarna incappi in una tale svista;

che in ogni caso il termine dei novanta giorni previsto per il deposito è stato ampiamente superato;

che la credibilità del Bellino circa il fatto che dal giudice sarebbero stati commessi volontariamente degli errori per perdere ulteriore tempo è confermato dal fatto che effettivamente è stata attivata la procedura di correzione di errore materiale;

che tuttavia, anche nella circostanza, il dott. Guarna è incappato in uno svarione a dir poco strano per un magistrato della sua esperienza, in quanto al momento della decisione vi è stata l’omessa pronuncia su due dei numerosi capi d’imputazione contestati, ossia sui capi I e II;

che tale omessa pronuncia, che legittimerebbe esclusivamente chi ha interesse ad impugnare la sentenza, è stata invece il pretesto per azionare (del tutto abnormemente) la precitata procedura di correzione dell’errore materiale;

che per la correzione di questo errore materiale si sono persi ben ulteriori nove mesi;

che vi è stata sentenza di non luogo a procedere per tutti i capi d’imputazione nei quali in qualche modo era coinvolto il Loreto, mentre vi è stato rinvio a giudizio per tutti quei reati dei quali lo stesso non era chiamato a rispondere;

che addirittura vi è stata sentenza di non luogo a procedere anche per taluni degli imputati, e quindi per taluni reati, quando questi in qualche modo potessero essere ricondotti al Loreto, o quando per fatti contestati ad altri imputati la responsabilità avrebbe potuto, in qualche modo, essere estesa anche al Loreto nonostante la pluralità delle fonti di prova acquisite in ordine a detti reati, tra cui anche le confessioni di taluni coimputati;

che tale circostanza è fortemente sintomatica del modus operandi del giudice Guarna;

che tale agire, seppur raffinato, non di rado e per forza di cose, mostra la corda in considerazione del fatto che, dovendo talvolta giustificare e difendere l’ingiustificabile e l’indifendibile, il Dott. Guarna è costretto ad avventurarsi in soluzioni e motivazioni logico-giuridiche quantomeno estrose e, come tali, assai discutibili;

che tale è il caso delle numerose contestazioni di falso in atto pubblico ideologico e materiale contestate al Loreto, ove il primo rilievo ascrivibile al giudice Guarna è la formula assolutoria con la quale scagiona il Loreto dalle accuse di falso e cioè con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, ossia con una formula inapplicabile e non prevista per definire l’esito dell’udienza preliminare, quantomeno a mente dell’attuale art. 425 del codice di procedura penale;

che tale formula è evidentemente, ontologicamente e giuridicamente inapplicabile ad una contestazione di falso materiale, perché significherebbe affermare (come del resto il Giudice Guarna ha fatto) che il reato di falso effettivamente è stato commesso sotto il profilo oggettivo, e tuttavia, e venendo al caso concreto, pur essendo stata contraffatta ed alterata dalle delibere di Giunta Comunale, l’attività di falsificazione sarebbe stata commessa senza coscienza e volontà alcuna, e quindi senza dolo;

che quindi, il giudice Guarna ha ritenuto che un’attività di confezionamento ex post di una delibera falsa ideologicamente e materialmente non si potesse configurare come reato, in quanto carente sotto il profilo psicologico, perché attività compiuta ma non voluta dall’imputato;

che questa inedita creatura giuridica partorita dalla mente del Dott. Guarna, ossia il falso involontario, rappresenta un’aberrazione giuridica, e sovverte un più che risalente insegnamento giurisprudenziale che ha sempre configurato il reato di falso come reato formale;

che del pari rappresenta un’aberrazione giuridica ritenere questa attività di falsificazione ed alterazione alla stregua di un falso innocuo o grossolano, così come pure ritenuto dal giudice;

che lo stesso, essendosi senz’altro reso conto dell’evidente inattendibilità giuridica di una falsificazione non voluta, avrà ben compreso come l’unica scappatoia per rendere digeribile questa forzatissima tesi (forzatura resa vieppiù manifesta dal fatto di essere in fase di udienza preliminare dove, solitamente, non ci si attarda su queste disquisizioni e sottilizzazioni) era quella del ricorso alla tesi del falso innocuo o grossolano;

che tuttavia, nella sua stentata ed accademica motivazione, tesa ad ammantare di innocuità e grossolanità un’attività di falsificazione, al contrario assolutamente rilevante, il giudice Guarna non offre le uniche motivazioni che avrebbe dovuto fornire, ossia, perché la falsificazione di una delibera di Giunta Comunale dovrebbe essere grossolana, e soprattutto per quali fini, seppur grossolanamente, sarebbe stata falsificata. Né ha fornito una versione antagonista e credibile rispetto a quella ipotizzata dal P.M. nella sua prospettazione accusatoria, tale da giustificare una sentenza di non luogo a procedere;che si commenta da sé il fatto che in motivazione il giudice cerchi sempre il pelo nell’uovo arrivando sino al punto di ritenere come falsi innocui o grossolani delibere di giunta municipale al contrario inficiate da palese falsità ideologica e materiale;

che del pari, si commenta da sé il fatto che il giudicante non neghi che i fatti contestati siano stati effettivamente commessi, ma che tuttavia gli stessi non costituirebbero reato perché difetterebbero dell’elemento psicologico, senza dare conto alcuno, peraltro, di quali sarebbero gli elementi che escludono la sussistenza dell’elemento psicologico (tra l’altro, il principio sarebbe stato applicato anche ad una ipotesi di concussione sessuale contestata proprio al Bellino);

che pertanto, il giudice Guarna ha emesso una sentenza di non luogo a procedere pur dovendo ammettere la corrispondenza al vero delle numerose fonti probatorie acquisite dalla Procura della Repubblica;

che indubbiamente, alla luce del contenuto delle audiocassette, ben altro significato assume un ulteriore elemento: l’udienza preliminare è ruotata pressoché esclusivamente, ed assorbendo un cospicuo numero di udienze, intorno alle dichiarazioni spontanee dell’imputato Loreto;

che tali dichiarazioni solo raramente si sono attenute ai fatti di causa ed alle accuse oggetto dei capi d’imputazione, spaziando, al contrario, sugli argomenti di natura più varia;che ancora più forte si è manifestato questo aspetto in un altro procedimento penale, il n.12310/00 r.g.n.r.;

che anche questo processo, che vede tra i suoi imputati il Loreto ed altri imputati coinvolti nel precitato processo n.2827/00 r.g.n.r., è stato caratterizzato da un’udienza preliminare di inimmaginabile lunghezza non ancora conclusa, sempre presieduta dal medesimo GUP, dott. Guarna;

che la prima udienza è stata celebrata l’ormai lontano 25/6/2002, e ne sono susseguite un numero impressionante e che probabilmente non ha né precedenti, né paragoni;

che anche in tale circostanza tutta l’udienza è stata monopolizzata dalle dichiarazioni spontanee del Loreto, e caratterizzata dall’irrituale “deposito” nel corso delle udienze di una massa enorme di carte della più svariata natura;che l’utilizzo del termine “carte” in luogo di altri, che solo apparentemente potrebbero apparire come maggiormente pertinenti, non è casuale, in quanto lo stesso termine “documento” ha ben altro significato sotto il profilo processuale e probatorio, ciò tanto più ove si consideri che le “carte” sono state depositate nel corso di dichiarazioni spontanee, rese peraltro nel corso dell’udienza preliminare, e senza possibilità di contraddittorio in merito alla pertinenza delle stesse ai fatti di causa, e di interlocuzione alcuna circa la loro rilevanza ai fini della decisione;

che oltre alle svariate altre originalità, anche questo rappresenta senza ombra di dubbio un ulteriore unicum;

che le dichiarazioni spontanee rese nel corso dell’udienza preliminare del processo n. 12310/00 r.g.n.r., al di là della comune torrenzialità con quelle rese nel processo n. 2827/00 r.g.n.r., e della comune inconferenza con le imputazioni ascritte, si caratterizzano per un elemento ulteriore;

che, oltre allo scopo manifesto di perdere il maggior tempo possibile, le dichiarazioni rese nel precitato processo, tramite la delegittimazione progressivamente sempre più arrogante di quanti hanno reso dichiarazioni gravemente accusatorie a carico del Loreto, hanno tradito la loro intenzione di svilire le indagini compiute, i risultati delle stesse, i pubblici ministeri che le hanno condotte;

che Loreto si è spinto sino al punto di rendere nel corso dell’udienza dichiarazioni velenosamente allusive e, successivamente, apertamente calunniose e lesive dell’onorabilità e dell’operato dei magistrati e dei loro collaboratori;

che non è di poco momento rammentare come il Loreto abbia apertamente parlato di indagini manipolate, di un “castello calunnioso dell’accusa”, di trascrizioni falsificate, di un interrogatorio mai verbalizzato perché non avrebbe consentito di formulare determinate accuse, con questo accusando chi lo ha indagato di gravi abusi ed irregolarità;

che al riguardo uno dei magistrati che ha condotto l’inchiesta, stanco di queste gravi, non meno che gratuite, illazioni, ben consapevole della cristallinità e regolarità del proprio operato, ha richiesto la trasmissione di tutto il fascicolo relativo al processo n. 12310/00 r.g.n.r. al Tribunale di Potenza, chiedendo, altresì, di essere indagato in prima persona in merito alla regolarità del proprio operato,l’interrogante chiede di sapere quali urgenti iniziative il Ministro della giustizia intenda adottare per verificare la correttezza sotto il profilo disciplinare delle condotte del giudice dell’udienza preliminare di Taranto, dott. Guarna, e la sua compatibilità ambientale.

GIUSTIZIA

Interrogazione a risposta scritta 4-07349

presentata da GIUSEPPE LEZZA lunedì 15 settembre 2003 nella seduta n.355

LEZZA. - Al Ministro della giustizia. - Per sapere - premesso che:

alcuni mesi fa la stampa dava notizia di alcune dichiarazioni del Ministro della Giustizia sulle azioni disciplinari che stavano per partire nei confronti di alcuni magistrati, che avrebbero provato come la commistione fra politica e giustizia sarebbe talmente grave da compromettere i diritti dei cittadini;

naturalmente tali iniziative devono riguardare qualsiasi magistrato, e qualunque schieramento politico coinvolto nella prefata commistione;

frequentemente, e soprattutto a livello locale, questo intreccio tra politica e giustizia nasconde piuttosto rapporti di interesse personale tra politici e magistrati, come a volte è stato denunciato attraverso articoli di stampa, o esposti al CSM -:

quali azioni disciplinari siano state promosse, successivamente alle predette dichiarazioni, in particolare nei confronti di magistrati operanti nel circondario del Tribunale di Taranto. (4-07349)

GIUSTIZIA

Atto n. 4-04363

Pubblicato il 10 aprile 2003, Seduta n. 381

CURTO - Al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro della giustizia. - Premesso:

che allo scrivente è pervenuta copia di un esposto inviato al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro della giustizia, al Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, al Presidente del Consiglio Nazionale Forense, al Procuratore Generale della Repubblica c/o la Corte d’Appello di Taranto, al Procuratore della Repubblica c/o il Tribunale di Potenza, al Procuratore della Repubblica c/o il Tribunale di Taranto e al Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto;

che tale esposto, penale ed amministrativo, sembra sia l’ultimo, in ordine di tempo, di una serie di denuncie ed esposti tendenti a smantellare illegalità di vario tipo che colpiscono i cittadini più deboli e più poveri ad opera di chi rappresenta la giustizia nel nostro Paese, in particolare giudici ed avvocati;

che, per la delicatezza della questione, e a causa della mancanza di un qualsiasi riscontro a questo esposto e ad altri precedenti atti congeneri, ritengo opportuno riportare di seguito il testo del citato esposto:

“Oggetto: omissioni d’atti d’ufficio ed abusi d’ufficio presso gli Uffici Giudiziari di Taranto.

In campo penale si viola il diritto di difesa della persona offesa dal reato;

Al Registro Generale non si ritrovano iscritte notizie di reato, di cui si è presentata regolare denuncia o querela o esposti firmati, ex art.335, c.p.p. ed ex art. 110 bis att. c.p.p., né si forniscono notizie circa le notizie di reato iscritte.

Non si comunica, quando richiesto, ex artt. 406, 408 c.p.p., la proroga delle indagini e la richiesta di archiviazione al GIP, impedendo l’opposizione alla stessa.

Non si svolgono indagini, ex art. 50 c.p.p., nei confronti di persone influenti, e Pubblici Ufficiali che li coprono, per notizie di reato di abusivismo edilizio e violazione di norme ambientali, di sfruttamento del lavoro giovanile e nero ed emissione di buste paghe false, di concorsi truccati per diventare avvocato e di evasione fiscale e contributiva sui praticanti avvocati, di aggressioni ad avvocati per impedirgli la presenza in udienza, di abbandono di incapaci, di riciclaggio di assegni nominativi rubati, di emissione di deleghe false, di truffe Enel, ecc…

Si eseguono sequestri innominati, senza notifica di copia all’interessato. Al soggetto interessato, quando è ritenuto incapace, non si nomina un tutore, impedendo la nomina di un difensore di fiducia, né si nomina un difensore d’ufficio, affinché il soggetto possa opporre richiesta di riesame, ex artt. 257, 322 c.p.p., ed esercitare tutti gli altri diritti processuali, ovvero, se abbandonato fin anche dalle istituzioni, possa esercitare ogni facoltà a favore dello stesso, siano di cura, assistenza, mantenimento, ecc…

In campo penale si viola il diritto di difesa della persona sottoposta ad indagine;

Si chiedono sommarie informazioni alla persona nei cui confronti si svolgono indagini, senza che questa sappia di essere indagata e di conseguenza senza la presenza necessaria del difensore, ex artt. 350, 369, 369 bis c.p.p.

Ex artt.358, 362 c.p.p. non si svolgono accertamenti su fatti e circostanze a favore dell’indagato, né si assumono informazioni utili alle indagini, omettendo l’interrogatorio dello stesso.

Non si procede nei confronti di soggetti rei dello stesso reato.

Si ritrova il fascicolo degli atti d’indagine compiuti dal P.M. e delle dichiarazioni rese dagli indagati, coperti dal segreto d’ufficio, ex art. 329 c.p.p., alla pubblica conoscenza degli indagati e degli estranei in procedimento civile di interdizione. Procedimento civile d’interdizione che dura anni e senza la presenza dell’interdicenda. Quando questa è presente, la si sente alla presenza di decine di persone divertite.

Si obbliga la persona sottoposta ad indagine ad essere il difensore di fiducia e tutore convenzionale del soggetto offeso dallo stesso reato, in quanto non si nomina un difensore d’ufficio, né un tutore, affinché la presunta incapace possa esercitare i suoi diritti processuali e l’indagato non possa reiterare le azioni ritenute lesive.

Volutamente si impedisce alla persona sottoposta ad indagine di chiedere il gratuito patrocinio e quindi nominare un difensore di fiducia capace, pagato dallo Stato, perché si comunica il limite di ammissione di € 5.815,30 (lire 11.260.000) quale reddito del nucleo familiare, anziché € 9.296,22 (lire 18 milioni),ex art. 3, L. 134/01, obbligandolo ad avere un difensore d’ufficio, che non conosce, e che, forse, è meno capace.

Volutamente si impedisce alla persona sottoposta ad indagine di chiedere il gratuito patrocinio e quindi nominare un difensore di fiducia capace, pagato dallo Stato, perché si ignora ogni istanza di concessione del gratuito patrocinio, presentata ex art. 2 L. 217/90, obbligandolo ad avere un difensore d’ufficio, che non conosce, e che, forse, è meno capace.

In campo civile si violano i diritti di difesa delle parti private;

Le vendite dei pignoramenti di beni mobili non si eseguono per mancanza di organi preposti alla vendita, (Istituto Vendite Giudiziarie, Commissionari), ovvero, quando ci sono, si eseguono al di sotto del 10% del valore pignorato, obbligando l’abbandono del procedimento di esecuzione per antieconomicità, perdendo il conto capitale e le spese di giudizio.

Si omette di sollevare il problema dei tempi biblici dei procedimenti civili ordinari e speciali, con meri rinvii delle udienze effettuati per decenni con la complicità dei Giudici.

Con la presente si chiede alle autorità interpellate di intervenire, adottando i provvedimenti necessari, con preghiera di riscontro al sottoscritto, pronto a dare prova per quanto su esposto. In caso contrario si chiede di procedere obbligatoriamente nei confronti del sottoscritto, attivando procedimento penale di calunnia, se bugiardo, ovvero procedimento civile d’interdizione, se pazzo.”,

l’interrogante chiede di conoscere:

se si ritenga opportuno verificare quanto riportato dall’esposto in questione;

se si intenda, e in quale modo, procedere qualora gli argomenti, o alcuni di essi, rispondessero a verità.

CAMERA DEI DEPUTATI. SECONDA COMMISSIONE

Resoconto giovedì 16 gennaio 1997.

- Presidenza del Presidente Giuliano PISAPIA. -

Interviene il Sottosegretario di Stato per la grazia e la giustizia Franco Corleone.

La seduta comincia alle 13,15.

5-00733: Modalità di esercizio dell'amministrazione della giustizia da parte del sostituto procuratore della Repubblica di Taranto, dott. Ghizzardi. (10 ottobre 1996).

Il sottosegretario di Stato Franco CORLEONE osserva che dalle informazioni acquisite presso l'autorità giudiziaria risulta che la procura della Repubblica di Taranto non ha avviato indagini sul fatto indicato nell'interrogazione. Il deputato Cito avrebbe rilasciato dichiarazioni pubbliche nel corso di una conferenza stampa, tenuta a Taranto il 30 maggio 1996, in ordine all'utilizzo delle attrezzature dell'amministrazione comunale, per informare gli organi di stampa della attività svolta quale parlamentare da un sindaco della provincia di Taranto, Senatore della Repubblica, ma non è pervenuta all'ufficio della procura alcuna denuncia sul fatto indicato né alcuna relazione dalle forze dell'ordine.

Pertanto non si ravvisa allo stato alcun elemento per promuovere ulteriori accertamenti anche di tipo ispettivo, posto che il pubblico ministero non aveva notizia di reato sui fatti.

Giancarlo CITO (gruppo misto) si augura di non dover ricevere ogni volta risposte alle sue interrogazioni quale quella data adesso dal rappresentante del Governo. Sottolinea infatti di avere presentato una denuncia nel momento in cui ha rilasciato una pubblica dichiarazione circa l'accaduto. Non si può certo dire, quindi, come ha fatto il rappresentante del Governo, che non è stata fatta alcuna denuncia. La sua denuncia in pubblico è stata rivolta alle forze dell'ordine, a cui ha fatto seguito l'invio per fax. Sottolinea infine che a Taranto vengono seguiti metodi da terrorismo giudiziario, con magistrati che svolgono la loro attività secondo criteri esclusivamente politici. Per questi motivi è totalmente insoddisfatto dalla risposta alla sua interrogazione.

Il sottosegretario di Stato Franco CORLEONE ribadisce che non vi è stata alcuna relazione da parte delle forze dell'ordine e che il Ministro di grazia e giustizia non può comunque prendere iniziative che siano lesive dell'indipendenza ed autonomia della magistratura.

TARANTO, GIUDICI SOTT'ACCUSA: INQUISITO L'EX PROCURATORE

Corruzione al Palazzo di Giustizia di Taranto, interessi privati e intrecci poco chiari tra ambienti della magistratura, della questura e dell' imprenditoria locale, scrive Enzo Castellano su "La Repubblica" del 27 luglio 1988, pag. 8, sezione Politica Interna.

. Su questi scottanti temi si è incentrata negli ultimi tre anni l' attività dei magistrati baresi che tra mille difficoltà hanno ora concluso gran parte dell' inchiesta.

Clamorose, come nelle premesse, sono le conclusioni.

Sono stati rinviati a giudizio l' ex procuratore capo della Repubblica di Taranto, Giuseppe Raffaelli, 72 anni, sua moglie Giacoma Bianca De Filippis, 58 anni, e l' ex sindaco di Massafra (Taranto), il democristiano Orazio Bianco, 55 anni, tutti e tre accusati di concorso in interesse privato.

Di corruzione dovranno invece rispondere l' ex sostituto procuratore Giuseppe Lamanna, 60 anni, e il presidente degli industriali di Taranto, Donato Carelli, 49 anni.

Un altro magistrato di Taranto, l' ex sostituto procuratore Giuseppe Lezza, 47 anni, ha evitato il rinvio a giudizio perché il reato di corruzione contestatogli, fra gli altri, si è estinto per prescrizione. C'è comunque un procedimento disciplinare nei suoi confronti.

Estinta per amnistia l' accusa di simulazione di reato a carico di Raffaelli, della moglie, e di Lamanna e Bianco.

E' da rilevare inoltre che numerosi altri episodi esaminati dal giudice istruttore di Bari, dottor Emilio Marzano (la requisitoria è stata formulata dal procuratore capo di Bari Domenico Zaccaria), sono stati trasmessi per competenza alle autorità giudiziarie di Taranto e di Lecce.

Due ispezioni ministeriali. In queste due tranche della corposa inchiesta sono coinvolti funzionari della questura di Taranto poi trasferiti in altre sedi periferiche e anche diversi poliziotti.

L' ex questore del capoluogo jonico, Giuseppe Ciulla, è invece già stato rinviato a giudizio per falso e peculato in relazione a un incidente stradale nel quale rimase coinvolto assieme al suo autista: dichiarò che era avvenuto nell' ambito del servizio, ma non era vero. L' inchiesta prese le mosse nel 1985 da due ispezioni ministeriali a Palazzo di Giustizia e nella questura del capoluogo ionico, al termine delle quali venne fuori un contesto di influenze, di protezioni e di favoritismi tra alcuni magistrati, funzionari di polizia e l' imprenditore Donato Carelli.

Tra gli episodi accertati durante le ispezioni, eclatante è il caso dei lavori di spostamento della linea ferroviaria Taranto-Metaponto che originariamente prevedevano l'occupazione d' urgenza di alcuni immobili, tra i quali figuravano vasti terreni di proprietà della moglie e della cognata di Raffaelli, Giacoma e Marina De Filippis.

Secondo le accuse, l'allora procuratore, attraverso la pressione di un processo penale e l'emanazione di una ordinanza di sequestro della documentazione relativa al progetto ferroviario, determinò la modifica dello stesso progetto approfittando sia della sua posizione che di quella del vicecommissario del consorzio Asi, area per lo sviluppo industriale, suo stretto parente. Dagli accertamenti compiuti è risultato che l' ex sindaco di Massafra (Comune nel quale ricadono i terreni in questione), Orazio Bianco, disconosceva la propria firma in calce al nullaosta al progetto di variante che aveva poi portato al decreto di occupazione dei terreni. Il fatto venne denunciato alla procura nel periodo in cui (gennaio 1982) Raffaelli risultò assente dall' ufficio per motivi personali e il fascicolo passò nelle mani del procuratore facente funzione, Giuseppe Lamanna, che poi emanò il decreto di sequestro della documentazione.

Automobili in regalo Circa i rapporti tra Carelli e i due sostituti Lezza e Lamanna, è emerso che un procedimento penale a carico dell' imprenditore per presunte irregolarità fiscali, inizialmente avviato da Lezza, sarebbe stato poi insabbiato dall' altro magistrato al quale il presidente dell' Assindustria tarantina fece omaggio in tempi diversi di ben quattro automobili: una Golf, una Mercedes, una Audi 100 e ancora una Golf. Lezza invece avrebbe ricevuto, sempre dal Carelli, un contributo di 15 milioni per l' acquisto di una Mercedes. L' inchiesta si è soffermata anche su presunte corsie privilegiate nella distribuzione di processi contro amministratori di Martina Franca (Taranto), un tempo feudo dell' ex sottosegretario democristiano alle Finanze Giuseppe Caroli.

AVETRANA, DELITTO DI SARAH SCAZZI E DINTORNI.

La Ballata ti l'Aitrana

di Antonio Giangrande

Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,

no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.

Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,

però putia nasciri puru in africa o in Albania.

Simu italiani, ti la provincia tarantina,

simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.

Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,

quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’inventunu.

Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,

Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.

Li femmini e li masculi so belli o carini,

ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.

 

Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,

comu tinumu la giostra ti li rioni,

pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,

no comu li barbari ti li padani.

 

Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,

li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.

 

Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,

lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti olunu bannu.

Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,

ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.

Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,

pi fottiri li bianchi, li neri e li russi, stannu tutti in pista.

Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,

cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.

Però quà votunu ci tu tai,

e no piccè puru ca tu sai.

 

Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,

ma qua puru li marescialli si sentunu generali.

 

Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,

ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.

Cu parli cu li villani no cunvieni,

quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.

Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,

tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.

Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,

pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.

Ci li diamanti alli puerci tai,

quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.

 

Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,

do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.

Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,

do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.

Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,

donca ni sputtanunu li giornalisti amari.

 

Tinimu li chiesi donca pari simu amati,

e  donca rimittimu tutti li piccati.

Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,

ti cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.

 

Tinumu San Biaggiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,

comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.

Ti San Biaggiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,

ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.

No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,

comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.

 

Tinimu l’oratori do si portunu li fili,

li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.

 

Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,

mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.

 

Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,

tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.

 

Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,

li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.

 

Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,

cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.

Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,

ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??

Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,

so cattivi puru cu li frati e li soru.

 

Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,

ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.

Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,

e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.

 

Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,

ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.

Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,

ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.

Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,

a cinca mi oli mali mancu li penzu,

puru ca loru olunu mi calunu,

iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.

Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,

sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.

Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,

puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.

Li sordi, lu divertimentu e la panza,

pi loro la menti no teni usanza.

Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,

cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.

Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,

l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.

Ci no lassi operi ca restunu,

tutti ti te si ni scordunu.

Pi l’autri paisi puè quistu ca ticu no iè diversu,

lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.

 

Il Poema di Avetrana

di Antonio Giangrande

Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,

non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.

Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,

però potevo nascere in Africa od in Albania.

Siamo italiani, della provincia tarantina,

siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.

Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,

quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.

Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,

i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.

Le donne e gli uomini sono belli o carini,

ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.

 

Abbiamo il castello e pure il Torrione,

come abbiamo la Giostra del Rione,

per far capire che abbiamo origini lontane,

non come i barbari delle terre padane.

 

Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,

le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.

 

Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,

il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.

Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,

di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.

Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,

per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.

Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,

per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.

Però qua votano se tu dai,

e non perché se tu sai.

 

Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,

ma qua pure i marescialli si sentono generale.

 

Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,

se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.

Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,

questi sanno più della laurea che hai.

Su ogni argomento è sempre negazione,

tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.

Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,

per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.

Se i diamanti ai porci vorresti dare,

quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.

 

Abbiamo la piazza con il giardinetto,

dove si parla di politica nera, bianca e rossa.

Abbiamo la piazza con l’orologio erto,

dove si parla di calcio, per spararla grossa.

Abbiamo la piazza della via per mare,

dove i giornalisti ci stanno a denigrare.

 

Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,

e dove rimettiamo tutti i peccati.

Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,

da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.

 

Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,

come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.

Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,

se ci ricordiamo di loro solo per la festa.

Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,

come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.

 

Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,

li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altre faccende.

 

Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,

mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.

 

Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,

abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.

 

Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,

i padroni pagano poco, ma basta per campare.

 

Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,

con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.

I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,

mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??

Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,

sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.

 

Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,

lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.

Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,

e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.

 

Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,

ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.

Anche se qua si sentono alti pure i nani,

che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.

Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,

a chi mi vuole male, neanche li penso,

pure che loro mi assalgono,

io guardo avanti e li incenso.

Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,

sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.

Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,

anche se i miei paesani non hanno sapore.

Il denaro, il divertimento e la panza,

per loro la mente non ha usanza.

Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,

per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.

Dobbiamo capire: non siamo niente e siamo tutti di passaggio,

Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.

Se non lasci opere che restano,

tutti di te si scordano.

Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,

il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.  

Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.

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SARA SCAZZI: IL DELITTO DI AVETRANA

Resoconto di un Avetranese di Antonio Giangrande

Spending review, accorpamento delle province di Taranto e Brindisi. Avetrana vuole Lecce. La gente di Avetrana si mobilita per cambiare provincia, stante e sotteso l’inerzia delle istituzioni avetranesi che sono restie a cogliere occasione che offre l’art. 17, 3°comma, della legge 135/2012 detta Spending review in tema di riordino delle province. E dire che proprio il Comune di Avetrana ha aderito al progetto della “Regione Salento”. Da sempre Avetrana si sente salentina, perché lo è per la storia, le tradizioni, gli usi, i costumi, il dialetto. Inoltre per ragioni di opportunità l’occasione va colta, affinchè ci si smarchi dalla supremazia delle strutture politiche, economiche e sociali di Taranto ed ancor più dall’egemonia politica di Manduria per dirimere una volta per tutte la questione sulla competenza territoriale delle zone marine viciniori ad Avetrana e la spinosa vicenda del depuratore consortile che proprio Manduria ha voluto sulla spiaggia prospiciente Avetrana. Per questo motivo, su iniziativa dell’avv. Mirko Giangrande, presidente dell’associazione “Pro Specchiarica” e vice presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”  e di “Tele Web Italia”,  gran parte della società civile di Avetrana, con le sue associazioni più rappresentative, il 16 settembre 2012 si riunisce per approntare una lettera indirizzata al presidente del Consiglio comunale di Avetrana, affinchè lo stesso convochi un Consiglio Comunale monotematico necessario ed urgente, ai sensi dello Statuto comunale, ed ivi avviare una discussione sull’opportunità del passaggio dalla provincia di Taranto a quella di Lecce ed approntare una presa d’atto sul da farsi e se del caso, con le risultanze argomentali positive, inviare l’ipotesi d’intenti alla regione Puglia entro il 2 ottobre, ossia nei ristretti termini stabiliti dalla legge ed obbligati dall’inerzia istituzionale e politica comunale. Il Consiglio Comunale si deve assumere la responsabilità di una decisione storica, qualunque essa sia. Le ipotesi e le proposte di riordino delle province di Taranto e Brindisi devono tener conto  dell’iniziativa comunale avetranese volta a modificare le circoscrizioni provinciali esistenti e comunque l’iter procedurale della stessa proposta del comune di Avetrana non potrà concludersi se non sentiti tutti i cittadini avetranesi invitati ad esprimersi tramite un referendum da indire successivamente. Molti Avetranesi pensano che è meglio contare uno tra i cento comuni leccesi e sentirsi in casa propria, che contare niente sui pochi comuni tarantini e sentirsi abbandonati da una città, Taranto, che da sempre con la sua politica, la sua burocrazia ed i suoi media si è dimostrata egocentrica e disinteressata alla sua provincia. In Avetrana (TA), da sempre si costruisce abusivamente con collusione istituzionale; da sempre le abitazioni sono inabitabili per mancanza dei requisiti igienico-sanitari. La mancanza di allacciamento alla rete fognaria o alla fossa Imof e settica porta all’inquinamento delle falde acquifere, dei fiumi e del mare. La conseguenza giuridica, mai fatta rispettare, è lo sgombero coatto per le civili abitazioni e le pene penali per le attività produttive. In data 13/12/1995, dopo che gli ispettori sanitari della USL procedevano alla chiusura delle attività commerciali per mancanza di agibilità e dei requisiti igienico-sanitari, a cui conseguiva una gravosa ammenda penale e una onerosa sanzione amministrativa, provocando la disperazione dei cittadini inascoltati dall’indifferenza degli amministratori, il dr Antonio Giangrande ha promosso e raccolto 2235 firme di cittadini Avetranesi su una proposta di intervento, al fine di invitare l’amministrazione Giovanni Scarciglia ad adottare tutte le misure necessarie per uscire dalla grave situazione ed a convincere il Prefetto ad emanare una ordinanza di sospensiva delle sanzioni emanate. Il Prefetto di Taranto ha immediatamente accolto la proposta, mentre solo l’amministrazione Conte, successivamente ha adottato le misure indicate dal Giangrande. Successivamente a Giovanni Scarciglia, in Avetrana (TA), l’Amministrazione Comunale “Conte”, indebitamente, chiede tributi già pagati, o non dovuti, diffamando il cittadino di evasione fiscale. Al ricorso presentato presso il Giudice di Pace, sostenuto da eloquenti precedenti giurisprudenziali, il loro avvocato, poi candidato alla provincia di Brindisi nel centro sinistra, ebbe a dire in modo denigratorio: "cose mai viste". In Consiglio Comunale, in data 01/03/2001, si attesta che l’Assessore dell’Amministrazione “Conte”, L. V., del centro sinistra, ha turbato gli incanti. Si dice, nell’intervento di Mario De Marco, che le buste, a suo tempo presentate, sono state manomesse e le offerte sono state artefatte e modificate, per favorire un partecipante. Si attesta che un Assessore dell’amministrazione “Scarciglia”, G. S., in concomitanza di elezioni, abusando del suo incarico, senza impegno di spesa, ha assunto del personale. L’ufficio Tributi è stato diretto da C. M., nonostante fosse perdente al concorso dichiarato truccato, tant’è che per coprire l’inghippo la sua firma di sottoscrizione, quale responsabile dell’ufficio, è stata sostituita con quella del Segretario Comunale. Lo stesso scandalo è per gli ultimi Vigili Urbani, assunti nel 2005 in virtù di concorso dichiarato truccato dalla Magistratura. Esistono da sempre “debiti fuori bilancio” illegittimi. A riguardo nel 2011 vi è stato un forte intervento della Corte dei Conti, che ha contestato la veridicità del Bilancio Consuntivo, mancando in esso da sempre l’Inventario dei Beni. A proposito di “Debiti Fuori Bilancio” sono stati riconosciuti dall’’amministrazione “Conte”  debiti per parcelle di avvocati perdenti nominati dal Comune di Avetrana, che sono costati più degli avvocati vincenti delle parti private. Inoltre la stessa amministrazione non ha proceduto verso i responsabili dei debiti. Addirittura nel proseguo l’amministrazione “De Marco” ha pagato con fondi comunali (euro 14.000,00) iscritti come debiti fuori bilancio le cause giudiziarie attivate nell’interesse politico e personale dall’Amministrazione “Conte”. Quell'amministrazione attivò un ricorso al TAR, che lo rigettò perché manifestamente politico. Il ricorso fu presentato per contestare il riordino ospedaliero dell’allora Governatore della Puglia, Raffaele Fitto. Con il senno di poi, usando lo stesso criterio, si dovrebbe mandare al rogo il successivo Governatore, Nicola Vendola, che ha nominato Alberto Tedesco come assessore regionale alla Sanità, implicato nella sanitopoli pugliese. Lo stesso Vendola che ha chiuso interi reparti dell’ospedale di Manduria. Da sempre i Presidenti dei seggi elettorali sono i soliti noti e affidabili, fino a che il dr Antonio Giangrande ha costretto la Corte d’Appello a cambiare sistema di nomina. Presidenti di seggio che attestano la regolarità di elezioni nulle, in quanto non firmano le schede elettorali per autenticarle, non identificano gli elettori che votano, non impediscono agli stessi elettori la documentazione del loro voto, tramite apparecchi video-fotografici. Durante le votazioni regionali del 28 e 29 marzo 2010 nella sezione n. 5 presieduta dal dr. Antonio Giangrande, con premeditazione ed artifici, un rappresentante di lista del PD, spalleggiato da altre persone del suo partito, non nuovo a questi fatti, ha cercato di impedire il regolare svolgimento delle operazioni di voto, tentando addirittura di far chiudere il seggio dalla Polizia di Stato con accuse pretestuose di irregolarità poste in essere dal Giangrande. La stessa cosa è avvenuta l’anno seguente in occasione delle elezioni comunali, ma stavolta da parte di scagnozzi del centro destra. L’aggressione al Giangrande, quale pubblico ufficiale, con violenti insulti, ingiurie e minacce, è avvenuta nell’indifferenza dei cittadini e delle forze dell’ordine e dei magistrati. La sua colpa: aver controllato l’identità dell’elettore; controllato la validità della scheda consegnata e poi votata; impedito la propaganda politica durante il voto e la ripresa con cellulari del voto prestato; verificato l’incongruità tra schede risultate consegnate ed effettivamente date. Da sempre si costruisce e si demolisce abusivamente in mancanza delle più elementari regole di sicurezza. Per questo si muore senza che ci sia prevenzione e repressione. Si agevola lo sfruttamento del lavoro e l’evasione fiscale e contributiva. Si autenticano deleghe di pagamento di pensioni senza firma del delegante. L’assessore all’Istruzione del PD, T. N. ha discriminato i cittadini nell’assegnazione delle Borse di Studio. A Giangrande Mirko, diplomato in 4 anni, anziché 5, viene negata. Ad altri con “buono” anziché “ottimo”, viene concessa. Anzi fanno di più. L’amministrazione “De Marco” ignora scientemente il fatto che ad Avetrana lo stesso Mirko Giangrande sia diventato l’avvocato più giovane d’Italia, 25 anni e due lauree. Notizia resa nota da TV e giornali locali e nazionali. Il Sindaco Luigi Conte e l’Assessore Vito Risi assegnano privatamente, gratuitamente e senza incanto pubblico, la gestione privata degli impianti sportivi alla Polisportiva di Avetrana, dove lo stesso Vito Risi è Direttore Sportivo. Questa è l’unica beneficiaria degli impianti e li usa a fini economici. In questo modo si impedisce l’uso degli impianti ad altri soggetti. A ciò si aggiunge il contributo di 15.000 euro all’anno destinati alla Polisportiva per la tenuta degli stessi impianti. Scandaloso, perché nella vicina Manduria l’amministrazione, con delibera G.M. 279/06, gli impianti sportivi li concede facendosi pagare a tariffa oraria di 3 euro ciascuno. Per sovvenzionare illecitamente una cooperativa vicina all’Amministrazione, la CISME, l’amministrazione “Conte” le corrisponde 20 mila euro annue, le concede in comodato gratuito la struttura e le affida, gratuitamente senza incanto pubblico, la gestione privata dell’asilo nido per soli 13 bambini iscritti. Ad Avetrana, a causa della negligenza degli amministratori più volte vi è stata l’inondazione dell’abitato e, per coprire le colpe e per non essere perseguiti per disastro colposo, l’amministrazione “Conte” ha dissuaso i cittadini a chiedere i danni per calamità naturale. L’assessore al bilancio, F. G., in accordo con tutta l’amministrazione comunale, stabilisce un prezzo irrisorio per i lotti della zona industriale, di cui egli stesso è quasi unico beneficiario. Inoltre, l’Amministrazione comunale, anziché favorire lo sviluppo del lavoro, lo inibisce. Questo perché, per l’apertura di nuovi sbocchi imprenditoriali, quali possono essere le agenzie di affari, chiede 15.000 euro di cauzione, al contrario dei 2.500 euro di altre civiche amministrazioni, o dei 5.000 euro di Manduria. Con il Sindaco De Marco nulla cambia in campo della mala amministrazione. Anzi... Anche perché lui continua a fare l’avvocato, incompatibilmente con l’ordinamento forense, come all’udienza del 27 novembre 2007, difendendo in udienza pubblica Mario Fasiello. Nella seduta consiliare del 15/06/2006, nel primo Consiglio Comunale in cui, opportunamente, si dovrebbe deliberare su questioni istituzionali e non amministrative, con il benestare del responsabile dell’ufficio tecnico, ing. Spagnolo, si adotta una delibera per fini edilizi a favore della cooperativa Bosco per l’accesso a fondi P.O.R.. Tutti i consiglieri di minoranza hanno sostenuto l’illegittimità dell’atto da adottare per mancanza dei requisiti richiesti. Ad Avetrana, dal centro-destra e dal centro-sinistra, si ha l’abitudine di inviare lettere dilatorie, anonime, sgrammaticate e non provate, fin anche usando indebitamente in intestazione il nome dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e a firma del suo Presidente, dr Antonio Giangrande. La delazione anonima è stata adottata da un assessore dell’amministrazione “De Marco", contro il dr. Antonio Giangrande il quale lo ha scoperto e querelato e poi vi è stata conciliazione e remissione di querela. In Avetrana chi combatte per la legalità è emarginato dalla società: il maresciallo capo Giancarlo Inguscio, già medaglia d’oro al valor civile, viene trasferito forzatamente, perché, facendo il suo dovere, dava fastidio a chi era abituato all’impunità; l’avv. De Prezzo conferma in una sua denuncia, di cui si è chiesto conto, che il Presidente dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie, Dr Antonio Giangrande, è considerato dalle Forze dell’Ordine di Avetrana un mitomane calunniatore, spiegando così il perché degli insabbiamenti e le archiviazioni che seguivano le sue denunce, sol perché si denunciavano i reati degli intoccabili; l’assessore ai servizi sociali, Cosimo De Rinaldis, per 5 anni non ha iscritto, pur con regolare istanza l’Associazione Contro Tutte le Mafie presso l’albo comunale; l’assessore seguente Alessandro Scarciglia ha iscritto l’associazione, ma dopo un articolo di critica pubblicato su “Manduria Oggi”. Comunque il presidente del Consiglio Comunale, Cosimo De Rinaldis, delegato alle Politiche Sociali, in ogni incontro o convegni con le associazioni locali, mai ha invitato a partecipare l’Associazione contro Tutte le Mafie, pur essendo iscritta presso l’albo comunale e pur essendo la più rappresentativa in campo nazionale. In occasione del caso Sarah Scazzi l’amministrazione “De Marco” ha permesso che i media denigrassero sopra ogni misura la dignità di Avetrana, definita retrograda ed omertosa. In virtù dell’ostracismo contro il dr Antonio Giangrande, rasentando l’autolesionismo, i rappresentanti del centro destra e del centro sinistra hanno pensato bene di non promuovere il docu-film dal Giangrande prodotto, mirante a promuovere l’immagine del paese di Avetrana. Film che si è proiettato per la “Notte Bianca” in una manifestazione pubblica indipendente. 

RAI 1 CENSURA SERVIZIO SULL'ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE

Atto n. 4-03178. Pubblicato il 6 dicembre 2007. Seduta n. 263

RUSSO SPENA - Al Ministro delle comunicazioni. - Premesso che:

il 20 giugno 2007 la Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi accoglieva una domanda di accesso al palinsesto RAI da parte dell'associazione "Contro Tutte Le Mafie", associazione tra l'altro riconosciuta dal Ministero dell'interno; successivamente, il 17 ottobre 2007, la RAI revocava l'autorizzazione ad insaputa dell'associazione; l'8 novembre la RAI inviava una squadra e un regista per le riprese del servizio sull'associazione, facendo pertanto presumere il superamento di ogni perplessità e l'accettazione della messa in onda del servizio; considerato che: il 15 novembre l'associazione chiedeva di conoscere la data di messa in onda e riceveva risposta certa indicante un servizio della durata di dieci minuti nella trasmissione di RAI1 del 23 novembre 2007 alle ore 10.40; di fatto, il 23 novembre la trasmissione veniva cancellata ed il palinsesto di RAI1 stravolto; immediatamente l'associazione si attivava per chiedere la motivazione dell'oscuramento del servizio telefonando alla redazione del programma di RAI1, che però negava risposta e annunciava una futura lettera di motivazione (in palese violazione della legge 241/1990 che prevede la risposta immediata in seguito a domanda d'accesso ad un servizio); solo il 3 dicembre 2007 l'associazione riceveva uno scarno comunicato in cui si rilevava che l'autorizzazione era stata rilasciata il 20 giugno e poi revocata il 17 ottobre in seguito a proposta della RAI che non reputava degna l'associazione, adducendo addirittura perplessità circa la sua organizzazione, si chiede di sapere: per quale motivo si sia intervenuto a censurare una trasmissione programmata, nonostante vi sia stato parere favorevole della Commissione di vigilanza alla divulgazione; perché la redazione abbia inviato una motivazione "postuma" ed evitato di rispondere alle domande poste nella stessa data di mancata messa in onda.

ENNESIMO RICORSO AL GOVERNO, INVIATO PER CONOSCENZA AI 630 DEPUTATI, AI 320 SENATORI, AI 72 PARLAMENTARI EUROPEI. RISULTATO: LETTERA MORTA

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SIG. PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI

SIG. MINISTRO DELLA GIUSTIZIA, DELL'INTERNO, DELLA FUNZIONE PUBBLICA, DEL LAVORO, DEI GIOVANI, DEI RAPPORTI CON LE REGIONI 

E’ VERGOGNOSO, NON OTTENERE GIUSTIZIA

Giangrande Antonio, nato ad Avetrana (TA) il 02/06/1963 ed ivi residente alla via Manzoni 51. Tel. 0999708396. Cell. 328.9163996 Presidente dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie; autore del libro “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo” ; ha svolto l’attività forense per ben 6 anni; da 11 anni vittima di bocciature ritorsive al concorso forense, nonché perseguito per aver dato notorietà alle interrogazioni parlamentari riguardanti gli insabbiamenti delle denunce presentate nel distretto della Corte d’Appello di Lecce. PREMESSO CHE il 16, 17, 18 dicembre 2008 ha partecipato alla prova scritta del concorso forense presso la Corte di Appello di Lecce; il 26 marzo 2009 la commissione presso la Corte di Appello di Reggio Calabria si è riunita per la correzione dei 3 elaborati: IN FORMA ILLEGITTIMA; il 24 giugno 2009 (dopo 3 mesi) si sono pubblicati i risultati: giudizio identico negativo, 25, 25, 24; il 3 luglio 2009 si visionano i compiti, i verbali e i criteri di correzione: SI OTTIENE PROVA CHE I COMPITI NON SONO STATI LETTI E CORRETTI E IL GIUDIZIO RESO E’ FALSO; l’8 luglio 2009 si presenta istanza di ammissione al gratuito patrocinio con gli allegati probatori presso la Commissione del Tar di Lecce per poter presentare ricorso al TAR per manifesta irregolarità dei giudizi, su contestazioni accolte da ampia giurisprudenza amministrativa; il 7 agosto (dopo un mese e a pochi giorni dalla decadenza del ricorso) si riceve diniego dalla Commissione: MANCA IL FUMUS; il 12 agosto 2009 si presenta esposto penale ed amministrativo per fax e posta elettronica con gli allegati probatori ai vari uffici competenti di: Presidenza della Repubblica, quale capo del CSM; Presidenza del Consiglio dei Ministri (vari uffici fax 0667793289, 0667793578, 0667795441, 0667793543, 0667796571, 0658492087, 063236210, 0647887878, 0668997064, 066795807, 066797428, 066791131, 0667795049, 066794569, 066798648, 0667796569); Ministero della Giustizia (vari uffici fax 0668852864, 0668897418, 0668897768, 0668897394, 0668897523, 0668892770, 0668897350, 0668892671, 0666165680, 0666162817, 0668897951, 0666598265, 0668897519, 0668897538, 0668891493); Ministero degli Interni e sottosegretario Alfredo Mantovano (vari uffici fax 0646549832, 064741717, 0646549599, 0646549815, 064814661, 0646549725, 0646549415); Ministero della Funzione Pubblica (vari uffici fax 0668997188, 0658324118, 0668997428, 0668997060, 0668997320); Ministero del lavoro ( vari uffici fax 064821207, 0648161441, 0659945301, 0648161558); Ministero dei giovani (vari uffici fax 0667796679, 0667795715, 0667792516, 0667792039, 0667792041, 0667792376); Ministero Pari opportunità fax 06 67792471; Ministro Raffaele Fitto per i rapporti con le regioni (vari uffici fax 0667794447, 066795500, 0667794078); Presidenti di Camera e Senato; Commissioni Giustizia di Camera e Senato; Direzione Nazionale Antimafia; Antitrust; Consiglio Superiore della Magistratura; Consiglio Nazionale Forense; Consiglio di Stato; Avvocatura dello Stato; Corte dei Conti; Procura Generale ed ordinaria di Lecce, Taranto, Bari, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria; Prefettura di Lecce e Taranto; Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e Taranto.

RISULTATO: TUTTO LETTERA MORTA. DOMANDA: E’ PIU’ SCANDALOSO L’ABUSO O L’OMISSIONE ?!?!  Tanto premesso si chiede alla S.V. di intervenire in questa vicenda, per mezzo di una interrogazione agli uffici interessati. Le competenze amministrative ed istituzionali sono varie: impedimento alla difesa; impedimento al lavoro, specie giovanile; impedimento alla libera concorrenza ed al libero accesso professionale; impedimento alla pari opportunità; commissione di reati in procedimenti concorsuali ministeriali; impedimento all’attività di un sodalizio riconosciuto dal Ministero dell’Interno; abusi ed omissioni; ecc. Giusto per sapere se merito giustizia e per non vergognarmi di essere italiano. Mi dispiace che in Italia il problema non abbia l’attenzione che merita, solo perché ritengo non dignitoso adottare forme estreme di protesta. O forse perché sono sottovalutate le mie segnalazioni. Si pensi, per esempio, che per quello forense, in Italia, presso tutte le sedi di Corte di Appello, ci sono circa 40.000 candidati all’anno e solo il 30 % di loro ottiene l’abilitazione, oltretutto senza merito. Il concorso notarile o giudiziario non è diverso. Il far passare il sottoscritto per mitomane o pazzo, condannandolo all’indigenza, non disobbliga l’autorità adita ad un doveroso riscontro. Sempre che si sia in un paese civile e giuridicamente avanzato. Dr Antonio Giangrande

CASTELLANETA. UN NIDO DI VIPERE.

Amministrazione della Giustizia e responsabilità civile dei magistrati. La posizione di un addetto ai lavori.

La verità di Matteo Di Giorgio. Il magistrato di Taranto arrestato dalla Procura di Potenza. Quello che la stampa non osa riportare. Così come fanno tutti i giornalisti locali e nazionali con il dr Antonio Giangrande, soverchiato da magistrati indegni della toga che indossano e coperti mediaticamente da giornalisti omertosi. La verità del magistrato Matteo Di Giorgio dopo l'arresto pubblicate in video ed in testi alla pagina territoriale di Taranto su www.telewebitalia.eu. Cose che Giangrande è da anni che le grida al mondo, accusando infame ritorsioni. Giudici contro. Della serie: anche i sostituti procuratori della Repubblica di Taranto provano l’onta dell’ingiustizia e subiscono la gogna mediatica. La voce agli imputati, presunti innocenti, in un sistema dove voce non hanno. La sua Verità di giudice arrestato e buttato nella bolgia infernale come i comuni mortali a provare la legge del contrappasso. A ristabilire la sua verità Matteo Di Giorgio il 2 maggio 2012 ha incontra pubblicamente a Castellaneta i suoi cittadini. La sua difesa: «Vittima di un complotto». Il pm ha respinto le accuse. Fallite le mediazioni del sen. Putignano e del vescovo Fragnelli. Il resoconto parziale e politico di Michele Cristella sulle colonne de "Il Corriere del Giorno di Puglia e Lucania", dove non si fa menzione delle accuse alla procura di Potenza. Risposta, confutazione, dignità. Oltre due ore di intervento nel cinema Valentino gremito, Matteo Di Giorgio, magistrato che ha subìto l’onta degli arresti domiciliari dichiara la sua innocenza dinanzi alla sua città. La moderatrice Sara Trovato gli pone subito la domanda più spinosa: perché parla oggi, in piena campagna elettorale? «So, dice Di Giorgio, che di queste cose bisogna parlare nelle aule dei tribunali. Ma io ogni giorno vengo attaccato nei comizi come il cancro della mia città e come il responsabile della stasi edilizia e dello sviluppo. Sento come mio diritto difendere e ristabilire la mia dignità dinanzi alla pubblica opinione. La mia coscienza è pulita, adamantina, cristallina. Parlo ora, dopo un manifesto gravemente pregiudizievole nei miei confronti e per gli attacchi nei comizi, fino ad essere un additato come “giudice deviato”». E continua: «Il prof. Rocco Loreto dice di non avermi mai nominato, ma i riferimenti a me sono numerosi: responsabile dello scioglimento della sua maggioranza nel 2001, sequestro del Prg, favorito un testimone a me avverso». E confuta le accuse. «Non posso aver sequestrato il Prg perché esso era stato annullato dalla stessa maggioranza per vizio di forma. Non posso aver minacciato Mimmo Trovisi perché si dimettesse per far cadere la maggioranza, perché egli non era l’undicesimo, ma si dimise dopo altri dodici, né sarebbe stato possibile minacciarlo perché la nipote, essendo minorenne, non poteva né essere indagata né arrestata. Quanto alla storia del testimone Coccioli è una vicenda lunga e complessa che si incentra su un favore di fargli avere dal comune 1500 euro da dare alla squadra che poi li avrebbe girati a lui, cosa che nessun “capo di cupola”, come sono stato definito, avrebbe mai potuto fare, essendo io, per altro ben in grado di elargire di tasca mia una somma così esigua». Di Giorgio, dopo aver sostenuto di non aver mai perseguitato Loreto, di aver accettato di indagare su di lui e di aver accettato da Sebastio e Petrucci di essere affiancato da colleghi e dagli stessi Procuratori, spiega la sua tesi di essere vittima di un complotto, di aver subito un processo kafkiano, cioè di essere passato da vittima a carnefice, ha mostrato come alcune ordinanze coperte da segreto istruttorio erano in possesso e a conoscenza di alcuni suoi denuncianti: «Il complotto contro di me è indiscutibile». Una storia, racconta Di Giorgio, «che comincia nella notte del bar Gorgo. E fu questo episodio che m’indusse a parlare con la stampa e dire che avrei chiesto la sua rimozione da dirigente scolastico». Un particolare: il senatore Putignano prima e il vescovo Fragnelli, prosegue, «dopo mi chiesero di partecipare al rasserenamento del clima; rinuncio a tutto, chiedo solo che Loreto dicesse in pubblico che ero onesto. Ma egli si rifiuta. E chiamo a testimone mons. Fragnelli». La conclusione: «Mai minacciato nessuno, mai fatto del male ad alcuno, almeno scientemente, mai danneggiato la mia città, rivendico il diritto alla mia dignità». Anche Mimmo Mazza da “La Gazzetta del Mezzogiorno” rendiconta l’avvenimento. Anch'esso con stampo politico, omettendo ogni riferimento alle critiche sull'operato della magistratura potentina. A un mese dall'inizio del processo che lo vedrà alla sbarra per concussione e corruzione in atti giudiziari e, soprattutto, a quattro giorni dalle elezioni comunali che rischiano di riportare alla guida del Comune il suo acerrimo nemico Rocco Loreto, l'ex pubblico ministero Matteo Di Giorgio riempie l'unico cinema cittadino per raccontare la sua verità, «tutta la verità», come annuncia negli inviti trasmessi via mail alla stampa, postati sul suo profilo Facebook e rivolti in maniera particolare ai suoi detrattori. «Armato» di computer portatile e faldoni, come se occupasse il suo ufficio del Palazzo di Giustizia di Taranto dal quale manca dall'11 novembre del 2010, giorno in cui fu sottoposto agli arresti domiciliari dai carabinieri del Reparto operativo di Potenza, Di Giorgio è un fiume in piena, desideroso di rompere gli argini che i suoi legali avevano faticosamente costruito in tutti questi mesi. Il dibattito, quasi un one man show, parte con sul grande schermo un manifesto dell'Italia dei Valori dal titolo emblematico «Dopo oltre dieci anni la giustizia prevale sul potere», fatto affiggere per le vie del paese all'indomani dello scorso 14 marzo, giorno in cui il gup Petrocelli di Potenza ha rinviato a giudizio il magistrato, sospeso cautelativamente dal Csm, il sindaco uscente Italo D'Alessandro, Antonio Vitale, già noto alle Forze dell'ordine, accusato di favoreggiamento, il comandante della Polizia municipale Francesco Perrone, Giovanni Coccioli e Agostino Pepe. «Non voglio fare il processo penale qui, ma riabilitare la mia persona pubblica, il mio essere magistrato, perché statene certi, la toga la indosserò ancora. Devo rispondere - attacca Di Giorgio, compiendo una vera e propria requisitoria e non a caso un paio di volte chiamando aula quella che è una sala cinematografica - a una valanga di accuse che ogni giorno mi travolge. La mia vicenda è finita nei comizi, nelle interviste, sui social network. Ho il diritto di difendere la mia dignità, e dunque ho deciso di sottopormi ad un processo pubblico. La mia coscienza è pulita, è adamantina. Non mi interessa la campagna elettorale, ma ho deciso di parlare oggi perché gli attacchi sono diventati insopportabili». L'ex pm mostra uno spezzone del comizio del 22 aprile del Pd, facendo ascoltare le critiche che gli rivolge il candidato al Consiglio comunale Antonello Montanaruli. E parte con una lunga teoria di atti, delibere, verbali di interrogatorio e stralci di brogliacci telefonici, con costanti riferimenti alla poca serenità dell'autorità di giudiziaria di Potenza, con la ricostruzione del tanto chiacchierato sequestro del Piano Regolatore generale, «un falso problema, il Piano regolatore - annota Di Giorgio - era stato già revocato», con il fissare nella lite stradale alla vigilia delle elezioni del 2007 con la famiglia Loreto, la causa del suo arresto (e non è obiettivamente così, nè per il fatto in sè, nè soprattutto per la pretesa attualità della vicenda, vecchia di 5 anni, rispetto agli altri capi di imputazione). Quella del magistrato, in predicato nel 2009 di essere il candidato alla presidenza della Provincia per il Pdl, è una ricostruzione faticosa da seguire, una discussione lunga due ore degna di una aula di giustizia più di una chiacchierata a duecento persone che nella quasi totalità nulla sanno di atti giudiziari e aule di giustizia. Legge i verbali dell'ex consigliere comunale del Pd Stefano Ignazzi, arrestato per l'operazione antidroga Valentino, condotta proprio da lui, per dimostrare la sua estraneità ad un rilievo che gli viene mosso dalla Procura di Potenza, quella di aver piegato la sua funzione giurisdizionale agli interessi personali. Uno degli episodi sul quale il magistrato, dicendo con chissà quanta convinzione di voler rasserenare il clima, si concentra riguarda la concussione che avrebbe compiuto ai danni di Domenico Trovisi, consigliere comunale nel 2001, a cui sarebbero state chieste le dimissioni, minacciando in caso contrario l'arresto della nipote e del fratello nell'ambito di una inchiesta antidroga, dimissioni poi effettivamente rassegnate da Trovisi. «Non solo io sono sempre stato amico di Trovisi, ma soprattutto le sue non erano dimissioni indispensabili per lo scioglimento del Consiglio comunale, la sua era la tredicesima firma, e la nipote all'epoca dei fatti era minorenne, quindi non potevo nemmeno indagare su di lei, figuriamoci se potevo arrestarla». Infine Di Giorgio tenta di sfatare quella che definisce una leggenda, la sua rivalità con Loreto. «Mi sono occupato solo due volte nella mia carriera di lui, una nel 1996, quando chiesi l'archiviazione di un procedimento che avevo ereditato da un altro magistrato, e una nel 2000, quando, essendo di turno, mi arrivò una denuncia contro Loreto. Decisi di astenermi quando il 4 giugno del 2001 seppi dell'arresto di Loreto. Ritenni in quel momento che non era più ammissibile che mi occupassi di lui. È da 11 anni che non mi occupo più di Loreto, come si fa a dire che sono l'artefice di una persecuzione giudiziaria nei suoi confronti?». «Avrò sbagliato mille volte nella mia carriera professionale - urla Di Giorgio - ma mai scientemente. Mai. Così come mai mi sono intromesso nelle vicende politiche di Castellaneta, mai stato il sindaco ombra, come d'altronde dimostrano le oltre 50mila intercettazioni telefoniche effettuate nei miei confronti». Nessuno di questi giornalisti, però, ha osato riportare il pensiero del Di Giorgio sull’amministrazione della Giustizia. Amministrazione della Giustizia e responsabilità civile dei magistrati. La posizione di un addetto ai lavori. La verità di Matteo Di Giorgio. Il magistrato di Taranto arrestato dalla Procura di Potenza. Quello che la stampa non osa riportare. Così come fanno tutti i giornalisti locali e nazionali con il dr Antonio Giangrande, soverchiato da magistrati indegni della toga che indossano e coperti mediaticamente da giornalisti omertosi. La verità del magistrato Matteo Di Giorgio dopo l'arresto pubblicate in video ed in testi alla pagina territoriale di Taranto su www.telewebitalia.eu. Cose che Giangrande è da anni che le grida al mondo, accusando infami ritorsioni. Giudici contro. Della serie: anche i sostituti procuratori della Repubblica di Taranto provano l’onta dell’ingiustizia e subiscono la gogna mediatica. La voce agli imputati, presunti innocenti, in un sistema dove voce non hanno. La sua Verità di giudice arrestato e buttato nella bolgia infernale come i comuni mortali a provare la legge del contrappasso. Bene Matteo Di Giorgio ha dichiarato: «Il procedimento che mi riguarda prende le mosse proprio da una denuncia di Italo Pontassuglia, 22 settembre 2007. In questa denuncia, signori, si dice di tutto sul mio conto. Non si parla delle sciocchezze che sono emerse nell’ordinanza, perché poi vedremo sono comunque delle sciocchezze, anche se fossero vere e non lo sono. Ora, io non ho molto tempo per spiegarvi l’enormità, però devo far notare che quello che dice Pontassuglia è smentito da tutti gli atti del processo. Amministratore di fatto significa prendere le decisioni in luogo dell’amministratore formale, di colui il quale il Sindaco, o la Giunta, o il Consiglio Comunale, si sostituisse di fatto agli stessi. Ebbene. Signori sapete quante intercettazioni telefoniche ed ambientali hanno visto oggetto la persona del sottoscritto? Quasi cinquantamila. E io dico, meno male che ci sono le intercettazioni. Dico meno male che ci sono le intercettazioni, perché dalle intercettazioni non è emerso nulla. Perché la procura di Potenza, consentitemi da questa vicenda è strabica. Perché da un lato ha messo sotto processo Rocco Loreto per la minaccia rivolta a mio figlio, dall’altra ha arrestato me perché ho detto “ha minacciato mio figlio”. Io sono stato arrestato perché mi si dice “non è vero, tu hai diffamato Loreto, dicendo che ha minacciato tuo figlio”. Questo è l’oggetto dell’arresto mio, signori. Questo è. Ed è la prova che ho detto che c’è una certa contiguità tra gli investigatori ed i miei denuncianti. Volete un’altra prova? La disponibilità dell’ordinanza in originale. Questa è una copia dell’originale. E’ una copia che qualcuno ha avuto al più tardi il 18 novembre 2010, cioè una settimana dal mio arresto, quando l’ordinanza era coperta dal segreto istruttorio. E sapete da dove proviene questa ordinanza? Signori, sta scritto qua. E’ il signor Pontassuglia Italo: il mio denunciante. Questo è un avviso di accertamento tecnico irripetibile notificato il 15 novembre 2010 a Pontassuglia. Questo significa che Pontassuglia ha creato questo file, ha avuto l’ordinanza al più tardi il 18 di novembre 2010. Questo significa che una settimana dopo il mio arresto il mio accusatore aveva l’ordinanza. Chi gliel’ha data? Io certo no. Signori, questo è agli atti del processo, poi tutto il resto è inutilmente, perché a Potenza le porte sono chiuse. Questa è la prova che Pontassuglia ha una corsia preferenziale con Potenza, perché non può che averla ricevuta da Potenza. Non sono sospetti, questa è una prova. Io ho denunciato Potenza. Ci sarà un motivo se io ho denunciato gli Uffici giudiziari di Potenza. Perché a Potenza non sono tutelato. Io ho detto alla dottoressa Triassi, ho detto, quando mi ha fatto una valutazione giuridica, ho detto lei mi fa paura, ho detto. Come cittadino io ho paura di lei. Sapete perché? Perché quando la Cassazione ha annullato il capo d’imputazione della vicenda Coccioli, ha detto la Cassazione “me la date sta prova che Di Giorgio sta d’accordo con l’amministrazione comunale?”. E s’è rifatta l’udienza. Viene la dottoressa Triassi e dice “ecco la prova dell’accordo”. La prova dell’accordo è questo. In una telefonata tra il dottor Di Giorgio e l’assessore allo Sport, si tratta di Alfredo Cellammare, che nei 6 mesi successivi al fatto, in cui io ed Alfredo Cellammare parliamo di tutt’altra cosa. Non parliamo del contributo, parliamo di tutt’altro. E dice la dottoressa Triassi “ecco, questa è la prova che Di Giorgio e Cellammarre si conoscono. Io gli ho detto “guardi che avrebbe potuto chiedermelo, glielo avrei detto io, perché ci conosciamo da quando avevamo i calzoncini corti. Ma se la prova del concorso in un reato, scusatemi devo fare un discorso tecnico, risiede nel mero rapporto di conoscenza, allora io sono complice di tutti i reati commessi dai castellanetani, perché li conosco un po’ tutti. Quindi io verrò chiamato a rispondere in qualsiasi reato possa commettere un castellanetano. Questa è un abnormità; un’aberrazione giuridica. E io alla dottoressa Triassi dissi “lei mi fa paura. Io ho paura di una che ragiona così. Come uomo”. Se parliamo dell’amministrazione della Giustizia dobbiamo uscirne, se ciascuno di noi recupera il proprio ruolo. Che cosa voglio dire: la nostra magistratura vive di correnti, di amicizie. Io non sono iscritto a nessuna corrente ed ho sbagliato, perché se fossi stato iscritto, non mi sarebbe successo niente. Ve lo dico!! No, forse bisognerebbe anche avere il coraggio in Italia, io lo dico contro tutta la categoria, di introdurre il principio della responsabilità civile del magistrato, perché io devo avere paura di sbagliare. Ci devo pensare cento volte prima di far qualcosa. Perché signori il magistrato ha il compito più alto: decide della libertà delle persone; ha in mano la vita delle persone. Tutti possono sbagliare, ma purchè ci sia la buona fede e purchè ci sia il rispetto di alcune regole. Spesso ciò non avviene. L’altro giorno a chi a detto, e rispondo a quest’avvocato, che il rinvio a giudizio, parlo dell’avvocato Giuseppe Clemente, faccio nome e cognome, Clemente, il quale impazza su Facebook contro di me dicendo delle cose invereconde, delle quali io mi vergognerei. Quest’avvocato ha detto che un rinvio a giudizio è praticamente una affermazione di responsabilità penale. Ecco vorrei ricordare all’avvocato Clemente che in Italia ancora esiste l’articolo ventisette della Costituzione e quindi la presunzione di innocenza, tecnicamente di non colpevolezza, e che questa presunzione vale fino al terzo grado di giustizia. Io ancora non sono stato giudicato e gli ricordo Raniero Busco. Ce l’ho qua. L’altro giorno. E’ stato condannato in primo grado a ventotto anni di reclusione. E’ stato assolto dalla Corte d’Appello. Buon per lui che non sia stato sottoposto alla misura cautelare. Però io vi voglio leggere soltanto un passo di un’intervista di Raniero Busco, che la dice tutta. “Cosa ha imparato da questo processo? Che in queste aule non si trova niente di umano. Ognuno è proiettato a salvaguardare la propria idea, la propria posizione. Nessuno è disposto a fare un passo indietro in nome della verità. Questa sentenza però mi restituisce un po’ di fiducia nella Giustizia”. Ed è quello che dico io: perché a fronte di tutto ciò che è emerso dal processo potentino, dei tentativi di inquinamento, dei tentativi di agganciare i testimoni, non è successo niente. Perché ciascuno si innamora della propria posizione e la difende fino alla fine anche contro l’evidenza dei fatti. E questo un magistrato non lo deve fare mai. Il magistrato deve avere l’onestà di dire “ho sbagliato, faccio un passo indietro” e non deviare da alcune regole che sono indefettibili e che a Potenza sono state violate. Io lo dico qua perché l’ho già detto, l’ho già scritto e non posso tediarvi, perché è tardissimo, se no lo farei volentieri. E vi dimostrerei tutte le violazioni che sono avvenute nel mio caso. Tutte.» Ogni commento è superfluo: basta non essere dalla parte sbagliata.

Ed Ancora.

Le accuse al pm arrestato a Taranto: "Minacce per un posto in Parlamento". Nell'ordinanza del gip di Potenza, Matteo Di Giorgio viene definito il vero politico di Castellaneta. Pressioni su Fitto che resiste, per ottenere un incarico nel centrodestra. Dall’inviato del “La Repubblica”  GIULIANO FOSCHINI. A Taranto ci sarebbe un pubblico ministero che in realtà è un politico. Un magistrato che usa "la sua qualità e i suoi poteri" - per citare il gip Gerardina Romaniello di Potenza - per influenzale le scelte amministrative della sua città, Castellaneta, e di tutta la provincia di Taranto. Un pm che fa pressioni inutilmente sui ministri (Raffaele Fitto), obbliga amministratori ad appoggiarlo, fa cadere consigli comunali minacciando di arresti politici locali, tutto pur di spuntare una candidatura a parlamentare o presidente della provincia con il centrodestra. Il racconto è nelle 500 pagine di ordinanza di custodia che costringono da giovedì il pm Matteo Di Giorgio agli arresti domiciliari. Mentre il suo procuratore capo, Franco Sebastio, imbarazzato si affida a dichiarazioni di rito ("fiducia nel lavoro dei colleghi" e "speranza in tempi certi, il più possibile") da Potenza arriva uno spaccato molto duro sul pm vicino a Marcello Dell'Utri, Alfredo Mantovano e Giancarlo Cito. Secondo la ricostruzione che fa il gip nell'ordinanza, "dall'analisi delle conversazioni telefoniche intercettate è emerso che Di Giorgio, di fatto, è l'amministratore del comune di Castellaneta in quanto nella realtà dirige e condiziona le scelte dell'amministrazione comunale, venendo addirittura interessato ogni qual volta sia necessario ottenere una sorta di placet ove ci siano provvedimenti e scelte politiche da adottare". Il pm, dicono a Potenza, controllerebbe direttamente il sindaco di Castellaneta, Italo D'Alessandro, il vice sindaco, Vito Perrone, il comandante della polizia municipale, Francesco Perrone, più un'altra serie di personaggi locali. Di Giorgio ha l'ambizione di scendere in politica. Ci prova prima a farsi candidare alle elezioni europee, poi mira alla presidenza della provincia. E per questo punta a convincere Fitto, che invece aveva un suo candidato. "Lui si deve sentire un po' assediato - dice Di Giorgio a Perrone, riferendosi a Fitto in un'intercettazione del 4 aprile del 2009 - deve prendersi paura, dice "ancora facciamo una piazzata qua" ma se poi c'hai qualche altro che può chiamare anche lui, cioè io voglio che lui si senta un po' stretto mi sono spiegato? Dai, vedi un poco, vedi un poco". Il gip è esplicito: "Nel processo politico innescatosi nell'area tarantina per la scelta del candidato da proporre alla Presidenza della provincia di Taranto - spiega - il Di Giorgio, come già visto, è riuscito a far sottoscrivere ai Sindaci dell'area sud un documento per la sua candidatura. La scelta, tuttavia, è di competenza del coordinatore regionale del Pdl, onorevole Raffaele Fitto, che a sua volta è orientato sul candidato Rana nonostante il veto dei sindaci. A questo punto il magistrato tenta l'ultimo assalto proprio nei confronti di Fitto con modalità identiche: dettare le strategie che i propri gregari devono porre in essere. Pur di raggiungere il suo obiettivo - continua - Matteo Di giorgio non ha lesinato neppure l'appoggio politico di Giancarlo Cito ex sindaco del comune di Taranto". L'operazione non riuscirà. Ma invece andrà a buon fine quella di far cadere la giunta comunale: "Tramite Vito Pontassuglia minaccia il consigliere Domenico Trovisi che se non avesse firmato le dimissioni avrebbe chiesto l'arresto per la nipote Paola e il fratello Pompeo. Per questo lo costringeva a sottoscrivere le proprie dimissioni da consigliere comunale, così da determinare lo scioglimento del consiglio comunale di Castellaneta e la sua successiva ascesa politica nell'area di Castellaneta prima e tarantina poi, assumendo, in tali contesti, ruolo di leader e condizionandone le scelte e gli esiti degli scrutini elettorali".

D’altro canto “Il Fatto Quotidiano” scrive “Dall’analisi delle intercettazioni telefoniche – scrive il gip – è emerso che Matteo di Giorgio è, di fatto, l’amministratore del Comune di Castellaneta: nella realtà dirige e condiziona le scelte dell’amministrazione comunale”. Il punto è che Matteo di Giorgio, agli arresti domiciliari da tre giorni, è un pubblico ministero, e non un politico. È ancora tutto da dimostrare, ma se l’inchiesta condotta dalla Procura di Potenza dovesse rivelarsi solida, il magistrato dovrà rispondere di accuse pesanti, dalla concussione alla corruzione al favoreggiamento. Secondo l’accusa ambiva alla presidenza della provincia di Taranto e, per questo, avrebbe fatto pressioni (inutilmente) anche sul ministro Raffaele Fitto. Ciò che più appare grave, però, è il presunto abuso della sua funzione di pm per ottenere lo scioglimento del consiglio comunale di Castellaneta: mirava alle dimissioni del consigliere Mimmo Trovisi. “Abusando della sua qualità di pubblico ministero – scrive il Gip di Potenza Gerardina Romaniello – faceva pervenire a Domenico Trovisi, tramite Vito Pontassuglia, la minaccia che, se non avesse firmato le dimissioni, avrebbe chiesto l’arresto per la nipote, Paola Trovisi, e il fratello Pompeo, lo costringeva a sottoscrivere le dimissioni da consigliere comunale, ponendo in essere una condotta di sviamento delle funzioni giudiziarie concretamente esercitate, così da determinare l’indebita utilità costituita dallo scioglimento del consiglio comunale di Castellaneta e la sua successiva ascesa politica nell’area di Castellaneta prima, e tarantina poi, assumendo, in tali contesti, il ruolo di leader, e condizionandone le scelte e gli esiti degli scrutini elettorali”. Accuse gravissime che, scrive l’accusa, sono supportate dal tenore delle intercettazioni. E sempre dalle intercettazioni, scrive il gip, emerge che “Di Giorgio è interessato alla sua candidatura per la presidenza della Provincia”. “Il 22 maggio 2009 – si legge negli atti – il sindaco di Castellaneta Italo D’Alessandro informa di Giorgio che si sta recando a Palagianello per un incontro con Fitto, “per quella cosa”. Di Giorgio prima spiega che hanno “già fatto”, poi riferisce di ribadire “il concetto”. In una conversazione successiva D’Alessandro rassicura di Giorgio: “Matteo tutto a posto quella cosa…”. Il pm, secondo l’accusa, s’inserisce nella bagarre politica: “Riesce a far sottoscrivere ai sindaci dell’area sud un documento per sostenere la sua candidatura. La scelta, tuttavia, è di competenza del coordinatore regionale del Pdl, Raffaele Fitto, che a sua volta è orientato sul candidato Rana, nonostante il veto dei sindaci. A questo punto il magistrato tenta l’ultimo assalto proprio nei confronti di Fitto, con modalità identiche: dettare le strategie che i propri gregari devono porre in essere. “Lui si deve sentire assediato – dice al telefono – prendersi paura”, dice, “ancora facciamo una piazzata qua”. Il fatto più inquietante, però, riguarda le dimissioni di Trovisi. “Vito Pontassuglia (un politico del posto, ndr) ha denunciato come di Giorgio abbia utilizzato la sua posizione di magistrato per ottenere risultati politici”. Tutto comincia nel 2000: “Pontassuglia afferma che il suo ingresso in politica avvenne con le elezioni comunali del 2000, nello schieramento di Rocco Loreto (poi senatore Ds, ndr) ma dopo alcuni scontri si schierò contro questi, andando all’opposizione e formando un gruppo denominato ‘L’alternativa’. Da allora iniziò – si legge sempre negli atti – la collaborazione con un gruppo di uomini, nemici di Rocco Loreto, tra i quali di Giorgio, che aveva sposato la loro causa, mettendosi a loro disposizione, sfruttando addirittura il supporto della Digos. Per giungere allo scioglimento del consiglio comunale, il gruppo di lavoro era riuscito, fino al 13 febbraio 2001, a portare alla firma 10 consiglieri. Mancava l’undicesimo: Mimmo Trovisi, per il quale ci voleva qualcosa di forte per indurlo a firmare”. In base alle informazioni raccolte dalla procura, in quel periodo il pm di Giorgio era titolare del fascicolo “Valentino”, un’inchiesta sul traffico di stupefacenti: “Personaggio fulcro – scrive il gip – era Riccardo Papa, fidanzato di Paola Trovisi, nipote del consigliere comunale. (…). Di Giorgio doveva procedere non solo all’arresto di Paola, ma anche dei fratelli Trovisi”. Ed ecco la ricostruzione dell’accusa: “La notte del 30 agosto 2001 Trovisi firmò le dimissioni da consigliere comunale. Il giorno dopo seguì la sospensione del consiglio comunale. Il mancato arresto dei Trovisi era stato barattato con le dimissioni”.

C'è Mobbing. È un capitano, ex comandante della Compagnia di Castellaneta (in provincia di Taranto): 6 mesi (pensa sospesa) per non aver bloccato un maresciallo. Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Taranto, Bina Santella, ha condannato a sei mesi di reclusione con pena sospesa l’ex comandante della Compagnia dei carabinieri di Castellaneta (Taranto) cap.Massimiliano Conti, accusato di maltrattamenti e violenza privata. All’ufficiale, giudicato con il rito abbreviato, è contestato un comportamento «omissivo» in quanto, pur essendone a conoscenza, non avrebbe impedito le presunte vessazioni perpetrate nei confronti di 21 militari dal maresciallo Leonardo D’Artizio, ex comandante del Nucleo Operativo e Radiomobile della Compagnia di Castellaneta, già rinviato a giudizio. Uno dei Carabinieri che, secondo l’accusa, sarebbero stati “mobbizzati”, si suicidò nella sua abitazione, sparandosi con la pistola d’ordinanza nel giugno del 2004.

C'è Malasanità. Sulla morte degli otto pazienti ricoverati, nelle ultime settimane, nell'Unità di terapia intensiva dell'ospedale civile di Castellaneta, arrivano le prime conferme ai sospetti, scrive "La Repubblica". Per almeno quattro di loro è pressoché certo che il decesso è stato causato dall'inalazione di protossido d'azoto al posto dell'ossigeno. Un altro caso è incerto; in tre casi il rapporto causale è "altamente incerto". I dati sono contenuti nella relazione sul lavoro compiuto dalla Commissione d'inchiesta sulla vicenda, nominata dalla Regione Puglia e guidata dal professor Tommaso Fiore. La relazione. Il documento, di 15 pagine, è stato al centro di gran parte del dibattito che si è tenuto oggi in una seduta del Consiglio regionale dedicata per intero all'ospedale di Castellaneta. Clima pacato, nonostante la Cdl abbia chiesto le dimissioni dell'assessore alla Sanità, Alberto Tedesco. Richiesta prontamente respinta. Quattro morti quindi sono dovute "con alta probabilità di certezza" allo scambio di gas. Una vittima si poteva evitare. L'ultimo decesso, quello di Cosima Ancona, 73 anni, si sarebbe potuto evitare se - si legge nella relazione - avessero assunto "la valenza di evento sentinella" i due allarmi che si registrarono nella notte tra il 3 e 4 maggio: il primo all'Utic e l'altro nel quartiere operatorio parto. Un calo di pressione dei gas medicali. L'inconveniente fu rimosso, ma invece, forse, si doveva indagare sulle cause. Invece anche alla donna venne somministrato erroneamente azoto. Fu quella l'ultima delle morti prima che il reparto venisse chiuso dai responsabili del nosocomio e poco dopo sequestrato dalla magistratura. "Una strage". Così il presidente della Regione, Nichi Vendola: "Siamo di fronte a un fatto che ha sconvolto noi tutti e l'opinione pubblica nazionale, la coscienza civile del nostro Paese", ha detto annunciando la decisione di commissariare l'intera Asl. Il suo management, sostiene Vendola, "si è dimostrato non all'altezza di una situazione difficile come quella tarantina" e quindi "non riscuote più la fiducia della giunta regionale". Un management che è responsabile sia pure indirettamente del funzionamento di quel reparto, l'Utic, che - ha detto An in Consiglio - non doveva neppure essere aperto. Il reparto "non conforme". La relazione parla di un reparto "non conforme al regime di funzionalità", dove il "personale medico è gravemente insufficiente", di locali la cui destinazione d'uso è stata modificata due volte senza che vi fosse alcun parere da parte degli organismi competenti, di collaudi non fatti, di una "carenza assoluta di qualsivoglia gestione del rischio clinico". Le autopsie. A Castellaneta avranno inizio le prime autopsie, eseguite dal professor Luigi Strada, dell'università di Bari. Secondo Angelo Fiori, docente di medicina legale dell'università Cattolica di Roma, il protossido d'azoto non lascia tracce nell'organismo e quindi con le autopsie si potrà verificare solo se le morti sono avvenute per altre patologie. L'esame sarà su tutti e otto i pazienti morti. Dal 12 al 16 di maggio saranno esumate le salme dei primi sei pazienti deceduti. Un'altra inchiesta. Un'altra tegola si è abbattuta oggi sulla sanità tarantina. La Guardia di finanza ha arrestato oggi quattro persone: un funzionario dell'Asl, un medico, il rappresentante legale e il direttore sanitario di un istituto privato, la la clinica D'Amore. L'inchiesta riguarda una truffa di sei milioni di euro alla Asl di Taranto e alla Regione Puglia. C'è Malagiustizia. Dicono di essere indignati, a causa del nuovo rinvio della causa civile che li riguarda, i famigliari delle 34 persone che il 7 febbraio del 1985 morirono nel crollo del palazzo di via Verdi a Castellaneta.

Inoltre c'è l'Atto n. 4-08911. Pubblicato il 22 giugno 2005 Seduta n. 824.

Bobbio Luigi, Bucciero - Al Ministro della giustizia. Premesso: che sono pervenute all’interrogante 3 audiocassette e la trascrizione del relativo contenuto, concernente alcuni colloqui intercorsi tra il sig. Antonio Criscuolo ed il sig. Giuseppe Bellino, entrambi ex amministratori del Comune di Castellaneta (Taranto); che il Bellino risulta essere attualmente indagato nel procedimento penale n. 2827/00 r.g.n.r. della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Taranto per numerosi reati, tra i quali quelli di cui agli artt. 323, 479, 353, 640, 317 del codice penale, che sarebbero stati commessi quando il Bellino rivestiva la qualità di assessore presso il Comune di Castellaneta; che il tenore delle precitate trascrizioni si presenta meritevole di approfondimento, in quanto nelle stesse si dice apertamente che lo svolgimento di tutta l’udienza preliminare per tale procedimento penale, tenutasi dinanzi al Dott. Pio Guarna, il suo strano ed anomalo andamento connotato da circa una ventina di udienze (veramente tante per una semplice udienza preliminare), il suo esagerato protrarsi per circa un triennio, la sentenza conclusiva, sarebbero il risultato di un accordo intercorso tra il giudice dell’udienza preliminare, dott. Pio Guarna, e l’imputato Rocco Loreto, già sindaco del Comune di Castellaneta, nonché ex Senatore della Repubblica; che delle frasi contenute in queste trascrizioni appaiono realmente di contenuto inequivoco, soprattutto alla luce di un fatto fondamentale: Giuseppe Bellino, che era ed è attualmente imputato nel processo in questione, e rispondeva di gravi reati, è stato assolto da alcuni di essi, e soprattutto dal più grave, ossia da una concussione sessuale; che evidentemente non ha motivi di astio o risentimento nei confronti del giudice che lo ha giudicato, e che lo inducano a dire il falso; che anzi precisa, come si ricava dalle trascrizioni, che a lui stanno solamente facendo del bene; che a più riprese emerge dalle trascrizioni come l’andamento del processo sia frutto di quello che viene definito come un accordo generale; che l’intera attività processuale ha conosciuto un grande dispendio di tempo, in quanto ci sarebbero stati ritardi fatti apposta, e che devono fare delle cose per perdere tempo; che di molte attività che si sarebbero tenute nel corso dell’udienza alcuni, imputati e non, erano a conoscenza in anticipo; che il latore di queste anteprime sarebbe stato un tale Mimmo Salemme; che ciò tanto era vero, che in una circostanza il Salemme in questione era così ben informato da avere addirittura in suo possesso una copia della sentenza autentica e scritta di pugno dal Dott. Guarna; che sarebbe stato appositamente commesso un errore nel corso del processo per ottenere una ulteriore perdita di tempo; che in sostanza tutto il processo sarebbe stato pilotato in virtù del precitato accordo generale, in quanto si dice che sta facendo tutto Rocco, da identificare nell’ex sindaco Rocco Loreto; che dalle trascrizioni emerge inequivocabilmente come il Bellino sia assai bene informato, e come dia per effettivo e pacifico l’accordo tra Guarna e Loreto; che riferendosi ad altra vicenda sempre connessa al processo in questione, e sempre dando per scontata la sussistenza di un previo accordo, si leggerebbero nella trascrizione frasi che parlerebbero di un giudice che è d’accordo con Rocco e che potrebbe forse fare qualcosa; che un cenno merita anche la figura del Salemme il quale, oltre ad essere in possesso di una copia della sentenza scritta di pugno dal giudice, oltre ad essere colui che dava le notizie in anteprima circa lo svolgimento del processo, dimostra quasi una sorta di organicità rispetto a questo accordo, in quanto nel tranquillizzare il Bellino circa l’andamento del processo a quest’ultimo diceva che occorreva perdere tempo; che, in effetti, le gravissime dichiarazioni contenute nell’audiocassetta trovano oggettivi riscontri nei fatti che di seguito si evidenziano ed elencano, ed in primis nell’andamento stesso del processo in questione; che Cosimo Salemme, ossia colui che avrebbe dato le anteprime sullo svolgimento delle udienze, ed era in possesso di una copia della sentenza scritta di pugno dal giudice prima che venisse pronunciata, effettivamente sarebbe persona assai vicina al Loreto in quanto facente parte della sua coalizione politica; che effettivamente il processo n. 2827/00 r.g.n.r. è stato oggettivamente un processo di inspiegabile (almeno sino ad oggi) lunghezza, se si considera che si è trattato della sola udienza preliminare; che la prima udienza si è celebrata in data 18/10/2001 e la sentenza, per quanto pronunciata in data 8/7/2003, è stata depositata solo il 1°/6/2004; che la decisione del GUP è stata una sentenza di non luogo a procedere, e considerato che è stato proposto gravame avverso la stessa, e che deve celebrarsi anche il consequenziale giudizio di appello, la fase dell’udienza preliminare non può ancora ritenersi virtualmente conclusa (nonostante, appunto, la prima udienza si sia celebrata il lontano 18/10/2001); che la sentenza, anche con una motivazione assai discutibile come si dirà a breve, ha assolto dalle imputazioni relative ai fatti più recenti, rinviando al contrario a giudizio solo le imputazioni per i fatti più risalenti nel tempo, e quindi più prossimi alla prescrizione; che tale circostanza, evidentemente, avvalora l’ipotesi che rinviene dalla registrazione, ossia che tutta l’attività di udienza è stata pilotata per far perdere più tempo possibile ed arrivare indenni alla maturazione dei termini di prescrizione dei reati contestati; che ulteriore elemento da considerare è che il dott. Guarna al momento della lettura del dispositivo si riservava novanta giorni per il deposito della motivazione, benché nessuna norma consenta al GUP di motivare entro un determinato termine, mentre appare strano che un giudice abilitato alle magistrature superiori come il dott. Guarna incappi in una tale svista; che in ogni caso il termine dei novanta giorni previsto per il deposito è stato ampiamente superato; che la credibilità del Bellino circa il fatto che dal giudice sarebbero stati commessi volontariamente degli errori per perdere ulteriore tempo è confermato dal fatto che effettivamente è stata attivata la procedura di correzione di errore materiale; che tuttavia, anche nella circostanza, il dott. Guarna è incappato in uno svarione a dir poco strano per un magistrato della sua esperienza, in quanto al momento della decisione vi è stata l’omessa pronuncia su due dei numerosi capi d’imputazione contestati, ossia sui capi I e II; che tale omessa pronuncia, che legittimerebbe esclusivamente chi ha interesse ad impugnare la sentenza, è stata invece il pretesto per azionare (del tutto abnormemente) la precitata procedura di correzione dell’errore materiale; che per la correzione di questo errore materiale si sono persi ben ulteriori nove mesi; che vi è stata sentenza di non luogo a procedere per tutti i capi d’imputazione nei quali in qualche modo era coinvolto il Loreto, mentre vi è stato rinvio a giudizio per tutti quei reati dei quali lo stesso non era chiamato a rispondere; che addirittura vi è stata sentenza di non luogo a procedere anche per taluni degli imputati, e quindi per taluni reati, quando questi in qualche modo potessero essere ricondotti al Loreto, o quando per fatti contestati ad altri imputati la responsabilità avrebbe potuto, in qualche modo, essere estesa anche al Loreto nonostante la pluralità delle fonti di prova acquisite in ordine a detti reati, tra cui anche le confessioni di taluni coimputati; che tale circostanza è fortemente sintomatica del modus operandi del giudice Guarna; che tale agire, seppur raffinato, non di rado e per forza di cose, mostra la corda in considerazione del fatto che, dovendo talvolta giustificare e difendere l’ingiustificabile e l’indifendibile, il Dott. Guarna è costretto ad avventurarsi in soluzioni e motivazioni logico-giuridiche quantomeno estrose e, come tali, assai discutibili; che tale è il caso delle numerose contestazioni di falso in atto pubblico ideologico e materiale contestate al Loreto, ove il primo rilievo ascrivibile al giudice Guarna è la formula assolutoria con la quale scagiona il Loreto dalle accuse di falso e cioè con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, ossia con una formula inapplicabile e non prevista per definire l’esito dell’udienza preliminare, quantomeno a mente dell’attuale art. 425 del codice di procedura penale; che tale formula è evidentemente, ontologicamente e giuridicamente inapplicabile ad una contestazione di falso materiale, perché significherebbe affermare (come del resto il Giudice Guarna ha fatto) che il reato di falso effettivamente è stato commesso sotto il profilo oggettivo, e tuttavia, e venendo al caso concreto, pur essendo stata contraffatta ed alterata dalle delibere di Giunta Comunale, l’attività di falsificazione sarebbe stata commessa senza coscienza e volontà alcuna, e quindi senza dolo; che quindi, il giudice Guarna ha ritenuto che un’attività di confezionamento ex post di una delibera falsa ideologicamente e materialmente non si potesse configurare come reato, in quanto carente sotto il profilo psicologico, perché attività compiuta ma non voluta dall’imputato; che questa inedita creatura giuridica partorita dalla mente del Dott. Guarna, ossia il falso involontario, rappresenta un’aberrazione giuridica, e sovverte un più che risalente insegnamento giurisprudenziale che ha sempre configurato il reato di falso come reato formale; che del pari rappresenta un’aberrazione giuridica ritenere questa attività di falsificazione ed alterazione alla stregua di un falso innocuo o grossolano, così come pure ritenuto dal giudice; che lo stesso, essendosi senz’altro reso conto dell’evidente inattendibilità giuridica di una falsificazione non voluta, avrà ben compreso come l’unica scappatoia per rendere digeribile questa forzatissima tesi (forzatura resa vieppiù manifesta dal fatto di essere in fase di udienza preliminare dove, solitamente, non ci si attarda su queste disquisizioni e sottilizzazioni) era quella del ricorso alla tesi del falso innocuo o grossolano; che tuttavia, nella sua stentata ed accademica motivazione, tesa ad ammantare di innocuità e grossolanità un’attività di falsificazione, al contrario assolutamente rilevante, il giudice Guarna non offre le uniche motivazioni che avrebbe dovuto fornire, ossia, perché la falsificazione di una delibera di Giunta Comunale dovrebbe essere grossolana, e soprattutto per quali fini, seppur grossolanamente, sarebbe stata falsificata. Né ha fornito una versione antagonista e credibile rispetto a quella ipotizzata dal P.M. nella sua prospettazione accusatoria, tale da giustificare una sentenza di non luogo a procedere;che si commenta da sé il fatto che in motivazione il giudice cerchi sempre il pelo nell’uovo arrivando sino al punto di ritenere come falsi innocui o grossolani delibere di giunta municipale al contrario inficiate da palese falsità ideologica e materiale; che del pari, si commenta da sé il fatto che il giudicante non neghi che i fatti contestati siano stati effettivamente commessi, ma che tuttavia gli stessi non costituirebbero reato perché difetterebbero dell’elemento psicologico, senza dare conto alcuno, peraltro, di quali sarebbero gli elementi che escludono la sussistenza dell’elemento psicologico (tra l’altro, il principio sarebbe stato applicato anche ad una ipotesi di concussione sessuale contestata proprio al Bellino); che pertanto, il giudice Guarna ha emesso una sentenza di non luogo a procedere pur dovendo ammettere la corrispondenza al vero delle numerose fonti probatorie acquisite dalla Procura della Repubblica; che indubbiamente, alla luce del contenuto delle audiocassette, ben altro significato assume un ulteriore elemento: l’udienza preliminare è ruotata pressoché esclusivamente, ed assorbendo un cospicuo numero di udienze, intorno alle dichiarazioni spontanee dell’imputato Loreto; che tali dichiarazioni solo raramente si sono attenute ai fatti di causa ed alle accuse oggetto dei capi d’imputazione, spaziando, al contrario, sugli argomenti di natura più varia;che ancora più forte si è manifestato questo aspetto in un altro procedimento penale, il n.12310/00 r.g.n.r.; che anche questo processo, che vede tra i suoi imputati il Loreto ed altri imputati coinvolti nel precitato processo n.2827/00 r.g.n.r., è stato caratterizzato da un’udienza preliminare di inimmaginabile lunghezza non ancora conclusa, sempre presieduta dal medesimo GUP, dott. Guarna; che la prima udienza è stata celebrata l’ormai lontano 25/6/2002, e ne sono susseguite un numero impressionante e che probabilmente non ha né precedenti, né paragoni; che anche in tale circostanza tutta l’udienza è stata monopolizzata dalle dichiarazioni spontanee del Loreto, e caratterizzata dall’irrituale “deposito” nel corso delle udienze di una massa enorme di carte della più svariata natura;che l’utilizzo del termine “carte” in luogo di altri, che solo apparentemente potrebbero apparire come maggiormente pertinenti, non è casuale, in quanto lo stesso termine “documento” ha ben altro significato sotto il profilo processuale e probatorio, ciò tanto più ove si consideri che le “carte” sono state depositate nel corso di dichiarazioni spontanee, rese peraltro nel corso dell’udienza preliminare, e senza possibilità di contraddittorio in merito alla pertinenza delle stesse ai fatti di causa, e di interlocuzione alcuna circa la loro rilevanza ai fini della decisione; che oltre alle svariate altre originalità, anche questo rappresenta senza ombra di dubbio un ulteriore unicum; che le dichiarazioni spontanee rese nel corso dell’udienza preliminare del processo n. 12310/00 r.g.n.r., al di là della comune torrenzialità con quelle rese nel processo n. 2827/00 r.g.n.r., e della comune inconferenza con le imputazioni ascritte, si caratterizzano per un elemento ulteriore; che, oltre allo scopo manifesto di perdere il maggior tempo possibile, le dichiarazioni rese nel precitato processo, tramite la delegittimazione progressivamente sempre più arrogante di quanti hanno reso dichiarazioni gravemente accusatorie a carico del Loreto, hanno tradito la loro intenzione di svilire le indagini compiute, i risultati delle stesse, i pubblici ministeri che le hanno condotte; che Loreto si è spinto sino al punto di rendere nel corso dell’udienza dichiarazioni velenosamente allusive e, successivamente, apertamente calunniose e lesive dell’onorabilità e dell’operato dei magistrati e dei loro collaboratori; che non è di poco momento rammentare come il Loreto abbia apertamente parlato di indagini manipolate, di un “castello calunnioso dell’accusa”, di trascrizioni falsificate, di un interrogatorio mai verbalizzato perché non avrebbe consentito di formulare determinate accuse, con questo accusando chi lo ha indagato di gravi abusi ed irregolarità; che al riguardo uno dei magistrati che ha condotto l’inchiesta, stanco di queste gravi, non meno che gratuite, illazioni, ben consapevole della cristallinità e regolarità del proprio operato, ha richiesto la trasmissione di tutto il fascicolo relativo al processo n. 12310/00 r.g.n.r. al Tribunale di Potenza, chiedendo, altresì, di essere indagato in prima persona in merito alla regolarità del proprio operato,l’interrogante chiede di sapere quali urgenti iniziative il Ministro della giustizia intenda adottare per verificare la correttezza sotto il profilo disciplinare delle condotte del giudice dell’udienza preliminare di Taranto, dott. Guarna, e la sua compatibilità ambientale.

MANDURIA, LA MAFIA E LA MAFIOSITA'.

In che mani siamo messi? La Voce di Manduria” scrive: Il ginecologo dell’ospedale di Manduria, Bartolo Punzi, sino a poche settimane fa primario facente funzione del reparto chiuso e trasferito a Grottaglie per effetto dei tagli alla sanità decisi dal governo regionale, è stato sospeso per un mese, senza stipendio, per motivi disciplinari. Lo si apprende da una lettera (che pubblichiamo integralmente a parte) inviata ai giornali dall’ex primario della stessa struttura, il ginecologo tarantino Paolo Di Mase, in pensione da due anni. L’ex primario rivela gli oscuri retroscena che avrebbero portato alla severa punizione inflitta al suo collega. Punzi è accusato dalla direzione della Asl di aver chiesto, alcuni giorni fa in occasioni differenti, il supporto del suo ex primario, Di Mase, per salvare due pazienti che rischiavano di morire in sala operatoria. Pensando al bene delle pazienti che dopo il parto cesareo, in giorni differenti, erano state colpite da un’emorragia interna incontrollabile, Punzi avrebbe chiesto «una mano in sala operatoria» al suo amico che in quel momento si trovava a Sava, quindi a pochi minuti da Manduria, dimenticandosi di avvertire di questo la direzione sanitaria del presidio. Ma soprattutto ignorando l’aiuto del suo diretto superiore, il capo dipartimento Francesco Lagrotta, primario della ginecologia e ostetrica del Santissima Annunziata di Taranto. Due gravissimi errori, per la direzione della Asl che ha così deciso di allontanarlo dal servizio per un intero mese. Secondo l’ex primario Di Mase (che dopo il pensionamento anticipato ha lavorato nella clinica privata Bernardini di Taranto dove lavora tuttora), il provvedimento inflitto a Punzi è solo un pretesto per rendere giustificabile la chiusura del reparto del Giannuzzi. Mentre sono chiare le motivazioni e lo spirito che hanno spinto l’ex primario a difendere l’operato del suo amico ed ex aiuto, non si conosce al momento la reazione alla sospensione del dottor Punzi né quella del suo partito, il Pd, per il quale ricopre la carica di consigliere provinciale, che come tutta la sinistra al governo della Regione continua a mantenere un rispettoso e imbarazzante silenzio.

Chiede aiuto al suo ex primario: ginecologo sospeso a Manduria, scrive Maristella Massari su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Bartolomeo Punzi Sospeso dall’incarico perché, durante due interventi chirurgici, di fronte a complicazioni e con l’urgenza di intervenire, il primario, con tanto di guanti e mascherina già indossati ha chiamato in soccorso in sala operatoria il suo predecessore. Che, però, era in pensione da (ben) due anni. Posto che le due pazienti hanno portato a casa la pelle, fino a che punto un medico può agire, ignorando i «se» e i «ma» della sua professione? In sala operatoria qual è il confine tra l’etica e la deontologia? Ma soprattutto, se le cose non fossero andate bene, chi avrebbe pagato in quel caso? La priorità di un bravo medico è quella di salvare la vita al suo paziente. Già, ma a quali condizioni? Esiste in sala operatoria un codice, un protocollo per la gestione dei casi più disperati? O si procede, come è accaduto nella Divisione di Ginecologia dell’ospedale di Manduria, convocando in piena emergenza un professionista sia pur stimato e di provata esperienza, ma da due anni fuori dall’organico di quell’ospedale perché già in pensione? Protagonisti della vicenda, che apre l’ennesimo squarcio nelle ferite aperte della sanità pugliese e tarantina in particolare, sono due primari ginecologi: Bartolomeo Punzi, facente funzione della Divisione di Ginecologia dell’ospedale di Manduria, e il suo predecessore Paolo Di Mase. Sullo sfondo c’è la chiusura della Divisione di Ostetricia e Ginecologia di Manduria contro la quale, nelle scorse settimane, invano, la popolazione della cittadina messapica è scesa in piazza. Inutilmente: è stato chiuso qualche giorno fa. Gli episodi finiti sotto la lente della Commissione disciplinare dell’Asl (che per il momento ha deciso di sospendere il dottor Punzi) sono due. Il 27 luglio una 39enne arriva in sala operatoria per una gravidanza che non si è formata in utero, ma è rimasta in una delle due tube. Durante l’intervento qualcosa va storto. Operare in laparoscopia non basta. Bisogna assolutamente rimuovere l’utero. La paziente rischia la vita. Il primario che la opera prende la sua decisione. «In considerazione della possibile necessità che potesse servirmi un terzo operatore specialista - dirà Punzi alla Commissione disciplinare -, e in considerazione del fatto che sapevo che il dottor Di Mase alloggiava a Sava, a pochi minuti dall’ospedale di Manduria, gli ho chiesto di raggiungermi in sala operatoria». Detto, fatto. La paziente si salva. Il caso si ripete qualche giorno dopo. Il 10 agosto, in seguito a complicazioni di un parto con taglio cesareo, Punzi convoca in ospedale di nuovo il suo collega in pensione «stante - dirà in sua difesa -, la difficile immediata reperibilità di un altro specialista in zona». Fatto salvo il risultato, la sopravvivenza delle due donne, a che titolo in quella sala operatoria di un pubblico ospedale intervenne un professionista che da due anni non ne fa più parte? La vicenda sarebbe rimasta circoscritta alla direzione della Asl jonica se il dottor Di Mase non fosse pubblicamente intervenuto in difesa del collega. «Sento il dovere - ha scritto l’ex primario in una lettera alla Gazzetta -, di informare l’opinione pubblica della gravissima decisione della Asl di sospendere il dottor Punzi. Egli ha salvato la vita a due pazienti. Lo si accusa di essersi dimenticato di avvisare la Direzione sanitaria della mia presenza in sala operatoria, non tenendo in conto che il suo unico pensiero era quello di assistere le donne a rischio di vita. È stato punito con la sospensione - sostiene Di Mase -, quando avrebbe dovuto ricevere un encomio. Sospetto - ha concluso -, che la vicenda sia servita a giustificare la chiusura definitiva del reparto». Pur se di fronte alla vita o alla morte, vale sempre la regola che il fine giustifica i mezzi?

Manduriani mafiosi? Ecco il testo completo dell’intervista rilasciata da Niki Vendola al giornalista Francesco Greco del Giornale di Puglia.

D. A Manduria e Sava la accusano di permettere di scaricare a mare le acque non potabilizzate, la fogna nera…

R. “Ci dovrebbero ringraziare perchè potremmo vietare la balneazione su quel litorale. A Manduria c’è la peggiore classe politica che si conosca, non solo, ma c’è anche una sintesi fra ambientalisti e criminalità organizzata. Le altre Regioni hanno i fiumi dove scaricano quelle acque, noi non ne abbiamo: dove dovremmo farle convergere?”.

Poi la rettifica che il direttore responsabile del giornale telematico si è affrettato a render pubblica ha, solo in parte, ristabilito la calma: «La presunta dichiarazione del presidente Vendola non corrisponde alle reali dichiarazioni rese».

Un proverbio cinese recita "siediti sulla sponda del fiume ed aspetta che passi il cadavere del tuo nemico". Che dire delle denunce contro gli amministratori di Manduria. Denunce archiviate dalla Procura di Taranto. Denunce presentate contro l’abbandono della zona costiera e la distrazione dei proventi ici e oneri concessori e contro il concorso truccato di comandante dei vigili urbani con coinvolgimento prefettizio e contro il mancato rilascio della ricevuta da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria per gli atti consegnati a mano? Che dire dell’assegnazione e gestione dei beni confiscati alla mafia con coinvolgimento prefettizio, chiaramente favorente “Libera” non iscritta a Taranto e discriminante nei confronti dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio nazionale con sede ad Avetrana? Bene. Quel cadavere sta passando sotto gli occhi di tutti ed ha molti colori: politici si intende!

MANDURIA MAFIOSA

Fiducia ed imparzialità. Già, non ci sono prove, eppure si considera Sabrina e Cosima colpevoli del delitto di Sarah Scazzi. Invece per definire il comune di Manduria come mafioso ci sarebbero le prove, ma non per il Ministro Cancellieri, per la quale il Comune di Manduria (paese limitrofo ad Avetrana) non sarà sciolto per infiltrazioni mafiose così come si temeva e come avevano chiesto sia i tre commissari ministeriali che per sei mesi hanno tenuto sotto accertamento la macchina amministrativa, sia il prefetto di Taranto, Claudio Sammartino. Lo ha definitivamente stabilito il ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri, nel decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. «Dalla documentazione esaminata – si legge nel provvedimento del ministro – non emerge la concomitanza di elementi concreti, univoci e rilevanti tali da pregiudicare il funzionamento dei servizi ed i legittimi interessi della collettività, amministrata da un commissario straordinario sin dal 19 aprile 2012». L’atto ministeriale ripercorre l’iter dell’accertamento antimafia innescato dall’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Lecce  e dal decreto del prefetto di Taranto con il quale, il 29 marzo del 2011 istituiva la commissione d’indagine composta da due prefetti e dal maggiore della Guardia di Finanza, Giuseppe Dell’Anna. I tre commissari finirono il loro lavoro, durato sei mesi, proponendo lo scioglimento del Consiglio che, di fatto, si era autosciolto per il venir meno della maggioranza di centrodestra. Sulla scorta di quest’analisi, Il 4 novembre 2012,  anche il prefetto di Taranto inviava al ministro una sua relazione nella quale, scrive la Cancellieri, «venivano valutati gli elementi di cui all’articolo 134, comma 1 del decreto legislativo 18 agosto 2000, numero 267». Considerato tutto questo, il ministro ha comunque deciso che «non sussistono i presupposti per lo scioglimento o l’adozione di altri provvedimenti», stabilendo così la conclusione del procedimento.

E su come si combatte la mafia da queste parti ne dà notizia Nazareno Dinoi su “La Voce di Manduria”. L’udienza preliminare a carico dei 31 indagati dell’operazione Giano da parte dell’antimafia di Lecce che ha dato origine al sospetto di infiltrazione mafiosa nel comune di Manduria, si è chiusa con un colpo di scena. Il gup Carlo Cazzella ha stralciato la posizione dell’ingegnere comunale Antonio Pescatore dichiarandosi incompetente sul caso specifico e rinviando tutto alla Procura di Taranto. Secondo il giudice salentino, il reato contestato al dirigente comunale (avrebbe favorito una società controllata da elementi della sacra corona unita nella gestione dei parcheggi a pagamento) non è di competenza della direzione distrettuale antimafia ma della procura ordinaria. Resta a Lecce invece il giudizio a carico di tutti gli altri indagati tra cui imprenditori, esponenti della malavita locale e l’ex boss della Scu, Vincenzo Stranieri che ha partecipato all’udienza grazie ad un collegamento in videoconferenza da un carcere del centro Italia dove è recluso in regime di isolamento del 41 bis. La decisione del gup Cazzella di derubricare il reato di mafia all’ingegnere Pescatore (che a questo punto risponderebbe al massimo del solo abuso d’ufficio), pone buone speranze per il futuro amministrativo del comune finito sotto i riflettori del ministero i quali, come si sa, hanno proposto lo scioglimento per infiltrazioni mafiose. Pescatore, infatti, è l’unico indagato che avrebbe potuto tessere il filo rosso capace di collegare la criminalità organizzata con le attività politica e amministrativa dell’ente. A meno che le indagini dei magistrati antimafia non abbiano nel frattempo individuato responsabilità dirette dei politici che al momento non risulterebbero indagati. Durante l’inchiesta ci sono stati momenti di tensione tra il giudice e Vincenzo Stranieri che si è lamentato per le parole pronunciate sul suo conto quando il magistrato pensava di non essere ancora collegato con il sistema. Le piaccia o no, lei mi deve ascoltare perché è un mio diritto, ha detto più o meno Stranieri che è apparso molto provato e abbattuto dal punto di vista fisico. L’operazione Giano ha portato il blitz scattato il 14 febbraio del 2011 che portò in carcere 16 persone e 2 agli arresti domiciliari, per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso, concernenti armi ed esplosivi, attentati dinamitardi, tentato omicidio, rapina, estorsioni, traffico di sostanze stupefacenti e  spari in luogo pubblico. Tredici invece gli indagati a piede libero tra cui l’ingegnere Pescatore difeso dall’avvocato Raffaele Fistetti. Ma anche Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno” spiega bene l’ambiente. Niente revisione del processo. Francesco Cavallari è l’unico colpevole. La Corte d’Appello di Lecce ha rigettato l’istanza di revisione della sentenza con la quale il gup del Tribunale di Bari aveva ratificato nel 1995 il patteggiamento a una pena (sospesa) di 22 mesi con l’accusa di associazione mafiosa nei confronti dell’ex «re» della sanità privata pugliese imputato nell’ambito dell’operazione «Speranza». Tutti gli altri imputati erano stati assolti in via definitiva dalla stessa accusa. Di qui l’istanza di revisione del processo sulla base di quello che ai suoi difensori appare un paradosso: non può esistere un sodalizio mafioso con se stesso. Di diverso avviso il sostituto procuratore generale Antonio Maruccia che, al termine di una discussione durata due ore, ha chiesto fosse dichiarata l’inammissibilità dell’istanza. Ci sono volute altre cinque ore di camera di consiglio perché i giudici della Corte d’Appello di Lecce (presidente Giacomo Conte, relatore Nicola Lariccia) entrati nel merito, rigettassero l’istanza. «Tra quindici giorni leggeremo le motivazioni - dice l’avvocato Mario Malcangi che non si dà per vinto - ma certamente faremo ricorso per Cassazione. Sedici giudici (Tribunale di Bari, Corte d’Appello di Bari, Corte di Cassazione sia nel merito, sia sotto il profilo cautelare) hanno in un certo senso “perso” contro un solo giudice, quello che ha ratificato il patteggiamento». Se l’istanza fosse stata accolta, la condanna sarebbe stata immediatamente revocata, con tutte le conseguenze non solo sul piano penale, ma anche su quello civile. A partire dalla restituzione dei beni che furono confiscati a Cavallari.

“Dentro una vita” è il racconto di 18 anni “carcere duro”. Privazioni, violenze, abusi, torture psicologiche e fisiche inflitte in base alle regole del «41 bis» (la legge che regolamenta il regime carcerario riservato a chi è accusato di reati di criminalità organizzata),  raccontate dal “numero due” della Sacra corona unita pugliese, Vincenzo Stranieri. La storia di un bullo di paese che diviene un boss: furti, rapine, sequestri di persona, attentati, rituali di affiliazione. Poi, nel 1984, l’arresto. Vincenzo Stranieri, detto «Stellina», non sta scontando ergastoli né condanne per omicidio. Nonostante tutto nessuno è in grado di dire quando tornerà libero. Dopo 25 anni di prigionia l’ex boss, quarantanovenne, è stanco. Non è un pentito, ma è certamente un uomo che sa di aver sbagliato: «Se mi si vuole dare una possibilità d’inserimento, dimostrerò che sono cambiato». Ma in Italia le cose vanno diversamente. “Al di là della costituzionalità o meno, e della necessità o meno di prevedere nel nostro ordinamento un regime carcerario differenziato, la sua applicazione in concreto è comunque inaccettabile. Costringere una persona per diciassette anni di fila in una gabbia di vetro e cemento, con poca luce e poca aria, senza cure e senza affetti, senza diritti e senza speranza, e prevedere che da questo regime si possa uscire solo tramite il pentimento o la morte, è indegno in un Paese civile. Ed è incredibile che – eccetto i Radicali – tutti, a destra e a sinistra, siano allineati e coperti con questo regime di 41 bis, e che nessuno veda nell’applicazione di condizioni così inumane e degradanti di detenzione, innanzitutto, il degrado del nostro senso di umanità e la fine del nostro stato di Diritto” (dalla prefazione al volume di Sergio D’Elia, segretario dell’associazione Nessuno tocchi Caino). L’autore è Nazareno Dinoi,  Giornalista, scrive di cronaca giudiziaria e nera per il ‘Corriere del Mezzogiorno’ della Puglia. Ha scoperto, portandola alla ribalta nazionale, un’oscura storia di violenze e abusi sui giovani detenuti del carcere minorile di Lecce da parte delle guardie carcerarie. Per quei fatti il Tribunale di Lecce non è riuscito a raggiungere una sentenza prosciogliendo tutti per prescrizione dei reati. Vive a Manduria (Taranto) e collabora con diverse testate, anche nazionali. Ha scritto ‘Anime senza nome’ (1999) e ‘Kompagno di sogni’ (2003). LE PRIME PAGINE DEL LIBRO….

Prologo

Quando ha varcato per la prima volta le porte di un carcere, l’11 febbraio del 1975, Vincenzo Stranieri non aveva ancora quindici anni. Un’impressionante sequenza di arresti e di scarcerazioni ha poi segnato la sua vita da uomo libero sino all’età di ventiquattro anni quando, il 7 giugno del 1984, le sicure si sono chiuse dietro di lui senza più riaprirsi. Oggi Vincenzo Stranieri di anni ne ha 49 e il suo conto con la giustizia è ancora aperto. Il boss manduriano che per la magistratura e i collaboratori di giustizia è stato il numero due della Sacra corona unita di Pino Rogoli, l’ex piastrellista di Mesagne divenuto capo della potente «quarta mafia» italiana, è ancora considerato uno dei 430 criminali più pericolosi e irriducibili d’Italia. Per questo è sottoposto al regime di carcere duro conosciuto come 41 bis. I reati per i quali è stato giudicato colpevole sono sequestro di persona, traffico di droga, detenzione di armi, estorsioni e associazione mafiosa. Minacce, danneggiamenti e violenza, invece, sono tutti reati che ha maturato durante la sua lunga vita di recluso indocile. Per ben sei volte ha distrutto la cella dove si trovava rinchiuso. Non è un ergastolano, non ha condanne per omicidio, ma nonostante tutto nessuno è ancora in grado di dire quando tornerà libero.

Il principio

A quindici anni Stranieri viveva già con una donna più grande di lui di cinque anni che mise incinta prestissimo. A diciotto anni aveva moglie, due figli (avuti quando era ancora minorenne) e un’attività criminale che rendeva abbastanza da permettergli un’esistenza più che agiata. Quanto gli costerà tutto quel successo, quel lusso, però, lo capirà in seguito ma senza pentimenti. Il super detenuto, infatti, pur dissociandosi, in seguito, dal crimine, si è quasi sempre dichiarato innocente. A sedici anni il primo figlio, Antonio, a diciassette un’altra bambina, Anna. A quell’epoca aveva messo da parte quattro condanne per un totale di sedici mesi da scontare, mentre un decimo della sua vita lo aveva passato in galera per furti e violenza aggravata. E dire che quando aveva ventidue anni, tra sconti di pena, detenzione già fatta, condoni e amnistie, il suo debito con la giustizia era sceso ad appena venticinque giorni di cella. Poco più di tre settimane dietro le sbarre e sarebbe stato un uomo libero. Ma quella vita portata all’eccesso non ammetteva soste. Così, una sera d’estate del 1984, fu arrestato per il rapimento della manduriana Anna Maria Fusco, figlia dell’imprenditore del vino, Antonio Fusco (protagonista, quest’ultimo, due anni dopo, dello scandalo del Primitivo avvelenato al metanolo).

Dentro una vita

Sulla soglia del mezzo secolo di vita, tre quarti dei quali passati in gabbia, spinto dal desiderio della figlia Anna che vuole raccontare al mondo la storia di un padre che non l’ha vista crescere, sposarsi, diventare mamma, il detenuto speciale ha deciso di raccontarsi. E lo fa nell’unica maniera possibile per uno nelle sue condizioni: impugnando la penna (fosse un uomo libero avrebbe acceso il computer) e tracciando linee d’inchiostro sulle pagine ingiallite di una grossa computisteria che conservava da tempo.

Racconto – I

Oggi, 28 aprile 2008, è lunedì e mi trovo rinchiuso nel carcere di Opera a Milano. Tante volte mi sono chiesto a cosa potesse servirmi questo quadernone che porto in giro da otto anni. Ora, improvvisamente, mi è chiaro: ne farò un libro, con l’aiuto del Buon Dio e della sua Gloria. Lo leggerà qualcuno? A volte i buoni consigli vengono ascoltati, altre volte no. Io dico che chi mi ascolterà diventerà bravo e andrà in Paradiso. Lo spunto per questo libro nasce dalla proposta di un mio nuovo amico, un giornalista del mio paese che personalmente non conosco. L’idea, però, è partita da una persona a me molto cara, mia figlia Anna, a cui voglio un bene dell’anima come ne voglio a mio figlio Antonio, a mia moglie Paola, ai miei nipoti, a mia nuora e mio genero. Anche per loro ho accettato di offrire questo contributo, spero utile. Nel raccontare la mia vita ometterò alcuni particolari, a volte anche i nomi. Cercherò di descrivere ciò che ho vissuto in questi quasi cinquant’anni di “non vita” in cui è accaduto di tutto. Cose belle poche. E tante cose brutte.

Quando, agli inizi del 2008, si fa convincere dalla figlia Anna a raccontare quella che lui stesso definisce la sua «non vita», Stranieri si trova rinchiuso nella sezione di massima sicurezza del carcere Opera di Milano. In quella città c’era stato più volte, da uomo libero e poi da latitante. Ed è da lì che inizia la sua memoria.

Racconto – II

Porcaccia miseria, sono passati 24 anni dall’ultimo arresto. Ad Opera a Milano, dove mi trovo adesso, c’ero già stato esattamente 24 anni fa e qualche mese. Sarà un caso? Proprio 24 anni fa mi trovavo in questa città, da latitante, ma libero. Mi cercavano per alcune rapine commesse nei comuni della provincia di Taranto. Mi presero qui a Milano e dopo pochi giorni mi trasferirono a Taranto per affrontare il processo che finì con il confronto con le mie stesse vittime che mi scagionarono. Fui rimesso in libertà a maggio del 1984 e il 7 giugno di quello stesso anno mi riarrestarono per il sequestro Fusco. Da allora non ho più lasciato questi luoghi infami. Le carceri le puoi dipingere come vuoi, puoi anche ricoprirle d’oro, ma restano pur sempre luoghi di sofferenza. Chi dice o crede il contrario si sbaglia enormemente, parola mia. Forse qualcuno mi dirà che il carcere deve per forza essere un luogo di sofferenza. Ha ragione, ma solo perché non è lui che soffre, ma soffrono altri. Vale bene la parola di Gesù che dice: «Ipocrita chi carica il peso sugli altri quando su di lui non sposterà nemmeno una piuma».

Conosciuto dagli inquirenti come «Stellina», per via della sagoma a cinque punte tatuata sulla fronte, Stranieri è stato ospite di tutte le principali carceri italiane dove ancora si trova sottoposto al regime riservato ai mafiosi più pericolosi e ai terroristi. Più della metà della sua vita l’ha trascorsa ininterrottamente rinchiuso. Non una detenzione semplice: da diciassette anni vive separato dal mondo da un vetro che gli impedisce qualsiasi contatto con l’esterno, anche di accarezzare i suoi parenti che lo vanno a trovare non più di una volta al mese. Durante i colloqui la sua voce è filtrata da un interfono per cui nessuno dei familiari, oggi, sarebbe in grado di riconoscerla dal vivo. I suoi figli, nel frattempo, sono diventati adulti e genitori. Il 23 maggio del 1992, diciassette anni dopo quel primo arresto nel minorile di Lecce, la sua permanenza carceraria fu irrimediabilmente e drammaticamente influenzata dall’attentato di Capaci, a Palermo, in cui il sicario di Totò Riina, Giovanni Brusca, azionò il telecomando che fece esplodere cinque quintali di tritolo uccidendo il capo della Superprocura nazionale antimafia, Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro. La risposta dello Stato a quel terribile crimine, fu l’istituzione della «carcerazione di sicurezza» che prevedeva la cancellazione dei diritti per tutti i detenuti con condanne per reati di natura mafiosa. Stranieri, nel frattempo in carcere per il sequestro Fusco, era stato coinvolto nel primo maxi processo contro la Nuova camorra pugliese di Raffaele Cutolo e poi in quello sulla Sacra corona unita di Rogoli. In questi processi, istruiti prima dalla Procura di Bari e poi da quelle di Lecce e Brindisi, fu ritenuto colpevole di aver fatto parte di un’associazione organizzata e pertanto soggetto all’isolamento. Così, nell’estate del 1993, dopo nove anni di detenzione normale, l’allora Ministro di Grazia e Giustizia, Claudio Martelli, firmò personalmente la lista dei primi 236 dannati da internare. In quell’elenco, oltre al manduriano Stranieri, c’erano Bernardo Brusca, Vito Buscemi, Salvatore Buccarella, Giuseppe Calò, Raffaele Cutolo, Nicola Di Salvo, Giacomo Gambino, Michele Greco, tutta la famiglia dei Madonia, Sebastiano Mesina, Franco Parisi, Antonio Perrone, Giuseppe Piromalli, Giuseppe Rogoli, Biagio Sciuto e tanti altri. I padrini, i capi bastoni e i gregari della mafiosità italiana, insomma, furono isolati in celle singole nel carcere dell’Asinara e sottoposti a regole rigidissime contenute nel nuovo ordinamento carcerario del 41 bis.

Racconto – III

Sono passati 24 anni e la mia vita è piena di ricordi. La memoria è l’unica macchina del tempo che viaggia alla velocità del pensiero. Con la mente puoi andare velocissimo, in un secondo puoi tornare a quando eri bambino, travalicare le frontiere dello spazio e del tempo. Grande cosa è la mente umana. Purché la si sappia controllare. Se la lasci troppo libera, quella, è come un leone che ti sbrana. A volte è meglio non pensare troppo. Dio ci ha fatti a sua immagine e somiglianza ma ci ha dotati di un valore che è il libero arbitrio. È un valore troppo grande che deve essere usato a piccole dosi sennò sono dolori e sofferenze, come quelle che ho passato e sto passando io e tutte le persone che mi amano. Certo, ognuno può fare della sua vita quello che vuole. Da ragazzi si è onnipotenti. Uno crede di essere furbo, più furbo dei suoi genitori, dei nonni, di tutti quelli che lo hanno cresciuto. Loro ti dicono di stare attento, di non commettere errori e tu, a quell’età, sei infastidito di tante raccomandazioni. Inizia proprio lì la storia di tutto: in questo negare i consigli è racchiuso l’inizio della perdizione. Non ascolta oggi, non ascolta domani e sei fritto, per sempre. C’è poi chi nasce con una stella storta, come quella che mi son fatto tatuare sulla fronte. Succede così che quella stella te la porti per tutta la vita e sta a te decidere se deve continuare in quel modo o se è meglio mettere un freno a quella vita troppo di fretta. La mia è andata avanti così, per niente bene. Proprio per niente. Giorni fa ero sdraiato sul letto, guardavo di fronte il cancello chiuso, le sbarre alla finestra, cemento tutto intorno. Per quanto? Per 20 ore al giorno e per tanti anni. Bello, vero? Bello un cavolo! Non c’è niente di bello in un carcere, lo ripeto, tutto è sofferenza e non credete alle scemenze che vi raccontano sulla vita carceraria perché qui tutto è dolore. L’unico vantaggio di questa sofferenza è che ti fa crescere e puoi incontrare Dio. A me è successo. È nel dolore che ritrovi il Signore e ti avvicini a lui che è stato processato e condannato ingiustamente, portato a morire da innocente sulla croce dal potere di allora.

Venti ore al giorno a guardare il soffitto

Il detenuto in 41 bis non ha diritti. Può avere un solo colloquio al mese, con familiari o conviventi di grado diretto, della durata non superiore ad un’ora. In alternativa all’incontro visivo può avere una telefonata ogni trenta giorni. In questo caso, però, il parente deve recarsi nella sede dove è detenuto il congiunto e da lì telefonargli attraverso la rete interna. Ogni colloquio deve essere ascoltato e registrato. L’internato può godere di due ore d’aria al giorno più altre due di socialità (mensa, chiesa, palestra, biblioteca, cinema-tv). Per le restanti venti ore rimane da solo chiuso in cella. Nel 2009 un ulteriore inasprimento delle misure detentive speciali ha ridotto a due ore il tempo da trascorrere fuori dalla cella. Altre restrizioni nell’ora di aria che in gergo viene definita “passeggio”, vietano raggruppamenti superiori a quattro detenuti per volta. Essi non devono avere la stessa provenienza geografica. Il Ddl 733 convertito in legge il 22 luglio del 2009 (Pacchetto sulla sicurezza), ha inasprito ulteriormente le norme del 41 bis prevedendo l’internamento di tutti i detenuti con tale regime in un unico penitenziario situato su un’isola. La famiglia può inviargli due pacchi al mese, del peso non superiore ai dieci chili, più altre due spedizioni straordinarie all’anno (Natale, Pasqua), contenenti abiti, biancheria, indumenti intimi, calzature e cibo. Sono vietate persino le bevande gassate come l’aranciata. Tutto viene controllato dall’addetto alla censura: indumento per indumento, pezzo per pezzo, pagina per pagina. Anche i libri devono essere attentamente visionati e superare il controllo. Il colloquio si svolge attraverso un vetro e, di solito, con l’ausilio di un citofono. Tutta la corrispondenza in arrivo e in partenza è sottoposta a visione. Il fornellino scaldavivande è consentito solo durante il giorno. Il detenuto può ricevere somme limitate di denaro (attualmente sino a 500 euro mensili); è vietata l’organizzazione di attività culturali, ricreative e sportive; è impossibile la nomina e la partecipazione a rappresentanze dei detenuti come anche lo svolgimento di attività artigianali per proprio conto o per conto terzi. Gli ospiti delle sezioni del 41 bis non possono frequentare corsi scolastici, possono studiare solo per conto proprio e l’unico intermediario con i professori è un educatore. A queste limitazioni del decreto ministeriale, vanno aggiunte quelle imposte a discrezione del singolo direttore del carcere. Per i figli minori di 12 anni, inoltre, è consentito un solo colloquio visivo al mese senza vetro divisorio e per la durata non superiore ai 10 minuti. In Italia sono diffusi i casi di figli di detenuti in 41 bis che sono sottoposti a trattamenti psichiatrici. Quando fu istituito l’isolamento carcerario per i mafiosi, i due figli di Vincenzo Stranieri, Antonio e Anna, avevano già superato i dodici anni di età per cui ora non ricordano, se non vagamente, contatti diretti, pelle a pelle, con il padre. Il primogenito, caratterialmente più debole rispetto alla sorella, ha sviluppato e sta pagando questo distacco sino all’estremo limite della follia con continui ricoveri in reparti psichiatrici. Torniamo al 41 bis: naturalmente per chi vi è sottoposto la vita diventa un inferno. I segni di un inevitabile stress emotivo emergono dalle lettere che Vincenzo Stranieri invia costantemente alla famiglia. In una di queste, datata 13 marzo 2008, scrive alla figlia Anna.

“Ciao tesoro di papà, come stai? Spero bene di te Alex, Pier Paolo, Vincenzo, mamma, Shelly e tutti di casa. Ci avviciniamo alla Santa Pasqua del Signore che vi auguro di trascorrere serenamente e felicemente tutti in famiglia con la più viva speranza che la prossima la passiamo insieme, se il Buon Dio vuole. Ne sono passate 24 di Pasque, è forse pure l’ora di tornare a casa. (…) Papà, state appresso agli avvocati. Per i pacchi usate la posta celere. Dice che ci mette un giorno ad arrivare e vediamo… la prima volta mandate roba che non va a male salumi, formaggi, pane, capicollo, lo potete mettere pure sotto vuoto in cellofan o nelle buste tagliato a pezzi come facevate a Spoleto. - Parlando della prossima seduta in Tribunale del riesame che dovrà decidere la proroga del carcere duro, puntualmente riconfermata, scrive: “Speriamo vada bene. Dopo 16 anni forse è pure l’ora che cambi qualcosa in meglio perché di peggio abbiamo già visto di tutto. (…) Vi mando un bacione forte a te Alex, Pier Paolo, Vincenzo, mamma, Shelly, Antonio e Giusy e tutti di casa. Vi voglio un mondo di bene. Tuo papà Vincenzo”.

(Vincenzo Stranieri, carcere di massima sicurezza Opera a Milano)

Il bisogno d’interrompere quel tremendo isolamento compare in maniera ancora più evidente in una delle tante corrispondenze con il sottoscritto.

“Caro Nazareno, vedi se c’è qualcuno disposto ad offrirmi un lavoro per corrispondenza, un giornale, magari, o qualcos’altro e se vieni a trovarmi con qualche parlamentare vorrei discutere proprio di questo. Qua stiamo venti ore al giorno in cella a poltrire. Moltiplicato per 25 anni sono un’enormità, diciassette di 41 bis, per cosa poi? A loro dire per recidere i contatti con l’esterno, ma quanto meno ci diano il modo di non perdere pure la ragione: venti ore a guardare il soffitto, a cosa e a chi servono?”.

(Vincenzo Stranieri, carcere di massima sicurezza dell’Aquila, 16 marzo 2009)

Fin qui il racconto che parla di chi, dai benpensanti è indicato come un mafioso, detestabile e detestato. E la gente cosiddetta “perbene” cosa fa?

Il prezzo per la propria libertà è alto. Le ritorsioni non finiscono qui. Sono stato prontamente imputato a Potenza per diffamazione a mezzo stampa perché sul web e sulla stampa nazionale ed internazionale (La Gazzetta del sud Africa) ho riportato le prove che a Taranto, definito Foro dell’Ingiustizia, vi sono eccessivi errori giudiziari ed insabbiamenti impuniti: Magistratura che, in conflitto d’interessi, non si astiene dall’accusare e dal giudicare in processi, in cui si palesa la loro responsabilità inerente ad errori giudiziari; Forze dell’ordine che denunciano i reati e solo il 10% di questi si converte in procedimento penale.

Potenza ha reiteratamente archiviato ogni denuncia presentata contro gli abusi e le omissioni della Procura di Taranto, compresa quella inerente una richiesta di archiviazione in cui essa stessa era denunciata e nonostante le varie interrogazioni dei parlamentari: Patarino, Bobbio, Bucciero, Lezza, Curto e Cito e nonostante gli articoli di stampa sugli innumerevoli errori giudiziari: caso on. Franzoso, caso killer delle vecchiette, caso della barberia, caso Morrone, ecc.

La denuncia a Potenza è stata presentata da un Pubblico Ministero di Taranto, che ha chiesto l’archiviazione per un procedimento, in cui si era denunciato il fatto che presso il comune di Manduria non si rilasciavano legittime ricevute all’ufficio protocollo e che il comandante dei vigili urbani era vincitore del concorso da lui indetto, regolato e con funzioni di comandante pro tempore e di dirigente dell’ufficio del personale. La stessa procura di Taranto ha già cercato, non riuscendoci, di farmi condannare per abusivo esercizio della professione forense, pur sapendo di essere regolarmente autorizzato a patrocinare; ovvero di farmi condannare per calunnia per la sol colpa di aver presentato per il mio assistito opposizione provata avverso ad una richiesta di archiviazione infondata, tant’è che il vero responsabile è stato accertato nel dibattimento che ne è seguito; ovvero di farmi condannare per lesione per essermi difeso da un’aggressione subita nella propria casa al fine di impedirmi di presenziare all’udienza contro l’aggressore; ovvero farmi condannare per violazione della privacy e per diffamazione per aver pubblicato atti pubblici nocivi alla reputazione della stessa procura e di un avvocato che vinceva le cause, in cui a giudicare era un suo ex praticante; ovvero di farmi condannare per aver denunciato che a Taranto i magistrati responsabili di errori giudiziari erano gli stessi ad avere, in conflitto d'interesse, la competenza sulla loro declaratoria.

Procedimenti a mio carico sempre con impedimento alla difesa.

Potenza. Foro in cui lo stesso Presidente di quella Corte di Appello aveva più volte chiesto conto alle procure sottoposte sulle denunce degli insabbiamenti a Taranto, rimaste lettera morta.

Potenza, più volte sollecitata ad indagare sui concorsi forensi truccati, in cui vi sono coinvolti magistrati di Lecce, Brindisi e Taranto.

Potenza, foro in cui è rimasta lettera morta la denuncia contro alcuni magistrati di Brindisi, che a novembre 2007 hanno posto sotto sequestro per violazione della privacy un intero sito dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie composto da centinaia di pagine, effettuato con atti nulli e con incompetenza territoriale riconosciuta dallo stesso foro. Il sito conteneva, alla pagina di Brindisi, le notizie di stampa nazionale riguardanti il presunto complotto della medesima procura di Brindisi contro l’ex Giudice di Milano, Clementina Forleo. Da questa acclamata incompetenza territoriale il fascicolo è passato a Taranto. La procura di quel foro, reitera il sequestro dell’intero sito, in cui, alla pagina di Taranto vi era un corposo dossier sull’operato degli stessi uffici giudiziari. Da un conflitto d’interessi ad un altro.

Potenza, foro in cui non si è proceduto contro un giudice del tribunale di Manduria, sezione distaccata di Taranto, che pensava bene di dare un esito negativo a tutte le cause in cui compariva Giangrande Antonio, come imputato o come difensore di parte, nonostante le ampie prove dimostrassero il contrario.

Ma le ritorsioni non si fermano qui. A Santi Cosma e Damiano (LT) un Consigliere Comunale, adempiendo al suo dovere di vigilanza e controllo sulla legittimità degli atti amministrativi degli enti territoriali, con altri associati dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie del posto, ha presentato vari esposti alle autorità competenti laziali. Esposti circostanziati e provati. Da questa meritoria attività è conseguita una duplice Interrogazione Parlamentare e un intervento da parte del Direttore Regionale del Dipartimento del Territorio della Regione Lazio. Dalle risposte istituzionali è scaturita una vasta infiltrazione mafiosa e ripetute illegittimità perpetrate a danno del territorio locale e dei suoi abitanti, in particolare sul territorio del basso Lazio, in provincia di Latina, da qui la richiesta di scioglimento dei Consigli Comunali di Santi Cosma e Damiano e di Minturno. Pur palesandosi la fondatezza delle accuse e il diritto-dovere costituzionale di informare i cittadini, oltretutto riportando fedelmente il contenuto di atti pubblici sui siti associativi, la reazione è stata la presentazione di una denuncia per calunnia e diffamazione a danno del Consigliere Comunale e del Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, dr Antonio Giangrande. Denuncia infondata in fatto e in diritto, ma per la quale la Procura di Roma si è dichiarata competente e pronta a procedere. Roma e non Latina o Taranto (foro del reato o dei presunti responsabili).

Da tutti questi tentativi, atti ad intimorire ed ad indurre alla tacitazione, nessuna condanna è scaturita. Anzi, molti procedimenti penali sono rimasti nel limbo, spesso fermi per anni per pretestuosi errori formali: insomma nel dibattimento non si voleva che uscisse la verità o che si presentasse istanza di ricusazione.

La Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo su mia istanza ha aperto un procedimento (n. 11850/07) contro l'Italia, per l'insabbiamento di 15.520 (quindicimilacinquecentoventi) denunce penali e ricorsi amministrativi, alcune a carico di magistrati e avvocati per associazione mafiosa e voto di scambio mafioso. Si rileva non solo l'immenso numero di procedimenti, a cui nulla è conseguito, pur con obbligo di legge, ma, addirittura, spesso e volentieri, colui il quale si era investito della competenza a decidere sulla denuncia penale, era lo stesso soggetto ivi denunciato. Da qui scaturiva naturale richiesta di archiviazione, poi prontamente accolta. Ogni tentativo di coinvolgere le istituzioni italiane preposte ha conseguito ulteriore insabbiamento.

L’Associazione Contro Tutte le Mafie, ai sensi degli artt. 21 e 118, comma 4, Cost., svolge attività di interesse generale e di utilità pubblica di informazione, di denuncia e di proposta, sulla base del principio di sussidiarietà.

Nonostante ciò non percepisce alcun finanziamento, né affidamento dei beni confiscati alla mafia, né alcuno spazio mediatico: solo perché non è di sinistra.

Tutte le Tv locali non offrono spazi nei loro programmi di approfondimento, nonostante l’apporto di competenza e di audience.

Tutte le tv nazionali non si avvalgono degli spunti esclusivi sulle tematiche nazionali.

Ballarò di Rai tre, invia una troupe da Roma, per un servizio sui concorsi truccati: servizio mai andato in onda.

RAI 1 stravolge il palinsesto per censurare lo spazio dedicato ad una associazione riconosciuta dal Ministero dell’Interno e che combatte in prima linea tutte le mafie. 10 minuti, il programma dell’accesso, previsto il 23 novembre 2007 alle 10.40, non è andato in onda. Nessun avviso, o comunicato, o motivazione è pervenuto alla sede dell'associazione, nè da parte della RAI, nè dalla Commissione di Vigilanza.

Da qui l'interrogazione parlamentare del senatore Giovanni Russo Spena, per chiedere perché è stato censurato il servizio, ovvero perché si è inviata la troupe da Roma per un servizio mai trasmesso, con aggravio di costi per l’azienda RAI.

Tutto questo, e anche peggio, succede a chi, non conforme all’ambiente colluso o codardo, non accetta di subire e di tacere.»

In data 2-3-4 marzo 2010, il servizio di Stefania Petix, inviata di Striscia La Notizia, per la prima volta in Italia ha sollevato il problema della destinazione clientelare dei beni confiscati alla mafia. In quel caso si evidenziava che a Palermo la destinazione a fini sociali dei beni confiscati era stata effettuata a favore di associazioni inesistenti o a fini di lucro. Inascoltata la “Associazione Contro Tutte le Mafie” da sempre ha denunciato che il fenomeno è nazionale. Si riscontra che l’associazione “Libera” ha un rapporto privilegiato con le strutture Prefettizie a scapito delle tantissime associazioni indipendenti che non fanno capo a quel coordinamento. In questo caso vi è silenzio assoluto delle Istituzioni e degli organi di stampa su un fatto gravissimo. Allo stesso sodalizio nazionale denominato “Associazione Contro Tutte le Mafie”, iscritta presso la Prefettura di Taranto al n. 3/2006, è impedita l’iscrizione presso altre prefetture pur operando nel loro territorio, in virtù del Decreto del Ministero dell’Interno n. 220 del 24/10/2007, che prevede l’iscrizione delle associazioni antiracket solo ed esclusivamente presso le prefetture competenti sulla sede legale. In data 3 marzo 2010, anche grazie ad una legge regionale, denominata appunto “Libera il bene”, attraverso la quale la Regione Puglia si assume il 90% dell’onere economico delle spese per la ristrutturazione degli immobili, il commissario straordinario prefettizio di Manduria Giovanni D’Onofrio ha promosso ed ottenuto, con la firma del protocollo di intesa, la collaborazione della stessa associazione Libera (rappresentata da Davide Pati e Annamaria Bonifazi) e della Prefettura di Taranto (rappresentata dalla dott.ssa Distante), finalizzata all’analisi dei beni confiscati agli esponenti mafiosi di Manduria, al monitoraggio delle loro condizioni strutturali, alla verifica del possibile riutilizzo e alla progettazione per la trasformazione in centri di aggregazione o per altro uso (da stabilirsi). “Libera” è un coordinamento, non un’associazione, e come tale, in virtù del Decreto citato, non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, in quanto il coordinamento non ha la sede legale in quella città, ma in via IV Novembre, 98, Roma, per cui il protocollo d’intesa è nullo e la Prefettura di Taranto e il Comune di Manduria, dovrebbero collaborare con le associazioni con sede legale nella provincia di Taranto, e l’Associazione Contro Tutte le Mafie, ha la sede legale in Avetrana, 15 Km da Manduria. Se passa il principio che chiunque spenda il nome “Libera” possa essere iscritto e privilegiato dagli enti Prefettizi, è normale che in Italia si formi un monopolio illegale delle assegnazioni dei beni, specie se poi questa attività è sostenuta dai finanziamenti pubblici. E’ ancor più grave se poi i coordinamenti hanno sede presso la CGIL. In questo caso parrebbe un’espropriazione proletaria. Poi non si capisce come mai la Regione Puglia possa riconoscere finanziamenti solo a “Libera”, escludendo le altre associazioni indipendenti, specie se dopo tanta enfasi, dopo anni non è ancora stato istituito l’albo regionale delle associazioni antiracket, che dovrebbe legittimare gli stessi finanziamenti. Spero che questa denuncia pubblica sia approfondita, nell’interesse della collettività, delle associazioni antimafia indipendenti e della vera lotta alla mafia e cessi l’ostracismo a danno dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Per tutti questi fatti non si è aperto alcun procedimento d’ufficio da parte delle Autorità locali, né hanno avuto seguito le denunce penali presentate, le cui indagini erano delegate alle stesse Autorità.

Per questo, dopo aver pubblicato la richiesta di archiviazione sulla mia denuncia contro un sistema che poi in molti lo hanno definito mafioso, non posso non pubblicare qui di seguito quello che per fini tutelati dal diritto di cronaca e dal diritto di critica, oltre ad interessi puramente culturali ed artistici nel predisporre un’opera accademica di sociologia storica, non è altro che un lavoro letterario di risposta a quelle istituzioni che lasciano il cittadino alla mercé di un sistema corrotto ed in balia dei pregiudizi e dei luoghi comuni di chi, giornalista padano ed ignorante, non conosce vergogna. Divulgazione di atti pubblici od atti privati pubblicati, senza, altresì, avere alcun intento diffamatorio nei confronti dei soggetti indicati, dei quali si apprezza e si loda il coraggio di raccontare una verità che deve rompere tutte le omertà e le censure. Si solidarizza e si propagandano, inoltre, le sorti di chi, come me ha cercato nel torbido la verità, ma per me, quando io ho cercato le stesse verità ed avuto le stesse ritorsioni, non ha avuto identica pietà, schierandosi, di fatto, dalla parte dei carnefici, anziché dalla parte della vittima.

Manduria come tutte le città in Italia: quello che non si osa dire.

In perfetta sintonia con il solito copione secondo cui le responsabilità devono ricadere sempre su chi scrive le malefatte e non su chi le produce, l’ex sindaco Paolo Tommasino ha denunciato il sottoscritto, in qualità di direttore de La Voce di Manduria, per la pubblicazione sul giornale e sul sito de La Voce il dossier di 24 pagine redatto a marzo scorso dall’allora sindaco e indirizzato a più uffici istituzionali come Ministero, prefettura, Procura della Repubblica, commissario prefettizio e ai tre commissari incaricati di verificare l’eventuale infiltrazioni mafiose nel comune di Manduria. Così scrive Nazareno Dinoi su “La Voce di Manduria”. La querela è stata presentata ai carabinieri di Manduria nell’ultimo fine settimana. Ora sarà un pubblico ministero a valutare l’esistenza o meno di reati commessi dal nostro giornale. Da parte nostra siamo consapevoli di aver fatto il nostro dovere, cioè di informare i nostri lettori e tutti i manduriani di come ha funzionato la loro casa (si chiama municipio) negli ultimi anni. Lo abbiamo fatto rendendo pubblica una relazione scritta dal principale protagonista pubblico di quella storia, il sindaco, quindi attendibilissima. Lo abbiamo fatto ritenendo giusto informare i cittadini di ciò che accadeva in municipio. Si chiama diritto di cronaca. Cosa voglia contestare l’autore di quella denuncia, non ci è dato al momento sapere. Lo scopriremo quando saremo chiamati a rispondere di quella pubblicazione, semmai un pubblico ministero riterrà necessario farlo. Nel frattempo l’ex sindaco Tommasino mi permetterà di correggere alcune sue opinioni contenute nel dossier che hanno interessato la mia persona. Il colonnello, nel suo memoriale da noi pubblicato, ha detto che il sottoscritto ha «condotto una campagna di riabilitazione dello Stranieri, facendolo passare come una vittima, orma del redento, vessato dalla prigionia, tanto da rivendicarne la sua liberazione, attraverso il coinvolgimento di parlamentari». Si sarà capito che Stranieri è l’ex boss manduriano della sacra corona unita, Vincenzo Stranieri, di cui ho raccontato la storia criminale prima e di detenuto speciale poi. Non ho mai detto che Stranieri deve essere liberato prima che termini la sua pena. Neanche lo stesso Stranieri chiede questo. Se Tommasino avesse letto il libro non avrebbe commesso questo pacchiano errore. A proposito del libro e dei parlamentari intervenuti “per liberare il boss”, voglio dire che i rappresentanti del parlamento erano due deputati in carica e un ex del partito Radicale. La loro presenza a Manduria servì solo per presentare il libro in questione. Questo il colonnello Tommasino lo sa perché fu lui ad autorizzare l’occupazione del suolo pubblico (Chiesa di Santa Croce, Parco dei Messapi) per quella manifestazione. Fu lui a promettermi che sarebbe venuto così da metterlo sugli inviti. E fu lui a dirmi, mesi dopo, che non era venuto perché così avevano chiesto esponenti della famiglia dell’imprenditore del vino, Fusco, la cui figlia, 28 anni fa, fu rapita da un commando di cui faceva parte Stranieri. Nei prossimi giorni pubblicheremo le repliche di alcuni personaggi citati nello stesso dossier a cui non è piaciuto il modo in cui sono stati dipinti dal colonnello-sindaco.

IL MEMORIALE DELL’EX SINDACO PAOLO TOMMASINO, FRATELLO DEL GIP DI TARANTO GIUSEPPE TOMMASINO.

Atto pubblicato in più parti su “La Voce di Manduria”.

«I recenti avvenimenti che hanno interessato la mia città m’impongono, in qualità di ex sindaco di Manduria, di fornire un contributo di massima chiarezza alle autorità in indirizzo». Inizia così la lunga lettera che l’ex primo cittadino Paolo Tommasino, inviò, il 10 aprile scorso al Ministero dell’Interno, alla Prefettura e alla Procura della Repubblica di Taranto e alla procura antimafia di Lecce, al commissario prefettizio Aldo Lombardo e al presidente della commissione di accesso sui fenomeni mafiosi insediatasi da poco nel palazzo di città. In 24 pagine, il colonnello dell’Esercito ripercorre la sua breve sindacatura tracciando un quadro della città con molte ombre e getta sospetti su tutti. Tommasino se la prende con tutti, con i politici di maggioranza e opposizione, imprenditori, sindacalisti e giornalisti. Ciò che scrive mostra un uomo che si sente circondato da persone poco affidabili e costretto ad amministrare un ente dove la criminalità organizzata ha messo le radici. Un documento eccezionale, il suo, che mostra come non dovrebbe essere una città: amministrata e gestita da un tessuto politico-affaristico-mafioso della specie peggiore. Ritenendo giusto e utile diffonderlo nel rispetto anche del diritto di cronaca, abbiamo deciso di rendere pubblico il documento che, per le ridotte dimensioni del nostro giornale, lo proporremo a puntate.

PRIMA PARTE: Le pressioni dei politici

«Devo innanzitutto affermare che apprezzo l’iniziativa del Prefetto di Taranto dottor Sammartino di avere richiesto al Ministero dell’Interno una commissione di accesso per verificare eventuali infiltrazioni criminali nella amministrazione di Manduria, perché, di fronte a questioni così delicate, vi è necessità di fare piena luce. D’altra parte, non vi è dubbio che le mie dimissioni siano state determinate dalla necessità di tagliare ogni rapporto con alcuni consiglieri di maggioranza che non avevano comportamenti corretti, ma è pur vero che il clima che si è venuto a creare, proprio in relazione alle notizie di arresti e di indagini in corso, con sospetto di infiltrazioni mafiose nell’amministrazione comunale, abbia avuto un peso indifferente in tutta la vicenda. Fin dal primo giorno del mio insediamento ho puntato, sopra ogni cosa, alla moralizzazione della cosa pubblica, assumendo una lunga serie di iniziative che sono tutte documentate dagli atti. Sono sicuro, per questo, che il commissario prefettizio porterà a termine l’opera da me iniziata che si è interrotta con le mie dimissioni, non certo per mio disinteresse o per vigliaccheria, ma perché vi è stata la collusione dell’intera opposizione con una parte dei consiglieri di maggioranza che tentavano di ricattarmi. E’ evidente che la caduta dell’amministrazione sia direttamente legata alla mia volontà di fare pulizia e dare trasparenza all’amministrazione senza sottostare ai ricatti, a richieste che, nella migliore delle ipotesi erano finalizzate ad interessi privati. Essi sono consistiti, tra gli altri, nella richiesta del consigliere Moscogiuri ad esprimere lui solo, contro i due altri consiglieri del suo stesso partito, un proprio assessore; nelle richieste del consigliere Duggento e Moccia di nominare assessore la dottoressa Rosa Sammarco, moglie dello stesso Duggento e vigile urbano della nostra stessa amministrazione; nella richiesta del consigliere Attanasio di avere quanto meno la delega all’ecologia, facendo riferimento al fatto che avrebbe voluto occuparsi personalmente con urgenza della gara dei rifiuti in corso; nel tentativo di tutti questi consiglieri di imporre a prescindere dai risultati ottenibili e alle esigenze del servizio, la nomina di dirigenti come la signora Maiorano e prima ancora la stessa signora Rosa Sammarco; dalla richiesta di ottenere la nomina di un componente del nucleo di valutazione, l’avvocato Gian Leo Greco, incompatibile con questo incarico, proprio perché di recente nominato assessore per il loro stesso gruppo. A queste richieste non poteva che esserci un mio netto rifiuto, ma la particolare situazione, al contrario del passato, quando ho sempre saputo dire i no, ma sono riuscito a trovare il modo per andare avanti, mi ha spinto a dare le dimissioni, perché ritenevo visti i segnali che mi arrivavano a livello istituzionali, che ci fosse bisogno di un gesto forte e chiaro. Fatta questa doverosa promessa, passo a fornire un sunto degli aspetti più significativi di questa mia esperienza, nella speranza di contribuire all’indagine. Ritornando indietro, fino dalla genesi della mia candidatura, è da chiarir che nel 2010 avrei voluto candidarmi nuovamente al Consiglio della regione essendo il primo dei non eletti in An mentre, invece, l’onorevole Pietro Franzoso volle, all’ultimo momento, che fossi candidato sindaco a Manduria, in alternativa ad Antonio Calò, l’imprenditore ed ex sindaco che ci teneva molto, invece ad essere candidato come sindaco. Con Calò avevo avuto già dei forti contrasti nel corso della sua amministrazione tanto, da essere stato costretto a dimettermi come assessore e vicesindaco, dopo appena due giorni dalla nomina. Preso atto dell’impossibilità a vedere esaudito il suo desiderio di ottenere la candidatura a sindaco, il Calò mi voleva imporre tra i candidati nella lista del Pdl i suoi uomini, tra cui anche Oronzo Caprino, detto Enzo, personaggio molto discusso, già condannato a sei mesi per abusi di ufficio, allorquando era stato sindaco intorno agli anni Novanta. La mia opposizione a questa candidatura fu assoluta, nonostante la forte presa di posizione del Calò, tanto che il Caprino minacciò pubblicamente che per la mancata candidatura avrebbe chiesto centomila euro di risarcimento».

SECONDA PARTE: Le discariche

Prosegue la fedele trascrizione del dossier che l’ex sindaco Paolo Tommasino inviò al Ministero dell’Interno, al Prefetto e alla Procura di Taranto all’indomani dell’insediamento a Manduria della commissione ministeriale sugli accessi antimafia. In questa parte l’ex primo cittadino si mostra molto preoccupato per l’eccessivo potere gestito dal dirigente dei Lavori pubblici e paventa sospetti di interessi criminali intorno alla gestione delle due discariche manduriane.

«Da allora il Caprino iniziò a pubblicare settimanalmente un foglio cittadino chiamato Casalnuovo, con spesso la pubblicità dell’impresa del Calò, totalmente finalizzato a lanciare discredito alla nostra amministrazione, mostrando di avere fortissimi collegamenti all’interno della amministrazione con impiegati e dirigenti, tanto da essere quotidianamente presente in comune, accolto anche in uffici che non avrebbero dovuto ricevere il pubblico, ottenendo di prima mano informazioni anche riservate. In particolar modo era sempre bene informato di questioni attinenti l’ufficio tecnico ed il suo dirigente, l’ingegnere Pescatore, era costantemente lodato e incensato dal foglio del Caprino per la sua attività amministrativa. Per arginare questo fastidioso malcostume del caprino e degli impiegati si cercò di limitare l’accesso agli uffici non aperti al pubblico e di contrastare la fuga di notizie riservate o di atti non ancora ufficiali. Ma, anche quest’iniziativa fu pesantemente contrastata addirittura con ricorso al Prefetto e grande enfatizzazione sulla stampa. Nel corso di questa mia, se pur breve, esperienza da sindaco mi sono trovato spesso in situazioni poco chiare che evocavano sospetti di comportamenti non corretti o omissivi, di motivazioni più personali che volte al bene comune. Ho sempre cercato, come era mio dovere, di andare a fondo alle questioni, chiedendo conto ai responsabili di settore, avvalendomi talvolta anche dell’ausilio di consulenti esterni, contestando comportamenti inopportuni anche ai miei consiglieri o assessori non indugiando, allorquando ve ne era bisogno, di assumere personalmente adeguate iniziative. Appena insediatomi, ho richiesto al segretario Spagnulo un’accurata relazione che, però, non mi sembrò per nulla utile in quanto molto edulcorata rispetto alle gravi e numerose problematiche che attanagliavano l’ente. Registrai anche, nei giorni seguenti, una certa difficoltà ad essere introdotto nelle vere ed importanti decisioni che sembravano esser5e prese in piena autonomia dal segretario unitamente all’ingegnere capo dell’ufficio tecnico Antonio Pescatore. Proprio per queste ragioni mi convinsi della necessità di incidere su questo stato di cose, utilizzando l’unica arma che avevo, cioè la possibilità del sindaco di sostituire il segretario, dopo sessanta giorni dal proprio insediamento. Prese il posto del segretario Spagnuolo il dottor lurlaro, che mi ha aiutato molto nella difficile impresa di scardinare questo stato di cose. Con il suo aiuto cercai di limitare gli ambiti dell’ingegnere capo che gestiva e gestisce ancora, sia il settore ecologia (discariche e raccolta rifiuti) sia quello dell’urbanistica ed, anche, del lavori pubblici, modificando l’organigramma, deliberando in giunta la divisione del settore urbanistico da quello dei lavori pubblici, non potendo, però, di fatto, sostituire l’ingegnere Pescatore perché le gravi ristrettezze economiche dell’ente mi impedivano di poter assumere un nuovo ingegnere a cui affidare la dirigenza. Fin dai primi giorni concentrai tutte le mie attenzioni alle discariche di rifiuti che insistono sul nostro territorio, anche perché, già come cittadino, ero molto preoccupato del fatto che nel nostro paese vi fosse una forte incidenza di tumori alla tiroide, fatto questo che induce a temere la contaminazione ambientale di sostanze tossiche con azione cancerogena. Scoprii che la discarica li Cicci era stata da tempo abbandonata e che la società che la aveva gestita e che aveva lucrato somme ingenti, anche per aver ottenuto una importante sovra elevazione, era sparita nel nulla, senza provvedere a mettere in sicurezza e a bonificare la discarica. La cosa più sorprendete era che, a parte una raccomandata inviata e tornata ai mittente, nulla era stato fatto per avviare adeguate indagini sulle gravi inadempienze e, addirittura, il sito non era nemmeno stato segnalato alla Provincia che disponeva di finanziamenti regionali, proprio finalizzati alla bonifica di tali siti. Sembrava, quasi, che della discarica “Li Cicci” meno si parlasse, meglio era. Naturalmente richiesi con urgenza una accurata relazione del responsabile tecnico ed inviai tutto alla Procura della Repubblica e alla commissione parlamentare sulla infiltrazione mafiosa nella gestione dei rifiuti. Affidammo ad un penalista l’incarico di perseguire i responsabili, attenendone la condanna e avviai le pratiche urgenti per la bonifica del sito ottenendo, dopo poco, un finanziamento di un milione e duecentomila euro. Nei mesi seguenti, allorquando fui ascoltato dalla commissione parlamentare in Prefettura, dichiarai testualmente che non avevo prove che vi fossero infiltrazioni criminali nella gestione delle discariche, ma che ero molto preoccupato, sia per la discarica li Cicci, sia per la discarica la Chianca…»

TERZA PARTE: l’ombra della malavita sulla Fiera Pessima

In questa terza parte della lunga lettera inviata al Ministero dell’Interno, Procura e Prefettura, l’ex sindaco Paolo Tommasino parla di strani indebitamenti da parte delle precedenti amministrazioni e tocca il capitolo della gestione della Fiera Pessima, causa del licenziamento del suo ex assessore Gregorio Capogrosso. Tommasino parla dei rapporti di Capogrosso con esponenti della malavita locale e getta ombre sulle precedenti gestioni della campionaria.

«Nei mesi successivi affrontai la questione dell’approvvigionamento idrico della fascia costiera, sprovvista in gran parte di acquedotto. Nel servizio di fornitura privata dell’acqua con autobotti notai una certa presenza di pregiudicati, vi furono dei controlli da parte della guardia di finanza, un sequestro di un pozzo irregolare e di un camion e venne montata ad arte una protesta dei camionisti che pretendevano dal sindaco una autorizzazione per poter svolgere, come sempre avevano fatto, le fornitura pretendendo, con il mio avvallo, di continuare a non rispettare le norme. Rappresentai il problema in Prefettura ed ebbi una grande disponibilità dal Prefetto Pagano che organizzò specifiche riunioni sull’argomento. Riuscimmo a indurre un certo numero di abusivi a regolarizzare la loro posizione, richiesi all’acquedotto di dotare il comune di varie bocchette per l’approvvigionamento di acqua potabile così da eliminare la piaga dei pozzi abusivi e non igienicamente sotto controllo. Altro aspetto che cercai immediatamente di affrontare fu il dilagante fenomeno della vendita abusiva di frutta e verdura per le strade, anche in questo settore vi era la percezione che vi fossero infiltrazioni criminali a controllare questo settore, anche questo argomento fu portato all’attenzione del Prefetto e del Questore dai quali ricevetti, come sempre, grande disponibilità. Furono effettuate delle riunioni con le forze dell’ordine ed organizzate varie operazioni di sequestro su tutto il territorio comunale. Altro aspetto che dovemmo immediatamente affrontare fu il risanamento del bilancio comunale, che sembrava essere in equilibrio solo attraverso il sotterfugio di occultare e procrastinare all’infinito pagamenti da effettuare, tanto da generare anche il lievitare dei debiti per contenziosi che si andavano inutilmente a generare e per il maturare di interessi. Pretesi di avere, da parte di tutti i dirigenti, l’esatta situazione delle passività ed ebbi conferma dei miei sospetti, così che il primo equilibrio di bilancio portato in consiglio comunale fu di un disavanzo di un milione e 700 mila euro circa a cui si aggiungevano contenziosi, conclusisi con ingiunzione di pagamenti di milioni di euro, addirittura per adeguamenti Istat non corrisposti da anni. Da una sommaria disamina questa situazione di grave passività risaliva ad anni addietro e ciò che mi sembrava incomprensibile non era solo il fatto che nulla si era fatto per fronteggiarla, ma, addirittura, il fatto che la vecchia amministrazione invece di pagare i debiti che c’erano, ne aveva contratti dei nuovi per oltre 15 milioni di euro per effettuare opere pubbliche di discutibile priorità per il paese, come la circonvallazione di Uggiano Montefusco o il rifacimento dei marciapiedi del centro storico e della piazza, rispetto alla mancanza di acqua e fogna per interi quartieri della città. Per tali opere pubbliche, finanziate integralmente con mutui direttamente gestite dall’ufficio tecnico, sembrava esserci una grande fretta di arrivare alle gare di appalto, a costo anche di creare gravi disagi funzionali alla città. Al mio insediamento, i lavori di ristrutturazione del centro cittadino, per un importo di circa tre milioni e mezzo, erano già in corso, ma vi erano una serie di problematiche relative all’essere partiti senza aver correttamente valutato alcune spese che non erano state correttamente conteggiate o del tutto ignorate nel progetto profumatamente pagato all’architetto Nino Filotico, come gli scavi per la Sovrintendenza, l’eliminazione della vecchia pavimentazione ecc, che inducevano diverse varianti che alteravano il progetto iniziale. Situazione molto più grave si creò con l’appalto per la ristrutturazione del municipio per altri 3,5 milioni di euro, in quanto il dirigente tecnico aveva espletato la gara, arrivando alla aggiudicazione, senza aver provveduto a reperire i locali da utilizzare per il trasferimento degli uffici comunali e senza nemmeno avere la copertura finanziaria necessaria per pagare i fitti. Per evitare danni incalcolabili all’amministrazione, fummo costretti a bloccare la stipula del contratto con la impresa aggiudicataria, ma questo determinò una aspra contestazione da parte di alcuni impiegati comunali. Ne seguì anche un contenzioso con la ditta che aveva vinto la gara, conclusosi con la condanna per l’amministrazione di un risarcimento di 50.000 euro. Ad ogni buon modo, il progetto di una nuova sede comunale lo inserimmo in un bando di rigenerazione urbana di un quartiere degradato dove vi era uno stabile mai completato ed abbandonato che ci permise di avere un finanziamento a fondo perduto di circa 2,5 milioni di euro, arrivando nei primissimi posti della graduatoria regionale, prima di capoluoghi di provincia e città molto più grandi e importanti della nostra. Si erano, poi, presentate le gravi difficoltà nell’effettuare una trasparente gara per la fiera del 2011. Il vice sindaco, di allora, Gregorio Capogrosso, consigliere eletto con maggiori consensi nel Pdl, assessore al commercio, agricoltura e deputato alla organizzazione della fiera, partendo dall’idea di coinvolgere le organizzazioni di categorie, non riusciva a chiudere la partita, rischiando di non poter più avere il tempo necessario per poter svolgere le procedure con adeguata tranquillità e correttezza. Vi erano già in corso indagini penali che riguardavano tre funzionari comunali, l’ingegnere Pescatore, il precedente segretario Spagnulo e il geometra Coco, che erano membri della commissione che, nel 2008, aveva assegnato la gestione la ditta del Chiusolo, imprenditore campano che per molti anni ha avuto la gestione della fiera e questo rendeva particolarmente delicata la questione. Sembrava che si stesse creando una situazione in cui, arrivando troppo a ridosso della data prevista, non vi sarebbe stato nessun altro in grado di poter organizzare la fiera che il Chiusolo, già pronto a realizzarla, come tutti gli anni precedenti. Questa situazione mi impose di prendere in mano direttamente la questione, trovando ostacolo da parte dell’assessore Capogrosso. Il comportamento del Capogrosso, insieme al sospetto che avesse personalmente brigato per far assumere un giovane con precedenti penali, genero dello Stranieri, in una impresa che per il comune svolgeva servizi di manutenzione, la Chemipul, mi portò a estrometterlo immediatamente dall’amministrazione benché fosse stato il primo degli eletti nel Pdl ed avesse, proprio per questo, la carica di vicesindaco e di assessore. Mandato a casa il Capogrosso ed assunto ad interim il suo assessorato, cercai, in tutta fretta, di predisporre il bando di gara, ma, nonostante l’appalto fosse particolarmente conveniente, si verificava lo strano fenomeno che nessuno vi partecipava, o meglio arrivarono delle buste vuote che sembravano essere una sorta di messaggio cifrato ed intimidatorio. Fummo costretti ad espletare ripetuti bandi di gara e alla fine, con grande difficoltà, riuscimmo a realizzare la fiera. Non mancai di rendere pubblici i miei pesanti sospetti su poco chiare interferenze nella gestione della fiera».

QUARTA PARTE: L’ingerenza del Pdl

In questa quarta parte del dossier, l’ex sindaco Paolo Tommasino parla di minacce di morte giunte in maniera anonima alle imprese del Nord che erano interessate alla gestione della Fiera Pessima. Lamenta le solite azioni di disturbo nella sua stessa maggioranza e lancia esplicite accuse di inefficienza e “scarso controllo” sui lavori comunali affidati all’impresa Chemipul. Anche qui le solite accuse sull’ingegnere Pescatore per la mancata alienazione dei beni comunali.

«Quest’anno essendo stata esclusa la prima impresa in graduatoria, una ditta del nord, è stata convocata la seconda, sempre del nord, che, però, ha rinunciato all’appalto dichiarando per iscritto di aver ricevuto anonime minacce di morte. In difesa del Capogrosso vi furono, soprattutto, le pressioni costanti, fino a poco prima delle mie dimissioni, del commissario del Pdl dottor Francesco Turco, primario del Ps dell’ospedale dì Manduria e di un altro consigliere del Pdl, Nicola Di Monopoli, anche egli medico e subalterno al primo al Ps. In una occasione, addirittura, il dottor Turco minacciò di non poter più garantire l’appoggio del Dimonopoli alla maggioranza, dicendomi, esplicitamente, che l’amministrazione sarebbe caduta se non avessi acconsentito di nominare un assessore, secondo le sue indicazioni. Di fatto, il Dimonopoli si dimise da presidente della commissione urbanistica in modo plateale, rilasciò numerose interviste contro l’amministrazione, anche per pretestuose motivazioni, venne meno ad importanti consigli comunali, dove la sua presenza era importante, votando, addirittura, a favore della opposizione al momento della nomina del nuovo presidente della commissione urbanistica. Da allora, non si poté mai contare sul suo reale sostegno alla maggioranza che rimaneva chiaramente subordinato alla sua richiesta di riammissione in giunta del Capogrosso. Giungevano voci, inoltre, che sia Turco, che Dimonopoli e lo stesso Capogrosso avessero raggiunto strette intese anche con il consigliere Nicola Moscogiuri che si era fin dall’inizio schierato contro la maggioranza, in cui era stato eletto, perché non aveva ottenuto, come richiesto, un proprio assessorato. Il Moscogiuri, infine, è stato primo firmatario e promotore delle dimissioni di massa. Il Dimonopoli, mi dicono, ha più volte dichiarato che avrebbe firmato anche lui qualora ci fosse stato bisogno della sua firma per raggiungere il numero necessario e, infatti, pochi minuti prima delle raccolte delle firme dal notaio, era stato visto in macchina con il Moscogiuri. Anche in considerazione del sospetto che il Gregorio Capogrosso avesse privilegiato rapporti personali con la Chemipul, del fatto che un altro consigliere, però dell’opposizione, Angelo Capogrosso, fosse dipendente della Chemipul, e del fatto che il servizio di manutenzione, oltre che essere gravosissimo per le casse dell’amministrazione, era, anche, non ben funzionante e poco controllabile, visto che invano avevo chiesto al Geometra Claudio Di Giacomo, responsabile del servizio, di avere dettagliate informazioni sull’impiego giornaliero degli operai, si decise di rivedere l’appalto, pensando di suddividerlo In tre diversi appalti, così da potere avere un più agevole controllo e una maggiore specializzazione ed efficienza del servizio. Tale radicale modifica non fu possibile per la forte speculazione politica da parte soprattutto della opposizione che, invece di condividere la volontà di migliorare il servizio, aizzava gli operai inducendoli a giorni di protesta, tanto che si arrivò persino alla occupazione, giorno e notte, della casa comunale. Per tornare alla questione del risanamento del bilancio si era individuata, come soluzione, la necessità di alienare e valorizzare dei beni immobiliari dell’ amministrazione, del tutto inutilizzati. L’ufficio tecnico avrebbe dovuto dar seguito alle procedure per l’alienazione, ma, dietro la presunta mancanza di fondi, l’ingegnere Pescatore, di fatto, non ha mai provveduto ad espletare tali importantissimi adempimenti. Al contrario, l’ingegnere Pescatore, pur sapendo, perché innumerevoli volte ribadito, che la assoluta priorità per la amministrazione era avviare le predette alienazioni e valorizzazioni dei beni comunali, senza comunicare nulla, con determina dirigenziale datata 31.12.2011 stanzia centomila euro per portare avanti il piano regolatore che da anni è fermo, senza mai arrivare ad alcuna conclusione. Appena scoperta questa determina ho contestato fa sua iniziativa, chiedendogli di stornare da quella cifra le somme necessarie per assolvere a quanto assunto come impegno per risanare il bilancio, cosa che vorrei sapere se ha già fatto o farà mai. Il consigliere eletto in maggioranza, Giorgio Duggento, nelle sue continue fasi di recriminazione, atte solo ad ottenere maggiore peso per arrivare a vedere soddisfatte le sue pretese personali, presentò una interpellanza, senza preliminarmente parlare con nessuno della amministrazione, in cui si chiedeva conto su delle voci circa “la vendita di cassette ossarie” nel nostro cimitero, pur richiesti chiarimenti al dirigente preposto e prima che si arrivasse in consiglio comunale tale “sospetto” fu inviato alla procura della Repubblica per avviare necessarie indagini. Ne seguì anche il coinvolgimento dell’ufficio legale che evidenziò una serie di irregolarità nella gestione delle lampade votive tanto da avviare tutte le iniziative necessarie per venire a capo della questione che sembra invece, stranamente ignorata, da anni, dagli uffici preposti».

QUINTA PARTE: Il controllo sulle gare

Dopo la gara per la gestione della Fiera Pessima, i timori dell’ex sindaco si spostarono su altre gare di una certa importanza: gestione delle luci votive del cimitero, il trasporto scuolabus e la mensa scolastica. Tommasino, in quella fase, sospettava della buona fede della dirigente incaricata di espletare le gare e di oscuri accordi tra questa e noti politici manduriani.

«Una maggiore attenzione al caso mi portò a sollecitare informalmente il dirigente tecnico affinchè sostituisse il dipendente comunale addetto al cimitero, quantomeno per ragioni di opportunità. Nulla fu fatto in seguito, tant’è che fui costretto a formalizzare tale mia richiesta, pur in forma non esplicita, ma anche questa volta l’ingegner Pescatore mi rispose in maniera evasiva, come se non ci fosse alcun tipo di problema nella gestione del cimitero, sostenendo di non poter sostituire il dipendente perché non aveva altro personale a disposizione, quando, invece, su sua iniziativa aveva predisposto l’impiegato Paolo Massari presso un altro servizio, tanto da essere sempre con la signora Maiorano. La signora Maiorano al mio arrivo era addetta all’ufficio invalidi civili, ufficio che doveva essere soppresso perché non era più di competenza comunale. Dopo una serie di marchiani errori della signora Pepe, che era stata nominata temporaneamente dirigente all’ufficio scolastico e spettacolo, era necessario provvedere alla sua sostituzione per cui mi fu rappresentata la possibilità di utilizzare la signora Maiorano che mi fu detto avesse gestito, dimostrando adeguate capacità, anche delicati uffici come quello dei contratti. Con delibera sindacale, quindi, alla naturale scadenza della signora Pepe, nominai dirigente all’ufficio scolastico e spettacolo la signora Maiorano. Nei mesi successivi mi resi conto che la signora godeva di una certa protezione del consigliere Attanasio, ma la cosa ancor più grave è che mi resi conto, insieme al segretario generale, che vi erano strani rallentamenti dell’espletamento di gare che dovevano essere  rinnovate, come quella per il trasporto scolastico e quello per la mensa scolastica. Più volte sollecitata, da me e dal segretario, la signora Maiorano non arrivava dunque, anzi, di fronte a scadenze importanti, capitava, spesso, che si ammalasse e che di fatto non riuscisse a ottemperare agli impegni e alle scadenze dell’ufficio. Per queste ragioni chiesi la cortesia al segretario di darle una mano, tant’è che il dott. Iurlaro le confezionò un bando di gara per il trasporto scolastico. La cosa che mi stupì non poco è che tale bando, prima di essere pubblicato, fu radicalmente modificato, senza nemmeno dare nessuna informazione di ciò. Ne seguì un esposto di un legale che rappresentava una ditta che avrebbe voluto partecipare al bando ma che trovava illegittime proprio le modifiche apportate dalla Maiorano. Pretesi delle spiegazioni scritte e se pur formalmente corrette tali modifiche che erano nel pieno diritto della dirigente che, anzi, avrebbe dovuto di sana pianta predisporre il bando di gara, lasciavano dei dubbi perché potevano anche condizionare la gara in quanto, per esempio, stabilivano che la ditta vincitrice dovesse avere minimo un fatturato di un milione duecentocinquantamila euro, per almeno tre anni. In questo modo si ponevano delle clausole che servivano a individuare delle specifiche caratteristiche di una ditta, rispetto ad un’altra, e non invece, come avrebbe dovuto essere, si puntava alla migliore qualità ed alla convenienza del servizio. La cosa ancora più strana era che, se tali modifiche fossero state fatte in buona fede, sarebbe stato naturale che se ne fosse parlato con il segretario che era stato indebitamente gravato dal compito di predisporre il bando. Ne seguì una richiesta di spiegazioni che provocarono l’intervento dell’Attanasio che sosteneva la necessità di tali modifiche. Non essendoci gli estremi per poter bloccare il bando già pubblicato, pur rimanendo tutti i sospetti di un non corretto modo di agire, dissi categoricamente che non avrei mai più tollerato simili comportamenti. Di fatto non posso oggi esimermi dal fare la considerazione che, prima le proroghe e, poi, la gara stessa ha determinato un indubbio vantaggio, proprio alla ditta che aveva già l’appalto che prima lo ha avuto prorogato e poi nuovamente affidato al buon esito della gara. Subito dopo, sempre di competenza della signora Maiorano, arrivò il bando di gara per la mensa scolastica. In questo caso, finalmente, la signora si adoperò personalmente per predisporlo, ma oramai guardingo, pretesi di poterlo esaminare attentamente con il segretario prima della pubblicazione. Anche in questo caso mi sorsero seri dubbi sulla trasparenza dell’atto, in quanto, nelle griglie di valutazione del punteggio, invece che puntare, come sembra essere logico, alla migliore qualità del cibo e del servizio, si puntava ad ottenere strane caratteristiche della impresa, di nessuna importanza per la utenza, come, per esempio, l’assurdo dato di avere un altissimo numero dipendenti. Questo elemento, insieme ad altri, come una particolare distanza in cui doveva esserci il centro cottura, mi insospettì non poco, tanto da indurmi a bloccare il bando. Da informazioni pervenutemi in seguito appresi che una grossa azienda con caratteristiche analoghe a quelle richieste dal bando predisposto dalla Maiorano aveva di recente acquistato una masseria a Maruggio, a distanza da Manduria compatibile con quella prevista dal bando della Maiorano, di proprietà della famiglia Malagnino, per creare un centro cotture per mense».

SESTA PARTE: Il business turistico

Parco delle riserve naturali della Salina, chioschi e raccomandazione dei propri protetti ai vertici degli uffici. Sono questi i problemi riscontrati dall’ex sindaco in questa sesta parte di dossier.

«Questi particolari, insieme alla stretta vicinanza con l’Attanasio che, già per altri aspetti mi aveva portato ad essere molto guardingo e sospettoso nei suoi confronti, mi indussero, allorquando si arrivò alla scadenza dei decreti dirigenziali, a non rinnovarlo alla signora Maiorano, fatto questo che portò l’Attanasio, spalleggiato dai consiglieri Moccia e Duggento, prima ad esercitare una forte pressione per far riavere la dirigenza alla sua protetta e, poi, a vendicarsi, una volta compreso che non aveva margini di “trattativa”, unendosi alla opposizione per inscenare una dimissione di massa. L’Attanasio, come dicevo, si era contraddistinto sempre per atteggiamenti poco chiari e ricattatori, facendo trovare imbarazzata l’amministrazione di fronte a fatti compiuti. Era già stato assessore ai servizi sociali nella precedente amministrazione, benché di colore opposto, con il sindaco Massaro, che aveva accettato la sua nomina per poter ottenere il sedicesimo voto in consiglio comunale. L’Attanasio era poliziotto in servizio, credo, in Sardegna e, grazie alla nomina di assessore, ottenne il riavvicinamento previsto per legge. Fin da subito, dopo la sua elezione, rappresentò l’esigenza di avere “maggior peso” nell’amministrazione, chiedendo incarichi che, a suo dire, avrebbero dato lustro alla amministrazione ma, che, di fatto, apparivano del tutto incongrui con la sua formazione personale. Le sue richieste erano sempre accompagnate da atteggiamenti rivendicati fluttuando tra i vari gruppi, sempre alla ricerca di alleanze per ottenere maggiori vantaggi e credibilità, finché, alla fine, non ha trovato sponda con Duggento e Moccia. Ricordo che, inizialmente, esercitò una forte pressione per ottenere di essere nominato direttore del parco, vista la necessità di sostituire il precedente, il dottore Andrea Occhilupo, per ben precisi motivi che in seguito spiegherò. Dichiarai apertamente all’Attanasio che, oltre al fatto che l’incarico richiedeva una specifica competenza, con laurea in agraria e scienze forestali, avevo soprattutto bisogno di una persona di fiducia, facendogli capire che, invece, nel suo caso, non ne avevo per nulla. Tale sua ostinata richiesta, comunque, mi insospettii non poco proprio perchè non riuscivo a comprendere che relazione ed interesse potesse avere l’Attanasio con il parco. In seguito intuì una sua stretta vicinanza con qualcuno esperto nel settore perché faceva sfoggio di particolare conoscenza di fatti e procedure che non potevano essere a sua conoscenza. In precedenza ero stato costretto a non rinnovare a direttore del parco il dottor Occhilupo che da anni se ne occupava, avendo iniziato con il sindaco Calò continuando con il sindaco Massaro per arrivare a me. Avevo trovato una serie di irregolarità nella gestione amministrativa del parco ed un grande disordine, tanto da aver richiesto il supporto dei revisori dei conti per effettuare verifiche e adempimenti che prima non erano mai stai effettuati. Il dottor Occhilupo, inoltre, appariva troppo occupato per svolgere quell’incarico in quanto mi sembrava molto presente in vari ambiti della amministrazione, essendo uno dei due progettisti della gara della raccolta dei rifiuti, essendo presente come progettista in innumerevoli misure di finanziamento, anche in altri comuni contigui, per lo più avuti dall’ingegnere Pescatore. Per altro, la fidanzata dell’Occhilupo, architetto Sanseverino, aveva ed aveva avuto numerosi incarichi, per lo più sempre da parte del Pescatore, avendo progettato la ristrutturazione della piazza di San Pietro, collaborando nella rigenerazione territoriale, nei Sac, ed addirittura avendo l’incarico di predisporre il “piano del parco” insieme al giovane ingegnere Gigli, figlio della dipendente comunale signora Pepe, quando il fidanzato, l’Occhilupo, era ancora direttore del parco. Questa eccessiva presenza in molti importanti incarichi unita a notevoli criticità che andavo a verificare nella gestione del parco mi indussero a non rinnovare l’incarico di direttore all’Occhilupo, affidandolo al dott. Alessandro Mariggiò, tuttora in carica. Nei mesi che seguirono, mi resi conto che l’Attanasio conosceva aspetti troppo tecnici su particolari questioni, in particolare ricordo che l’Attanasio mi parlò di particolari aspetti riguardanti la rigenerazione territoriale, così come il suo interesse per il parco era sempre molto vivo. In corrispondenza dell’imminente approvazione in consiglio comunale del “regolamento sui chioschi” pervenne in giunta una delibera, già predisposta dall’ufficio tecnico, di concessione provvisoria di suolo pubblico per l’insediamento di un chiosco a nome della sorella dell’Attanasio, proprio in stretta vicinanza dl parco della Salina. La delibera lasciò molte perplessità, per cui fu accantonata in attesa di chiarimenti, anche da parte dell’ufficio preposto, che dichiarò essere del tutto legittima perché si trattava di un semplice concessione temporanea di suolo pubblico, come di prassi avviene per tutti gli esercizi che lo richiedono, a cui sarebbe seguita, in ogni caso, una ben più complessa procedura con rilascio di permesso anche a livello regionale. L’Attanasio, dal canto suo, con vigore, difese il “buon diritto” della sorella di poter liberamente esercitare il suo lavoro richiedendo tale concessione nel pieno rispetto delle regole…»

SETTIMA PARTE – i business delle licenze

Le facili concessioni ai parenti dei politici e le ombre sul business dell’energia pulita al centro di questa settima parte del dossier di Paolo Tommasino.

«Per queste motivazioni, in considerazione del parere dell’ufficio preposto e del fatto che, effettivamente, tale richiesta era in linea con quello che andavamo a deliberare a giorni, si decise di approvarla in giunta alla condizione, cosa che avvenne, che tutte le analoghe domande presentate negli ultimi due anni sarebbero state ugualmente accolte. Naturalmente prevedendo, anche, che tale concessione sarebbe stata provvisoria, giusto per l’imminente periodo estivo e che, comunque, trascorsa l’estate, ogni opera sarebbe stata rimossa e, in ogni caso, dopo questo breve periodo, ci si sarebbe dovuto rifare al regolamento che avremmo approvato a giorni in consiglio comunale. Inoltre si dava per scontato che la titolare non avrebbe mai potuto ottenere i tanti permessi necessari e che, comunque, in considerazione del fatto che a settembre avrebbe dovuto essere completamente smantellato, non ci sarebbe stata alcuna possibilità e convenienza a realizzare il chiosco. Al contrario, la sorella dell’Attanasio dimostrò di avere, in pochissimo tempo, tutte le autorizzazioni necessarie svelando una insospettabile conoscenza e dimestichezza con aspetti tecnici che presupponevano, ovviamente, un forte aiuto da parte di professionisti introdotti nell’ambiente. Naturalmente a settembre l’Attanasio cercò di puntare o piedi per evitare lo smantellamento del chiosco, ma la precise direttive impartite dall’ufficio tecnico non lasciarono alcuno spazio per tale richiesta. Altra gara che sembrava dover essere espletata in fretta e furia, sotto la pressione del fatto che, già la precedente amministrazione, aveva consesso ben tre proroghe per a la gara dei rifiuti. Appena insediatomi avevo trovato già predisposto un progetto per bandire la gara. La necessità di avere contezza di quello che era stato progettato, mi obbligò a bloccare la determina con la quale il dirigente tecnico, senza aver sentito minimamente l’amministrazione, bandiva la gara. L’ingegnere Pescatore premeva per andare a gara il più presto e ottenendo che, addirittura, l’assessore ai lavori pubblici di allora, Piero D’Abramo, invece che adeguarsi all’indirizzo della amministrazione, scrivesse una lettera di protesta nei miei confronti per il fatto che la gara fosse stata bloccata. L’impressione che l’assessore D’Abramo, invece che indirizzare e controllare l’operato dell’ufficio tecnico, fosse controllato e indirizzato dal dirigente, mi portò a chiedere al gruppo politico che lo aveva presentato di sostituirlo con una figura più autorevole ed esperta. Anche il Caprino, con il suo giornale, sollecitava che la gara fosse immediatamente avviata, sottolineando il comportamento “corretto” del dirigente e alludendo a “irregolarità” della amministrazione. Per verificare la validità del bando di gara venne dato incarico ad uno dei più importanti studi del settore. Contattai il dott. Raoul Rossi che era salito agli onori di cronaca per avere denunciato, dall’interno del consiglio di amministrazione, delle irregolarità nella gestione dei rifiuti a Torino. Effettivamente, dopo un attento esame del progetto, si resero necessarie molte variazioni per rendere la gara più trasparente possibile. Nonostante u n lavoro di circa un anno, il dirigente, pur avendone competenza, nomina la commissione per il servizio di raccolta differenziata dei rifiuti su sua esclusiva scelta, non tenendo in considerazione, nè indicazioni dell’università, né degli ordini professionali, ma solo su sua diretta conoscenza personale, assumendo lui stesso la presidenza, sebbene ripetutamente si fosse lamentato del sovraccarico di lavoro e della scarsità di mezzi e personale, tanto da essere stato ripetutamente invitato a esternalizzare tutto ciò che non era obbligato a svolgere come specifica competenza dell’ufficio. Nonostante tale indicazione, ribadita più volte in maniera formale ed informate Sia da me che dal segretario generale, l’ingegner Pescatore non ha mai esternalizzato gare e gli appalti non rinunciando di presiedere lui stesso e di far partecipare alle varie gare impiegate nel suo ufficio. Rispetto alla questione degli insediamenti di fotovoltaico ed eolico, questa amministrazione ha fin dall’inizio cercato di verificare, là dove possibile, di contrastare tale fenomeno che, oltre ad essere di forte impatto per l’ambiente completamente stravolto da tali insediamenti, sembra anche essere interessato da fenomeni di illegalità; sia rispetto al riciclaggio di danaro, in rispetto alle normative del lavoro, sia per collusioni con la malavita organizzata che si infiltra con il pretesto di servizi. In ogni modo a fronte di tali valutazioni che derivano da generiche considerazioni di dominio pubblico sull’argomento, sul territorio di Manduria, appena insediatomi, ho notato che vi era un arrembaggio di tale iniziative. Addirittura la vecchia amministrazione aveva deliberato di giunta il provvedimento di adibire ad impianto fotovoltaico le due masserie di circa 200 ettari di proprietà comunale. Tale provvedimento fu immediatamente revocato, dando all’ufficio tecnico l’orientamento politico di adottare tutte le iniziative possibili per arginare tale fenomeno, apponendoci, là dove possibile, ad ogni nuova autorizzazione e interpretando la norma in maniera più restrittiva possibile, così da ostacolare al massimo nuovi insediamenti. Ciò nonostante, venivo invitato dalla Regione Puglia a firmare la convenzione di nuovi impianti. Alle mie ripetute richieste di spiegazioni, l’ufficio tecnico mi rispondeva che erano atti dovuti e che non vi era modo di opporsi.»

OTTAVA PARTE – irregolarità su “Manduriambiente”

Che fine hanno fatto i tanti sospetti che il sindaco ed altri personaggi nutrivano su alcune imprese del settore fotovoltaico? E quale esito ha avuto il parere legale circa una presunta irregolarità nel contratto con Manduriambiente? Sono le domande che nascono dalla lettura di questa ottava parte del dossier dell’ex sindaco Paolo Tommasino.

«Sull’argomento (il proliferare di progetti fotovoltaici) ho avuto modo di discutere anche politicamente con i segretari di partito, in particolare modo con il sig. Carmelo Daggiano che, oltre ad essere segretario della coalizione “Alleanza di centro gruppo Pionati”, gruppo che è in maggioranza e che ha espresso il vicesindaco, assessore all’urbanistica, ha anche esperienza nel settore tecnico di impianti elettrici. Il sig. Daggiano, sapendo l’orientamento della nostra amministrazione, mi ha prodotto un esposto in cui rilevava una non corretta esecuzione di lavori di un cavidotto. In data 3.6.2011 ho inviato l’esposto all’ufficio tecnico, intimando il dirigente a predisporre accurata relazione dettagliata, con sollecitudine, a cui seguiva, nello stesso giorno, formalizzazione di un’altra mia missiva in cui, facendo seguito a quanto discusso precedentemente, si chiedeva formalmente una relazione sullo stato dei procedimenti di tutti gli impianti per cercare di individuare le modalità per contrastare il dilagante fenomeno di istallazione di impianti fotovoltaici ed eolici con tutti i problemi connessi. Il dirigente dell’ufficio tecnico rispondeva, in data 16.6.2011, anziché effettuare personalmente i debiti controlli, di aver assunto l’iniziativa di richiedere alla società “Manduria energia srl” di Roma, interessata ai lavori di realizzazione del cavidotto, delucidazioni ed osservazioni in merito alla questione. Tale determinazione del dirigente dell’ufficio tecnico fu comunicata anche al sig. Daggiano con il quale si era rimasti di intesa che in caso di non esauriente risposta scritta ed urgente si “riservava di adire ai competenti organi di controllo e tutela della legittimità degli atti”. Altro aspetto di particolare importanza per il Comune era un lungo contenzioso con “Manduria ambiente”, società del gruppo Intini, che richiedeva all’Ato 3 un risarcimento di oltre nove milioni di euro, sostenendo un mancato guadagno, in quanto il volume previsto della discarica si era praticamente esaurito perché anzicchè funzionare, come avrebbe dovuto, come piattaforma di selezione dei rifiuti, veniva utilizzata come discarica di tal quale, per altro esigendo cifre che, invece, erano state calcolate in base al funzionamento che avrebbe dovuto essere e non quello che era. Grazie a questa forte pressione, “Manduria ambiente” aveva una posizione di supremazia su tutti i comuni dell’Ato 3 per ottenere il parere positivo per un raddoppio della capienza della discarica, attraverso una semplice sovraelevazione, condizione che avrebbe fatto recedere la società nella richiesta del risarcimento. Di fatto, tutti i comuni dell’Ato 3, ad eccezione di Manduria, si erano espressi favorevolmente in tal senso, garantendo, così, a “Manduria ambiente” maggiori guadagni e più lunghi periodi di esercizio rispetto alla gara vinta. Per meglio valutare questa assurda situazione ritenni necessario avvalermi della consulenza di un tecnico esperto, il dott. Masillo, che, oltre a relazionare i motivi ostativi da utilizzare per contrastare la sovra elevazione, fece emergere anche aspetti che mettevano in discussione la validità del contratto con “Manduria ambiente” e che avrebbero dovuto essere contestati da tempo. Coinvolsi l’avvocato dell’ente, disponendo un sopralluogo dei vigili urbani presso la discarica, per vedere se erano rispettati gli impegni relativi al numero del personale, rilevando una situazione differente da quella prevista dal contratto. Per queste ragioni e per altri vizi contrattuali, la giunta, come ultimo atto, prima delle mie dimissioni, ha deliberato il conferimento di incarico professionale ad un avvocato esperto in materia per seguire tale delicata vicenda. Non voglio avere la presunzione di credere che solo questi argomenti siano stati quelli che meritavano particolare attenzione, sicuramente ve ne saranno molti altri che, purtroppo, mi saranno potuti sfuggire, certo è che là dove ho avuto anche solo sospetti, non ho esitato ad andare a fondo e dove ho trovato minimi riscontri ho interessato gli organi competenti creando una continua collaborazione con le forze dell’ordine e con la Prefettura. l temi trattati sono stati i più svariati, dalla usura, all’ordine pubblico, all’abusivismo commerciale, alla sanità pubblica, agli appalti, con adesione entusiastica all’istituzione della stazione appaltante unica, al recupero dei beni confiscati alla mafia e all’importantissimo messaggio che vien dato alla società quando il bene confiscato viene utilizzato per scopi sociali. Non potrò dimenticare, poi, la grande collaborazione che si è venuta a creare con la Prefettura nella gestione dell’emergenza profughi, dove, l’eccezionale complessità del problema non ha impedito di ottenere eccellenti risultati, apprezzati a livello internazionale. Anche in questo straordinaria problematica non si è mai perso di vista l’esigenza di tenere fuori l’amministrazione comunale da appetitose gestioni, tanto da aver personalmente rifiutato la direzione dei lavori per l’allestimento del campo che in Prefettura si era pensato di affidare all’ufficio tecnico comunale, preferendo, invece, per ragioni di opportunità, fornire la massima collaborazione esterna».

NONA PARTE – irregolarità sulla gestione dei parcheggi

Al centro di questa parte del dossier dell’ex sindaco Paolo Tomamsino, c’è la questione della gara per la gestione dei parcheggi che ha prodotto l’inchiesta dell’antimafia e poi l’accesso degli ispettori perla verifica di possibili infiltrazioni nell’ente. Tommasino rivendica la buona fede delle sue scelte e scarica tutto sul segretario, sul dirigente e sulla precedente amministrazione.

«Fatta questa breve sintesi delle problematiche che nel corso della mia amministrazione mi sono apparsi più meritevole di attenzione, ritengo anche necessario chiarire alcuni aspetti relativi alla recente indagine su possibili infiltrazioni criminali nell’amministrazione. Per queste ragioni, innanzitutto, voglio chiarire il ruolo che ho avuto nella gestione dei parcheggi e, quindi, delineare degli aspetti che ritengo possano essere utili per il proseguo delle indagine e la migliore comprensione dei fatti. l parcheggi a pagamento sono stati appaltati nel 2008, ovviamente dalla vecchia amministrazione, non ho mai avuto alcun rapporto personale con i gestori che credo di aver incontrato solo in una occasione di una riunione alla presenza del segretario generale lurlaro e dell’ingegnere Pescatore. Il Commissario prefettizio D’Onofrio, con il quale ho avuto solo un velocissimo scambio di consegne, non mi ha mai potuto rappresentare alcuna criticità sull’argomento, né ho trovato alcun tipo di scritto che potesse mai farmi intuire ciò che oggi si viene a sapere, cioè una commistione tra la ditta e la delinquenza locale. Al contrario, nella relazione che richiesi dal segretario generale di allora, dott. Spagnulo, allo scopo di fotografare la situazione che andavo a trovare, si legge testualmente: «A seguito dei diversi incontri intercorsi con la ditta appaltatrice, si riconosceva la giustezza e la necessità dell’accoglimento solo della richiesta relativa al recupero degli stalli nel numero previsto dal progetto posto a base di gara nella città che nella località marina di San Pietro in Bevagna. In conseguenza la concessionaria del servizio, con nota del 15 marzo 2010, acquisita all’ufficio protocollo in data 16 marzo 2010, al n. 7204, proponeva il recupero degli stalli mancanti sottoponendo la rielaborazione di un nuovo piano. La proposta di modifica dei posizionamenti degli stalli, a parere dello scrivente, può essere accolta, in quanto tale variante non modifica assolutamente i contenuti del piano approvato ma garantisce l’equilibrio economico del servizio, garantendo il rispetto del numero degli stalli, originariamente previsti in progetto». Anche un altro funzionario, l’ingegnere Pescatore, delineava l’obbligo da parte dell’amministrazione di riequilibrare il numero degli stalli dati in concessione in quanto i lavori in corso nel centro cittadino avevano ridotto sensibilmente il loro numero. La delibera del luglio 2010, dopo appena tre mesi dal nostro insediamento, non è stato altro che un atto dovuto, dettato da quanto ci veniva relazionato dai dirigenti. Ho più volte sollecitato l’ufficio tecnico a verificare e a sollecitare il rigoroso rispetto del contratto da parte della ditta appaltatrice. La decisione di utilizzare il terreno sequestrato alla criminalità in località Chidro in San Pietro in Bevagna per parcheggio pubblico era stata presa dal Commissario prefettizio, tant’è che per le opere necessarie era stato persino presentato un progetto di finanziamento con il Pon sicurezza. Di fronte alla scelta già presa, in prossimità della stagione estiva, si era solamente dato indirizzo all’ufficio tecnico, che aveva avviato la procedura, individuando, come soluzione tecnico amministrativa, l’assegnazione del servizio alla ditta che già svolgeva il servizio, solo dal luglio inoltrato al 31.8.10. Anche in questo caso, sempre dopo appena qualche mese dal nostro insediamento, ci siamo trovati ad approvare in giunta una decisione già assunta prima del nostro insediamento prendendo per buono l’iter seguito dal dirigente tecnico e sicuramente perseguendo l’ interesse della comunità e non certo quella dell’azienda. L’antieconomicità di tale gestione per l’azienda si rese talmente evidente che la stessa ditta richiese, con una lettera del 4 agosto 2010, di abbassare i prezzi stabiliti, perchè il parcheggio era vuoto e non si sarebbero potute recuperare le spese sostenute. In conclusione, nella questione specifica non avevo avuto alcun tipo di sospetto ritenendo le delibere, per come erano state predisposte dall’ufficio tecnico, tutte legittime. D’altra parte, devo ammettere, anche, che non avevo mai sospettato di infiltrazione criminale nella amministrazione soprattutto perché tale problema era stato escluso dallo studio presentato in Prefettura, in occasione delle riunioni sull’ordine pubblico e la sicurezza. Ho sempre creduto, invece, che fosse da tempo presente nella città un diffuso malcostume, portato a privilegiare nell’amministrazione pubblica, intesa come dipendenti della amministrazione e come amministratori eletti, i propri interessi personali, rispetto a quelli della comunità e dell’ente. Con questa consapevolezza ho cercato di fare il mio meglio per arginare, svelare e denunciare, quanto più possibile, comportamenti di tale genere; non esitando ad assumere drastiche decisioni, anche personalmente, allorquando ho ritenuto fossero necessarie, come, per esempio, impedire taluna candidatura, o buttare fuori dall’amministrazione un assessore, o richiedere la sostituzione di un altro, o, alla fine, interrompere ogni tipo di rapporto con consiglieri di maggioranza che aveva invano cercato di ottenere vantaggi personali in cambio del loro appoggio in Consiglio comunale. Questi miei comportamenti sicuramente mi hanno procurato una lunga serie di inimicizie, sia da parte degli impiegati del comune che nella comunità comunale.»

Con questa decima parte del dossier si conclude la pubblicazione del famoso dossier dell’ex Paolo Tommasino scritto subito dopo le sue dimissioni e inviato ad organi di governo, magistrati, organi di polizia e ai tre commissari prefettizi inviati per accertare eventuali infiltrazioni mafiose all’interno dell’amministrazione comunale da lui stesso sino a poco prima diretta. In questa parte del memoriale, Tommasino approfondisce l’aspetto criminale della vicenda parlando dell’indagine dell’Antimafia di Lecce che pone sospetti sull’operato della sua e della precedente amministrazione. Sempre in quest’ultima parte l’ex sindaco accusa il sottoscritto di essere autore di una «campagna di riabilitazione» di Vincenzo Stranieri (ex boss manduriano della Scu) del quale ne avrei rivendicato la liberazione «attraverso il coinvolgimento di parlamentari».

Il dossier: decima e ultima parte

«Avere appreso dalla stampa, circa un mese addietro, di numerosi arresti di malavitosi è stata, ovviamente, una piacevole sorpresa, in quanto ogni cittadino onesto si compiace quando le forze dell’ordine e la magistratura riescono a portare a segno delle brillanti operazioni contro la criminalità organizzata ed il malaffare. A maggior ragione, un sindaco, che intende, sopra ogni cosa, moralizzare la cosa pubblica e contribuire a portare nel proprio paese la legalità ed il rispetto per le Istituzioni, trova una notizia del genere estremamente positiva ed in piena sinergia con il proprio operato e con il proprio ruolo. Naturalmente, mai mi sarei aspettato che tale avvenimento, per me tanto importante, potesse addirittura divenire motivo di una grossa difficoltà per la mia stessa amministrazione che, fin dal primo momento, ha voluto contrastare questo increscioso fenomeno. Proprio per questo, in qualità di sindaco, non ho inteso nei giorni seguenti rilasciare alcun commento sull’accaduto. Con il passare del tempo, però, da parte della opposizione e da parte di detrattori organizzati che, evidentemente, hanno avuto interessi personali per far cadere l’amministrazione, vi è stata una campagna di stampa (La Voce, Casalnuovo) con cui si lasciava intendere che le infiltrazioni riguardavano l’attuale amministrazione invocando, addirittura, l’intervento del Prefetto e invitandomi alle dimissioni per far sciogliere il consiglio comunale. Addirittura si interpretava il mio opportuno silenzio come una sorta di irresponsabile disinteresse per le sorti della città, o, addirittura, per una connivente passività e dimostrazione di correità. Sono stato sollecitato da tutto questo ad uscire dal mio tranquillo silenzio, per svolgere il ruolo di rappresentante dell’amministrazione, per cui ho richiesto un incontro con il Prefetto, anticipando al telefono che avrei avuto necessità, mio malgrado, di dover replicare a tali gravissime accuse. Ho cercato di reagire garbatamente per difendere la mia dignità e quella della amministrazione che presiedevo. Dovendo svolgere tale ruolo, ho anche letto le motivazioni che hanno portato agli arresti e ad individuare degli indagati constatando che vi sono gravi indizi per credere che vi sia in piedi una organizzazione criminale che fa ancora capo a Vincenzo Stranieri che, sebbene in carcere, in regime di 41 bis, è ancora punto di riferimento per azioni delittuose. Grazie a questi primi risultati accessibili, si delineava una realtà molto differente da quella che negli ultimi anni veniva presentata, soprattutto da Nazareno Dinoi, direttore della “Voce di Manduria” e giornalista che aveva condotto una campagna di riabilitazione dello Stranieri, facendolo passare come una vittima, orma del redento, vessato dalla prigionia, tanto da rivendicarne la sua liberazione, attraverso il coinvolgimento di parlamentari. Dalle indagini, invece, usciva una realtà in cui l’organizzazione criminale era viva e vegeta e non si trattava, dallo Stranieri a tutti gli altri, di soggetti che volevano realmente riabilitarsi, ma, invece, di un organizzazione che aveva una capacità delittuosa, addirittura estendendo il proprio controllo su attività lecite, come la gestione dei parcheggi e, addirittura, coltivando la ambizione di far eleggere un proprio uomo, un certo Malorgio, candidandolo nella lista “lo Sud” che appoggiava il candidato Sindaco Lariccia. Con questa nuova consapevolezza ho ripercorso degli avvenimenti e comportamenti di alcuni personaggi che apparivano, di per se stessi, censurabili già allora, ma che oggi potevano essere letti secondo una luce diversa, mostrandosi ancora più gravi quanto avevo ritenuto fossero in passato. Certo è che se fossi rimasto al mio posto di sindaco avrei potuto meglio collabora con le altre istituzioni, svolgendo, come avevo scelto fin dai primo momento della mia candidatura, un importante ruolo nella moralizzazione della mia città, dando soprattutto, un segnale di speranza a chi vuol fare una politica onesta, dimostrando che si può e si deve continuare su questa strada. Ma sentivo più che mai, in questo particolare momento, il bisogno dell’appoggio delle Istituzioni. Taluni segnali, invece, come il mancato incontro con il nuovo Prefetto, ottenuto solo dopo le mie dimissioni, o l’assenza ad un importante tradizionale appuntamento come la inaugurazione della “Fiera Pessima” non solo del Prefetto, ma di tutti i rappresentanti provinciali delle forze dell’ordine, mi hanno portato alla decisione di presentare le dimissioni, ritenendo doveroso lasciare libero il campo alle indagini, mettendomi, a disposizione degli inquirenti, non più come capo di un’amministrazione, a torto o a ragione, vista con sospetto, ma come colui il quale ha più interessi e voglia di tutti di fare chiarezza e pulizia. Con questo mio scritto, quindi, oltre a presentare fatti e spunti che possono, spero, essere oggetto di approfondimento di indagine, voglio dichiarare la mia disponibilità a collaborare, sentendomi, finalmente, parte integrante di quelle indagini, perché credo, a buon diritto, di poter contribuire alla causa comune e perseguire comportamenti illeciti, al pari di altre autorevoli figure che se ne occupano per ruolo professionale. Voglio, soprattutto, rivendicare il mio diritto di veder riconosciute e rispettate, nella scelta di un impegno politico, le stesse dedizioni e le stesse motivazioni etiche di chi persegue il malaffare per professione, senza essere semplicisticamente omologato al politicante corrotto e portato al compromesso che tanto va oggi di moda e che rende, comprensibilmente, ancor di più distante la politica dalla morale e dall’interesse della gente. Manduria, 10.4.2012 Paolo Tommasino»

Da “La Voce di Manduria” si rileva che vi è stato il primo summit in Prefettura a Taranto dei componenti della commissione del Viminale inviati in Puglia per un accesso ispettivo antimafia al comune di Manduria. I tre ispettori, il prefetto Angelo Ciuni, il viceprefetto Francesco D’Alessio e il comandante del gruppo della Guardia di Finanza di Taranto, maggiore Giuseppe Dell’Anna, con la presenza del prefetto Claudio Sammartino, hanno tracciato il percorso da seguire in questi tre mesi di ispezione. L’obiettivo è quello di scoprire eventuali condizionamenti della criminalità organizzata nella gestione della cosa pubblica dell’ente messapico sciolto anticipatamente per le dimissioni di 16 consiglieri su 31. Le prime carte che studieranno i tre commissari del Viminale inviati a Manduria con lo scopo di fare emergere possibili infiltrazioni mafiose nella gestione della cosa pubblica, sono le 302 pagine dell’ordinanza dell’operazione Giano firmata dai magistrati della Direzione antimafia di Lecce. In questi atti che raccolgono intercettazioni telefoniche e relazioni degli investigatori, sono due gli episodi che proverebbero l’intreccio tra politica, affari e delinquenza e riguardano in particolare due delibere di giunta: quella che tratta il parcheggio della piazzetta antistante l’ospedale e l’altra che destina alla società sospettata di essere controllata da esponenti mafiosi, un’area a San Pietro Bevagna già confiscata alla mafia. “Mediante le attività d’intercettazione ambientali e telefoniche e grazie anche ad alcune testimonianze – si legge a pagina 76 del dispositivo -, gli inquirenti hanno messo in evidenza come l’associazione, per trarre profitti, si sia avvalsa della Global Work di Vito Alfonso anche per aggiudicarsi l’assegnazione di nuovi stalli adibiti al parcheggio a pagamento … in piazza Giannuzzi, via Mandonion, via Bianchetti”. Al riguardo si segnala una prima telefonata in cui Vito Alfonso confidava il fatto che Pierino (Pietro Tondo, tra gli arrestati) gli avesse detto che presso l’area del parcheggio dell’ospedale il parcheggiatore guadagnava quattrocento euro al giorno e che quindi bisognava fare inserire dal comune la “zona dell’ospedale”. Per gli investigatori risultava lampante il fatto che bisognava fare dei “movimenti e degli spostamenti” a riguardo, cosi come disposto da Tondo Pietro. “Successivamente, infatti – continua l’informativa degli inquirenti -, la Giunta Comunale di Manduria con delibera n. 53 del 12.07.2010 assegnava alla Global Work proprio gli stalli situati nelle immediate vicinanze dell’ospedale civile, più in particolare proprio quelli di piazza M. Giannuzzi che erano stati oggetto delle conversazioni sopra indicate. Tale circostanza – continua – fornisce una prova concreta circa la capacità del clan di infiltrarsi negli apparati amministrativi locali, al fine di ottenere vantaggi economici ingiusti attraverso il controllo di attività economiche”. Questo, ne sono convinti i magistrati antimafia, “non può che essere il frutto delle capacità invasive dimostrate dal clan che è riuscito a farsi assegnare in maniera-indiretta le predette aree senza che fosse bandita una nuova gara pubblica”. Ulteriore dimostrazione di tale tesi deriva soprattutto dalla nota del 1.2.2010 con cui la Global Work ha richiesto l’assegnazione delle aree in argomento. “Orbene – scrivono gli inquirenti – la nota è sintomatica del condizionamento ambientale determinato dal clan in quanto reca semplicemente la richiesta di ottenere nuove zone (quelle successivamente assegnate) senza alcuna motivazione e giustificazione. Dunque, la giunta comunale attraverso la delibera citata ha sic et simpliciter riconosciuto la condivisibilità dell’immotivata richiesta della Global Work che era finalizzata solo ed esclusivamente a ottenere maggiori profitti, senza rispettare le norme vigenti in materia di appalti. Peraltro la Global Work, come già indicato in precedenza, risultava inadempiente verso l’amministrazione comunale per non aver mai presentato (fino a settembre 2010), relativa rendicontazione degli introiti e per non aver mai versato la percentuale prevista nel contratto d’appalto e capitolato speciale d’ appalto, nella misura del 70% degli introiti ricavati dai parcheggi a pagamento situati in Manduria”.

I sospetti contenuti nella notizia diffusa dal “La Voce di Manduria” hanno trovato conferma nei fatti: il comune di Manduria è ufficialmente sotto i riflettori del Ministero e del Prefetto per possibili infiltrazioni mafiose nell’attività amministrative. Con provvedimento reso pubblico, il prefetto di Taranto, Claudio Sammartino, su delega del ministro dell’Interno, ha disposto un accesso ispettivo antimafia presso il comune di Manduria «ove recenti iniziative giudiziarie – si legge nel dispositivo – hanno evidenziato pericoli di infiltrazioni della criminalità organizzata nel tessuto amministrativo municipale». La decisione scaturisce dall’inchiesta della procura antimafia di Lecce che ha portato sinora all’arresto di 18 persone, alcuni dei quali ritenuti affiliati alla sacra corona unita. Tra gli indagati anche il dirigente dei lavori pubblici del comune messapico, Antonio Pescatore, mentre nelle intercettazioni compaiono numerosi nomi di ex amministratori con incarichi di prestigio nell’ex governo cittadino del sindaco Paolo Tommasino, decaduto prima della scadenza del mandato per le dimissioni di 16 consiglieri comunali. Gli accertamenti e le verifiche disposte dal prefetto che avrà il compito di acclarare eventuali collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata, verranno svolte da una commissione composta dal prefetto Angelo Ciuni, dal viceprefetto Francesco D’Alessio e dal maggiore Giuseppe Dell’Anna, comandante del gruppo della Guardia di Finanza di Taranto. Gli accertamenti che riguarderanno sicuramente l’attività svolta dalle ultime amministrazioni, saranno tesi ad accertare eventuali forme di condizionamento tali da determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e da compromettere il buon andamento o l’imparzialità dell’amministrazione comunale, nonché il regolare funzionamento dei servizi ad essa affidati. Alla Commissione è stato assegnato un termine di tre mesi, eventualmente prorogabile, per effettuare tutte le verifiche del caso. I magistrati della direzione distrettuale antimafia di Lecce che conducono l’inchiesta da cui è nata la misura del ministero, sospettano che l’impresa che gestiva per conto del comune i parcheggi a pagamento a Manduria fosse di fatto controllata da esponenti del clan Tondo-Mazza e degli Stranieri finiti in carcere con accuse che vanno dal traffico di droga, attentati ed estorsioni.

Il 2 aprile 2012 è iniziata nel Comune di Manduria (Taranto) l’ispezione antimafia ordinata dal Viminale dopo recenti indagini giudiziarie che hanno evidenziato il rischio di infiltrazioni da parte della criminalità organizzata. Il Comune è stato di recente commissariato dopo le dimissioni di 16 consiglieri e del sindaco Paolo Tommasino, che guidava una coalizione di centro-destra. Oggi si è tenuta un riunione presieduta dal Prefetto di Taranto, Claudio Sammartino, con i responsabili delle Forze dell’ordine e componenti della Commissione ispettiva antimafia. Nel corso della riunione, sono state ripercorse le motivazioni che hanno spinto il Ministero dell’interno a disporre l’ispezione. “Il prefetto Sammartino – è detto in una nota stampa – ha inteso mettere in rilievo che è particolarmente alta la guardia e l’attenzione dello Stato verso quel territorio, dove lo Stato stesso sta impiegando significative risorse ed impegno per verificare le condizioni di regolarità della vita amministrativa e le eventuali forme di ripristino della legalità”. Il Prefetto ha poi evidenziato che intende tenere quanto prima a Manduria una riunione del Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica per confermare e ulteriormente riaffermare l’azione di prevenzione e controllo dello Stato per arginare i rischi di infiltrazioni della criminalità organizzata”.

Tommasino: «L'ispezione a palazzo di Città? Ora verranno a galla tante verità taciute...Forse si troveranno anche le risposte legate alla mia decisione di dimettermi» dice a “Manduria Oggi”. «La commissione ispettiva antimafia? Sono felicissimo per il suo arrivo. Idealmente, è come se ne facessi parte. Io sono dalla parte dello Stato e delle Istituzioni. Nei due anni in cui ho amministrato avevo aperto porte e finestre per avviare una profonda opera di moralizzazione. Ho avuto un rapporto stretto e costante con la Prefettura. Ora, finalmente, si comprenderanno i ruoli giocati dalle varie forze politiche». Paolo Tommasino, sindaco uscente di Manduria, saluta con piacere la nomina della commissione ispettiva antimafia. Nomina giunta oltre due settimane dopo lo scioglimento del Consiglio Comunale e, quindi, anche dopo l’insediamento del commissario prefettizio. «Bisogna riflettere anche su questi tempi» afferma l’ex sindaco di Manduria. «Credo sia giusto che si faccia completamente luce su ciò che accadeva all’interno del Comune. Forse si troveranno anche le risposte legate alla mia decisione di dimettermi, evitando in tal modo di cedere ad alcune “richieste” che mi pervenivano da settimane. Alla base dello scioglimento del consesso non c’è stata una crisi politica oppure una mia presunta stanchezza. Io, dopo aver chiuso con alcuni ex consiglieri di maggioranza, avevo aperto il dialogo a tutte le forze politiche sane che erano presenti in Consiglio, anche di minoranza quindi, disponibili ad affrontare la questione morale e, quindi, a tenere, insieme a me, il timone della città in un momento di tempesta. Invece il centrosinistra non ha voluto neppure avviare un confronto. Ha preferito allearsi con quei consiglieri che io non avevo più voluto nella mia maggioranza. Altro che chiusura del periodo buio, come ha sostenuto il segretario provinciale del Pd. Mi spiace perchè si tratta di un ragazzo e, per giunta, di Manduria. Ma proprio il Pd ha optato per una mossa che sa tanto di oscurantismo. Forse qualcuno non ha capito o non ha voluto capire che era giunto il momento di far … pulizia». L’ex sindaco è quindi tranquillo. «Sono più che tranquillo. Io ho sempre preso carta e penna quando ho visto cose poco chiare. Qualcuno si ricorderà che il mio primo atto, dopo l’insediamento, è stato quello di inviare tutti gli atti della discarica di contrada “Cicci” (il cui sito non è stato mai bonificato), alla Procura della Repubblica. Nei primissimi mesi della mia legislatura proprio a Manduria si riunì la Commissione per l’Ordine Pubblico. Sempre nel primo anno, più volte mi sono chiesto pubblicamente come mai ben tre bandi per l’aggiudicazione della Fiera Pessima sono andati deserti… Sono solo alcuni degli esempi della mia massima attenzione verso la legalità e la trasparenza. In ogni caso, anche guardando ciò che è venuto fuori dagli atti dell’ultima inchiesta, è chiaro che, eventualmente, la mafia non può inserirsi in un ente pubblico da un giorno all’altro, ma si incunea lentamente col tempo. Nessuno mai ha avuto da ridire sulla legalità dei miei atti, se non un individuo che, da quel che mi risulta, ha ricevuto tempo fa una condanna a sei mesi per omissioni d’ufficio. Ora, da queste indagini, emergeranno luce e verità su tutto. Ecco perché sono estremamente sereno e contento della decisione di nominare questa commissione».

In Manduria (TA) è stato permesso ad alcuni reparti ospedalieri, pur regolarmente operanti, di obbligare i malati dei paesi del comprensorio, che non pagavano la visita privata al primario, a farsi curare per patologie urgenti presso nosocomi lontani, prospettandogli le fissazioni delle visite dopo mesi dalla richiesta. Nella stessa città è legale che l’Ufficio Protocollo rilasci una ricevuta degli atti consegnati, mancante di nome e firma del ricevente e del numero di ruolo, come è legale che a vincere il concorso di Comandante dei Vigili Urbani, sia stato, in palese conflitto di interesse, in qualità di dirigente dell’Ufficio del Personale e Comandante pro tempore, colui il quale ha indetto e regolato lo stesso concorso, ricoprendo le stesse funzioni in attesa della sua nomina, i cui commissari d’esame erano persone con cui già collaborava, quale il Vice Questore, un suo collega Vigile Urbano, Comandante di Brindisi, e il Commissario Prefettizio, in quel periodo Sindaco pro tempore di Manduria. In Manduria si è permesso, specie nella sua marina, la costruzione abusiva delle case e lo scarico dei liquami in fosse a perdere delle civili abitazioni, abusive, insalubri e inabitabili, in questo modo inquinando le falde acquifere e il mare prospicente. La mancanza di infrastrutture come strade, parcheggi, illuminazione pubblica, acqua potabile e fogne, oltre ad imbruttire ed ad inquinare, ha inibito ogni sviluppo economico della costa. Per tutti questi fatti non si è aperto alcun procedimento d’ufficio da parte delle Autorità locali, né hanno avuto seguito le denunce penali presentate, le cui indagini erano delegate alle stesse Autorità. In Manduria (TA) è stato permesso ad alcuni reparti ospedalieri, pur regolarmente operanti, di obbligare i malati dei paesi del comprensorio, che non pagavano la visita privata al primario, a farsi curare per patologie urgenti presso nosocomi lontani, prospettandogli le fissazioni delle visite dopo mesi dalla richiesta. Nella stessa città è legale che l’Ufficio Protocollo rilasci una ricevuta degli atti consegnati, mancante di nome e firma del ricevente e del numero di ruolo, come è legale che a vincere il concorso di Comandante dei Vigili Urbani, sia stato, in palese conflitto di interesse, in qualità di dirigente dell’Ufficio del Personale e Comandante pro tempore, colui il quale ha indetto e regolato lo stesso concorso, ricoprendo le stesse funzioni in attesa della sua nomina, i cui commissari d’esame erano persone con cui già collaborava, quale il Vice Questore, un suo collega Vigile Urbano, Comandante di Brindisi, e il Commissario Prefettizio, in quel periodo Sindaco pro tempore di Manduria. In Manduria si è permesso, specie nella sua marina, la costruzione abusiva delle case e lo scarico dei liquami in fosse a perdere delle civili abitazioni, abusive, insalubri e inabitabili, in questo modo inquinando le falde acquifere e il mare prospicente. La mancanza di infrastrutture come strade, parcheggi, illuminazione pubblica, acqua potabile e fogne, oltre ad imbruttire ed ad inquinare, ha inibito ogni sviluppo economico della costa.

In data 2-3-4 marzo 2010, il servizio di Stefania Petix, inviata di Striscia La Notizia, per la prima volta in Italia ha sollevato il problema della destinazione clientelare dei beni confiscati alla mafia. In quel caso si evidenziava che a Palermo la destinazione a fini sociali dei beni confiscati era stata effettuata a favore di associazioni inesistenti o a fini di lucro. Inascoltata la “Associazione Contro Tutte le Mafie” da sempre ha denunciato che il fenomeno è nazionale. Si riscontra che l’associazione “Libera” ha un rapporto privilegiato con le strutture Prefettizie a scapito delle tantissime associazioni indipendenti che non fanno capo a quel coordinamento. In questo caso vi è silenzio assoluto delle Istituzioni e degli organi di stampa su un fatto gravissimo. Allo stesso sodalizio nazionale denominato “Associazione Contro Tutte le Mafie”, iscritta presso la Prefettura di Taranto al n. 3/2006, è impedita l’iscrizione presso altre prefetture pur operando nel loro territorio, in virtù del Decreto del Ministero dell’Interno n. 220 del 24/10/2007, che prevede l’iscrizione delle associazioni antiracket solo ed esclusivamente presso le prefetture competenti sulla sede legale. In data 3 marzo 2010, anche grazie ad una legge regionale, denominata appunto “Libera il bene”, attraverso la quale la Regione Puglia si assume il 90% dell’onere economico delle spese per la ristrutturazione degli immobili, il commissario straordinario prefettizio di Manduria Giovanni D’Onofrio ha promosso ed ottenuto, con la firma del protocollo di intesa, la collaborazione della stessa associazione Libera (rappresentata da Davide Pati e Annamaria Bonifazi) e della Prefettura di Taranto (rappresentata dalla dott.ssa Distante), finalizzata all’analisi dei beni confiscati agli esponenti mafiosi di Manduria, al monitoraggio delle loro condizioni strutturali, alla verifica del possibile riutilizzo e alla progettazione per la trasformazione in centri di aggregazione o per altro uso (da stabilirsi). “Libera” è un coordinamento, non un’associazione, e come tale, in virtù del Decreto citato, non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, in quanto il coordinamento non ha la sede legale in quella città, ma in via IV Novembre, 98, Roma, per cui il protocollo d’intesa è nullo e la Prefettura di Taranto e il Comune di Manduria, dovrebbero collaborare con le associazioni con sede legale nella provincia di Taranto, e l’Associazione Contro Tutte le Mafie, ha la sede legale in Avetrana, 15 Km da Manduria. Se passa il principio che chiunque spenda il nome “Libera” possa essere iscritto e privilegiato dagli enti Prefettizi, è normale che in Italia si formi un monopolio illegale delle assegnazioni dei beni, specie se poi questa attività è sostenuta dai finanziamenti pubblici. E’ ancor più grave se poi i coordinamenti hanno sede presso la CGIL. In questo caso parrebbe un’espropriazione proletaria. Poi non si capisce come mai la Regione Puglia possa riconoscere finanziamenti solo a “Libera”, escludendo le altre associazioni indipendenti, specie se dopo tanta enfasi, dopo anni non è ancora stato istituito l’albo regionale delle associazioni antiracket, che dovrebbe legittimare gli stessi finanziamenti. Spero che questa denuncia pubblica sia approfondita, nell’interesse della collettività, delle associazioni antimafia indipendenti e della vera lotta alla mafia e cessi l’ostracismo a danno dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Per tutti questi fatti non si è aperto alcun procedimento d’ufficio da parte delle Autorità locali, né hanno avuto seguito le denunce penali presentate, le cui indagini erano delegate alle stesse Autorità.

Da tutti se l’aspettava di vedersi occupato il posto riservato ai disabili come lei. Ma non dai vigili urbani, scrive Nazareno Dinoi su "l Corriere della Sera". «Invece sono proprio loro, ogni mattina, che parcheggiano con l’auto di servizio nel rettangolo con le strisce gialle e il contrassegno dei portatori di handicap». La denuncia è di Gabriella Lazzaris, una quarantaduenne dipendente del comune di Manduria costretta da cinque anni a vivere in carrozzella per gli esiti di un incidente stradale. L’impiegata che ogni giorno deve superare le solite barriere architettoniche per recarsi sul proprio posto di lavoro, ha sopportato sino a ieri l’ennesima offesa alla sua disabilità. Ad occupargli l’unico posto auto che la sede comunale riserva a quelli nelle sue condizioni, non è il solito «furbetto» che utilizza il tagliando arancione di un parente per non pagare la sosta nelle strisce blu. Questa volta ad infrangere le regole, sostando in una zona di divieto, è addirittura il furgone della polizia municipale. Documento fotografico alla mano, la signora non si lascia intimorire e denuncia pubblicamente l’abuso. «Mi chiedo - dice - se i vigili hanno il dovere di multare chi parcheggia in sosta vietata, allora a chi tocca elevare la multa quando sono loro a commettere la violazione?». Una domanda sacrosanta che dovrebbe trovare risposta in chi dirige il corpo di polizia della città di Manduria che di spazi riservati ai propri automezzi ne ha a sufficienza. «Basta spostarsi dall’altra parte del municipio, ma loro non vogliono fare due passi a piedi così costringono me a sforzi che nemmeno si immaginano», insiste la signora in carrozzina che se la prende soprattutto perché quel posto se l’è sudato eccome. «Dopo cinque anni di estenuanti richieste - racconta Gabriella -, finalmente tre settimane fa sono riuscita a far tracciare le strisce gialle con lo stemma della sedia a rotelle nel parcheggio interno dove lavoro. Il minimo che potevano fare - dice -, due strisce per uno spazio stretto che non è nemmeno a norma; ed ora, cosa scopro? - insiste la signora - che sono proprio loro ad appropriarsene. Ma dov’è la logica, dove la giustizia?». La combattiva dipendente dell’ufficio cultura del comune di Manduria che vive separata dal marito con due figlie ancora minorenni, si è già fatta promotrice di una proposta provocatoria, non accolta da nessuno, rivolta a tutti i suoi colleghi. «Ho chiesto loro di trascorrere un’intera giornata lavorativa stando su una carrozzella come la mia: un solo giorno e capirebbero una piccolissima parte di quello che si può provare lavorando in queste condizioni». Perché la mancanza del posto auto è solo uno degli impedimenti architettonici che la disturbano. Il tragitto che deve percorrere per entrare nel suo ufficio non è adatto a chi si sposta su ruote perchè il pavimento è lastricato con chianche sconnesse di pietra usurata dal tempo; la porta della sua stanza è di quelle normali che si chiudono e aprono dall’interno per cui ogni volta ci deve essere un collega ad alzare il saliscendi e spalancare completamente l’uscio. Ma il colmo sono i servizi igienici: assenti. «Praticamente non ho un bagno perché quello chimico che hanno messo fuori esposto al pubblico, non è praticabile per una in carrozzella per cui qualcuno ha avuto il pudore di mettere il cartello con la scritta "guasto"». E quando capita di averne bisogno? «Devo trovare la disponibilità di un collega che mi accompagni a casa altrimenti vi lascio immaginare».

MANDURIA, PRIMO IN ASSENTEISMO

In Puglia la lotta all'assenteismo nella pubblica amministrazione procede, anche se a velocità  ridotta rispetto al resto del Paese. Maglia più nera regionale spetta invece al comune di Manduria, che ha visto aumentare il numero di assenze del 52,9%. In questo caso non si tratta di aviaria o peste suina, ma una peculiarità manduriana.

L’EX SINDACO GREGORIO PECORARO CONDANNATO DEFINITIVAMENTE

Cass. Sez. III n. 12944 del 12 aprile 2006. Pres. Postiglione Est. Teresi

Ric. Pecoraro. Rifiuti. Alghe marine. Le alghe marine rientrano nel novero dei rifiuti in quanto "rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle spiagge marittime". Svolgimento del processo e motivi della decisione.

Con sentenza in data 19 luglio 2005 il Tribunale di Taranto in Manduria condannava Pecoraro Gregorio alla pena e dell'ammenda per avere, quale sindaco del Comune di Manduria, effettuato uno stoccaggio di rifiuti non pericolosi [alghe marine] in assenza di autorizzazione. Rilevava il Tribunale che sopra un'area sita in località Marina di Manduria erano state depositate alghe marine [in parte essiccate e in parte scaricate di recente] che occupavano circa 10.000 metri quadrati per un'altezza di un metro e mezzo. Il deposito era stato effettuato dalla s.r.l. Igeco, senza alcuna autorizzazione, in forza di contratto d'appalto stipulate col Comune di Manduria per la pulizia del litorale e per il deposito dei rifiuti sull'area comunale di contrada Marina con la dichiarata finalità di rifertilizzazione dei terreni. Le alghe costituivano rifiuti urbani non pericolosi ai sensi dell'art. 7, comma 2, lettera d, del d. lgs. n. 22/1997 ed erano state oggetto di smaltimento non autorizzato, non potendosi ravvisare deposito temporaneo ex art. 6 lettera m del citato decreto perché ammassate in luogo diverso da quello di produzione. Proponeva ricorso per cassazione l'imputato denunciando violazione ed erronea applicazione di norme giuridiche; mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine: - alla qualificazione delle alghe marine come rifiuti, trattandosi di prodotto naturale e non di frutto di attività umana; - all'omesso riconoscimento dell’esclusione delle sostanze dal novero dei rifiuti perché riutilizzabili nelle normali pratiche agricole ai sensi dell'art. 8 del citato decreto; - al disconoscimento della segnalata ipotesi di deposito temporaneo; - all’affermazione di responsabilità perché nella delibera n. 190 del 13 giugno 2001, [con cui era stata affidata alla società Igeco la pulizia e la manutenzione del litorale con la messa a disposizione dei terreni comunali della marina di Manduria], cui il sindaco aveva partecipato, non si era fatto cenno alle alghe, né era stato menzionato alcun particolare regime di raccolta, stoccaggio e smaltimento che prevedesse il deposito sui terreni comunali. Il sindaco era estraneo a tali operazioni sia perché in una precedente delibera era stato espressamente previsto il conferimento delle alghe sulla proprietà comunale, sia perché era stato il dirigente dell’ufficio tecnico comunale ad autorizzare l’Igieco a scaricare le alghe in contrada Marina con la comunicazione 30 maggio 2001, ignota al sindaco, il quale non poteva essere considerato il costante referente per l’attività di raccolta e deposito delle alghe tanto più che egli era rimasto in carica per soli 5 giorni dall'adozione della delibera. Chiedeva l’annullamento della sentenza. Con motivi nuovi depositati il 6 marzo 2006 il ricorrente deduceva che la data del reato andava anticipata all’8 giugno 2001, giorno della cessazione dalla carica di sindaco, sicché il reato era prescritto. Il primo motivo, col quale si sostiene che le alghe marine non sarebbero qualificabili come rifiuti, é infondato poiché le stesse rientrano nella previsione normativa ex art. 7, comma 2, lettera d, del d. lgs. n. 22/1997 che comprende i rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle spiagge marittime. Anche il secondo motivo non é puntuale perché censura in punto di fatto la decisione fondata, invece, su congrue argomentazioni esenti da vizi logico-giuridici, dato che sono stati menzionati gli elementi probatori emersi a carico dell'imputato ed é stata confutata ogni obiezione difensiva, con logica motivazione che non può essere censurata. La sentenza, infatti, ha correttamente ritenuto che in una vasta area di proprietà comunale veniva effettuata attività di deposito di alghe che solo in parte venivano messe in riserva ai fini di un eventuale e successivo utilizzo quali sostanze concimanti e che, quindi, erano state compiute operazioni di deposito preliminare prima di quello definitivo in discarica o presso altri luoghi autorizzati ed esattamente non ha ravvisato l’istituzione di un deposito temporaneo (art. 6 lett. m decreto citato). Le modalità di conservazione denotano, infatti, che l’area dell'accumulo è stata trasformata di fatto in deposito degli stessi, mediante una condotta ripetuta, consistente nell'abbandono - per un tempo considerevole e comunque non determinato - di una notevole quantità, che occupava uno spazio cospicuo. La provvisorietà e lo stoccaggio in attesa di un trasferimento, da attuare in tempi prevedibilmente lunghi, non escludono la sussistenza dell’illecito. Anche il terzo motivo è infondato. Nel concetto di attività di gestione di rifiuti sono comprese tutte le fasi dell'impiego degli stessi consistenti in: operazioni preliminari (conferimento, spazzamento, cernita, raccolta e trasporto); operazioni di trattamento (trasformazione, recupero, riciclo, innocuizzazione) ed operazioni di deposito (temporaneo e permanente nel suolo o sottosuolo). Qualsiasi attività volta all'eliminazione dei rifiuti, comprendente tutte le fasi che vanno dalla raccolta alla discarica, sono soggette all'autorizzazione regionale, sicché per il loro smaltimento degli stessi e indispensabile ottenere la prescritta autorizzazione. Premesso che “il deposito temporaneo di rifiuti ai sensi dell'art. 6, punto m), del d. lgs. 5 febbraio 1997 n. 22 è legittimo soltanto ove sussistano alcune precise condizioni temporanee quantitative e qualitative; in assenza di tali condizioni, il deposito di rifiuti nel luogo in cui sono stati prodotti è equiparabile giuridicamente all’attività dl gestione di rifiuti non autorizzata. prevista come reato dall'art. 51 del d. lgs. 22/1997” (Cass. Sez. III n. 7140, 21 marzo 2000, Eterno, RV 216977) ed inoltre che costituisce attività di stoccaggio quella consistente in operazioni di deposito preliminare di rifiuti, nonché di recupero degli stessi, consistente nella messa in riserva di materiali, e non già un mero "deposito temporaneo", ossia un raggruppamento di rifiuti, prima della loro raccolta, nel luogo di produzione, per il quale è necessario che le successive operazioni di raccolta, recupero o smaltimento avvengano non oltre il successive trimestre, ovvero il materiale raccolto non superi i venti metri cubi, va rilevato che correttamente il deposito in luogo diverso dalla produzione non integra il concetto normativo di deposito temporaneo di rifiuti. Incensurabile, infine, è l’affermazione di responsabilità perché, rilevato che l’asserzione dell'indagato sulle dimissioni dalla carica e sulla loro decorrenza non è assistita da dati di riscontro, il conferimento, con delibera della Giunta comunale n. 190 del 13 giugno 2001, alla società Igieco dell'incarico di pulizia delle spiagge, con la messa a disposizione dei terreni comunali della marina di Manduria [cfr. verbale di concordamento 12 giugno 2001 allegato alla delibera], costituisce espressa ed ampia autorizzazione al compimento di attività di smaltimento di rifiuti in un sito di proprietà comunale, sicché è irrilevante che non vi sia esplicita menzione delle alghe marine e che in altra precedente delibera tale rifiuto fosse stato indicato. Il rigetto del ricorso comporta condanna al pagamento delle spese del procedimento.

Atto n. 4-04363 Pubblicato il 10 aprile 2003 Seduta n. 381

CURTO - Al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro della giustizia. - Premesso:

che allo scrivente è pervenuta copia di un esposto inviato al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro della giustizia, al Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, al Presidente del Consiglio Nazionale Forense, al Procuratore Generale della Repubblica c/o la Corte d’Appello di Taranto, al Procuratore della Repubblica c/o il Tribunale di Potenza, al Procuratore della Repubblica c/o il Tribunale di Taranto e al Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto; che tale esposto, penale ed amministrativo, sembra sia l’ultimo, in ordine di tempo, di una serie di denuncie ed esposti tendenti a smantellare illegalità di vario tipo che colpiscono i cittadini più deboli e più poveri ad opera di chi rappresenta la giustizia nel nostro Paese, in particolare giudici ed avvocati; che, per la delicatezza della questione, e a causa della mancanza di un qualsiasi riscontro a questo esposto e ad altri precedenti atti congeneri, ritengo opportuno riportare di seguito il testo del citato esposto: “Oggetto: omissioni d’atti d’ufficio ed abusi d’ufficio presso gli Uffici Giudiziari di Taranto. In campo penale si viola il diritto di difesa della persona offesa dal reato; Al Registro Generale non si ritrovano iscritte notizie di reato, di cui si è presentata regolare denuncia o querela o esposti firmati, ex art.335, c.p.p. ed ex art. 110 bis att. c.p.p., né si forniscono notizie circa le notizie di reato iscritte. Non si comunica, quando richiesto, ex artt. 406, 408 c.p.p., la proroga delle indagini e la richiesta di archiviazione al GIP, impedendo l’opposizione alla stessa. Non si svolgono indagini, ex art. 50 c.p.p., nei confronti di persone influenti, e Pubblici Ufficiali che li coprono, per notizie di reato di abusivismo edilizio e violazione di norme ambientali, di sfruttamento del lavoro giovanile e nero ed emissione di buste paghe false, di concorsi truccati per diventare avvocato e di evasione fiscale e contributiva sui praticanti avvocati, di aggressioni ad avvocati per impedirgli la presenza in udienza, di abbandono di incapaci, di riciclaggio di assegni nominativi rubati, di emissione di deleghe false, di truffe Enel, ecc… Si eseguono sequestri innominati, senza notifica di copia all’interessato. Al soggetto interessato, quando è ritenuto incapace, non si nomina un tutore, impedendo la nomina di un difensore di fiducia, né si nomina un difensore d’ufficio, affinché il soggetto possa opporre richiesta di riesame, ex artt. 257, 322 c.p.p., ed esercitare tutti gli altri diritti processuali, ovvero, se abbandonato fin anche dalle istituzioni, possa esercitare ogni facoltà a favore dello stesso, siano di cura, assistenza, mantenimento, ecc…In campo penale si viola il diritto di difesa della persona sottoposta ad indagine; Si chiedono sommarie informazioni alla persona nei cui confronti si svolgono indagini, senza che questa sappia di essere indagata e di conseguenza senza la presenza necessaria del difensore, ex artt. 350, 369, 369 bis c.p.p. Ex artt.358, 362 c.p.p. non si svolgono accertamenti su fatti e circostanze a favore dell’indagato, né si assumono informazioni utili alle indagini, omettendo l’interrogatorio dello stesso. Non si procede nei confronti di soggetti rei dello stesso reato. Si ritrova il fascicolo degli atti d’indagine compiuti dal P.M. e delle dichiarazioni rese dagli indagati, coperti dal segreto d’ufficio, ex art. 329 c.p.p., alla pubblica conoscenza degli indagati e degli estranei in procedimento civile di interdizione. Procedimento civile d’interdizione che dura anni e senza la presenza dell’interdicenda. Quando questa è presente, la si sente alla presenza di decine di persone divertite. Si obbliga la persona sottoposta ad indagine ad essere il difensore di fiducia e tutore convenzionale del soggetto offeso dallo stesso reato, in quanto non si nomina un difensore d’ufficio, né un tutore, affinché la presunta incapace possa esercitare i suoi diritti processuali e l’indagato non possa reiterare le azioni ritenute lesive. Volutamente si impedisce alla persona sottoposta ad indagine di chiedere il gratuito patrocinio e quindi nominare un difensore di fiducia capace, pagato dallo Stato, perché si comunica il limite di ammissione di € 5.815,30 (lire 11.260.000) quale reddito del nucleo familiare, anziché € 9.296,22 (lire 18 milioni),ex art. 3, L. 134/01, obbligandolo ad avere un difensore d’ufficio, che non conosce, e che, forse, è meno capace. Volutamente si impedisce alla persona sottoposta ad indagine di chiedere il gratuito patrocinio e quindi nominare un difensore di fiducia capace, pagato dallo Stato, perché si ignora ogni istanza di concessione del gratuito patrocinio, presentata ex art. 2 L. 217/90, obbligandolo ad avere un difensore d’ufficio, che non conosce, e che, forse, è meno capace. In campo civile si violano i diritti di difesa delle parti private; Le vendite dei pignoramenti di beni mobili non si eseguono per mancanza di organi preposti alla vendita, (Istituto Vendite Giudiziarie, Commissionari), ovvero, quando ci sono, si eseguono al di sotto del 10% del valore pignorato, obbligando l’abbandono del procedimento di esecuzione per antieconomicità, perdendo il conto capitale e le spese di giudizio. Si omette di sollevare il problema dei tempi biblici dei procedimenti civili ordinari e speciali, con meri rinvii delle udienze effettuati per decenni con la complicità dei Giudici. Con la presente si chiede alle autorità interpellate di intervenire, adottando i provvedimenti necessari, con preghiera di riscontro al sottoscritto, pronto a dare prova per quanto su esposto. In caso contrario si chiede di procedere obbligatoriamente nei confronti del sottoscritto, attivando procedimento penale di calunnia, se bugiardo, ovvero procedimento civile d’interdizione, se pazzo.” L’interrogante chiede di conoscere: se si ritenga opportuno verificare quanto riportato dall’esposto in questione; se si intenda, e in quale modo, procedere qualora gli argomenti, o alcuni di essi, rispondessero a verità.

MARTINA FRANCA. "TOGHE SPORCHE SULLO JONIO".

Taranto, ex procuratore e capo dei gip indagati per corruzione. Se si trattava degli amici, la giustizia a Taranto poteva diventare strabica. E all´occorrenza anche cieca. Da questa accusa ora dovranno difendersi due alti magistrati, sospettati di aver pilotato alcuni procedimenti, approfittando del loro ruolo. Si trascina dietro una carica dirompente l´indagine condotta dai giudici di Potenza sul conto di toghe sino a poco tempo fa adagiate su poltrone strategiche del palazzo di giustizia ionico. I pm Cristina Correale e Ferdinando Esposito hanno messo sotto inchiesta l´ex procuratore capo di Taranto Aldo Petrucci e l´ex coordinatore dell´ufficio gip-gup Giuseppe Tommasino. Nello scottante caso è coinvolto anche l´avvocato Leonardo Conserva, ex sindaco di Martina Franca. Gravi le imputazioni contenute nelle informazioni di garanzia, con le quali gli inquirenti hanno concluso la loro attività. I pm lavorano sull´ipotesi di concorso in corruzione in atti giudiziari ma Petrucci, ora procuratore minorile a Lecce, deve difendersi anche dall´accusa di peculato per le tante telefonate private fatte dagli apparecchi di servizio. Su Tommasino, inoltre, aleggia la contestazione di rivelazione di segreto d'ufficio. L´inchiesta ruota proprio sul rapporto stabilito tra le due toghe, piazzate a Taranto a presidio di snodi obbligati delle inchieste. Da quelle postazioni, sostengono i pm lucani, Petrucci e Tommasino si sarebbero scambiati favori a ripetizione sviando l´attività giudiziaria. Tutto ha preso il via da una segnalazione alla procura di Potenza, competente ad indagare sui magistrati ionici. L´attività delegata ai carabinieri ha rivelato più di una sorpresa, saltate fuori da diverse testimonianze e acquisizioni documentali. Così si sono fatti largo i sospetti su quel binomio in grado di gestire il destino dei fascicoli, spedendo in archivio quelli "sgraditi". Tra i presunti beneficiari l´ex primo cittadino di Martina, Leonardo Conserva. Il procuratore Petrucci, a parere dei pm potentini, si sarebbe assegnato un procedimento sul conto del sindaco. Le indagini sarebbero state condotte in maniera poco approfondita spianando la strada all´archiviazione, firmata puntualmente dal gip Tommasino. Ma tra sindaco e procuratore sarebbe nata una vera amicizia, tradotta dai pm nell´accusa di corruzione, in virtù delle consulenze comunali, per un valore di 283.000 euro, dirottate da Conserva verso lo studio legale in cui lavora la figlia del magistrato. Quello che riguarda il sindaco di Martina, però, è solo uno dei capitoli del rimpallo di favori che si sostiene si sia sviluppato tra il terzo piano del Tribunale, dove c´è l´ufficio del procuratore, e il pianterreno dove si trova quello del capo dei gip. Lo stesso Tommasino, oggi in aspettativa perché componente della commissione per il concorso di notaio, sarebbe stato graziato da Petrucci. Era finito nei guai nel 2004 dopo una clamorosa indiscrezione. Un imprenditore, coinvolto nello scandalo sanitopoli, aveva saputo in anticipo del suo imminente arresto per una storia di forniture pagate a peso d´oro. Quella fuga di notizie aveva mandato su tutte le furie il pm titolare dell´inchiesta, che aveva preteso un´indagine interna. Seguendo le tracce nel sistema informatico del Tribunale si era risaliti al desk dal quale era stato violato il registro generale. Era la scrivania di un cancelliere che non aveva esitato a puntare il dito contro Tommasino. A quel punto sarebbe intervenuto il procuratore capo che, dopo essersi assegnato l´indagine, aveva iscritto sul registro degli indagati solo il cancelliere, poi scagionato, insabbiando la posizione dell´amico gip. A distanza di anni, però, ci ha pensato la procura di Potenza a risistemare i pezzi del puzzle incriminando l´ex capo dei gip. Dopo quella ciambella di salvataggio, Tommasino avrebbe ricambiato il favore. Nel giugno del 2006 sul suo tavolo arrivò la richiesta di rinvio a giudizio per una banda accusata di rapine. Anche in questo caso sarebbe scattata l´intesa. Dal procedimento venne estromesso, con sentenza di non luogo a procedere poi annullata in Cassazione, un giovane tarantino. Quell´uomo era il marito di una conoscente del procuratore e per questo a Tommasino avrebbe chiuso un occhio. Ora i due magistrati hanno a disposizione venti giorni per farsi interrogare, nel tentativo di allontanare l´accusa di aver degradato la giustizia ad un affare tra amici.

In data 13 aprile 2011 arriva dal dr Giuseppe Tommasino una richiesta di rettifica all’articolo di cui sopra a firma di Mario Diliberto - Repubblica del 22 febbraio 2009. Richiesta aggiornamento: «Lei è contro tutte le mafie? Onestamente non credo visto che esercita la sua attività di blogger con modalità discutibili. La invito a prendere atto che sono stato assolto con ampia formula e su richiesta del PM. di udienza in data 17 maggio 2011 dopo aver combattuto strenuamente. Un dossier a firma è anche a sua disposizione, così si chiarirà le idee». Giuseppe Tommasino. Prontamente si è riportata la richiesta di rettifica e non è certo il tono usato che può sminuire quello che io faccio per la società. Sicuramente non si conosce quello che noi facciamo e chi noi siamo. Non si conosce il mio libro, lo spot nazionale antiracket ed antiusura, il film, la nostra web tv di promozione del territorio, i nostri siti d'inchiesta o il nostro movimento politico. Tutto questo senza aver vinto alcun concorso pubblico che possa contenerci o darci l’appoggio o il potere istituzionale. L’aggiornamento avviene prontamente non per timore, ma perché devo essere grato al dr. Tommasino per aver ricevuto solo un’intimazione e non direttamente una ritorsione come hanno fatto i suoi colleghi, tanto da dover presentare istanza di rimessione per legittimo sospetto, che i processi a mio carico a Taranto, artatamente formati, possano essere inficiati da inimicizia e pregiudizio. Preme precisare, però, ad un valido tecnico di discipline giuridiche come è il dr. Tommasino che il nostro non è un blog. Un blog è un sito, generalmente gestito da una persona o da un ente, in cui l'autore (blogger) pubblica più o meno periodicamente, come in una sorta di diario online, i propri pensieri, opinioni, riflessioni, considerazioni ed altro, assieme, eventualmente, ad altre tipologie di materiale elettronico come immagini o video. Il definirmi blogger per molti è l’intento diffamatorio per denigrare il mio operato e su questo si montano dei processi. Peccato però che gli innumerevoli detrattori devono mettersi in fila e aspettare il proprio turno per colpirmi, essendo in molti, in quanto le nostre inchieste coprono l’intero territorio nazionale. Il nostro, peccato per loro, è un vero portale d’inchiesta letto in tutto il mondo. Strumento con cui si esercita il sacrosanto diritto di critica e di informazione, di cui all’art. 21 della Costituzione. Portale dove la cronaca diventa storia attingendo da fonti pubbliche. I dati riportati sono pubblici e si basano su: a) la verità dei fatti (oggettiva o “putativa”); b) l’interesse pubblico alla notizia; c) la continenza formale, ossia la corretta e civile esposizione dei fatti. In ossequio al dettato della Suprema Corte. Non è nostra intenzione danneggiare o favorire alcuno. Le nostre inchieste non riportano alcun nostro commento: bastano ed avanzano quelli dei redattori degli articoli di stampa. L’inchiesta citata dal dr Tommasino è inserita in un più ampio spettro di fatti e circostanze che minano la credibilità del sistema giustizia. L’abitudine all’omertà mediatica degli organi d’informazione territoriale non può impedirmi di dire la verità. Il fatto che per il dr. Tommasino sia intervenuta l’assoluzione, questo non salva l’immagine che il sistema giustizia dà di sé a Taranto ed in Italia. E' certo, però, che le nostre inchieste sono state fatte anche per Potenza, foro in cui, spesso, si assolvono o si archiviano le denunce contro i magistrati tarantini. Tanto io dovevo ad un magistrato che è da me tra i più stimati a Taranto, in integrazione esplicativa alla sua richiesta di aggiornamento.  

CORSI E RICORSI STORICI. A proposito di come funzioni la giustizia (con la g minuscola) in questi paraggi riportiamo questo stralcio di premessa del libro-inchiesta del giornalista Alfredo Ancora: "Un anno dopo, a maggio del 2010, tutti gli imputati di cui si parla in questi articoli di stampa sono stati prosciolti dall'accusa di corruzione; il giudice Tommasino anche da quella per la fuga di notizie. Solo l'ex procuratore capo della Repubblica di Taranto Petrucci è stato rinviato a giudizio con l'accusa di peculato, perché avrebbe utilizzato per uso personale il cellulare di servizio. Ad ogni modo fui molto colpito dalle notizie di stampa che annunciavano l'inchiesta di Taranto, perché alcuni anni prima l'allora procuratore aggiunto della Repubblica di Lecce, Aldo Petrucci, era stato l'autore di un'inchiesta mirata e puntigliosa che aveva portato all'arresto dell'ex sindaco di Calimera, Giorgio Aprile, del suo vice sindaco Fernando Gaetani, e di chi scrive, Alfredo Ancora, allora capogruppo del Pds in Consiglio comunale. Non eravamo dei ladri, non eravamo corrotti, non eravamo accusati di nessuno dei reati per i quali in quegli anni era nata ed è poi divenuta famosa l'inchiesta milanese di "Mani Pulite", quali concussione, corruzione, peculato, appropriazione indebita, truffa ai danni dello Stato, etc.. No, nulla di tutto questo. Fummo arrestati con un'ordinanza di custodia cautelare emanata a causa di una mia lettera di dimissioni dalla carica di consigliere comunale. Una vicenda oscura e strana che aveva portato tre cittadini, i quali per anni, da postazioni e con intensità diverse, avevano combattuto contro il malaffare e la gestione allegra della cosa pubblica, a finire quasi in prigione. Solo la "magnanimità" del giudice per le indagini preliminari consentì che ci fosse risparmiata l'onta delle manette e del carcere. Finimmo però agli arresti domiciliari. Per una lettera di dimissioni per la quale una prima inchiesta era stata archiviata. Ma l'inchiesta fu riaperta dopo un anno dal procuratore aggiunto Aldo Petrucci, senza alcun fatto nuovo che non fosse la nostra attività politica e di amministratori a Calimera. Al termine di un'indagine che aveva anche visto un mandato di perquisizione e il sequestro del mio computer, quando le prove della nostra presunta colpevolezza sembravano essere state tutte raccolte, ecco arrivare l'incredibile ordinanza di custodia cautelare. Gli arresti domiciliari durarono otto giorni e furono una violenza insopportabile alla nostra coscienza di cittadini onesti. Alla fine, rinviati a giudizio, il teorema accusatorio rivelò tutta la sua inconsistenza, sia in fatto che in diritto, e cadde miseramente come un castello di sabbia. Fummo assolti. Non senza che, durante tutta quella vicenda, il procuratore aggiunto Aldo Petrucci mostrasse nei nostri confronti un forte pregiudizio che lo portò ad avere un atteggiamento che ho definito allora, e non esito a definire ancora oggi, persecutorio. Perché è bene si sappia: nonostante in quel Comune negli anni fino ad allora trascorsi fossero accaduti fatti che avrebbero meritato, quelli sì, l'attenzione della magistratura, l'unico sindaco arrestato nella storia di Calimera è stato Giorgio Aprile; gli unici amministratori arrestati di quel Comune della Grecìa Salentina siamo stati noi, che non abbiamo rubato una lira ma che, anzi, ci abbiamo rimesso di tasca nostra, sindaco e giunta più dei consiglieri. Finimmo invece arrestati per una banale lettera di dimissioni. Appropriazioni indebite, clamorosi falsi in atti pubblici, ammanchi di denaro pubblico, truffe elettorali, e una gestione allegra della cosa pubblica che avevano portato quel Comune alla bancarotta certificata da decreti ministeriali, mai avevano visto la magistratura così puntigliosa come lo fu con noi in quel caso, quando arrivò addirittura ad ordinare gli arresti. Mai una giunta comunale aveva subito tante e tali inchieste, basate tutte sul nulla e che portarono al nulla totale, ma nate tutte col solo scopo di intimidire chi aveva osato ribaltare trentennali equilibri di potere, come invece era accaduto a quella giunta, guidata prima da Giorgio Aprile e poi da Rocco Montinaro. Passata la tensione di quei mesi, una volta assolti gli imputati, la vicenda è finita nel dimenticatoio. La politica e il paese avevano bisogno di guardare avanti, a noi erano stati restituiti la serenità e l'onore che, per la verità, agli occhi dei nostri concittadini non avevamo mai perduto. Poi, dopo 15 anni, ecco questa storia del nostro inquisitore che viene a sua volta messo sotto inchiesta. E per reati molto più gravi di quelli per i quali egli ci mise sotto accusa e ci fece arrestare. Sarebbe stato facile dire, come dicevano gli antichi, che "il tempo è galantuomo". Sarebbe stato, forse, anche un po' meschino. Certo, non possiamo non notare come lui, il dottor Petrucci, messo sotto accusa, si sia augurato, come farebbe ogni indagato, «che nell'inchiesta non abbia trovato cittadinanza la maldicenza». Non si preoccupò però quando nella sua inchiesta di allora, che portò ai nostri arresti, la maldicenza egli la lasciò entrare, eccome. Comunque al procuratore della Repubblica Aldo Petrucci auguriamo sinceramente di avere la coscienza tranquilla almeno quanto l'avevamo noi, Aprile, Gaetani ed il sottoscritto, quando fummo arrestati e poi rinviati a giudizio; gli auguriamo che egli, nel procedimento a suo carico, dimostri, come facemmo noi, la sua innocenza e la totale estraneità anche al reato di peculato per il quale sarà sottoposto a giudizio. La giustizia italiana è fin troppo malata per potersi permettere che al suo interno agiscano magistrati sui quali pesi anche solo l'ombra di un uso distorto del loro posto di lavoro, e di potere. Resta da capire cosa avevamo fatto noi, o cosa lui pensava avessimo fatto noi, di peggio delle cose delle quali lui è stato accusato dai Pm di Potenza al punto che noi meritammo la custodia cautelare e lui no. Forse, come io ero e sono convinto, si voleva solo darci una lezione, per imparare a stare al nostro posto. Ma è inutile fare ipotesi che il lettore non capirebbe se non raccontando, carte alla mano, tutta la storia relativa al nostro arresto. Anche perché oggi, chiunque venga a sapere che tre persone furono arrestate per una banale lettera di dimissioni di un consigliere comunale, ha una reazione di sorpresa e incredulità. E in tanti mi hanno esortato: «Perché non scrivi questa storia?». E' quanto mi accingo a fare, chiedendo perdono a quanti si vedranno scaraventati, attraverso queste pagine, in una fase della vita che essi consideravano ormai alle spalle. Anche perché dopo tanti anni il tempo ha sparigliato le carte, cambiato le vite e i pensieri di molti dei protagonisti di allora. Alcuni di loro, purtroppo, non ci sono più. Ma il passato, che piaccia o no, fa parte della nostra vita. E col passato i conti vanno fatti, senza ipocrisie. Soprattutto quando il presente sembra fornire di esso nuove chiavi di lettura."

Glocal editrice è una piccola realtà editoriale del Salento portata avanti con coraggio e tenacia dal giornalista Lino De Matteis. Specializzata soprattutto in editoria d’inchiesta, tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo “Giornali e democrazia” di Beppe Lopez, “Il Giallo di Ugento” di Lino De Matteis sul controverso caso di nera riguardante Giuseppe Basile, e tutta una serie di e-book scaricabili gratuitamente sul sito dell’editore  dalle tematiche accattivanti come “Le mani sulla Puglia”, un’inchiesta sulla criminalità organizzata in Puglia e sulla zona grigia in cui si annidano i rischi di collusione tra criminalità e politica, oppure l’interessantissimo “Il caso Fonte. La prima vittima della mafia nel Salento” ovvero un reportage sull’assassinio dell’assessore comunale repubblicano di Nardò, Renata Fonte, avvenuto nel 1984. Ora Glocal editrice punta su un libro che farà discutere ovvero “Un processo per caso” di Alfredo Ancora, volume che racconta il caso emblematico di “mala-giustizia”, avvenuto a Calimera (un piccolo centro del basso Salento), raccontato da uno dei protagonisti. Tutt’altro che un fatto locale, la vicenda può divenire un vero e proprio esempio di un fatto accaduto a tre pubblici amministratori arrestati per una semplice lettera di dimissioni dal consiglio comunale presentata da uno di loro. Fatto accaduto a tre amministratori pubblici vittime di un accanimento persecutorio da parte di un giudice, che mette piede in una vicenda squisitamente politica. Ora Alfredo Ancora, vuole dire la sua, e lo fa mettendo in luce la disparità di trattamento avuta dai diversi imputati nelle fasi istruttorie delle due inchieste: da una parte, tre integerrimi amministratori (sono stati poi tutti assolti) che vengono arrestati per una normale lettera di dimissioni e, dall’altra, un magistrato che, per reati certamente più gravi, come corruzione e peculato, non viene privato della libertà. Fuori da ogni dubbio la vicenda dei tre amministratori rappresenta l’incarnazione perfetta delle disfunzioni della Giustizia nel nostro Paese, e soprattutto il libro si presta a mantenere aperto il dibattito sulla giustizia che ancora oggi non ha trovato alcun punto di efficienza e obiettività. Il libro "Un processo per caso. Storia di tre arresti per dimissioni" (Glocal Editrice, pp. 208) del giornalista Alfredo Ancora. La storia è quella di tre amministratori di un Comune del Sud Italia, Calimera, arrestati diversi anni fa per una semplice lettera di dimissioni. Lettera che un consigliere comunale di maggioranza aveva presentato in Comune e che vicesindaco, prima, e sindaco, poi, avevano iscritto nel protocollo riservato. Dall’opposizione arrivò la richiesta di copia di quella lettera, che fu negata dal sindaco perché la ritenne riservata. Partì un esposto alla Procura che avviò un’inchiesta, ma il sostituto procuratore incaricato non rilevò alcun reato e archiviò tutto. Partì allora un secondo esposto alla Procura Generale e si riaprirono le indagini a conclusione delle quali ci furono tre ordinanze di custodia cautelare a carico di sindaco, vicesindaco e del consigliere dimissionario. Mentre in Italia infuriava la bufera di Tangentopoli, nel Salento avveniva questa vicenda surreale, conclusasi con l’assoluzione di tutti e tre gli imputati al termine di un processo d’appello celebrato – fatto più unico che raro – sulla base del ricorso del procuratore aggiunto della Repubblica contro le conclusioni del Pm di udienza nel processo di primo grado che i giudici del Tribunale, peraltro, avevano accolto. Una storia assurda sul filo dei rapporti tra giustizia e politica, che qui viene raccontata da uno dei protagonisti, con grande passione e rigore documentale. L’autore del volume è nato a Zollino (LE) nel 1953 e dal 1976 vive a Calimera. Laureato in Scienze Politiche all’Università di Bari discutendo una tesi sul rapporto di lavoro giornalistico, ha subito iniziato un’intensa attività pubblicistica. È stato infatti direttore del giornale “Il ponte”, poi de “La civetta”, ha collaborato con “Calimera città futura” e con la “Kinita”, tutti giornali editi a Calimera. Assunto dal “Quotidiano di Lecce” nel 1979, è diventato giornalista pubblicista nel 1982 e professionista nel 1999. Nel 2003 ha iniziato la collaborazione con il “Corriere del Mezzogiorno”, protrattasi per alcuni anni, e con il settimanale “Città Magazine” diretto allora dal collega Mino De Masi. Attualmente collabora con il “Nuovo Quotidiano di Puglia”. Nella sua attività giornalistica si è sempre interessato soprattutto di politica, di politica-amministrativa e di giustizia amministrativa. È anche stato consigliere comunale di Calimera dal 1985 al 1996, prima eletto come indipendente nelle liste del Pci, poi in quelle del Pds. Durante questa esperienza politica è accaduta la vicenda raccontata nel libro Un processo per caso. Negli anni ’90 ha assunto la direzione di Radio Salentina. Nel 2003 ha iniziato le collaborazioni con la rivista dell’Università di Lecce, “Unile”. Una storia tra politica e persecuzione giudiziaria di tre pubblici amministratori, raccontata da uno dei protagonisti. Non è un fatto locale, come si potrebbe pensare, poiché la vicenda è talmente emblematica e unica che diventa un caso universale nel panorama della “malagiustizia” italiana. Non era mai successo, infatti, che tre pubblici amministratori venissero arrestati per una semplice lettera di dimissioni dal consiglio comunale presentata da uno di loro, con un accanimento persecutorio da parte di un giudice che entra a gamba tesa in una vicenda squisitamente politica. Ma il “colpo di scena”, se così si può dire, sta nel fatto che proprio quel giudice che si era tanto accanito all’epoca contro i tre amministratori, un giudice noto in Puglia per essere stato prima procuratore aggiunto a Lecce, poi procuratore capo a Taranto e, infine,  di nuovo procuratore capo al Tribunale dei minorenni di Lecce, Aldo Petrucci, è passato di recente agli onori della cronaca, pugliese e nazionale, perché imputato di corruzione e peculato in un’inchiesta sulle “toghe sporche” a Taranto (poi è stato prosciolto dall’accusa di corruzione ma rinviato a giudizio per peculato). Indipendentemente, comunque, dalle conclusioni della vicenda giudiziaria, è la fase istruttoria dell’inchiesta che ha riguardato Petrucci che ha fatto scattare la voglia di raccontare la sua esperienza ad Ancora, mettendo in parallelo proprio la diversità di trattamento avuta dai diversi imputati nelle fasi istruttorie delle due inchieste: da una parte, tre onesti amministratori (sono stati infatti poi tutti assolti) che vengono arrestati per una semplice lettera di dimissioni e, dall’altra, un magistrato che, per reati molto più gravi, come corruzione e peculato, non viene privato della libertà. Al di là di quello che potrebbe sembrare una sorta di curioso contrappasso dantesco, comunque, la vicenda dei tre amministratori è emblematica per come certa giustizia può accanirsi sui semplici cittadini impotenti a difendersi e come invece il corso della giustizia possa essere frenato o aggirato facilmente dagli uomini di potere. Il dibattito sulla giustizia è aperto ed è, anzi, oggi al centro della vita pubblica italiana: la vicenda raccontata da Ancora ne è a pieno titolo uno dei tasselli di cui bisogna discutere.

PALAGIANO. MAZZETTE AI POLIZIOTTI.

Mazzette in strada, sospesi 5 poliziotti. Sono stati i loro stessi colleghi a filmarli, scrive "Il Corriere della Sera". Li hanno filmati proprio mentre si mettevano in tasca i soldi di automobilisti e camionisti per far finta di non vedere piccole e grandi violazioni al codice della strada lungo la tratta autostradale Taranto-Bari. E sono stati gli stessi colleghi della Polstrada a incastrare i cinque agenti della sezione di Palagiano, ora sospesi dal servizio su ordine del giudice per le indagini preliminari Giuseppe Di Sabato che ha alleggerito la richiesta degli arresti domiciliari fatta dal pubblico ministero Alessio Coccioli. Ha preferito far scattare la misura interdittiva, fino a un massimo di due mesi prorogabili, come pubblici ufficiali. L’indagine ha preso il via l’anno scorso su un impulso partito dall’interno della Polstrada nel corso dei periodici autocontrolli utilizzati come antidoto alla corruzione. Affidata alla squadra mobile, ha messo sotto la lente d’ingrandimento il periodo da ottobre 2008 a gennaio 2009. Tre mesi durante i quali sono scattati vari campanelli d’allarme e sono state riscontrate numerose anomalie. In particolare risultavano applicazioni non conformi delle norme di fronte a evidenti casi di violazioni, ad opera in particolare di autisti di mezzi pesanti e di tir in transito sull’autostrada che collega Bari a Taranto. Le immagini filmate hanno contribuito a dare la conferma definitiva dei comportamenti san­zionati dalla magistratura registrando gli episodi di presunta concussione che stanno alla base dei provvedimenti interdittivi. La sospensione riguarda cinque agenti, dai 33 ai 48 anni, di Mottola, Talsano, Castellaneta, Palagianello e Crispiano. L’accusa è concussione. L’indagine non è ancora conclusa e gli accertamenti vanno avanti per portare alla luce nuovi eventuali episodi di corruzione. Nel frattempo i cinque agenti sono stati esclusi dal servizio come misura precauzionale ma non è da scartare l’ipotesi che il lavoro degli investigatori possa coinvolgere altri uomini della polizia stradale. Gli anticorpi, in ogni caso, la Polstrada li produce in casa propria come l’indagine ha dimostrato questa volta ma anche in altri precedenti occasioni in cui fu portato allo scoperto il malcostume di alcuni agenti sempre pizzicati mentre si dimostravano indulgenti davanti alle violazioni degli automobilisti e dei camionisti. L’attività di controllo interno consente alla Polstrada di tenere costantemente alta l’attenzione verso fenomeni distorsivi dei comportamenti dei poliziotti.

SAVA. ANCHE I VIGILI TRUFFANO.

Per otto anni ha percepito al posto del padre, morto nel 2004, il trattamento previdenziale, in assenza di alcun provvedimento di reversibilità, ma è stato scoperto e denunciato per truffa aggravata e continuata all’Inps dalla Guardia di finanza. Si tratta di un vigile urbano di 60 anni di Sava, che ha beneficiato indebitamente della pensione intestata al padre, deceduto nel 2004. Le Fiamme gialle hanno recuperato una parte rilevante del denaro sottratto, pari a circa 80mila euro, attraverso il sequestro di terreni e fabbricati e del conto corrente intestato al vigile urbano nel quale confluiva la pensione. Il sequestro del conto corrente ha permesso il "congelamento" di una cospicua somma di denaro nella disponibilità del finto pensionato, prima che la stessa potesse essere prelevata ed utilizzata per fini personali.

TORRICELLA. QUELLO CHE LA STAMPA CENSURA.

L’on. Franzoso è stato assolto, ma la notizia non fa notizia. Come molti ricorderanno, l'on. Franzoso, tarantino,all'epoca non ancora deputato ma assessore regionale ai trasporti della Giunta Fitto, a dicembre del 2004 fu arrestato come un malfattore, rinchiuso in cella per una settimana, accusato di voto di scambio che avrebbe ottenuto attraverso la concessione di non precisati favori a una cosca mafiosa. Il 25 settembre 2007, il Tribunale di Taranto lo ha assolto dalla infamante accusa ma la stampa riserva alla notizia poco spazio e pochissimo risalto. In proposito ecco il testo della lettera che i deputati pugliesi di Forza Italia hanno inviato alla Stampa. Per parte nostra non possiamo non testimoniare all'on. Franzoso la più viva solidarietà, insieme alla gioia per l'affermazione della verità e della sua innocenza. LETTERA APERTA ALLA STAMPA DEI DEPUTATI PUGLIESI DI FORZA ITALIA. La felicità per aver visto confermata la nostra assoluta certezza che il collega Pietro Franzoso fosse del tutto estraneo ai fatti che nel 2004 portarono al suo arresto mentre era assessore regionale, con accuse gravi e infamanti, viene oggi turbata da più di una vena di amarezza. Leggendo i giornali nazionali, gli stessi che nel 2004 dedicarono ampio spazio all’arresto dell’On. Franzoso, non si trova traccia alcuna della notizia della sua assoluzione “perchè il fatto non sussiste"; leggendo quelli regionali su alcuni si trova un trafiletto con la notizia oltre la pagina 10 e su altri non si trova nulla se non nelle edizioni cittadine di Taranto. Atteggiamento ben diverso rispetto al clamore dato quando il 16 dicembre 2004, l’allora assessore Franzoso fu prelevato al suo arrivo in aereo a Brindisi e fu portato in carcere dove trascorse una settimana. Allora i giornali nazionali pubblicarono servizi densi di particolari sulla presunta collusione di Franzoso con la mafia tarantina, quelli regionali dedicarono le prime pagine. Non è al rispetto della legge sulla stampa che sentiamo di volerci appellare oggi, pur essendoci tutti i margini per farlo, ma alla deontologia, alla onestà intellettuale, alla coscienza di quegli stessi direttori e capiredattori che a dicembre 2004 decisero di dedicare le prime pagine regionali e le pagine nazionali all’arresto di un assessore in carica e oggi non danno neanche la notizia della sua assoluzione o la relegano nelle edizioni locali. Non è un Paese giusto quello in cui un arresto viene sbattuto in prima pagina e un’assoluzione relegata in 15ma o addirittura ignorata; non è un Paese “normale" quello in cui l’onorabilità di un assessore, di un politico, di un uomo, viene cancellata nel momento in cui lo si ritiene colpevole e non gli viene riconsegnata quando, dopo tre anni, un Tribunale lo giudica innocente. Non è un Paese né normale né giusto quello in cui bisogna appellarsi al rispetto delle leggi, affinché ad una assoluzione sia dato lo stesso clamore che ad un arresto. Non siamo animati da spirito polemico, né tantomeno da vittimismo. Invochiamo solo giustizia e normalità.

OMICIDI DI STATO E DI STAMPA. Delitto di via Poma. La mano armata della Giustizia senza un limite. Ovunque, nel mondo civile, questo sarebbe archiviato come un insuccesso delle autorità inquirenti, da noi, invece, lo si riesuma, periodicamente, per esaltare la tenacia di chi conduce le indagini. Ogni volta che il delitto di via Poma torna agli onori della cronaca, automaticamente, torna, in video e in pagina, la foto di Pietrino Vanacore. La sua pietra al collo ce la sentiamo un po' tutti, e dovrebbe sentirsela la giustizia italiana che sa essere feroce nel punire, pur non essendo capace di giudicare. Vanacore, il portiere dello stabile, che trovò il cadavere di Simonetta, fu arrestato tre giorni dopo, il 10 agosto 1990. Le cronache si riempirono di quest'omicidio, scandagliando e scardinando la vita di quel disgraziato. Gli andò anche bene, perché fu scarcerato il 30 agosto e, meno di un anno dopo, il 26 aprile del 1991, fu accolta la richiesta d'archiviazione, presentata dalla procura stessa. Ci volle più tempo, fino al gennaio del 1995, perché la Cassazione ponesse la parola "fine" alla faccenda, rendendo definitiva l'archiviazione. Era finita, e lui si ritirò a vivere nella Puglia, a Torricella, da cui era venuto. E dove s'è ammazzato il 9 marzo 2010. Perché? Perché nonostante la Cassazione, in Italia la giustizia non sa usare la parola "fine", sicché una nuova indagine è stata archiviata. Nel maggio del 2009, e l'anno precedente, il 20 ottobre 2008, Vanacore aveva subito l'ennesima perquisizione domiciliare. Era atteso in tribunale, il 12 marzo 2010, per testimoniare. Non era neanche tenuto a rispondere, perché la giustizia lo considera ancora "indagato in procedimento connesso". Ma, statene certi Vanacore avrebbe visto ancora il suo volto, esposto alla nazione, associato all'omicidio. Ha deciso di risparmiarselo, o, più probabilmente, non ha saputo reggerlo. La domanda è: che senso ha? Quale legge ha stabilito la possibilità di condannare all'ergastolo mediatico dei cittadini riconosciuti innocenti, ma di cui l'ultimo pennivendolo può disporre, usando le immonde formule di "già indagato", "fu imputato", "a lungo sospettato", "protagonista di una storia oscura", e così via macellando? Un cittadino può accettare d'essere ingiustamente sospettato e accusato, salvo riuscire a dimostrare, in tempi brevi, la propria innocenza. Subisce un danno, comunque, talora gravissimo, ma ciascuno di noi sa che può accadere. Quel che non dovrebbe accadere è che per il resto della vita si sia un oggetto nelle mani di chi non sa che pesci prendere, non sa che storie raccontare, e, quindi, ricorre al tuo nome e alla tua faccia quando gli fa comodo. E, si badi, questo vale per la giustizia, che è incivilmente e inconcludentemente interminabile, ma vale anche per ciascuno di noi. Anzi, a un certo punto dovremo ammettere che abbiamo la peggiore giustizia del mondo civile anche perché abbiamo la peggiore politica e la peggiore cultura giuridica e il peggiore sistema informativo. Mancano, o sono flebili, le voci capaci di dire basta. Guardatevi attorno: la politica si rinfaccia questioni giudiziarie, anche se chiuse, anche se campate per aria. Le tifoserie politiche non fanno che parlare d'accuse penali, pensando che possano surrogare il giudizio morale e politico. La giustizia stessa campa d'accuse e ci lascia a digiuno di sentenze. Il tutto imbarbarisce il nostro vivere civile e seppellisce la presunzione d'innocenza. Vanacore s'è spinto oltre: ha preteso d'avere l'ultima parola. Non gli sarà riconosciuta neanche quella.

Il figlio accusa: «Mio padre condannato senza processo». È anche lui portiere, come il papà che dal vecchio mestiere non ha avuto che dispiaceri. Lavora a Torino, custode di uno stabile dell’elegante quartiere della Crocetta. «Mio padre è stato condannato senza un processo - accusa Mario Vanacore - lo hanno distrutto, lo hanno fatto a pezzi. Sono passati vent’anni, eppure tutte le volte che si è parlato della mia famiglia è stato solo per massacrarci». Anche lui, del resto, era stato sfiorato dall’inchiesta, per colpa di una visita di cortesia fatta al papà il 2 agosto del ’90, prima di partire per le vacanze con la moglie Donatella e la figlia di pochi mesi. Tanto bastò per ricevere un avviso di garanzia, assieme alla mamma Giuseppa De Luca, affinché i magistrati potessero comparare il suo sangue con quello di una traccia ematica trovata sulla porta dell’ufficio di Simonetta. «Hanno reso la vita di mio padre un inferno - continua Mario Vanacore - aveva tanti progetti, voleva comprare una casa, ma ha dovuto utilizzare tutti i risparmi che aveva per pagarsi gli avvocati. Lo hanno massacrato ingiustamente perché lui era innocente». Padre e figlio avrebbero dovuto testimoniare in aula al processo per la morte della Cesaroni. Accanto a Pietrino ci sarebbe stato il legale di sempre, Antonio De Vita. «Si sentiva braccato - racconta il penalista - vittima di una continua caccia all’uomo. Non aveva più una sua vita da tanto, troppo tempo. Si sentiva come un detenuto al 41 bis. Lui era un uomo libero, eppure non più libero. Non era la nuova chiamata dei giudici ad intimorirlo, piuttosto il fatto di doversi nuovamente sentire braccato, accerchiato dai media. Vanacore era psicologicamente stressato e si riteneva perseguitato, un uomo senza scampo, anche se su di lui non c’erano più sospetti». «Ci hanno tolto il piacere di vivere, ma noi abbiamo solo una colpa: quella di essere poveri». Pietro Vanacore scriveva così a Maurizio Costanzo in una lettera piena di dolore e di rabbia per la vicenda giudiziaria legata all’omicidio di Simonetta Cesaroni, che lo aveva segnato nel profondo. La brutta copia della missiva inviata al noto conduttore televisivo è saltata fuori dalle carte che i carabinieri hanno sequestrato a casa di Vanacore. Dopo aver trovato in mare il corpo senza vita dell’ex portiere di via Poma, infatti, i militari della compagnia di Manduria avevano perquisito la sua abitazione a Monacizzo ed avevano ritrovato un contenitore pieno di documenti. Tra le carte c’era anche la minuta della lettera inviata a Costanzo. Vanacore conosceva di persona il giornalista perché questi aveva acquistato l’appartamento in cui ad agosto del 1990 fu uccisa Simonetta Cesaroni. Per qualche anno, dopo il delitto, Pietrino Vanacore aveva continuato a fare il portiere dello stabile in cui si era trasferito Costanzo. Poi, dopo l’assoluzione dall’accusa di omicidio, nel 1995, Vanacore era tornato in provincia di Taranto, al suo paese Monacizzo, frazione di Torricella, insieme con la moglie Pina De Luca. Proprio qui, il 9 marzo 2010, è stato ritrovato senza vita, annegato, nel piccolo specchio d’acqua della baia in cui si affaccia la torre saracena di Torre Ovo. Il corpo di Vanacore era «ancorato» alla terraferma da una lunga corda che lo cingeva alla caviglia. L’altro capo della cima era legato ad un pino marittimo posto sul ciglio della litoranea. L’ex portiere di via Poma, come aveva stabilito qualche giorno dopo l’autopsia, è affogato in un metro d’acqua. Il suo suicidio, però, resta avvolto da una pesante coltre di mistero. Vanacore, prima di morire, aveva lasciato anche alcuni biglietti che oggi sembrano ricalcare il tono della lettera indirizzata a Costanzo. «È ignobile e disumano - scriveva ancora nel 2008 l’ex portiere di via Poma -, addossarci una colpa così grande. Se io, o la mia famiglia avessimo saputo qualcosa lo avremmo detto subito e senza riguardo per nessuno ». Vanacore scrisse quella lettera dopo l'ottobre del 2008, quando i giudici della procura di Roma decisero di riaprire il caso dell’omicidio di Simonetta Cesaroni, chiamando alla sbarra l’ex fidanzato della giovane Raniero Busco. A casa Vanacore, a Monacizzo, arrivarono i carabinieri per una perquisizione. L’uomo dovette credere di essere ripiombato nell’incubo. La stessa sensazione che deve aver provato a fine febbraio quando a casa ricevette l’atto di citazione. Doveva presentarsi il 12 marzo 2010 al processo, a Roma, come testimone. Forse non ha retto. Forse davvero quei venti anni di sospetti, come ha scritto prima di morire, lo avevano già ucciso. All’udienza del 12 marzo, il pm Ilaria Calò nel suo intervento ha fatto riferimento proprio alla posizione di Vanacore: «L'importanza delle chiavi (dell'appartamento di via Poma) è enfatizzata dalla tragedia che ha colpito la famiglia Vanacore in questi giorni. La circostanza che le chiavi siano state sequestrate nella portineria e che non siano state trovate tracce di dna di Vanacore sugli abiti di Simonetta Cesaroni e sulla porta di ingresso dimostra che il portiere ha scoperto il corpo prima della sorella di Simonetta e che invece di chiamare la polizia, pensando che vi fosse stato un incontro clandestino tra Simonetta e il presidente degli ostelli della gioventù Francesco Caracciolo o il direttore Corrado Carboni o il capo della ragazza il commercialista Salvatore Volponi, ha telefonato ai tre dimenticando l'agendina rossa Lavazza sul tavolino dell'ufficio, restituita dall'ispettore Brezzi a Claudio Cesaroni un mese dopo circa». Secondo la ricostruzione del pm, Vanacore sarebbe entrato nell'appartamento dove «trovò la porta socchiusa», entrò, vide il corpo e fece le tre telefonate in questione e poi richiuse la porta «usando le chiavi di riserva appese a un gancio dietro la porta». Questa situazione, secondo il magistrato, «ha innescato dei comportamenti anomali nella portiera, che hanno depistato le indagini per oltre venti anni. Questo spiega la riluttanza della donna a dare la chiavi alla polizia, l'agitazione di Volponi che era stato informato prima, le menzogne di Caracciolo e di altre persone che saranno sentite in aula. Le chiavi sono uno snodo fondamentale». «In base a quale elemento il pm può dire che la porta era socchiusa? Da dove esce fuori? Penso che la questione delle chiavi sia stata chiarita all'epoca del proscioglimento di Vanacore. Non conosco questa nuova impostazione accusatoria. Loro avevano un mazzo di chiavi per fare le pulizie, non avevano bisogno di servirsi di un mazzo di scorta». Così il difensore della famiglia Vanacore, Antonio De Vita. «A me, come difensore della famiglia Vanacore, non è stato comunicato nulla - prosegue - Sento per la prima volta questa ricostruzione. Come si fa a dire che la porta era aperta? Se devono essere fatte nuove contestazioni, il dibattimento non è la sede opportuna. I Vanacore dopo quanto accaduto nei giorno scorsi non stanno bene e ho fatto presente alla corte il motivo della loro assenza». Ai funerali di Pietrino Vanacore, intorno alla sua bara, assorta nel silenzio con la rabbia ed il dolore, c’era la gente che gli voleva bene. Una donna ha avuto il coraggio di dare voce alla sua comunità: «applaudite, hanno ottenuto quello che volevano!!!» La frase era rivolta a coloro, che, per deformazione professionale e culturale, non hanno una coscienza. Intanto, intorno alle sue spoglie gli sciacalli hanno continuato ad alimentare sospetti. La sua morte non è bastata a zittire una malagiustizia che non è riuscita a trovare un colpevole, ma lo ha scelto come vittima sacrificale. A zittire una informazione corrotta che lo indicava come l’orco, pur senza condanna. Non poteva dirsi vittima di un errore giudiziario, come altri 5 milioni di italiani in 50 anni. Per venti anni è stato perseguitato da innocente acclamato. Voleva l’ultima parola per dire basta. Non l’hanno nemmeno lasciata. Pure da morto hanno continuano ad infangare il suo onore. Accuse che nessuna norma giuridica e morale può sostenere. Accanimento che nessuna società civile può accettare. La sua morte è un omicidio di Stato e di Stampa. Non si può, per venti anni, non essere capaci di trovare un colpevole e continuare a perseguitare un innocente acclamato. Non si può, per venti anni, continuare ad alimentare sospetti, giusto per sbattere un mostro in prima pagina. Ferdinando Imposimato, il “giudice coraggio” delle grandi inchieste contro il terrorismo e la delinquenza organizzata, ha provato sulla propria pelle l’amarissima esperienza di star sul banco degli imputati. Egli conclude, come un ritornello inquietante: “E’ più difficile talvolta difendersi da innocenti che da colpevoli”. Parola di magistrato.